Titolo: I giorni dell’esilio
Sottotitolo: Volume III
Postfazione di Raoul Vaneigem
Fa parte di: I giorni dell’esilio
Note: Biblioteca di “Anarchismo” — 19
Titolo dell’opera originale: Œuvres, Jours d’exil, 3 volumi, P. V. Stock Editeur, Paris 1910-1911
Traduzione italiana di Alfredo M. Bonanno
Prima edizione del solo primo volume: Catania 1981
Edizione dell’intera opera in tre volumi: Trieste 2013
SKU: biblioteca-000019
i-g-i-giorni-dell-esilio-x-cover.jpg

    Italia. Marina. Sul suicidio

      I

      II

      III

      IV

      V

      VI

      VII

      VIII

      IX

      X

      XI

      XII

      XIII

      XIV

      XV

      XVI

      XVII

      XVIII

      XIX

      XX

      XXI

      XXII

      XXIII

      XXIV

      XXV

      XXVI

      XXVII

      XXVIII

      XXIX

      XXX

      XXXI

      XXXII

    Ecce Homo!!

      I

      II

      III

      IV

      V

      VI

    Marie Capelle

      I

      II

      III

      IV

      V

      VI

      VII

      VIII

      IX

    La basilica di Superga. Tomba dei reali di Savoia

      I

      II

      III

      IV

      V

      VI

      VII

      VIII

      IX

    Federico Robotti

      I

      II

      III

      IV

      V

      VI

    Victor Hennequin. Il cielo sulla terra

      I

      II

      III

      IV

      V

      VI

      VII

    Culto dei morti

      I

      II

      III

      IV

      V

      VI

      VII

      VIII

      IX

      X

    Il proletariato a Torino. L’inferno sulla terra

      I

      II

      III

      IV

      V

      VI

      VII

      VIII

      IX

      X

      XI

      XII

      XIII

    Il lago d’Annecy

      I

      II

      III

      VI

      V

      VI

      VII

    Una pagina del mio dossier tratta dagli archivi della polizia

    La caccia dell’Imperatore

    Epilogo

      I

      II

      III

      IV

      V

    Postfazione di Raoul Vaneigem. Terrorismo o rivoluzione

      La linea di demarcazione

      Gli ultimi giorni della cultura

      Stato nichilista e nichilismo antistatale

      Il “partito” del superamento e il gioco sovversivo

Italia. Marina. Sul suicidio

Torino, gennaio 1855

’T is ours to bear, not judge the dead; and they

Who doom to hell, themselves are on the way,

Unless these bullies of eternal pains

Are pardon’d their had hearts for their worse brains.

Byron

I

La mia anima gradisce le storie cupe. Sotto il cielo italiano pieno di stelle m’imbatto subito in una suicida, una povera donna spezzata dall’amore. – L’amore uccide!

Marina Ferro: sopraccigli neri, occhi selvaggi, carnagione di pesca matura, testa volitiva nel collo nervoso. Figlia della bella città di Torino, figlia d’Ausonia che seppe amare fino alla morte. – L’amore uccide!

Povere donne, non accendetevi di passione per i valletti! – L’amore uccide!

Ascoltate piuttosto la storia di Marina:


Era bella e fresca come il giglio delle valli che aspetta per schiudersi il bacio del sole. Era più gaia dell’allodola sul far del giorno. Aveva diciassette anni questa diligente operaia e il suo lavoro gli bastava per vivere. La domenica, insieme alle compagne, se ne andava per le boscose colline che circondano l’Eridano [antico nome del Po, n.d.t.].

– Eridano! nome famoso che mi ricorda la storia dei miei simili, storia di guerre, di tradimenti, di disgrazie! Nelle tue onde verdi vedo sangue, sulla sabbia delle tue rive ritrovo i passi di famosi saccheggiatori: Annibale e Cesare, Attila, Borbone, Emanuele Filiberto, i due Eugeni e Napoleone. Sento le vicine Alpi tremare sotto i piedi degli eserciti invasori; fuochi infernali divampano indomabili mentre ritornano i giorni del lutto. Scartiamo queste immagini. –

Gioiosa, spensierata, ingenua nella sua superstizione come tutte le ragazze, Marina chiedeva alla margherita delle montagne i segreti del suo avvenire. Sarò felice, diceva? E la bianca profetessa del povero rispondeva invariabilmente: di certo no!

E per la collera la ragazza spezzava tra le mani brune il povero fiore, gettandolo nelle acque del fiume che ben presto lo sommergeva. – Funesta virtù della franchezza! Ancora più funesto il dono della Profezia!

II

In una tiepida serata di giugno Marina ritornava lungo la strada che porta da Torino a Chieri. Si era stancata dei giochi, delle danze e dei canti della giornata. Era la festa di San Giovanni.

Stai attenta ragazza! non ti allontanare dalle tue compagne. La Gioia scivola sul mattino della nostra vita come la sorridente aurora sulla cima dei monti. Poi dopo viene il Lavoro e la Pena che ci maturano e ci consumano: i fuochi ardenti del giorno bruciano senza pietà l’erba dei campi! – Il dolore uccide!

… Per chi questi canti d’allegria? Per chi il suono delle campane chiacchierone, i fiori scarlatti nei capelli delle vergini, gli abiti di festa, gli occhi di trionfo, i grandi fuochi di agrifoglio, le spoglie della natura sulla strada sabbiosa?

Sarebbero per la povera giovine dai piccoli piedi? No, sono per la regina di Sardegna, di Cipro e Gerusalemme. Già i suoi bianchi corsieri nitriscono nelle gole profonde.

Stai attenta ragazza! non ti allontanare dalle tue compagne. Allineati sulla strada dei re. Perché gli stessi uomini che si prosternano sotto le ruote delle loro carrozze non ti rialzerebbero, te povera, se scivolassi su un petalo di rosa. – La Povertà, ecco il Delitto!


Simile all’angelo tentatore, il Sole si corica nelle nuvole cupe, stimolando i mortali ai dolci misteri della notte. Dal fondo degli abissi si levano i venti della sera, sperdendo nell’infinito le foglie nuove. Un velo di vapore si stende sulle acque tranquille come un drappo mortuario sulle forme trasparenti dei fanciulli. Il lungo mormorio degli esseri somiglia allo sbadiglio della Morte che si sveglia!

Stai attenta ragazza! non ti allontanare dalle tue compagne. Vedi questa goccia di sangue nel limpido fiume? È l’ultimo sguardo del sole ormai stanco, l’occhio rosso dell’uccello da preda che domanda il suo festino; è la bocca alterata dell’abisso che si spalanca per inghiottire. – Perché sempre la Terra divora gli ultimi nati dalle sue viscere: i fiori appena schiusi, e le ragazze e i fanciulli!

Una luce misteriosa si stende sui cieli. La regina della notte appare ai confini del suo impero, le corolle dei fiori si chiudono alla rugiada. Il Silenzio discende dal suo trono d’ebano.

Stai attenta ragazza! Vi sono più giovani di notte che durante il giorno. E la pallida Dea delle sere è la sola a sostenere le donne nella sofferenza della maternità. Stai attenta che il tuo cuore non incappi in un amore grossolano! Non vedi che i rami degli alberi stendono le loro ombre sui tuoi passi per salvarti da incontri pericolosi?


Sulla strada passano ragazzi biondi e bruni. Raccontano le loro conquiste come galletti gloriosi. Uno di essi porta una catena d’oro al collo, diamanti alle dita, la sua parola è più distinta di quella degli altri: è un valletto del re!

Stai attenta ragazza! Non ti allontanare dalle tue compagne.

III

Da quella sera funesta sono passate due settimane…

Perché piange la giovane? Perché non esce più dalla sua camera solitaria? Perché lascia i capelli in disordine e il lavoro incompiuto?…

Amore, Amore! cominci e finisci con rimorsi cocenti. Ed anneghi nei tuoi torrenti d’amarezza la sola goccia inebriante che tu versi, burlone, nel nostro cuore mortale!

Ti amo! Aveva detto soltanto due parole il giovane dalla voce sonora. E adesso queste parole vibrano in tutto l’essere di Marina come la Parola creatrice nella profonda Eternità. La luce si era fatta nella sua anima, luce infinita, divorante!

Ti amo! Lei non sentiva altro al mondo che questo inno dei beati e lo avrebbe ripetuto per tutta la vita, nelle preghiere della sera e in quelle del mattino. – Così sognano le vergini. Sventura su chi le inganna!

Imprudenti che scatenate l’incendio nelle loro immaginazioni pensose, avete visto mai le verdi foreste torcersi fra le fiamme e morire lanciando verso il cielo un grido lacerante? Non promettete la vita delle vostre labbra rosse se avete il cuore nero e non potete dare altro che la morte!


Tuttavia, lei sarebbe stata sua se lui l’avesse voluta, la nobile fanciulla per il valletto del re. Durante la notte lei lo chiamava facendosi piccola per lasciargli spazio nel suo letto. Mille volte lei baciò il cuscino ricamato con le sue mani che lei destinava al riposo della cara testa dell’amato. – Così fanno le vergini, e sventura su chi le inganna.

Ora, accadde una sera che il valletto del re volle la povera fanciulla, e che la povera fanciulla fu sua.

Lettrici puritane, non aspettatevi che racconti come una fanciulla di diciassette anni svenne tra le braccia dell’innamorato. Se bisognasse una descrizione del dolce peccato originale, lascerei cadere questa penna dalle mie mani indegne, voi la raccogliereste, e io imparerei a memoria il vostro divino racconto.

Lasciatemi dire soltanto che Marina la bruna non soccombette come Danae la bionda sotto una pioggia d’oro. Lei non fu sedotta, no! Ma si dette con tutta l’ingenuità del suo cuore.

IV

Nove mesi dopo… Quanti misteri si spiegano durante questi nove mesi! Quale lavoro fa l’uomo quando ubbidisce alla sua attrazione!… Nove mesi dopo una fresca esistenza splendeva sugli abissi del Niente, come una stella nel seno della notte. La Vergine era diventata madre; dai baci della generazione, divina essenza, aveva tratto una generazione nuova.

– Infinita, onnipossente, creatrice, eterna è la tenerezza della donna! A voi amore e culto, Venere antica, Madonna di Raffaello, Beatrice, Laura, Elena e Cleopatra, Mirra di Byron, Maddalena afflitta, figlie di Eva conservanti e rinnovellanti l’esistenza a rischio della vostra… La donna che sa amare fa quaggiù tutto il suo lavoro. –


Sono belli i tuoi figli, Amore dalle grandi ali, santo amore indomito! Ed era bella la bambina bionda che Marina cullava nella sua mansarda, vicino agli angeli e agli uccelli. Presi dal suo sorriso gli angeli cantavano: “Madre! lasciala volare verso le nostre sfere splendenti, vi sarà più felice che sulla terra dove strisciano i serpenti…”.

Gelosi della sua bellezza gli uccelli cantavano: “Madre! lascia che si slanci con noi nell’aria senza limiti, gli faremo un dolce nido di verde sulla riva dei ruscelli in fiore. Vicino a te l’aspetta la Miseria…”.

Spesso anche i vegliardi la prendevano sui loro ginocchi tremanti e la baciavano in fronte: “Madre, dicevano, dacci la bambina dagli occhi blu, ci ricorderà le nostre gioie e i nostri amori perduti per sempre. La renderemo buona e saggia, perché gli anni danno l’esperienza, perché abbiamo avuto la pazienza di vivere e possa tu non sapere mai quanto coraggio ci vuole per far ciò!…”.

E Marina alzava verso il cielo la bambina sorridente e per qualche istante la lasciava in braccio ai vegliardi. Poi gelosa la riprendeva sul seno, temendo che venisse sedotta dalle armonie dei mondi superiori e ricondotta nell’Eternità da cui era appena uscita.

Oh, perché non la lasciava portare via dagli angeli, dagli uccelli e dai vegliardi tanto amati dai bambini! Oppure perché l’aveva deposta in questa valle delle nostre lacrime in cui la povera bambina poteva soltanto passare le ore che sarebbero state necessarie a riempire il suo sarcofago?!


– Purtroppo! la nostra esistenza è una coppa intagliata nel cristallo e ripiena fino all’orlo di un liquore vermiglio; scintilla davanti alla nostra gioventù come un miraggio all’orizzonte del deserto. Assetati di salute, di felicità e d’amore, anelanti, simili ai corsieri da battaglia, la beviamo d’un colpo. Tanto meglio!…

Sventura a chi si arresta a gustare l’amaro beveraggio! Sventura sul malato che saprà leggere nella coscienza del medico! Sventura su chi non vedrà nel mondo che solitudine e veleno! La speranza è ignorante e ingenua, ma le sue ali sono rapide e la sua anima forte. La Disperazione è chiaroveggente invece, ma ha gli arti paralizzati e il respiro di ghiaccio. Dai suoi morsi non si guarisce.

Uomini! non sondate troppo l’avvenire, non lo scuotete sulle sue basi; vi schiaccerà come vermi! Felici coloro che non hanno la vista troppo corta, ma più felici ancora quelli che non l’hanno troppo lunga! I profeti sono tutti condannati a morte. L’Umanità conta i suoi passi e li fa uno dopo l’altro. –


Due amori troppo infiniti riempivano il cuore di Marina perché potesse pensare al giorno prima o all’indomani.

Sua figlia, questa fragile creatura, era la sua gioia, lo scopo del suo lavoro, il pegno del suo amore, il sigillo della sua vita, l’arcobaleno che l’univa all’innamorato, come la terra al firmamento.

La lavava con acqua profumata, facendole apprendere il nome di suo padre, intrecciandole i capelli con nastri di mille colori e coprendoli di fiori. – Perché sulla testa della bambina, come su un altare, il valletto del re s’era impegnato con un solenne giuramento fatto a Marina la bruna.

V

Un vento furioso si alza spingendo davanti a sé le nuvole a brandelli. Lo si direbbe l’urlo del Rimorso che si accanisce sui grandi colpevoli. Le cataratte del cielo si aprono, la pioggia cade spessa e rapida. Le strade sono deserte in un momento. Sotto la grondaia del gran tetto, vicino alla finestra di Marina, ha trovato riparo la rondine che chiama i suoi piccoli sotto le ali tremanti e lancia gridi di spavento.

– E Marina che la sente si alza dal suo lavoro: “Cos’hai povera madre venuta da tanto lontano? Il rondone dagli artigli crudeli ha forse rapito il frutto dei tuoi amori? Oppure il passerotto fannullone si è installato nel tuo bel nido così penosamente costruito? O hai freddo, o fame, o paura? Forse gli uomini ti hanno ferita?

“Piccola cara! vieni vicino a me che ti difenderò, asciugherò il sangue delle tue piaghe. I poveri non si tradiscono, e la mia mansarda, il mio ultimo pezzo di pane, il mio pezzo migliore di tela bianca sono tuoi come sono miei. Non condividi forse tutte le emozioni della mia vita? Quando sono triste, ti vedo a lutto e piangiamo insieme. Quando sono in festa, scuoti le piume al sole, e cantiamo. E gli angeli che passano vicini portano sulle ali i sospiri dei nostri cuori”.


– E la rondine che la comprende, risponde:

“Non vedi il fulmine? Non senti i ruggiti dell’uragano? Non tremi anche tu, sorella mia? Quando Dio tempesta nei cieli, quando i grandi della terra sono spaventati, sventura ai poveri! Sventura su di noi, sorella mia, e sventura sui nostri amati figli!

“Senti lo spaventoso sommovimento? L’Angelo distruttore sradica la terra dalle sue radici, ondate di fuoco sgorgano dalla larga ferita, precipitiamo insieme al globo in un caos senza fine. Fin dove arriva la mia vista la natura è nera e vuota come una tomba scoperchiata. Amatissima sorella, ho freddo, i miei piccoli tremano, sono stata abbandonata dal loro padre!”.


– “E perché Dio, perché i potenti ce l’hanno con noi? riprende Marina. Hanno ben altre cose da fare che occuparsi di noi. Per altro non gli diamo fastidio, prendiamo tanto poco spazio nel mondo e vi facciamo tanto poco rumore. Di che cosa abbiamo bisogno per vivere? I raggi del sole, l’aria libera, l’acqua del cielo, i bagni del fiume per ambedue; per te gli insetti neri che sono superflui sulla terra, per me le briciole del pane bianco che i ricchi lasciano cadere dalle loro tavole?

“Non tremare quindi, sorella mia, e non temere nulla da Dio che nemmeno i più sapienti fra gli uomini conoscono. Vieni da me, ti riscalderò con i tuoi piccoli e ragioneremo insieme mentre al di fuori gronderà l’uragano”.

– Grazie della tua offerta ospitale, ma non saprei approfittarne. Marina, tu sei buona, ma i tuoi simili sono crudeli. Ogni giorno benedico mia madre che mi ha insegnato a passare attraverso le loro case. E i miei piccoli mi benediranno quando, le loro piume divenute forti, li condurrò con me nell’aria senza limiti.

“Perché io sono l’Uccello delle promesse, la cui fecondità popola tutti i climi. Sono l’Ospite benedetto che riporta i bei giorni. Sono la Viaggiatrice dall’ala intrepida, la Profetessa che canta sulle rovine degli imperi. Sono la Voce dell’eterna Rivoluzione. Sono la figlia selvaggia della santa Libertà e muoio nella schiavitù. Abito i palazzi e le capanne, conosco civilizzati e barbari, bianchi e neri, foreste e navi, sud e nord, cieli e mari, inferno e paradiso. Vedo di più io in un giorno con i miei occhi penetranti che gli scienziati in tutta la loro esistenza, con i loro strumenti di rame... Troppo presto purtroppo ti ricorderai, sorella mia, di questa predizione!”.

VI

E non più tardi di quella sera stessa si verificò per la povera ragazza la predizione della rondine.


I venti hanno fatto silenzio. Con i suoi raggi sanguigni il sole divora, come un amante geloso, le acque diffuse sulla terra. È il declino del giorno. L’uccello nero va a cercare il nutrimento per i piccoli e ad ogni volo ritorna vicino alla mansarda. Prima di addormentarsi vi getta uno sguardo.

La piccola è coricata. Marina mette da parte il suo lavoro, accende la lampada a cui confida i trasporti e le tenerezze e depone una corona di rose intorno al ritratto dell’amato. Poi tira le tende discrete, è l’ora dell’appuntamento!

L’uccello profeta piega sotto l’ala la testa stanca e si addormenta d’un cattivo sonno. Le umide rose versano lacrime. Spaventata la bambina si sveglia, vede sangue sulla sua culla…

Immersa nelle gioie dell’attesa, Marina rassicura la figlia e asciuga le lacrime delle rose cadute sulle sue mani; la sua anima si rifiuta alle sinistre apprensioni. Tuttavia la Notte indulgente agli amori è calata da tempo e l’innamorato non viene!

Perché tarda in questo modo? Cosa può averlo trattenuto? Forse un pericolo? Avrebbe in questo mondo un affetto più caro della sua Marina? Lei, donna timida, andrebbe a cercarlo ai limiti del cielo, attraverso mille morti. E lui non compare ancora!


… Risuonano passi nella scala sonora… Viene, viene. Lei ascolta... No, i passi si fermano al pieno inferiore... – Sente una voce d’uomo… È lui per forza questa volta... Lei si china ancora… La voce si allontana… Delusione! – Pazienza! Almeno l’adorerà in ciò che gli somiglia, contemplerà la sua immagine e sua figlia!

Lei prende e lascia cento volte il suo lavoro… Le ore passano… Niente, nient’altro che il minaccioso silenzio! La campana del convento suona dodici colpi che colpiscono come dodici secoli il cuore della povera ragazza. Chi spinge il tuo corso, grida, oh Tempo inesorabile? – Vecchia storia, emozione sempre nuova di un incontro!

… Bussano alla porta… Nessun dubbio, è là! Come mai non l’ha sentito? Come si promette di sgridarlo forte e di perdonarlo presto! Come riguadagnerà il tempo perduto nelle inutili angosce! Come gli farà promettere di non spaventarla più così! Da questo momento lo tratterrà presso di lei, felice prigioniero!

Apre… Maledizione! È la donna brutta e gelosa, la sua vicina, che non le parla d’altro che di disgrazie. E in un secondo passano nello spirito di Marina, come tanti lampi, l’uragano della giornata, la predizione dell’uccello nero, le lacrime delle rose e gli strilli della bambina.

VII

Marina non ha più amante, sua figlia non ha più padre; il valletto del re si è fidanzato con una più ricca. Queste furono le notizie che la donna brutta e gelosa portò nella mansarda. – Messaggero zoppo, cattivo messaggero.

Consultata la propria coscienza, guardata sua figlia, la ragazza bruna ha preso la sua decisione! Dalla gioia la Morte ha digrignato i denti. – L’Amore uccide!

La povera donna tradita non ha più amici della rondine. Lo spettacolo della sventura allontana gli uomini interessati. Fortunato chi non ha subito questa prova!

VIII

Avete visto l’ultima toletta dei condannati? Essi non sono più tristi di quanto non lo fosse la bella operaia, indossando il vestito di festa per andare a trovare il suo amante.

Di questi tempi, tempi di miseria e di vanità, i lacchè sono più arroganti dei padroni. Il valletto del re non riceveva.

… La mansarda più stretta è ancora troppo larga quando vi si porta come compagna la Disperazione! La Disperazione, cupa consigliera, ormai solo punto di riferimento per Marina.

Oh! maledetti i più felici ricordi quando cadono, brillanti come raggi del sole su un cuore desolato!

La rondine canta ancora, povera sibilla, come la prima volta! Le sue piume sono arruffate. Lo sparviero, tiranno dei cieli, porta via negli artigli l’ultimo dei suoi piccoli. Una goccia di sangue si spezza sul selciato della corte. Sventura! Il sangue chiama sangue…

IX

“Oh Morte! Ultimo asilo degli esseri afflitti, ti imploro in ginocchio! Mai vergine nel suo bianco corsetto sembrò più bella al suo fidanzato. Morte, scheletro della Speranza, aspettami due secondi; una preghiera a Dio e sarò fra le tue braccia”. – Così cantava Marina.

– Valeva bene la pena di essere raccolta, la santa donna dall’occhio nero. E la Morte che passava arrestò il suo carro. –

“Mi sei testimonio, Signore! riprese, che avrei voluto amare la vita per questa bambina, per suo padre e per me! Mi sei testimonio che avrei voluto farli felici ed essere felice! Mi sei testimonio che l’ultimo battito di questo cuore e la sua benedizione suprema sono per colui che gioirà della mia morte!

“Gioia, Bontà, Benevolenza, dolci effluvi d’Amore, Stella della Speranza, rotolate come foglie morte nell’abisso dei tempi, per non più tornare”. E strappando il suo velo: “Così passa la tua gloria, oh mondo, e ciò che è più importante la tua felicità!

“E tu, vieni figlia mia nel cuore di tua madre. I cieli dorati si aprono davanti a noi! Sento il canto degli angeli che ci aspettano gioiosi! Felicità in alto, eterna Giustizia, getta uno sguardo su di noi che moriamo per te!”.

Così disse la fanciulla dalla lunga capigliatura. Poi guardò la finestra aperta, serrò la fragile creatura sul suo seno palpitante. E balzando sulla pietra, gli occhi torvi, i capelli frementi di orrore, si lanciò invitta nelle età future! – Felici, Felici i morti!

… Nello stesso istante si vide un raggio di sole fendere le nubi; la giovane Fenice batté il firmamento con la sua ala che mai brucia, e i cieli risuonarono come le arpe di Eolo toccate dal soffio dell’ispirazione!

Si vide anche il nero uccello struggersi sul selciato della corte nel sangue dei morti che aveva tanto amato!…

Così muoiono le vergini. Sventura a chi le inganna!

X

Così va il nostro mondo. – L’amore uccide, il dolore mantiene la vita; la morte degli uni fa sposare gli altri.

Il giorno in cui Marina soccombe, tradita nel suo amore, il valletto del re presenta alla benedizione dei preti la sua nuova fidanzata.

In quest’ora suprema due giovani ragazze si promettono: una alla Morte, l’altra allo Sposo.

Oh! l’amante legittima piange la sorte della sua rivale, ma non sente ancora le spine nascoste sotto le rose della sua corona! E il valletto del re sarebbe geloso della Morte se potesse contemplare la bellezza di Marina montante all’infinito.

Tuttavia il triplice sacrificio si compie. L’uomo grossolano immola al proprio interesse una madre e sua figlia, una giovane e il suo avvenire! Il nome che quest’uomo rifiuta alla povera donna per proteggerla contro l’opinione, l’impone alla giovane per asservirla attraverso l’opinione! E nella coscienza di quest’uomo non si alza un rimorso né nel suo cuore un sospiro. – Le vie della Rivoluzione sono inflessibili, e paurosi i colpi con cui colpisce gli uomini!


Andate a raccogliere fiori d’arancio; gettate il velo bianco sui neri capelli della sposa; serrate la vita minuta nella cintura di seta! – La povera madre calpesta gli ultimi fiori che ha portato il suo amante; si agghinda per la morte come per una festa; la sua mano tremante passa un nastro nero intorno al collo.

Conducete, riconducete la danza gioiosa; stendete i fini lenzuoli nel letto degli sposi; recitate loro versi e canzoni! – La povera madre si lancia dalla mansarda; spezza la sua testa su un letto di pietra; il mondo crudele vota la sua memoria ai tormenti dell’Inferno!

Prestate, ricevete giuramenti d’amore; passate nelle vostre rosee dita l’anello delle alleanze; formate progetti di felicità! – La povera madre conosce la santità delle promesse che fanno gli uomini e il titolo dell’oro che essi danno. Nella sua disperazione non sa esprimere altro che questo addio straziante:

XI

“Addio! mia bella città, fiume amato, colline in fiore, e tu fiaccola del giorno che ti degnavi di sorridere alla mia felicità. Addio! – La natura è troppo bella per sopportare la vista delle mie infelicità!

“Addio! mondo che infliggi alle più povere ragazze i tuoi peggiori oltraggi, rendendole vittime della propria fiducia. Mondo impietoso e vigliacco, addio! – Tu mi rifiuti il lavoro e la stima, io rifiuto il pane delle tue elemosine, sono troppo fiera per bere le lacrime del mio onore mescolate col fiele del tuo disprezzo!

“Addio! folli compagne della mia giovinezza, che la mia morte contribuisca a salvarvi! State in guardia contro le belle parole dei giovani! Fate che il vostro primo amore non vi divori la fresca esistenza! Addio!

“Addio a tutti quelli che amo! Perdonatemi la mia morte. Perché questo amore era la mia vita; morto questo amore per me era necessario morire! Sfortunatamente per me la terra si era svuotata. Vedevo crepe dappertutto: sui muri della mansarda, sui frutti degli alberi, sulle limpide onde, sull’azzurro del cielo, sulla coperta bianca del mio letto, sugli occhi di mia figlia! Addio a tutto quello che amo! Perdonatemi!!

“Addio a tutto ciò che respira, tutto ciò che gioisce, tutto ciò che fiorisce, tutto ciò che può amare sulla terra sorridente! Ragazzi dal colorito bruno, fanciulle dai piedi inarcati, bambini amati dai loro padri, addio. – Non voglio invidiare, non voglio maledire. Siate felici, siate benedetti! Per me la morte è una suprema necessità. Se vivessi, domani avrei fame, avrei vergogna, odierei…

“Addio! adorato padre, perdonami se vado a raggiungere la madre, la buona madre che è in cielo. Perdonami se lascio senza appoggio la tua vecchiaia. Ma non posso fare altro… Padre, addio!

“Addio! te che ho amato tanto. Più della Madonna santa, più di colei che mi ha generato, ti amo fino alla morte… Ti perdono! Voglio dimenticare che mi hai rifiutato il tuo braccio contro il mondo e il tuo nome per la figlia dei nostri amori; voglio dimenticare che mi hai fatto offrire un poco del tuo denaro per tutto il mio onore. – Gratuità d’oltraggio di fronte a gratuità d’amore! – Possa la tua coscienza ricordarsi soltanto il mio cuore! Addio, amatissimo!

“L’ultimo addio, il migliore, a te, poveretta rondine dalla gola bianca. Sono lontane le nostre serate di festa, sorella nella sfortuna! – Com’era bella la natura quando le stelle del mattino si levavano sul loro letto d’azzurro, quando la salutavi con i tuoi canti; quando ti svegliava e subito dopo tu svegliavi me! Com’era bella ancora la sera, quando il sole calante guardava per l’ultima volta le nostre verdi colline e tu ritornavi canterina seguendo la sua striscia di fuoco!

… “Voi che prenderete il mio corpo, che verrete a sedervi sull’erba della mia tomba, voi che l’amore uccide, voi che l’amore fa vivere! una lacrima, una veloce preghiera per la povera Marina. Sono lacrime sacre quelle che si versano sulla sventura!

“Oh! non mi accusate. La mia anima s’invola come il fiore dell’anemone sgualcito sotto lo zoccolo del ruminante. L’anemone vive soltanto un’ora, ma blu, puro, simbolo di speranza e d’amore. Non mi accusate!”.

XII

Certo, più toccanti furono gli addii sui quali Marina depose il suo ultimo bacio. Ma ho soltanto la mia penna per riprodurre il linguaggio sublime di un’anima che rompe le sue catene!

Oh penna! sei buona soltanto a sporcare le dita degli eruditi, ti spezzerei sulle loro fronti, miserabile strumento, tanto l’impazienza del mio pensiero soffre a causa della tua lentezza!

Se avessi nelle mie mani commosse l’archetto o il pennello, farei ammirare al mondo la libera e fiera donna che morì per riscattare le sue compagne dalla servitù imposta dagli uomini!


A me dunque, a me tutto il sangue delle mie vene aperte! Che discenda goccia a goccia in questa penna ribelle ai miei sforzi; che la riscaldi, l’ammorbidisca, la pieghi sotto la mia mano come metallo fuso:

Per far sì che ogni battito del mio cuore si ritrovi in ogni parola, in ogni lettera deposta su questa carta.

Perché è ancora una grande rivendicazione quella che oggi intraprendo per una donna che seppe amare, per una morta, contro tutti gli uomini calcolatori, contro la civilizzazione vivente!

Dall’insieme delle tombe, alzatevi, ombre dei poeti, vittime sporcate dalla mano delle società ingiuste, voi che portate sulla fronte l’aureola di spine… alzatevi!

Alzati, Cristo crocifisso da Pilato! Alzati, Montcharmont ghigliottinato!

E possiate rendere la mia voce inflessibile come la Giustizia, ostinata come la vendetta, terribile come la tromba del profeta e del soldato.

XIII

Esiliato su questa terra, percorro i viali deserti di un camposanto [in italiano nel testo, n.d.t.] italiano. Calpesto l’erbetta fresca che copre il tuo bel corpo inanimato, Marina! Oh, lasciami staccare dalla tua immortale corona il fiore della pervinca e il ramo nero del cipresso! Profumi del dolore e dell’amore, copritela con le vostre nubi rosa. E tu, giovane fidanzata della Morte, chiamami con la tua voce più dolce!

Voglio restare qui fino al calar del giorno, aspettando l’ora dell’usignolo e della lucciola. Voglio seguire nei cespugli il volo delle falene e le danze dei fuochi fatui. Spiriti della morte, anime felici, consolatemi! Consolatemi cieli! Chiari di luna, rumori della terra, canti dei fiumi, fremiti dell’erba, consolatemi! I vivi fanno così tanto male…


Voglio pensare alla povera donna suicida, morta senza che una lacrima abbia rinfrescato le sue labbra; morta senza suscitare un rimpianto; non portando quaggiù che il vestito bianco destinato alla gioia delle fidanzate. – L’amore uccide!

XIV

Il prete e il filosofo hanno sfiorato con la punta dei mantelli l’umile pietra della sua tomba e hanno detto: Riprovevole, maledetta la miserabile che soccombe alle tentazioni dell’amore, al delirio del suicidio! E poi i topi calvi hanno ripetuto ogni sera: Crimine! Maledizione! (Io stesso, sì io, in un tempo in cui mi credevo saggio, scrivevo, povero pazzo: “Il suicidio è un gesto vigliacco che l’opinione e la legge condannano allo stesso modo”. [De la Révolution dans l’Homme e dans la Société]. L’opinione! la legge! menzogne, tirannie, camicie di forza, furie che straziano la tua sempre giovane anima, Eternità, madre mia!).

Lei è stata maledetta da voi, maestri miei! Ah! quanto le sarà leggera questa maledizione davanti all’Umanità! Ma condannabile, criminale, Marina!… E perché? Che ne sapete?… L’avete letto, ma dite, ci avete pensato!?

Tuttavia è grave, è veramente peccato, aver condannato la povera giovane che per lunghi giorni e mortali notti si era rigirata gemente nei tormenti dell’angoscia. È vigliaccheria quando si hanno le spalle al caldo, il ventre alla tavola e la mano nella mano della propria cortigiana; è vigliaccheria calpestare la donna che muore di fame, di freddo e di dolore! E che dà col suo sangue, in questa società senza viscere, una sublime lezione di coraggio, d’onore, d’amore e di fedeltà!

XV

Bisognava, direte voi, che vivesse, oggetto di vergogna e persecuzione. Bisognava che trascinasse il suo pentimento ai piedi degli altari, esempio per tutti di terrore salutare e di umiltà! Allora gli Accademici l’avrebbero coronata, la sua memoria sarebbe stata grande e misericordiosa, il Signore l’avrebbe ricevuta nel palazzo delle sue beatitudini! – Ed ecco i bei discorsi in cambio dei quali date la vostra vita, proletari, fratelli miei!

Io invece dico: Che ciascuno sondi la sua piaga! E che coloro che la giudicano troppo profonda si uccidano! La Rassegnazione! bella parola in verità, che risuona bene nelle orecchie dell’asino contemporaneamente al bastone sul suo dorso. Ma parola indegna dell’uomo forte e della donna libera! Rassegnazione, Sofferenza e Martirio; cattive massime in se stesse e spesso messe purtroppo al servizio di cause, di leggi e di opinioni anche peggiori.

Sarebbe questo, secondo voi, il destino dell’uomo quaggiù; consumarsi col dolore e le privazioni, perché nelle dimore dei privilegiati, nei palazzi e nel cielo, gli oziosi e Dio, loro padrone, si esauriscano nell’esaltazione di un’eterna felicità! Bestemmia! Bestemmia di cui l’umiliante rassegnazione del povero è anche più colpevole dell’insolente tirannia del ricco!

XVI

No, il destino dell’uomo sulla terra non è quello della bestia che conduce al lavoro. E i filantropi che gli mostrano all’orizzonte corpi dimagriti, anime disperate, patiboli e torture, apostoli del Dovere e del Sacrificio, non riescono nemmeno a farsi sentire dai più semplici. – Requien æternam, sempiternam dona eis, Domine!

La Felicità è lo scopo verso il quale tutti gli esseri si dirigono, quando ascoltano la grande voce della natura. Esistono due ali per la raggiungere: la Speranza e la Libertà. E se si pensa impossibile ottenerla in questa esistenza a nulla valgono i tentativi dei filosofi di impedire di darsi la morte. – Affermo sulla mia anima, il Suicidio decimerà gli uomini fin quando non avranno trovato la via che conduce alla Felicità.

XVII

Se non sperassi nulla, assolutamente nulla quaggiù, mi suiciderei senza scrupoli…

Mi suiciderei perché sono libero. – E non considero la Libertà come una vana parola; al contrario l’intendo fino al diritto di togliermi la vita se la prevedessi infelice per sempre. E chi dunque meglio di me potrebbe giudicare sulle possibilità della mia felicità? Voi che mi condannate per avere portato la mano sul mio capo, credete che prima di decidermi non abbia lottato, sofferto? Ah! più di voi apparentemente! – Solo i filosofi in verità possono immaginare che un uomo si distrugga per far loro piacere o per avere la pretesa di comparire davanti al loro tribunale.

XVIII

Mi suiciderò perché sono convinto che rivivrò. – E la vita futura in cui credo non è il miraggio esasperante col quale tutte le religioni affascinano gli spiriti tremanti.

Oh, demonomaniaci a uno o a più dèi! Adoratori di immagini, di feticci, di gessi, di mummie e di carogne, vi avete ben riflettuto? L’esistenza eterna sotto l’occhio di un padrone eternamente corrucciato, vendicatore eterno, eternamente onnipotente, è l’eternità del Supplizio, la fatalità del Male!

Finalmente! Finalmente! Basta con le pesanti catene sulle nostre membra ferite! Bisogna necessariamente forgiarne altre con le nostre colpevoli mani? Bisogna sempre ribadire quelle della terra e quelle del cielo?

Uomini! arrossisco per voi, gli uccelli dei campi vi danno lezioni di coraggio. Perché si abituano alla vista degli spaventapasseri dei contadini. E voi, salutate umilmente il prete nero che passa, vi inginocchiate davanti ai suoi manitù e impegnate la vostra progenie con paurosi giuramenti, per secoli e secoli. – Razza umana quando riuscirai a diventare coraggiosa come la razza dei passerotti?

XIX

Sono fatto d’argilla mortale come voi, eppure mi sono tolto il cattivo istinto che mi consegnava alla Paura. Mi sono detto che man mano che avanzerò nelle future esistenze, mi allontanerò dal terribile Dio creato dagli spaventi del primo uomo e mi riavvicinerò sempre più all’ultimo Dio che conosciamo, l’Uomo libero.

E l’Uomo libero, Dio del futuro, sarà bello, robusto, intelligente, buono e felice. Non avrà più interesse a fare il male, più pregiudizi, più terrori paralizzanti; svilupperà nella loro pienezza, le sue facoltà e le sue passioni sublimi, irraggerà con l’attività della sua forza e l’essere del suo genio la natura vinta. E privo della chiave di volta celeste, il nero edificio della schiavitù cadrà. E dalla sua caduta risuonerà l’Inferno.

Vi sarà sempre dolore nell’umanità, ne convengo. Ma non vi sarà più imposto da una classe sull’altra. Questo dolore colpevole, vero peccato originale, scomparirà grazie alla scienza della giustizia e dell’amore, perché esso viene dall’ignoranza, dalle discordie e dalle iniquità.

Le società dell’avvenire saranno soggette solo a due tipi di mali: quelli che sono la conseguenza obbligatoria di tutte le lotte contro la natura e che diminuiscono ogni giorno; e quelli che derivano sempre dalle reazioni dell’anima in se stessa, reazioni che conservano la nostra esistenza per il gioco dei contrasti e rompono l’uniformità delle nostre sensazioni morali.

Così dice il poeta:

Ritorna a tua scienza
Che vuol quanto la cosa è più perfetta
Più senta il bene, e così la doglienza”.
Dante

La fede in questa vita futura è la mia forza, il contrappeso della debolezza, il segreto del sangue freddo davanti al Suicidio.

XX

Mi suiciderò perché credo nella Rivoluzione immanente e permanente nelle sfere infinite. Venga domani la Morte, e la saluterò come il bene supremo. Perché solo allora le mie aspirazioni le più indomite scapperanno dalla loro ossessiva prigione; allora la forza trasformatrice prenderà nella sua mano il mio corpo e la mia anima e li lancerà nelle pianure immense dell’Eternità. Allora il mio sangue sarà diffuso nell’universale serie delle cose, e lo spirito rivivrà, più sottile, nelle società rigenerate. Allora sarò più utile a tutti. Allora percorrerò i cerchi della luce e del calore, e mai mi arresterò. E da spinte in emozioni, per balzi e per feste, con grandi colpi d’ala, mi agiterò nel mondo immortale! – Oh! come questo avvenire è più grande e diverso da quello del Paradiso!

E perché allora rigetterei il suicidio che mi rende tutta la mia virtualità esistenziale nel tempo e nello spazio? E mi depone, radioso, sulle spiagge lontane dell’avvenire!

XXI

Che cos’è in realtà la vita terrena? Una parte dell’esistenza totale e non la migliore, senza dubbio. Ora, la mia esistenza totale, quella della mia anima sempre rinascente, è un capitale messo a mia disposizione. Ho il diritto di essere avaro o prodigo, e di scegliere i mezzi e i momenti di spenderli: mezzogiorno o mezzanotte, aurora o crepuscolo, eccesso di piaceri o di lavoro, morte lenta o suicidio; rasoio tagliante, pistole dal grilletto sensibile, acido prussico veloce, carbone, corda e chiodo, risorse dei più poveri.

Time is money. – Il risparmio di tempo è mortale come quello delle ricchezze; non risparmierò i miei giorni. Della somma della mia vita non perdo nulla, d’altronde, cambiando di forma; fin quando l’universo esisterà, io sarò nell’universo. Il suicidio può solo anticipare le mie trasformazioni.

XXII

Quando il presente è secco e vuoto come l’involucro di una nocciola divorato dall’insetto perforante, dove abiterò? Quando trovo nel passato solo ricordi dolorosi, quando l’avvenire mi appare come il velo della notte, mi rassegnerò a non scoprirlo mai sotto un altro punto di vista?

No. Perché se resto così ho la certezza di essere infelice, inutile, un peso per me stesso e per gli altri. Perché il male distruggerà le mie facoltà. Languirò, morrò tutti i giorni senza mai essere morto.

E i miei nemici gioiranno di questa decadenza; e stancherei la benevolenza degli amici e la pazienza degli eredi. E quando mi avranno pianto per due interi giorni, al terzo mi troveranno insopportabile. E dietro le spalle i parenti bisbiglieranno sinistre parole. E mia madre, mia madre, mi precederà nella tomba, maledicendo lo sfortunato giorno che mi ha dato la vita! – Mille volte meglio il suicidio.

XXIII

Gioisco moltissimo, nella mia anima ironica, del senso convenzionale che i civilizzati danno alle parole.

Con un colpo di pistola un uomo mette fine alla vita che gli pesa: questo atto lo si chiama suicidio, e quest’uomo lascia il ricordo di un vigliacco criminale, mille volte più condannabile e dannabile di un assassino. E vedete un poco l’eccellente logica! Chi si fa strappare un pezzo di dente è reputato più bravo; i tisici e i cancerosi che prolungano per lunghi mesi l’agonia di una esistenza condannata, sono celebrati come modelli di coraggio. – Io, per quel che mi riguarda, continuo a pensare che l’istinto risparmia all’animale molte delle sofferenze che noi subiamo. Lo dimostrerò introducendo il procedimento dei medici, i più ciarlatani dei despoti.

XXIV

Per distogliermi dal suicidio non ditemi che devo compiere una missione, quella di vivere, e che devo farlo fino in fondo. Perché avere un carico simile vuol dire essere condannato, obbligato, schiavo. Perché faccio solo quello che mi piace, salvo forza maggiore; e ho, almeno, per consolazione in questa vita, la certezza di potermene sbarazzare quando lo giudicherò utile.

Per altro vi domando: chi avrebbe avuto la missione di impormi questa missione? A chi devo riconoscerne il diritto? Quando e come? Mi si mostri il contratto con il quale mi sono obbligato a vivere in ogni caso! Mi si dicano le condizioni da me stipulate a mio favore nel redigerlo e nel firmarlo! E allora mi rassegnerò a vivere per missione, commissione, sottomissione, pressione, compressione, depressione e aspersione. – No!

XXV

Non ditemi che questo contratto aveva forza di legge tra le generazioni che mi hanno preceduto. Perché questa legge non mi obbliga in nulla, non avendola discussa né votata. E se mi è fatto obbligo di vivere, curvo sotto i decreti che amministrano i morti, esclamerò: Scaviamo con le unghie nella terra delle tombe, gettiamola su di noi e lasciamo agli scheletri l’amministrazione di questo mondo. – Ma il sacrificio dei vivi sarà un triste e inutile omaggio ai morti.

XXVI

Se la missione della quale volete impormi l’osservanza fosse vantaggiosa per me, non sarebbe stato necessario sostenerla con terribili minacce. Sarei portato a essa dall’attrazione stessa della mia natura; non sarei ridotto a ribellarmi dal grido supremo del mio sangue. Vivrei bestialmente, come il bottegaio all’angolo, senza sapere da dove vengo e dove vado e, spesso, ciò che faccio nel mondo.

Ah! perché parlate di missioni, doveri, pene e ricompense eterne, delle altalene infine, per chi tiene il coltello nella destra e freneticamente lo porta nell’incurabile piaga dell’anima! – La morte è la sola dea consolatrice dei disperati!

XXVII

E voi, preti paffuti, rosei, accademici, gesuiti di ogni pelo, di ogni veleno e di ogni tipo, mi ricordereste con tanta sollecitudine questa missione se non la sfruttaste senza pudore, per grazia e misericordia? Ah! se non aveste tanto interesse sulla mia vita, che vi importerebbe della mia morte!

I filantropi inglesi sono meno ipocriti. Questi contano meno e passano freddamente sul cadavere dell’operaio morto di fame nel mese di novembre (The month of cut throats – il mese in cui ci si taglia la gola), ma denunciano indignati alla polizia (to put in charge – prendere a carico), il cocchiere barbaro che si permette di frustare, senza riguardi per il suo valore, la più magra rozza di Smithfield!

Sangue e rabbia! Per vostra disgrazia, siete troppo fecondi e troppo a buon mercato, proletari, fratelli miei! Mentre le bestie da soma mancano e sono molto più costose degli uomini!

(Mi prendo la soddisfazione di riportare qui la riflessione veramente ingegnosa fornitami da un gentleman altamente rispettabile del quale cercavo di smuovere la sensibilità a favore di un povero derelitto: “My dear sir, and why did not God make a peculiar skin to those poor in order they may be not so shocking to the gentry?” –“Mio caro signore, perché mai Dio non ha fatto una pelle speciale per questi poveri allo scopo che siano meno impressionanti per i nobili?” – Almighty God!!! –).

XXVIII

E perché mi trovo, vittima involontaria, nella gemente processione di coloro che vivono?

Forse perché le notti sono lunghe? Forse perché non sapevano come passare il tempo che due esseri umani si sono avvicinati per produrmi? E se ritengo che i rispettabili autori dei miei giorni avrebbero fatto meglio a dormire o sognare un poco più di quel che hanno fatto; se la vita che mi hanno trasmesso, senza sapere né perché né come, è per me solo una interminabile serie di dolori, bisognerà che per riconoscenza per la pena o il piacere che hanno avuto per un secondo, conservi questa esistenza perpetuamente?

(È generalmente con premeditazione che i borghesi si riproducono o non si riproducono: tanto sotto la forma di un avvocato, tanto sotto quella di un notaio, di un medico, di un funzionario o di un mascalzone qualsiasi. Numero, sesso, professione della progenitura, tutto è calcolato sulle rendite future, quando ancora il nascituro è in cantiere. Sfortunatamente i procedimenti non corrispondono alle intenzioni. I borghesi non sono riusciti ancora a fare passare la natura sotto le forche caudine del loro genio. Ma non bisogna disperare, viviamo nel secolo delle grandi scoperte e delle moralità d’alta scuola. Verrà la notte felice in cui si realizzerà il sogno del grande Malthus per il generale giubilo delle classi oneste e moderate. In verità vi dico che i borghesi sono più maligni delle scimmie!).

È perché viene dall’alto questa missione, perché è santificata da Dio? E se il vostro Dio è mio nemico; se non riconosco la sua dannosa autorità né in cielo e neppure in terra, bisognerà che viva per vostra soddisfazione? E se per questo Dio è così importante che percorra per intero la lunga strada dell’esistenza, perché la semina di ceneri, rovi, bare, maledette apparizioni di realtà ancora più maledette? Se è onnipotente e buono, questo Dio, perché allora mi si svela solo attraverso il Male? E se è immutabile, un simile maestro, come potrò mai sperare di essere libero?… Giammai!!…

XXIX

Non ditemi che è orribilmente pericoloso mettere sotto gli occhi degli uomini membra palpitanti, crani vuoti, volti contratti dalla rabbia e dalla disperazione. Non ditemi che l’odore e la vista del sangue sono contagiosi; che uno spettacolo del genere ci farà dimenticare famiglia e doveri, che ci condurrà a dubitare delle nostre forze e delle possibilità di stare bene in questa vita.

Non vedete che un solo istante il cadavere del suicida; solo un istante esso colpisce le donne nervose e fa piangere i bambini. L’indomani gli uomini leggeri lo ricoprono di una pietra pesante… E tutto è fatto!

Nel frattempo, lo Scoraggiamento dall’occhio incavato passeggia il suo spettro tra le società nebulose, turbando le conversazioni delle donne e il girotondo dei bambini. Orrore per orrore, non preferite forse la vista della piaga sanguinante a quella della piaga grigia che mai si arresta? No certo, l’immagine della morte violenta non è così perniciosa come quella delle malattie incurabili.

Se la testa del suicida è orribile a vedersi, essa distoglierà gli uomini dal suicidio invece di spingerveli. Siate conseguenti con voi stessi, criminalisti! Non uccidete gli assassini per spaventare la società? Non mostrate alla folla le teste tagliate per darle un esempio salutare?

Per quanto mi riguarda non risulta che la società possa preparare un cadavere più artisticamente e più moralmente di quanto non lo faccia l’individuo.

XXX

Non ditemi che l’uomo che si distrugge ha disperato troppo presto; che può essere che domani sarebbe arrivata per lui l’ora della libertà; che non ha riflettuto a sufficienza…

Ah! senza dubbio, lo sfortunato ha calcolato le proprie possibilità avvenire con molta più attenzione di quanto non facciate voi, meglio di voi senza dubbio, e ha riconosciuto incurabile il proprio male. E perché mai, attraverso mille angosce certe, dovrebbe aspettare su questa terra una felicità tardiva e rara, quando può con un colpo d’ala slanciarsi nelle sfere brillanti dell’avvenire?

Egli è stanco della monotona ripetizione delle sue sofferenze, vuole mettervi fine attraverso una morte immediata, preferisce un grande dolore scelto da lui a questi mille dolori invisibili con i quali lo perseguita la Fatalità. Anche gli stoici si stancano di sopportare sempre gli stessi tormenti, e il più devoto altruista dispera prima o poi se non può compiere quaggiù che una missione esasperante.

È facile per i filosofi dire, quando se lo ricordano, che l’uomo può vincere la malattia, dominare il pensiero e scongiurare la morte. Sostengo che lo si desidera sempre ma raramente ci si riesce, sfortunatamente! Per cui chiedo: oh forti di testa e di corpo, per qual motivo non punite la follia, la miseria, la febbre, il delirio, i mali cronici e l’agonia?… Sono, sono pur sempre dei suicidi lenti… e vi scappano!…

XXXI

Senza esserne ben convinto il nostro spirito non concepisce un pensiero che indichi un bisogno del corpo, un’operazione dell’anima e delle nostre facoltà. Quando un uomo si sente irresistibilmente attirato verso il suicidio, è che tutte le sue forze non sono impiegate quaggiù; è che sente le voci dei suoi amici morti che lo chiamano in un altro mondo; è che non ha dubbi sul fatto che sarà più felice, più utile, più libero in esso. Il divino egoismo che si radica nell’anima dei Cristi e dei Barbès e che, riflesso sulla società, produce la liberazione di fatto, non è altro, dopo tutto, che un’ambizione sublime, la sete divorante di una immensa gloria a venire, il fascino che la Morte esercita su di noi, l’aspirazione all’Immortalità!

Il Suicidio è il più rapido degli angeli che presiedono alle resurrezioni!

– “Chi osa predicare il suicidio in questa società? Non è già abbastanza sfortunata?”. – Così diranno i malthusiani.

– “Bene! Sono io, maestri miei, io che firmo tutti i miei atti col mio nome, e quindi ogni parola è un atto. Conducetemi una volta ancora davanti ai vostri tribunali!”.

– “Uomo di odio e di assassinio, sfortuna a chi mostra a tutta questa generazione la china funesta dove vi è sangue, sangue caldo che inebria! Sfortuna a voi che spingete gli uomini per le spalle negli abissi della Morte!”. – Così diranno i malthusiani.

– “E se questa generazione mi approva, è che la vostra società è il cavalletto di Ribera; è che sono nel vero quando paragono la morte per suicidio a questa lenta tortura della miseria, e quando dico: il suicidio è un bene! È mio o vostro l’errore?”.

– Ah! malthusiani ipocriti e miserabili! Che cosa fate mantenendo la guerra, la povertà e i malesseri nelle società? Che fate proponendo costrizioni morali, procedimenti sessuali, igienici, sociali, tecnici e chirurgici contro la propagazione della specie? Suicidate l’umanità se non mi sbaglio e con la più lenta delle torture, la più crudele: la miseria e la privazione. In una società come questa preferisco spingere l’uomo infelice a distruggersi col ferro o il veleno. Sì, se in un sol caso mi riconoscessi l’autorità di esercitare una influenza sullo spirito dei miei simili, questo sarebbe per consigliare il suicidio a chiunque affermasse di non poter più sopportare l’esistenza! E questo consiglio lo darei in piena coscienza, come il medico che, disperando di arrestare la cancrena di un arto, tramite una medicazione generica, ne propone l’amputazione.

XXXII

Se, leggendo queste righe, qualcuno di questi grandi infelici vi troverà il coraggio per distruggersi, non considererò perduto il tempo passato a redigerle.

Prima di tutto, direi a quest’uomo, liberati dal male! E quando tutti i momenti della tua vita sono preda del male, allora, liberati dalla vita!

Se disperi di ogni cosa, se chiami la Morte come una fidanzata: ucciditi!

Se i bei Serafini dalle ali fiammeggianti sollevano tutte le notti la tua testa verso il cielo: ucciditi!

Se vedi i morti che ti amano danzare a mezzanotte sull’erba delle tombe, se ti riservano un posto nel loro gioioso girotondo: ucciditi!

Se la tua venerata madre, se l’amata del cuore ti sorride dal più bello dei mondi: ucciditi!

Se più grande che su questa terra maledetta ti appare la Gloria dell’avvenire: ucciditi!

Se non puoi raggiungere l’amore dei tuoi sogni, la scintillante ragione del tuo spirito, l’ultima aspirazione del tuo pensiero: ucciditi!

Se il corno delle rivoluzioni, il cannone urlatore che suona le battaglie rintoccano nella tua anima: ucciditi!

Infelice se non ne hai la forza. Felice se puoi mettere in atto la suprema risoluzione!

– L’uomo è troppo piccolo in realtà e troppo grande in speranza per rigettare la morte. Con un poco di coraggio può rompere in un istante le pesanti catene del presente. Sangue freddo, non deve spaventarsi della morte nel precipitarsi, nell’addormentarsi tra i vapori di carbone o tra i baci delle onde, o nel bruciarsi le cervella. Non abbiamo forse provato mille volte queste sensazioni nei nostri sogni? E le abbiamo trovato strazianti, intollerabili come le ambasce del dolore che non passa? –

Quando soffriamo troppo, rimettiamoci con fiducia nelle mani diligenti dei secoli che non esauriranno sul nostro essere l’eterna serie delle loro trasformazioni.


… Durante tre mesi d’inverno, ho avuto questi sogni angosciosi, che sospendono il battito del cuore e spingono la mano furiosa a togliere la vita… Ritorneranno? l’ignoro. Ma li prevedo sfortunatamente, e non avrò certo alcun desiderio di resistere loro.

– I fenomeni che si verificano nello spirito dell’uomo osservatore sono utili a conoscersi perché riflettono le preoccupazioni del suo tempo. Supererò la ripugnanza che mi causa il ricordo di questi sogni e li descriverò:


Ho trent’anni, mi dicevo; è l’età fatidica in cui la Salute si ritira. Allora, il corpo languisce per qualche tempo in indescrivibili angosce. Poi la natura caritatevole gli invia il sonno dei morti o il delirio dei folli.

Pazzo! Questa parola mi spaventa; non voglio diventarlo. Ah! mille morti piuttosto che una parola di pietà sprezzante, piuttosto che la dittatura materiale dei medici o le divagazioni psichiche dei sapienti! No, non lascerò la mia anima a questa torturante dissezione!

– Vi riporto un esempio di quanto siano giuste le nostre idee convenzionali.

A vent’anni ero interno alla Salpêtrière e vi curavo i pazzi: mi chiamavano filosofo. Oggi, se mi rinchiudessero a Bicêtre, mi chiamerebbero pazzo. Lavorate dieci anni della vostra vita per arrivare a questo risultato! Andrò soltanto se non trovassi la forza di morrire!

Frattanto non posso andare più lontano! Il cupo Suicidio mi batte con le sue ali di zolfo, mi affascina come uno sparviero; attorno alla mia testa agita formidabili paure. La Morte ha preso il mio cuore per le orecchie.

Uomo! Copri con gli orpelli della grandezza la spalla superba, gonfia il cranio di assiomi e di paradossi risonanti, brilla di dentro, brilla di fuori: non supererai la tua ora. Il Destino è sospeso sulla tua testa come la lama di un’ascia.

Giuro per la freddezza della logica ordinaria, se la coscienza di una grande opera da completare, se la prospettiva ravvicinata di una scandalosa reputazione, possono strappare un uomo alla morte, io sono quell’uomo. Perché ho la passione del lavoro, e sulle labbra profetiche tengo la parola degli enigmi che appassionano l’Umanità. Ma, cosa volete, il male mi ha messo a terra…

– Eredità, Risparmio, Proprietà, ecco che cosa chiamate beni, imbecilli occupanti dell’oggi. Conservate allora anche i mali che questi beni vi causano, siatene signori ed eredi nei secoli dei secoli! E che i supplizi dell’Inferno vi cadano addosso!

Dentro muri di ferro, di pietra o di abete, rinchiudete gli strumenti di lavoro e di festa il cui uso appartiene a tutti. Seminando cocci di bottiglia su questi muri, voi dite: “Qui non entrerà il mio simile; su questi vetri taglienti si scorticherà le mani e i piedi; se non ha niente da mangiare o da bere, che viva della sua carne e del sangue della sua carne! Io esproprio l’Umanità per causa di utilità particolare. Ciascuno presso di sé, ciascuno per sé! Dio riconoscerà i suoi fedeli!”.

Ma la Giustizia, che non è altra cosa, intendetemi, che Necessità, la Giustizia eterna, ineluttabile, glaciale, infinita, la spietata Giustizia s’attacca ai vostri passi. E rinchiudendo il vostro recinto di pietra in un recinto di tormenti e di rimorsi, vi dice:

“Ricco, tu perirai, per difetto di lavoro e di movimento, sarai bucato dalle pallottole delle rivolte che provochi. Perché il movimento è l’esistenza; il lavoro è l’attrazione che lo mantiene; e la Rivoluzione è la rivendicazione che non si arresta mai; è l’eterno diritto dei diseredati! Ricco, l’iniqua opera delle tue mani, il muro di questo campo si restringerà fino a prenderti alla gola. E né tu né i tuoi figli uscirete da questo cerchio maledetto. E adesso fai riparare le tue chiusure; so bene chi ne pagherà le spese!”. –


Ecco, dunque, la mia parte in questa vita, la mia proprietà per eredità, la Malattia! Ciò valeva bene di separare la vostra causa dalla causa comune, generazioni privilegiate che mi avete preceduto.

Se la mia anima fosse stata complice di questo odioso sfruttamento; se avessi lavorato, sofferto per difenderlo, non avrei il diritto di lamentarmi! Ma io mi sono irrigidito contro di esso con tutta la mia forza mortale: e la forza mi ha tradito! Maledizione!

Fatalità, Provvidenza, Mondi che mi dominate, tutti più grandi di me, mi avete vinto! Ma io non mi rivolgerò a Dio, non domanderò grazia, non vi adorerò giammai. Nel movimento eterno vi sono altre esistenze oltre quella che lascio, e ogni partita persa ha la sua rivincita. L’Uomo si vendicherà del Male; l’Uomo detronizzerà Dio!

Tuttavia avevo molti pensieri utili da comunicare agli altri! Forse l’ora non è matura?… No, non potrò essere soppresso per sempre in questo modo! Mi slancio nel tuo seno, Eternità, con la convinzione che ritornerò fra gli uomini!

Il mio involucro d’argilla non è più sufficiente a contenere l’immaginazione scatenata. Trasparente, effimera, assottigliata dal lavoro, essa scoppia come il ghiaccio di gennaio che frena per un istante il corso dei fiumi. Quest’anima e questo corpo vogliono divorziare e ritrovarsi in un nuovo accordo. Che questa trasformazione si operi! E infelice me se ne ritarderò la realizzazione di un solo istante!…


I miei nemici diranno: “Non poteva finire altrimenti. Che la sua morte serva da lezione ai giovani presuntuosi!”.

E sollevandomi dalla tomba, risponderò loro: “Tra voi e me non è finita, miei maestri! La Libertà che mi fa vibrare la lingua m’ispira solo parole vere. Fin quando la volontà ha potuto raccogliere in un fascio le ragioni della mia intelligenza, l’una e l’altra furono messe al servizio della Giustizia. E quando mi manca il coraggio, rendo volentieri l’anima ai turbini. Credete che una simile buona volontà sia cosa comune, e che gli uomini non abbiano più niente da fare?

“Per vostra confusione e mio trionfo, ritornerò, lo giuro, e sarò il primo all’appuntamento delle riparazioni. Ricordate esattamente le parole che scrivo per potere un giorno verificarne l’esattezza…”.

Prima della fine del secolo, un uomo giusto apparirà su questa terra sporca di crimini; sarà un risorto: i morti ritornano! Non dirà più “Rendi a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio; rendi allo Sfruttatore ciò che è dello Sfruttatore”.

Ma dirà: “Prendi ciò che ti tocca, fratello mio, dappertutto ove tu sia. E che i tuoi simili facciano altrettanto, in modo che l’Equità sia ristabilita nel mondo. E che ciascuno in seguito faccia rispettare il proprio Diritto, in modo che nessuno si trovi più nella necessità di piegarsi alla legge del Dovere. Perché la parola Dovere esprime una coazione, una sofferenza, la lotta contro tutto ciò che è più forte di noi. Uomo libero! non riconoscerai alcuna cosa più forte di te, a parte l’Universo. E raccogliendo tutte le risorse della tua forza e del tuo spirito, ti misurerai con lui vincendolo. Ridotto così, il Dovere non è più un principio permanente ma una coazione passeggera il cui oggetto varia in relazione al tempo e al luogo. Al contrario, il Dovere delle età passate era la parola d’ordine delle tirannie eterne, la sanzione della Schiavitù, della Miseria, dell’Immobilità”.

… E dirà ancora il risorto: “Il tuo dominio, figlio degli uomini, è su tutto il secolo e su ogni luogo fino alla trasformazione della tua razza. Puoi restringerlo o ingrandirlo secondo le tue paure o la tua energia. Il fondo degli Oceani, la volta dei Cieli, Continenti sottomarini, Mondi stellati, Creazione, Dio, tutto ti apparterrà il giorno in cui non tremerai più dirigendoti verso di essi. A condizione che tu faccia attenzione ai falsi profeti, a quelli che ti gridano: ‘il tuo regno non è di questo mondo!’”.

… Questo risorto non porterà il mio nome, perché significa disgrazia, ma continuerà con le mie idee. Parlerà tutte le lingue della terra e passerà dieci anni tra la gente annunciando la Buona Novella. Sarà di un’attività e di un’audacia estreme, tuttavia avrà inesplicabili cedimenti. Renderà comprensibili le sublimi armonie dell’uomo e delle società. Non scriverà e tuttavia le sue parole saranno raccolte e affisse a tutti gli angoli delle strade. Magnifici ambasciatori gli offriranno i più ricchi imperi di questo mondo. E lui risponderà: “Il mio regno non è di questo mondo. Perché io sono inviato a distruggere tutti i reami di questo mondo”.

Chi sei? gli domanderanno. E lui risponderà: “Sono Dio detronizzato; sono l’aspirazione dei secoli passati e delle generazioni presenti… In verità vi dico che è vicino il tempo in cui l’uomo sconvolgerà il globo, e posando la corona dei monti sublimi sulla sua testa, scriverà:

“Sono il Re dei Re, il Primo e l’Ultimo, Colui che fu e che sarà. Comando al fulmine d’accendere la tempesta dei miei pensieri, al mare di portarmi verso lontani orizzonti. Cammino sulle docili acque; le folgori disarmate accarezzano i miei capelli”.

… Colui che ritornerà, dirà ancora: “Coraggio, fratelli miei! Riscaldatevi al fuoco del cielo, sollevate la massa delle acque, svenate il pianeta più ricco, e raccoglietene il sangue d’ardente lava fusa! Animate, animate la materia infinita; sbriciolate, bruciate, disperdete, storcete tutto ciò che fu, tutto ciò che è… Bene!

“Uomo, tu camminavi a tentoni nelle tenebre e ora puoi eccitare o frenare l’infernale movimento dei mondi con la stessa facilità che un soldato il suo cavallo. Vita! Vita! Regina di tutte le cose, ti grida l’Umanità… Benissimo, ancora!

… “Ma tu tremi, insetto vestito di porpora, Prometeo vittorioso! Tu piangi sui lauri del tuo carro di trionfatore e fai cadere dalle tue mani troppo piene, le opime spoglie della sottomessa natura. E muori, da te stesso, come tutti gli esseri all’apogeo della gloria, quando non hanno più nulla da combattere”.


Così finirà la razza umana, quando avrà realizzato il suo sogno divino. Lascerà la terra trasformata, ricreata. In quest’ora suprema, se il primo di questa razza potrebbe ritornare, direbbe: “di chi è questa nuova opera di sei giorni?”. E la paura farebbe battere il suo cuore: “È di nuovo Dio”, risponderebbe.

Invece di Adamo, sarebbe il primo di un’altra razza che comparendo domanderà: “splendido Universo, chi ti ha creato?”. E la paura farebbe battere il suo cuore: “è un Dio”, risponderebbe. E i figli dei figli, gli crederanno sulla parola, mettendosi al seguito di una qualunque divinità. – Adori Dio chi vuole, io lo combatterò!

Dio è dietro di noi come davanti a noi; è una parola, l’X dell’eterno problema della vita, l’enigma che appassiona la nostra emulazione creatrice. È il prezzo della Lotta, la ragione di essere della Scoperta, il Nemico che bisogna vincere ad ogni costo, con tutti i mezzi! Oppure è la Morte!


… Ecco che cosa mi insegnarono i sogni spaventosi che mi resero ansimante per tre mesi. Oggi che li considero con sangue freddo, al sole, davanti alla splendida natura d’Italia, non trovo una virgola da modificare. Mi riprometto al contrario di svilupparli molto prosaicamente un giorno che non sognerò. Può essere che così farò accettare meglio le mie idee alle anime paurose e agli spiriti oziosi? – Amen!

Ecce Homo!!

Annecy, giugno 1855

Et Verbum Caro factum est! Et habitavit in nobis.

I Libri

I

Tra la croce di Marina la suicida e quella di Marie Capelle la giustiziata dagli uomini, voglio piantare la croce del più grande di noi, di colui che rialzò l’adultera e la Maddalena in lacrime!

Salve! Cristo, eterno oppositore degli oppressori, gloria eterna dei ribelli! – Ecce Homo! Ecco l’Uomo!!

L’Uomo che si lasciò morire di lavoro e d’amore, che diffuse la sua febbre e il suo sangue tra i suoi simili per strapparli alla servitù. E disse loro: “Prendete e bevete! Questa è l’anima della mia vita, la suprema essenza del mio dolore, l’ultimo dono di colui che muore per voi!”.

Salve! Salve, Cristo suicida!

L’Uomo che i soldati flagellarono, schiaffeggiarono e coronarono di spine! Colui che venne insultato dal popolo burlone per la cui salvezza saliva sulla croce! Colui che ricevette sputi e mani sudate sulla sua faccia angelica! Colui che coprirono di scarlatto come i pazzi dei re. Colui che salì il suo lungo Calvario, un rosario in mano, la febbre fredda in fronte, i piedi martirizzati dai ciottoli! Colui che venne inchiodato sul legno del supplizio, dissetato con aceto, insultato nella suprema ora dell’agonia! La vittima scelta dai sovrani sacrificatori, dagli interpreti della legge, dai prìncipi e dai saggi di quel tempo: Erode, Pilato e Tiberio Cesare!!

Salve! Salve, Cristo suicida!


L’Uomo, capitemi bene, e non il Signore. Ma l’avversario più terribile di Dio, l’audace distruttore d’immagini che cacciò i mercanti dal tempio, il gigante ribelle che riprese l’eterna guerra contro l’eterno Nemico, l’abbassò fino in terra, lottò corpo a corpo, lo smascherò, l’umiliò nella persona dei suoi preti, dei suoi luogotenenti coronati, dei suoi sicari e valletti. E dopo si nominò Re dei Giudei, Figlio di Geova, Dio, per testimoniare la sua vittoria sullo Sconosciuto fra le generazioni a venire.

Salve, Cristo! Spietato rivoluzionario, Salve!

L’Uomo, fratello nostro, che abita tra noi, sondò la società nei suoi abissi, ne provò le gioie, ne patì le sofferenze! Colui che sollevò tutti coloro che il mondo abbassa a piacimento: i buoni fanciulli, le donne innamorate, i lebbrosi, i feriti, i poveri, gl’indemoniati che vivevano nei sepolcri, i prigionieri, i condannati a morte! Colui che scelse per discepoli, per amici, i semplici di spirito, i forti, coloro che erano onesti e di buona volontà!

Salve! Cristo, ingenuo, sincero, fedele nei tuoi amori come la giovane vergine e i fanciulli!


Il Figlio dell’Uomo, capitemi, non il figlio di Dio. – Il figlio di una donna concepita nel peccato, che divenne madre come lo divengono le altre, che gli dette il suo latte e la sua tenerezza, che fu amata da lui come lo sono le nostre care madri. Il figlio del falegname Giuseppe o di qualcuno dei suoi felici compagni… Chi lo sa? Le leggi di quei tempi impedivano, come le nostre, la ricerca della paternità. I voluttuosi Serafini ne disputarono molto in cielo, si parlò a lungo sulla terra delle grandi cose che lo Spirito Santo avrebbe fatto con la Vergine scelta tra tutte le donne per riceverlo. Ma tutto quello che le cattive lingue di Nazareth poterono sapere i Vangeli lo riportano. – Figlio unico di una donna giovane, amante, incurante dei calcoli del mondo e del sentimento ingannatore, dedita, come Cornelia la romana, a fare figli e non quattrini.

Salve! Cristo. Salve! Maria, tesoro di grazia e d’amore! Siate amati da tutti, dolci misteri delle notti!

L’Uomo, figlio della Felicità e della Libertà, eguale a quelli che voi, miserabili civilizzati, chiamate bastardi! Io li chiamo grandi, forti, legittimi, interi, uomini di razza, di sangue e di cuore.

Salve! Cristo, concepito, morente in una promessa d’amore. Salve! Salve!

Ecco l’Uomo! Ecce Homo!

(Su questa valutazione di bastardi mi dispiace dire che differisco ancora una volta completamente dai nostri più illustri istruttori di demagogia. In un meeting tenuto dai rifugiati francesi a Londra nel 1852 per l’anniversario della rivoluzione provvisoria di Febbraio, Louis Blanc non trovava più sanguinoso insulto all’indirizzo di Luigi-Napoleone Bonaparte dell’appellativo di bastardo. Lo nominava basso, bastardo, Werhuël, figlio di nessuno, niente, meno di niente! E il grosso dell’uditorio applaudiva freneticamente all’oratore-fenomeno! E per più di due anni quest’ottima battuta accontentava lo scientificissimo giornale “L’Homme”, organo dei faceti fantasmi del ’93! Eccoli i grandi rrrivoluzionari della tradizione, spacconi ad oltranza delle infami istituzioni del passato, millantatori, abbattitori, demolitori, soprattutto rompitori. In realtà, i più inoffensivi borghesi del mondo!… E quando anche sarebbe bastardo? In questo caso si avrebbero due epoche memorabili nella vita di Bonaparte: la sua nascita e il suo matrimonio. Perché sarebbero due proteste contro la società del XIX secolo).


Non è forse grande così? Non è maestoso, così fiero, pieno d’audacia e di potenza come meglio non potreste sognarlo? Non è radioso della sublime ambizione che dà la sete dell’eterna gloria? Quale aureola da sacrestia avete bisogno per la sua fronte? L’amereste meglio se fosse soprannaturale, incomprensibile, irrivelato, Dio? Dio della Guerra, dell’Assassinio, dei Terrori, dell’Inferno, dell’Incendio, dei Diluvi, delle Carestie e dei Contagi, mostro di odio, strumento di vendetta, in ultimo antropofago? Dio come voi lo volete?

Io l’adoro come Uomo, generalmente amabile, generalmente amato. Come Dio di lui non conosco che i suoi preti. E se ritornasse i suoi preti lo crocifiggerebbero, come Pilato, lavandosene le mani. E i suoi preti non sono uomini, sono cose che vegetano sotto la veste nera. Ed io li scannerei come si scanna un cappone!

II

Oh miei contemporanei! onesti borghesi di Francia, ascoltate un racconto:

Nel 1839 viveva a Parigi un grande uomo, di spirito e d’amore, un Uomo-Dio! Aveva un nome: Barbès! Armand Barbès!!

Appena all’età della ragione, cominciò a meditare sulla sorta della sua razza, e non la trovò felice: – allora meditò sui diritti della sua razza, sulla sua libertà, coscienza, fierezza, onore. E trovò tutto ciò violato, calpestato dai re e dagli esattori come un residuo di vendemmia.

Dal momento che giunse a questa convinzione Armand Barbès, tese al massimo i muscoli delle braccia, ascoltò nella notte i battiti del cuore, misurò con lo sguardo in profondità e in lontananza l’Umanità che si torceva davanti a lui nel suo letto di dolori, e gridò:

“Cristo sii benedetto! Le mie braccia sono grandi, il mio cuore risuona, sono sufficientemente forte per continuare l’opera tua e salire il Calvario dove hai lasciato le tue orme!”.

Dal momento che ebbe giurato quest’odio implacabile al Dispotismo e all’Iniquità, quest’uomo, Armand Barbès afferrò con la sua mano di ferro il fucile delle battaglie, scese nella strada brulicante di uomini e si batté come si battono i leoni e i gladiatori traci liberati dalle catene. – Era il 12 maggio 1839...

Ma Barbès, purtroppo fu abbandonato dal popolo che voleva liberare, tradito, vinto, malmenato dai soldati, e gettato nelle segrete di Luigi Filippo, il vecchio monetario.

Ecco il Cristo! Ecco l’Uomo! Ecce Homo! – Siamo nel Giardino degli Ulivi, alla veglia degli Azimi.

Salve! Barbès, Salute!!


È ben alto il moderno Golgota! Per salirvi bisogna percorrere il lungo, rude camino che si estende dal pretorio di Hébert, successore di Pilato, alle masse merlate del monte Saint-Michel. Non descriverò questo tragitto di torture, gli anni eterni di imprigionamento e d’angoscia. Non ne ho il diritto né la forza, io che non ho sopportato cose simili. Se volete segnarle nella vostra anima leggete le emozionanti pagine di Martin Bernard, un altro Uomo-Dio che si è ucciso per noi. Io ravvicinerò il loro supplizio a quello del pescatore di Galilea.


Nel pretorio di Hébert, di qualche altro – non so più quale, visto che ce ne sono tanti di questi branchi di carnefici – nel pretorio di Hébert hanno preso posto le spie, i deboli, i tremanti, i gendarmi, gli inquisitori, i giudici che dirigono e condannano a morte, la folla schifosa, l’uomo in rosso che attende la sua preda. – La buona, la graziosa, l’onorevole società! – Vi sono anche le sante donne che piangono in silenzio, e i giovani dalle nobili aspirazioni, imbalsamanti nei loro cuori la memoria dei grandi morti.

Silenzio! mugola l’usciere. Rispetto per la Giustizia degli uomini!


E gli accusati, trascinati davanti ai giudici, serrano i pugni contro questi vigliacchi che versano tanto sangue di diseredati per servire l’insaziabile rapacità dei dominatori.

Essi guardano la tua croce, Cristo, appena al muro del tribunale, sfidano il codice e la magistratura, la forza brutale e lo stupido clamore delle folle accecate. E dal fondo delle loro anime spezzate gridano: “Derisione, Sacrilegio e Bestemmia: ecco la Giustizia umana! La Verità è nella Vendetta! Tu ce l’hai promessa, Cristo, e ce la darai. E splenderà il giorno in cui i primi saranno gli ultimi”.


Nel frattempo gli eredi di Giuda, il venditore di sangue, si avvicinano ad Armand Barbès e lo baciano in fronte: “Salute! maestro”, gli dicono. E lui, il Grande che da nulla è sporcato, li allontana con la mano rispondendo: “Lasciatemi, vi conosco, la vostra devozione vale trenta soldi”. E davanti alla nobiltà di questa santa figura arrossendo della loro abiezione, i disgraziati vanno a vendersi ai prìncipi della polizia che gli mettono al collo il laccio del disonore e li sotterrano viventi nell’immensa Haceldanah degli spergiuri dei nostri tempi. – Col destino di questa fine sarebbe stato meglio non fossero mai vissuti!


E gli esperti e i tremanti, interrogati dal giudice, rispondono: “No, non conosciamo quest’uomo, non abbiamo mai visto Barbès, non sappiamo cosa volete dire, non eravamo con lui”. E il gallo nero, il gallo spietato grida: Rimorsi e Dannazione! canta per tre volte nei loro petti vuoti. – “Lo spirito è pronto, ma la carne è debole”, aveva detto loro Barbès, quando gli dichiaravano il proprio coraggio.


E i gendarmi cercano di sporcarlo col loro contatto, col fiato, col loro odore di caproni: gli metterebbero volentieri il berretto frigio, un bastone in mano, per avere modo di sputargli in faccia dicendogli: “Salve! Dittatore della Repubblica Francese”. Ma lui li tiene a distanza con lo sguardo.


E il procuratore generale dall’occhio di ossifraga, i giudici dalle facce obese, il venerabile presidente Pasquier gli domandano: “Sei tu Barbès, il nemico del Dio che i popoli adorano?”. E lui: “Tu l’hai detto, sono l’amico degli uomini; tuo avversario, sono in tuo potere; strazia il mio corpo, scotenna la mia testa: la mia anima è nei cieli!”. E la belva popolare ruggisce e domanda la testa divina. E il carnefice la coglie…

Addio! Barbès, addio!…


… Ah! riaprite gli occhi. Il Giusto non è morto sull’infame patibolo! Sì, senza dubbio, il suo cuore avrebbe preferito questa fine a dieci anni di segreta, dieci anni durante i quali i carcerieri gli fecero bere dell’acqua mista al fiele, dieci anni durante i quali la sua anima abbandonata fu colta dalla tristezza della morte! Lo so perché ho letto le sublimi meditazioni della sua notte di agonia. – Ma le vie della Rivoluzione sono inflessibili, spaventosi sono i colpi con cui percuote gli uomini!

Gli studenti di Parigi lo salvarono dal rapido supplizio della testa, ma subì il lungo supplizio del corpo; fu rinchiuso nel cellulare, nella prigione a doppia mandata; fu privato d’aria, di alimenti, di luce e di sole, trascinò la vita della sua grande anima con il suo corpo malato e la salute morta!

Salve! Barbès, Salve!


… Il 24 febbraio lo risuscita! Libero e ribelle, il popolo dei sobborghi grida per tre mesi: A Barbès lunga vita! E poi il popolo libera se stesso e anche Barbès, e più tardi, il 15 maggio dello stesso anno, grida: Morte e Prigione! E non gli rivolge nemmeno una parola di saluto quando, trasferito dalla fortezza di Doullens alla tomba galleggiante di Belle-Isle, passa la notte a Parigi, nella prigione di Mazas!

L’opinione è mutevole come le onde del mare; il favore del popolo è mobile come l’universo delle sabbie. Felici coloro che ascoltano soltanto il grido della propria coscienza! Felice Barbès, dovunque tu sia, fratello esiliato, salve!


Fratello, non è la timida voce di un adulatore che t’invia queste parole d’amore, ma la voce penetrante di colui che sa dire a tutti soprattutto la verità. Per questo ho il diritto di cantare le tue lodi, io che conosco di te soltanto i tuoi atti, io che ho tanto sofferto nel mio cuore quando il disprezzato Bonaparte ha dato ordine ai suoi carcerieri di cacciarti via dalle prigioni di Stato. Oh secolo di vigliaccheria, di depravazione! Gli assassini pretendono graziare i martiri. E la folla imbecille applaude gli assassini!

Ah! Napoleone III può ammirare Barbès, ma non può togliergli il diritto di disonorare per sempre il Due Dicembre galoppante su un cavallo moccioso nel sangue del popolo libero.

Cesare! Cesare! Coloro che vanno a morire non ti salutano più!


Gli uomini del mio tempo, montoni rognosi di Panurgo! Essi deificano il Cristo morto e perseguitano Barbès vivo! Insultano la memoria dei preti, dei giudici e dei soldati di Tiberio morto, e pagano in buoni denari l’ansimante orgia dei pretoriani del Napoleone vivente! Sono bravi nel passato, vigliacchi nel presente, ciechi nell’avvenire! Non vivono, non respirano, non parlano! Mangiano, hanno paura, mentono! – Infamia, Prudenza, Soggezione e Miseria!

III

La Croce, la croce pesante, la croce di cedro, la croce dell’uomo che ama, del povero, del giusto, del reprobo, del libero, del ribelle: dov’è oggi?

È sulla tua tomba dimenticata, Marina, povera giovane spezzata dall’amore? Sulla tua, Laviron, audace pioniere della Repubblica Universale? Su quella di Marie Capelle, la più reietta delle donne? Oppure ancora sulle vostre Montcharmont, Spartaco, i più liberi, i più ribelli fra gli uomini? È nelle vostre mansarde, nelle vostre capanne, nei vostri comignoli, nei vostri soppalchi, proletari, fratelli miei?


No, certamente. I potenti ne hanno fatto l’ornamento del loro lusso, lo strumento del supplizio dei poveri. Essa brilla nelle mani dei preti, nei templi dei Farisei, dei dottori della Legge, nei salotti di Erodiade, delle regine e delle imperatrici, dietro il tavolo dei banchieri, sulla porta dei proprietari!

E quando viene la Pasqua in fiore, lavoratori, andate a cercare alla chiesa più vicina i ramoscelli umidi di acqua benedetta per appenderli sopra il letto dei vostri figli che dormono. E quando i potenti della terra vi ordinano, in nome di Cristo, di curvarvi sotto il fardello delle vostre miserie, in nome di Cristo voi vi sottomettete ai potenti della terra!


Ah! sventurati ciechi, non comprenderete mai che questa croce è la croce dell’oppresso, la croce del vostro fratello, la vostra croce? Quando la strapperete dalle mani dei mercanti di questo mondo che ne trafficano impunemente? Quando forgerete, su questo modello amato, le impugnature delle vostre spade? Quando la spezzerete sulle teste dai capelli d’argento? Quando? Oh, quando dunque respingerete dalle vostre labbra aride, assetate di felicità, screpolate dalle privazioni, questa coppa d’aceto che vi tendono mani sporche del vostro sangue e delle vostre lacrime?

Con questo segno allora vincerete. Soltanto allora sarete degni di colui che sentì sotto la sua fronte il morso delle spine e il bacio di Giuda. E dal suo trono di gloria vi sorriderà l’Uomo eletto, racchiudente nel suo cuore tutte le pene, tutte le aspirazioni dell’Umanità dicendo: “Ho sparso il mio sangue per alleviarvi tutti!”.

IV

Camminava per il mondo, diritto davanti a sé, fermo e giusto nei suoi propositi, senza rimpianti né paura. Non temeva nulla dai potenti della terra, dalla capacità di tagliare delle loro leggi e delle loro spade.

Non aveva una casa e disprezzava i troni, gli onori e i favori, e l’oro dei diademi e l’argento delle monete. Viveva di parola e di rassegnazione, lasciando i sonagli e le imposte a Cesare.

… Oh non prendetevi pena per lui! Egli era grande, e ben piccoli sono oggi i grandi del suo tempo!!


Parlava ai semplici il linguaggio dei semplici, raccontava loro la Parabola e la Buona Novella nell’abbondanza del suo cuore. E i semplici lo comprendevano, i dottori fremevano al timbro della sua voce e i malati si levavano per baciare l’orlo del suo vestito!

… Non piangete! Oh quanto sapeva quest’uomo! E quanto sono dimenticati oggi i dottori del suo tempo!!


La gente perbene lo calunniava, diceva di lui: “È un mangione, un bevitore, un amico di imbroglioni e pessime conoscenze”. Lo confondevano con volgari malfattori e gli preferivano Barabba l’assassino.

Nel frattempo lui convertiva i centurioni, i migliori gendarmi, i buoni e i cattivi ladroni, le sventurate ragazze vendute agli appetiti dei sensi.


– Sì, le povere, le torturate del mondo, quelle che chiamate le ragazze di piacere, di cattiva vita, egli le convertiva!

Invece voi mentite, civilizzati, quando le chiamate derelitte! Insultate il più spaventoso degli infortuni!

E io vi dico che è ben saldo l’animo della ragazza che da sola osa attaccare su questa terra ipocrita il delirio dell’amore a pagamento, il cinismo del tedio e dell’indifferenza.

Sì, è brava la donna che si stende morta davanti a voi e vi dice: “Ecco il mio corpo-cadavere, e lo do in cambio del tuo amore-denaro!”. Che morde il suo amante e gli grida: “Amico, vuoi il mio cuore? Vuoi la mia vita? Vuoi il sangue delle mie arterie?”. E gli darebbe i suoi denti, le sue dita, i suoi capelli per provargli il suo amore! E che, prigioniera lei stessa nel labirinto della Prostituzione, difende contro il mostro il figlio della propria tenerezza!


Fiero è anche il cuore dell’uomo che si alza da solo contro l’iniquità sociale! E l’attende all’angolo delle strade, sul limitare dei boschi, all’ora in cui la luna si specchia nelle canne delle carabine!

… Oh! quanto amavo questo Cristo che seppe comprendere, alzare e accarezzare teneramente questi esseri coraggiosi e oppressi!


E quanti ne raccolse uno dopo l’altro: pescatori di Genesaret, prostitute di Samaria, lebbrosi di Galilea, briganti di strada, lazzari portatori di malattie, di camiciotti da carcerati, di pesi, di catene e di croci di supplizio; e voi fanciulli, che aveva tanto cari!

… Quanto amava quest’uomo, e come sono state dimenticate le belle azioni della sua epoca!


Fu bersagliato dalle contraddizioni, dallo spionaggio, dalla persecuzione e dall’obbrobrio. Fu dichiarato pazzo, cattivo, arcangelo delle tenebre, maledetto nel suo nome e nei suoi atti. I suoi amici lo tradirono.

Ma egli restò il Cristo, l’uomo unico, superiore a tutti gli altri. Bruciò la folle semenza delle Chiacchiere, confuse i falsi profeti e sventò le loro insidie, umiliò i portatori di uniformi, di mitrie, di scettri e di corone, tutti i grandi portatori d’oro. Mise l’ascia nella radice dei vecchi tronchi, scosse dalle basi le società giudee e gridò a voce spiegata: “Sventura ai ricchi, ai grandi, ai satolli, ai pasciuti! Sventura alla razza delle vipere! Spezziamo con le nostre nude braccia i sepolcri imbiancati!”.

Quanto era forte quest’uomo! e come sono dimenticati i più famosi rivoluzionari del suo tempo!


Fu rinnegato dagli uomini del suo paese e della sua epoca, dai suoi apostoli e dai suoi amici. Fu dappertutto straniero e non ebbe pietra su cui poggiare il capo. Vide venire la morte e spinse diritto il proprio solco verso di lei. E nell’istante supremo consolò il suo vicino di croce che si disperava!

… Oh! non preoccupatevi per lui! Ebbe tanto coraggio quest’uomo e sono completamente dimenticati gli eroi del suo tempo!


Il giorno della sua morte il sole si coprì la faccia radiosa, le tombe si aprirono, i morti errarono per i prati dei camposanti, gli elementi tuonarono con furia, il fulmine scatenò tutti i suoi lampi e tuoni; il cielo spaventato lo reclamò ai figli della terra.

E le sante donne di Galilea lo avvolsero in un lenzuolo bianco profumato di mirto, baciarono le sue labbra con le proprie labbra ardenti, asciugarono il sangue delle sue ferite con le lunghe trecce dei suoi capelli d’oro.

E il popolo che l’aveva insultato si prostrò davanti alla sua pallida faccia di morte. E le stesse guardie cominciarono a lacrimare!

… Non piangete! Quest’uomo è amatissimo! E molti vorrebbero morire come lui!!


Non cercatelo fra i trapassati o nel cielo, non cercatelo dietro gli altari dei preti e gli scranni dei giudici. Cercatelo fra i viventi, il grande Profeta, il Veggente di più lontani orizzonti. E lo troverete; troverete Barbès e a migliaia quelli che gli rassomigliano.

Sii benedetta, Rivoluzione!

Ma il nostro mondo è troppo popolato perché nuovi Cristi vi si aprano gloriosamente il calvario. L’Umanità segue la sua strada senza deviare, Gli ostacoli che incontra, le risorse di cui dispone ingrandiscono o diminuiscono in rapporto reciproco. I bisogni sono diventati insaziabili, immensa l’opera della nostra salvezza, innumerevoli gli operai e i portatori di croce. Le grandi intelligenze, i cuori superiori si elevano come una messe di spighe; chi potrebbe dire quale è più grande? Fratelli! salutiamo l’Avvenire come il seminatore saluta il sole levante quando lancia i suoi baci sulle pianure dorate. Da sempre il buon grano ha distrutto lo sterile loglio. Le erbe folli sono voraci e si mangiano fra loro.

Salve Gesù! – Salve Barbès! – Salve tutti i Cristi, tutti gli uomini che gemono nella tortura.

Sii benedetta, Rivoluzione!

V

Quando l’infingardo scoraggiamento mi si struscia addosso, quando lo carezzo e lo sento che mi si avvoltola attorno e mi tenta come il gatto col suo ronfare traditore… per poi graffiare e mordermi in seno!

Allora, oh portatore di Croce, alzo gli occhi verso la tua figura di sogno e i miei occhi piangono! E penso, e dico:

Oh! chi mi darà, Cristo, la magnetica penetrazione del tuo sguardo, la soavità della tua parola, l’ispirazione del tuo pensiero, la tua prescienza e il tuo paziente coraggio?! Chi mi darà la tua simpatica dolcezza nei rapporti con gli uomini, la tua inflessibilità nella lotta, la tua sublime rassegnazione davanti all’ultimo supplizio? Chi mi darà la morte che si è accanita su di te? A chi mi dirà: muori per riscattare i tuoi simili dall’infelicità e il tuo nome dall’oblio, risponderò: grazie!

Sii benedetta, Rivoluzione che ti basi sugli sforzi umani e dài ad ogni buona volontà il compito adatto!

Oh, passare per il mondo con gli occhi al cielo, senza toccare terra, senza essere attaccati alla vita. Morire a trent’anni, la fronte cinta dall’aureola della gloria, con in mano la palma dei grandi! E ritornare in tutti i secoli sulla brillante nuvola della Rivelazione, nello splendore sognato! Volare di sfera in sfera, come di stelo in stelo la farfalla di porpora! E raccogliere, e seminare dappertutto, come le api, parole dolci come il miele, inebrianti come il nettare dei fiori!… Chi mi darà ciò?

Sii benedetta, Sovrana, madre della Forza e della Grazia, figlia dell’Amore e della Guerra, che proietti sugli uomini l’ombra benefattrice delle tue grandi ali, delle tue parole d’entusiasmo, dei tuoi doni e delle tue promesse, il coraggio e la vita. Sii per sempre benedetta, Rivoluzione!

VI

… E adesso prendi coraggio e ridiscendi sulla terra, povera anima mia per un istante smarrita in un avvenire senza limiti. E troverai quaggiù uomini vigliacchi quando vogliono dar prova di coraggio, brutali quando vogliono dar prova d’amore. I coraggiosi d’oggi sono i giudici che colpiscono i deboli coprendoli di ferro. I teneri d’oggi sono i ricchi libertini che torturano le più povere e le più belle coprendole di denaro.

Orrore e Fango!

Correte dunque, Civilizzati! Andate, rubate, miserabili vampiri, iene dal pelo lucente, mendicanti di ricchezze e di croci stellate, piatti scarafaggi! Frugate, bucate dappertutto! Bevete il sangue, succhiate l’onore! Fra gli esseri in pena che bisogna saper comprendere, mietete teste da tagliare e corpi di donna da far soffrire! Va bene…

Io vi disprezzo. Cercherò fra i vostri accusati, delle coscienze; fra le vostre prostitute, dei cuori. E quando sarete tutti attorno a loro, unghie e peli tesi, quando schiumerete, ansimerete, abbaierete dietro la carne, come mastini a digiuno… verrò ad asciugare le lacrime che avete causato. E raccoglierò, come Cristo, nelle infime dimore, tesori di tenerezza!

Sii benedetta, Rivoluzione!

Marie Capelle

Annecy, giugno 1855

Non ho più patria! non ho più focolare!

Il mio nome non è più un titolo!

La mia vita non è più un diritto!…

Con quale diritto protestare la mia innocenza?

Io sono la cosa giudicata, la colpevole secondo la legge!…

Con qual diritto promettermi l’avvenire?

Io sono la cosa condannata, sono la morte perpetua!

Marie Capelle

I

Tutti la conoscono, la povera donna che la Giustizia degli uomini condanna come avvelenatrice, che l’Opinione degli uomini strazia con le sue unghie crudeli, sulla quale si accanisce la Stampa assassina, incensata dagli uomini; che si torce le mani dall’obbrobrio, finita in prigione: la sfortunata morta, Marie Capelle!

Ah l’uomo ama distruggere!

Marie Capelle! col suo lungo vestito nero, i suoi capelli bianchi durante l’udienza, il suo colorito pallido, la sua fronte agonizzante, i suoi grandi occhi pieni di lacrime, i suoi tratti, i suoi bei tratti divinizzati dal Dolore. – Tutto ciò non c’è più!

Ah l’uomo ama distruggere!

E io voglio risuscitarla con le mie lacrime; voglio rifare tutto quello che l’uomo disfà. Voglio rendere alla disonorata dal mondo l’onore, l’amore e la gloria nelle età future. Voglio chiamare attorno alla sua tomba tutti gli angeli del cielo e supplicarli di attaccare un bocciolo di rosa ad ogni spina della sua corona.

Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te!

L’imperiosa, l’immortale voce della mia coscienza s’alza nel mio seno; grida: Questa donna è tua sorella; è coricata sotto la pesante terra e il disprezzo la ghiaccia. Alzala! Perché da un momento all’altro gli uomini potrebbero sotterrarti, vivo, disprezzarti, onesto, come l’hanno sotterrata e disprezzata. La loro giustizia è sporca di sangue; la si vede tremare sotto la punta di un pugnale, sotto la lama di un’ascia, sul bordo dei sepolcri. Risuscita, se lo puoi, la povera assassinata.

Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te!

II

La tempesta porta sulle piagge degli Oceani relitti d’uomini, cavi di bastimenti, corazze d’oro e di ferro. La raffica di Novembre disperde sulla terra screpolata foglie gialle, fiocchi di neve, cristalli di gelo, lacrime di pioggia, l’argento e il freddo. La Morte stende sulle tombe rose, cipressi, una corona immortale, un boccolo di capelli, una goccia di sangue, un sospiro, il lungo, straziante singhiozzo che rompe l’ultima fibra del cuore; lascia la migliore.

Invidio la sorte dei trapassati!


Nell’umile cimitero di Ornolac c’è una pietra. – Sotto questa pietra ci sono delle ossa scavate dalla sofferenza, vuote di midollo e di sangue. All’ora del crepuscolo, queste ossa risuonano come canne staccate dal loro gambo dalla tormenta dei flutti. Su questa pietra sta un piccolo libro su cui si sono posati i gemiti, le sofferenze della passione umana: la Bibbia degli oppressi. Al momento dell’Aurora, le pagine di questo libro tremano, si drizzano, si accendono e piangono nel vento le loro parole di fuoco.

Uomini! Prosternatevi davanti a queste spoglie! Sono le ossa, sono le Heures de prison di Marie Capelle, il cantico degli agonizzanti. Darei tutti i giorni che mi restano da vivere per scrivere una sola pagina simile alle sue.

Invidio la sorte dei trapassati!


Questo libro corre il mondo.

I librai lo mettono in mostra nelle vetrine delle loro botteghe tra le nauseanti meditazioni di Lamartine e le effimere disperazioni di Musset l’accademico, e le geremiadi sonore di Châteaubriand. Dicono che lo fanno per valorizzarlo!

Gli uomini lo scorrono e lo trovano scritto bene; le donne lo divorano tutte le notti, e tutti i giorni gridano all’impudenza!

E nessuno ancora ha osato dire che questo libro è l’opera del più grande poeta del nostro tempo. E gli stessi rivoluzionari arrossirebbero d’associarsi alle supreme rivendicazioni della più distrutta delle anime!

E la Civilizzazione trionfante calpesta sempre con due piedi le folli scosse della sua infame giustizia!

E la grande donna è rimasta sola finora nella sublime regione dei martiri non rimpianti.

Invidio la sorte dei trapassati!

Oh Byron, Byron! il fiero, l’inquieto, il Prometeo della nostra epoca, oh sanguinante meteora che ci ha legato due rivoluzioni! Tu che cercavi le ferite incurabili, le piaghe estese, le desolazioni profonde, i pianti amari e le lenti agonie… per immortalarle! Dove sei?

Solleva questo cadavere, riscaldalo col tuo fiato febbrile, confida dei versi alle sue orecchie, dei baci sulla sua fronte! Perché lei ti restituirà i tuoi baci e i tuoi versi, perché restituirà il tuo amore, la donna innamorata, e il suo grande cuore batterà di nuovo tutto per te, questo sfortunato cuore che ha lasciato la sua memoria e la sua gloria agli uomini giusti.

Oh! Creatore, soffia su queste ceneri come Geova soffiò sul caos informe. Vieni, rifai la luce, la vita, la parola, il pensiero nella loro sublime essenza. Rifalli: tu lo puoi!

Invidio la sorte dei trapassati!


La mia invocazione si perde nel mulinello delle società. Gli interessi l’accolgono col loro riso implacabile. Sento l’ironia gridare: “Egli è morto, è morto!! Invano Westminster lo reclama dalle belle rive di Missolungi; invano il popolo lo divinizza! Noi l’abbiamo fulminato; danziamo sul suo cranio l’infernale sarabanda che conduce la Corruzione! Che il suo esempio serva agli spiriti orgogliosi! E che i liberi tremino! Il XIX secolo suona il rintocco funebre del genio, la San Bartolomeo degli innocenti! – De Profundis per l’indipendenza del mondo!”.

Invidio la sorte dei trapassati!


Miei due morti amati! Lasciate alla mia pietà filiale le vostre spoglie mortali. Che il vostro genio, cullato dall’armonia delle sfere, non si preoccupi più delle miserie di questo mondo! Tutto quello che può il culto, la tenerezza e le forze di un figlio degli uomini, lo farò per voi. Dormite in pace il dolce sonno che per tanto tempo sfuggì dalle vostre palpebre arrossate. Il mio cuore batterà così spesso sulle vostre tombe che vi lascerà l’impronta del calore del suo sangue. Perché voi siete la famiglia della mia anima, gli adorati con i quali l’amore non si parla né si scrive né si dice; ma si pensa, si indovina, si comprende e diventa immortale!

Oh, vi raggiungerò! Sarò vostro fratello nelle nuove esistenze! L’odio delle società, il soffio della folla, il rancore degli scienziati, degli aristocratici e dei democratici, la tirannia delle maggioranze, dei governi e dei tribunali: tutte le potenze della terra si sono incaricate di riunirci.

Invidio la sorte dei trapassati!

III

Charles Fourier ha scritto: “Si può giudicare esattamente il grado di civiltà di una società dal posto che vi occupano le donne”.

Oh! che dirà l’Avvenire di questa nostra civiltà cattolicissima, quando scoprirà il processo di Marie Capelle, e vedrà tutta una società coalizzata contro una donna malata, quando i foschi echi del diciannovesimo secolo, da lei evocati, ripeteranno queste urla di feroce e vigliacca vendetta: “K’ss! K’ss! Urlate segugi! Mordete! – Anatema! Tortura! Maledizione! Persecuzione! Follia! Morte a Marie Capelle l’avvelenatrice!…”. Che dirà l’Avvenire?

Questa Società, la sua giustizia, le sue leggi, la sua scienza, la sua famiglia, il suo governo, la sua religione, le sue prigioni e le sue pene, saranno assolti dall’Avvenire, dal grande Riparatore? L’eroismo che essa celebra nei suoi canti non sarà forse quello di Marie Capelle? Il buon diritto e il coraggio di questa grande vittima?


Voglio prevenire il giudizio della posterità:

L’Avvenire ti ucciderà, Società del Monopolio! – Che rispetti e pratichi la mostruosa legge del matrimonio a vita! Che metti per sempre la donna sotto il dominio degli uomini! Che la privi per sempre di ogni diritto civile e politico, di ogni risorsa, di ogni professione, che la privi perfino del nome e l’abbandoni, diseredata, sola, palpitante, in mezzo a un mondo che domanda implacabilmente la morte del debole!

Che la ribadisci con le catene dell’interesse al fianco, alla sorte, ai capricci del suo signore e padrone! Che gli imponi come dovere ogni volontà del marito, che la disonori quando fa un passo falso mentre celebri la gloria dell’uomo che la tradisce! Che gli tagli perfino la direzione, lo stesso possesso dei figli del suo amore!

Splendente Avvenire! spazza, trascina via, divora questa Società nelle tue onde di fuoco! – Hallali!!


Uomini, l’avvenire vi punirà, perché avete fatto le legge perfettamente a vostra immagine: senza delicatezza, senza amore e senza giustizia; perché l’avete redatta totalmente a vostro favore: vigliacca, oppressiva per la donna, infallibile, irrevocabile, indiscutibile, irreversibile; insulto alla natura, obbrobrio all’umanità! – Ignoranti, insensibili, che tramite le vostre assemblee, i vostri concili, i vostri preti e i vostri oratori, avete osato dichiarare la donna, la divina donna, di natura inferiore alla vostra, di un’argilla più grossolana, di essenza meno eterea! – Bruti che cercate di convincerla che è venuta al mondo per curarvi con zelo, servirvi con obbedienza, frizionarvi con amore, quando piaccia a voi! – Ignobili, cupidi, che la vendete come vostra schiava o vostro possesso! Vigliacchi, che la rinchiudete, l’incatenate, la deformate, la mutilate, l’imbavagliate, l’annichilite, la ripudiate, la schiaffeggiate, la picchiate con mille colpi, la lapidate con mille pietre, la torturate con mille torture! – Traditori, impostori, che la tradite, la seducete, la violentate, o la trascinate palpitante nell’abisso della miseria e del disonore! – Grossolani libertini che ve ne servite come di uno strumento di lussuria e non le lasciate che gli occhi per piangere i vostri crimini! – Saggi, scienziati, sensati, galanti, Frrrancesi che la tenete sotto perpetua tutela!

Profondi legislatori, bei dottori della legge, affascinanti dicitori di niente, amabili difensori della Famiglia e della Prostituzione, della Proprietà e del Diritto del Signore-marito, avvocati e procuratori di cattive cause, uscieri e facitori di tutti i mestieri, guasta-salsa e ministri, ambiziosi destituiti, flosci valletti e fini beffeggiatori, freschi nastri d’onore: moralissimo [Pierre Jules] Baroche, cavalleresco Thiers, e voi, illustri [Nicolas] Martin du Nord, Teste e consorti, buoni piccoli padri, sposi modello, gente onesta, grandi esempi, poveri santi del paradiso, bravi ragazzi… miserabili istrioni… indietro! Non difendete la famiglia, non la difendete più!!…

Splendente Avvenire! spazza, trascina via, divora gli uomini di oggi nelle tue onde di fuoco! – Hallali!!


L’Avvenire ti disperderà, famiglia del diciannovesimo secolo! – Snaturata che baratti i tuoi figli col denaro, gli cavi i denti, le unghie, la lingua e disputi sui loro cadaveri ancora caldi l’eredità sanguinaria della morte!

Così hai fatto con Marie Capelle, oh Famiglia! L’hai venduta ad un uomo incapace di comprendere l’anima sua, che l’ha comprata in contanti, per distrarsi di tanto in tanto. E quando quest’uomo è morto di una morte inesplicabile fino a ora, l’hai accusata di averlo avvelenato; supponendo nel suo crimine il doppio motivo dell’interesse e dell’amore: l’hai disonorata, distrutta senza pietà per godere a tuo agio delle spoglie del signor Lafarge!

Ah! organizzate le nozze, cugini, collaterali, fratelli e madri degli sposi! Tessete ghirlande e corone, ridete, cantate, divertitevi! Ogni volta che assisto a questi moderni saturnali della famiglia, piango: è il sacrificio dell’innocente Ifigenia, la festa d’Atreo! Ecco l’orribile tavola dove i convitati mangiano la carne dei figli, dove bevono il sangue, la colpa, il veleno, i rimorsi e i desideri in coppe vermiglie!

Purtroppo! di simili famiglie il mondo è pieno. Per una che fa scandalo, migliaia lavano i panni sporchi con le lacrime e sanguinano nella notte! La famiglia civilizzata è l’antro delle discordie, il violento accoppiamento senza rimedio d’opposti interessi, di effimere passioni; è l’abete che brucia, la spilla che strappa, il soffio sempre caldo sotto il quale si alimentano le cupidigie, gli odi, le vendette che mai perdonano!

Propongo un assioma: più gli individui sono oggi ravvicinati dai legami di sangue, più si aborrono e più desiderano troncare il nodo gordiano che gli uccide l’anima!

I fratelli nemici oggi si disputano i reami… o solo un piatto di lenticchie! No, non sono ambiziosi, e nemmeno mangioni… ma ucciderebbero padre e madre per un soldo!

Ah! come può essere felice la famiglia civilizzata? Essa pretende riunire ciò che è incompatibile: l’amore naturale e l’interesse privilegiato, i diritti del monopolio e quelli dell’umanità, la passione e il dovere, lo slancio e il calcolo, il fare l’amore e il numero, lo sporco pezzo di terra e la frangia iridata del cielo!

Splendente Avvenire! spazza, trascina via, divora la famiglia di oggi nelle tue onde di fuoco! – Hallali!!


L’Avvenire condannerà la Giustizia civilizzata! – La vile Giustizia che convoca giudici, procuratori di corte d’Assise, scarabocchiatori di carta, giurati, carnefici, avvocati, gendarmi e pubblico per mettere in scena l’agonia di una donna! La Giustizia che non teme la perdita di un solo pelo della sua vecchia testa pazza, e minaccia la testa celeste di una giovane donna!

La Giustizia umana, soggetta ad errore, si è sbagliata mille volte! La Giustizia che genera la falsa testimonianza, lo spergiuro e il crimine! La Giustizia che i governi pagano per compiere le loro vendette! La Giustizia che tortura senza tregua, senza perdono, senza vergogna!

La Giustizia che sarà sempre e solo lo strumento della collera dei potenti e lo stimolo alla rivolta dei deboli, fin quando il Diritto alla vita resterà lettera morta fra gli uomini!

– Il Diritto di vivere! il solo, il vero diritto sociale, il diritto di suprema necessità e di salute pubblica! Il diritto del sangue, il grido del pane!

È questa Giustizia che fece soffrire mille morti a Marie Capelle senza mai farla morire, che la inseguì ad oltranza come una gazzella ferita. Fin quando la poveretta cadde mani in avanti, la faccia a terra, i grandi occhi pieni di lacrime, senza più il suo grande coraggio, in ginocchio davanti alla tomba, il solo ricovero per la sua immensa disperazione. È questa Giustizia che, sotto tutte le forme, presenta e ripresenta la croce. – Croce nera e criminale nel presente; croce bianca, croce gloriosa nell’Avvenire!

Questa croce, sotto il cui peso rimase schiacciata per dodici anni, la portava o la trascinava come poteva, le veniva rimessa sotto gli occhi in ogni momento, in ogni luogo! A volte era il cadavere di suo marito, irrigidito nella morte, le due braccia distese. – A volte era un nemico che alzava le mani a dritta e a manca per rendere Dio complice di una falsa testimonianza. – Oppure il procuratore generale, avvoltoio dalla faccia umana, che scuoteva freneticamente sulla sua testa le maniche della toga rossa del sangue dei condannati a morte. – Oppure il vecchio grande codice aperto sulla tavola dell’inquisizione. – Era ancora l’elsa della spada dei gendarmi, gli sguardi obliqui della folla che si accalcava, le chiavi della prigione, i crocifissi delle religiose guardiane della sua cella, le barre incrociate… – Croci, sempre croci, emblemi di sofferenza, di morte, di momentaneo avvizzimento, di eterna vendetta!

Purtroppo! una simile Giustizia non si può trasformare. Conseguenza forzata dell’espropriazione che tutti subiscono per l’utilità di qualcuno, essa scomparirà solo con un colpo di fortuna inaspettato e con l’ozio. Supremo consolatore, Lavoro, che venga il tuo regno!

Splendente Avvenire! spazza, trascina via, divora la Giustizia degli uomini nelle tue onde di fuoco! – Hallali!!


L’Avvenire rinnegherà la Scienza di oggi! – La Scienza sorprendente, pedante, snervante, paralizzante, abbrutente! La Scienza diplomata dal Privilegio, gelosa delle sue prerogative, facile ai grandi, dura ai piccoli!

La Scienza idropica, pletorica, titubante, livida, che diffonde nel mondo la chiacchiera delirante, le tenebre, la cecità, la cataratta, la miopia e lo sguardo losco! La Scienza che si chiude a doppia mandata nell’infetto santuario dove impila storte, catene, veleni, cadaveri e malati!

La Vecchia calva che si trascina, vergognosa, a rimorchio della giovane Scoperta dalle trecce profumate! L’annoiata, la testarda, l’addormentata che farnetica! L’ignorante, la superba, che nasconde la sua impotenza sotto le lunghe frasi raccolte nel vocabolario fuori moda dei Greci!

L’intrigante, l’avara, la ladra, la falsaria, l’usuraia, la plagiaria, che si appropria dei lavori dei suoi nemici e li snatura traducendoli nel suo spaventoso libro incomprensibile! L’antica, l’accademica, la monastica, l’etica, l’universitaria, la solitaria, la scontrosa, che separa la sua causa da quella dell’umanità, che specializza, stecchisce, strangola tutti i problemi che tocca separandoli dai grandi problemi di interesse generale!

La Scienza codarda che non manca mai di dare la pedata dell’asino alle vittime abbattute dall’ingiustizia sociale!

È questa Scienza tuttavia che scova Lafarge, lo gira, lo rigira, lo circonda, lo sfrutta, lo taglia a piccoli pezzi, lo riduce come carne per paté, nei suoi alambicchi, lo riscalda ad alta temperatura, fruga per settimane nelle sue viscere morte da diversi mesi; e trionfante, imperturbabile, afferma davanti ai giudici che la morte deriva da un avvelenamento da arsenico!

E l’interprete inattaccabile di questa Scienza infallibile, l’oracolo immacolato della vita e della morte, colui le cui labbra sigillate si apriranno solennemente solo per condannare o assolvere senza appello: il Pitone santo di oggi… chi è? Una sorta di pagliaccio meridionale, mezzo medico e mezzo cantante, del tutto saltimbanco; – l’uomo che ha saputo monopolizzare tutti i compiti odiosi rifiutati dagli stessi medici; – colui che ficcherà mani e naso dappertutto dove c’è da fare collezione di croci al merito e di sporcizia: nel seno della duchessa di Berry, nelle grosse budella di Lafarge e in mille altri posti.

Ormai è morto, e se n’è lavato le mani! Che il suo Dio, se ne aveva uno, riconosca la sua anima! Che non si levino troppi suppliziati ad accusarlo! E che non abbia paura dei morti!!

Ognuno intende la paura, il dovere e il coraggio a modo suo. Quest’uomo, Orfila, pretendeva assolvere nella società a una missione gloriosa, missione di salvezza, molto penosa, pericolosa a esercitarsi quanto quella dei giudici. Penso in effetti che i loro grandi cuori erano fatti per amarsi e sostenersi, come ladroni in fiera, altrettanto spesso del giudice o del carnefice, penso che le stesse ricompense e le stesse pene dovrebbero essere divise egualmente agli uni e agli altri nel Presente e nell’Avvenire. – Chi rivivrà, rivedrà!

E se qualcuno mi rimproverasse di parlare con così poco rispetto del mio preside di facoltà ormai morto, risponderei: “Non sono più un povero studente. Sono la Posterità che non sa dire altro che il Vero sui vivi e sui morti. E se chiamassi su una qualsiasi strada di una grande città francese, apparirebbero sulla soglia delle loro case migliaia di famiglie le cui imprecazioni si leverebbero con le mie contro uno degli assassini legali più celebri di questo secolo!”.

E tuttavia, questo esperto, questo dotto, questo illustre, grande chimico, sapeva esattamente quanto arsenico occorre per avvelenare un uomo, per avvelenare un dato uomo, quello che non è bastato ad avvelenare Mitridate, per esempio? Sapeva quello che trattengono i nostri tessuti, la terra, e anche le sostanze chimiche presenti in quest’ultime? Poteva affermare che la scienza dell’avvenire non darà eclatanti smentite alla sua? Non dava dottoralmente una sorta di giudizio di Dio? Ignorava che la scienza d’opposizione era di un altro convincimento della scienza ufficiale sulla colpevolezza di questa donna? Era permesso a Orfica di sdegnare l’opinione di Raspail? Era sicuro, quest’uomo, per abile che fosse, della precisione delle sue bilance, dell’esattezza dei suoi apparecchi, della purezza dei suoi reagenti, del rigore delle sue esperienze? Era sicuro del fuoco, dell’aria, dell’acqua, dell’elettricità? Che cosa sospettava delle forze primitive della natura che ci sono ancora sconosciute? La messa in libertà della signora Lacoste non gli rivelò qualche anno dopo la misura dell’opinione e i dubbi della scienza sulla condanna della signora Lafarge?

O Scienziati, o pigmei, montagne in corso di partorire un topo… ma chi siete, uomini miei simili, per lasciar cadere la testa del vostro fratello sospesa con un filo alle vostre dita tremanti? Se avete una coscienza, riflettete, sognate, abbiate un po’ di cuore… Ah, come vi compiango!

Splendente Avvenire! spazza, trascina via, divora la Scienza di oggi nelle tue onde di fuoco! – Hallali!!


L’Avvenire dissolverà i governi civilizzati! – La chiave di volta di tutti gli interessi ingiusti, i legami che li serrano in un fascio, li strangolano e li fanno a pezzi per meglio conservarli a rischio di romperli! La macchina che torchia il povero e scortica il ricco, che li eternizza l’uno e l’altro, lebbrose, sofferenti specie che niente può guarire! La verga fiorita della violenza che i popoli consegnano ai più audaci, ai più scellerati degli uomini, ai discendenti di Aronne per frustarci a sangue! La Medusa moderna, apre le mille bocche insaziate dei suoi funzionari sulle spalle delle maggioranze pazienti!

La banda privilegiata dei briganti ufficiali confortabilmente stabilita lungo le grandi strade, nelle larghe vie, alle porte delle città, nei palazzi e nelle capanne, sul bordo dei fiumi e in cima alle montagne! Quella che svaligia, ferisce, assassina impunemente, in tutta sicurezza l’umanità che canta passando sulla sua strada!

Il Governo che provoca il disordine, lo perfeziona, lo rinnova ininterrottamente perché è di esso che si ciba, perché non vive che a condizione di conservare l’ineguaglianza fra gli uomini: perché governa, in una parola!

Il Governo, la spina che infetta la società!

Ed è il governo più apertamente disprezzato, il più scioccamente costituzionale, il più cinicamente corruttore, il più pietosamente spilorcio, il più sfacciatamente mendicante, il più meschinamente borghese, il più insolentemente vigliacco di tutti i governi, quello che si inginocchia davanti alle grandi potenze dell’Europa coalizzate, il governo di Luigi Filippo l’Avaro, che trova lo zelo, la forza e il coraggio solo contro una povera donna oppressa! È questo governo che l’ha sottoposta alle quotidiane visite dei suoi impiegati-spioni, che le misura l’aria, il fuoco, il vestito, la luce, il sole e i libri; che turba incessantemente la religione della sua solitudine, le disputa momento per momento, la vita del corpo e la vita dello spirito. È stato questo governo che l’ha torturata pazientemente, lentamente, paternamente, educatamente, da persona a modo, consigliandole di farsi dimenticare, di abbandonare il suo onore e il suo nome alle unghie del disprezzo, di essere morta e viva nello stesso tempo, viva come lo si può essere in galera!

Ebbene! Signori e Signore, sappiamo essere felici della nostra fortunata sorte! Riteniamoci felici che i nostri governanti vogliono comprendere le più delicate sensazioni nostre, vogliono farci visitare dalle loro baccanti ufficiali e venderci a caro prezzo i loro tabacchi avvelenati. Ma non esigiamo da loro l’impossibile, il lusso. Non fanno forse tutto quello che possono? Siate perfetti voi stessi per chiedere loro la perfezione! Dopotutto, non li paghiamo per sapere cosa sono l’onore e il coraggio di una donna. Il fico è un albero buono e bello, ma non è un ceppo di vigna, e non ci si deve aspettare da lui dell’uva. Lo stesso non bisogna dimenticare che un direttore di prigione, un ispettore di polizia, un prefetto, un qualunque funzionario non sono uomini. Per queste belve il regolamento sta al posto della coscienza, della testa, è una seconda natura. Queste specie vivono di sangue e lacrime; la loro immaginazione lavora ininterrottamente a scoprire torture, dal colpo di spillo fino al supplizio in pieno giorno, fino alla ghigliottina, al palo dell’infamia; non si pronuncia il loro nome che a proposito di disperazioni e vendette; essi si guadagnano il pane nell’ombra e nella sofferenza!… Odioso!!

Fate comprendere ai porta-chiavi, ai valletti del potere, che tutti gli uomini devono rispettare tutte le donne, consolare quella che piange, incoraggiare quella che lotta, aiutare quella che soffre, ammirare, simpatizzare, difendere quella che è piegata sotto il peso di una condanna ingiusta… Tanto varrebbe supplicare un cane da caccia di lasciare la pernice di cui aspetta le ossa!

Quanto deve fare soffrire un nobile cuore il contatto con simile gente! Quanto la signora Lafarge deve sanguinare nella sua dignità quando essi entrano nella sua cella come in un paese conquistato, quando violano il suo pudore, ultimo rifugio delle avversità, supremo asilo del pensiero! Come deve tremare, poveretta, battere i denti, maledire e morire, quando deve riceverli a qualsiasi ora, in ogni stato: coricata, svestita, sudata per la febbre, rantolante per la mancanza d’aria che la rende folle! E quanto devono disprezzarsi essi stessi, quelli che acconsentono a ricevere il pane dei loro figli bagnato dal sale delle sue lacrime!

Se vi è necessario mangiare e bere, oziosi e parassiti, estensori di condanne a morte, carnefici a freddo, scrivani di prigioni e di prefetture, mendicate, saccheggiate, assassinate rischiando la vostra vita, sotto il sole caldo e le notti stellate. Ma non mettetevi cento contro uno; non torturate in questo modo, nel silenzio di una prigione, una nobile donna che la vostra vista fa morire di disgusto, e che vi sputerebbe il cuore in faccia se non avesse paura di sporcarsi espirando!

O secolo decimonono di età, ma ultimo in fierezza, triste secolo in cui la mia vita si consuma miseramente, secolo di promiscuità di ogni persona e di abbattimento di tutti i princìpi! Tu avvicini le anime più pure alle coscienze più nere: nelle prigioni, il cittadino libero alla pecora poliziesca; nell’esilio, il proscritto alla spia; negli ospedali, il poeta che muore di fame al mezzano che muore di dissolutezza! E niente potrebbe risparmiare agli uomini fieri questo contatto avvilente, odioso, quotidiano ingozzamento, più bruciante del morso del ferro rovente, più corrosivo del dente grigio del tempo! E ne parlo per averlo sentito!

Ahimé! il sole diventa pallido, le stagioni incerte, i climi inclementi e i frutti senza sapore, gli uomini non hanno più né salute né carattere. Tutti coloro che intaccano ancora il fondo uniforme delle nostre società, sia per l’eccesso del bene, sia per l’eccesso del male, tutti costoro sono associati in una comune eccezione, avviluppati in una medesima riprovazione. Si torturano i primi perché si temono la loro franchezza e il loro coraggio; si gonfiano i secondi perché si temono la loro astuzia e la loro vigliaccheria. Perché i borghesi hanno paura di tutto ciò che non è mediocre, medio, ordinario, moderato, passe-partout come loro. Tagliano la loro barba, la coda dei loro capelli e le teste più alte. Attenti a quelli che ne hanno!

Oh! i prefetti, i gendarmi e i carnefici fanno pertanto bene a derubarvi e umiliarvi secondo i vostri meriti, borghesi che fate loro l’elemosina della loro povera vita. Se fossi al loro posto mi farei servire per bene!

Sì, se fossi alla testa di uno degli 86 dipartimenti della bella Francia, esigerei dai notabili del posto che il mio coperto sia messo ogni giorno alla loro tavola, quando vorrei io; che le loro mogli si innamorassero di me; che i loro ragazzi fossero miei paggi, e le loro figlie mie cortigiane. Chiederei loro il bel fascio di grano, l’alta e robusta quercia, la fine bottiglia di vino nostrano, la vitella della mandria; i diritti, tutti i diritti del Signore! Gli impedirei di mettere i piedi sulla soglia della porta senza passaporto; vorrei che quelli con buona vista mi salutassero a mille passi, e i miopi a duemila. Tutte le domeniche farei frustare il loro zelo e il loro amore per l’ordine con ortiche brucianti, nel posto giusto, a nudo, a vivo, senza remissione. Infine, obbligherei questo mondo a dare una dote a tutti i miei bambini; e ogni nove mesi, senza dubbio, ne farei uno con mia moglie. E li vedrei illuminarsi di gioia, grassi e rosei, baciarmi i piedi cantando: “Che onore, che onore! Sono il vostro umile servitore!”.

Che rabbia! Ciò sarebbe possibilissimo!

Splendente Avvenire! spazza, trascina via, divora i governi a buon e a cattivo mercato, gli aristocratici e i democratici nelle tue onde di fuoco! – Hallali!!


L’Avvenire scomunicherà la santissima religione cattolica, apostolica e romana! – La religione predicata da uomini che non hanno donne e da donne che non hanno uomini: esseri senza sesso, senza passioni, senza istinti, senza appetiti apparenti, sfortunati che non sanno nulla delle leggi, delle esigenze, dei dolori e dei piaceri della vita; guerci che vedono il mondo solo attraverso il microscopio del loro idiotismo o della loro ipocrisia, spettri che lo attraversano in abiti neri, deformi e tristi! Chiedete loro che cos’è la tenerezza, l’amicizia, la povertà, la ricchezza, la famiglia, il ragazzo di vent’anni, la vergine timida, la donna adultera, la Maddalena, la Venere, la Minerva: l’Umanità! Essi non devono sapere nulla; negano la natura, l’uomo, le società, la generazione, la felicità e la trasformazione degli esseri. – Dio del mio amore, come sono da compiangere!

E sono tuttavia queste le sfortunate creature che il mondo indica come eccellenti, pietose, preziose, caritatevoli; quelle che ha paura di offendere, che onora, nutre, rispetta, o almeno tollera; quelle che la Chiesa glorifica, che noi carichiamo dei nostri interessi più cari, delle nostre opere di beneficenza e amore. In verità vi dico che la vita del prete e della religiosa, è la parodia sacrilega della vita di Cristo, è lo spirito dell’egoismo e la lettera della devozione. Contro la dottrina e le conseguenze dell’altruismo non vedo altra prova.

Sulla massa degli uomini i religiosi planano ancora, e dall’alto degli altari li affascinano come dalla nuvola dorata lo sparviero dai colori scuri, con l’occhio di sangue, segue la scia degli uccelli pieni di paura. Questi esseri ermafroditi, mostruosi, popolano gli ospedali, le prigioni, le case di correzione e di pentimento; tutti gli asili aperti al dolore.

Come potrebbero amare, curare i poveri, raddrizzare i malfattori? Li conoscono? Li hanno avvicinati nelle case degli uomini? Non sono forse divini personaggi che abitano il settimo cielo, e di questo basso mondo ignorano tutto? Sulla terra non sono forse oggetto di pietà, di terrore o di repulsione? Che non si pronuncino mai davanti a essi i santi nomi di padre, madre, sposa, bambino, affetto e amore. Queste parole li fanno infuriare, esse sono per i loro cuori disseccati altrettanti aculei di sofferenza; ricordano loro le amare privazioni e i cocenti segreti. Perché sono venuti, gli sfortunati, ad arruolarsi nella milizia del papa, inseguiti, spezzati, obbligati dalla miseria, dall’ignoranza e dal fanatismo, reclutati nelle nostre verdi campagne e nei nostri popolari sobborghi, dai disprezzati sergenti di sacrestia. – O Religione di menzogna e di furto, religione oltremontana, abbassata fino al livello del libertinaggio; e come quest’ultimo non hai altro compagno che la Fame!

Ah! dato che ne ho l’occasione, smaschererò senza pietà, senza riserva, questa carità assassina che nasconde l’aridità della sua mano e la crudeltà della sua anima sotto l’abito di S. Vincenzo da Paola e la croce di Gesù!

… I sei più begli anni in cui avrei potuto rivelare la tenerezza del mio cuore, li ho passati negli ospedali di Parigi, accanto ai malati. Là ho visto la Miseria, il Dolore, il Contagio, la Febbre, l’Operazione tinta di sangue, il Delirio, il Rantolo e l’Angoscia vegliare al capezzale del povero. Ed io che sono un uomo, e anche un medico, ho sentito spesso i miei occhi riempirsi di lacrime, e la mia gola di singhiozzi. Attorno a questi sfortunati che il male storce, ho visto il peggiore dei mali; ho visto svolazzare il nero sciame di queste vespe, che per crudele antifrasi, si chiamano madri e sorelle!

L’opera di distruzione che il medico comincia con il coltello, che la malattia continua con i suoi denti di sega, esse la completano a colpi di spillo ripetuti a ogni ora. In questi neri asili della sofferenza esse hanno stabilito l’intollerabile dittatura del bigottismo e troneggiano, beate, in mezzo alle lacrime, su crocifissi di ebano e d’argento. Più impassibili delle reliquie, esse vanno e vengono mille volte al giorno, da un punto all’altro del loro impero, cercando con tutti i mezzi, con tutte le violenze, il loro carico di anime per l’eternità. Sono una polizia che insegue le sue vittime, eccitano l’Impazienza, irritano la Collera, frustano l’Agonia, indirizzano il male contro il male; dispongono di un arsenale di torture per strappare confessioni, Credo, Pater e Confiteor.

Esse sanno approfittare dei parossismi dell’angoscia e del delirio. Al pauroso: “Tu morirai”, dicono, “se tu non ti confessi. – Farò mancare a tuo figlio l’istruzione, a tua figlia il lavoro, a tua moglie il pane, gridano fino in fondo al cuore dello sventurato padre di famiglia, se tu non ti confessi. – L’inferno ti prenderà fra le sue tenaglie dentate, le sue graticole, le sue spade e le sue fiamme crudeli, ripetono a sazietà al povero di spirito, se tu non ti confessi. – Vuoi pane, carne bollita, vino fortificante, la vita, la resurrezione? Chiedono a quest’altro sfibrato da una grave operazione… Confessati! – Vedi le mie braccia bianche, i miei capelli folti, e sotto il mio velo nero i miei occhi, i miei belli occhi blu! Vuoi tutto ciò? Vuoi la mia amicizia, il mio ricordo, la mia tenerezza, i miei favori, il mio amore? mormorano dolcemente all’orecchio del giovane poeta… Confessati! – E tu che rifiuti le parole, il corpo e il sangue di un Dio morto per noi, miserabile peccatore, indurito nella impenitenza finale, non curerò le tue ferite, non cambierò le lenzuola del tuo letto, non ti darò la pozione che potrebbe salvarti. I medici sono assenti, è notte; tra noi e l’eternità non c’è che una lampada il cui olio è quasi finito; la Morte è la mia serva e io sono la sua amante… Confessati!”.

… Ho passato un anno di ineffabile amore all’ospedale dei bambini piccoli. Oh come li amavo! Come ero avido delle loro carezze! Felice di cullarli, di giocare con i loro capelli, di lavare le loro piaghe, di annunciare alle loro madri che la salute ritornava sulle loro guance!

Ebbene! anche presso questi sfortunati bambini c’era la compassata, l’implacabile, la fredda religiosa, rigida, secca come la tibia di un santo, Furia, Vendetta in veste nera e cuffia! E quanto facevano soffrire questi poveri piccoli esseri, le miserabili bigotte!

Lasciavano che chiedessero per ore un cucchiaio di sciroppo, una goccia di tisana rinfrescante; impedivano agli infermieri di distoglierle dai loro santi cantici per andare da essi, restavano sorde ai loro singhiozzi, alle loro voci che venivano meno che dicevano dolcemente: “Madre, amata e buona madre! Ho sete, molta sete, sto morendo… oh datemi dell’acqua” – “Noi salviamo la nostra anima, rispondevano, che Dio salvi il tuo corpo!”.

E in un angolo della sala dei più piccoli, avevano fatto disegnare un grande occhio aperto, abominevole, sporco di sangue, con larghe ciglia crespe. E simulavano spavento, fissavano quest’occhio e dicevano al povero bambino malato: “guarda, piange, digrigna i denti, piccolo miserabile, Dio ti vede e conosce tutti i tuoi peccati; e lui che ti fa soffrire: la sofferenza è santa!”.

E quando i bambini amandole tendevano loro le braccia: “Ci è vietato di amare, rispondevano. Non vi vergognate di volerci abbracciare? L’amore è un crimine!”.

Fremevo e piangevo, e amavo mille volte di più la balia che mi dava il suo latte, che batteva i poveri bambini in assenza dei genitori!

E quando la Domenica, le madri venivano, pietose, all’ospedale, le facevano mendicare a lungo la vista dei loro piccoli. E quando alla fine lasciavano abbracciare alle madri i bambini malati, era solo sotto la stretta sorveglianza e lo sguardo dolce-amaro di qualcuno di loro. Religiose del buon Dio, che segreti pericolosissimi una madre afflitta può confidare al suo bimbo che soffre?!

… E l’amministrazione dagli artigli di avvoltoio, dagli occhi di lince, l’amministrazione imbrogliona che si dice benefattrice e per la quale medicina, religione, rispetto umano, amore del simile, pietà, non sono altro che parole, oggetti di speculazione e di traffico, l’amministrazione che vuole vivere e morire in odore di santità, asseconda con tutto il suo potere lo zelo omicida delle religiose!

Lo credereste? L’Ufficio centrale degli Ospedali accorda tutti gli anni un premio al direttore e al farmacista dello stabilimento nel quale si spende il meno possibile per il vitto e i medicinali. Ed è il direttore della Salpétrière dove ci sono solo donne vecchie e pazze, e il farmacista dei Bambini malati che sono, a memoria d’uomo, i laureati di questo nuovo premio Montyon. Le donne, i bambini e i vecchi, i più deboli, i più vicini alla culla, alla tomba, sono sempre sacrificati!

(Avrei da segnalare ben altri abusi altrettanto barbari che si commettono negli ospedali di Parigi, che nessun medico osa rivelare. Spero di poterlo fare quando ne avrò il tempo.

Sii benedetto, Cristo! che mi hai permesso di vedere come erano torturati i tuoi beneamati. Dato che io non sono carico né di onori né di ricchezze, come lo sono i prìncipi della scienza, ho nelle mani e nella lingua meno esitazione di essi.

E farei arrossire il ricco dell’ipocrisia delle sue elemosine, e il povero della profondità della sua umiliazione!

E spero nella Giustizia che finirò per commuovere l’opinione di coloro che verranno dopo di noi e che vedranno meglio!).

… Le religiose, queste ragazze senza amanti! Si pretendono spose di Cristo, il più amorevole degli uomini, e per dodici anni, nella prigione centrale di Montpellier, non hano mai smesso di torturare Marie Capelle, la più amorevole delle donne! Oh, mai Cristo avrebbe consentito a depositare un bacio sulla fronte di una figlia del Papa; avrebbe avuto paura di diventare insensibile all’amore accostandosi alle statue che si erigono sulle tombe!

Loro dovevano perseguire la signora Lafarge con tutto l’odio che avevano verso il mondo; dovevano essere devotamente implacabili, bigottamente feroci contro di lei; dovevano finirla. Perché questa donna personificava tutto quello che esse aborrono, la distinzione e l’intelligenza delle classi superiori; lei era ancora umida di baci, ancora odorosa dell’inebriante sentore del lusso e delle gioie della vita; respirava l’amore, il sentimento, il genio! Il mondo era pieno dello scalpore del suo caso, delle peripezie del suo grande dramma, e di questo irresistibile ascendente morale che le conciliava le più alte simpatie e sostegni a tutta prova, come non ce ne saranno più in questo secolo. Come potevano perdonarglielo?

In mezzo al silenzio della notte, l’immagine di Marie Capelle appariva così grande, a queste monache tremanti, le agitava talmente, che sollevava nel loro spirito terribili dubbi. Le beate restavano affascinate, e si irritavano, e non osavano ammettere il perché! Non erano più del tutto immerse nei loro meschini intrighi, nelle loro nere vendette, nelle loro monotone preghiere, nei loro esercizi inebetenti, pensavano alla loro prigioniera e sentivano quanto la donna che ama può essere superiore alle altre.

Spesso sognavano di essere seppellite, vive, nei lenzuoli delle loro ali, crisalidi senza speranza, e che la morte al mondo avrebbe potuto un giorno alzarsi, radiosa, dalla sua tomba di pietra. La vedevano con dispetto più libera di loro, con nell’anima una sorta di misticismo, di indipendenza della ragione; mentre le loro allucinazioni, il loro misticismo proveniva dalla paura dell’Irrivelato.

La detenuta, nella sua cella, restava libera nel suo essere sensibile, loro che percorrevano in lungo e in largo la prigione non potevano tuttavia staccare il pensiero dai grani del rosario, erano incastonate, a vita, per dei voti e statuti contro natura. Dovevano alla superiora obbedienza passiva, e non per amicizia; dovevano rispetto al direttore delle loro coscienze, non per amore, svolgevano infine nei riguardi dei malati, dei prigionieri, dei compiti, non delle cure. Se erano sante e inviolabili per la religione, Marie Capelle lo era per il cuore, il talento e lo splendore della sua caduta. E la meschina gelosia di religiose non saprà mai dimenticare l’oppressione in cui teneva una incontestabile grandezza!

… I preti, gli esseri in apparenza maschi che il Papa trapianta negli uomini per la gloria dell’Altissimo, fanno a gara in ardore con le religiose. Vigliaccamente frugano con i loro zoccoli di mulo nelle viscere della donna caduta. E dall’alto delle loro cattedre evangeliche, la segnalano all’avversione dei loro fratelli come anima dannata, vaso di corruzione o di lussuria, avvelenata prima dal romanticismo dell’epoca e poi avvelenatrice… È così che compiono fra noi la loro missione di pace e d’amore!

Voi la cui carne è debole e il cuore forte, uomini di sentimento e di sensi, diffidate di coloro che fanno voti di castità, diffidate di coloro che non conoscono l’amore! Non sono puri…

…La signora Lafarge comprendeva bene questo mondo occulto dei religiosi: “Là (nei conventi), scriveva, c’è chi attira il mondo fuggendolo, chi lo canta piangendolo; chi lo cerca evitandolo; chi lo sa dimenticandolo; chi lo dimentica ricordandolo”.

Oh per una donna molto donna, doveva essere uno spaventevole supplizio subire il contatto di quelle che non lo sono per niente, di non sentire che loro, di non ricevere alcuno se non la loro presenza, di essere sommersa dell’odore nauseante che si portano dietro, di sentirsi penetrare nel vivo della sua anima dalle loro allusioni strazianti, dai loro sarcasmi sanguinosi e dalle loro fredde censure; del loro parlare di sacrificio e di amore, girando le sacre pagine dei loro sporchi messali! E ci sono migliaia di donne deboli e sensibili nelle prigioni che soffrono ciò che ha sofferto Marie Capelle!

Splendente Avvenire! spazza, trascina via, divora nelle tue onde di fuoco il vecchio Cattolicesimo, i suoi preti, le sue religiose, le sue monache; i papisti, i pappafichi, i papimani, i papirussi: i grassi e i magri, i bigotti e gli immondi, i barbuti e i tonti, i tappi e gli scalzi; tutti quelli che fanno vivere, tutti quelli che fanno morire! – Hallali!!


L’Avvenire porterà l’ascia e la torcia fino alle fondamenta delle prigioni! – Dimenticate dalla legge, cellule cadute dove uomini afferrano, vivi, altri uomini loro simili!

Là, tutto è solitudine, silenzio, spavento e freddo. Dove si sentono voci sono quelle dell’inquisitore e della sua vittima che si levano, tormentate ambedue, verso l’eterno tribunale del tempo. Così la fiamma che divora e la cenere che porta via nel suo vestito scarlatto!

Il prigioniero è la cosa della legge, il giocattolo della polizia; nelle mani del direttore e del guardiano è come il topo nelle grinfie del gatto vorace!

Là, il più libero sbatte la fronte su quattro mura di pietra; il più appassionato si separa dal suo amico; il più attivo si ritrae dalla vita come un membro inutile. Là, al più robusto manca l’aria, lo spazio e il pane; la vista delle acque, dei cieli, delle fiamme e delle montagne è impedita al poeta. Là, il più alto dovrà curvarsi sotto la porta di entrata; là, il più nobile vedrà il suo fianco sanguinare sotto le punture di spillo… Mai Prometeo ha tanto sofferto!

Là, tutto è interpretato, spiato, sorpreso, incriminato: i passi, i sospiri, la tosse, lo sguardo, il gesto, la parola, il sonno, il delirio e il sogno. Le lacrime brucianti ammorbidiscono la polvere, ossidano i chiavistelli, cadono sulla pietra e la riscaldano; ma giammai addolciscono il cuore d’un guardiano.

È là che si è guardati a doppia vista, chiusi con triplice serratura, inchiodati a quadruplice catena, a quintuplice inferriata isolati. È là che aprono le vostre lettere, che perquisiscono i vostri amici, vostra moglie; che si analizzano gli alimenti, l’acqua, i medicinali che vi guariscono, la penna e la carta che traducono i vostri pensieri.

È là che si insulta, che si tradisce, che si vende e rivende l’infelicità; là che si fanno sanguinare senza misericordia tutte le cicatrici. È là che bisogna respirare la stessa aria della più ignobile polizia; là che il più ignorante e vigliacco ha il potere di interrogare, rimproverare, punire i più intelligenti e i più forti fra gli uomini.

L’autorità sa scegliere bene i torturatori delle prigioni. Li prende in mezzo ai rinnegati politici e ai forzati liberati. Non cerca nemmeno di provare con quelli che sa capaci di coraggiose rivendicazioni, ma blandisce i cattivi ladroni di cui ha pesato gli odi, misurato le zanne, assaggiato la bile amara. Non tende le sue trappole al passaggio dei lupi che vogliono restare magri, ma si rivolge ai molossi che domandano solo di riempirsi il ventre e di ubbidire a un padrone abbaiando.

Quelli che hanno guadagnato gli speroni nelle opere più basse; quelli che hanno raccolto nel concime le decorazioni che il potere vi semina, quelli la cui fronte non arrossisce, quelli che hanno indossato tutti i vecchi indumenti dell’infamia, quelli la cui anima è morta giurando, congiurando, spergiurando, supplicando, tradendo… tutti costoro sono i moralissimi angeli guardiani delle prigioni!

Varie all’infinito sono le torture dei dannati nelle fosse comuni scavate per loro dalle unghie della Giustizia. Oh, tutto il mondo governativo ha molta più immaginazione di Dante quando si tratta di fare soffrire!

… Il primo supplizio che si prova, è la degradante promiscuità della cella. Là sono ammassati dieci o quindici uomini il cui fiato si rarefa, i cui movimenti si infastidiscono, i cui caratteri, opinioni e tendenze si scontrano continuamente. Tutto è ben calcolato per dividere le anime comprimendo i corpi.

Al fine che il moralissimo e paternalissimo potere possa dire ai borghesi imbecilli: “Vedete come si amano! Sono loro tuttavia di cui vi predicano la scienza sociale e la fraternità! Che farebbero se li lasciassimo scatenati nel mezzo delle pazienti società?”. E i borghesi si illuminano di allegrezza, come zucche al sole: “Viva la Repubblica! Viva i fratelli e amici!”, gridano fregandosi le mani.

– Ah miserabili, ignoranti e vigliacchi, il cui pensiero non si arresta mai su un problema di onore, di dignità, di coscienza, di libertà, di storia, di armonia, di avvenire! Non sapete dunque che l’Idea va avanti sbranando il seno che la porta? Ignorate quindi che gli apostoli di tutte le rivelazioni non furono mai d’accordo? Riuscirete alla fine a comprendere che essi non potevano mostrarsi soddisfatti, unanimi, come lo siete voi sempre, il loro pensiero sarebbe morto e le loro labbra sfiorite?

Vi sbalordite che una società di prigionieri o di proscritti, ristretta di numero, monotona di aspirazioni, privata di occupazioni attive, decimata dalla miseria e dalle pene, sia obbligatoriamente divisa! Siete sorpresi che uomini che non sono più liberi se non nelle proprie anime, si ostinano nella religione delle loro anime! Loro ci tengono, loro, come voi tenete ai vostri risparmi, perché le loro idee sono le sementi che gettano ai venti dell’avvenire, e i vostri risparmi sono i prodotti che voi rapinate all’umanità nei secoli dei secoli.

Vorrei vedere un poco come sareste d’accordo in prigione, voi che tuttavia non avete niente da negare nel passato, niente da distruggere nel presente, niente, assolutamente niente da desiderare nell’avvenire; voi che vivete tranquilli, nel rispettabile codice dell’angelico Abele, il primo dei curati, il ceppo fecondo dei proprietari. Un bel libro, in fede mia, con intagli in oro, con chiusura in argento, arricchito da Giustiniano e da Napoleone-il-corso, due despoti gloriosi ancora per poco tempo.

Ma che vado cercando, mezzogiorno alle quattordici? Non ho bisogno di osservarvi a Clichy per farmi un’idea della vostra concordia, oh Civilizzati onestissimi! È sulle concretezze che vi porto a malincuore, un edificio molto più tetro, molto più immorale, molto più ingombro delle prigioni di criminali e ricettatori, è la Borsa dove vi si lascia liberi come ladroni in fiera, praticando, trafficando, facendo i vostri piani con la protezione della Legge. Oh, come sono commoventi in verità la probità-modello, la dolce amenità, l’amabilissima associazione dei fratelli e degli amici di Agio!… Ne piango, ma di rabbia. E il mio cuore è gonfio e spinge fiotti di sangue nel mio cervello! –

… Quando i prigionieri resistono a questa prima prova, spaventoso saggio di comunismo governativo e moralizzatore, li si rinserra ermeticamente in una cella dove la Solitudine è loro compagna, e l’Incubo, il loro compagno notturno!

… E quando resistono ancora, gli si rapisce la vista delle nuvole che passano, la brezza fresca delle mattinate e delle sere, la vista dell’uccello canterino, quella del topo e del ragno che consolano i coatti di Plessis-le-Tours, di Chillon e della Bastille. Si invidiano i tristi lauri di Olivier-le-Daim, di esecrabile memoria, e di compare Tristan! Si è più sciacalli, ma anche più volpi di Luigi XI, il vecchio gottoso che prendeva tabacco!

… E quando tutte queste torture non bastano, si gettano i prigionieri in stretti sotterranei, in scatole di pietra, la testa in miasmi infetti, i piedi nei propri escrementi, senza altra distrazione che il rumore del proprio cuore. – O vendetta, Vendetta! ti amo sveglia, ruggente, alterata, estesa dappertutto, battente con la tua coda tigrata le lastre delle galere!

… E quando il loro cuore parla ancora, li si priva di cibo, d’acqua, del sonno benefattore. Si cerca di domarli con gli stessi procedimenti che si impiegano contro i re dei deserti, diventati loro schiavi, i miserabili saltimbanchi di serraglio. È allora che i guardiani si mettono in molti per ridurli all’impotenza, gli serrano il collo, il nodo delle cravatte, li strangolano sotto i loro piedi di rettili, o li avvelenano con il loro pungiglione di insetti velenosi. – Quando un uomo libero è sbattuto, mutilato del suo futuro, nella sua persona e nel suo onore, non può più vivere che per amarti, Vendetta la Bella, che guarisce i morsi subiti dalle anime.

In prigione, la più grossa catena tocca al più indipendente; la cella isolata al più sociale, al più riflessivo la promiscuità, al più studioso impediscono di lavorare; al più innamorato le visite di sua moglie e dei suoi bambini.

Al contrario, per gli idioti, i traditori e i vigliacchi, c’è la carne, il vino e i liquori da strangolare tutti i mercenari di Francia. La prigione è indulgente solo con colui che cammina sulla propria dignità; non è favorevole che all’essere che diventa sordo al grido della coscienza, essa tratta come animali tutti quelli che si rammentano della propria dignità di uomini.

– E se domandassi alla società dei primi occupanti in nome di quale diritto irrevocabile, incontestabile, assoluto, sacro, essa condanna, disonora, sfiorisce, tortura, rinchiude e raccorcia gli uomini che, privi di ogni mezzo di esistenza, rivendicano ininterrottamente contro i loro espropriatori: se domandassi… Essa balbetterebbe, si turberebbe, si arrabbierebbe, e sulle sue piazze pubbliche, sotto il sole assassino, allineerebbe i suoi cannoni sonori!

Ma che tempesti, deliri, schiumi, ecceda fin quando riuscirà a farlo, la forza non è ragione, e mai nessuno rifiuterà i principi del Diritto di vivere come l’ho posto nell’apoteosi del glorioso Montcharmont. Haeret lateri lethalis arundo! [Il dardo mortale resti attaccato al suo fianco!, Virgilio, Eneide, IV, 73, n. d. t.]. Fin quando ci sarà nel mondo un solo diseredato, un solo prigioniero, una sola esecuzione a morte, le società barcolleranno sugli abissi ricoperti a malapena dalle pagine del codice, scivolose a causa del sangue! –

… E quanto si soffre di più nella detenzione perpetua, “la prigione che ha per soglia solo una tomba!”. Questa notte eterna popolata di spettri e di terrori, dove gemeva la povera morta, gridando: “Terra che piangi il tuo sole, guardami, io piango la mia vita che non ha la speranza di un domani!”.

La detenzione perpetua! tenebre senza aurora, inverno senza primavera, nera pioggia senza arcobaleno, rocce senza sorgenti, pietra tombale che ricopre un’anima che tutti rinnegano come sorella della loro anima! – Giaciglio di cocci di bottiglia dove si lamentava Montezuma! – Trappola a giorno per topi, praticata sotto l’occhio della polizia, dove s’impazientisce Blanqui! – Morte cronica per fare desiderare la morte acutizzata dalla forca, e che ispira i seguenti supremi pensieri:

“È una dolce cosa il sonno che ci riposa della vita senza farci cessare di vivere, è una cosa divina la morte che ci riposa della vita senza farci cessare di essere”.

“Soffriamo molto a morire? Meno, ne sono sicuro, di quanto si soffre a vivere. Una volta avevo paura della Morte e la trattavo come un nemico; oggi la sogno sorridente e dolce, e la chiamo a bassa voce la Liberatrice. Sento che la sua eternità non spezza che le nostre catene; sento che il suo freddo bacio addormenta più dolori di quanto non spenga gioie”.

“Delle mie visioni fantastiche, ce n’è una sola che amo ed è quella che voglio dire: la mia cella prende l’aspetto di una tomba, e di colpo la tomba s’illumina sotto la forma radiosa di una culla. Questa immagine è dolcissima! Ogni volta che mi appare vorrei trattenerla; ma appena mi ha sorriso essa scompare come un sogno, portando via l’emblema toccante della sua sublime verità”.

… L’anima dei carcerieri è più nera di quegli oscuri abissi dove mai penetrano né un raggio di sole né la goccia d’acqua satura del profumo dei fiori. Essi non si accontentano, gatti selvatici, di imbalsamare l’anima di una donna nel sepolcro dell’inferno; essi la spiano ancora in tutti gli atti della sua vita, l’accusano ogni giorno di crimini immaginari: di seduzione e di assunzione, di tentativi di evasione e di assassinio, di intrighi di amore a distanza. Quante volte la signora Lafarge fu vittima dalle loro denunce interessate!

Direi a questa gente: “Prendete una lancetta scheggiata; andate tutte le notti a fare sanguinare le quattro vene di questa povera donna che sta morendo. E avanzerete di grado, ingrandirete, ingrasserete con il suo sangue”. Lo farebbero, andrebbero, credetemi, senza esitare più dei dottori in medicina!

… E direi ai giornalisti, i peggiori fra i carnefici: “Ecco dell’inchiostro rosso e una penna di ferro. Andate, troverete in una segreta senza luce e senza fuoco una donna che si torce le mani nell’angoscia. Inciderete sulla pelle della sua fronte un articolo di ingiurie; domanderete la sua morte, o almeno il raddoppio delle sue torture. Così vi farete conoscere dal popolo per buoni cittadini, difensori della sana morale e della sacrosanta famiglia. E il popolo si ricorderà di voi quando avrà da nominare dei rappresentanti”… Essi lo faranno, andranno, credetelo, se questa povera donna non avrà a proteggerla contro di loro né partito né ricchezze.

Non conosco nulla che si prostituisca di più di un giornalista, niente di più insolente con i piccoli, di leccapiedi con i grandi, di più ipocrita delle sue parole, di più mendicante nei propri atti, di poliziesco nello sguardo. Entrerei nei palazzi e anche nelle case dalle insegne vivaci; ma nella redazione di un giornale, per farvi qualsiasi cosa… mai!

Gli avvocati del debole, i difensori della vedova e dell’orfano – i redattori del “National” e de “La Riforme” – ebbero tuttavia la vigliaccheria di rimproverare al governo di Luigi-Filippo le attenzioni eccezionali di cui era circondata la detenuta di Montpellier!

E quando possedettero le chiavi delle casematte e le ancore dei pontoni, nel 1848, ci mostrarono quali perfezionamenti erano capaci di introdurre nel trattamento delle malattie morali. – O vittime inappagate delle nostre sanguinose giornate, ricordatevi, ricordatevi, nel giorno della liberazione, di sotterrare viva la Stampa sotto una montagna di pavé.

Splendente Avvenire! spazza, trascina via, divora nelle tue onde di fuoco prigioni, bagni, pontoni, carcerieri, carnefici, spie e giornalisti, neri, bianchi, rossi e tricolori, mascherati e a viso aperto! E forse, una buona volta, il ballo infame della corruzione finirà. – Hallali!!

IV

Quando era una ragazza, bella e spensierata, amava la primavera, i prati verdeggianti, i liberi fiori dei campi, i gruppi di uccelli gioiosi, l’immagine rossa del sole nei ruscelli scroscianti. Ascoltava il boscaiolo sotto la fustaia, il battelliere sulla sua barca, il cacciatore dalla voce sonora, il cavaliere al galoppo, e nelle brughiere i gruppi erranti degli zingari. – Lei amava tutto quello che parlava, respirava Libertà!

E tuttavia la prigione l’attendeva, la prigione triste e tetra dove non si vede né il cielo blu né vegetazione né faccia umana né bellezza di fisionomia né franchezza di cuore, la prigione in cui la Tirannia e la Sofferenza sorvegliano reciprocamente la loro magrezza.

… Così gioca il Destino, il destino omicida! La libertà non è cantata che in ceppi!


Lei si accostava a coloro che il mondo respinge, si chinava verso coloro che il mondo abbassa, e con ambo le mani si sforzava di sollevarli. Amava il povero che fa arrossire il ricco; il mendicante che la miseria rende ozioso come l’altro opulente; il vecchio domestico che bacia con rispetto la mano che l’opprime; l’esiliato, cittadino del mondo; gli orfani, gli ignoranti, i lavoratori: tutti quelli che comprendono il diritto linguaggio della Giustizia.

E tuttavia i giudicanti l’attendevano, i giudicanti sordi, testardi e barbari che la società paga per conservare ai ricchi l’eredità della forza, il bottino di guerra, il prezzo del sangue e i sudori di tutti.

… Così gioca il Destino, il destino omicida! La libertà non è cantata che in ceppi!


Quando gli fu dato marito, scontenta della sua situazione, senza speranza sulla terra, in una ristretta cerchia, vicina a un uomo d’affari, lei guardava al di là delle muraglie del presente con i grandi occhi del suo spirito; dominava l’insieme delle società, dei tempi e degli spazi. Amava i libri, buoni e belli, la storia che canta il passato, la contemplazione che fa la posta all’avvenire; fu poetessa, filosofa e profetessa, capì tutto quello che sognava. Seppe concentrare per qualche tempo l’ammirazione del gran mondo, la banalità dei suoi elogi e l’ipocrisia delle sue carezze feline.

E tuttavia l’Obbrobrio l’attendeva, e lo Sdegno che sibila, e l’Isolamento che s’appoggia sulle sue code anchilosate, e il Disprezzo che misura da capo a piede le sue vittime! Era sensibile e delicata; bisognava che fosse mille volte ferita, mille volte uccisa per conoscere il valore delle amicizie facili.

… Così gioca il Destino, il destino omicida! La Franchezza spinge le sue radici nel suolo delle società fangose. La Verità è calva di dietro, bisogna afferrarla per i capelli che ha davanti. Coloro che ragionano soltanto sul presente e sul passato restano sempre ciechi. L’uomo vede chiaro soltanto nell’avvenire. Solo i profeti dicono il vero. L’interesse rende ciechi di un occhio gli altri.


Quando fu in prigione intinse la penna nel suo sudore di sangue e scrisse un libro sublime, Heures de prison, ma non sarà compreso ai giorni nostri. Lei ha amato tanto da riuscire a perdonare ai suoi accusatori, ai suoi parenti, ai suoi giudici, ai suoi gendarmi, ai suoi carcerieri, ai prefetti, ai medici, ai torturatori, che di tanto in tanto l’andavano a trovare per finirla, alla feroce moltitudine infine che chiedeva la sua morte!

E tuttavia i suoi carnefici la finivano, la uccidevano giorno per giorno, la rompevano a pezzetti, la usuravano col male cronico che dissolve l’essere, lo consuma senza mai ricostituirlo, che si chiama Dolore, Dolore!

… Così gioca il Destino, il destino omicida! La Sofferenza perdona la Crudeltà, il cane lecca il braccio che lo colpisce, il Martire perdona la Persecuzione. I giusti sono sufficientemente forti da mostrarsi indulgenti!


“L’oppresso può perdonare all’oppressore. L’oppressore, lui, non perdona mai all’oppresso. È il suo rimorso vivente; è il grido che l’accusa; più ancora, è il perdono che lo schiaccia sotto la sua elemosina di pietà”.

Così diceva colei che seppe perdonare alla muta abominevole che la mordeva al cuore!

Vani scalpori del mondo, opinioni pettegole, governi inquisitoriali, ah non potete nulla contro l’essere superiore che vi svergogna col suo sdegno! E che, ritiratosi nella sua anima fiera, vi guarda tormentare il suo corpo come se fosse assente!

… Così gioca il Destino, il destino omicida! Il vero torturato, è quello che tortura!


Quando le si faceva indossare la triste livrea dei prigionieri a vita; quando si murava la finestra della sua cella; quando si faceva attorno a lei la tomba e il niente; quando lei sentiva la mano della morte battere sulle sue spalle magre; quando aveva paura dell’ipocondria, dei mostruosi idiotismi, delle mille debolezze delle grandi anime…

Allora, lei si rifugiava piangendo nei ricordi della sua felice gioventù, nelle infinite aspirazioni verso il migliore dei mondi!…

Allora, lei amava tutto quello che le ricordava il movimento degli esseri, felice di conservarsi. Quando la sorella della sua anima entrava nella prigione, beveva il suo fiato profumato dalla brezza; cercava sulle sue gote i freddi baci dell’inverno e le carezze ardenti del sole primaverile…

Allora, lei amava ancora di più la natura, l’avvenire, la vita, la libertà, i bei giorni d’autunno, le notti pallide, lo stagno increspato dalla tempesta, la foresta mormorante.

Il canto della capinera fra i biancospini, il volo della rondine sulle onde spumeggianti, le lacrime della rugiada nella corolla dei gigli, l’edera sulle croci dei morti, la campana della chiesa, la tromba del pastore, l’abbaiare dei cani, il rumore dei remi nell’onda, e sui monti lontani, la detonazione dell’arma del cacciatore.

Allora, lei amava la terra e il mare, la sabbia e l’onda che nel corso degli anni si disputano una parte del bagnasciuga, le ninfee d’argento e d’oro, i verdi aghi dei giunchi, la Bretagna, l’Alsazia “la sua cara e robusta Piccardia che, con la testa coronata di querce, lascia fluttuare al vento il suo mantello di spighe dai grani d’oro”.

Allora, gridava: “Amo i rumori decrescenti del lavoro e le dolci armonie del riposo; amo gli strilli dei bambini incolonnati due a due al ritorno da scuola; amo il canto dell’operaio che esce contento dalla sua fabbrica, e il fischio del noncurante vignaiolo seduto, come un re d’Yvetot, in groppa al suo asino; amo infine i passi cadenzati dei nostri bravi minatori riguadagnanti contenti il quartiere dei dormitori”.

… Così gioca il Destino, il destino omicida! Mai il rude lavoratore troverà per cantare la natura i sublimi accenti del poeta prigioniero. Ma la vita ci parrà più sorridente, più fresca di colori e di salute che sull’orlo delle tombe. L’uomo è felice e grande solo nelle sue aspirazioni. I cieli sono sopra la sua testa, e sotto i suoi piedi i rovi e i sassi del cammino. A ogni passo urta il funzionario, il soldato arrogante, il prete che trascina il suo lutto profondo, lo schiavo imbecille, i giudici chini nella polvere, i re, questi straccivendoli bisognosi, che immergono corone d’occasione nelle miniere d’oro del sangue!

Oh terra, oh corpo d’argilla, oh mia prigione stretta, tu divori la mia anima come la tunica del centauro che l’amore rendeva folle! Il secolo che viene mi attira come un’amante, il secolo presente mi trattiene come una morsa di platino. L’esplosione del mio cuore fa andare in frantumi il mio corpo così come la polvere pirica disperde nell’aria le sbarre degli arsenali.

… Così gioca il Destino, il destino omicida!

V

Ritorno sui miei passi nella lunga strada della vita. A cinque anni di distanza, incontro un corpo bagnato dalle lacrime di sangue, è il cadavere di Marie Capelle!

Questa donna non si è spenta, è stata violentemente distrutta: la sua morte è opera umana.

L’assassinio è incontestabile, incontestato. Chi l’ha commesso? Lei o le altre? È lei assassina o vittima? Bisogna condannarla o compiangerla? –

Informo…


Davanti a me compaiono due donne:

L’una carica di anni e di delitti, scavata di cicatrici e rughe: orribile a vedersi; impudente, tuttavia impunita, venerata per i suoi onori e i suoi titoli, risplendenti d’acciaio e d’oro, circondata di pretoriani, di potenti difensori. – È la società.

L’altra giovane, bella, fresca d’illusioni e d’amore, vestita di nero, curva sotto l’accusa di un crimine spaventoso, indegno, messa sotto i piedi, sopraffatta dal numero, assillata da ricchi accusatori e da giudici senza responsabilità. – È la signora Lafarge.

Di queste due donne, una è colpevole. Voglio sapere quale…


Nel XVII secolo, nella ricca Inghilterra, una creatura implacabile, la più fortunata delle regine, sacrificò vigliaccamente alla sua fredda gelosia, un’altra donna, un’altra regina il cui gran cuore aveva conosciuto l’amore, la sfortunata Maria Stuarda!

Tutte le dignità, tutte le ricchezze, tutte le conquiste caratteristiche dell’ambiziosa Elisabetta furono impotenti a placare la sua coscienza, a ristabilire la sua memoria. Morì di tristezza e di rimorsi. E ora il suo nome vuole dire odio, insensibilità!

E tuttavia nessuna voce si levò contro la sua sentenza suprema, quando lei lasciò che si espandesse sulla carta la fatale goccia d’inchiostro che doveva fare diffondere puri fiotti di sangue.

Che quelli che hanno giudizio facciano il paragone! Che quelli che hanno cuore piangano le giovani vittime e maledicano i vecchi assassini! Che quelli che hanno orecchie le prestino alle mie parole.

Perché io raccolgo i resti dei torturatori. Voglio imbalsamarli in pace, voglio fare smettere gli urli di rabbia che neanche la pietra dell’oblio può schiacciare, la pietra che sigilla le fosse.

Porto nel mio braccio il lenzuolo bianco del perdono, ma non seppellirei Marie Capelle senza dare una risposta alla sua anima gemente che domanda giustizia e riparazione!


Ha avvelenato suo marito, questa donna?

Non lo so, non posso saperlo, non ne ho bisogno. Ci sono quaggiù misteri così formidabili che nessuno sguardo può subito penetrarvi le tenebre.

Al suo sorgere, il Sole non rischiara che la cima dei monti. La Morte, che scopre tutto, è molto lenta nel distruggere i vestiti e i tessuti che nascondono il nostro cuore. Il Tempo è stanchissimo, pesante nella corsa. La Verità si vela la faccia, per pudore, davanti alle iniquità civilizzate.

Si mediti su tutto ciò; si pensi ai miserabili errori dei mortali più saggi! E che si alzi colui che osa affermare che nel momento in cui scrivo, l’innocenza di Marie Capelle non brucia la coscienza del vero avvelenatore del signor Lafarge!

Di fronte al giudizio di un pugno di borghesi censitari io mi appello al tribunale dell’Avvenire. E sono sicuro che esso depositerà su questa testa sacrificata la doppia e radiosa corona della gloria e dell’amore.

Ho già provato da qualche parte [I giorni dell’esilio, primo volume, Montcharmont] che gli uomini non hanno il diritto di impadronirsi dell’esistenza o della libertà di nessuno. Non vi ritornerò. Voglio solo domandare ai giudici della signora Lafarge se potevano stabilire la sua colpevolezza su prove incontestabili? E se non potevano, gli griderei in faccia la voce dell’eterna giustizia: Perché dunque l’avete condannata? In quale inferno siete oggi? Chi vi trarrà fuori dall’impiccio del sangue ormai cagliato, dall’abisso dello zolfo e del carbone? Che avete fatto dell’anima di una donna? E come pulirete le vostre memorie detestate da questo verdetto?…


A ogni crimine necessitano motivi molto imperiosi per concretizzarsi nello spirito del colpevole, contro la paura della legge, l’orrore che gli ispirano i suoi stessi propositi. – Ora quali motivi talmente potenti, talmente inesorabili poteva avere la signora Lafarge per avvelenare questo bravo limosino che gli serviva da sposo e che non chiedeva altro che vivere? Ma un cuoco soffre nel vedere sanguinare un pollo; e questa donna non ha tremato, non ha fatto un passo indietro di spavento davanti alla morte di un uomo! Lei ha raffreddato il suo cuore; ha fatto dell’arte per l’arte! – Lo nego.

Voi dite che lei bramava la fortuna di suo marito, che era stanca della coabitazione, che amava un altro. E questi sono giudici, gente del gran mondo, che reclamano la testa su simili prove morali!

Tuttavia non vi è permesso di ignorare, Signori del Tribunale, istrioni da interrogatorio, che se il matrimonio non esistesse, le donne galanti l’inventerebbero alfine di avere maggiore libertà nei loro amori. E la scaltra, impudente, snaturata, ipocrita per eccellenza, signora Lafarge, sarebbe stata tanto ingenua da bruciare lo stomaco del comodo paravento costituito da suo marito, quando è così naturale e così benaccetto divertirsi del disonore degli uomini! – Lo nego.

Sapete altrettanto bene, per esperienza, quanto facilmente le donne si sottraggono alla frequentazione degli uomini che aborrono. Con sei notti di indisposizione e sei giorni di disprezzo, ecco fatto, non hanno che da aggrottare le sopracciglia e di girarsi dall’altra parte. Ah, se fosse indispensabile ricorrere all’arsenico per bilanciare il giogo coniugale, ti benedirei, divina sostanza! Perché pronta e severa giustizia sarebbe fatta di tutti gli assassini legali che si sposano e stancano le tenere moglie dei rimorsi delle loro notti!

Sapete infine, sempre per esperienza, come le donne approfittano della tenerezza dei ricchi, soprattutto dei più avari, per spillare loro tutto quello che desiderano. Vivente, il signor Lafarge era la vacca da latte di Marie Cappelle; morto di veleno, diventava la gallina dalle uova d’oro per giudici, medici, chimici, carcerieri, prefetti e altri affossatori.

Attorno a questi due sposi che potevano tollerarsi sia bene che male, non avete visto, ditemi, tutta questa famiglia di linci in cui il meno sagace toserebbe facilmente dieci montoni della lana della persona perbene? Non avete visto come loro aguzzano i loro artigli sui banchi delle vostre preture. Non sapere che la Cupidigia è figlia della Fame e più cattiva consigliera, e madre del Crimine, il lupacchiotto tignoso? Non lo sapete, giudici, che essa tallona e chiude a vita su poltrone imbottite di crani umani?

Oh, i magistrati sono proprio fatti a immagine delle società che servono! Quando vi sono, da un lato, molti uomini, grandi urla, rispettabili fortune, maggioranza formidabile di pregiudizi e interessi; – dall’altro lato, una povera reietta, che dapprima non incontra che le simpatie professionali degli avvocati; la scelta dei magistrati è presto fatta. Chi l’ignora? Quale cuore retto non ha sanguinato sotto le loro unghie adunche?

Ascoltate, giudici, giurati, giureconsulti, giurisprudenti, giuriscroccanti, giuricroccanti, e giuranti se foste stati in regola con le vostre coscienze e sicurissimi di quello che facevate, non aveste dovuto ammettere a favore di Marie Capelle alcuna circostanza attenuante.

Con le vostre idee sull’autorità e la giustizia, non potevate, non dovevate; bisognava liberarla o colpirla impietosamente a morte. Il signor Lafarge non era morto a metà; e secondo voi, una testa ne vale un’altra.

Condannandola alla detenzione perpetua, avete fatto nei suoi confronti metà giustizia, cosa che non vi importa per niente, e lo stesso riguardo la società, cosa che vi importa anche meno.

Siete stati colpevoli verso la società, credendo la signora Lafarge un’avvelenatrice, non l’avete messa nell’impossibilità di ripetere i suoi attacchi omicidi, e ciò nella maniera più spedita, più definitiva, più radicale possibile. Siete colpevoli verso la signora Lafarge, se la credete innocente, voi l’avete immolata senza scrupoli, senza coraggio, alle cieche esigenze dell’opinione.

L’esitazione non è consentita a dei giudici integri come voi, voi che siete tutti onorevoli, inamovibili! Il Procuratore generale vi supplicava di tagliare la questione, il carnefice si gettava ai vostri piedi per scongiurarvi di lasciargli questa testa da tosare; conoscevate la procedura, e ogni volta che la macchina rilucente faceva il suo orribile lavoro da voi commissionato, siete andati a vedere come opera, vampiri ubriachi!

Avete dubitato tuttavia, dubitato sull’alternativa tra la vita e la morte! Avete fatto come i vigliacchi, avete rinculato per saltare meglio un giorno; la paura del pericolo presente vi ha rigettato nel terrore del pericolo a venire. Avete rinviato il vostro debito, il debito del sangue, alla più lunga scadenza che potevate intravedere. Con comodo, ne avevate la possibilità… L’uomo non è altro che un fuscello nel movimento dei mondi; ciò che a lui sembra un secolo non è neanche un secondo nel tempo eterno. Ma l’ora delle vendette suona sempre! Ed è il dito della Rivoluzione fatale, inflessibile, infallibile, che spinge la lancetta d’oro nel quadrante guardato dai dannati di questo mondo!

In un modo o nell’altro, voi siete colpevoli di un crimine gravissimo a causa di questa sentenza. Con il delitto ogni indulgenza è complicità, e la Civilizzazione può reclamare le vostre teste al posto di quelle che avete sottratto alla sua vendetta. Con l’innocente d’altro canto, ogni inflessibilità immeritata lascia nell’anima un rimorso che non si spegne più; e questo rimorso reclama il cuore nero del giudice al posto del cuore puro della sua vittima.

Vi siete andati a ficcare nello stretto passaggio di una inquisizione senza fine, senza misericordia. Sulla vostra testa brillano spade scintillanti, fiamme di porpora, pinze e lime sempre affilate, corde verniciate di sangue stantio. Siete perduti, abbrustoliti, strappati brano a brano, arrostiti nei secoli dei secoli!!

Non era questione di parlare di pietà, di lavarvene le mani, di starnutire, di lacrimare, di gemere, di sospirare come vacche partorienti, di darvi infine a mille esercizi di sensibilità ancora più ridicoli. Si trattava di dare un giudizio senza appello e di assumerne la responsabilità, nel presente e nell’avvenire, davanti agli uomini e alle vostre coscienze.

Il fatto è, vedete, che la coscienza è una e non si adatta a darsi a rate. Pilato, che non era un debole, non trovò riposo, purtroppo, che nella tomba. Almeno è questo che dice il mondo. Quanto a me non lo credo in pace nemmeno sotto la terra verdeggiante, perché l’ho riconosciuto molto spesso, con la sua faccia pietosa, con la toga cremisi dei giudici!


Ho difeso la causa di Marie Capelle come l’avrebbe potuto fare un avvocato senza fierezza davanti a dei giudici senza coscienza. Sicuramente si tratta di una difesa indegna di lei e di me, la getto quindi alla società. Ai cani le ossa;


Ah! fiera compagnia! Ma nella chiesa

co’ santi, e in taverna co’ ghiottoni.

Dante


Ma anche se considerassi il diritto come un civilizzato può comprenderlo, anche se riconoscessi alle leggi un carattere sacro, non avrei condannato Marie Capelle. Prima di dare un simile giudizio contro una donna del genere, avrei ascoltato l’accento della sua parola, il timbro della sua voce; avrei tentato di penetrare nel suo pensiero, di trasfondere nelle mie vene tutto il sangue del suo cuore. Perché ci sono delle nature di cui non possiamo sospettare l’essenza divina se non inoculandocene la febbre. Oh! cosa pensare di un secolo che affida Marie Capelle a una collezione scelta di borghesi di provincia, a giurati la cui intelligenza, il senso morale e l’affettività sono costati meno di cento franchi.

Io non mi sarei tirato indietro davanti alle sue seduzioni. Non riconosco la stupida necessità di diffidare dei più incomprensibili moti dell’animo, di scagliarmi contro di essi, di aguzzare in dolorosi rimpianti le mie più dolci impressioni. E giuro che se la signora Lafarge m’avesse ispirato l’amore, l’avrei rilasciata senza mentire alla giustizia. E giuro che se la sua testa piangendo m’avesse fatto fremere, avrei fatto di tutto per salvare la sua testa. Perché amore, è giustizia, è bellezza, è simpatia; bellezza di fisionomia, è bontà di cuore.

(Dico bellezza di fisionomia e non di viso. Secondo me, la bellezza e la bruttezza non esistono in modo assoluto, costante, incontestabile; esse non concernono la regolarità dei tratti, si modificano ogni volta che la nostra fisionomia cambia e la nostra fisionomia è molto variabile a seconda delle mille emozioni che ci animano. I più belli degli uomini diventano odiosi sotto l’influenza di certe passioni, e il più brutto si illumina di una bellezza celeste sotto l’impressione di certe altre. Secondo le affinità delle anime o la loro antipatia, un viso piace a qualcuno e dispiace a tutti gli altri. Io non trovo assolutamente bello il fatuo, assolutamente brutto il cretino. L’uno vale l’altro, tutti e due mi fanno orrore. Comprendo a rigore che Pigmalione si estasiasse davanti alla sua amante di alabastro, almeno lei non lo stordiva con le sue riflessioni. Ma innamorarsi della bellezza dei giornali di moda, dei ritratti viventi, camminanti e a colori fissi, è una deplorevole infermità. La bellezza regolare, cuperosata di salute, gonfia di pinguedine, è l’impassibilità, il ghiaccio, la statua, la vera bruttezza. – Amo di più una scimmia: ognuno ha i suoi gusti!).

Oh, quanto i popoli artisti, i bei meridionali, i Romani, i Greci, e le figlie abbronzate dell’ardente Spagna, sono più grandi di noi, essi capiscono come i tratti del viso sono lo specchio dell’anima e riflettono, nella loro rapida espressione, i buoni e i cattivi istinti che ci agitano!

I bottegai del mio villaggio direbbero che mi hanno visto molto piccolo, che non posso conoscere la donna, che esco dal collegio e che bisognerebbe rinviarmi a scuola. Ma, onesti trafficanti, dove mai l’avete vista la donna? Davanti al signor Curato senza dubbio, la ragazza dai bei scudi sonanti, dai bei beni che splendono al sole. Io chiamo questa donna un affare che avete fatto. E quali virtuosi sentimenti sostituite al divino amore? Apparentemente quelli di cui le autorità vi permettono la manifestazione pubblica e moralissima e molto dimostrativa… Oh miseria!

Io non ho bisogno per pronunciarmi su simile materie né degli articoli del codice né delle geremiadi degli avvocati né dei loro polverosi dossier: mi basta un rigo del libro di Marie Capelle per glorificarla. Perché io voglio giudicare solo in base alle leggi dell’amore.

Rida di me, chi vuole…

VI

Voglio supporre per un istante che io sia un giudice e che mi riconosca la facoltà di condannare o assolvere qualcuno.

(Per quel che mi riguarda questa supposizione è interamente gratuita. Non c’è bisogno di dire che io nego questo diritto a chicchessia, e in tutti i casi; – che, secondo me, quelli che l’esercitano si rendono complici della violenza delle maggioranze; – che lo fanno a loro rischio e pericolo; e che un giorno o l’altro terribile giustizia sarà fatta di tutti gli uomini affetti della monomania di giudicare gli altri. – Svilupperò questo paradosso a suo luogo).

Suppongo in più che mi sia stato provato in modo irrefutabile che la signora Lafarge abbia avvelenato suo marito!

… Che andrei a fare?

Mi pronuncio subito: io liberei questa donna: lei non è colpevole; ha colpito sulla base del suo diritto, ha fatto bene, ha agito coraggiosamente. Perché io non riconosco che un diritto, quello di vivere. E Marie Capelle non l’aveva.

Non mi si venga a dire che le si dava da mangiare e bere a profusione, cavalli e vetture, gingilli, vestiti e bonbon. E la sua anima di fuoco, risponderei, si ristorava? Quale confidente, quale amico, quale amante restavano alla sua povera anima? Poteva intenerire la legge, abbracciarla, sorriderle, sfogarsi in essa, parlarle d’amore, ripetere i suoi sospiri, bere le sue lacrime?

(La società ha rimpiazzato con la Legge la passione, il capriccio, l’amore, la vita! Essa ne ha fatto un essere animato e sensibile. Non è colpa mia se debbo parlare il linguaggio dei civilizzati).

Ah, comprendo che le signore perbene, cioè senza cuore, senza intelligenza, senza tenerezza, possano restare nella prigione di un matrimonio d’interesse! Ma una donna che, con un solo bacio, uno sguardo, una parola, poteva divorare l’anima di un uomo, una donna che non era che per il cuore, una simile donna, lo sostengo, era privata del suo diritto di vivere con il suo accostamento al signor Lafarge.

Non mi si venga a decantare la sconfitta ordinaria del lasciar fare, lasciar sposare: “in fin dei conti, nessuno l’ha obbligata a sposare il signor Lafarge, e una volta preso, bisognava conservarlo”.

Perché risponderò: tutto l’obbligava a questa alleanza. La Civilizzazione è colpevole in primo luogo per le unioni sproporzionate derivanti dai suoi interessi iniqui, essa ne è promotrice. I genitori non sono che suoi complici e suoi intermediari, le ruote obbedienti di un infame ingranaggio. È della società del Monopolio la responsabilità delle divisioni, degli strappi, degli adulteri, dei duelli, avvelenamenti, assassinii e crimini di ogni sorta che derivano dai matrimoni-speculazione. E sette volte più vigliacca che colpevole essa si mostra quando rigetta tutta la miseria dei suoi traffici sulle povere ragazzine che le famiglie trascinano, metà per forza e metà per astuzia, sulla piazza dove si mercanteggia, sotto etichette mentitrici, ogni cupidigia del secolo!

Quanto allo sposo che, senza giovinezza, senza bellezza, senza talento, passa dal mercato, e si fa senza paura esecutore del complotto, è a suo rischio e pericolo. Chi rompe i bicchieri li paga: questa massima è troppo strettamente giusta per essere consolante per gli uomini d’oggi. – Ah! maneggioni d’affari, volete fidanzate giovani, graziose e altrettanto intelligenti! E pensate di fare loro molto onore ammettendole a condividere il vostro letto dalle tendine gialle! E non dubitate di voi! E non pensate che una donna possa essere scontenta delle rendite!… Oh, ma è più che sufficiente per avvelenarvi lo stomaco e il cuore! E riderci a lungo, io vostro giudice, a gola spiegata!


Dico ancora: vigliacca è la vittima che resta prigioniera in simili legami, che consente a vivere tutti i giorni la sua vita, sfortunata, ipocrita, mendicante, ingannevole, pubblicamente prostituita, legalmente, in perpetuo. Quando una donna di cuore si è detta in buona fede: “non posso più vivere così; la mia situazione tortura orribilmente il mio spirito e la mia anima”… quando si è detta ciò – e quante l’hanno detto più spesso della signora Lafarge! – … quando si è detta ciò, si è irrevocabilmente piazzata tra il Suicidio e l’Omicidio. – Morire o fare morire. – To be or not to beThat is the question!

That is the question! – Perché la legge, la società non vuole fare niente per la sposa contro il suo padrone. E se lei domanda soddisfazione, non arriverà che a uno scandalo, ai fischi, alle prese in giro. – Perché le donne non sono niente nella civilizzazione se non dei soffri-dolore del primo zotico venuto. E non è nel carattere di tutte le donne di rassegnarsi, fin quando piace allo zotico di farle vivere o di farle morire. E se lei arriva a desiderare, a sognare la morte di questo zotico, nessuna donna può garantire che un bel giorno, finita la pazienza, spinta da tutte le parti, dopo qualche scena di disperazione, non si farà giustizia con le proprie mani!

Io sostengo che quella che uccide suo marito è mille volte più brava, franca, stimabile, onesta e degna di quella che lo disonora. Sostengo che incatenando per la vita due esseri antipatici, la legge non permette di sfuggire che tramite la morte al giogo inebetente. Il dilemma sanguinoso resta sempre lo stesso: To be or not to be: – morire o fare morire. – That is the question!

That is the question! Non potete sfuggirvi, civilizzati! E ora, chi di voi, stupidi mendicanti, posto in questa alternativa cannibalesca, risparmierebbe i giorni del suo beneamato vicino? Chi glieli risparmierebbe soprattutto quando questo prossimo è brutto, sporco e bestia, come era il signor Lafarge? Nessuno, affermo, si suiciderebbe per salvarlo!


Ah! Società civilizzata! Messalina obesa con lo stomaco e i sensi che non si risvegliano più, non si rilassano più! Sei tu, la garçonnière che rapisce la donna, la rende graziosa, gelosa, odiosa, vanitosa, graffiante come la gatta domestica e lo schiavo di colore. E quando una natura privilegiata si leva contro i tuoi rigori e si fa giustizia come può, sei tu, la vera colpevole, che la persegui, l’insulti, l’impicchi, la decapiti e avvizzisci la sua memoria. Ah, i giudici che hanno condannato la signora Lafarge, i cavillosi!, non vorrei essere nelle loro pellicce di ermellino!

Ah, Società vigliacca, impunita, ladra, vuoi mantenere i diritti di una fortuna inaspettata e tutte le unioni cementate con il fango dei tuoi contratti, li vuoi mantenere in ogni caso?… Ebbene, correrai tutti i rischi delle rivolte, dalla sommossa che canta innocentemente, fino all’assassinio che colpisce senza parlare!


Vi erano molte donne che pregavano il loro buon Dio di chiamare Marie Capelle alla sua sinistra. Erano queste donne-mummie, dalle parole mielose, dalle labbra cucite, che mai hanno pianto con i propri occhi, che mai hanno amato con la loro anima, che nulla sentono, il cui cuore batte poveramente sia di notte che di giorno. Erano queste vergini virtuose che si sarebbero fatte religiose se la loro madre l’avesse preteso, che si sono sposate per soddisfare i loro padri, che fanno bambini per fare piacere ai mariti, scimmie che si danno false arie di donne. A questi mostri non darei un bacio da dozzina!

Queste sporcaccione senza budella s’immaginano pertanto che bisogna avere del coraggio per lasciare prendere ai loro mariti ciò che possono ancora avere, per dare il seno ai loro bambini, per sistemare più o meno tutto il loro mondo, stendere sul guanciale il berretto da notte coniugale di cotone e avere, in media, due litigi al giorno. Per esse, tutti i doveri di una buona madre di famiglia sono racchiusi nel programma di queste occupazioni varie e attraenti. E l’ideale della donna non deve andare oltre i doveri della buona donna di casa.

Così bisogna vedere come queste scope in gonnella straziano la creatura eccezionale che le cade sotto le grinfie. È una criminale, perché è andata davanti al banco dei giudici; – una impudente, perché si è difesa; – una vigliacca, perché ha la forza di vivere per descrivere le sue sofferenze, la sua febbre e le sue estasi; – un’avventuriera, perché conserva riconoscenza nei riguardi di quelli che la difendono, ed essa non è difesa che da uomini; – una svergognata perché ci prova gusto; – una non gran cosa, perché ha il buon senso di disprezzarle!


Ed ecco ciò che le nostre convenzioni e i nostri costumi hanno fatto della donna: una pisciona! Essi l’hanno snaturata, intonacata. Le sono state impedite tutte le occupazioni serie, tutti i problemi generali, tutti i grandi impulsi, tutti i ricordi, tutte le aspirazioni, tutti gli entusiasmi. Le hanno interdetto società, spettacoli, amicizie, preferenze, tutto perfino i libri, disapprovati dalla censura di famiglia. È così che la donna sfortunata è caduta dalla sua altezza a persona tutta casa e famiglia, l’acconciatura, il bucato, i pettegolezzi, le chiacchiere fra comari e gli intrighi di quartiere. E ora lei è così profondamente, così costituzionalmente depressa, che si mostra fiera del suo brillante impero, e che la maggioranza delle nostre donne non si consegnano certamente così presto come le pecore. La Civilizzazione non è fatta d’altro; essa schernisce le donne del progresso, le ridicolizza, le esilia e le imprigiona: tutto quello che è puro, utile, devoto, essa lo sporca, lo degrada e lo rimpicciolisce… Pietà!

VII

La mitologia racconta che esisteva nell’isola di Creta un mostro metà toro, metà uomo, al quale le madri dovevano portare ogni anno le più belle fra le loro figlie, vestite di veli bianchi. – Questa non è che una favola.

La storia riporta che ci fu un tempo in cui il re moro di Toledo prelevava un tributo annuale di cento giovani ragazze nella Spagna rimasta libera. – Questa epoca è passata.

Sapete dove la storia, la storia moderna, si realizza in realtà? Presso i civilizzati che arretrano d’orrore al racconto delle crudeltà dei tempi eroici, e che trascinano ogni giorno ai piedi degli altari le loro povere figlie coronate di fiori d’arancio! E che pagano il tributo al Minotauro-Matrimonio che deflora e divora le vergini tremanti!


È ben lungo, il martirologio delle donne! La loro debolezza ha tentato l’uomo despota, esse non hanno schiacciato la testa della concupiscenza che si drizza contro di loro. Il mostro si è girato su se stesso, ha soffiato a proprio agio mordendole al seno. Ecco perché la donna partorisce nel dolore.

Il vostro vero peccato originale, figlie di Eva, è la cieca obbedienza al sesso forte. Non dovete più. Quando la rifiuterete?…

Io, che ho conosciuto il mondo solo da lontano, passando attraverso le società sfruttate, e andando verso lo scopo che il mio cuore desiderava… purtroppo quante giovani donne ho visto morire!

– Non per eccesso di divertimenti, per un intrigo svelato, per un fiore perduto, non nei salotti dorati, nel luccichio dei balli dove si raccolgono i poeti indulgenti alla vanità del giorno; non imbalsamate in un vestito di luce e di gloria! Ma sole, disperate, soffocate, sanguinanti nelle tenebre dell’alcova coniugale! –

Quante sono state vendute a dei vecchi, a degli epilettici, a dei cretini, a dei re, e peggio ancora!

Quante incatenate a degli avari, a dei corruttori di ragazze, a degli ubriachi trascinati dalla collera e che le martirizzano ogni sera per testimoniare il loro attaccamento!

Quante consegnate a dei centauri che loro ripugnavano hanno avuto spezzate le anime delicate da grossolani amplessi!

Quante obbligate da mariti infami a vendersi al migliore offerente!

… Così colpisce l’ingiustizia degli uomini!

E altre, private, per sorditi interessi, di soldi, di cibo, di sonno, dei più semplici vestiti che il pudore reclama!

E altre, messe al lavoro, obbligate a nutrire uomini che non sanno far fare a loro che dei figli!

E altre, umiliate, divoranti i propri singhiozzi, ridotte al ruolo di primo domestico di casa!

… Così colpisce l’ingiustizia degli uomini!


Ce ne sono di quelle a cui è interdetta la frequentazione di alcune famiglie e di persone di loro scelta, gli intimi scambi, le occupazioni attraenti, la lettura e la corrispondenza!

Ce ne sono di sorvegliate, rinchiuse, trascinate in lacrime per i capelli!

Ci sono donne di una intelligenza divina, le cui lettere e i segreti sono violati, commentati da mariti stupidi!

Ci sono donne di eccessiva affezione, alle quali è vietato di amare le loro madri... o le loro sorelle!

Ce ne sono che si consolano di tutte le loro pene adorando i propri fanciulli: si rapiscono i bambini alla loro tenerezza, si insegna loro a disprezzare la madre!

… Così colpisce l’ingiustizia degli uomini!


Ad alcune si rifiuta l’intelligenza; ad altre il cuore. A queste si vieta il prete, lo si impone alle altre. Alle donne superiori è negata ogni libertà di coscienza, di religione e di simpatie!

Se c’è una brava, tutto questo mondo piccolo e geloso fa lega contro di lei per curvarla e avvizzirla. Non si appartiene, la sfortunata donna!

… Così colpisce l’ingiustizia degli uomini!


Si prende una donna come uno studio di notaio, una clientela di medico, un campo di trifoglio o di erba medica, una drogheria o un negozio di tessuti. Il fondo della bottega è sfruttato, vezzeggiato, curato, conservato come la pupilla dell’occhio; quanto alle forme della donna, loro sono maneggiate, perquisite dapprima, e poi rilasciate, deprezzate, oltraggiate, dimenticate per sempre!

Ogni sentimento si è nascosto nei magazzini di Paul de Kock, Dumas padre e figlio, e altri fabbricanti di romanzi. L’amore è un commercio; l’innocenza un mito; la tenerezza, la bellezza, la grazia e l’intelligenza, monete di acquisto; l’uomo un cortigiano senza cuore, e la povera donna, un peso nella bilancia di bronzo dei più grossolani interessi: la chiamano una palla al piede!

… Così colpisce l’ingiustizia degli uomini!


Ho conosciuto mariti la cui bruttezza e bestialità facevano arrossire le loro mogli!

Di compiacenti ne ho conosciuto a migliaia!

Ne ho conosciuto molti altri che davano a intendere a delle povere creature che le avevano prese solo per fare un affare!

Ne ho conosciuto molti di più che rimproveravano loro l’agiatezza scambiata con la loro povertà!

So bene che congiuravano contro di loro l’odio e la cupidigia delle due famiglie!

So che le minacciano delle pene dell’Inferno!

So che perseguitano, senza arrossire, i figli delle mogli prese in seconde nozze.

So, sì io so, che vendono le loro mogli alla polizia!

… Così colpisce l’ingiustizia degli uomini!


È troppo, mi fermo. Lettore, chiunque tu sia, anche uno di quegli uomini che distruggono le donne… Oh, non è vero, che nessuno avrebbe la forza di andare oltre?!

E tuttavia vi sono misteri ancora più odiosi, vi sono cuori di donne ancora più sanguinanti, anche nel mondo dove siamo!

E queste si rassegnerebbero? … Andiamo! Protestano come possono, non importa dove, non importa quando… Tutto si paga, tutto si regola: gli abusi della forza sono compensati con le proteste dell’astuzia.

… Così colpisce la giustizia delle donne!


Dissigillate, rompete le tombe della legge, non morite più vivendo! Sollevatevi, sorelle mie, parlate alto e fermo! Alzate le vostre teste, vestite le vostre divine grazie con vestiti bianchi, serrate i loro lembi fluttuanti sui vostri fianchi flessibili. Siate fiere, aggressive, sdegnose, intrattabili. Rifiutate il miserabile omaggio dell’interesse, della banalità! Gettate fiori alle brezze sospiranti, baci alla sorgente che trema, al cavallo che nitrisce! Non dateli agli uomini; essi sono troppo sensuali per rifiutarli, troppo occupati per restituirli. Che tempestino o soffino, supplichino o minaccino, che ridano o piangano… tenete duro!

Nel dominio dell’affetto, della perspicacia, della delicatezza, la donna è la vera padrona quaggiù. Gli uomini lo dicono nel loro linguaggio ipocrita: che le donne glielo facciano provare nei fatti.

… Possa colpire alfine la giustizia delle donne!

VIII

Canta, anima mia, il sole vivificante, il cielo blu, l’aria dei monti, il lago d’Annecy e le sue acque di smeraldo, il Mattino che si strofina gli occhi, i sogni degli esseri che ancora russano, le verdi campagne, la rugiada che scintilla, i pesci guizzanti, gli uccelli chiacchieroni e i fiori profumati. Canta, canta il risveglio della Natura, la Resurrezione e l’Avvenire vestito con un velo di fiamme. – Canta la gloria delle vittime degli uomini.

I giudici non sanno quanto entusiasmo e rivendicazioni implacabili germinano nel sangue di una donna ingiustamente vessata.

Calunniamo, dicono, calunniamo prima della morte, calunniamo dopo, calunniamo vigliaccamente, calunniamo sempre: resterà qualcosa.

E io dico: sì, qualcosa resta, per il carnefice, la vergogna; la gloria per le vittime.

Calunniate ancora, calunniate presto, giudici della terra! – Il Tempo farà giustizia.


Non è più possibile gettare sulla sua memoria il lenzuolo della menzogna e dell’oblio. Le tele si strappano, i troni scricchiolano, le tombe si aprono. E le ombre dei morti passano attraverso le tenebre, grandi, vendicatrici, reclamando e gridando:

“Redenzione! Redenzione! – Abbiamo per noi il Tempo, la vecchia lima sulla quale la Calunnia lascia la sua lingua di vipera. Abbiamo la Memoria, l’angusta Vestale accoccolata sulle ceneri che continuamente ravviva. Abbiamo il fiero grido del gallo che risveglia il Rimorso nelle anime colpevoli, le note penetranti del Rondone che racconta dappertutto, alla terra, nei cieli, i crimini della notte. Ecco infine la giovane voce dei poeti che non si sono venduti! – Redenzione! Redenzione!”.


La tempesta si addormenta. La tramontana rabbiosa si nasconde nelle gole dei monti. Il sole rende iridescenti le gocce di pioggia che tremano sull’erba. L’uccello canta nell’aria fiorita.

… Il giorno della collera è giunto!


Inaridisci le lacrime dei tuoi poveri occhi, mia grande amica! Profuma i tuoi capelli e abbassa il tuo odio, lascia alla felicità le tue pallide guance! E baciami, baciami dei baci della tua bocca.

Ed eccoti così bella, di quella beltà suprema che non è di questa terra! Sali, sali sulle sfere stellate; sarai così portata sulle nuvole dell’azzurro; i piccoli uccelli, le farfalle di porpora, le perle della myosotis e la mia anima anelante voleranno con te!

E gli uomini che ti disprezzano saranno abbracciati dal tuo divino amore!

… Il giorno della collera è passato!


Tu rivivrai, donna, perché hai molto amato, molto sofferto; perché non hai disperato della Giustizia; perché non ti sei abbandonata quando tutti dubitavano di te!

Ti rivivrai perché hai bruciato, straziato il tuo corpo per rinfrancare la tua anima, per salvare il tuo pensiero; perché hai sacrificato il Presente all’Avvenire, la Salute alla Gloria.

Tu rivivrai. Avrai ali di zaffiro, un respiro profumato. E io ti vedrò, il mattino, rasentare in volo i prati umidi e chinarti, la sera, sulla cresta delle onde. E troverò il riposo nell’erba e nelle onde frementi ancora del fruscio della tua ombra!

… Il giorno della collera è passato!


Nel grande calice dei tuoi dolori, umanità! Ogni lacrima è raccolta: quella della prigioniera e quella dell’esiliato. E i secoli passando, confondono tutte le onde schiumanti dal Lago Maledetto!

Ho voluto riconoscere a Marie Capelle il sacro debito dell’esilio; mi sono ricordato che lei ha lasciato cadere delle parole d’amore nel cuore di un martire polacco.

Se mi si chiede qual era la sua opinione politica… risponderò: che ne so? Ne lasciate alle donne? E che mi importa delle parole pronunciate dalle labbra? Non ho più fiducia che negli atti.

Voi che, da sei anni, attraversate tutti i paesi, che mille volte siete passati sotto le finestre di giovani donne cresciute sotto i cieli diversi da quello vostro natale… dite, proscritti miei fratelli, sono numerose le ragazze giovani che si appassionano alla sfortuna?

Voi irritati dall’ingiustizia e resi agri dalla sofferenza, voi che affondate nella solitudine del vostro dolore, per non prendere parte per nulla a quella degli altri… dite, proscritti miei fratelli, sono numerose, le condannate che si appassionano alla sfortuna?

E tuttavia, la più graziosa e la più sfortunata delle donne gli mostra i denti perlacei, la piccola mano e la sua taglia fragile attraverso le sbarre della prigione; gli fa vedere il cielo in uno dei suoi sguardi, lei dimentica le pene cuocenti per compatire: “Amiamoci, gli dice, sul bordo della tomba!

“… Il giorno della collera è passato!”.


I battiti del cuore spezzano la pietra dei sepolcri. L’Amore dagli occhi brillanti sfida la Morte dalle orbite vuote.

… Il giorno della collera è passato!


Ho visto la fresca Aurora svegliarsi sui monti. Ho visto il sudario di Marie Capelle portato via a pezzi dai venti urlanti, e la sua anima immortale attirata verso i cieli! E ho scritto due volte: “Arrivederci! Arrivederci!

“… Il giorno della collera è passato!”.

IX

Donne d’Europa, mie beneamate sorelle! versate, versate su Marie Capelle le vostre lacrime più pure! Per lei io invoco la tua sdegnosa fierezza, bruna spagnola, i più segreti sospiri della tua anima, figlia della Svizzera; i tuoi generosi capricci, o bianca d’Inghilterra; i tuoi singhiozzi strazianti, ardente italiana; e la tua passione che niente ferma, donna artista di Parigi!

Ragazze, meditate sul suo matrimonio, sul suo processo, la sua prigione e la sua morte. E restate padrone dei baci delle vostre labbra, dei giorni della vostra vita. Ciò non appartiene ai vostri genitori; essi non possono conoscere il vostro cuore, non hanno alcun diritto sulle vostre passioni, non dovranno mai disporre della vostra mano. Hanno quarant’anni; è l’età della prudenza, dell’ambizione, della saggezza, del calcolo, del sonno e della digestione: l’età pesante della vecchiaia. Voi avete sedici anni, siete incomprese, misteriose, amate l’imbrunire, le tende rosa, le passeggiate sull’acqua, i freschi sentieri del bosco, le mani a lungo serrate; le fantasticherie che rispecchiano i vostri occhi blu nei ruscelli limpidi; lo sguardo e poche parole, il silenzio e i sospiri! Ah! non fatevi condurre allo sposo dalle madri, perché il vostro pudore arrossirebbe al loro posto! – Le nozze in famiglia sono il baccanale di Militta, meno la vivacità, la magnificenza e la voluttà!


Voi, giovani donne che portate i bei fanciulli nelle braccia, che sentite i seni gonfiarsi e fremere sotto la pressione delle loro bocche, voi felici e feconde, siate simpatiche e buone con tutte le sfortunate. Una parola dolce, una lacrima sulla tomba di quella che è morta senza conoscere le gioie della maternità tanto desiderata, tanto ammirata. – È così vera, così calda, così benefacente, una lacrima!


E voi, povere donne, che vi dibattete in unioni maledette, voi che vi guardate ogni mattina per vedere i vostri occhi gonfi per l’insonnia, e le vostre rughe precoci, che spazzate a pugni interi i vostri capelli caduti, voi i cui nervi tremano e l’anima si sconvolge, disperate, frementi, mute, quando sentite i passi del tiranno del focolare! … Non accettate più la minaccia, non curvatevi più sotto il pugno levato, non cedete, non piangete più! Ma raddrizzatevi, gridate, saltate agli occhi, strappate i capelli, mordete a sangue, fate tutto quello che potete fare!

… È per voi che scrivo queste pagine, è a voi che raccomando di leggere Marie Capelle. Pensateci la notte. Risvegliatevi, guardate i vostri figli, piangete, leggete e rileggete ancora. Allora, forse, colpirete col vostro piede, digrignate i denti, lasciatevi crescere i capelli e le unghie per usarli alla bisogna; allora levatevi in tutta la vostra altezza, giurate senza dubbio di non lasciarvi più umiliare nella vostra dignità di donne! – Felice, se sarà così!

Che cosa temete dalla volgare brutalità di certi uomini? Non siete forse le graziose, le voluttuose, le danzatrici, le carine, le fate che volteggiano nei sogni della notte? Non siete forse le regine delle feste, le sorelle degli uccelli dalla gola sonora, le padrone dei fiori, le dame invocate dai guerrieri e dagli uomini del mare, le fidanzate degli dèi, gli angeli che custodiscono il poeta, il malato e il povero? Non siete forse fastidiose, incantevoli, deliranti, vestali della Passione, messaggere dell’Amore, onnipotenti per un bacio?!

Non avete paura. Troppo magra, troppo rugosa, troppo avara è la Legge per avere la meglio sulla freschezza delle vostre grazie, sui vostri giovani ardori e la prodigalità delle vostre carezze. I maestri di scuola, i curati, i giudici e i virtuosi ipocriti della Democrazia non sono di una pasta migliore dei comuni mortali. Una donna li menerebbe a Santiago come alla Mecca per un lembo delle loro camicie!

La basilica di Superga. Tomba dei reali di Savoia

Torino, aprile 1855

Memento quia pulvis es et in pulverem reverteris.

I Libri

Pallida mors æquo pulsat pede pauperum tabernas Regumque turres.

Orazio

Il povero, nella sua capanna, dove la paglia lo copre,

È soggetto alle sue leggi;

E la guardia che veglia alle porte del Louvre

Non difende i nostri re.

Malerbe

I

Oh la più completa delle rivoluzioni, la prima e l’ultima, tu che riassumi l’essere, lo componi, lo decomponi e lo agiti ininterrottamente, Morte dalla destra ossuta, ti saluto!

Il volo dei corvi forma la corona funebre; sotto i tuoi piedi sono i vermi; la rabbia dei venti soffia sulle tue ossa. Ma né il nero corvo né il viscido verme né i venti furiosi hanno presa sulla tua anima. Tu sola sei sacra, tu sola sei immortale, Morte!

L’uomo non genera che per te. L’essere non è mai creato, reso permanente o annientato; l’essere non è nient’altro che un movimento che dura sempre e che tu dirigi, oh Morte!

Oh la più inesorabile delle rivoluzioni, ti saluto!

Sei tu che regni su di noi. – Tu rapisci i figli alla madre, il padre alla numerosa famiglia; tu arrivi prima della ragazza all’appuntamento d’amore; tu bevi le nostre lacrime e il nostro sangue. – Tu non metti insieme che per separare.

Sei tu che regni sulla terra. – Tu precipiti le nazioni contro le nazioni, gli uomini sul seno delle donne, i bambini nelle braccia dei vecchi. E i popoli uccidono i popoli; e gli uomini si esauriscono negli slanci della riproduzione; e la prima parola che i vecchi insegnano ai bambini che nascono, è il tuo nome spaventoso, o Morte! – Tu non crei che per distruggere.

Sei tu che regni nei cieli. – Tu sollevi uno contro l’altro gli astri fiammeggianti; stacchi la stella filante dalla volta blu; strappi e ricuci i mondi; i tenebrosi limiti del tuo impero ci sono sconosciuti. – Tu regoli solo per confondere.

Sei tu che regni sui re. – Essi si umiliano sotto la tua mano! – Tu non innalzi che per abbassare.

Oh la più necessaria delle rivoluzioni, tu che porti la tomba fino al livello del trono, Morte dalla destra ossuta, ti saluto.

Quando i re contano i loro Stati e misurano l’altezza delle loro corone, tu colpisci. E i re spariscono come la polvere della neve. Così li porta via il vento.

Quando i re minacciano, tempestano e scatenano la guerra, tu li prendi per l’orecchio. E i re ti seguono come ruffiani svergognati. E tu li corichi lungo la pietra sepolcrale.

Quando i re pretendono di essere più grandi di noi, tu li fai passare sotto il tuo braccio d’acciaio!


Oh la più giusta delle rivoluzioni, ti saluto!

I re muoiono: che importa ai popoli? – I popoli sono morti a migliaia nelle battaglie mentre i re giocavano a scacchi con le loro ossa; essi si elevano dei piedistalli con i loro cadaveri!

I re hanno freddo nelle casse da morto, che importa ai popoli? – I popoli hanno avuto freddo negli inverni rigidi, mentre i re si scaldavano le pance nelle stanze dei loro palazzi!

I re sono chiusi nelle casse da morto, che importa ai popoli? – I popoli erano stretti nelle prigioni mentre i re percorrevano i loro vasti domini al galoppo sui loro corsieri.

I re sono soli nelle casse da morto, che importa ai popoli? – I popoli erano soli a bere la coppa delle miserie mentre i re, aiutati dai cortigiani, si gonfiavano di imposte!

I re gridano nelle casse da morto: Dio! proteggici! Popoli! pregate per noi! Che importa a Dio? Che importa ai popoli? – La morte trancia il nodo degli interessi umani. Il padrone non ha più bisogno di valletti; i valletti non hanno più paura dei padroni. Fin qui l’uguaglianza è stata vera solo davanti alla tomba!

Oh la più vendicativa delle rivoluzioni, Morte, ti saluto!

II

Sollevatevi, oppressi! Cantate, cantate gli inni dell’allegria!!

L’ala della morte è larga; colpisce a dritta, a manca, in alto come in basso, verme e re! Imparziale è la giustizia della Morte, essa riempie i grandi di terrore e i piccoli di speranza! I reami dell’avvenire sono per i poveri di beni, per i ricchi di spirito. Il monarca di oggi sarà il povero di domani!

Sollevatevi, oppressi! Cantate, cantate gli inni dell’allegria!!


Non abbiate paura della Morte. Essa è magra come voi. Come voi lavora, falcia e rivoluziona il mondo, giorno e notte. Il suo velo è strappato come i vostri abiti, i suoi denti battono come i vostri; il suo braccio è forte; la sua fronte suda; il male ha affossato i suoi occhi e denudato il suo cranio. – In tutto vi somiglia.

Sollevatevi, oppressi! Cantate, cantate gli inni dell’allegria!!


La Morte ha tutto da guadagnare; non ha niente da perdere. Tutto quello che non osa prendere gli è rifiutato. È la vostra alleata. Mangiate, bevete come lei; servitevi dei festini dappertutto dove troverete coperti d’oro e cibi prelibati. Il sangue del ricco è il sangue vostro; la carne del ricco è la vostra carne. Le vostre ossa hanno freddo; eh! ricopritele!

Sollevatevi, oppressi! Cantate, cantate gli inni dell’allegria!!


Siete condannati a morte; è il destino precoce di tutti gli uomini giusti su questa terra; è il mio destino, è il vostro. Accettiamolo! Tra questo mondo e noi mettiamo risolutamente il palo dell’infamia. E dall’alto di questo trono glorioso gli sgabelli dei re e i loro scettri ci sembreranno sonagli per bambini. In verità, ve lo dico, i potenti della terra hanno malattie, demenze, dolori e rimorsi, come noi, più di noi! Ma essi non trovano nelle loro tombe il dolce sonno che diffonde sulle nostre i suoi colori rosa di pavone, il sonno tranquillo delle esistenze serene.

Sollevatevi, oppressi! Cantate, cantate gli inni dell’allegria!!

III

Rendiamo giustizia a tutti. Nella loro vita i re fanno una buona azione, quella di morire. Essi ci danno un grande esempio, il culto che rendono ai loro morti. Prendiamo l’esempio dei re prima che scompaiano da questo mondo.


Esiliato sulla terra, ho passato fra molti popoli. E di ciascuno ho sentito l’aspirazione divina sommuovere il mio cuore. E ho visto che nell’ultima ora, nell’ora terribile della giustizia, i re rispettano infine il genio della nazione che li aveva fatto grandi, e cercano di eternizzarlo nelle loro tombe.


Oh, quanto ti amo Albione, l’Oceano nero che, due volte al giorno viene a baciare la tua mano bianca! E tu restituisci il suo amore quando, chinando su di lui la tua testa sognante, sfiori con le tue labbra i suoi flutti erranti. Quante volte l’ho visto, fremente di tenerezza, ritirarsi, docile, sotto un semplice sguardo dei tuoi begli occhi, portando fra le onde la tua divina immagine. E com’era fiero, l’Oceano nero, ritornando al suo gran lavoro!

E quante volte ho gridato: Il più coraggioso, il più umile dei lavoratori, proletario inglese. Così ti getti ai piedi della strega di Lancashire; così deponi ai suoi ginocchi ricchezze e gioielli guadagnati col sudore della tua fronte; così ti accontenti, rispettoso amante, di bere la freschezza del suo alito. Oh! tu sei grande fratello mio, grande sulle onde e grande sotto il vapore, grande nel lavoro e grande nell’amore; grande come Thor, oh Byron! Byron!!

Sposi del mare, spose dell’oceano, re e regine d’Inghilterra hanno voluto dormire il loro lungo sonno a portata delle tue carezze, sotto le fredde volte di Westminster, sulle rive maestose del verde Tamigi. È là che ascoltano il solcare dei vascelli sul mare amoroso, là dove ricevono le confidenze degli abissi, i messaggi, le ricchezze che portano le loro flotte. E lui, il gran Corsaro, l’adorato, come Conrad amava la sua Medora.


Nelle lunghe sere di giugno, quante ore ho passato raccolto davanti alla tua maestà, scuro Escorial, ultimo palazzo dei più superbi re!

Attorno alle tue masse lavorate a merletto vedevo passare i picchi inaccessibili, le nuvole d’oro e di fuoco, le nevi eterne, gli abeti ostinati e il sole delle Castiglie pronto a spezzare il suo disco per l’eccesso medesimo dei suoi ardori.

Poi, questa natura si animava sotto l’impulso del mio pensiero. Tutti questi oggetti immobili si urtavano, frementi. Vedevo allora, guerrieri colossali, cavalli alati, squadroni coperti di polvere, formidabili macchine da guerra. Il fracasso delle armi faceva tremare la terra e il cielo, la mia febbre si diffondeva su tutte le cose esistenti.

E credevo di assistere alle grandi battaglie di Viriate o del Cid. Il sangue colava sul letto polveroso dei torrenti, i morenti alzavano ai cieli le loro teste supplicanti, e le nuvole si stendevano su di loro come grandi lenzuoli. Sentivo da lontano il rotolio dei furgoni, il rimbombo degli echi sonanti, le urla di rabbia e di vittoria confuse con il rumore delle trombe eclatanti e il richiamo lugubre dei tamburi di guerra.

Rossa era la montagna, rossa la notte e il sole morente, rosse le stelle e la volta che le sostiene. La sierra selvaggia risplendeva come una corazza insanguinata. Al fondo c’era l’Inferno, beante, inappagato, rigurgitante di torture; sia illuminato che dimenticato dal sole, si apriva e si chiudeva sulla sua preda.

E la mia immaginazione si ingrandiva, si infiammava, delirava nel mezzo di questa tempesta di visioni attivate dal soffio delle raffiche. E gridavo anelante: è la lotta di angeli ribelli, la grande battaglia degli elementi, l’impero del Caos, il Cominciamento e la Fine, il laboratorio sempre fumante dove i mondi si accendono, si combinano, si sublimano e si fondono: l’Infinito! l’Infinito!!

… È là che riposa, circondato dalla sua numerosa posterità, il più orgoglioso, il più nero degli esseri mai portati da fianchi femminili. Filippo II, l’anima dannata del reverendo Torquemada. Sotto il suo crudele dominio, l’uomo sanguinava come l’uccello dei campi sotto gli artigli del tiranno dei cieli: pressato, calpestato, strangolato senza pietà. E ora, ossa e polvere, giacciono calpestate sotto la pietra delle montagne, pressate in una scatola di bronzo, strangolate dal rosario di vermi sospeso sul suo collo. Re degli Spagnoli, delle Americhe e delle Indie, la Morte è ancora più sdegnosa di Elisabetta d’Inghilterra, respinge la tua mano stanca di colpire. E dei tuoi immensi tesori, dispersi in Europa, i giovani contenti alimentano la fiamma dei punch dai riflessi blu.

… Levatevi, reali delle Spagne dalle torri d’argento! Ai limiti delle due Castiglie hanno ruggito i leoni di bronzo. Vi è oro, sangue, polvere di cannoni, soldati e capitani sui fianchi delle sierre. In piedi! portate le vostre armi gloriose da un polo all’altro. Levatevi.

… Niente risponde, se non un riso infernale. – Re delle Castiglie, non è la vostra voce dai temuti accenti. – Niente risponde, solo il rumore sordo delle ossa. – Re delle Castiglie, non è così che stringerete i morsi sui denti dei vostri corsieri.

… Niente risponde, se non il gufo, il vecchio cieco, che grida dall’alto della torre in rovina:

“La Morte è mia madre! – Lei mi getta la carne sanguinante che ricopre le ossa; e per me è una leccornia. E io canto le lodi della Morte!

“I re sono miei fratelli! – La Morte li preferisce a me perché io sono grigio ed essi sono coperti di mantelli di ermellino, lei dà loro a divorare intere nazioni!

“I re sono miei fratelli! – E io abito le alte camere dei loro palazzi, e distraggo le loro lunghe veglie con i miei accenti consolatori!

“I re sono miei fratelli! – Come loro mi sottraggo alla vista degli uomini; fuggo la luce del giorno. Amo, come loro, nelle tenebre l’ora dell’assassinio e dei tradimenti, quando si grida sotto il pugnale!

“I re sono miei fratelli! – Come loro trovo i miei figli più belli del sole. E insegno loro a dormire di giorno e a tormentare di notte!

“I re sono miei fratelli! – La Morte è la loro madre, madre feroce che, nei suoi capricci, li divora, essi come me, come tutte le vittime di cui cantiamo i funerali. – Ineffabili sono le gioie della nostra famiglia!”.

… L’Escorial, è il genio scuro, audace, indomito dei figli d’Iberia; è la loro anima di bronzo che li spinse per primi sui mari lontani e che gli è valso l’impero del mondo. È l’immagine dell’uomo superbo che si misura senza temere con la natura gigante, e resta calmo quando gli elementi ruggiscono attorno a lui. È l’essere mortale che si è avvicinato alle più alte montagne, ai più lontani orizzonti, ai misteri più terribili, degli astri e del fulmine, sorgenti di luce e di vita. È la Spagna sempre ribelle, sempre brillante, sotto il suo aspetto scuro, sempre grande nel mezzo dei mondi che l’ammirano!

Nelle caverne di Saint-Denis sono allineati i re di Francia dagli estesi dominii. È proprio il loro posto. Il paese è unito come il loro umore, fertile come la loro salute. Nessuna ombra a lato dei raggi di luce; il sole si stende sulle vaste pianure dove maturano lentamente le spighe. Niente di pittoresco, di spaventoso; niente che stringa il cuore del pellegrino, visitatore di sepolture.

Sono là, vicino alla loro buona città, la Babilonia saggia, che da quattordici secoli, sopporta pazientemente i loro troni. Riposano nel cuore di questa civiltà di cui perseguirono il sogno con tanta perseveranza e verso la quale il mondo distoglie da molto tempo i suoi sguardi abbagliati.

… Io non so; ma questi bravi agricoltori dell’Ile de France, confortabilmente esteso al centro dei loro maggesi, non riescono ad eccitare la mia ammirazione. Ho sempre paura che si sveglino per bere una bottiglia.


Con la sua ala che niente ferma, l’infaticabile Tempo persegue il suo corso. I vermi mordono i frutti, i bambini, i cadaveri, si arrampicano lentamente nel palazzo del cranio che la sovrana Intelligenza percorre come un lampo! La goccia d’acqua buca la pietra; la sifilide le ossa; l’insetto delle Indie, gli imperi marittimi. In fondo resta solo della cenere nelle sepolture delle famiglie reali che comandano le nazioni ...

Ne faccio altrettanta col mio sigaro!

IV

La Basilica di Superga, l’ultimo rifugio dei principi di Savoia, si alza sulla più alta delle colline che dominano Torino. Ultimo prolungamento delle Alpi morenti, questa catena presenta una serie di grandi tombe su marmo nero. L’ultimo, il più elevato di questi monti mortuari, supporta Superga come un sigillo di lutto, come una corona di immortali.

La basilica reale fu costruita all’inizio del XVI secolo da Vittorio Amedeo II al fine di perpetuare il ricordo della vittoria di Torino, riportata dal principe Eugenio sui Francesi.

Era un signore potente questo Vittorio Amedeo! Alleato con le più grandi monarchie dei suoi tempi; il suo scettro dominava l’uno e l’altro dei versanti delle Alpi più alte; dai bordi del Lemano alle sponde siciliane i popoli salutavano la croce delle sue bandiere; aveva obbligato l’Europa a riconoscergli il titolo di re guadagnato in battaglia!

I suoi antenati erano venuti alla luce sulle falde delle Alpi; erano discesi come l’aquila, re dei cieli. E ora la loro potenza era stabilita altrettanto solidamente delle incrollabili Alpi. Ecco ciò che voleva esprimere il re Vittorio Amedeo II costruendo questa basilica chiamandola Superga.

Il sito è ben scelto. Ai piedi delle montagne l’Eridano si stende come un nastro verde. Nelle loro cime folte passa il soffio dei mattini, l’alito delle sere, la brezza e la tormenta. La cupola dei cieli si piega a proteggere la costruzione che fa alzare così pietosamente la mano degli uomini, il sole e la luna rischiarano come due lampade ardenti la volta di una tomba; le stelle che filano diffondono sulla terra consacrata i profumi di regioni sublimi.

Dai loro giacigli di pietra i re sardi possono contemplare le Alpi, la loro culla; le ricche pianure della Lombardia; il duomo di Milano, l’oggetto delle loro bramose carezze; il Piemonte fertile, soggiogato con le armi; la grande città costruita a loro cura.

Ah, arrossisco dell’imbecillità della mia specie. E mi domando se non c’è una forza, un terrore capace di guarire i re del loro orgoglio; i popoli della loro sottomissione; gli uomini del loro accecamento?! La sfortuna e la schiavitù saranno sempre per noi?! Forniremo sempre e il vino e il sangue ai regali di Gargantua?!

Ma come! nel seno stesso della morte, i superbi re del Piemonte pretendono ancora dominare gli Stati coricati ai loro piedi? E i sudditi si prostrano fino a terra davanti alle loro ombre! Purtroppo! Purtroppo! la monarchia non è che un emblema. E i popoli che accettano per re capi senza anima si possono lo stesso sottomettere a spiriti privati del loro corpo.

… Impuniti sulla terra, temuti dagli uomini timidi, che i re siano perseguitati nelle tombe dall’eccesso del loro orgoglio! Che la vista dei loro Stati risvegli nella loro anima le preoccupazioni della potenza, la febbre dell’ambizione, l’ingordigia delle ricchezze, le gelosie d’amore, la misantropia, la demenza, l’irresistibile delirio del Suicida!

Che essi abbiano sogni di lacrime e di bile! Che vedano eserciti sanguinanti, corsieri sventrati, cannoni pieni di schegge, soldati morenti, pezzi di cadaveri, Tantali furiosi! Che sentano penetrare nelle ossa le ombre di tutti i suppliziati strangolati per loro ordine! Che bevano il loro sangue, tutto il sangue! Che strappino la propria carne con le unghie! Che per tutta l’eternità non possano staccarsi dalla loro preda! Che siano lacerati dai rovi e dai sassi della montagna! Che i Cieli pesino sulle loro teste colpevoli! Che le acque montino fino alle loro labbra sacrileghe! Che soffochino bestemmiando e urlando di dolore! E che gli echi dei monti ci portino i loro lamenti!!

Mai soffriranno quanto hanno fatto soffrire!

V

In una bella sera di maggio salivo pensoso il sentiero che serpeggia attraverso i boschi cedui della collina, sentiero stretto, sabbioso, simile alla riga bianca che separa nelle ragazze i fitti capelli.

I primi odori dell’erba, la rugiada che bagnava i fiori, le fresche emanazioni del sole si confondevano nell’aria, promesse di nuova vita, di migliore salute.

Vedendo la natura così giovane e bella mi sentivo rinascere in felicità alla poesia. E pensavo ai mari che rinascono e ai bambini che muoiono. E non sentivo più né la malattia né la fatica. E non ero più triste.

Ed ecco che dall’alto di una grande quercia, l’anima delle primavere, l’usignolo dal timbro sonoro, espresse i pensieri che la notte trasparente faceva nascere nel suo cuore.

L’uccello diceva:

“Che cosa sopportate, montagne possenti? Che proteggi, volta dei cieli così estesa? Fiume sognatore, di chi culli il sonno? Chi rinserrate, sotterranei di Superga?”.


Con la voce profonda dei suoi abissi la montagna rispose: “Sostengo due o tre pugni d’ossa. Se volessi voltarmi sull’altro piano, inghiottirei i resti venerati dei duchi di Savoia, li confonderei con la selce e l’argilla delle mie viscere. – E il più fedele dei loro sudditi non li riconoscerebbe più”.


Con la voce chiara delle sue stelle la volta dei cieli rispose: “Proteggo le iscrizioni pompose, i marmi luccicanti, i fasci d’armi, gli elmi, le spade, le corone ricche di diamanti. Ciò che c’è di sotto non vale quello che c’è di sopra. Se volessi piangere con i miei uragani, adirarmi con i miei fulmini, scoppiare a ridere con i miei lampi, disperderei ai quattro venti dei cieli i resti venerati dei duchi di Savoia. – E il più fedele dei loro sudditi non li riconoscerebbe più”.


E il fiume rispose con la voce argentata delle ninfe delle sue sponde: “Cullo i sogni di grandezza spenti, le ormai ridicole presunzioni, i testamenti e i titoli molte volte strappati dai popoli sovrani. Se volessi gonfiare le acque della mia sorgente, assediare i monti e rodere le loro basi, porterei via i resti venerati dei duchi di Savoia nelle pieghe in movimento del mio vestito, e li mescolerei con la melma e le sabbie del mio letto. – E il più fedele dei loro sudditi non li riconoscerebbe più”.


E i sotterranei risposero con la voce vuota dell’eco: “Rinchiudiamo col ferro arrugginito le briciole della magnificenza, dei sovrani, vermi che si arrampicano, gas che fa molto rumore e le più stanche spoglie dei grandi, le loro viscere e le loro parti nobili. Se ci accadesse di spaccarci per il freddo o di scoppiare per il calore, faremmo penetrare i poveri resti dei duchi di Savoia nei pori del nostro granito. – E il più fedele dei loro sudditi non li riconoscerebbe più”.

VI

Durante i grandi freddi, il triste uccello dei trapassati, la cincia prudente, si avvicina alle abitazioni degli uomini. Sotto la mia finestra sento la sua voce che cigola…

– Messaggero di ironie dall’alto, quale disgrazia mi annunci?

E lei canta ancora:

“Bianca è la terra; bianchi sono gli alberi e i loro rami di merletto: bianche le rive del fiume e le loro frange ghiacciate. Bianchi gli abiti e la barba dell’uomo che corre nei campi; bianchi i lenzuoli e ciò che coprono. Bianca è anche la mia gola come la stola del prete. – La Morte miete a gennaio!

“Neri sono gli scheletri degli alberi; nera la notte, nero il giorno; nero il coperchio del firmamento; neri i sarcofaghi e le ceneri che racchiudono. Neri sono anche i miei occhi, la mia testa e le mie zanne uncinate. Sono vestito come il prete, tristemente e caldamente. – La Morte miete a gennaio!

“Vi sono lacrime nell’aria e negli occhi; il fiume trasporta pezzi di ghiaccio; il povero giace sotto la neve, vicino all’erba dei campi; i re muoiono sui loro troni; le perle del diadema penetrano nei loro crani come pugnali arroventati. – La Morte miete a gennaio!

“La fame mi rende crudele; non voglio morire. Aprirei la testa delle mie sorelle col mio becco puntuto per vuotarne il cranio. La più forte di noi sotterrerà le altre. Sono esempio agli uomini. – La Morte miete a gennaio!

“Non vengo ad annunciarti la morte: il Dio degli schiavi lascia vivere gli uomini liberi allo scopo di farli soffrire. Non canto la morte dei tuoi amici: per essi come per te, la morte sarebbe un bene. Vengo ad annunciarti la fine di molte altezze coronate. – La Morte miete a gennaio!”.

– Uccello del malaugurio! E che m’importa della morte dei re? Non li conosco per nulla, non li amo, non li odio. I re sono dei poveracci; i re sono schiavi di altri uomini. Eh! che mi interessa della morte dei re? Ne rido e mi scaldo. – La Morte miete a gennaio!

… Vergognoso come un gesuita colto sul fatto l’uccello del malaugurio vola via. Attraverso la finestra mal chiusa la fredda tramontana fa sentire per tutto il mattino l’ironia della sua voce. E questa voce ripete: – La Morte miete a gennaio!

Dopo questo giorno, non posso più sentire il canto della cincia.

VII

L’inverno è stagione di morte. In questo periodo dell’anno, la natura presenta tutte le caratteristiche del cadavere: freddezza, immobilità, livido pallore. Simile a una lampada d’oro, il sole si consuma tristemente sulla volta del sepolcro dell’universo.

Niente tuttavia muore. Gli esseri si riparano per rivivere più belli; attendono il dolce alito di primavera.

Ascoltate la montagna ronfare sotto la sua coperta di neve. Attraverso le nuvole grigie vedete affacciarsi il sole, colossale lucciola. Il torrente muggisce sotto il ghiaccio, il nostro sangue, un istante fermo per il freddo, gonfia di nuovo le vene; il seme scoppia nel solco.

Tutto è coperto dalla voce delle tempeste; tutto ciò che vacilla, cade; tutto ciò che trema muore di spavento; le foglie gialle portate via dagli alberi; i malati si lasciano andare al supremo dileguamento.

Voi che tenete alla vita, non guardate troppo il fiume passare sotto i ponti, non gettate lo sguardo fino in fondo all’abisso, non ascoltate troppo ampiamente la tramontana di gennaio! I nostri sensi hanno le loro debolezze, e la morte le sue seduzioni.


Che rude mese il gennaio del 1855! Ha portato con sé molte donne e molti bambini! E i vecchi ottuagenari non ricordano di averne sopportato di simili dal 1829!

Dopo la rivoluzione e le vendette degli anni precedenti, dopo le calamità e la peste dell’estate, insieme alla Carestia e alla Guerra, il Freddo decima gli uomini! Ebbene la Fatalità mieterà la popolazione della terra; colpirà ricchi e poveri senza distinzione, perché gli uni e gli altri sono ugualmente colpevoli!


Della real casa di Sardegna tre sono morti in questo mese fatale! La prima vittima è stata Maria Teresa, figlia imperiale d’Austria, sposa del magnanimo Carlo Alberto, madre del re regnante. – Che i gesuiti conservino nell’acqua salata il cuore di questa vecchia bigotta! Lei ha troppo sofferto nel vedere sopprimere i conventi!

La seconda è stata Maria Adelaide, arciduchessa d’Austria, regina regnante del Piemonte. – Rispetto alla donna che soccombe coraggiosamente nel penoso travaglio del suo sesso! era la sesta volta che la regina affrontava i pericoli del parto. La Morte, per la quale l’avvenire non ha segreti, sembra spesso volerci risparmiare delle pene. È vicino il giorno in cui i battaglioni dei Savoia si leveranno di nuovo contro l’impero d’Austria, e si dirà quel giorno: la morte è venuta in tempo a fermare gli occhi della povera donna; essi avrebbero troppo pianto di questa guerra crudele!

La terza vittima è stato Ferdinando Maria Alberto, duca di Genova e fratello del re. – Pace alla sua anima guerriera! L’esercito piange colui che tinse col suo sangue le campagna di Navarra. Possa vedere presto dalle alture di Superga, l’aquila d’Austria fuggire davanti ai tre colori, i tre colori d’Italia!


… L’aquila austriaca

Che, per più divorar, due becchi porta!...

Luigi Alemanni

VIII

Un giorno che ero andato in alta montagna di buon mattino, ho sentito un colpo di fucile prolungare il suo tuono nell’immensità sonora. E questa detonazione mi fece trasalire. Purtroppo! è sempre col rumore che la disgrazia si annuncia; la natura ha mille voci formidabili per cantare l’inno delle sue collere:

Dies irae! Dies illa!!

E con i miei occhi inquieti cercavo nell’estensione dei cieli. Ed ecco: vidi uno sparviero colpito a morte, girare due volte sulle sue ali sanguinanti, cadere dall’alto sulla neve bianca, dibattersi e morire! E nello stesso istante tutti i piccoli uccelli che erano sugli alberi volarono vicino allo sparviero morto. E con voce lamentosa gridarono:

Dies irae! Dies illa!!


La bruma del mattino bacia la capigliatura delle foreste. L’Aurora dalla dolce luce risveglia i mondi. – L’Aurora che non conosce per niente le pigre carezze dell’amore, la povera giovane sempre fresca, sempre vergine e vigile, sacrificata nella sua giovane tenerezza come una monaca:

Dies irae Dies illa!!

Ridiscendo la china dei monti, lo spirito affaticato da sinistri presagi. Purtroppo! non si trattava di profezie di felicità! Col suo dito che distrugge il Dio del Male li aveva colpiti tutti:

Dies irae Dies illa!!


Questo giorno, Torino la bella città, è in lutto, in lutto regale. Sulla piazza Vittorio Emanuele i furgoni pesanti si allineano; le bambine tricolori dispiegano nel vento i loro lunghi veli di crespo; le finestre sono chiuse e piene di iscrizioni funebri; una moltitudine di soldati staziona, arma al piede, lungo i portici:

Dies irae Dies illa!!

Il cannone srotola le sue urla da una montagna all’altra; dalla profondità della valle le lugubri campane, i tamburi del lutto, i cavalli nitrendo rispondono al richiamo del bronzo delle battaglie. Singhiozzi delle agonie principesche, voci di collera e di assassinio, voci di resurrezione, di morte e di preghiera, trombe dei giudizi, urlate dunque, urlate:

Dies irae Dies illa!!


Pan è morto! Pan è morto! – Ecco ciò che cantano, con le loro voci ipocrite, preti, magistrati, dignitari dai ricchi costumi. Perché il supplizio dei re comincia dal loro ultimo sospiro, dal momento che possono sentire l’amaro sapore delle lacrime che diffondono i cortigiani sulle loro casse da morto:

Dies irae! Dies illa!!

Pan è morto! Pan è morto! Così gridano le donne e i bambini, pifferi acuti nel concerto delle folle. Così grida l’operaio che passeggia, privo di lavoro, tutte le volte che muore un principe:

Dies irae! Dies illa!!


Tre volte in un mese la Morte sorda ha colpito quella fra le famiglie reali che meno meritavano la sua implacabile ira, la casa di Savoia. Tre volte in un mese, ho visto passare otto cavalli attaccati a un carro funebre, la testa coperta di alti pennacchi, la sciarpa del lutto ai fianchi:

Dies irae! Dies illa!!

Essi schiumano; trascinano dietro di loro un lungo corteo: valletti, generali, accademici, ministri, mendicanti, monelli, vescovi e prefiche. Non ho visto calare una sola lacrima da tutti i nostri occhi aridi. L’ultima, la più lunga delle nostre strade mortali, i re la vogliono fare in modo diverso dai poveri. E tanto peggio per i re! Perché i poveri escono da questo mondo senza rumore e senza scorta, ma almeno qualcuno di loro resta per rimpiangerli e benedirli; per lasciare alle loro ombre una parola d’amore. I re partono per altre terre come i condannati al patibolo; i più brillanti nella loro scorta, sono i gendarmi:

Dies irae! Dies illa!!


Di tutti questi esseri che portavano un cuore e seguivano i carri funebri, non ne ho visto che uno solo. L’avevo notato di già nel convoglio di Napoleone I e in quello di Wellington. È il cavallo del guerriero morto che porta la sua grande spada e i suoi speroni; è il corsiero che conduce il padrone alla sua ultima tappa:

Dies irae! Dies illa!!

... Il giorno che hanno rimesso nella sua ultima dimora la spoglia mortale di Ferdinando Maria, duca di Genova, tenevo sottobraccio l’artista che aveva passato due notti, martellando nello zinco la corona deposta sul carro funebre, Xavier Charre, un operaio, un proscritto! Il suo padrone gli aveva dato cinque franchi con la mano sinistra, mentre ne riceveva duecento con la mano destra. Quanto più ne ricevono tutti quelli che formano questa interminabile catena di sfruttamento che lega il ministro all’operaio!

Dies irae! Dies illa!!

IX

Sulla destra dell’Eridano, di fronte alla città dalle case con gli archi, si eleva un tempio il cui duomo è brillante. È la Gran Madre di Dio, che i Piemontesi costruirono, in segno di liberazione, quando i duchi di Savoia ritornarono sui loro Stati di Terraferma, dopo la caduta di Napoleone imperatore e re.

È là che il corteggio dei re li lascia e che il vescovo di Torino chede loro se vogliono salire a Superga?! Gli augusti morti non rispondono niente, si suppone che acconsentano. E si dice loro addio.


Addio! c’è una pagliuzza negli abissi, un punto nero nei cieli, una goccia di sangue nel mare, un sospiro nello spazio, un secondo nell’eternità!

Nella lingua degli amanti, dei mariti e delle madri, addio, è disperazione!

In quella delle ereditiere, è imbarazzo!

In quella dei forti, è arrivederci!

In quella dei notai e del prete, è profitto!

In quella del medico, è perdita!

In quella del pubblico, è indifferenza!

In quella del cortigiano, è ingratitudine!

Addio! è una ferita nel petto, una palla nella testa, la punta di una spada nel cuore! È la preghiera, l’emozione suprema, la verità per chiunque sente vivamente! Per chi non prova niente, è la menzogna!

Addio, è la libertà!!

Federico Robotti

Sogni dorati dell’età primiera

Perché tan vivi ritornate in mente

Perché venite a conturbar la sera

Di questo cor’ in sull’april morente

Deh! lasciatemi, oh sogni dolci e strani

In questo dì che non avrà domani!

F. Robotti

I

La morte delle regine mi lascia freddo. – Si rimpiazza così facilmente una regina. E le famiglie principesche hanno gioielli, corone, feste e poeti a discrezione, per consolarsi. – La morte delle regine mi lascia freddo…

Ma quando la pesante Morte si abbatte sulla falange sacra degli artisti, allora piango! – E se non bisognasse che la mia vita, per conservare fra gli uomini una grande voce che si distende, donerei con gioia la mia vita…

– Perché l’artista è re della terra, re per il cuore e il genio, re benedetto da tutti e sacro per le sue proprie mani. Gli altri re sono istrioni e valletti di padre in figlio. –

Ma quando la Morte dall’occhio penetrante, sceglie fra noi, poeti, i più generosi e i più amati, quando ci toglie un democratico di vent’anni, bel giovane uomo fragile, posseduto da questo primo amore dell’umanità che non ritorna più… Allora mi domando perché sono risparmiato, io che conosco tutte le disillusioni e tutte le disperazioni, io che ho vissuto più di un secolo in trent’anni. E accuso il Destino…

Ma quando la morte senza seni e senza viscere prende un’artista-madre, la donna che il popolo adora, la prima attrice d’Italia, la primogenita dei suoi figli… Allora penso che da circa sei anni, io sono morto per mia madre, e che sarebbe meglio per la sua tranquillità che lo fossi davvero.

Ma quando la Morte che non sa dove andare rapisce alla giovane Italia chi giurava di combattere per essa… Allora io sogno, io, che non ho più patria, che il mio braccio è così debole e l’umanità così pesante; che invano mi consumerei contro il torpore di questo secolo… tanto varrebbe la tomba!


Esiliato sulla terra, obbligato a nascondere perfino il mio nome, straniero dappertutto, mi è impedito di cedere alle più imperiose sollecitazioni del mio cuore. Io non ho conosciuto Federico Robotti.

Ma ho conosciuto sua madre: l’ho vista disperata in Marie-Jeanne, artista e amante in Cœur et Art, eroica nei Bacchanales de Rome, sempre donna, sempre commovente, sempre sublime!

Sono un’anima in pena, un uomo libero da ogni tirannia. E i grandi caratteri, i grandi talenti, le grandi disgrazie mi attirano. Amo la musa di Rossini, di Petrarca di Dante e di Guerrazzi, la vergine di Raphaël, la terra di Galilea, la Minerva di Camillo, di Ferruccio e di Garibaldi, la Dea dell’ispirazione, dell’amore e del coraggio, l’Italia dei tre colori!

Voglio preparare nel mio cuore una camera ardente per la tua memoria, Federico! Voglio evocarla con quella dei morti adorati; voglio avere un degno amico in più. E di quelli che non ce ne sono più quaggiù! I più felici, i migliori volano alzando le ali verso le regioni risplendenti dell’avvenire. Così tu, fratello mio, che adoravi l’umanità del doppio e grande amore del poeta e del vendicatore.

II

– Ah! lasciatela piangere!

Lasciatela piangere, povera madre! Tutte le grandi anime piangono. I cieli piangono la rugiada; la terra, le sorgenti; i fiori, la linfa; la gazzella ferita, il sangue. E l’Angelo dell’infinita tenerezza raccoglie le lacrime degli esseri per formare l’arcobaleno dei colori della speranza!

Lasciatela piangere, nobile donna, sulla terra colpita dal nero becchino. Dalle ferite della nostra madre comune scappa un profumo di freschezza, come un’anima vergine che amiamo. La terra conosce così i dolori dell’infanticidio e quelli della separazione. E le madri si comprendono!

Lasciatela piangere, madre troppo sfortunata, sul terreno che copre il suo beneamato. Le lacrime dei suoi grandi occhi intenerirebbero le pietre; esse faranno fiorire in primavera le rose e le primule, mantello segoso dei trapassati.

Ah! lasciatela piangere.


Quando i grandi cuori sono afflitti sulla terra, gli angeli, nei cieli, attaccano un velo alle loro ali d’oro. Ma gli uomini del mio tempo mangiano, bevono e gridano tutta la notte:

“Noi vogliamo la gioia, il rumore, i concerti e i balli! Abbiamo bisogno di amori, di carne e spettacoli a buon mercato. Beviamo, facciamo bisboccia! Andiamo a vedere come una madre desolata ricopre il ruolo di cortigiana due giorni dopo la morte del suo bambino! Ciò non costa che otto soldi!!”.

Miserabili!… Ho visto la lingua del cane da caccia sporca del sangue della pernice chioccia; ho visto il gufo digerire, confortevolmente, i suoi festini notturni. Ma non ho mai visto niente di così odioso come una sala piena di borghesi venuti espressamente per spiare i singhiozzi di una madre, per respirarli, berli, massaggiarsi le mani e il ventre, e dire: mi diverto grazie al mio denaro!

Non è necessario infatti che gli affari si facciano, affari di commercio e affari d’arte? Da quando il dolore ha più diritto del sano privilegio dell’imprenditore? Le moderne furie, la Pena, la Bramosia e la Miseria sono avide di gioie quotidiane. Si cammina sugli occhi dei morti, si strappano i cuori dai petti squarciati, li si fa battere davanti al pubblico immondo. E il Pubblico si dichiara appena soddisfatto! Ah! mille volte più mostruoso della società della Medusa!!

Quando le regine muoiono i teatri sono chiusi. Non c’è tristezza né simpatia, vi dico, se non per ordine del governo!… Oh! pudore!!

III

– Ah! lasciatemi piangere!

Lasciatemi piangere, povero me. – Perché non ho che lacrime da dare a questa grande disgrazia. Ma i sospiri del mio cuore valgono bene i discorsi che lasciano cadere preti e filosofi dalle loro labbra sottili!

Lasciatemi piangere, me proscritto. – Perché vi sono dei dolori che non si addolciscono per niente, ma che si condividono. E questo è il mio dolore, il dolore mio che sono separato da mia madre. E così è il dolore della madre separata dal suo bambino!

Lasciatemi piangere, da sognatore. – Perché sono molto lontani i tempi felici, i tempi dell’amore, dove le società renderanno un culto alle arti, alla tomba e al dolore. E fino a quando questi tempi non discenderanno dall’alto dei cieli, l’Angoscia dal lungo dardo cercherà il cuore del poeta, come la lancia quello del guerriero.

Ah! lasciatemi piangere!

IV

– Se ti dicessi: Madre, consolati! – Me lo perdoneresti?

Se ti dicessi: Oh! l’anima è così profonda! I grandi cuori si attirano in tutte le esistenze! – Mi lasceresti continuare?

Se ti dicessi: l’Amore, la Gloria, il Genio più liberi, più sublimi vi riuniranno ancora sotto le loro ali, madre e figlio, meno sofferenti, più felici? – Mi crederesti?


E se ti dicessi: Oh madre! la corona dei poeti è nelle mani dell’avvenire: il presente soffoca i nostri sogni sotto il suo peso!

La corona degli uomini liberi è nella mani dell’avvenire: il presente, è la Schiavitù!

Madre, saresti meno triste?


E se ti dicessi: è un’arte sublime che non conosciamo, e che tuo figlio intravedeva di già!

È una Italia libera in vista della quale caschiamo di fatica, e che già tuo figlio abita!

Madre, sorrideresti?


No, perché le mie simpatie sono tristi, e le mie ispirazioni affaticate. No, perché la mia voce solitaria non fa più battere il mio cuore soltanto. E se svegliassi in te soltanto un ricordo, questo sarebbe l’ultimo istante del tuo beneamato.

Madre, mia povera madre, tacerò. Non riaprirò le ferite della tua anima. Ma ascolta, sorella mia, la sua parola, la parola del tuo ragazzo!

V

– Chiara è la notte; carezzevoli i tuoi raggi, casta Dea dell’argento crescente; il cielo glorioso d’Italia si accende al chiarore di milioni di stelle… È il diadema dei beati!

L’ultimo coro dei battellieri si è perduto sulle acque; simili a una banda di cigni, le barche dal collo lungo (i battelli che corrono nelle acque padane hanno la poppa lunga e ricurva, simile al collo degli uccelli acquatici) sotto i boschi scavati dell’Eridano che dorme. I puri vapori, i vapori blu, discendono sulla terra profumata. Le Alpi si raccolgono come penitenti bianche che vanno a confessarsi.

Sul duomo del Monte (convento di cappuccini sulla collina omonima) che domina le alture, mezzanotte suona lentamente. Le tranquille vallate ripetono in lontananza i tetri clamori dei bronzi religiosi. Poi tutto ridiventa silenzio. Ah! certamente è una grandissima voce quella che parla per tutta questa natura assopita!

Ascoltami, madre! è la dolce armonia dei sogni. E tu sentirai la voce gioiosa di colui che recitava versi. E questa voce dirà:


“Vengo al tuo capezzale, mia tenera madre, per vedere se la benefica mano del sonno ha chiuso alfine le tue palpebre. Poiché non posso parlarti che nei tuoi sogni. Almeno questa volta, l’Angoscia dalla fronte rugosa ti lascerà un’ora di riposo. – Buona madre, ascoltami.

“Non languire più, non piangere più, santa madre! Non turbare la mia suprema felicità con l’amarezza dei tuoi rimpianti!

“Vedi! non tossisco più. Queste cattive placche rosse delle mie guance che ti facevano paura, la Malattia le ha riprese per diffonderle su altri bambini, per terrorizzare altre madri. Io sto bene; sono bello, più bello dei miei fratelli, più bello di te, forse.

“Vedi ancora! L’ateniese dalla carnagione dorata, la fedele amante del poeta si è chinata sulle mie labbra, ha baciato i miei occhi. Nel mio petto ha messo il fuoco che non si spegne più; nella mia voce lo scoppio del tuono e il gaio mormorio dei ruscelli delle nostre colline!

“Ascolta! Ascolta! Canto come i popoli insorti; canto l’uccello grigio che passa la notte sotto il cielo delle primavere, cielo di gloria, di poesia, di libertà, canto come canteranno i giovani artisti dell’Italia futura. Canto, mio Dio! perché non posso impedirmi di cantare. – Buona madre, ascoltami!

“E i miei amori, i miei amori d’angelo, madre artista, non rifiutare di condividerli. Ecco la mia fidanzata, romana della nuova Repubblica, figlia dai piedi di gazzella, dai lunghi capelli d’ebano. Non sembra fatta per volare nei cieli di Ausonia, i fianchi cinti delle più bianche nuvole?

“Le parlo di te, della tua voce penetrante, del tuo gesto pieno di grandezza, dei tuoi trionfi oscurati dalla tua tenerezza e dalle tue pene. Lei sa tutto questo. E tutti e due, madre, noi ti amiamo molto!”.

VI

– Oh madre! molti più misteri ti rivelerà, qualche notte, la sua parola, la parola di tuo figlio. Questa voce è al fondo del tuo cuore e puoi riconoscerla. Non sono io che posso riprodurla; gli stessi biondi cherubini non saprebbero imitarla.


… Allora, forse, mi perdonerai d’avere intrattenuto il pubblico con la profonda afflizione, di avere fatto tornare una di queste ferite che durano tutta la vita e che non trovano sollievo che nella solitudine, il silenzio e la notte; dolore che non può arrivare fino a me se non dopo avere percorso la cerchia numerosa dei suoi parenti, amici e di tutti coloro che lo conobbero.


Felici i morti che piangono! Ve ne sono tanti che si rotolano tutti vivi nel sudario dell’oblio!!

Felici quelli che muoiono prima che la malevolenza degli uomini abbiano fatto bianchi i loro capelli! Ve ne sono molti che la pena invecchia prima dell’età!!

Felici quelli che passano veloci su questa terra! La vita non è altro che un’eterna preparazione!!

I morti ritornano. I morti pregheranno per noi!

Victor Hennequin. Il cielo sulla terra

La Carne diventerà Parola, l’Uomo diventerà Dio.

Affermo ciò nel presente anno 1855.

I

– Si dice che l’uccello di Venere, il cigno voluttuoso, piange il suo canto supremo quando sente passare il coltello del sacrificio sulle bianche piume del suo collo.

Si dice che otto mesi dopo la sua morte, il grande italiano esiliato, Dante Alighieri, ricomparve in mezzo ai suoi discepoli. Era risplendente di luci immortali, viveva la vera vita, del tutto differente della nostra. A quelli che l’avevano amato nella disgrazia rivelò l’esistenza dei tredici ultimi canti della Divina Commedia, che si erano creduti smarriti.

Si dice che André Chénier, condannato a morte dal tribunale del sangue, alzò la sua nobile testa verso l’ascia rivoluzionaria e battendosi la fronte disse: c’era qualcosa dentro!

Si dice che i bei girondini, durante la notte prima della loro morte, celebrarono la Libertà, la Giustizia e l’Amore con sublimi ispirazioni.

Si dice che la statua di Memnone, colpita dal sole levante, lascia sfuggire una lamentosa melodia che risveglia gli esseri addormentati.

Si dice che la Fenice si rialza, le ali spiegate, dal suo sudario di mirra e di aromi.

Si dice che Orfeo, il cantore tracio, poté discendere agli inferi e ritornare alla luce del giorno.

Si dice che gli ultimi pensieri dei più divini mortali sono ancora più grandi; e che nell’ora della morte, Socrate, Dante, Machiavelli, Cristo, Gilbert e Moreau profetizzarono.

Si dice che i malati di petto, dove è un male che rode, amano più degli altri gli angeli della terra, le donne dal sorriso consolatore.

Quando la morte dalle ali di crespo plana troppo vicino al mondo gemente dei malati, ognuno di loro si sforza di trasmettere alla posterità quello che c’è di più ineffabile in lui, chi il pensiero e chi l’amore! La Vita ruba alla Morte tutto quello che ha di più prezioso.

Così l’albero che si spoglia lascia portare dai venti d’autunno le sue sementi. Così l’Umanità si conserva e si salva nel mezzo dell’universo minacciante.

II

– È morto, Hennequin, morto come i giusti, morto profetizzando, morto d’ispirazione e di miseria, morto nella disperazione! – Aveva visto il cielo!

Non poteva soffrire più a lungo nella cerchia degli infortuni, dei disastri e dei furti civilizzati. Il serpente lo soffocava, il serpente di questo mondo intravisto dal profeta dell’Apocalisse, l’orrido rettile che ha per testa la borghesia, il Véron-giornalista-ipotecario-senatore, ascesso di obesità e materia purulenta, e per coda il vestito a strascico della prostituzione. Era necessario morisse! – Aveva visto il cielo!

È morto, Hennequin! e non è il solo. Molti sono i giovani che lo hanno preceduto nella tomba, molti quelli che lo seguiranno. Con le sue mani d’argento, la Società scava la fossa a tutti quelli che pensano, parlano e lottano, ai sognatori, a tutti i profeti, a tutti i vendicatori, agli esiliati che sospirano dietro la patria dell’avvenire, la patria del tempo, la vera patria. Lamentevole destino! Spaventosa ecatombe! Quanti madri piangeranno! – I loro figli hanno visto il cielo!

Il Cielo! sì, quello che Hennequin chiama il mondo delle attrazioni e delle armonie, il cielo che ognuno crea a seconda della propria intenzione affettiva o intellettuale, a seconda del suo amore e della sua fede, il cielo che intravedono tutti gli uomini preoccupati del proprio destino d’oltretomba!

Il Cielo! cioè la Resurrezione, l’indomani, l’aurora, il riposo, il risveglio, la terra delle promesse e delle speranze, il paradiso dei sogni, il concerto degli amori, l’armonia delle arti, il trono splendido della Libertà!

Il Cielo! la riva desiderata, sfuggente, sempre cangiante, che distinguiamo appena quando è vicina al vascello che ci tiene prigionieri, ammucchiati fra le onde e la schiuma di questa vita mortale!

Il Cielo che attendiamo! Perché il nostro Dio, il nostro nemico, è la scoperta più vicina che dobbiamo fare, il nostro Paradiso e il nostro Inferno sono nella generazione che ci spinge. I Cieli dell’uomo sono sulla terra, i Cieli dell’uomo sono nell’Umanità! – Noi possiamo vedere il Cielo!

III

– Ho visto il cielo dell’operaio, dell’artista e dello scienziato. Ho percorso le sue città magnifiche, mi sono disteso nelle sue aiuole in fiori; mi sono riposato sotto le sue tende di verzura, al bordo di fresche sorgenti, presso i salici profumati. Sono passato gioioso nelle sue sale in festa. Ho contemplato i beati faccia a faccia e gli ho parlato. E ho compreso l’Armonia, la Felicità, l’Accordo fra gli uomini che ci seguiranno. – Osanna!!

… E come ho visto questo Cielo, ognuno potrà vederlo sulla terra, fra un secolo!


L’operaio non batterà più il ferro con il pesante martello, così lento alla bisogna. Non esporrà più il suo corpo ai forni ardenti. Non lavorerà più il piombo, il rame, il mercurio, i sali e gli acidi che fanno morire. Non sarà più costretto a compiti ripugnanti, alle veglie lunghe, alle fatiche che spezzano le costituzioni più robuste. Non trascinerà più i suoi bambini e sua moglie, vittime innocenti, al nero lavoro nelle notti. Potrà soddisfare alfine tutti i bisogni del corpo e dell’anima. – Ogni sfruttamento sarà cessato.

Macchine potenti batteranno i metalli che la metallurgia renderà più malleabili. Dalle viscere della terra sarà estratto il fuoco, il fuoco sempre ardente. Ogni preparazione deleteria sarà modificata, distrutta e rimpiazzata.

E l’Operaio diventerà il Genio conduttore delle officine fumanti. Con un movimento del suo dito, il vapore, la fiamma e l’acqua rallenteranno, si arresteranno, precipiteranno il loro corso. La tensione del muscolo sarà scomparsa sotto quella dell’intelligenza creatrice, raggiante, sovrana. La fatica avrà fatto posto all’astrazione, la freschezza dell’ispirazione alla febbre delle voglie, il Proletario all’Angelo, l’Uomo a Dio!

E l’operaio riposerà delle sue concezioni febbrili nel mezzo delle donne e dei bambini la cui funzione sociale è di abbellire la vita degli uomini circondandoli di cure e di tenerezze, preparando loro giorni di gioia, notti d’amore. – Osanna!!

… E come ho visto questo Cielo, ciascuno potrà vederlo sulla terra, fra un secolo!


L’artista e lo scienziato non si consumeranno più nella solitudine e nella miseria. Non saranno più schiacciati dalle pesanti preoccupazioni della vita quotidiana. Non saranno più spinti al suicidio sulla strada senza fine dell’angoscia disperata.

No, ma svilupperanno le aspirazioni delle loro anime nelle immense assemblee dove tutte le arti e tutte le scienze riuniranno i loro capolavori, fra i concerti celesti, le danze aeree, le meraviglie del lusso, le pompe e le delizie della vita.

Avranno libri a profusione, dipinti, giardini, sorgenti sgorganti. Per le ore di lavoro locali di studio freschi e silenziosi. Per le ore di ozio cori rumorosi, evoluzioni, rappresentazioni teatrali, bagni di latte, nuvole di incenso, gruppi di uri nelle pose più voluttuose; riverse, coricate, pronte a tutto, sognanti, sbadiglianti, intrecciate, sorridenti, irritanti, deliranti, frementi, rabbrividenti, ubriache di baci d’amore! – Osanna!!

… E come ho visto questo Cielo, ciascuno potrà vederlo sulla terra, fra un secolo!


In verità vi dico, vi sono altrettanti cieli quanti sono gli uomini e le attitudini umane. E sotto il nome di vocazione ognuno persegue il suo cielo da un’esistenza all’altra. Il Paradiso e l’Inferno sono sotto i nostri piedi; essi girano, passano, ritornano, e noi vi corriamo dietro. Non cercateli altrove, uomini, miei fratelli smarriti! Dio non è più sulle nostre teste! tutti i tiranni sono morti!! – Osanna!!

… E come ho visto questi cieli, ognuno potrà vederli sulla terra, durante la lenta evoluzione dei secoli!


In verità vi dico, l’Inferno è dietro di noi e il Cielo davanti. Ricomparendo nell’umanità, lo scienziato ritrova la sua tradizione; l’operaio, il suo lavoro; l’artista e il poeta, i loro sogni; li ritrovano nel punto stesso dove li avevano lasciati nella loro esistenza anteriore. Da quando lo spirito dell’uomo si sveglia alla luce, egli si appropria in qualche anno del lavoro di secoli. Noi viviamo soprattutto grazie al ricordo di un’esistenza passata, grazie alle nostre aspirazioni verso le esistenze future. Il Presente è il Purgatorio. Nella sua essenza la vita è immortale, solo le sue forme cambiano. – Osanna!!

… E come ho visto questi cieli, ognuno potrà vederli sulla terra, durante la lenta evoluzione dei secoli!


In verità vi dico, le luci della Terra futura, della Terra celeste, saranno talmente eclatanti che gli uomini di oggi non potranno sostenerne la vista senza essere accecati, senza diventare come gufi intontiti. Queste luci rischiareranno di un tale splendore tutte le conoscenze umane che ciò che ci pare nero e tenebroso diventerà chiaro e bianco come la neve, per i nostri discendenti. Con le loro scoperte e la loro scienza, gli uomini si trasformeranno in dèi della luce. Ciò sarà veramente il secolo del Gas risplendente, dell’Elettricità rapida, del Giorno vivente, l’età del Fuoco, della Porpora e dell’Oro che ci verrà dall’Oriente con l’ardente sole! – Osanna!!

… E come ho visto questi cieli, ognuno potrà vederli sulla terra, durante la lenta evoluzione dei secoli!


In verità vi dico, gli amori della Terra celeste, della Terra futura, diverranno talmente deliranti, brucianti, fiammeggianti, eterei, essenziali, sublimi che se potessimo, oggi, concepirli col pensiero, non sapremmo più avvicinare le nostre terree donne e saremmo malinconici insieme ad esse come il bravo cittadino del Maine. Le donne della terra futura, della Terra celeste, saranno aeree, serafiche, profumate, agili, vaporose, come la Vergine Maria, l’Andalusa del divino Murillo, come le nuvole blu. Ci faranno fremere d’estasi quando passeranno sulle nostre palpebre la punta delle loro dita rosee, impalpabili. Il loro alito sarà fresco come la rugiada delle notti. Un sorriso delle loro labbra ci risveglierà gli Spazi infiniti, l’Eternità profonda. Ma simili amori non potranno durare, si consumeranno con l’eccesso stesso dei loro ardori. E negli intervalli gli uomini torneranno freddi, sognatori, studiosi, solitari. L’amore esclusivamente sensuale, l’amore monotono, l’amore di calcolo, dissoluto, il priapismo, l’amore lubrico e porco non saranno più possibili. Le figlie degli uomini non serviranno più da spugne per i banchieri. – Osanna!!

… E come ho visto questi cieli, ognuno potrà vederli sulla terra, durante la lenta evoluzione dei secoli!


In verità vi dico, io vedo il Giardino, il bel giardino dell’Eden, il giardino della speranza! Quanti fiori di porpora e azzurro! Quanti allori e rose! Quante passeggiate a perdita d’occhio, piene di fustaie! Quanti frutti dorati, bruniti dal sole! Quante api, farfalle, quanto miele e nettare! Vedo le verdi libellule volare sui ruscelli, tra il blu del cielo e il verde delle onde. Vedo giunchi sbocciare, ranuncoli, margherite e myosotis. Le ragazze ne fanno abbondanti raccolte, i bambini spigolano dopo di loro. Oh! i freschi vestiti bianchi e rosa, i puri diamanti, i magnifici orecchini, i fini ricami, i vari nastri! Oh! le eclatanti aureole di luce e di fuoco! Oh! le grandi città, le vaste piazze, le larghe strade splendidamente illuminate, liberamente areate! Oh! i portici spaziosi, tappezzati di affreschi, di quadri, di broccati, di estratti preziosi e fiori rari, pieni di armonie e profumi! Oh i magici palazzi di cristallo dalle colonne di topazio e di ametista! E poi i ridenti châlet nascosti nella vegetazione delle montagne, e le piccole casette a bordo dei fiumi, con le loro barche bianche o verdi che ondeggiano al vento! – Osanna!!

… E come ho visto questi cieli, ognuno potrà vederli sulla terra, durante la lenta evoluzione dei secoli!


Oh! il grande Paradiso senza limiti! Il Paradiso dove non ci si annoia mai, dove non si è mai impazienti, stanchi del peso della vita! – Il delizioso Paradiso senza freddi, senza secchezze, senza malattie, senza calamità, senza guerre, senza macchie di sangue! – Il Paradiso senza medici, avvocati, scienziati, governanti, imprenditori, commercianti e proprietari; senza serpenti, senza avvoltoi, senza erbe velenose! – Il Paradiso delle dolci brezze, delle fresche rugiade, dei limpidi cieli, dove tutti gli esseri sono beati! – I Cieli, i Cieli infiniti che hanno visto tutti i Profeti! E che anche io vedo, e nei quali entrerò ben presto, quando la mia anima gemente avrà spezzato il suo involucro, il suo involucro mortale! – Osanna!!

… E come ho visto questi cieli, ognuno potrà vederli sulla terra, durante la lenta evoluzione dei secoli!

IV

– Quando trascinavo la mia solitudine nel mondo deserto dei proscritti, una sola voce vivente arrivò fino a me. “Salviamo il genere umano!”, gridava. E mille clamori di disprezzo e di rabbia si levarono attorno al Profeta. Era la folla che abbaiava contro Victor Hennequin la banale accusa della follia! – L’Avvenire vendicherà le ingiustizie del Presente!

Alla sua anima, assopita nel mondo dei poeti, alla sua anima che si sveglia sulla soglia di una nuova esistenza, voglio rinviare, io, la Parola della vita. Rinasci nel genere umano, fratello, alzati, cammina, profetizza ancora! Attorno a te spingono le generazioni gioiose! – L’Avvenire vendicherà le ingiustizie del Presente!


Ridi allegramente, fratello mio! Gli sciocchi, i sazi, le scimmie, i pappagalli di questo mondo ti hanno detto folle. Ah! non è da tutti questo titolo di nobiltà!!

Ascoltali! Ascoltali! Sono figli di quelli che urlarono:

“Folli Socrate e Pitagora!

“Folli Pascal e Galileo!

“Folli Cristo e Maometto!

“Folle Rousseau

“Folle d’Holbach!”.

… Sii fiero! Ti hanno detto folle!!


Ascoltali! Ascoltali! Sono fratelli di quelli che gridarono:

“Folli Proudhon e Fourier!

“Folli Goethe e Leroux!

“Folli Saint-Simon e Kant! Hegel e Feuerbach!”.

… Sii fiero! Ti hanno detto folle!!


Ascoltali! Ascoltali! Sono loro che vociferarono:

“Folli i profeti e gli artisti! Folle chi si stacca dal gregge! Folle chi muore d’amore, di lavoro o di febbre! – Folli Byron, Alfieri, Mirabeau!!

“Folle il visionario, l’ispirato, l’estatico! Folle chi non si irrigidisce contro le sue passioni! Folle chi non soffoca la voce delirante del suo genio! – Folli Swedenborg, Donizetti, Lutero!

“Folle chi non è terrorista, monastico, comunista, arrabbiato, numerato! Folle chi non ha la sua sedia in chiesa, il suo rango nel Partito, il suo distintivo nella Polizia! Folle chi non è schiavo! Folle chi vuole restare libero! Folle chi vuole restare vero! Folle chi vuole restare giusto! Folle chi non apprende cataclismi, programmi e professioni di fede! Folle chi dice il suo pensiero!”.

… Sii fiero, fratello mio, ti hanno detto folle!!


Folle il poeta che canta:


Se domani, dimenticando di sbocciare,

Il giorno mancherebbe… Ebbene! Domani,

Qualche pazzo troverebbe ancora

Una fiaccola per il genere umano.

… Sii fiero! Ti hanno detto folle!!

Oh! che mi siano dati solo dieci anni di esistenza con la follia nel mio cuore!

V

– Saggi, molto saggi siete, in verità, signori di cannella, di calicò, mezze maniche e legion d’onore, signori del giornalismo, dei partiti, della polizia, delle accademie e dell’Istituto parlamentare dei Sordomuti! Ah! siete molto saggi, e i sognatori molto folli!!

Uomini del secolo, vanitosi e scettici, che non avete nemmeno più il pudore di rispettare i morti… vermi di terra e fili d’erba nell’universo immenso: sapete chi è folle? sapete chi è saggio? Chi di voi ha mai misurato l’intervallo che passa tra il Genio e la Follia? Chi di voi saprebbe distinguere il declino fiammante della Ragione dalla sua aurora splendente?

Mangiate, bevete, mantenete rosea e fresca la vostra carne preziosa, ma non volete dare uno sguardo al tracciato dei fulmini. Il crepuscolo del mattino, il crepuscolo della sera, la folgore, i grandi mari pieni di sangue, di fuoco, di zolfo e di fosforo vi accecheranno!

Oh! ben sazi, ben pettinati, perbene, uomini gai e beffardi che passate le giornate in conversazioni leggere, in pesanti pranzi! Immaginate quello che il Pensiero costa in deliri, in forze, in febbri, in dolori e sfinimenti? Avete mai sofferto per osare insultare la santa Ispirazione?

No, voi fumate, incrociate le gambe, cercate di passare il tempo, di farvi passare la sete, l’appetito e il verme solitario. Voi vi guardate per vedere degli uomini, vi ascoltate per cogliere dei pensieri, ridete per mostrare i vostri denti falsi, parlate per non dire nulla, vi girate per andare avanti, starnutite contro il giorno, ballate con le cornacchie, avete sempre gli stessi occhi per vedere sempre la stessa biancheria che fa sempre le stesse pieghe sugli stessi manichini umani, gli stessi manichini sapienti! Ah! la felice contraffazione che fate là nel teatro delle marionette!! Oh! la grande, la nobile vita, la vostra vita!

No, voi non sapete come si è portati lontano quando l’Immaginazione, dispiegando le sue ali, vi trascina attraverso i tempi e gli spazi, fra le razze e le nazioni, nelle città e gli universi! Non potete comparare il Piccolo al Grande, il Povero al Ricco, la Malattia alla Salute, la Morte alla Nascita, il Cadavere alla Vita, l’Anima al Corpo, la Terra al Firmamento, e il Grillo a Dio!


E quando l’uomo si sveglia da questo lavoro ispirato, quando deve riprendere piede sulla terra, quando dovrà sorridere agli spettatori di questo mondo e schiacciare nel suo cuore la Realtà pesante… Oh! è la Disperazione.

Allora diventa triste e concentrato, difficile da avvicinare, con parola esitante, di una freddezza che ferisce. Egli lo sente e se ne affligge. Il suo sguardo resta fisso, lo rivolge attorno a sé, come un ebete, come se venisse da un altro mondo.

Che gli valgono tutti questi uomini che si agitano e si appassionano per carte o costituzioni, per vergini o cortigiane, giornalisti, tribuni, ciarlatani, re, generali dal cuore d’argento? Che gl’importa di tutto questo rumore? Chi sono tutti questi insetti? Oh! quante lingue grigie piene di maldicenze! Che orrende piaghe! Che fisionomie stupide! Oh! i pugni spaventosi serrati sotto la tavola, i denti che digrignano, le labbra che schiumano, i baci di Giuda, i cuori spergiuri, gli occhi loschi!… Quanto siete brutti, Civilizzati!…

Lungi dal folle tutto ciò! Egli vi sfida, molto saggi uomini d’affari, a essere qualche volta felici di cuore, ricchi d’immaginazione. Lui non è di questi tempi, non è di questo mondo; vive nelle nuvole, vive nelle stelle, nell’ubriacatura delle armonie, nel sonno dei sogni, vive nell’avvenire! Ha rotto i legami che lo legavano al vostro piccolo mondo; non vuole sapere nulla né delle vostre persone né delle vostre convenzioni né delle vostre insopportabili chiacchiere. Ignora se è giovane o vecchio, ricco o povero, felice o scontento, stimato, disprezzato, sconosciuto, conosciuto, vivo o morto. Fischiate, calunniate, urlate, applaudite, piangete, danzate, fate ressa attorno a lui, non lo strapperete alle sue contemplazioni ultraterrene. Tanto varrebbe richiamare gli angeli all’esilio di quaggiù!

VI

– In una di queste ore di estasi dove noi, i folli, ci abbandoniamo al dolore come a una suprema voluttà; dove ci lasciamo morire per gustare l’infinita felicità; – in una di queste ore di irresistibili emozioni dove ci sentiamo abbracciati dalla fiamma d’amore; – in una di queste ore troppo rare, purtroppo, ho visto Hennequin e gli ho parlato.

Egli era dritto sulle nuvole; la sua faccia magnificamente bella, dalla sua capigliatura nera sfuggivano lunghi getti di scintille; teneva una mano sulla testa di sua moglie e l’altra sul cuore del bambino che aveva tanto amato; dai suoi occhi uscivano raggi di luce; l’orizzonte verso il quale si girava risplendeva di fuochi!

– “Salve, gli dissi, fratello della nuova patria, io preferisco vederti dopo la tua morte che prima, amo di più conoscerti felice che disperato. Sia benedetta la tua visita! Perché sono triste e solo, perché rotolo fra gli uomini come una pietra luccicante, e faccio loro paura, una paura da fantasma! Non conosco né il giorno né il mese di questo anno terrestre. Dimmi, fratello, che ora è adesso in cielo?”.

– E lui a me: “È l’ora in cui i guerrieri coperti di bronzo, le aquile, i galli si rinfrancano; – l’ora fatale ai gufi, agli uomini neri, alle tenebre; – l’ora in cui danzano sui monti l’Aurora e la Resurrezione dalle sciarpe di giaggioli, dalle capigliature dorate!

“Oh! com’è bello fratello mio, il cielo dei profeti, il cielo dei folli, il cielo dove si vedono faccia a faccia Amos, Ezechiele, Omero, Cassandra, Giovenale, Virgilio, Cristo, San Paolo, Dante, [Emanuel] Swedenborg, Lutero, [Jacques] Cazotte, Saint-Simon, Fourier, e il Grande, il Grandissimo, l’amante dei mari immensi, Byron, su una nave alata!

“Fratello non ti rivelerò tutte le magnificenze di questo cielo, perché tu non potresti più sopportare la vita che già ti affatica. E tu non sapresti più dire niente agli uomini; perché ti sentiresti non più nel presente, al di sopra dei tuoi sogni. Ma noi ti attendiamo, fratello, e fra di noi il tuo posto è già assegnato.

“Pazienza dunque! Che tu sia la tromba delle nostre voci che discendono dall’Eternità. – Grida, non ti trattenere. – Subisci il vero esilio, l’esilio fra gli uomini. – Vai dritto nel tuo cammino, attento alla voce del tuo cuore. – Erra per il mondo, cambia spesso di paese; ciò ti farà credere al cielo e prendere coraggio fino al giorno della liberazione. – Sforzati di piangere e ridere di tanto in tanto per non soffocare. – Ascolta parlare gli uomini, rispondi, scrivi per loro. – Sii vivo, se puoi, non lasciarti ancora andare alle seduzioni dell’oltretomba; non cogliere troppo spesso fiori nei camposanti. La tua presenza fra gli uomini ci è necessaria, per qualche tempo ancora”.


… E dette queste parole, Hennequin disparve, lasciandomi più rassegnato, più disposto al lavoro. Perciò decisi di accettare il vicinato della famiglia e della società, di lasciarmi comporre sulla terra una esistenza tale e quale, di sbadigliare tutte le mattine svegliandomi, di mangiare due volte al giorno, di prendere il coraggio a due mani, di divertirmi tutte le sere per misura igienica. Se mi rassegno a persistere in questa via avrò la forza, dopo sei settimane, di parlare dell’assedio di Sebastopoli e della crisi ministeriale piemontese con altrettanta impertinenza che i signori della letteratura impiegano giorno per giorno.

VII

Vi sono nomi sui quali il tempo passa senza imprimere il marchio della sua unghia. Il Tempo, il grande Distruttore, non saprebbe togliere un solo raggio dell’aureola che scintilla sulla fronte dei grandi uomini!


Così il nome di Carlo Alberto. Nacque re, re di Sicilia, di Cipro e Gerusalemme, principe di Piemonte, duca di Savoia, di Genova e altri luoghi. Ma volle essere uomo, la sua nobile esistenza fu divorata dal voto che aveva fatto di liberare l’Italia, per cui difese questo grande sogno con la spada e il sangue, e nella sua ultima ora, si avviluppò nella sua fede come in un mantello di martire, e morì, guerriero oscuro, nelle deserte spiagge dell’esilio.

Ed ecco perché il popolo saluterà Carlo Alberto col nome di Magnanimo! Ed ecco perché io me ne rido degli intrighi dei partiti e dei loro princìpi mentitori, e ripeto nelle mie povere strofe il grido di tutto il popolo piemontese – vox populi, vox Dei!

… E per quanto possa essermi costato, e per quanto possa costarmi ancora, voglio rimanere imparziale soprattutto verso i re, soprattutto verso i poveri. – La testimonianza di un uomo giusto nessuno può disprezzarla.

Dal seno dell’Atlantico si alza una roccia nuda, flagellata dalle acque, bruciante sotto il sole dell’Equatore. Non è più visibile di uno scoglio, non è indicata sulle carte del mondo. Ma occupa il pensiero di tutti gli uomini, è il sole moderno, e il pellegrino che può sbarcare a Sant’Elena può vedere un gruppo di salici che piangono sulle tombe. Ma a un quarto di secolo di distanza, due potenti nazioni vi inviarono i loro vascelli in onore di un solo uomo; il Bellerofonte d’Inghilterra ve l’ha deposto vivo, la Belle-Poule di Francia lo ha ricondotto morto. Il tradimento ha potuto solo imprigionarlo, solo l’umiliazione pagare il suo riscatto!… E lui, sommerse l’uno e l’altra nel torrente del suo splendore.

Sant’Elena e Parigi! Gran Bretagna e Francia, Hudson Lowe e Napoleone! Niente può separare questi nomi e questi ricordi: né la grande alleanza d’Occidente né il ferro dei suoi eserciti né il fuoco dei suoi cannoni. Tutto il sangue versato, tutte le acque del mare non cancelleranno mai la barbara prudenza dell’Inghilterra mercantile e la gloria sanguinosa della Francia imperiale.

Forse questo Bonaparte è stato grande per avere circondato la sua testa di una sottile foglia d’oro, perché ha fatto seguire al proprio cognome plebeo un numero d’ordine? Oppure perché l’audacia e il genio scatenarono i loro furori nella sua anima orgogliosa? È l’imperatore, l’alleato dei re, che veneriamo in lui? O il generale che fece volare nella polvere delle battaglie corone di re e di imperatori?

Il presente ci risponde, il presente triste e tetro, pieno di rimorsi e di singhiozzi. Sentite questo nome maledetto nelle prigioni e negli esili! Vedete questa corona sporca di sangue e di fango! È il tuo celebre nome, è la corona scintillante, Napoleone il Grande!

Ho detto grande… E non diciamo grandi l’aquila e l’avvoltoio, e la Morte e la Guerra, e la voce del cannone dai voli assassini… Ho detto grande…

… E per quanto possa essermi costato, e per quanto possa costarmi ancora, voglio rimanere imparziale soprattutto verso i re, soprattutto verso i poveri. – La testimonianza di un uomo giusto nessuno può disprezzarla.

Amo cantare le tue belle rive, Waldstætten, bel lago che custodisci l’Elvezia! È là che riposa il più grande degli uomini, selvaggio nella morte come lo fu nella vita. Gli abeti delle montagne fanno piovere sulla sua tomba le loro nere capigliature, le onde piangono ai suoi piedi le loro lacrime di schiuma, la Svizzera ripete il suo nome nei canti solenni!

Salve, Guglielmo Tell! Tu che non eri re hai fatto curvare sotto la tua freccia le potenze di questo mondo. Non hai voluto comandare nessuno, ma non sopportavi nemmeno che qualcuno ti desse ordini. La posterità ti ha chiamato Liberatore, e mai nome mortale fu seguito da un titolo più glorioso!

Libertà! Libertà! Vergine santa, o madre mia, metti armonia nella mia voce, amore nel mio cuore, tutte le volte che pronuncerò davanti agli uomini il nome sacro del tuo figlio immortale. Perché tu sola puoi vincere la Morte!

… E per quanto possa essermi costato, e per quanto possa costarmi ancora, voglio rimanere imparziale soprattutto verso i re, soprattutto verso i popoli. – La testimonianza di un uomo giusto nessuno può disprezzarla.


Vi sono nomi sui quali il tempo passa senza imprimere il marchio della sua unghia. Il Tempo, il grande Distruttore, non saprebbe togliere un solo raggio dell’aureola che scintilla sulla fronte dei grandi uomini!

Culto dei morti

I

… Io sogno: – ciò non fa male a nessuno e a me fa molto bene! – Lasciatemi sognare!


Sogno il culto che le società future renderanno ai loro grandi uomini dopo la morte.

Chiamo grande chi si distingue dalla folla per l’energia del carattere, l’originalità del genio, l’attività dell’esistenza; colui che anima la materia, materia umana o materia bruta; colui che strappa l’individuo dalla schiavitù sociale e libera la società della resistenza universale.

Sono grandi, fra gli uomini, l’operaio che scopre un meccanismo, il pittore che fa circolare la vita nei suoi colori, il musicista e il poeta che diffondono nelle moltitudini il fuoco delle loro anime, il ribelle che fa alla giustizia un baluardo col proprio corpo!

Tale fu, bella Firenze, il più sublime dei tuoi figli, Michelangelo Buonarroti! – Grande in tutte le cose; pittore, scultore, architetto, poeta e guerriero! Grande di energia, che nello stesso tempo difendeva con la spada la sua città assediata e scolpiva col suo cesello divino la statua della Vittoria. – Grande di genio, lui che fu il primo per i suoi capolavori in questa Italia coperta di meraviglie! Grande infine per l’indipendenza con cui scriveva:

Io vo per vie men calpestate e solo!

A questi grandi i fiori, le statue, le corone, i versi, l’incenso, i palazzi e i templi! Lasciate che si avvicinino ai loro i bambini con giocattoli rosa, dall’anima candida; le donne dalle forme splendenti, dalla capricciosa tenerezza; i giovani dai pensieri virili, dalle aspirazioni ardenti!

A questi grandi l’ammirazione, il rispetto e il culto, durante la vita e dopo la morte. Che i loro ritratti siano dappertutto, nelle mansarde e nelle capanne, nelle pareti dorate e nei soffitti di abete! Che siano in tutte le case, in tutte le famiglie, in tutti gli occhi, in tutti i cuori! Che li si ami! Perché essi amano infinitamente. Perché sono immortali! In essi niente è umano se non il corpo; la loro anima sta stretta nella sua prigione d’argilla!


… Io sogno: – ciò non fa male a nessuno e a me fa molto bene! – Lasciatemi sognare!


Sono stanco, sono vecchio di forza e di coraggio, non sono buono a nulla; sono un vagabondo, mendicante, un trovatore, purtroppo! nel mezzo di questa Età di ferro!

Ma tu, giovane uomo dai capelli neri, abbronzato, dalle membra nervose, bell’artista di Napoli, di Venezia, di Roma, di Firenze, di Madrid o di Siviglia,le città figlie del sole, fai il tuo lavoro.

Ricordati che i più grandi monumenti elevati dalla mano dell’uomo, le Piramidi, sono dovuti al pensiero della Morte, ricordati che siamo i giudici di quelli che ci hanno preceduto. Ricordati che le loro anime inquiete ci domandano elogio o rimprovero, e che alle loro domande supplichevoli dobbiamo dare risposte imparziali. Sii l’interprete delle generazioni.

Scegli dunque sulla punta delle Alpi giganti, della grigia Sierra, dei nebbiosi Appennini una cima inondata di sole, dove battono le ali le aquile e le tempeste, e poni un tempio su questa cima.

Fa per loro colonne di marmo, un duomo d’argento, porte di bronzo; circondali con immensi portici sotto i quali allineerai le statue dei grandi uomini di tutti i paesi e di tutti i tempi.

Metti all’interno dei quadri che rappresentano i principali avvenimenti della loro vita, i pericoli, le sofferenze, le gioie, quando le hanno potuto raggiungere. – Quest’ultima parte del tuo lavoro sarà la più breve, purtroppo!

E tu, poeta dalla lunga capigliatura, dalla fronte aggrottata, dal pallore diafano, tu che ispiri i canti divini di Germania e d’Inghilterra, stringi la penna nella tua mano tremante, e sotto ogni pensiero d’artista deponi il tuo pensiero. Insegnaci a quali autorità gli uomini devono gratitudine, alfine che essi non adorino più gli idoli della terra, di legno o d’argento. – Non c’è altro Dio che l’Uomo. –


… Io sogno: – ciò non fa male a nessuno e a me fa molto bene! – Lasciatemi sognare!


Il francese accosta tutti questi capolavori per gruppi bene ordinati, li circonda di ornamenti, ne indica l’origine, ne dà spiegazione, comunica il movimento, la vita, la grazia a tutte le cose. La sua fisionomia simpatica, la sua contentezza contagiosa, le sue facoltà superficiali e critiche, diversificate all’infinito, la sua lingua e le sue maniere, divenendo universali, lo rendono più adatto di altri a questa funzione d’intermediario tra il pubblico e gli artisti.

Le fanciulle dai lungi veli bianchi, dalle mantiglie preziose, con spille d’oro nei capelli, formeranno dei cori. I ragazzi reciteranno dei versi. I bambini felici, getteranno petali di rose sotto i piedi dei visitatori e faranno bruciare essenze odorose negli incensieri dalle catene d’argento.

Al fremito delle chitarre, al rullio delle nacchere e dei tamburi baschi, alle salve di cannone mille volte ripetute, gli Spagnoli entreranno nel santuario con i loro costumi scarlatti pieni di pietre preziose. Ole! Ole!

Quando le volte si riempiranno d’armonia, gli affreschi si animeranno; le teste degli angeli, degli eroi, degli artisti, delle vergini, delle Maddalene, delle Veneri e delle Minerve si piegheranno verso gli uomini per ispirarli, le loro bocche parleranno, i loro sguardi lanceranno dei lampi. L’entusiasmo e il delirio percorreranno le folle commosse, la terra e i cieli ne saranno penetrate per cantare le lodi dei grandi mortali!


Giorni di gloria, di splendore e d’amore… oh! quando dunque apparire sulla terra alfine consolata? – La voce dei sogni mi risponde: quando sarete scomparsi, voi e i vostri monotoni saturnali. In attesa…


… Io sogno: – ciò non fa male a nessuno e a me fa molto bene! – Lasciatemi sognare!


Ho visitato le caverne dove riposano i sovrani dall’aquila superba, dalla croce d’argento! Ho posato la mano sulle urne che contengono le loro ceneri. E in queste urne fredde non ho sentito nessun fremito!

A Superga, ho visto crani di re fare smorfie sotto le corone d’oro; lo scultore ha saputo animare espressioni infernali. L’uno spezza i suoi denti con rabbia, e l’altro con ironia; il rimorso storce la mascella di un altro; il pesante diadema schiaccia le tempie di un altro ancora. Tutti soffrono e bestemmiano e ridono della morte. Oh! quanto è vile la vanità dei viventi! Essi pretendono controllare la sovrana scarnita, ma fuggono il suo incontro, e se le rivolgono qualche gesto di sfida ironica, lo fanno compiere a delle teste di marmo!

E mi sono detto: Superga!! È vicino il giorno in cui, sotto il tuo duomo, saranno seppelliti altri cadaveri, diversi da quelli dei re dello stesso paese e della stessa razza.

Perché gli uomini si stancano di celebrare la memoria dei depositi, e i vermi sono sazi di rognoni principeschi!

– Rognoni allo champagne, al latte di mandorle, alla salsa anchevine, al perfetto amore! Rognoni saltati, piccanti, ai tartufi, gonfiati, riempiti, striati, saturi, soprassaturi, salati, pepati, agrodolci, speziati! – Rognoni avidi, umidi, erbivori, carnivori, budgettivori, onnivori! – Rognoni benvenuti, canditi, sconditi, sfasciati, insoddisfatti!

Biancomangiare, buono da mangiare, reale, imperiale, fiscale, capitale da mangiare; brillante, appassionato, ridente, mirabolante, attraente, attirante, appetente, seccante, succulento, profittante, ristorante, instaurante, fortificante, rilevante!! –

Ma che volete?… I vermi hanno i loro capricci e non ci rinunciano!!


… Io sogno: – ciò non fa male a nessuno e a me fa molto bene! – Lasciatemi sognare!


Sogno la Basilica di Superga. – Questo campo di riposo per i grandi di tutti i paesi e la gloria che hanno scelto come luogo di sepoltura.

È là che si raccolgono e meditano nelle loro tombe, mondo più tranquillo del nostro. È là che trovano la calma e la tempesta, la stella e il fulmine, il gorgheggio d’amore dell’uccello canoro e il grido dell’aquila dall’iride sanguigna.


Quando il Sogno le porterà sulle sue ali sonore, le loro anime si slanceranno sulle immense pianure del Piemonte e della Lombardia, simili ai gioiosi pulcini che cercano nutrimento in mezzo al grano.

Con il ricordo delle grandi battaglie, evocheranno il genio del Massacro e della Trasformazione; con voce stentorea sveglieranno i morti; raccoglieranno i canti di trionfo dei vincitori, le imprecazioni dei vinti.


Liberi nel tempo, infiniti nello spazio, stimeranno nel loro giusto valore le passioni superbe che trascinano i guerrieri agli strazi delle discordie. Faranno la parte dei re come quella dei popoli, come quella dell’irresistibile fatalità che li spinge gli uni contro gli altri.

Ai loro occhi immortali, appariranno ben piccoli coloro che si credono i più elevati, ben ciechi quelli che si reputano chiaroveggenti come le linci. Quanto hanno conservato non volendo che distruggere! Quanto hanno distrutto non facendo che conservare! – I morti saranno così.

Cause o strumenti, assassini o vittime, gli eroi di gran peso saranno trovati leggeri nell’eterna bilancia. L’imparzialità della storia: illusione! L’opinione della posterità: menzogna! La riabilitazione: chimera! Le società obbediscono alle passioni dei loro tempi. I morti sono i nostri veri giudici!

E la loro voce imperiosa, infallibile, inevitabile, la voce che vibra in fondo ai cuori più neri, la chiamiamo la Coscienza! la Coscienza!!


E quando il Sogno, vecchio rimbambito, cullerà le loro anime nella pacifica vallata, sentiranno il Natale del pastore, l’ascia rimbombante del boscaiolo, il corno che domanda sangue, le campane delle greggi nel verde sottobosco, il mormorio delle acque, il soffio delle nuvole, le dispute del giorno, le lunghe armonie della notte.

All’aurora, le lamentazioni dei religiosi e la tromba delle caserme, l’infernale soffio delle locomotive fumanti, il rotolio delle carrette sul selciato, l’inno del battelliere, la voce piena del cacciatore, il lungo ululare dei cani, il grido del gallo, i gemiti delle donne che diventano madri.

Al crepuscolo, i rumori lontani della città assopita, il ritmo del valzer inebriante, i mille clamori dei teatri, il tintinnio dei bicchieri di cristallo, lo scintillio dei generosi liquori, la respirazione calma dei petti dei dormienti, i trasporti d’amore di mezzanotte, la detonazione dell’arma assassina, il riso feroce del massacratore, il rantolo della vittima, il galoppo del cavallo che fugge sulla strada polverosa, portatore di un prezioso fardello.


“Così, diranno, così ci alziamo di buon mattino. Così ci rechiamo al lavoro della nostra vita. Ecco i canti della preghiera e della battaglia che le labbra ripetono; ecco i cani, i remi, gli strumenti di lavoro e le spade taglienti. – Come amiamo la terra e la sua fecondità!

“Così danziamo, così sappiamo gioire delle feste, delle arti, dell’ubriachezza e dell’amore. Così le nostre mani sanguinanti cercano nei petti dei nostri fratelli un cuore da strappare. Così divoriamo la breve distanza che separa la culla dalla tomba nella nostra razza condannata a morte. – Come amiamo la terra e la sua fecondità!

“Tempi rapidi, mai stanchi, non siete altro che un ricordo, ricordo di dolore e di gioia! Così girano i mondi; così lottano le società; così la vita degli uomini si consuma come un fuoco di sarmenti!


“Le loro passioni li divorano; esse sono la fiamma, loro il legno. Disgrazia a chi volesse spegnere il fuoco! Il suo sangue, tutto il suo sangue riempierebbe le vene per attizzarlo. Perché la passione, è l’aria, il soffio, l’anima, l’essenza, la vita, il tutto! – Il resto non è che argilla.

“Ah! disseccate i corpi, ma risparmiate le anime! Disgrazia all’uomo che spingerà lo scalpello dell’analisi fino in fondo al suo essere! Disgrazia a quello che vorrà tutto approfondire; atti, emozioni, piaceri e pene! Disgrazia a chi, staccandosi interamente dalla vita presente, si slancerà, imprudente, nei vasti abissi dell’Avvenire e del Passato. – Il mare che batte le rive di Creta ha per molto tempo conservato il nome del temerario Icaro!

“Che ogni essere sia il proprio mondo e il proprio tempo! Disgrazia alla formica che vorrà essere uguale all’uomo! Disgrazia a noi, i morti, se dovessimo ripercorrere di nuovo il cerchio delle nostre esistenze passate. La nostra esperienza e la nostra volontà vorrebbero morire per lo scoraggiamento e la disperazione. Perché l’ambiente sarebbe ancora lo stesso mentre la nostra vista si sarebbe allungata. Allo stesso modo l’uomo di mare si arena sugli scogli di un lago, così ci areneremmo contro le piccole miserie della vita.


“Uomo non ti assorbire in te stesso, non isolarti troppo dal movimento che ti porta alla morte: tu perirai, orgoglioso!

“L’albero dei climi caldi e delle nuove isole, l’illusione, non porta che un fiore brillante. Lasciatelo sul ramo originario, in seno al suolo natale, al sole della primavera. Guardalo senza coglierlo, non potresti racchiuderlo nel tuo cuore come in un santuario: il tuo cuore ne sarebbe distrutto!

“Il fiore dell’illusione somiglia al papavero dei campi, brillante di salute, di colori scarlatti al di fuori; polvere, malattia nera di dentro. Il brutale soffio del mondo appassisce il fiore dell’illusione più presto di quanto la raffica non porta via i petali del papavero rosso.

“Purtroppo, in gioventù, gli uomini individuano il papavero ingannatore tra le spighe d’oro del frumento; lo colgono, lo portano alle labbra fresche e fanno passare il proprio alito bruciante sul fiore che appassisce… E ogni illusione allora scompare. E il vestito di porpora si dondola nel vento che ridacchia come i demoni accorsi dall’inferno. Nelle nostre mani, non resta che uno stelo rotto, appassito, che non possiamo riattaccare alla terra!

“E quando è passata, la regina dei bei fiori, sfortuna a chi volesse riscaldarla sul seno nudo! Si affaticherebbe, come su un cadavere, la fanciulla dalle origini amorose.

“La natura gli sembrerebbe una tomba. Nelle spesse tenebre perseguirebbe visioni sempre fuggenti; sentirebbe voci che l’aria non trasmetterebbe più alle orecchie degli altri; si accanirebbe sul vuoto, respirerebbe il Niente, il Niente!!

“Nel midollo delle ossa si risveglierebbe la febbre; nel suo cranio tremante urlerebbe il pensiero; il divorante miraggio sostituirebbe le immagini ingrandite delle realtà naturali. Gioia, ragione, salute, felicità fuggirebbe a perdita d’occhio!

“Per lui nessun affetto intimo, nessun amore, nessuna festa, nessun bambino, né donna né padre né madre; nessun amico! Più niente, niente altro che le torture dell’immaginazione, il supplizio incessante di un’anima ribelle incatenata in un corpo, assassinata dalla terra, dall’argilla, dalla roccia, la roccia eterna di Prometeo!

“Avrebbe perduto ogni nozione del tempo e degli spazi. I secondi gli apparirebbero secoli, e i sobborghi degli universi.

“Avrebbe ore d’estasi nelle quali abbraccerebbe la terra e i cieli, i mari e gli abissi. Allora griderebbe di Disperazione, di Follia, di Malattia, di Morte; provocherebbe gli Déi a lotte senza tregua, schiumerebbe, maledirebbe!

“Avrebbe poi lunghi mesi di prostrazione durante i quali le esigenze della vita materiale peserebbero su di lui come montagne di piombo. Si arresterebbe, esitante, davanti alla triviale necessità di mangiare, di bere e di fare l’amore. Avrebbe pietà degli altri e di se stesso, di ogni conservazione, di ogni società. La sua parola gli sembrerebbe un faticoso mormorio. Sarebbe spaventato dal rumore di una porta che si chiude, da un grido, da un riso, dal volo di una mosca o di un uccello.

“Al minimo soffio del suo pensiero, la sua anima sanguinerebbe come un’ulcera cancerosa sotto le dita che la medicano. La sua vita sarebbe arida come l’universo delle sabbie. Inabile a ogni funzione sociale, a ogni movimento del corpo, a ogni sforzo d’attenzione, invidierebbe la sorte del proletario e dell’infermo che forniscono, rassegnati, i propri percorsi di sofferenza. Sopporterebbe, febbrile, questi dolori laceranti, più sfortunato, certo, dell’antico Tantalo che non soffriva, lui, che nel suo corpo. Mediterebbe mille volte al giorno il suicidio senza avere la forza di uccidersi.

“I fanciulli crudeli lo perseguiterebbero per le strade, gettandogli delle pietre e gridando: il Folle, Viva il Folle!! E queste urla di esseri giovani ricordandogli la vita non farebbero altro che aumentare la sua eterna angoscia.


“Purtroppo! Purtroppo! troppa esperienza porta alla disperazione, troppa chiaroveggenza alla cecità, troppa scienza alla stupidità, troppa fede al dubbio, troppo desiderio all’impotenza, troppo sete di felicità all’ultimo grado di disgrazia!

“Non trattenete la sacra ispirazione dell’amore e del genio; subirete le sconfitte che vi manda la natura. Le fiamme eterne non hanno conservato che la Salamandra delle favole; esse hanno portato via tutto il resto nel loro vestito di scintille.

“Il mare ha il suo flusso e il suo riflusso; il cielo, i suoi bei giorni blu e quelli neri di tempesta; la notte chiama il giorno; e il mattino, la sera; e le aridità, la pioggia. La Tristezza raggrinzita, è il rosso pungiglione della Felicità, sempre pronta a colpire.

“Ogni uomo divora la sua pena, beve le sue lacrime, lecca le sue piaghe, trascina la sua palla, come può. Quando soffre Diogene, il cane si corica e fa il morto; il Sibarita urla quando un petalo di rosa sfiora la sua pelle; lo Stoico sfida il dolore; Sant’Agostino lo divinizza, la celeste Maddalena ride a sedici anni e piange a trenta. Storditevi, narcotizzate i vostri mali, dormite come marmotte quando non potete essere contenti come fringuelli. In verità ecco la legge e i profeti!


“Prigioniero è l’uomo nel suo involucro d’argilla; la sua anima è compressa da una maschera di ferro. E gli sguardi della sua anima prigioniera non possono immergersi nell’immensità che attraverso le due aperture ristrette praticate in alto della maschera, al posto degli occhi. Non stancate quindi la vista del vostro spirito, essa è più preziosa, e si perde più facilmente di quella del vostro corpo.

“Fra gli uomini, alcuni sopportano la detenzione con la pazienza degli animali ridotti in schiavitù; gli altri spezzano le proprie teste ribelli contro le sbarre assassine. I primi si chiamano saggi, i secondi folli. E io dico: i primi sono asini, i secondi aquile, leoni rampanti, dalla fulva criniera! Essi soffrono ugualmente d’altronde.

“I felici veramente sulla terra sono quelli che non tentano di fare breccia con le proprie unghie nella loro prigione carnale, quelli che sanno fare seguire al proprio pensiero i due solchi di luce di cui essa può appena sopportare lo splendore immortale. Allenare la salute del proprio corpo e le aspirazioni dell’anima, questo è il problema dell’Umanità.

“In mezzo alla natura gigante gli uomini sono sospesi come sopra un abisso che vuole bere il loro sangue. Che prendano dunque coscienza della loro forza, ma anche della loro debolezza! Che aumentino il loro sviluppo, ma anche limitino il proprio infinito! Che allontanino le spine più prossime alle proprie mani, che si sbarazzino dei sassi che fanno sanguinare i loro piedi! Ma che non giungano a contare tutti i rovi e tutte le pietre dell’abisso senza cielo e senza fondo! Perché allora l’infinito delle speranze e delle luci diventerà per loro l’infinito delle tenebre e della disperazione

“Purtroppo! Purtroppo! Le anime elevate saranno sempre torturate, sempre?! Sempre il fulmine colpirà gli occhi e le mani che vorranno rubare la tua anima, oh terribile sole? La Disperazione, la Follia, l’Odio dell’immondo pubblico deve essere sempre la compagnia dei grandi mortali?!

“… Per molto tempo, per molto tempo ancora! Fin quando l’agrifoglio avrà spine, e la tigre artigli d’acciaio! Fin quando l’ortica bruciante pullulerà sui muri in rovina! Fin quando vi saranno parassiti nei capelli dei bambini del povero e nella pelle delle ragazze smagrite!!

“Oh! vieni, vieni Luce, Armonia, Bene Supremo! Discendi dai cieli sulla posterità sfortunata di Caino il Ribelle! E che tu sia benedetta, Dea, da tutti quelli che hanno sofferto per te!


“… E voi, uomini senza budella e senza cervello, smettete di distruggere quelli che, fra i vostri simili, consumano la propria vita nella lotta per la giustizia, indagando il più spaventoso dei misteri. Non crocifiggete più Cristo, non torturate più Galilei, non bruciate più Hus, non rinchiudete più Tasso, Solomon de Caus e Victor Hennequin nei manicomi scuri dove gemono gli alienati, non raccorciate più Montcharmont! Moncharmont!!

“Ai piedi di questi grandi, sappiatelo bene, le vostre risate sono imbecilli, bestemmiatrici e sacrileghe. Non riuscite a causare una sola piega nella serenità delle loro fronti”.

… Io, che rintraccio in queste pagine ardenti, scritte nel povero linguaggio umano, la parola santa di questi grandi morti, mi inchino sotto l’aureola della loro gloria, e grido: “Teste coronate di spine e di alloro, voglio contemplarvi tutti i giorni della mia vita!

“Riempite i miei occhi stanchi del fuoco dei vostri sguardi, sostenete il mio coraggio, rendete la mia voce vibrante, guarite, guarite la mia anima che se ne muore.

“Al fine che sulle folle, le parole che mi ispirate, risuonino come la tromba di Giovanni, il Profeta glorioso!”.


… Sogno: – ciò non fa male a nessuno, e mi fa tanto bene! – Ah, lasciatemi sognare!

II

Il bambino, in un senso elevato, è l’angelo.

Swedenborg

A Madrid, quante volte sono passato sul ponte di Toledo!

Quante volte ho guardato il Manzanarre avanzare lentamente sulle sue sabbie nere. Sembrava un agonizzante sul proprio letto di morte!

Quante volte ho incontrato gruppi numerosi di bambini piccoli condurre i propri fratelli morti al Camposanto di San Isidro.

Sono freschi e rosei, portano corone di arance e cantano:

“… salite, salite in cielo, piccoli angeli di Dio”.


La bara che seguono è coperta di porpora, bordata d’oro, protetta dalle foglie: è un letto trionfale!…

Ed io che vedo i giovani operai senza lavoro, che vedo il vecchio cieco tendere la mano ai passanti, io che ho curato a migliaia quelli che soffrono nei manicomi la miseria e la disperazione; io che so che per loro non c’è riposo che nel sonno, canto con i piccoli di Madrid:

“… salite, salite in cielo, piccoli angeli di Dio”.


Io che osservo la sorte del ricco e quella del povero…

Io che so come la privazione e la dissolutezza ci decimano…

Io che ho attraversato la vita come uno straniero…

Io che ho fatto il conto dei felici di questo mondo!…

Canto con i piccoli di Madrid:

“… salite, salite in cielo, piccoli angeli di Dio”.


Ah! addormentarsi all’alba di questo giorno senza fine che si chiama vita terrestre, arrivare all’arrivo senza pagare la corsa, coricarmi fra i fiori e i pizzi, riposare in mezzo ai gioiosi bambini figli di genitori contenti…

Per me, come per tanti altri, è questa la felicità!

È per questo che canto con i piccoli di Madrid:

“… salite, salite in cielo, piccoli angeli di Dio”.


Siamo noi uomini, i grandi, i ragionevoli, che abbiamo reso la morte odiosa senza fine. Abbiamo cercato fra gli scheletri, abbiamo scelto il più grande, il più vecchio. Gli abbiamo gettato sul cranio un velo nero, messa una falce in mano, e abbiamo detto:

De profundis! Lamentiamoci! Ecco la Morte! l’emaciata Morte!”.

I piccoli, i gioiosi, i bambini spagnoli hanno guardato fra di loro; hanno scelto la bambina più rosea e più graziosa, gli hanno messo sul collo una fascia trasparente, in mano il giglio amato da Murillo. E hanno detto:

Ecce soror angelorum! Gioiamo! Ecco la fresca Resurrezione!

Gli uomini fanno paura ai bambini con la morte; i bambini cantano agli uomini le lodi della morte: – Chi sono i più saggi?

Io canto con i piccoli di Madrid:

“… salite, salite in cielo, piccoli angeli di Dio”.


Bisogna considerare la nostra fine come una resurrezione.

Con questa idea i coraggiosi spagnoli non conoscono il pericolo; non temono né il ferro che taglia né la pallottola che agghiaccia né il dolore né l’agonia.

Rodriguez de Bivar, il grande Cid Campeador, vede la Morte rivestita con un abito bianco come la neve. Essa corre da lui e l’avverte di prepararsi a seguirla. E quanto l’hanno fatto grande nell’altro mondo, il loro Cid onorato, i coraggiosi Spagnoli!

“Profumate il mio corpo! gridò. Sellate Babieca, il mio buon cavallo! Mettete Tizona, la mia spada di Toledo, nella mia destra morta! Dispiegate le mie vecchie bandiere insanguinate davanti ai battaglioni, e avanti contro i Mori! Alante!!

“Non piangete”. Radunate le truppe sotto le muraglie dell’eroica città di Valencia! Suonate le tombe rauche, battete i tamburi, fate un rumore infernale: siate contenti! Perché io guiderò i nostri all’ultima vittoria! Alante!!

… E il buon Cid Campeador, rivestito con la sua armatura di guerra, attaccato a Babieca, corsiero vincitore di cento battaglie, si tiene tanto diritto che lo si crederebbe vivo!

Era luminoso come un gigante di luce, la sua spada risplendeva come un solco del fulmine. E così si slanciò Bucar e i suoi innumerevoli guerrieri. E il vento portò via, con la polvere, i battaglioni dei Mori vinti!

… Il buon Cid, il buon Cid glorioso è coricato su un cenotafio coperto di porpora, bordato d’oro. E donna Chimena, la sua fedele compagna, gli manda addii sotto le volte sonore di San Pietro di Cardeña!

… E più di venti re sono venuti da molto lontano, con le loro regine, per baciargli la mano, al buon Cid tanto onorato!

… E gli angeli portano il suo cuore sullo stemma dei loro scudi;

… I piccoli cantano:

“… salite, salite in cielo, piccoli angeli di Dio”.

Lasciate che i piccoli vengano a me.

Cristo

E quando li vedevo passare, questi bei piccoli bambini, conducendo uno di loro ai limiti dell’impero degli angeli, dicevo alle madri:

“Ah! lasciateli venire da me; lasciatemi mangiare i loro capelli e le loro gote! Sono così belli, così carezzevoli, così buoni! Li amo tanto!

“Sono la speranza dell’umanità, l’anello dell’alleanza tra l’uomo e la donna, la santa promessa trasmessa dalla generazione che passa alla generazione che viene, l’essenza della nostra vita, il supremo sospiro dei nostri più cari amori!

“Dormono di un così bel sonno; fanno buoni sogni d’oro; non amano l’uomo senza cuore, la donna senza amore. Rendono cento baci per uno che date loro. Coccolateli, amateli, non picchiateli mai, i buoni piccoli bambini!”.

Quello, il più grande degli uomini transitato in questo mondo, fra i lampi rossi delle rivoluzioni, quello là, il Salvatore, disse: lasciate che i piccoli vengano a me!”.

Essi rendono amore per amore, senza interesse, senza calcolo. La loro bocca non è menzognera, ti baciano con tutta la forza delle loro labbra, con tutto l’affetto delle loro anime pure.

In essi la materia è così trasparente che non possiamo nascondere nessuno dei nostri pensieri. A noi, uomini vanitosi, danno lezioni di probità, di franchezza, d’amicizia e d’amore.

Ascolto spesso il cinguettio dei bambini piccoli. Sono il loro amico.

III

And there lay the steed with his nostril all wide,

But trough it there roll’d not the breath of his pride.

Byron

Sul proprio cavaliere si china il cavallo di combattimento, il bel cavallo dalla criniera d’ebano, Furioso!

Lo annusa con le narici sanguinanti; cerca di sollevarlo con il piede nervoso. Vani sono gli sforzi: la morte avara trattiene la preda.

Allora il bel cavallo rincula spaventato. Freme, soffia, innalza al cielo la sua toccante preghiera. Il dolore scuote le sue agili membra; le sue briglia sono rotte.

È mattino. Sui nuovi fiori la Primavera fa correre il suo fiato imbalsamato. Sulle erbe dei prati rotolano le perle di rugiada colpite dal vivido sole. Sui bordi dei ruscelli, sui rami dei salici gli uccelli cantano l’inno del risveglio!

“Salve alla vita! Salve alla luce!!…” Così dice il gaio fringuello, il passero saccheggiatore, lo scricciolo impercettibile, il merlo chiacchierone, l’uccello canterino dal vestito grigio simile a una monaca, il cardellino vestito come un principe orientale.


Proprio in questo momento passa la fanciulla canterina che conduce i rossi buoi e le bianche giovenche alla sorgente piena di schiuma.

Lei vede saltare il nobile destriero! Questo si avanza verso la pastora dalle gambe nude e mostra i suoi denti ritirando le labbra. Implora la sua assistenza. I suo grandi occhi selvaggi si riempiono di lacrime: intenerirebbe le rocce!


Vedendo il cavallo nero calpestare le proprie briglia libere, senza sella sul dorso, l’armento scappa nella campagna. – Gli schiavi, purtroppo!, non possono sopportare la vista di un essere libero!

– “Sia maledetto l’animale che viene a disperdere le mie pacifiche bestie!”. E col bastone nodoso la rude contadina rincara la misura delle sue parole sulla groppa del cavallo di battaglia.

– “Stupida villana, risponde Furioso, quando il mio padrone mi toccava, lo faceva con la punta della sua spada fumante o con i suoi speroni d’oro. E non mi ha mai toccato se non nel caso in cui, feriti tutti e due, avevamo bisogno di rianimare reciprocamente le nostre forze indebolite.

– “Comunque ti perdono perché sei debole e ignorante, perché non sai nemmeno il nome di chi tu colpisci, perché il dolore riempie la mia anima e non lascia più spazio al mio antico orgoglio”.

Così disse, e girando il capo dal lato del guerriero mostrò le proprie lacrime alla ragazza.

– E lei rispose: “Che me ne faccio dei cadaveri? Posso richiamarli in vita? Non sai che un toro vivo vale di più di dieci cavalieri morti? Così ragiona il mio padrone. E se gli manca un capo di giovenca al conteggio della sera, che cosa dirò per scusarmi che ho perso il mio tempo a piangere un cavaliere morto?”.

– “Addio allora!”. Rispose il nobile Furioso. “Uomini che ho servito, razza perversa e barbara, addio! Non voglio più padroni. Prima della fine del giorno avrò raggiunto i cavalli selvaggi che volteggiano come il turbine nelle grandi savane”.


Allora lo si poté vedere avvicinarsi al suo padrone morto e leccargli le palpebre pallide. E lo si poté udire il suo gemito supremo:

… E poi, nella lontananza, il suo galoppo sonoro e il soffio delle sue narici!

Mai un uomo singhiozzò tanto su di un fratello morto, come il bel cavallo dalla criniera d’ebano, Furioso il battagliero, sul suo padrone morto.


… Io sogno: – ciò non fa male a nessuno e a me fa molto bene! – Ah, lasciatemi sognare!

IV

Non sono un gran filosofo. E tuttavia mi permetto di rendere culto ai morti, un culto a modo mio.

E lo pratico; e vi trovo compensi che mi rendono più leggero lo schiacciante peso della mia vita monotona.

Cerco i morti che amo fra la folla. – E spesso li ritrovo; mi colpiscono con i loro modi, i loro lineamenti, il timbro della voce. Sono vivi, camminano: – Buongiorno, amici risuscitati!

Li cerco nelle opere dei poeti e degli artisti. – E spesso vi ritrovo i loro pensieri, le loro parole, i capricci, le melodie dei loro canti. Sono vivi, parlando: – Buongiorno, amici risuscitati!

Li cerco nelle diverse classi sociali, ciascuno nel posto assegnato dalle proprie facoltà ingrandite dal passaggio sotto la terra, nostra madre feconda. : – E spesso li ritrovo, ambiziosi, sognatori, palpitanti d’amore: – Buongiorno, amici risuscitati!

Li cerco coricandomi, risvegliandomi, attraverso le lacrime segrete che cadono dai miei occhi, nelle grandi risate che sgorgano dalla mia gola, in tutti gli atti della mia esistenza, di giorno e di notte. – E li trovo spesso al mio capezzale o sulla mia strada, sempre sorridenti, sempre consolatori. – Buongiorno, amici risuscitati!


… Io sogno: – ciò non fa male a nessuno e a me fa molto bene! – Ah, lasciatemi sognare!

V

Voi che non credete a nulla, voi che non amate che i morti, ditemi, ditemi che cosa diventerete quando la pala dei becchini avrà coperto le vostre ossa?

Ditemi se vi è possibile stornare lo sguardo dagli abissi dell’oltretomba?

Per quel che mi riguarda, io mi sento attirato da questi orrori tenebrosi, spingo i miei sguardi impazienti fino in fondo alle loro viscere.

E ne riporto l’Esperienza dagli occhi limpidi, la Calma dai nobili lineamenti, la Ragione, la Fermezza, il Coraggio che niente può vincere.

Ditemi, ditemi… Non sono belli i morti che amiamo, le teste coronate di rose e le labbra rosse, promettenti baci? Non sono mille volte più belli degli scheletri bianchi amati dai medici e dai beati imbalsamati, impagliati che i preti adorano?

Mi si porti vino rosso, caffè nero e l’idromele dai colori doro, l’avana profumato, valeriana e cannella! Che le nacchere di Siviglia scatenino le danze inebrianti attorno a me! – Perché io ho vinto la Morte!


… Io sogno: – ciò non fa male a nessuno e a me fa molto bene! – Ah, lasciatemi sognare!

VI

Mentono coloro che dicono che i morti sono perduti per sempre, e che abitano eternamente i fuochi sotterranei o le pianure azzurre dei cieli: mentono!

Dove l’aratro disperde la terra, la terra si ritrova e si riproduce. Dove i venti trasportano l’aria, l’aria carezza di nuovo la terra e la feconda. Perché la terra e l’aria sono corpo e anima, indivisibili.

Dove la decomposizione diffonde le parti del corpo umano, i corpi umani ritornano e rinascono. Dove la sofferenza spezza l’anima umana, l’anima umana ritorna nel corpo dell’uomo, l’anima che vivifica di nuovo. – Perché l’uomo non è completato che dalla riunione del suo corpo con la sua anima.

L’essere è immortale. L’universale materia rinasce sempre, il soffio universale non muore mai.

Che m’importa delle differenti forme sotto le quali riappariranno tutte le parti che mi costituiscono oggi? Esse ritorneranno pietre preziose, fiori o donne, sono certo che vivranno sempre della vita della materia e della vita del soffio.

Ho considerato, in questo mondo, la sorte di chi racchiude la sua anima tra le mura della sua proprietà; e l’ho trovata molto sfortunata! Quanto più sfortunato sarebbe l’uomo che, nel lungo corso dei secoli, restringesse volontariamente la sua virtualità trasformatrice nella miserabile forma che riveste oggi! Si condannerebbe all’eterno supplizio del male, della melanconia, del suicidio. – La Morte, è la Salvezza!


… Io sogno: – ciò non fa male a nessuno e a me fa molto bene! – Ah, lasciatemi sognare!

VII

Un vecchio bianco per antico pelo.

Dante

Era un degno vegliardo il padre di mio padre: franco, diritto, robusto, come gli alberi che coltivava. Lui solo mi aveva vezzeggiato quando ero bambino, e io l’amavo dal fondo della mia anima come i bambini amano i vecchi.

Una notte che soffrivo molto la sua cara ombra è venuta a visitarmi. – Siate sempre benvenuto nonno!

Aveva una bella camicia di tela bianca, larghi calzoni senza bretelle; il suo collo, la sua testa nudi, come d’abitudine.

L’ho riconosciuto da questi segnali, e anche dai suoi bei capelli d’argento, dalla sua abbronzatura e dal suo aspetto bene in salute.

Mi sono gettato fra le sue braccia aperte e tutta la notte ho riposato pacificamente sul suo petto.

Al mattino – “Nonno, gli dissi, quando mi sarà permesso di depositare questo corpo bruciante e di seguirvi a perdifiato nel cerchio d’oro delle eterne trasformazioni?”.

– E lui a me: “Povero piccolo passano tanto lentamente sulla tua anima rattristata le rapide ore!?… per essere di già innamorato dalla scarnificata Morte?

“Vivi il tuo tempo, bevi i secondi, imprudente! Perché cercare sempre nel fondo della coppa piena?… Per trovarvi il fiele?!

“Vedi! Il vino è vermiglio, e caldo è il sangue nelle tue arterie, fresca è la fanciulla come una rosa di maggio!

“Spezza il tuo corpo di fatica e lascia riposare la tua anima stanca. La Morte è capricciosa; fugge quando la si chiama e si nasconde dietro i cipressi delle tombe, come il pastore di Virgilio, tra i salici dei ruscelli. Non obbedisce agli ordini di nessuno.

“Vivi, sii felice. Incidi sulla tua fronte e sulle tue reni queste sublimi parole del re Sardanapalo:

“Mangiare, bere, amare; tutto il resto è niente”.

“Solo là sta la saggezza degli uomini e delle nazioni!”.

– “Mi sforzerò, nonno, di seguire i vostri consigli. Ma tornate spesso accanto al mio letto. Le notti sono lunghe, nere e discrete. Il loro silenzio mi fa fremere. Perché conosco la crudeltà degli uomini e la loro sete di sangue”.


… Io sogno: – ciò non fa male a nessuno e a me fa molto bene! – Ah, lasciatemi sognare!!

VIII

Lei era di questo mondo dove le più belle cose

Hanno il peggiore destino;

E la rosa vive quanto vivon le rose,

Lo spazio di un mattino!

Malherbe

Guardatela passare, la bella fanciulla dagli occhi blu, dai lunghi capelli d’ebano, Sarah la tubercolosa!

Tristi sono i suoi tratti delicati, mormorante la povera voce! Lei cammina sulle foglie cadute, ama i vecchi, piange accarezzando un bambino; la gente in buona salute le fa paura!

Spesso taglia un ricciolo della sua capigliatura tremante per inviarla alle sue più gioiose compagne. Che altro regalo potrebbe fare il suo cuore, il suo desolato cuore?!

Spesso con le sue magre dita si batte il petto scavato dal male, come l’ha visto fare ai freddi consolatori di quelli che stanno per morire, l’uomo nero, il medico!

… Un mattino, passeggiavamo. Lei si appoggiava, stanca, sul mio braccio tremante. E con difficoltà trattenevo le lacrime; era così bella, così fortunata!

– “Amico, mi disse, tu sei giovane, sei bello. Davanti a te sono distesi, come fertili campi lunghi giorni di felicità e lunghe notti di ebbrezza.

“Tu coglierai fiori, blu e rossi, violette, margherite dalla corona d’argento, dai bottoni d’oro. Li seminerai sui capelli delle ragazze più fortunate della povera Sarah che sta morendo! E io condividerò la tua allegrezza, e ti benedirò dal mio soggiorno fra gli angeli!

“Io non ti chiedo questo amore fortunato, delirio dei sensi, dallo a quelle che stanno bene. Io sarei consumata da questo amore come l’umile brughiera dall’incendio della foresta.

“Ma vorrei portare via il primo soffio del tuo cuore. Oh! dammelo per pietà! Spargi qualche verso sulle mie stanche palpebre, sulle mie mani febbricitanti, sui miei occhi arrossati, sui miei denti bianchi che diventeranno pascolo, oh!, pascolo per i vermi!!…

“Vieni, vieni con me accanto alle beate tombe! Riposeremo sulla terra bruna. E sarò la fidanzata della tua anima. E in questa stessa piazza dove avremo recitato versi chiederò che mi si corichi fra qualche giorno. E tu sarai l’angelo guardiano della mia morte; e sarò, sarò io, l’angelo guardiano della tua vita! – Vieni, oh! vieni sulle beate tombe, giureremo il primo e l’ultimo dei nostri amori mortali!”.


Così dice. E spiegando il suo velo nero attorno alla testa, avvicinava i miei occhi ai suoi in lacrime, e guardava fino in fondo alla mia anima attraverso la loro trasparenza.

Ho sentito come l’ala di un angelo che toccava i miei capelli e ho bevuto tutte le lacrime che si formavano al di là del cielo.

E su quella sua bella fronte malata ho impresso, fremendo, il marchio delle mie labbra. E la povera bambina si lasciava cadere, spossata, fra le mie braccia. Ho creduto che non si sarebbe rialzata mai più! Ed ero più morto di lei mentre cercavo di fare rinascere la sua vita sotto i miei singhiozzi ardenti!

Infine i due filari delle ciglia si separarono e l’azzurro dei cieli si rifletté nuovamente nell’azzurro del suo occhio…

– “Canta, sospirò, canta la mia morte, amore mio!”.


E io cantai, dissi, sospirai, o meglio piansi:

“Splenditi astri, sole sanguigno, volta distesa dei cieli, stelle e nuvole, gettate uno sguardo amichevole su questa fanciulla che stanca della terra, libera, sognante, e malata, si avvicina, tremante, alle sfere infinite!

“Che sia la benvenuta nel concerto dei mondi, come la rosa fra i fiori del giardino, come l’uccello canterino in mezzo ai piccoli uccelli, come da noi, mortali, il bambino che nasce!

“Anima degli Universi, sovrana Rivoluzione, accorda questa grazia, a me che non ti ho mai chiesto nulla, a me che perdo la voce cantando le tue lodi, a me che devo morire per farti vivere fra gli uomini. Fammi questa grazia, sovrana Rivoluzione!

“… Vorrei addormentarmi, la testa sul suo seno, con una traccia dei suoi capelli tra le mie labbra, i miei denti contro i suoi, il battito del mio cuore attento al battito del suo cuore. Con lei vorrei morire, e poi rinascere nella felicità suprema, e salire, girare, agitarmi sempre, di mondo in mondo, di cielo in cielo!

“Eternità dell’amore! Eternità dell’esistenza, movimento trasformatore che mai ti arresti, estasi, poesia, armonie ineffabili, infinita felicità, la Vita, sempre la Vita!!… Ecco ciò che sogno vicino la mia Sarah che sta morendo!!…

“… Oh! quanto è bella Sarah la tubercolosa, colpita dal rosso luccichio del crepuscolo! Somiglia al giunco fiorito che spira la sera sulle acque che lo piangono! Ma perché l’amo tanto? È che io indovino in lei l’Umanità di oggi, povera razza stanca di sofferenze che non si rigenererà che nella Morte!

“È bello l’amore! – Non di un solo essere, di una sola famiglia, di una sola nazione, abbrutente attaccamento dei borghesi ai pensieri ristretti. Ma di tutti gli esseri, di tutte le famiglie, di tutte le nazioni, di tutti quelli che si muovono, che respirano, che pensano! L’illusione è la grande felicità; la Realtà, è la miserabile sofferenza di qualche giorno!

“… Respira, sorella amatissima, respira ancora qualche giorno per dirmi che mi ami; che dai mondi superiori ti chinerai sulla mia testa felice; che diffonderai sul mio sonno papaveri scarlatti, e margherite argentate sulle afflizioni della mia vita.

“Ancora una volta respira, mia colomba bianca, prima di prendere il volo verso i cieli trionfanti. E promettimi il tuo amore di morta, il solo, il vero amore!

“Oh! perché non ho le tue ali diafane e la tua anima sublime per slanciarmi con te verso gli abissi, gli abissi dell’Eternità!!…”.


… Il mio canto la rendeva troppo felice. E l’eccesso della sua felicità si traduceva in una sofferenza straziante, sofferenza di sguardo e di voce. La sua mano convulsa stringeva la mia mano; il suo povero petto si spezzava!… Mi irritavo, l’avrei uccisa!…

E la ricondussi alla sua famiglia in lacrime.


… Otto giorni dopo, prese il volo verso mondi migliori, Sarah la tubercolosa, la sorella degli angeli!

Dopo non ho mai cessato di amarla, di chiamarla mattina e sera, di seguire i suoi consigli, di ispirarmi alla purezza del suo soffio divino. Nei concerti dell’alto io sento la sua voce che canta:

Viva son io, e tu sei morto ancora
Diss’ella, e sarai sempre finché giunga,
Per levarti di terra, l’ultim’ora”.
Petrarca

Beati morti! proteggeteci!


… Io sogno: – ciò non fa male a nessuno e a me fa molto bene! – Ah, lasciatemi sognare!

IX

Era il crepuscolo del mattino, l’ora dei sogni sanguinanti!

Nicola di Russia mi apparve con la sua grande spada e il suo pennacchio. Sembrava terribilmente sconvolto d’avere trovato il suo padrone; era pulito e pimpante come un caporale.

Lo riconobbi perfettamente, per quanto non avessi visto che i suoi ritratti.

… Era il crepuscolo del mattino, l’ora dei sogni sanguinanti!

– Lui disse, rivolgendosi a me dall’alto delle sue grandezze svanite: “Eccoti, dicitore di profezie, hai indovinato esattamente che avrei scatenato la Guerra sull’Europa, hai capito bene che questa guerra sarebbe stata la Rivoluzione, e che gli zar di Russia avrebbero ricevuto il primo battesimo socialista. Sono certo di questo dal momento della mia morte. Ma vediamo, uomo intelligente, dimmi, quale sarà il mio ruolo quando riapparirò nell’Umanità?”.

– Ed io a lui: “Te lo dirò, Nicola di Russia, colosso d’orgoglio e di calcare! Sarai tamburo maggiore dell’esercito d’invasione. Ti mostrerai fiero del tuo atteggiamento marziale, del richiamo dei tamburi battenti, delle grida dei ragazzi al tuo passaggio; agiterai da maestro il bastone del comando. Sarai il più alto di tutti, il primo fra i ranghi, tre volte glorioso Nicola!

“… Entrerai nelle città bruciate, nel crepuscolo del mattino, l’ora dei sogni sanguinanti!”.


– “Avrò un cavallo bianco, una bella decorazione sul petto, i gradi d’oro, un pantalone aderente, alcuni corsetti, verrò salutato?”.

– “Tu avrai tutto ciò, Nicola il magnifico!”.

– “Ben detto, ragazzo! Finirò per prenderti per un profeta, e come pegno della mia soddisfazione, ti darò qualche signoria in Crimea”.

– Nicola! Nicola! Tu non sei altro che polvere; e tu parli di impero, donazioni. La Morte ti ha vinto, superbo figlio degli Holstein-Gottorp; io invece, io ho vinto la Morte. Io posso darti la parola della profezia che sopravvive alle rovine. E tu, cosa mi darai, maestà deceduta, tu che non hai altro che sei piedi di terra su di te e nient’altro? Vedi di reclamare i tuoi gran domini a coloro che li occupano! La vera potenza è la Libertà; la sola verità è la Predizione!

“Nicola! Nicola! Non hai altro di grande che il corpo. E nelle mani della Morte, il corpo si sbriciola come vetro. Io avevo il pensiero. Non sono niente, tu eri tutto sulla terra; anche tu non sei più niente, io sarò qualche cosa, perché le mie idee si diffonderanno ben presto fra gli uomini”.

… Ben presto esse risplenderanno come il crepuscolo del mattino, come un sogno sanguinoso!

– “Non sai che la mia volontà è onnipotente e che potrei annientarti con un ukase?”, riprese lui per abitudine.

– “Ti sbagli, Nicola! Due gocce di veleno sottile, un pollice di ferro, una palla di piombo, un colpo apoplettico… ed eccoti attorcigliato! Mentre io sfido tutti gli ukase diretti ad annientare il mio pensiero”.

– “Mi sembri molto insolente, profeta?!”.

– “Io sono fiero; è il diritto di ogni uomo libero”.

– “Continua!”.

– “Dunque, sarai tamburo maggiore, tamburo maggiore a cavallo degli Ulani e dei Cosacchi; si creerà questo grado espressamente per te. E allo scopo che nulla manchi al supremo ridicolo del tuo ruolo, tu immaginerai di comandare l’esercito, invierai a tutti i battaglioni dei trombettieri mascherati da aiutanti di campo. I soldati ti chiameranno per derisione l’Imperatore dei tamburi.

– “E tu ti prenderai sul serio. E un giorno che il vero imperatore passerà vicino a te, ti slancerai su di lui, spada in mano. E sarai arrestato, garrotato, giudicato all’istante e sotterrato ancora vivo nella Terra Promessa di Francia.

… Questa esecuzione si farà nel crepuscolo del mattino, l’ora dei sogni sanguinosi!”.


La fronte dello Zar si corrugò terribilmente: fu l’ultimo riflesso del suo orgoglio terrestre. E poi si mise a ridere, dicendo: “Tamburo maggiore o imperatore, in effetti, è la stessa cosa. Il dito della Distruzione mi ha toccato, sono ritornato alle vanità di prima della tomba. – Ma tu che sai così bene narrare la buona ventura agli altri, che cosa indovini per te stesso?”.

– “La risposta non è difficile, Nicola! Sarò un gran filosofo o un gran pazzo, il che è lo stesso”.

– “Decisamente tu sei un vero profeta…”.


… E Nicola disparve. E restai sempre sulla terra con una ferita nel cuore.

… Torna a vedermi, Nicola! Al crepuscolo del mattino, l’ora dei sogni sanguinosi!

X

Quando dico: il mio letto mi allevierà,

dormendo allevierò un poco le mie pene;

Così mi sbalordirai con i sogni e mi turberai con le visioni.

È per questo che sceglierei di essere strangolato

o di morire piuttosto di conservare le mie ossa.

Sono annoiato dalla vita, non vivrò per sempre.

Il libro di Giobbe

Mi si porti una bara, una bara e un lenzuolo! – Sono il fidanzato della Morte!!

Una bella bara con le borchie dorate! Un lenzuolo con lacrime d’argento!

Mi coricherò nella bara, mi cingerò le reni con il lenzuolo, come una sciarpa catalana!


Posate sulla mia fronte una corona d’immortalità e delle foglie nere di cipresso! – Sono il fidanzato della Morte!!

In verità, la bella corona di gloria, che tu mi hai intrecciato, Poesia, madre mia! Avevo sognato quella della quercia o dell’alloro, o almeno di spine.

E sia! Prenderò l’emblema che arriverà. Non ho più tempo per sceglierne altri.


Mettete nelle mie mani l’incenso, la mirra! – Sono il fidanzato della Morte!!

Li farò fumare sotto le mie narici. E sognerò che il mondo mi ha consegnato alla gloria. E che la vedrò mille volte più bella di quanto il mondo possa mai donarmi.


Lasciate venire accanto al mio letto il gallo dai colori fiammeggianti! – Sono il fidanzato della Morte!!

Che scuota le sue ali fresche sulla mia testa stanca! Che canti l’inno eclatante del risveglio all’aurora, sua amante. Ed io, saluterò il sole che sorge delle resurrezioni.


Sono il fidanzato della Morte. – I miei amori sono finiti sottoterra.

Mettete sul mio petto la piacevole camicia. Mi avvilupperò nelle sue pieghe fluttuanti come in una nuvola di ricordi; e mi addormenterò in un bel sogno d’amore, col cuore in tumulto!

Porterò nei mondi sublimi il profumo del suo alito, l’armonia della voce, i sospiri aritmici, il fremito delle mani, l’ardore delle labbra, la freschezza dei denti.

E quando le porterò tutto ciò nell’esistenza prossima, l’amata mi riconoscerà, e sulle mie due palpebre mi bacerà per svegliarmi.


Sono il fidanzato della Morte. – Ho completato i miei compiti sulla terra.

Disperse attorno a me, nel vento, nel suolo, le note che la mia mano febbricitante tracciava; ho completato il mio lutto. Le calpesterò come foglie morte; porterò con me solo la loro essenza.

E dal mattino del mio risveglio, nelle generazioni che verranno, riprenderò la penna abbandonata. E tutti potranno seguire i miei pensieri di oggi in quelli di domani.

La mia anima sarà rivestita di un’argilla più pura. Lo sviluppo delle tradizioni umane spiega e rende necessaria la migrazione delle anime nell’umanità. Ieri ero Pitagora, e intravedevo le leggi generali delle trasformazioni. Domani sarò non importa quale pensatore, e rivelerò i misteri della continuità dell’esistenza.

Oggi, sono il fidanzato della Morte!


Sono il fidanzato della Morte. – Le mie relazioni con la terra sono tagliate.

Aprimi le tue viscere, terra, terra di primavera fiorita, misericordiosa. Voglio tuffarmi nei tuoi vapori tiepidi e rinascere. Voglio una tomba senza nome sotto il prato delle montagne, accanto al furioso torrente. Almeno non farò più soffrire nessuno. Potrò essere amato solo dopo la mia morte.


Sono il fidanzato della Morte!

Spettri e folletti, streghe e gnomi, suppliziati, giustiziati, banditi di ogni tempo!… Formate attorno a me la ronda infernale! Il gatto Mürr suonerà il violino.

Inforcate i cavalletti, torturati di Ribera! Monta il tuo corsiero selvaggio, sfortunato atamano d’Ucraina, [Ivan] Mazeppa! Bonivard, Ugolino, affilate i vostri speroni sui cadaveri dei figli morti. Cercate, genitori miei, nelle mie viscere; vi avete seminato l’avarizia, raccoglierete la Morte! Urlate, Tantalo e Prometeo! Rantola, Lesurques, sulla macchina infame! Dibattiti, Montcharmont! Montcharmont!


Sono il fidanzato della Morte!

E quando verrà il giorno di imene e della liberazione, formate attorno a me la ronda infernale. Il gatto Mürr suonerà il violino.

Aspettando, io vado. Attraverso un mondo crudele, trascino la catena tintinnante delle mie ultime torture. E chiamo mia fidanzata la Morte, come nei primi giorni d’aprile, l’uccello canterino di colore scarlatto chiama l’erba del nuovo anno.

E quando verrà la desiderata, la Morte che raccoglie e risuscita, scuoterò la mia testa come fanno le querce al sole di primavera. E i venti porteranno via dalla mia testa tutto ciò che l’inverno aveva fatto fiorire. E non avrò altro che capelli neri come l’ala del corvo.


Sono il fidanzato della Morte!

Formate attorno a me la ronda, la ronda infernale!! Il gatto Mürr suonerà il violino.

Il proletariato a Torino. L’inferno sulla terra

Annecy, giugno 1855

Per me si va nella città dolente,

Per me si va nell’eterno dolore,

Per me si va tra la perduta gente.

… Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate.

Dante

Lavoro e piombo!!

Grido dei ribelli

I

Voglio cantare agli uomini un cantico nuovo, il cantico delle loro umiliazioni e delle loro sofferenze, vecchie quanto il mondo!

Man mano che alzerò la mia voce sulla folla oppressa, gli uomini saranno sorpresi che, dopo seimila anni, ci si ostini a cercare l’Inferno altrove e non in questo mondo. I piccoli non saranno più bloccati nella loro rivolta per paura delle pene eterne; la certezza dell’impunità non incoraggerà più i grandi nelle loro quotidiane rapine. I buoni prenderanno fiducia, i cattivi tremeranno. Non lasceremo più la realtà per l’illusione; non ci rimetteremo più il regolamento dei nostri conti alla valle di Giosafatte, al controllo di Dio. – E tutto andrà meglio in questa valle di lacrime!

La Verità, la Giustizia, la Vendetta verranno infine alla luce! – Giorno di lutto per qualcuno e di allegrezza per la maggior parte, giorno di collera e di riconciliazione, di confusione e di trionfo, di terrore e di speranza, di assassinio e di resurrezione! Giorno che le stelle, il sole e le acque saluteranno tre volte felici! Giorno che carezzerà l’ultimo nato di questa generazione con i raggi rosa della sua aurora! –

Vittime gementi di un ambiente più forte di loro, gli uomini conosceranno infine il vero peccato originale, il pomo delle ceneri e delle discordie di cui parla il sublime poeta degli inferni. Essi si guarderanno e vedranno che vivono reciprocamente come il vischio rampicante e la quercia forte. Allora malediranno il parassitismo degli uni e il lavoro degli altri, la divisione di interessi inseparabili, la tutela che si sono imposti dal più piccolo al più grande, dal più povero al più ricco. Malediranno la rassegnazione al Male, l’oblio del Diritto, l’abbandono via via più completo di tutte le risorse necessarie alla vita. Si accorgeranno di avere dibattuto, acconsentito, legalizzato, firmato, controfirmato, sottofirmato, paragrafato questo abbandono che decretava la loro morte, confermato poi da Malthus, l’inesorabile decifratore. Non vedranno più nelle loro disgrazie né il dito di Dio né la zampata del Diavolo né l’astuzia della donna né il dardo del serpente. Ma eleveranno fino al proprio cuore la donna diseredata, la vera guardiana del loro riposo; calpesteranno invece l’angelo, l’arcangelo, l’aspide e il dragone. Perché l’uomo non ha nulla da temere dalle potenze superiori e occulte. Mai egli è indietreggiato di fronte agli ostacoli che attraversavano la sua via, mai ha ceduto davanti agli altri uomini. Il suo più grande nemico è stata la società da lui fatta senza consultare la propria immagine. – La guerra è tra noi, è della pace che abbiamo bisogno.


Per ricondurre questa desiderabile pace, per scoprire i nostri inferni, per vincere il nemico, non andrò sottoterra, non monterò ai cieli. Perché non sono né Dante né Cristo, ma quello che viene dopo di loro per vedere l’avvenire da meno lontano. Perché non voglio interessare gli uomini a dei dolori immaginari, e combattere appena dei supposti avversari. Grazie a Dio i mali e i nemici non mancano sulla terra. – Ed è sulla terra che bisogna vincerli.

Ho quindi deciso di avvertire i miei simili con l’esatta indicazione delle loro reali sofferenze, di attirarli in questa torturante contemplazione: allo scopo di farli arrossire di loro stessi e di sollevare la polvere nella quale sono prosternati. Ho giurato di toccare con la mia penna le piaghe che hanno trascurato, di versarvi l’inchiostro corrosivo e la saliva amara; di fare sanguinare sotto la mia rabbia, le cicatrici dell’onore divenute insensibili.

Non sarò complice, volontariamente almeno, dei conciliatori, degli scienziati e degli addormentatori; parlerò netto e fermo; non raccomanderò ai miei simili di soffrire ancora, di soffrire sempre. Ma prenderò in mano un rasoio tagliente e un fascio di verghe ben stretto. E quando le verghe si lamenteranno più forte, rimproverandosi reciprocamente il proprio fastidio, taglierò il nodo che le tiene insieme con la mia lama di ferro, dicendo:

“È così, miei contemporanei, che potete liberarvi da ogni sofferenza presente e futura. Non continuate più ad accusarvi reciprocamente, non combattetevi più. Ma fate del contratto sociale che vi ferisce quello che ho fatto di questo fascio di verghe, fatelo a pezzetti! Liberatevi con la forza delle braccia, con l’energia della volontà. Oppure aspettate che la Morte che tutto distrugge vi sotterri con tutte le vostre ingiuste convenzioni. – Quia apud Dominum copiosa redemptio, come è detto in un salmo.

Dirò soltanto il cantico della tristezza e della vendetta. Non domanderò al popolo il bruciante ritornello dei suoi cori, non supplicherò i partiti di propagandare i miei versi; non andrò nelle chiese a staccare le arpe dei profeti sospese a chiodi d’oro; non farò né versi né lamenti.

Canterò solo. Perché i popoli sono insensibili alle miserie degli individui, e i partiti ne sono avidi; perché i preti del passato si danno come profeti e nutrici gli uomini che odiosamente salmodiano la propria mendicità; perché la Misura armoniosa fa dimenticare le parole che scuote via dalle pieghe brillanti del suo vestito.

Canterò solo. L’oblio generale della giustizia, l’umiliazione del povero, la tracotanza del ricco, il torpore del popolo, il cammino incerto degli accadimenti, niente mi farà cambiare i termini della mia giusta ed eterna protesta.

Canterò solo. Quando il cervo piange, quando i cani frugano a pieno muso nelle viscere fumanti, quando gli uomini si inebrieranno di questo carnaio, l’inflessibile suono del corno dominerà tutto questo! Dunque suonerò l’Hallali del Proletariato sgozzato dal Monopolio. La mia voce chiara e vibrante constaterà la verità in tutta la sua amarezza, denuncerà l’assassinio che si commette sulla terra. Venga in seguito la Vendetta all’ora che le converrà di scegliere, io mi sarò messo in pace con la mia coscienza d’artista, di rivoluzionario e di uomo onesto!


Sono a metà della mia vita. L’illusione ha attraversato la mia testa senza ferire il mio cuore, la Disperazione ha morso il mio seno senza alterare la mia fede nella Rivoluzione. Non ho troppo frequentato gli uomini per immergermi nei loro tristi calcoli; non ho vissuto in una solitudine così chiusa da disconoscere la tendenza delle società. Mi trovo precisamente nelle condizioni favorevoli per dire le miserie e le speranze dei miei simili, per penetrare in tutti i cerchi del nostro Inferno, per raccogliere i lamenti dei lavoratori a vita, poveri forzati di nascita che sopportano il peso del giorno e del calore; che rotolano sotto i loro piedi martoriati, la pietra di Sisifo; voglio dire il trascinarsi del lavoro forzato!


Musa dei cieli oscurati, tu il cui sguardo tenebroso attende tutte le notti la stella del mattino, la stella della speranza, Dolore! Prestami i sospiri! E tu, maschio Coraggio che permetti all’operaio di subire le sue rudi pene, ispirami: perché possa dargli coscienza di tutto ciò che distrugge il suo corpo, che degrada la sua anima, e di tutto ciò che il suo braccio può abbattere per una buona causa! Risvegliatevi, sensi miei; stomaco mio, grida il tuo ordinario dolore, guardate, occhi della mia intelligenza:

Ecco. Il velo che copre la Passione del povero si strappa in lungo e in largo; il vento che geme ne allarga i lembi. E il mio sguardo cade su di uno spettacolo spaventoso:

Gli affamati si disputano le briciole che chi mangia lascia cadere con sdegno. Quello che cola è costituito dai flutti delle lacrime, dai sudori profusi, dai rivoli di sangue. Quello che puzza, che attira le mosche, è costituito dalle carni bavose, dalle piaghe grigie, maligne e cancrenose. Quello che imbianca, invecchia, spezza il cuore e spossa, è dato dai tremiti causati dai metalli; le febbri, i flagelli, le carenze, gli scioperi, le miserie, le asfissie, gli omicidi, gli infanticidi e i suicidi il cui numero cresce ogni giorno, come le fiamme di un incendio che non vuole spegnersi!

L’Inferno è sulla Terra!

II

Piangete, donne del Piemonte! Lo sfruttatore vi ruba gli uomini pieni di forza; ne fa cadaveri che vi restituisce in tempo per sotterrarli!

La vera guerra di Russia, l’eterno assalto di Sebastopoli, la lotta assassina di ogni giorno, è questa delle braccia nude contro il capitale bardato di ferro. Nelle officine la gloria non canta fanfare eclatanti, il cannone non grida con la sua voce omicida, il sangue non cola. Ma la Morte colpisce sicuramente, e le ferite che vi si ricevono non perdonano mai. Nessuno è ancora tornato da questa lenta malattia che si chiama lavoro a cottimo, forzato, alla giornata: lavoro del proletario, del servo, dello schiavo, dell’uomo che non si appartiene più!

Donne del Piemonte, i cui begli occhi blu si fondono in lacrime di sangue! Le vostre sofferenze mortali, i vostri sguardi supplichevoli, la vostra magrezza, il pallore dei vostri lineamenti daranno forse ai vostri amanti, ai vostri figli, ai vostri padri la forza di liberarsi, di vivere infine come conviene a degli uomini!

Piangete, donne del Piemonte, come piangevano le brave italiane di una volta. Piangete per fare infuriare quelli che vi amano, non per intenerirli. Piangete, gridate vendetta, e depositate ai loro piedi del ferro e delle torce. Che non vi accarezzino più con le loro mani indurite dall’avvilente lavoro! Che vi siano resi per le gioie d’amore, di felicità! Che la donna salvi l’uomo, l’uomo che non ha più forza né volontà né coscienza di quello che vale!

Piangete, donne del Piemonte! Che i vostri begli occhi si fondano in lacrime di sangue! Piangete di disperazione, di rabbia e d’orgoglio offeso! Insorgete per prime: in Occidente gli uomini sono morti!


Oh Natura! perché sorridi così gioiosamente alla povera Italia? Perché le dai il bel sole, i ruscelli, i prati, le brezze balsamiche, le atmosfere diafane, i frutti d’oro e di porpora e i cieli azzurri? Perché tanto splendore sulle sue miserie così nere? Perché decori di paradiso su trame d’inferno?

Purtroppo! dove l’uomo passa dopo di lui è distretta e morte; si può seguire la sua traccia in base ai cadaveri dei poveri stesi lungo la sua via. Egli rovina le contrade fertili e le cambia in deserti di città popolate; egli oscura le bandiere che sventolano sulla sua testa. Il lavoro forzato, il pauperismo, la malattia, la servitù lo seguono dappertutto come una muta di cani voraci!

Purtroppo! la Miseria distende sul mondo rantolante le sue braccia smisurate. Dappertutto dove va, il proletario zappa un terreno di già occupato; è per altri che egli semina, per altri che si credono in diritto di spossarlo. Dovunque nasca, il proletario vive per lavorare e non lavora per vivere, ma per sudare, soffrire, dimagrire, deperire e morire prima del tempo!

Purtroppo! in nessuna città d’Europa la distretta dell’operaio è più grave di quella della bella città di Torino. Da nessuna parte è più privo di risorse, di rimedi, più minacciato di eternizzare la propria condizione. Da nessuna parte il lavoratore è così maltrattato dal padrone, così sfruttato dal potere e dai partiti, così ridotto all’isolamento, alla rassegnazione. Da nessuna parte è più smorto, sofferente, gracile, desolante da vedere. È qui che l’uomo sopporta realmente l’esilio, il martirio, la crocifissione dell’anima e del corpo. È qui che si vedono trascorrere le vite degli altri dal fondo della propria tomba!

Piangete, donne del Piemonte! Che i vostri begli occhi si fondano in lacrime di sangue! Piangete di disperazione, di rabbia e d’orgoglio offeso! Insorgete per prime: in Occidente gli uomini sono morti!


Ho seguito il proletario piemontese durante la sua vita. Sulla mia parola, non credo che il sole possa sorgere da simili mali. E ho trovato il mio destino felice in paragone al suo. Ed ho benedetto l’esilio che mi conduceva di fronte a simile miseria straziante e centuplicante la sensibilità del mio cuore. Ed ho fatto tacere il mio dolore per descrivere il suo. Ed ho deposto sulla tavola dove scrivo un ramo di cipresso. E mi sono rinchiuso nelle mie tenebre. E non ho parlato con nessuno per settimane, per non essere distratto dal compito sacro che avevo giurato di compiere. E tutto quello che ho visto l’ho riporto qui.

A Torino, l’operaio lavora dalle sei del mattino alle dieci di sera per venticinque soldi in contanti. Abita in un buco; per essere più esatto sta appollaiato in mansarde cadenti dove si riuniscono i venti, la pioggia, i grandi calori e gli uccelli notturni. Gli si fa asciugare le case nuove e finire di distruggere le vecchie. Dorme su un materasso di paglia umida, cammina con stracci ai piedi, non conosce altro fuoco che quello della forgia. Beve solo acqua. Si nutre abitualmente di pane nero e polenta, di frutti malsani, mai i suoi denti masticano la carne. Gli è data un’ora per mangiare durante il giorno, esattamente un’ora! Che tale è l’avarizia, la disumanità, la brutale, cinica e ignobile lussuria dei padroni che trattano i loro sfortunati schiavi come capi di bestiame, per paura che gli si rubi un secondo di tempo, una goccia di sangue o uno sforzo di muscoli.

Oh! dannazione, disperazione e rabbia! Sì, per venticinque soldi l’uomo più grossolano può acquistare oggi la proprietà di un altro uomo! Per venticinque soldi ha il diritto di fare tutto quello che vuole di quest’altro uomo, di curvarlo sotto i fardelli, di obbligarlo a dei compiti pesanti, di bruciarlo, di farlo morire di fame. Perché quell’altro uomo è suo dalla punta dei capelli alla pianta dei piedi, da un’aurora all’altra, di notte e di giorno.

Sì, di notte e di giorno! Purtroppo! quando l’astro onnipotente si ritira stanco; quando sugli alberi, fra erbe alte, nelle case felici, tutti gli esseri viventi si abbandonano al riposo; quando la natura è calma e mormorante; quando la voluttuosa stanchezza distende le membra; quando il sonno distribuisce nelle arterie le dolci carezze; quando il soffio uguale di una pacifica respirazione esce da tutti i petti: quando tutto ciò si rinnova…

È allora che l’operaio piemontese deve invecchiare, distruggersi, stancarsi, usarsi, seccare sul proprio compito! Tre notti su sei, deve riprendere il compito nel momento in cui spererebbe di lasciarlo; deve continuare con lo stomaco vuoto fino a quando il suo cuore è sconvolto dal disgusto, fin quando non è estenuato, fino a sembrargli di vivere in un altro mondo, fino a diventare pazzo, fino a quando la tristezza non si impadronisce della sua anima impedendogli di sentire qualsivoglia sensazione nuova. E se non fa quello che deve fare è il licenziamento, la soppressione del salario e del pane, la morte… Il Diritto del padrone va fino a questo punto!

Perché il giorno e la notte si susseguono nei cieli quando, sulla terra, gli uomini non ne tengono conto? Perché i poveri non gioiscono né dell’ombra né del caldo? Perché il sole non si alza, se tramonta sul loro triste lavoro? Perché la luna favorisce tanti omicidi con la sua dolce luce?

Perché, perché si prolunga la vita dell’uomo se non serve che a distruggere gli altri? Perché la sua salute, il lampo dei suoi occhi, l’udito delle sue orecchie, la lucidità della sua intelligenza? Perché i suoi eredi, se tutto questo è diretto al male deliberatamente, senza rimorsi?

Perché i poveri sono costretti in un cerchio di mali così serrato, così fatale che devono fare buon viso ai propri carnefici quando dovrebbero pretendere giustizia con le unghie e con i denti?

Perché l’interesse privilegiato del capitale, il deprezzamento, il non-valore del lavoro? Perché la necessità dell’esistenza in tempi come i nostri? Perché lo sfruttamento, il salariato, il pauperismo? Perché la Civilizzazione della proprietà?

E come distruggerla? Che fare contro di essa?… Scioperi? Li si dissolve col ferro e col piombo. – Rivoluzioni? Le si compra con l’oro. – Libri, dottrine? Li si soffoca. – Giornali, costituzioni? La censura li interdice, l’ambizione li snatura, l’ipocrisia li cancella, il buon senso pubblico li strappa: non si legge più, peraltro.

Solo il ferro è più forte del denaro. – Quello che ci vuole per liberarci, è il capovolgimento del mondo, il sacco dell’Occidente, l’invasione del Nord. Lo dirò, lo griderò fin quando non sentirò i corsieri dell’Ucraina impennarsi alle porte dei borghesi moribondi. Non un solo operaio sarà libero senza tutto ciò, non un solo abuso sarà distrutto. E tutte le rivoluzioni che scoppieranno fino ad allora in Occidente non serviranno che a rendere ancora più iniqui i rapporti tra padrone e salariato.

Piangete, donne del Piemonte! Che i vostri begli occhi si fondano in lacrime di sangue! Piangete di disperazione, di rabbia e d’orgoglio offeso! Insorgete per prime: in Occidente gli uomini sono morti!


Ma voi ignorate dunque, miserabili sfruttatori, che occorre del ferro nel sangue e della fibra nei muscoli perché l’uomo possa esistere? Non sapete che queste forze non si riparano da sole, che esse si rafforzano con il vino, la carne, l’aria, il movimento, il riposo e il sonno. Lo affermo: una molla non può stare sempre tesa. L’uomo non è una sostanza elastica. Si perde quando si vuole economizzare su di lui; non è mai impunemente che lo si tenta!

Il riposo ha dei diritti che non scompaiono mai; il lavoratore che viene privato di tutto ciò che è necessario alla sua vita non trova più in se stesso né l’energia né l’intelligenza desiderabili per curare il proprio lavoro. L’emulazione gli manca; il braccio diventa inerte, la testa senza volontà. Lo si vede addormentarsi di giorno quando non ha potuto coricarsi di notte; egli mette quattro ore a fare quello che potrebbe fare in una sola ora. È così depresso, infiacchito dalla schiavitù, talmente incatenato che, nelle opere stesse di riposo, si muove tristemente attorno all’officina del padrone. È là, braccia conserte, nell’attitudine di qualcuno stanco della vita, non sapendo indirizzare i suoi passi altrove, non potendo né volendo per niente, entrando, uscendo, mangiando, bevendo al suono di una campana, come fanno le greggi.

Ah! quanto è profonda e indelebile l’impronta che lascia la servitù sulla faccia umana: niente saprebbe cancellarla. Non c’è bisogno di marcare con un segno infamante i forzati del lavoro; ciascuno dei loro tratti e dei loro movimenti tradisce il sigillo fatale! Essi hanno la schiena curva, il passo pesante, la faccia terrea, verde come quella di un cadavere riesumato. Quando un uomo ha subito dieci anni di questa condanna a vita, niente può salvarlo; il male è nel suo sangue, l’incurabile male della miseria!

Oh moderno Issione, come gira veloce la ruota! Come ti scava, ti strappa; come versa il tuo sangue vermiglio! Giorno per giorno, goccia a goccia, la tua vita non riparata cola via come un fiume la cui sorgente è secca! Un muscolo dopo l’altro, poi i polmoni, il cuore e il cervello ed è la fine: ogni cosa a suo turno! Il nostro terreno è disseminato di rifiuti di uomini che l’industria disperde; la terra è trasformata in un campo angosciante che non produce altro che rovi! E su questa faccia sporca il mondo passeggia, danza, comunica, presenta offerte agli dèi e delle imposte ai re, anche equipaggi e nozze e lussi trionfali!

Ecco pertanto quello che fate, oh ricchi, dell’uomo vostro simile! Non gli lasciate che il dolore per pungolare la coscienza della sua miserabile vita! La terra, dite, è popolata per rendere possibili le vostre rapine! E quindi mietete fra le folle degli uomini con una falce d’oro, con i piedi nel sangue! E seminate la morte con le ossa dei cadaveri immolati alla vostra cupidigia! E andate fino in fondo al solco, e non trovate mai il grano troppo abbondante né vi stancate mai di raccogliere e di seminarlo ancora.

Vi siete mai chiesti, per caso, cosa diventa il sangue, la carne e l’anima che scompaiono? Ignorate che l’essere è immortale nella sua essenza, che il diseredato rinasce ininterrottamente con il suo oppressore, che essi sono legati l’uno all’altro dalle strette catene di una giustizia terribile?

Ah! quando bevete con gioia il succo rosso della vigna, quando mangiate con appetito la carne succulenta degli animali, non temete che quel vino sia avvelenato, che quegli alimenti non vi nutrino per niente? Non sono malati, impoveriti, come il sangue e la carne del lavoratore che avete sciancato con le vostre esazioni? E quando vi nascono dei figli, quando si rivoltano contro la tirannia paterna, quando abbracciano la causa del popolo contro quella dei suoi sfruttatori, non riconoscete in essi le anime vendicatrici di quelli che avete condannato a morte?

Commettere l’ingiustizia, sappiatelo, è eternizzare la pena. Il malfatto contro l’uomo da parte dell’uomo ritorna sull’uomo da parte dell’uomo: tutto si paga, tutto si restituisce sulla terra: torture e ricompense. Una stretta remunerazione di tutti i nostri atti, questa è la Provvidenza; essa regna quaggiù: siamo noi che la facciamo a nostra immagine. Non c’è altro inferno, altro purgatorio che quelli del Pauperismo e della Mediocrità; ogni frazione sociale vi passa a sua volta, di secolo in secolo. I poveri di oggi saranno i ricchi di domani, fin quando vi saranno fra gli uomini opulenza e miseria.

Piangete, donne del Piemonte! Che i vostri begli occhi si fondano in lacrime di sangue! Piangete di disperazione, di rabbia e d’orgoglio offeso! Insorgete per prime: in Occidente gli uomini sono morti!


Ho visto il cadavere dell’operaio piemontese. E la Morte, che mai mentisce, mi ha mostrato ciò che un’esistenza di privazioni e miserie faceva del corpo umano. Ed ecco la descrizione:

Lo stomaco ridotto alle proporzioni di quello di un uccello, coperto di cicatrici, di indurimenti, di mille piaghe croniche. – Ciascuna di queste piaghe deriva da un digiuno, e ogni digiuno riproduce una piaga. Si possono seguire così le date di tutte le prove che questi disgraziati corpi hanno attraversato nella loro vita. – Muscoli assottigliati, smagriti, infiltrati, ridotti a una sostanza di un bianco-giallastro che si strappa sotto la pressione delle dita. – Labbra pallide, di piombo; l’angoscia ha fatto loro prendere l’abitudine a stare contratte. – Arterie e vene ridotte, flaccide. – Cuore allargato, molle, alterato nella sua struttura intima, di una fibra senza consistenza. – Cervello rammollito, gonfio di sangue verdastro, disseminato di depositi calcarei: sono altrettante tracce delle esasperanti apprensioni che tormentano l’operaio nel suo lavoro di ogni giorno. – Sangue con rari elementi plastici, sostanziali, essenziali alla riproduzione delle forze attive. – Sistema nervoso dominante tutti gli altri, come nei cadaveri dei letterati…

Ed ecco dunque dove porta il lavoro! Al languore della vita, al rapido arrivo della morte, alla tavola del perito anatomico! La tomba non si apre tanto presto nemmeno davanti a coloro che si assumono il compito di scavarla. Ah, sia maledetto l’istinto che ci lega all’esistenza! Quanti dolori risparmierebbe l’operaio lasciandosi andare ad un lungo sonno! Quante coppe amare allontanerebbe dalle sue labbra!

Vedendo questa carriera di angosce, gli ho spesso domandato come potevano subirla. Sì, ho avuto questo coraggio.

Mi hanno dato la più eloquente delle risposte, hanno preso i propri figli fra le braccia e li hanno baciati. E questi poveri piccoli sorridevano così dolcemente, i loro padri li amavano tanto, con loro e con le loro madri tanto spesso si consolavano, che ho conservato per la mia anima le tristi riflessioni che mi ossessionavano.

Pensavo: Perché il povero ama quando il ricco non gliene lascia la possibilità? Perché il lavoratore ama la polvere del soffio della vita? Perché riproduce la sua immagine desolata? Non l’ha vista così triste, così lamentosa nei ruscelli grondanti? Non ha tante volte meditato di finire nel verde fondo degli abissi? Perché quindi creare a se stesso nuove torture? Perché dare, con la luce, il funesto dono della sofferenza ad esseri che un giorno glielo rimprovereranno?…

Dannazione! Nella nostra epoca maledetta, la vita nasce abbondantemente dalla miseria, essa la ricrea, l’alleva, l’avviluppa, l’eccita, la provoca. E la situazione è tale che né l’una né l’altra possono cedere, non cesseranno mai di abbracciarsi, di generare. Questa è la maledizione, che dal lavoro forzato rinasca senza sosta l’attrazione all’accoppiamento, il bisogno di consolazione che attira i sessi uno verso l’altro.

Cerchio infernale! Perché la fecondità, il lavoro, l’esistenza, tutto quello che dovrebbe renderci felici, è colpito di sterilità, di tristezza, di riprovazione? Perché l’Amore così forte per produrre il bene, perché la Morte così forte per distruggere il male, si aggiungono alle disgrazie del povero? Perché la donna, i bambini, i baci del cuore di quest’ultimo, sono maledetti, sono perduti?

Società, società, sei tu l’onesta, la considerata, la potente Babele, l’infame, la ricettatrice, l’avvelenatrice, la concubina dei ladri che affila in silenzio il coltello degli assassini. Tu obblighi l’uomo robusto a maledire la virilità dei suoi lombi, e la madre di famiglia a deplorare la fecondità delle sue viscere! Tu rendi la voluttà detestabile al povero, semini il suo letto di terrori! Gli fai desiderare di essere preso da una repulsione verso l’amore! E quando i suoi poveri bambini gli tendono le piccole braccia rosee, sei ancora tu, megera, che copri la franchezza dei suoi tratti con una terribile maschera feroce e fai germogliare nel suo cuore, venti volte l’anno, l’abominevole, irresistibile, pensiero di schiacciare la testa dei figli tra le ganasce della sua morsa!

Piangete, donne del Piemonte! Che i vostri begli occhi si fondano in lacrime di sangue! Piangete di disperazione, di rabbia e d’orgoglio offeso! Insorgete per prime: in Occidente gli uomini sono morti!


Il padrone penetra nel cuore dell’operaio; ne estrae tutto il succo della vita, poi, impunito, si ritira con la stessa facilità della vespa da un mazzo di fiori. Lascia dietro di sé molti cadaveri e nessun rimorso, nessun rimpianto, nemmeno una reputazione dubbia. Il suo occhio è duro come il vetro, il suo cuore ormai batte solo sotto l’impulso della paura.

– Il padrone, parola ingannatrice, amara ironia nella lingua di questa detestabile epoca! Il padrone di una volta era il patrizio dai modi benevoli, il guerriero forte, il buon ricco, il buon ladrone che prendeva cura di non lasciar morire il debole e l’indigente. Il padrone di oggi è una specie di cenciaio ripulito, bugiardo, che divora la sostanza del povero e raccoglie dalla sua tavola ciò che resta del pane della sua angoscia! –


Vi è tanta miseria in questo paese; il lavoro è così penoso, così perpetuamente ingrato, il sonno così raro, il nutrimento talmente insufficiente che la razza dei lavoratori si è impoverita. La vedete malaticcia, rachitica, contraffatta, inebetita, quasi senza vita, trascinarsi la domenica sotto i brillanti portici. – Come se la croce del lavoro forzato non fosse di già tanto forte da dovervi aggiungere quella della deformazione!

Vi è tanta cupidigia in questo paese, tanta sete di guadagno, rapacità, barbarie; lo sfruttamento avanza con tanta impudenza a viso scoperto, che l’imprenditore, dopo avere rovinato la costituzione degli sfortunati operai, preleva su di essi lo sconto delle loro infermità. In modo che può fare dei calcoli riguardo ai profitti che ricava dallo snaturamento dei suoi simili: in modo che lo produce, lo mantiene in piedi e non lo deve mai nascondere! – Troviamo barbari i Cinesi che spezzano i piedi delle loro donne per renderle più graziose e più fedeli, mentre ci sembra molto semplice che gli europei mutilano i lavoratori per estorcere loro tutta la forza e tutto il coraggio. In verità, siamo cannibali molto per bene!


Vi è tanta cupidigia in questi paesi che il padrone licenzia senza pietà il più abile, il più assiduo, il più vecchio dei suoi operai, quando trova un altro che possa fare più o meno bene lo stesso lavoro per un salario inferiore. – L’uomo non si lega più all’uomo se non come la tigre alla gazzella, per divorarlo.

Vi è tanta miseria in questo paese che il lavoratore è obbligato a subire tutte le condizioni del suo padrone, a fargli credito di molte settimane di paga, di fare le feste e le notti allo stesso prezzo dei giorni, di vincere medaglie d’oro per un pezzo di pane! – Il capitale acquista tutto, rivende tutto, corrompe tutto. Il civilizzato è l’uomo dalla maschera d’argento!


Vi è tanta miseria in questo paese che il magro salario dell’operaio deve essere sufficiente per la sua famiglia, spesso sei o sette persone da mantenere con la paga di un giorno. Perché le donne e i bambini non ricevono che cinquanta centesimi in media quando lavorano, ed è raro che trovino tanto da guadagnarsi la vita. – Lavorare, velocemente invecchiare, morire: è il ritornello dell’indigenza!

Vi è tanta cupidigia in questo paese che si calcola fino all’ultimo pezzo di pane indispensabile alla riparazione delle macchina operaia, mai gli si deve dare di più. – Oh desolazione, profanazione della natura umana! Si ingrassa lo strumento, si fa dimagrire l’operaio. Spesso questo è ridotto a leccare il grasso dell’altro!


Vi è tanta cupidigia in questo paese che l’uomo coltiva, raccoglie e vende i frutti della terra senza poter gustare ciò che il paniere contiene. I vignaioli non conoscono il sapore dell’uva, il contadino porta il bel frumento al mercato e si gonfia di cattiva farina d’orzo e di mais. I lavori dei campi sono più deprezzati ancora di quelli della città. Nei villaggi, anche i bambini, i vecchi, muoiono di fame: si dice che sia il colera! A condizione che l’operaio sembri vivere, a condizione che faccia guadagnare tanto al giorno a chi lo sfrutta, che importa che esista realmente, se si muove, se pensa? – Più l’uomo si avvicina al bruto per la sua pazienza e sobrietà, meglio conviene al suo padrone.

Vi è tanta miseria in questo paese; il lavoratore è talmente abbandonato, misconosciuto, disprezzato dagli intriganti della politica, i partiti più avanzati s’inquietano così poco dei diritti essenziali dell’uomo, che nella loro più spaventosa disperazione, nella più grande carestia, gli operai mancano di ogni direzione, di ogni consiglio. – Non vi sono associazioni operaie a Torino, uno sciopero è impossibile in mancanza di risorse e di energia!


Vi è tanta miseria in questo paese che, per fuggire all’angoscia della propria anima, il povero deve spesso andare fra le braccia dell’ubriachezza. – L’Ubriachezza! la falsa brava ragazza dalle guance rosse di fuoco non di freschezza, l’ultima consolatrice, ancora più assassina della Prostituzione! Tanti sono gli uomini che la frequentano, tanti muoiono prontamente fra dolori atroci! Essa li addormenta sul suo seno rantolante, versa nel loro stomaco liquori corrosivi, quello che chiamano acquavite, bevande cordiali, quello che io chiamo acqua-di-morte, i veleni disseccanti, che dissolvono i tessuti, li bruciano, li carbonizzano e non ingannano la fame che per esasperarla!

Vi è tanta miseria in questo paese che spesso il lavoratore invidia la sorte del prigioniero e del mendicante. Egli tende la mano ai passanti, si fa rinchiudere per essere sicuro di avere la casa, per scongiurare la fame! Spesso, in queste condizioni estreme, conduce i suoi figli e la sua donna in piazza, li fa cantare, danzare, divertire il pubblico, mentre sono morti nell’anima, mentre lui, lo sfortunato, soffre ancora più di essi!


Vi è tanta miseria in questo paese che i più cari istinti della natura finiscono per cedere alla necessità. L’inesorabile pauperismo genera la prostituzione occulta e precoce. L’operaio, mancando di tutto, non può vedere il disonore di sua moglie, la vendita dei suoi figli ai signori benestanti che bussano alla porta per introdurre l’obbrobrio nel suo povero focolare. Non può risentire dei più mortali oltraggi, deve restare sordo alle proteste della sua dignità, posare le mani ghiacciate sui battiti del suo cuore e mille volte morire di rabbia e di disgusto.

Vi è tanta miseria in questo paese che il lavoratore è spossessato di tutti quello che renderebbe più dolce la sua vita: le gioie dello spirito, gli sfoghi del cuore, i puri baci della famiglia, la pace della sua anima. Gli hanno preso tutto; deformato il corpo, sporcato la coscienza e lasciata la sua intelligenza incolta come una palude!


Ah! se si potessero riunire tutti i lamenti, tutte le bestemmie sfuggite alla pazienza del povero, tutte le lacrime che piange, tutti i singhiozzi che lo divorano, la voce degli echi ne sarebbe oscurata, gli abissi degli oceani e degli inferni non potrebbero contenere tante torture. E quante lacrime amare bisognerà ancora versare, prima che l’ultima faccia debordare la coppa di bronzo dell’implacabile Monopolio sempre presente negli uomini dalle mani scarnite!

Così vuole questo secolo! Tutto quello che in noi è eterno, immateriale, bisogna sacrificarlo a tutto quello che è temporale, fatto d’argilla e di fango, ributtante, stancante delle quotidiane necessità. L’anima è schiava del corpo, il pensiero del bisogno; l’involucro soffoca l’essenza; l’ispirazione, l’onore, l’amore, la libertà, la dignità di un uomo dipendono dallo stato del suo stomaco.

Strana degradazione della natura vivente! Suicidio eterno! In che cosa la morte differisce dunque da una simile esistenza? Lo ripeto, io la trovo più rapida, più franca, scortata di meno angosce e terrori: si tratta solo di un cattivo quarto d’ora da passare!

Piangete, donne del Piemonte! Che i vostri begli occhi si fondano in lacrime di sangue! Piangete di disperazione, di rabbia e d’orgoglio offeso! Insorgete per prime: in Occidente gli uomini sono morti!


Ah, come potrebbe l’uomo non maledire la potenza dell’uomo, le meraviglie scoperte dell’industria, il genio, la ricchezza, la gloria che si rivoltano contro di lui? Quando i suoi movimenti sono paralizzati da quelli delle macchine, quando si sente imprigionato, gemente vittima di una gigantesca trasformazione, in una buccia di ferro, come potrebbe non cercare di spezzarla? Certo, egli riconosce che la macchina è bella, che fa più lavoro dell’uomo e potrebbe risparmiargli molta fatica; ma vede anche che funziona a suo detrimento, che gli ruba il pane.

E perché tutto ciò? Perché attraversiamo una fase di transizione, di decadenza e di privazione, fase ambigua, critica, caratterizzata dalla sofferenza delle persone, dalla tensione delle cose, dallo scatenamento dei desideri e dall’insufficienza delle risorse. Non riusciamo neanche a staccare i nostri corpi dal passato che già le nostre aspirazioni ci trascinano verso l’avvenire: da ciò la lacerazione che ci squarta ogni giorno. Le macchine attualmente inventate si applicano alla società di oggi come le membra di un gigante si adatterebbero al tronco di un nano. Esse funzioneranno vantaggiosamente per tutti solo nell’avvenire, quando le ricchezze sociali più equamente, più generalmente ripartite, permetteranno un immenso consumo che si accompagnerà a una produzione proporzionale.

Dall’assenza di ogni giustizia distributiva, deriva che le macchine destinate a fare la felicità dell’umanità nell’avvenire, contribuiscono oggi a garantire la sua infelicità; – che siano nocive per tutti, per quanto sembrino favorire qualcuno; – che siano dirette dal monopolio, che lavorino per lui, cioè avaramente, meschinamente, rapinosamente, arrestando, calcolando interessi eccezionali. – Ogni condizione deplorevole che eternizza il Privilegio, cioè lo sfruttamento di tutti a profitto di qualcuno, la miseria per i primi, la maledizione, le preoccupazioni, i rimorsi per i secondi. – Strano privilegio, in effetti, quello che tutti vogliono conservare e che non reca profitto in definitiva a nessuno, in quanto la rapida ruota della fortuna precipita gli uomini in un istante dalla grandezza all’abisso della disgrazia! – Miraggio di falsa felicità che ci storna dal perseguire la vera felicità, la quale come il sole della giustizia ci riscalda tutti senza bruciare nessuno.

Rivoluzione, grande Dea in marcia inflessibile, bisogna benedirti, bisogna maledirti, tu che avanzi solo rompendo, strappando? Bisogna solo contare i nostri morti e piangere, dando loro pace nelle sepolture e guardarti correre, locomotiva ardente, su binari infiammati? Bisogna che l’operaio distrugga le macchine? Bisogna che le adori?

Né l’uno né l’altro. Il problema non è là. Le macchine sono strumenti, esse ricevono l’impulso di una volontà: ecco tutto. Quanto all’intelligenza che le dirige, essa è indifferente alla giustizia o all’iniquità. Il principio del monopolio è giusto? È legittimamente che lo Stato e le compagnie capitaliste sfruttino con privilegio esclusivo le scoperte dell’industria moderna? È agli interessati che spetta risolvere questo problema nell’intimo dei loro cuori. Io affermo nella mia imparziale e tranquilla coscienza, stop alla distruzione della proprietà. In una nuova rivoluzione non è la macchine che distruggerò, ma è il codice civile che darò alle fiamme; è il ritorno dell’abuso e dell’eredità nel godimento che vorrei evitare a ogni costo; e sono i diritti del lavoro che consacrerei definitivamente così come l’organizzazione delle società.

Fin quando le cose andranno altrimenti, si può affermare che andranno male. Fin quando gli individui non potranno tutti impiegare le proprie facoltà e soddisfare i propri bisogni, si può ben affermare che soffriranno. Fin quando i meccanismi onnipotenti della produzione saranno contrapposti alle risorse di un consumo avaro, miserabile, a una ripartizione capricciosa, aggiotatrice, ingiusta, si può ben affermare che si avrà disarmonia nella costituzione sociale, alti e bassi disastrosi, flussi e riflussi omicidi, colpi di borsa, colpi di banca, bank-note, banchieri, banchisti, bancarottieri e bancarotte. Sulle prime la concorrenza farà offerte superiori alle domande, ma non potrà a lungo rinnovarsi in mancanza di consumatori. Allora i più ricchi imprenditori resteranno padroni assoluti di un mercato limitato che sfrutteranno con capitali e industrie considerevoli, – la loro proprietà. Da cui risulterà che le tariffe di vendita e di acquisto, il prezzo che ne deriva, i tassi di rendita, il numero e i salari degli operai, le condizioni e le ore di lavoro saranno in balia della loro misericordia. Ora, sappiamo, senza possibilità di dubbio, che la giustizia è parziale quando giace nelle mani di qualcuno. Sappiamo anche, grazie ad una esperienza di seimila anni, positivamente superiore a tutte le dottrine dei virtuosi maestri della scuola di Auguste Comte, sappiamo, dico, che, per noi stessi e per tutti, l’altruismo non è precisamente il movente dell’uomo quando gli sono dati i mezzi per cospirare con il suo egoismo alla rovina del suo simile.

Al contrario, quando tutti i beni della terra saranno convertiti in strumenti di lavoro e di riproduzione generale, quando l’attività dell’uomo potrà riversarsi alleggerendo tutte le cose, la produzione e il consumo non avranno più dei limiti; una distribuzione illimitata, equa, li equilibrerà, li ecciterà, li provocherà senza tregua. Allora tutti gli uomini concorreranno, secondo le loro attitudini, a un mercato senza limiti che essi sfrutteranno a mezzo di simboli di scambio e di produzione innumerevoli, – strumenti di fabbricazione appartenenti all’umanità. Allora tutti gli uomini saranno operai che eseguiranno per la massa sociale lavori attraenti e speciali, sempre conservando la loro libertà d’azione. Allora le leggi della produzione e del consumo, come i rapporti di valore, saranno stabiliti dal fatto stesso della circolazione incessante di tutti i beni della terra tra i membri della società. Ora, sappiamo, senza ombra di dubbio, che la giustizia è imparziale quando riposa nelle mani di tutti, quando ciascuno è guardiano del suo buon diritto. Sappiamo, grazie all’osservazione della natura umana, positivamente superiore a tutte le dottrine dell’illustre semidio Comte, che l’egoismo è il movente di tutte le azioni dell’uomo libero, e che l’interesse di ciascuno non può nuocere a nessuno in una società giusta, spossessata dei mezzi di accaparramento e di violenza.

Maledetto sia il Presente, questo ridicolo bambino senza aspettative, questo burbero vecchio senza ricordi! Maledetto sia il nostro secolo che sospetta dell’Avvenire e disprezza il Passato! Disgrazia sul Monopolio che, con la sua mano di ferro, ha lanciato le macchine che portano ai propri lati la Rivoluzione! Ma anche disgrazia ai lavoratori, ai poveri, a tutti quelli che si accosteranno ai più funesti ingranaggi! Niente potrà salvarli! La molla è tesa come la corda dell’arco; bisogna che esaurisca la sua rabbia titanica; bisogna che affami, che terrazzi, che scortichi, che descriva urlando la sua sanguinosa curva! Questa abominevole Civilizzazione scaverà fino in fondo il solco della sua fossa. Si dividerà ancora la proprietà, si moltiplicherà la concorrenza, si abbasseranno i prezzi e i salari, ancora il padrone farà delle economie sull’operaio! Fino all’esaurimento, all’inazione, alla morte del proletariato durerà la sua tortura! Bisogna che il disgraziato perda ogni speranza di liberazione, ogni spirito di rivolta, ogni dignità; bisogna che si lasci condurre al lavoro come la bestia da soma; bisogna che non abbia più sensibilità né desiderio né forza né coraggio! Bisogna che la sua intelligenza sia ridotta alle proporzioni assolutamente indispensabili per confezionare una testa di spillo! Bisogna che arrivi a maledire il Lavoro, la Scoperta e l’Industria di cui è vittima, l’Umanità che lo lascia morire di fame, il Dio che ha creato le spaventose generazioni, il padre e la madre che l’hanno messo al mondo, i bambini ai quali ha passato il funesto dono della vita! Bisogna che si lasci morire di stanchezza e di fame nel focolare di famiglia! Bisogna che solo in pochi mettano fine col suicidio a questa vita morente! Bisogna che la tenebrosa follia, la languida malattia decimino il resto! Bisogna che, tre volte la settimana, il pane manchi all’uomo perché faccia alla fine ricorso alla ragione suprema, folgorante, perché il braccio dell’oppresso si abbatta sul petto dell’oppressore!

III

Nei grandi centri manifatturieri la trasformazione e la circolazione dei valori non si arresta mai. Si rischia, si sovvenziona, si aggiota, si muove tutto; si fanno molti affari, vi sono molti capitali investiti, molte industrie in funzione, molte rivoluzioni, molte scoperte, esperienze, imprese di ogni genere, tanti casi, azzardi, possibilità, inversioni, costruzioni, demolizioni e macerie che fanno vivere i cenciaioli, in modo che il lavorare possa trovare un straccio di mantello regale, un residuo abbandonato di un sontuoso festino. Quando il sole è caldo, i suoi raggi benefattori arrivano ai più poveri; quando la messe è abbondante gli ultimi riescono a spigolare a lato dei primi. Tale era la sorte dei servi nel medioevo, e può essere che fosse meno da compiangere di quella dei liberi proletari del nostro tempo.

Ma, nelle capitali di second’ordine, dove l’industria è nata da poco, nei paesi come il Piemonte in cui il ricavo commerciale è appena sufficiente per il ricco, che cosa resta al lavoratore? Quale può essere la miseria uscita dalla mediocrità, quando quelle di Londra e di Parigi, figlie dell’opulenza, sono così cenciose, così tremanti e affamate?

Vorrei far comprendere il mistero di Torino; ma né io né altri vi riusciremo. Bisognerebbe per fare ciò descrivere la marcia spossante della morte, la sua magrezza ossuta, i suoi lunghi digiuni, l’insaziabile appetito, la desolazione muta, il raro sonno, i suoi denti lunghi, le orbite affossate, la sua nudità! L’operaio piemontese non vive e nemmeno vegeta; è uno spettro, un ritornante; egli si regge sulle lacrime che gli uomini gli fanno versare e sui terrori che causa alle donne, ai bambini che nemmeno lo riconoscono!

Dolore amaro, onta incancellabile, forzata, fatale questo odierno sacrificio di vittime umane! Questa miseria è una lebbra orrenda, soprattutto quando infierisce sulle società giovani e dilaga a suo agio come eruzioni della pelle nei bambini!


Il principio di solidarietà domina tirannicamente tutti gli organismi umani. Nessun membro degli individui o delle società vi si potrebbe sottrarre. Mentre le facoltà intellettuali e affettive sono libere nelle loro manifestazioni, le funzioni materiali sono incatenate, compresse in un cerchio ristretto dove possono appena uscire sotto pena di morte.

Nell’economia di un uomo adulto si trova un cuore la cui forza e capacità bastano largamente ai bisogni della circolazione. Supponete che un secondo, un terzo cuore arrivino a formarsi più tardi nel corpo di quest’uomo e persistano a mantenere attorno a essi una circolazione differente da quella del cuore principale: che succederà?

Che questi organismi arrivati dopo saranno troppo deboli per sostenere la concorrenza del centro primitivo; – che non potranno lottare con quello che a forza di sofferenze e di sacrifici; – che questo lavoro disastroso, impoverirà gli altri organi spossando essi stessi; – che finiranno per soccombere senza mai avere pienamente vissuto, senza mai avere pienamente lasciato vivere.

Questo disordine che sono obbligato a supporre nell’uomo per darmi un argomento per assurdo, lo ritrovo dappertutto nelle società in cui ha preso forza di legge, domina dispoticamente e produce tutte le funeste conseguenze che segnalo.

Torino è senza dubbio il più povero di questi cuori industriali secondari; come tale è condannato senza appello; fin quando l’Europa civilizzata si baserà su di un principio di assorbente centralizzazione politica e sociale, nessuna alleanza potrà salvarla. Esso non può in effetti né fabbricare sufficientemente né sufficientemente vendere per mantenersi contro l’immensa circolazione che si sviluppano attorno paesi più importanti; è di troppo nell’Occidente commerciale. È preso tra le zone del traffico dell’Inghilterra e della Francia di cui una l’assedia dal mare, obbligata com’è a cercare senza sosta sbocchi nuovi alla sua divorante produzione, mentre l’altra lo circonda da terra per ingrandire sul continente la sua influenza mercantile. Così bloccato, il Piemonte vegeta tristemente su una industria senza avvenire; né la sua produzione né i suoi investimenti si possono accrescere.

Se Torino non può pretendere un’azione commerciale europea, ancora meno può essere considerato come un organo continentale di produzione e di consumo. Per provarlo, ricorderò per prima cosa l’assioma di economia politica in base al quale è stabilito che la produzione e il consumo sono proporzionali, da cui deriva, come conseguenza, che se l’una è povera o nulla, l’altro sarà uguale. Da cui risulta che mi basta dimostrare che la produzione non esiste e non può esistere a Torino.

Che non esista, i fatti e le cifre lo testimoniano come pure l’aspetto della città che è tutto tranne che manifatturiero. Non sono né statistico né descrittivo: è questo il mio più piccolo difetto. Che si verifichi quindi la mia affermazione nei trattati economici specialistici e nelle guide dei viaggiatori. Come filosofo, artista e lavoratore secondo le mie tendenze, mi basta aver presentato queste considerazione della cui esattezza sono certo.

Voglio stabilire per prima cosa, che una qualsiasi industria non può diventare florida a Torino nella situazione presente dell’Europa centrale. In effetti come potrebbe rivaleggiare questa città con Genova, la Svizzera, la Germania, la Francia e l’Inghilterra i cui prodotti speciali soddisfano ampiamente i bisogni dell’Occidente? Come, perché lo farebbe senza essere incoraggiata nei suoi sforzi dall’assicurazione di costanti opportunità?

L’industria di Torino è quindi obbligatoriamente limitata alla soddisfazione dei bisogni quotidiani e pressanti della popolazione centrale degli Stati Sardi. Non intraprende all’ingrande, non vive che grazie alla clientela privilegiata del governo; è piuttosto una funzionaria, una parassita e non una lavoratrice. E malgrado dogane e dazi, la concorrenza esterna la rovina approvvigionando il Piemonte di tutti i prodotti rari, costosi per essere fabbricati con pochi soldi e poco materiale.

Il consumo è per conseguenza ristretto ai bisogni abituali della vita; tutto quello che supera queste spese ordinarie è preso da fuori. Ciò sottrae al paese una somma considerevole di capitali che non ritorneranno più.

Nel mezzo dell’Europa industriale, Torino è dunque come un’isola – una isolata, dicono gli Italiani – limitata, senza più speranza, alle sue povere risorse, ai suoi poveri bisogni, non godendo, come Madrid, delle macerie delle ricchezze precedentemente acquisite, non avendo, come Roma, privilegi e mendicità, non praticando l’astuzia commerciale delle piccole repubbliche svizzere. È un povero centro, un povero astro senza raggi. Una povera succursale, vivente poveramente della povera sovvenzione che gli fa un governo povero. È una contraffazione maldestra, obbligata a lottare contro fabbriche mirabilmente organizzate. È un bubbone, una superfetazione, un vischio, una verruca, una sorta di mostruosità impraticabile, che si dibatte vanamente contro l’atonia, l’afasia, il torpore, la mediocrità, l’incapacità dell’ambiente che la circonda. È una coltivazione deposta in un cattivo terreno e che mai crescerà. È come un sacrificio di Isacco che bisogna rinnovare continuamente, come un perpetuo tributo al goloso Monopolio, come un’emorragia che si lascia colare, come un cauterio, è la parola, sul vigore del Piemonte!

E più Torino si ostinerà, si attiverà, si sforzerà nel suo compito, più rapidamente precipiterà la sua caduta. E tuttavia, questa industria nata morta non può indietreggiare né può avanzare, è accosciata in una impasse dove morirà! Non può rinculare perché rappresenta il Piemonte del diciannovesimo secolo, perché l’esca sempre ingannatrice di una ricca clientela tenta mille cupidigie rivali dei suoi avidi fabbricanti; non può avanzare perché manca di linfa e di terreno.

La causa di questo disordine e di tanti altri?… Date uno sguardo a una carta dell’Europa! Vedete come il cieco azzardo delle battaglie, il dente crudele dell’ambizione e lo stolto amor proprio nazionale hanno ridotto in pezzi, mutilato il continente, facendo pezzi sanguinanti con i lembi dei popoli come se fossero pezzi di carne di cervo! Domandate a quali indicazioni naturali, a quali bisogni legittimi rispondono le attuali frontiere! Dite in che cosa l’esistenza del Piemonte industriale e costituzionale è indispensabile all’Europa! Cercate di provare che cosa potrebbe nuocergli in una etnografia normale!

E comprenderete che il male esiste, e gli Stati Sardi anche, e l’industria torinese e i suoi detestabili prodotti. Tutto ciò si mantiene perché è indispensabile certamente alla felicità degli uomini che vi sia un regno di Sardegna, un esercito, funzionari, dogane e imposte sarde, fabbriche sarde, uno sfruttamento, un proletariato, una carestia sarda, una mendicità, scrofolosi, prigioni, penitenziari, carnefici e patiboli sardi! Non siete di questo avviso, dell’avviso che professa la gente di buonsenso e di sangue puro, i re, i senatori, i nobili e i ricchi, non siete di questo avviso, ditemi, classi contribuenti e sofferenti? Non trovate che queste creazioni e queste glorie siano essenzialissime al vostro benessere? Quanto a me, che non amo allinearmi all’opinione di tutti, non vedo in tutto ciò che un amaro risultato: il fatto è che sardo, inglese, francese, russo o turco, protestante o cattolico, servo o costituzionale, il gregge del popolo è sempre tosato, ed è tosato proprio a zero quando è diviso in piccole frazioni!…


E su chi ricade definitivamente tutto il peso di questi profondi intrighi, tutte le conseguenze degli errori commessi? Purtroppo! su chi non c’entra per nulla, su chi non ha voce in capitolo, sul più oppresso, sul proletario! Purtroppo! Disgrazia su di lui nelle città in cui i padroni sono poveri!

Ascoltate quello che accade a Torino:

La produzione è una rovina per tre quarti degli imprenditori, per l’altro quarto una sopravvivenza miserabile, per tre o quattro soltanto il punto di partenza di fortune rapide e colossali; per gli operai è un vero massacro degli innocenti!

Il padrone che produce molto poco, lentamente e male trova il suo vantaggio a fare venire dall’estero i prodotti di già finiti. Da ciò due conseguenze: la prima, che gli bisogna poco lavoro; la seconda, che non può realizzare grandi profitti dagli oggetti importati, per cui deve guadagnare molto su quelli che fabbrica.

Questo guadagno su chi può prelevarlo? – Non è certo sull’acquisto delle materie prime, sul riscaldamento, la locazione e gli strumenti di lavoro, il prezzo di tutte queste cose è stabilito in maniera fissa. Non è nemmeno sulla vendita, il consumatore apprende sempre, grazie alla concorrenza, qual è il prezzo più piccolo. Ma è sulla mano d’opera. E chi fornisce la mano d’opera, la merce umana, l’articolo del braccio, del muscolo, della forza, sempre deprezzato, sempre in ribasso? Chi lo fornisce? Il povero operaio!…

La maggior parte dei proletari non può espatriare per mancanza di risorse. Senza protezioni, i proletari non trovano lavoro nelle ferrovie dello Stato e delle compagnie. In tempi ordinari, l’offerta di lavoro negli Stati Sardi è dunque molto superiore alla domanda.

Da cui risulta: che le condizioni fatte da tutti i padroni sono egualmente e inflessibilmente crudeli; – che è quasi un favore per l’operaio lavorare a vile prezzo, dare la propria vita, contro un salario derisorio, all’uomo che aborre; – che il migliore operaio si vede sempre superato dal peggiore, il quale si contenta di una minima paga e basta perfettamente ai lavori locali; – che l’operaio è assolutamente a discrezione dell’imprenditore; – che quest’ultimo, nella sua fabbrica, è più padrone dello zar sul suo trono, di un pascià nel suo serraglio, di un negriero sulla sua nave maledetta; perché comanda con la brutalità, la necessità, la povertà, la miseria! E, non lo dimentichiamo, con l’altissima protezione del governo che, facendo abuso della forza, sanziona necessariamente tutti gli eccessi dell’ingiustizia: la proprietà dell’uomo come quella della cosa, lo sfruttamento del povero come quello del campo, l’indigenza come la schiavitù!

E poi ci si meraviglia che le prigioni e gli ospitali rigurgitano; che il furto, l’assassinio, l’epidemia, sevizino crudelmente l’umanità! Come pure della resistenza che si incontra nell’esecuzione della legge sui conventi in quasi tutta l’estensione degli Stati! Da parte mia, non vedo che conseguenze inevitabili del pauperismo estremo e non sarei molto meravigliato se questi fatti si producessero in più gran numero.

Purtroppo! quando la miseria e la fame si estendono in un paese, quando l’uomo è ridotto a questa spaventosa alternativa di digiunare o rubare, uccidere o morire, è forse colpa sua se ruba, se assassina? Quale fra voi, ricchi, abituati a vivere bene, non agirebbe allo stesso modo se si sentisse morire? Ma cosa dico? Voi fate tutto questo ogni giorno, legalmente – cioè vigliaccamente, ipocritamente, senza esservi costretti da un bisogno essenziale? – Della vostra razza maledetta non ce n’è uno che possa un giorno vantarsi di essere vissuto senza spogliare il povero, senza diseredarlo, farlo sanguinare, distruggerlo. E siete voi, miserabili, che portate davanti ai vostri tribunali l’uomo che, provocato, sottomesso, affamato da secoli, rinasce per un istante alla coscienza del suo valore e si mette sotto i piedi uno dei suoi assassini! Perché la società mette uno dei suoi membri in questa suprema necessità? Egli risponde all’attacco, non fa che difendersi, conservare la propria vita, rivendicare, riabilitarsi, giustificarsi ai propri stessi occhi, agli occhi di tutti gli uomini per avere subito così a lungo una infame schiavitù. Bisogna vivere, infine, a qualsiasi prezzo! E sfortuna agli uomini che prosperano nelle società facendo soffrire la fame!!

Purtroppo! quando l’industria, il governo di un popolo, sono troppo poveri per occupare, per soccorrere gli indigenti, quando la proprietà, scissa, gravata d’imposte, agonizzante in un sofferente egoismo non può fare l’elemosina del pane, accade obbligatoriamente che le congregazioni religiose aumentano d’influenza. Perché queste cercano l’autorità più che il guadagno, perché sanno e possono ancora fare i sacrifici necessari per raggiungere il loro scopo.

Quanti dei poveri di Torino sarebbero morti nel duro inverno del 1855 senza le distribuzioni di minestre fatte ogni giorno dai monaci alle porte dei loro conventi? Quanti crimini ha evitato l’assistenza di questi religiosi! Purtroppo! che faranno tutti questi disgraziati durante il prossimo inverno i cui tristi rigori si annunciano di già? Moriranno davanti ai muri delle proprietà, agli acciai delle casseforti, o sotto il piombo che gli invierà il governo sardo al posto dei soccorsi?

– Faccio osservare che in questo momento non discuto di religione o filosofia: constato dei fatti. È colpa mia se essi non sono a favore della borghesissima Civilizzazione del Capitale? –

Riguardo alla questione del diritto, che mi importi tanto o poco, eccola: domanderei al governo del conte di Cavour chi l’autorizza, lui difensore della sacrosanta proprietà, a spogliare chicchessia di un possesso privilegiato legalmente acquisito? Domanderei se questo atto non costituisce un delitto passibile del codice penale? Chiederei a tutti i tribunali venduti di procedere contro tutti i funzionari ladri che hanno preso parte alla spoliazione dei conventi. Svaligiando le congregazioni, il ministero reale non ha per nulla distrutto l’ingiustizia; l’ha girata a proprio vantaggio e a quello della borghesia che rappresenta così degnamente. Che importa se, fedele all’ipocrisia di Stato, esso ha rivestito di buoni pretesti di diritto popolare e di salute pubblica una misura di vigliacco brigantaggio, un furto aggravato dettato dall’interesse di partito? Un bell’affare, un grosso affare, in verità, un immortale titolo di gloria questa risibile espropriazione di qualche povero diavolo di mendicante tonsurato! Il problema pieno di terrore, l’unico e grande problema dei nostri tempi, è molto più grave! Né il potere ingannatore né l’opposizione chiacchierona l’ignorano; gli uomini giusti di tutti i paesi istruiscono il processo alla proprietà! – Alla proprietà: avete capito [in italiano nel testo, n. d. t.]?

Aspettiamo quello che ricadrà certamente sul povero piemontese della legge Rattazzi, cioè l’aggravamento della sua miseria e della sua spoliazione nel corso della prossima stagione. Che vada a chiedere una zuppa al governo per vedere? Gli risponderanno che il potere è stato costituito per fare morire gli uomini in Crimea, non per farli vivere in Piemonte!

L’Inferno, l’Inferno è sulla terra!!

IV

Vexilla regis prodeunt inferni.

Dante

Che innumerevole esercito che passa nelle strade delle città e nei solchi dei campi! – È la massa compatta dei dannati di questo mondo, la triste, la maledetta, che non ha uniforme né bandiere brillanti: l’esercito dei lavoratori! Essa avanza al suono di migliaia di martelli, allo stridere di lime sul metallo, al soffio delle locomotive, al lugubre richiamo delle campagne di fabbrica, sotto le nuvole di fumo dell’olio, una grandine di sabbia, una pioggia di fuoco! Essa dispiega al vento una tuta a brandelli su uno stendardo nero!

Le bandiere del re avanzano, del re degli Inferni!

La tuta! – L’abito giornaliero e della domenica, sporcato da mani callose, sdrucito dalle incudini, usato, spiegazzato dal vecchio e incessante lavoro, roso dagli acidi, bruciato dalle scintille, bucato da pezzi di legno e di metallo, macchiato di grasso, annerito dal carbone, bagnato di sudore, e spesso, purtroppo, di sangue!!

La bandiera nera! – Emblema lamentevole di una lunga esistenza di dolori! È arrossata dalle lacrime cocenti delle donne e dei bambini, vittime della fatica e del pauperismo! È il mantello imperiale della morte, portato da creature che vegetano appena, che perdono parecchio ogni giorno e riguadagnano poco ogni notte, che mangiano pane nero e producono oro!

Purtroppo! si riparano meno gli operai, macchine viventi, che le macchine inanimate, questi cadaveri lavoratori che essi galvanizzano! Si prende loro il salario, il nutrimento, il sonno, il riposo, il grasso, il sangue, la forza, la salute, la vita più di quello che possono dare; li si spinge, li si comprime come uva da vendemmia; li si obbliga a marciare, a correre, a superare se stessi, a trascinare carriole, a scavare la terra, a battere le acque e le montagne, a martellare, a portare enormi pesi, a rischiare la vita senza sosta, fin quando cadono a causa della fatica e della vecchiaia anticipata!

La tuta e la bandiera nera: un emblema che serra il cuore, una leggenda di sofferenze indescrivibili, di drammi lugubri e ignorati!

Le bandiere del re avanzano, del re degli Inferni!


Nel mezzo delle loro falangi serrate, in un largo spazio, sono messi gli strumenti del loro quotidiano supplizio: macchine e ruote, asce e falci, pezzi di carbone, pezzi di piombo, pezzi di ferro! Tutto intorno sono schierati gli invalidi del lavoro, poveri coperti di stracci, estenuati, calvi, zoppi, monchi, paralitici, sordi, ciechi o guerci che il mondo respinge! Ciclopi caduti, sono armati di sbarre di ferro pesanti che rimpiazzano, fra le loro mani deboli, la lancia assassina degli insolenti pretoriani! – La lancia dalla rossa orifiamma macchiata di sangue che si mitraglia nelle guerre civili!

Le bandiere del re avanzano, del re degli Inferni!


Al centro del recinto troneggiano le tristi divinità del Proletariato: la Pena, la Fame, la Fecondità maledetta, il Risparmio! Sono pallide, smunte, smagrite; i loro denti sono lunghi, le mammelle flosce, le palpebre cerchiate. Sono quattro, su quattro carri.

Il carro della Pena è di ghisa, quello della Fame è di abete secco, quello della Fecondità maledetta di pioppo verde, quello del Risparmio di rame massiccio, consumato dagli sfregamenti.

Questi carri sono trainati da otto cavalli magri, dal pelo rosso e lungo, dalle giunture irritate cento volte. Le loro gengive sono verdi, la frusta ha lasciato sulla pelle mille strisce spelacchiate. Essi tossiscono, schiumano e si piegano a ogni passo; i loro carri senza molle gemono come seghe mai ingrassate.

Ciascuna delle dee fatidiche porta i suoi attributi disegnati sul vestito: la Pena, fagotti di spine e pugni di ortiche; la Fame, deserti di sabbia e mari senza rive; la Fecondità maledetta, ciuffi di gramigna; il Risparmio, unghie adunche e becchi di avvoltoio!

Le bandiere del re avanzano, del re degli Inferni!


Ho visto gli eserciti dei re in marcia verso la guerra; essi scintillavano d’acciaio e d’oro; partivano gioiosi al suono delle fanfare! – È lo stesso per il mattatoio!…

Ma almeno, vittime brillanti, erano parati come per una festa, in ogni campo del Massacro che andavano a insanguinare, spuntavano steli di verde alloro; sull’altare del Nazionalismo dove essi porgevano la gola, si alzava l’odioso scheletro della Morte, ma nascosti sotto i nastri, le croci e i sonagli di bambino.

Almeno, nella battaglia, gli ufficiali cadono a fianco dei soldati e la Guerra non è per loro una fortuna senza pericoli. Almeno il soldato muore nell’ubriacatura di qualcosa di caldo, la palla o la spada.

Mentre il proletario si consuma nella disperazione del lavoro eternamente monotono che gli rompe le membra e amareggia il cuore. Il suo primo campo di battaglia è l’ospizio, l’ultimo l’ospedale, dove si torce in una lotta suprema contro il Male e l’Agonia. In questi oscuri asili non sente altro che la voce lamentosa del prete e delle religiose, gli urli e i singhiozzi che scoraggerebbero il più forte; sulle loro tristi facciate è dispiegata la bandiera nera. La funebre insegna del solo rifugio che si apre al povero!

Le bandiere del re avanzano, del re degli Inferni!

V

Strappiamo il carbone alla terra fangosa;

La notte copre i nostri fianchi con il suo manto brumoso,

E la morte, vecchio gufo, vola attorno alle nostre fronti.

A. Barbier

Salirò sul campanile della chiesa vicina. Vedrò così sfilare, al sorgere del giorno, il popolo oscuro dei lavoratori che si trascina, più stanco del giorno prima, verso il solito lavoro.

Sono le quattro. Ecco l’avanguardia: carpentieri, stagnari, conciatetti, muratori, marinai, pompieri, macchinisti, minatori; tutti quelli che rischiano i loro giorni in mezzo agli elementi più difficili della terra, e non hanno sotto i piedi che qualche striscia della terra che amiamo.

Li vedete veleggianti nell’aria, in una fragile imbracatura? Li scorgete sulle croci dei campanili, sui tetti alti, a cavallo di raggi ardenti? Li vedete portati via da veloci macchine che vomitano fiamme? Li seguite sospesi nei cantieri navali, o penetranti, attraverso il fuoco, nelle case che bruciano? Li scoprite lavoranti sottoterra, a immense profondità, nudi, tremanti o madidi di sudore, nei sotterranei dove mancano l’aria e la luce, incollati contro la roccia come cariatidi viventi, colpenti, col braccio e con i picconi, le basi dei monti per scorticare appena il loro viso di pietra che restituisce colpo su colpo? Li vedete esposti tutto il giorno al ribollire della terra che scuotono?

Sono quelli che portano l’ascia al fianco e la scala di corda attorno al petto, quelli che aprono la strada dell’umanità verso le scoperte lontane. E che cosa ritorna loro in cambio di così pericolosa fatica? Appena il pane di ogni giorno, una tomba ignorata sotto le onde o nelle viscere della terra, in un cratere fumante, su un selciato o sotto le ruote della ferrovia che il vapore trascina!

L’Inferno è sulla Terra! – È per suo conto che l’Angelo della Morte caccia, miete e uccide quelli che lavorano da un crepuscolo all’altro. L’ozioso si ingrassa della sostanza dell’operaio, dorme tutto il sonno della sua veglia. Ah! arrossiamo, arrossiamo con tutte le nostre vene, noi che possiamo sopportare la vita in una società simile e che speriamo vendetta, felicità e giustizia che in Cielo!


Il giorno disgraziato per la maggior parte degli uomini diffonde sugli oggetti le sue incerte luci. Sento l’orchestra dei diseredati che prelude lentamente le sue brulle ouverture.

Distinguo i gemiti dei bassi che si alzano dalle officine delle forge, il soprano penetrante dei carpentieri e degli orefici, il tuono dei martelli e delle incudini ridondanti, l’armonia che unisce insieme: fabbri, muratori, finitori, tessitori a mano, falegnami, calzolai, carpentieri, tessitori meccanici e sarti. L’innumerevole popolazione delle fabbriche, delle officine e delle forge frementi e brulicanti come uno sciame di api.

Passano tutto il giorno curvi sul tavolo di lavoro, alle prese col metallo, la pietra e le materie prime. Fortunati se hanno abbastanza aria per la sete dei loro polmoni!

– Sì, l’aria che gira dappertutto, l’aria di cui il filo d’erba è sazio, saturo, l’aria manca tuttavia a molti uomini, tra i più forti! Li si ammassa, come pesci salati, in spazi ristretti dove le macchine preparano non so che miscuglio di zolfo, carbone, polvere, salnitro, cotone, soia, gas mefitico, particelle irritanti, che serve loro d’atmosfera. E questo si chiama vivere in termini civilizzati! Quale spaventoso mistero, dopo tutto ciò, può rivelarci la Morte?! –

L’Inferno è sulla terra!

Eppure sono questi gli uomini che mantengono l’esistenza degli altri, li vestono dalla testa ai piedi, li riparano posando la prima pietra e l’ultima finitura delle loro case! Veramente sono in ragione della loro inutilità, della loro nocività che gli uomini sono ricompensati dagli uomini!

L’aria è rara nelle città; le acque sono avvelenate; vi si disputa il pane e il sale. Non c’è vino né riposo per l’operaio! Il fuoco degli altiforni cade sugli addetti alle forge come un acquazzone di sabbia rossa. E brucia la loro pelle, dissecca il sangue, accorcia le budella e comunica al midollo delle ossa spaventosi tremori. – L’Inferno è sulla Terra!


Il sole corre sul grano, sui boschi e sulle vendemmie. Vedo il contadino chino sulle spighe, il vignaiolo inginocchiato accanto alla sua pianta, la sua cara figlia sempre più malata, che gli chiede tante cure e sacrifici. – Il pastore si riscalda ai primi raggi del calore che discende nelle valli o sui fianchi dei monti. – Lungo il cammino polveroso, a piedi nudi, se ne va la ragazza portando sulla testa il magro pasto dei mietitori. – Il robusto compagno si alza al crepuscolo per continuare il giro della Francia. – Lungo l’acqua, appoggiato a un salice, un povero vecchio getta invano la sua esca ai pesci che non si fidano. – Laggiù, laggiù, il bracconiere insegue una lepre ferita e si scontra con la guardia del signore. – Il taglialegna sale in cima alle foreste, sulle acacie dalle spine pungenti. Le sue mani sanguinano; egli cade, due costole gli entrano nel petto e il cranio nel cervello!

L’Inferno è sulla terra!

Ciò non è nulla al mattino. Quando viene mezzodì, non un nervo dell’uomo sfugge ai torridi ardori che esalano dal sole. Il sudore del lavoro fertilizza i solchi; vi diffonde il sale e l’acqua. I frutti saporiti si dondolano sui rami troppo carichi, i ruscelli scorrono sui pendii, la freschezza stende la sua sciarpa diafana sul bordo dei boschi.

Ma l’operaio è figlio di Tantalo e di Niobbe, la sfortunata tebana! Non è per se stesso che semina e raccoglie; non è per lui né per i suoi figli che la Fortuna diffonde sotto i cieli la sua urna abbondante… l’ingiusta Fortuna di cui vede solo una goccia! – L’Inferno è sulla Terra!

VI

La miseria dal cuore duro, nostra nutrice immonda,

Ci contrassegna con la pena e l’oscurità.

A. Barbier

Il sole si rifiuta di illuminare le grandi disgrazie: le tenebre senza pudore raccolgono le più atroci sotto il loro freddo mantello.

Nelle città opulente, sotto le dimore degli uomini, in seno alla terra sventrata passano tubi senza nome, acquedotti per i residui, per le necessità più ributtanti della vita materiale. Là stagnano acque di rifiuto, salmastre, nerastre, verdastre, giallastre, fetide, avvelenate. Il ratto dal sordido pelo, il topo dai denti cavi, il ragno ributtante, le mosche dalle ali silenziose che volteggiano sulla spazzatura, i rospi appiccicosi, i vermi dei cadaveri e migliaia di creature mostruose partorite dalla Corruzione vi pullulano a proprio agio, brulicanti, facenti festa, amanti del fango! Alla superficie, nel fondo di questi rigagnoli infetti si raccolgono infine le macerie dell’Opulenza e della Miseria, i resti delle corone e i ganci degli armadi, gli stracci di casa e i lembi di porpora, il vecchio rame e l’oro della Moneta, il diamante e il selciato. L’uguaglianza non è sulla terra, non è nella tomba; gli spazzini mi hanno detto che si trascina, morente, nelle fognature!!

Attardatevi la notte nelle strade delle capitali e vedrete sparire in queste fosse beanti uomini che hanno un’anima, occhi e narici come le vostre, quelli che si chiamano la schiuma e la feccia delle società, il partito della Morte!

Sì, il partito della Morte! gli incolpevoli della povertà, gli emarginati dall’economia politica, i paria, i giaurri, i bianconeri! Quelli che vengono nascosti alla vista dei ricchi dei quali irriterebbero i nervi e stancherebbero la pietà! Gli spettri che si aggirano alla luce delle torce, fin quando dura la notte, nelle catacombe della Parigi sotterranea. Quelli che comprano il triste pane del giorno con la stanchezza e l’insonnia delle notti!

E dire che l’offerta di lavori così ripugnanti, così fatalmente, rapidamente mortali è ancora superiore alla domanda! E dire che c’è una calca e una folla nelle latrine! E dire che la miseria è così urlante, così folle di bisogno che migliaia di uomini giovani sono obbligati a comprare la vita di qualche giorno cedendo alla fame gli anni di esistenza! E pensare che esistono, in ogni capitale, tre o quattro carnefici immondi che speculano sulle deiezioni umane, e raccattano colossali fortune, vi impiantano il ceppo delle loro razze infami, e dire che tutte le mattine si fregano le mani:

“L’oro ha sempre un buon odore. Gli operai che muoiono lavorando per noi vanno in paradiso. Facciamo ogni notte dei buoni prodotti e sposeremo le nostre figlie a pretendenti senza quattrini. E su di uno strato d’oro, sotto tendine di porpora, i Parassiti e la Scrofola per bene si grattano la pancia!”.

In verità vi dico che l’infernale immaginazione degli antichi è superata dalla realtà della vita attuale. Le pallide divinità di Acheronte, dello Stige e di tutte le onde morte che bagnano l’Erebo sono secche, per dispetto, le fonti delle loro urne, dopo che hanno visto stabilirsi e ingrandirsi sotto i nostri piedi i laghi di zolfo e di pece, i piani della pestilenza e del male!

Sì, dopo che le Piaghe, i Miasmi deleteri, il Contagio, la Cancrena e la Morte lasciano così spesso il loro antico soggiorno per stabilirsi nel mondo dei viventi…

L’Inferno è sulla Terra!

Quando la triplice Ecate, nero-velata, protegge il riposo e gli amori di tutti, allora si alza la triste coorte dei lavoratori della notte. Essi sono i compagni dei topi, quelli di cui parliamo e molti altri ancora: gli accendini e i sorveglianti dei lampioni a gas che perdono la vista per dare luce agli altri; i panettieri che fischiettano tristemente il lamento della loro morte prematura, mentre col sudore sulla fronte e la stanchezza nelle braccia, a metà nude, sollevano enormi pesi di pasta e rantolano davanti ai forni ardenti! – Le loro notti sono fatte per soffrire!

Li vedete, tutti pallidi, magri, trascinarsi mal volentieri al lavoro di mezzanotte? Essi guardano le coppie che si affrettano a riguadagnare il molle materasso; i loro occhi sono gonfi e rossi, i polmoni pieni di sangue; i loro corpi tremano dal freddo che causa la mancanza di sonno; le loro membra infiacchiscono, i fianchi si piegano come colpiti da mille bastonate. – Perché sono stati dati gli occhi all’uomo che lavora circondato dalle tenebre?

Se non ci fosse che ciò, gli sfruttatori potrebbero ancora sostenere la necessità del lavoro notturno. Ma la concorrenza esigente, imperiosa, si estende sul gregge dei salariati, come su dei montoni un lupo affamato. Lungi dal diminuire il numero e la lunghezza delle veglie, lo sfruttamento le esige sempre più frequenti e più complete. – L’Inferno è sulla terra!

Addio al sonno e alle gioie della notte, lavoratori! Addio alle ore di sfogo dopo il pasto frugale! Addio alla felicità, alla salute, alla forza! Tutto ciò vi è confiscato dalla legge del più ricco e del più forte. Al lavoro, al lavoro, dunque! – Non ci si riposa che sottoterra!

Oggi i padroni sono talmente dietro al guadagno e gli operai sono così tallonati dalla miseria, che non c’è quasi mai una fabbrica dove non risuona tutta la notte il rumore assordante degli strumenti di lavoro. “È necessario, dicono gli industriali; le industrie si moltiplicano come l’erba; il mercato non serve a niente; non facciamo più affari con la borsa del consumatore che si apre solo quando lo vuole il suo padrone. Bisogna dunque che recuperiamo sul sonno e la vita dell’operaio, perché lui non può né smettere di lavorare né contrattare le condizioni del suo lavoro. È necessario che guadagniamo l’aggio del nostro ozio con l’eccesso del lavoro. – Ricchezza obbliga!”.

Ecco, pertanto, proletario, a quale punto di cinismo e di fredda barbarie sono arrivati i tuoi sfruttatori! Si spingono uno con l’altro su questa china scivolosa, il meno cattivo è trascinato dagli altri. Nella civilizzazione il cuore non conta più, la concorrenza è inesorabile. Tu sei più da compiangere della bestia da soma, proletario. Piuttosto:

Il sonno è di assoluta necessità per la conservazione del tuo essere; ma se tu dormi, le loro fortune non si accrescono in relazione alle loro mostruose cupidigie. Quindi non dormi, quindi il loro capitale aumenta sempre, quindi la durata della tua vita diminuirà ininterrottamente, quindi il privo di muscoli vivrà della morte del braccio muscoloso. Dove si fermeranno i tuoi carnefici? O, piuttosto, quando li fermerai? Quando si sradicherà questo meccanismo assassino?…

Il giorno in cui essi puntualmente verranno a chiederti la vita che ti prendono a dettaglio, gliela darai, proletario, fratello mio? Vedremo sulle nostre piazze mercanteggiare la carne dell’uomo come quella del porco?…

Non oserei rispondere con una negazione. Affermerei piuttosto che ti proporranno l’infame traffico. E che tu ti venderai!… E che il governo imperiale o repubblicano da parte sua farà mantenere con le baionette questo bell’ordine pubblico! Non vendi di già, proletario, tua moglie e i tuoi figli agli odiosi mostri della produzione privilegiata? Non li abbandoni, sperduti, sotto le ruote degli ingranaggi che li triturano? La voce che gridava nelle ultime sommosse non era forse: morte a quelli che non rispettano la santa proprietà!?

Ebbene! poiché il sanguinoso malinteso si eternizza, – poiché la morte del povero non può essere scongiurata, – poiché bisogna, Rivoluzione spietata, che tu sguazzi nel sangue delle ecatombi umane; – poiché bisogna… Fai la tua strada, Rivoluzione, brucia tutto, come il fulmine! E così cesseremo di vedere i figli degli uomini più sfortunati degli uccelli notturni, perdere nel lavoro insonne la luce degli occhi!

Ascoltate nella notte nera! I martelli suonano il rintocco funebre del povero. Le scintille gli carbonizzano le sopracciglia; il fuoco gli griglia la pelle; i carichi pesanti gli curvano la schiena e tendono i muscoli del braccio. Ogni riposo, ogni sonno è sottratto alla discendenza del ribelle Caino. Questa passa sulla terra, triste e depressa fin dalla nascita; si direbbe condannata a morte, o meglio a una detenzione a vita, che non ha altra speranza che la tomba!

L’Inferno è sulla Terra!

VII

Povertà! Povertà! sei tu la cortigiana;

Sei tu che in questo letto hai spinto un bambino

Che la Grecia avrebbe gettato sull’altare di Diana!

Guarda…

Alfred de Musset

Che cosa possono prendere all’uomo quelli che lo sfruttano, dopo avergli rubato il sonno? Gli rubano quello che egli difende fino alla fine, quello che gli è più prezioso del sonno, ciò che è più puro del sangue, ciò che è più caro di tutto: il suo preziosissimo onore!

Andate la sera nelle strade dove si passeggia, nei quartieri illuminati, nei caffè sontuosi, nei magazzini splendidi. Vedrete le più belle donne battere i muri con le loro braccia ubriache e contrattare la vendita dei loro corpi avvolti in vestiti di seta, in vestiti magnifici!

Sono le figlie della Lussuria, la naiadi del liquame, le pretesse della Venere cartaginese, le impudiche, le tristi, le commercianti, le rivenditrici d’amore: le prostitute!

Sono le cortigiane delle ombre, le belle di notte, le folli, le vergini di cuore, le pubbliche di corpo: le sfortunate contro le quali si è rivoltata la loro stessa bellezza!

I loro seni sono come un letto d’albergo sul quale si stende ogni passante spinto del bisogno d’amare! Si fanno mettere in mostra le loro grazie, i lunghi capelli, la bianchezza della carnagione sotto gli occhi del pubblico, e provocare sguardi di fuoco!

Non restano mai vestite e mai nude del tutto; non si allacciano mai per essere sempre pronte all’arte del piacere; non si slacciano mai per essere sempre disposte alla fastidiosa passeggiata!

Non hanno né l’aspetto della baccante, né la secca rigidezza della borghese, né la tenerezza della femmina, né la foga dell’uomo, né il godimento delle sensazioni, né l’illusione dell’amore, né la consolazione di piangere, né il tempo di ridere, né età, né sesso, né vigilia, né indomani, né parenti, né amici, raramente un amante!


Le sacrificate! – Vivono dell’amore, e per loro l’amore è un supplizio spaventoso! Si coricano, la morte nell’anima, su un letto banale, un letto infame, dove muoiono di disgusto, venti volte al giorno, le une dopo le altre. Maledicono le brutali passioni che sono forzate ad accendere e a spegnere. Danno mille baci per un pezzo di pane!

Sono obbligate ad abitare nel fondo di tane nere, dietro finestre con inferriate. Dormono mentre si brinda, sotto tavole fumanti, in mezzo a liti di ubriachi e a risse sanguinose, sulle loro ginocchia, tra le braccia di bevitori sconosciuti.

Non sono mai del tutto riposate, mai del tutto stanche; non le si sveglia al mattino; ma non le si lascia dormire la sera. I loro giorni e le loro notti si succedono con una ironica lentezza senza mai apportare un poco di sollievo. Mangiano e bevono per abitudine, senza appetito; subiscono l’esistenza a forza d’apatia, di disdegno; non possono sfuggire gli ardenti rigori della vita che nell’abbraccio della morte!


Una sera che sognavo disgrazie e che la notte era senza luna, ho visto il regno della Prostituzione nel quadrivio senza nome. La regina sedeva su fondi di bottiglie illuminati, stretti uno contro l’altro con lunghi capelli di fanciulle. Una delle sue mammelle era vergine, l’altra di già floscia. Aveva occhi di vetro, una mano di gesso, solo i denti erano rimasti naturali e bianchi come il marmo. Portava sulla fronte una corona di crespino e agrifoglio; mai questa corona era fiorita e mai era appassita!

Attorno a lei, al suono di un mandolino rotto come il loro cuore, giovani fanciulle danzavano; le povere gambe, le belle braccia mosse da movimenti meccanici. Servivano alla regina carne fredda, bianche insalate di lattuga, bagni di latte artificiale, profumi grossolani e liquori forti. Militta assaggiava sputando su ogni cosa dopo averla appena sfiorata con la punta delle unghie. E le dannate, cotte di fatica, a metà piangenti a metà danzanti, rientravano nelle moderne malebolge!


Le disgraziate! – Le ragazze dette di gioia, sono soltanto tristi! Le ragazze dette d’amore, sono solo rancorose! Eternamente sterili, instancabilmente invitate alla fecondità! Fidanzate della Morte, sempre e sempre richiamate alla vita e agli abbandoni per loro insopportabili. Gli uomini le perseguitano con le loro brutali carezze, i loro insulti osceni. La polizia che protegge ogni vigliaccheria le lascia lapidare sorridendo. Fanno del bene, gli si rende il male. A causa del mestiere vituperato, diventano irascibili, odiose, più grossolane di quelli che frequentano. Attaccate da tutti, bisogna che si vendichino con tutti; maltrattate, bisogna che maltrattino. – Oh! come serra il cuore, vedere la donna trascinata in questo modo nel fango delle fogne!

Il loro corpo è come un tronco d’albero folgorato; la bellezza appassisce come rami privi di linfa. Perché la salute si ritira da loro come la gioia. Hanno quindici anni, sedici anni, l’età in cui le donne felicemente sbocciano alla vita. E di già le più spaventose malattie si sviluppano nel midollo delle loro ossa; di già la Morte reclama i loro cadaveri coperti ancora di ornamenti presi a prestito!


Le desolate! – Le loro gioie effimere causano tristezze mortali. Possono dimenticarsi, stordirsi un istante nei fumi del vino o nella folle gioia dei sensi. Ma ben presto si risvegliano, sentono strani rumori nel loro cervello che trema, si tagliano i piedi e le mani con pezzi di vetro. E allora pensano alla madre, alla sorella che non rivedranno più, al padre che le ha maledette, allo spaventoso realismo della loro sorte! Allora sono prese dalle convulsioni e dalla vertigine di rompere tutto, piangono amaramente, bestemmiano, digrignano i denti, si strappano a pugni i capelli, e si dibattono invano contro la società dell’ingiustizia, contro il Dio del male che gli ha dato questo disgraziato destino!


Le inconsolabili! – La stanchezza e la sovreccitazione dei sensi impedisce loro la gioia della maternità. E quando diventano madri, arrossiscono di confessare davanti a tutti, e in particolare, oh! dolore, davanti al figlio al quale non possono dare il nome di un padre, e che tuttavia amano del più ardente amore, l’amore condannato!


Le povere, le più povere fra tutti! – Sono emarginate dalla società. E tuttavia ne avvertono il contatto ogni momento, quando gli uomini affamati, ubriachi di vino e di concupiscenza, chiedono di alleviarli dei più intrattabili appetiti! E non possono rifiutarsi di soddisfare, siano vecchi, ributtanti, malati o deformi, dato che hanno i soldi! Esse sono più sfortunate di quanto saprei dire; non si tiene conto della loro anima, il loro corpo ha un prezzo come una merce da macelleria. L’amore appare loro, di tanto in tanto, apportando, sulle sue ali tagliate, il più amaro dei calici, la schiuma delle passioni. Il resto del tempo, sentono agitarsi sul loro seno lo spettro magro della Lussuria che le disgusta per sempre della felicità!


Ecco quindi ciò che gli uomini hanno fatto della donna, loro madre e nutrice, loro amante e loro sorella! Ne hanno fatto una pezza che si passano uno con l’altro, una spugna che beve il fango delle strade, qualcosa che non ha più nome, più forma, più esistenza, una creatura che cammina, dorme, veglia, sorride e si torce di voluttà senza mai vivere! E più sono giovani, più sono belle, più rassomigliano a Cleopatra o a Maddalena, più sono seducenti, più soffrono dei capricci di esseri volgari, più velocemente discendono nella tomba, in prigione o in un letto d’ospedale.

E se per caso un uomo sensibile si innamora di una di loro, in ragione anche della sua disgrazia; se la strappa, ancora viva, all’abisso senza stelle, quest’uomo non troverà un giudeo, un cameriere che acconsenta a presentarla in una casa onesta!


Nelle sere invernali, quando le ore sono secoli, quando il vento scuote le mansarde coi suoi urli spaventosi, quando il lavoro è raro, il fuoco manca nel focolare e il pane sulla tavola, quando il padre di famiglia conta con disperazione i suoi figli che non hanno mangiato…

Allora la povera madre maledice la fecondità del suo ventre e guarda la figlia piangendo: “Tu sei giovane, sei vergine, le dice, e tutto ciò si vende! I ricchi, che ci fanno tanto male, ti daranno, se tu lo vorrai, dei baci e dell’oro!… Tutto piuttosto che morire!”.

E la fanciulla esce, la povera fanciulla! A lungo corre nelle strade bianche di neve, senza scarpe ai piedi! A lungo gira, ritorna vicino alle zone appartate dove il vizio tiene la sua corte. Somiglia a una bella farfalla di sera che volteggia, tremante, attorno alle luci tenui, prima di morire. Più volte retrocede, ghiacciata dallo spavento, quando sente canti lubrici, espressioni di collera, imprecazioni, singhiozzi che scoppiano nei luoghi maledetti. Infine, pallida d’orrore, morente, supera la soglia che la separa dalla vita. La porta degli inferni si rinchiude sulla sua preda; il mondo non la rivedrà più!

L’Inferno è sulla Terra!


Vittime della miseria, sacrificati senza felicità e senza gloria, è così che i bambini dei poveri danno tutta la propria vita per salvarsi nei momenti peggiori. E gli stessi uomini che innalzano statue a Eponine le fanno poi a pezzi per gettarli in faccia alle prostitute! Oh! maledizione!

È una società, un grappolo di preti, soldati e celibi per calcolo, che versano il sangue e l’onore delle ragazze diseredate! È una società, un gioco d’azzardo, un gioco di roulette e di borsa in cui tutti guadagnano il diritto di disprezzare la propria sorella o di sporcarla per due franchi!

Padri, fratelli, figli e amanti di donne amanti… se quelle che vi sono care fossero obbligate una sola volta a guadagnare il loro e il vostro pane col rossore della fronte, dite, la difendereste questa civilizzazione che non vi lascerebbe altro che il pugno per maledire? No certo! E dato che non ne siete vittime, dato che non portate uno di quei lutti irreparabili, vi considerate felici, fieri dell’ordine delle cose, disposti a espandere la piaga della prostituzione, a farla sanguinare crudelmente, dopo un felice pasto! Che cosa vi posso dire se non che il fango salirà fino a voi, strappando dai cardini le porte delle vostre dimore? Ah! quando sono venute al mondo, quelle che comprate oggi, i loro padri non pensavano affatto che sarebbero state obbligate a vendersi a voi!

L’Inferno è sulla Terra!

VIII

Il lavoro febbrile, le gioie amare, le ispirazioni del profeta, io li conosco.

Di tutte le glorie umane questa sola mi piacerebbe condividere.

– A ciascuno la sua sorte in questa vita.

Ernest Cœurderoy – Hurrah!

Perché tremano le mie dita? Perché la mia testa si riscalda? Perché vedo danzare le righe che scrivo sulla carta? Perché il suolo sfugge sotto di me come se fossi ubriaco? Perché mi scuotono così i torrenti di elettricità che passano nell’aria? Perché mi agitano ancora i demoni della predizione che mi ha tanto fatto soffrire? Perché incaricarmi di nuovi messaggi di sfortuna? Quando smetterà questa missione d’orrore che mi è stata confidata?…

Parlerò tuttavia, non potendo tacere, descriverò quello che vedo:

Noi rotoliamo, scivoliamo, voliamo sulla china di abissi sconosciuti. La Rivoluzione corre alla sua destinazione attraverso cataclismi finora ignoti; niente potrebbe cancellare la sua marcia trionfale. L’orizzonte è sanguinoso come un velo di porpora. Dappertutto trema la terra. I ghiacciai delle Alpi si convertiranno in altrettanti vulcani. In cima al Monte Bianco, sulla sua coltre eterna, il Genio delle solitudini si è alzato per un lavoro immenso.

Ben presto città e villaggi scompariranno nei laghi di zolfo e di lava vomitati dal globo in trasformazione. Enormi blocchi di roccia crolleranno sui raccolti e nelle dimore degli uomini. Le campane di molte chiese suoneranno l’allarme. E il lucore sinistro degli incendi, che si accenderanno da tutte le parti, rischiarerà scene di morte.

Sulle rive dei mari, ai piedi dei monti, sulle acque dei grandi fiumi, nel mezzo delle praterie, gli uomini si incontreranno fuggendo dal nord a mezzogiorno dalle loro case in fiamme. Mattino e sera drizzeranno le loro tende su nuovi cieli. Gli stranieri si conosceranno, si frequenteranno. Le razze, i costumi, le lingue, gli uomini e le donne si mescoleranno in incroci senza fine. Borghesi e barbari il cui più nobile istinto consiste nel fare l’amore in ogni momento, borghesi e selvaggi saranno occupati solo nella cura minuziosa di riprodursi. Ci si ritroverà dappertutto, nelle fenditure delle rocce, all’ombra delle siepi, lungo i freschi ruscelli. E la generazione presto arrivata, che uscirà da queste inclinazioni, non saprà per nulla di essere figlia di curato o di Cosacco.

Perché bisogna alla fine che la terra scuota l’uomo, dato che l’uomo vuole restare immobile, visto che nulla può staccarlo dalla proprietà. E io, profeta, devo annunciare agli uomini ciò che non vogliono credere, ciò che li farà sorridere! – Che sorridano dunque!

Lo ripeto! Salteranno come cerbiatti e le vallate tremeranno come cavalle vergini. Una rivoluzione terrestre è imminente, in Europa prima di tutto.

Perché oggi siamo tormentati da una inestinguibile sete di felicità e spinti verso l’avvenire da incomprensibili aspirazioni. Le risorse che stiamo finendo di sfruttare non sono più in rapporto con i nostri bisogni che crescono ogni giorno.


Nell’ordine materiale, la velocità della ferrovia, la luce a gas, i combustibili terrestri e lignei non ci bastano più. I raccolti mancano, i vegetali più utili sono colpiti da sterilità. Gli animali e gli uomini soccombono a due piaghe sconosciute nella loro essenza; perturbazioni straordinarie si osservano nei climi, nelle stagioni, nell’atmosfera. Non c’è più un pezzo di terra che non sia coltivato, né un filone di metallo che non sia esplorato col martello; non resta una sola fabbrica da costruire.

Bisogna che i monti si abbassino, che le vallate si alzino, che la dea Tellus inclini prima di tutto la sua spina dorsale perché le ferrovie possano percorrerla liberamente da un diametro all’altro. Bisogna che le acque termali piovano in abbondanza sulla superficie e si rinnovino ininterrottamente. Bisogna che noi ritroviamo nel seno della terra messo a nudo i prodotti alimentari di cui non supponiamo nemmeno l’esistenza.

Bisogna che l’avara Cibele ci scopra le sue ricchezze liberando i segreti che non può più nascondere. Bisogna che gli oceani di fiamme e di luce che conserva nelle sue viscere trovino la strada fino a noi. Bisogna che l’acqua dei mari e dei fiumi si estenda su questo letto di fuoco, bollendo, volatilizzandosi in mille gas nuovi. (Tra non molto gli ingegneri troveranno il modo di utilizzare le materie ignee che sputa il Vesuvio). Fra questi prodotti di recente creazione raccoglieremo il vapore, chiudendolo nei nostri palloni, e gli scintillanti chiarori rimpiazzeranno le pallide illuminazioni impiegate finora. Bisogna rubare agli elementi il fuoco, il fuoco che non si spegnerà più!

I diamanti, le pietre preziose, le perle, i coralli, l’oro e l’argento diventeranno comuni come i sassi. Allo scopo che il lusso che causa i nostri più grandi mali, faccia ormai la nostra felicità e la nostra gioia. Allo scopo che i gioielli più vistosi non siano portati dai più ricchi e dai più brutti, ma dai più giovani e più belli, da quelle che raccolgono i papaveri nei campi.

Nell’ordine morale, formidabili problemi sono stati sollevati, problemi che anche ora torturano e sovreccitano l’immaginazione. Quanti spiriti in tensione sotto la materia! Quanti cervelli brucianti! Quante fisionomie contemplative, sognatrici, ispirate! Quante rivelazioni temerarie! Quante anime accanite nella ricerca dell’assoluto! Quante pupille abbagliate, appannate dalle veglie! Quante ambizioni, emulazioni generose, accese dall’ardente fede che divorava Archimede! E quanto vorrebbero gridare: eureka – ho trovato!

Ho trovato! parola fiammeggiante di speranza, ricca di ricompensa, pungiglione del genio, pegno di felicità, assicurazione di riposo! Ho trovato! promessa che fa tanto cercare!!

Dunque, bisogna che le viscere del globo, esposte davanti agli uomini, diventino per i loro spiriti un libro aperto. Da cui apprenderanno le leggi delle eterne trasformazioni, della vita futura, dell’incessante resurrezione di tutte le cose, dell’infinita libertà di tutti gli esseri; il modo in cui si forma l’imponderabile fluido che produce le operazioni del pensiero, i misteri della creazione!

Eternità sempre giovane! sotto il velo che ancora le sottrae intravedo le tue divine grazie… E questo velo di già si strappa da tutte le parti! Spirito impaziente che sommuovi tutti i miei nervi, non ti agitare più in questo modo, non mostrarmi troppi splendori tutti in una volta! Troppo affascinato, fuori di me, potrei gettarmi vivo fra le tue fiamme! – Oh! com’è piccolo l’uomo quando si misura con l’immensità!

Ritorniamo alla terra.


Bisogna che le società si slancino a corpo morto nell’orbita delle rivoluzioni che sconvolgono i mondi; bisogna che regolino i loro movimenti inavvertiti su questi cataclismi giganteschi. Bisogna che gli imperi e i reami spariscano nei fumi della guerra, sotto i caldi baci del cannone. – L’ho detto tante volte, e i fatti gridano ancora più forte!

Bisogna che le donne si vendano a tutti e non si diano più a nessuno; bisogna che ogni ispezione di polizia e ogni visita medica diventi impraticabile sulle prostitute. Bisogna che il denaro perda il suo valore a causa della sua banalità, e la donna la sua bellezza facendosi venale. Bisogna che la prodigalità delle cortigiane disperda i tesori accumulati dall’Usura! Bisogna che la Prostituzione estenda il suo fascino a buon mercato sulle piazze, agli angoli delle strade, lungo le periferie, nei solchi dei sentieri, nelle radure dei boschi, nelle vigne malate, sui divani dei palazzi e sul fieno delle capanne! Bisogna che ritorniamo ai tempi dell’uguaglianza fatale che consacrava Francesco I e Lazzaro con la sua corona rossa!!

Allo scopo che tutte le creature umane riprendano il loro diritto di amare. Allo scopo che i cantori cosiddetti popolari su di un’aria saltellante non abbiano più la spudoratezza di cantare gli amori di Limette. – I tristi amori della povera figlia di operaio sedotta dal giovane borghese, allevata, nutrita per cinque anni con i magri introiti dei suoi risparmi, soffocata giorno e notte dal suo malumore, dal peso del suo orgoglio; e poi lasciata cadere, dove cadono prima o poi tutti i tesori perduti! – Allo scopo che l’eccesso della dissolutezza ci riconduca al seducente Pudore. Allo scopo che la Corruzione ci lasci desiderare l’Amore. Allo scopo che l’Angelo della tenerezza si alzi, dispiegando le sue ali, dal caos infame della Prostituzione!!

Sì, lo predico, dall’abisso della miseria e della cancrena in cui l’Umanità si è lasciata cadere, essa risalirà fino all’amore prostituendosi. E ciò cento volte meno nobilmente dell’odiosa Messalina, l’abominevole donna che carezzava interi reggimenti!

L’Inferno è sulla Terra!

IX

Perché chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo

dovrà poi lasciare i suoi beni a un altro che non vi ha per nulla faticato. –

Anche questo è vanità e grande sventura.

Qoelet

Nella famiglia del povero la sofferenza è inesauribile come la fecondità. Quando l’operaio sente lo stomaco vuoto di alimenti e pieno di angosce, quando è consumato tutto il giorno su di un lavoro ingrato, cerca delle compensazioni nelle sole gioie che gli vengono lasciate: finisce di spossarsi la notte. In questi abbracci maledetti del Lavoro e della Povertà sono concepiti bambini maligni, rachitici, preda certa di malattie lente e triste miseria. – “Chi non è nato non è forse il più felice dei vivi e dei morti? Almeno non vede le cattive azioni che si compiono sotto il sole”.


In epoche meno crudeli, la moltiplicazione della famiglia di lavoratori assicurava la ricchezza. L’uomo robusto, la donna feconda, la coppia proletaria, meritava il riconoscimento della patria romana che ricompensava i loro servizi e accettava i loro figli nelle sue legioni conquistatrici, ricche di bottino. Se non dava ai suoi servi la libertà di andare e venire, il signore del medioevo non li lasciava morire di fame. I suoi interessi esigevano che ne avesse cura per tutta la loro vita, perché erano la sua famiglia o, almeno, la cosa sua. Così misurava il suo attaccamento in ragione della loro fecondità.

Oggi la popolazione proletaria pullula più velocemente del cardo nei campi. Getta le sementi nelle calde ore della notte come il foraggio alla brina della sera; e tutto va bene alla buona semenza. Sulla panca e la pietra, sulla paglia, sugli stracci, nelle mansarde scalcinate, negli appartamenti umidi, il figlio del povero cresce come un fungo, a metà vestito, a metà nutrito, senza precauzioni, senza cure. – “L’erba selvaggia cresce veloce”.


I malthusiani dicono ai poveri: divertitevi, crescete, fate figli e figlie: ci bisognano. Non ci costano più a nutrirli che a metterli al mondo; ai piccoli uccelli Dio dà pascolo e sepoltura, perché non li darebbe ai piccoli dei poveri? Quanto a noi, più uomini vengono al mondo e più ne entrano nelle nostre fabbriche; più l’offerta è grande e meno li paghiamo. Noi siamo gli sfruttatori, i risparmiatori che spigolano nel campo della vita tutto ciò che risparmia la Morte! – “L’assassino si alza sul far del giorno e uccide il povero e l’indigente; di notte ruba come un ladro”.


Da quando la forza della macchina rimpiazza l’intelligenza dell’uomo, l’attività, il vigore, la salute, le facoltà di quest’ultimo si ritorcono contro di lui. Il lavoratore è ridotto al ruolo di uno strumento che ne sorveglia altri e sembra anche meno animato di essi. Per fare questo lavoro di automa, la donna, il bambino bastano e costano meno cari dell’uomo. Il calcolo degli interessi non ha limiti. Più l’essere è debole e gracile, meno esige di salario. Da cui risulta che si specula sulla malattia, la debilitazione delle forze: – che gli uomini sono cacciati dalle fabbriche e sostituiti con le donne e i bambini; – e che, nelle grandi città industriali, i piccoli bambini trovano più facilmente lavoro dei loro padri. – “Comunque se ne andranno come sono venuti, senza portare niente con sé del lavoro delle proprie mani”.


E poi la donna e il bambino non hanno né la volontà né il potere di ribellarsi ai loro padroni; essi non mettono insieme mai questi formidabili scioperi che mettono gli imprenditori a un passo dalla perdita. Essi si lasciano mungere, torcere, sgozzare senza resistere più delle pecore o degli agnelli. Quando la fatica e il sonno si impadroniscono dei piccoli, quando non possono più aprire i loro poveri occhi iniettati di sangue per non aver dormito, i sovrastanti fanno tornare a colpi di frusta le forze mancanti. La macchina può lavorare notte e giorno; la creatura umana vi resterà dunque attaccata notte e giorno. E quando morirà dalla fatica, sarà rimpiazzata subito, perché il pauperismo raduna alle porte delle fabbriche una grande popolazione affamata. La fecondità dell’operaio può far fronte all’insaziabile cupidigia del capitalista! – “L’uomo nato da donna ha una vita breve e piena di affanni; esce come un fiore, poi è tagliato e fugge via come un’ombra senza fermarsi mai”.


I piccoli degli animali non soffrono sulla terra come i piccoli degli uomini. Si lasciano i puledri crescere nelle pianure fin quando hanno la forza di portare il cavaliere; i vitelli e gli agnelli godono in libertà della loro breve esistenza. Ma l’uomo riservato per l’incessante lavoro, minacciato di pericolo di morte, l’uomo che penetra più di tutti gli altri animali nel segreto del suo destino, l’uomo avaro e rapace si condanna, fin dal seno della madre, al più lento dei suicidi, quello della fame e del salariato. Non mi si venga a dire che è dotato di una intelligenza superiore agli altri esseri, e che cammina alzando gli occhi ai cieli. Purtroppo! il povero bambino delle fabbriche è tetro, malaticcio, curvo, di gran lunga meno agile dell’animale! Cammina con la fronte curva verso terra; quelli che lo sfruttano hanno paura che lo si istruisca, non gli lasciano nemmeno un’ora su ventiquattro per andare a scuola. Il bambino deve respirare, muoversi e sentire come la macchina che segue. Questa diventa la sua matrigna, la sua unica società, il suo modello! E ci si meraviglia ancora dell’abbrutimento dell’operaio nel diciannovesimo secolo! – “Non c’è nulla come una guerra sulla terra? I giorni dei mortali non sono forse come quelli dei mercenari?”.


Nel paese dell’oscurità simile a quella dei sepolcri, ho soggiornato per due anni. Ho visto Londra e Birmingham, Manchester e Sheffield. Ho visto la moltitudine di proletari inglesi sfilare a mezzanotte sotto le torce delle taverne grigie dove si beve l’acquardente. Non avevano camicia e indossavano un’abitudine!

– L’abitudine di decima mano che, dal lord di Hanover square passa al valletto di camera, dal valletto di camera, al deputato cartista, dal deputato all’editore di giornale, dal giornalista al borghese della City, dal borghese al fantino di Smithfield, e dal fantino alla lunga serie dei commissionari che si conclude fra gli onesti ebrei di Old Jewry, di Withechapel e di Saint-Giles. – L’abitudine che non caratterizza chi ce l’ha, l’abitudine-straccio i cui lembi cadono a pezzi! – L’abitudine pietrificata dal carbone, rilucente di sporcizia, impermeabile all’acqua! – L’abitudine che va bene solo per il cappello a tubo di stufa rovente, scassato dal troppo uso. – L’abitudine della veglia e del sonno che non abbandona mai e che si abbatte sulla schiena di chi ce l’ha. – La spaventosa livrea della più spaventosa miseria! –

Questi uomini somigliano a ombre, e le loro città a delle necropoli. Sono diventati insensibili alle piogge, alle nebbie che penetrano nelle ossa, ai calori soffocanti di luglio; si sono cauterizzati lo stomaco con il gin e non sentono più le torture della fame. In ogni momento, in ogni luogo, li si vede rassegnati, impassibili, muti, con le loro lunghe facce problematiche, tirate, piombate, incrostate di carbone. Passano la maggior parte delle notti sui marciapiedi fangosi, sotto le arcate dei ponti, nell’erba dei grandi parchi dove si scioglie la neve, il gelo o la rugiada. Dormono il loro migliore sonno nei ridotti infetti di Saint-Giles e di Whitechapel dove si ammassano sulla paglia umida in appartamenti senza aria: uomini, donne, bambini, mischiati insieme, nell’ordine imposto dal caso.

Sono entrato in queste rivoltanti geenne della miseria libera. E ho sentito sollevare il cuore e mancare il fiato. Mi sono chiesto come degli esseri miei simili possano vivere in una tale atmosfera; come possano non rubare, non uccidere per essere ammessi più velocemente alla pensione del carcere, al sonno della forca; come possano sopportare questa esistenza un solo giorno senza la condizione ebete che li protegge sotto il suo mantello; come questa esistenza di vegetali possa essere un bene per loro?

Formidabile domanda: bisogna preferire la vita alla morte? Alternativa spaventosa che spesso si presenta alla loro anima! Miseria che supera ogni matita, ogni penna, ogni orchestra infernale! Tortura e dannazione come non ce ne sono state mai sotto il sole che brilla! Oh! quando l’uomo arriva a desiderare la morte, può dirsi che viva? E la sua miserabile esistenza non è il più grande di tutti i supplizi?

L’Inferno è sulla Terra!

X

Purtroppo! la Morte è all’opera,

E per rispondere al clamore selvaggio,

Il suo magro braccio colpisce come un toro.

A. Barbier

Voglio discendere con i più poveri la scala delle grandi sofferenze; voglio inoltrarmi ancora più avanti nel labirinto dai mille meandri in cui trascinano le loro esistenze perseguitate.

Oh divino lavoratore che sai dirigerti nell’antro di Minosse, e tu, il più eloquente degli apostoli, Paolo, che torni dagli inferi alla chiarezza dei cieli, vi invoco! Sostenetemi tutti e due nella mia lunga impresa.

Dopo la perdita del sonno e dell’onore, il proletario sopporterà ancora di più: la sua vita sarà sporcata, seccata. Avvelenata nelle fonti vitali. E tutto ciò senza rumore, senza il minimo scandalo, senza che la gente di giustizia faccia qualcosa, senza un lamento che trapeli all’esterno, senza che si possa accusare nient’altro che il Destino, il grande criminale su cui trasferiscono la loro collera i poetastri del nostro tempo.

Quando si attraversano i sobborghi delle grandi città, lo sguardo si ferma su palazzi dall’aspetto tenebroso occupati da industrie malsane. Queste fabbriche non portano per insegna che un’ombra di lutto, un’ombra grigia; sentiamo, vedendole, che vi si commettono dei lenti omicidi. La polizia pudibonda le relega nei quartieri più miserabili, vicino alle prigioni, agli ospedali e alle fosse comuni alle quali esse forniscono incessantemente il loro contingente di sfortunati.

Sfruttatori e parassiti, dato che dovete vivere della morte dell’uomo, fatelo il più velocemente possibile! Fondete il piombo in pallottole, iniettate mercurio nelle sue vene, obbligatelo a bere vini letargici e a leccare il verderame dei vecchi soldi. Non dovrà così soffrire di lente e atroci malattie che gli operai contraggono nelle fabbriche assassine; avrà l’affare suo, sarà ucciso sul momento; i dolori dell’agonia gli saranno risparmiati!

Nelle conversazioni con i pittori che vengono per colorare d’argento i loro castelli, la gente di mondo ha sentito parlare di colica metallica, ma non sanno quali sofferenze scatena e quale prezzo è pagato per il loro lusso da una certa classe di lavoratori. Voglio dirlo perché possano non ignorarlo:


La maggior parte degli operai che preparano il bianco di piombo sono distrutti in qualche anno; quelli che lavorano alla stagnatura delle ghiacciaie soccombono ancora prima; quanto a quelli delle fabbriche di rame, soffrono più crudelmente degli altri.

Negli ospedali della Charité, di Saint-Antoine, di Beaujour, di Necker e di Saint-Louis sono curati tutti gli anni, a centinaia, i malati colpiti da coliche di piombo. I medici li sbiancano più o meno; poi li rinviano alla fabbrica che li indirizza di nuovo all’ospedale. Dopo qualche viaggio del genere, questi disgraziati, spossati dalle devastazioni alternate di veleno e contro-veleno, trovano infine nella morte il riposo che gli è stato rifiutato durante la vita. Ma prima di addormentarsi del dolce e lungo sonno, quante tappe ha seminato la malattia sul cammino del loro Calvario!

All’ospedale Necker ho seguito, con i miei occhi, torture che la mia immaginazione non avrebbe potuto supporre nei suoi voli più azzardati. Ho visto prolungarsi la consultazione su operai smagriti, terrei, lividi, traballanti sulle gambe, che non potevano più nulla tenere tra le mani. Bisogna che il male sia arrivato a questo punto perché i loro padroni si decidano a mandarli dai medici. La carità non ha altro movente sulla terra che la cattiva vergogna e il pudore in extremis! Se non temessero il chiasso dell’opinione, i padroni farebbero morire gli operai nel corso del lavoro, della fatica, sul posto. L’ospedale li salva da quest’ultimo rimorso e li sbarazza dei cadaveri.

Quando i disgraziati entrano in stanze affollate, li si distende su di un letto dove si rianimano un poco proprio per diventare più sensibili agli attacchi del loro male. Li ricordo ancora torcersi a causa di coliche talmente laceranti che nessuna parola saprebbe descrivere. Allora prendono le posizioni più contratte, più torturanti, per cercare di sfuggire all’eccesso di dolore. La respirazione manca, i battiti del cuore sono sospesi; sembra che l’angoscia diminuisca il volume del corpo; la pelle del ventre si accosta alla schiena! Si rotolano in convulsioni spaventose, simili a quelle degli epilettici; morsi dalla sofferenza, lanciano urli e lamenti, come quei dannati che Dante ci mostra immersi a testa in giù nella pece bollente. Ogni sonno gli è impedito; durante la notte il dolore attraversa il midollo delle ossa come una lama di rasoio riscaldata al calore bianco. Sono quindi in preda a questo delirio tenebroso, infernale, muto, senza estasi e senza slanci che solo la Morte farà smettere, con le sue ali funebri, sul letto dei moribondi. Essi stessi non possono capire come la vita si accanisca sulle loro membra destinate a una vicina paralisi; venti volte, nei loro accessi, invocano la morte, supremo rimedio di mali incurabili. E la Morte non viene, la testarda che fugge quelli che la chiamano, e corre, a testa bassa, su quelli che la fuggono.

L’Inferno è sulla Terra!


Chiamo queste fabbriche di veleni le anticamere del cimitero. Paragono gli operai che lavorano la biacca a cadaveri vestiti a lutto, animati da un movimento meccanico destinato a rendere più spaventosi ancora i limiti di questi luoghi. Chiamo queste fabbriche torri dove le società matrigne gettano i loro bambini appena nati. Le chiamo ghigliottine secche, macchine pneumatiche dalle quali si riversa il surplus delle prigioni e dei penitenziari, per finirlo. Li chiamo i pontoni ad annegamento che azzerano per l’Eternità i propri carichi di uomini.

L’Inferno è sulla Terra!


In questi lavori maledetti i capelli cadono, i denti si staccano e diventano tremolanti, il fiato esala un odore infetto; la pelle, i polmoni, gli intestini si avvolgono in una guaina di metallo talmente spessa che niente può dissolverla; tutti gli organi sono letteralmente assediati, invasi, penetrati, soffocati, induriti dal piombo o dal rame. Ogni poro diventa come una trincea sempre aperta al nemico, come una parte che il Dolore racchiude avidamente nella materia che l’aggredisce.

È proprio questa la tuta di piombo, l’infernale tunica più corrosiva di quella di Nesso, il mantello divorante immaginato dal poeta dalla fronte corrugata, la montagna d’Atlante ogni giorno più pesante sul dorso di chi la porta!

Ah! dolore e tortura! L’uomo nato da donna bianca, pura, amante e sensibile, diventa nero, scuro, inerte, duro come il metallo che lavora; non salta più che sotto i colpi di martello vibrati dalla Sofferenza. Oh! chi non piangerebbe al pensiero che tanti operai affrontano una morte certa preparando le vernici, i vetri, i mobili luccicanti, le armature scintillanti che fanno l’orgoglio e la gioia dei ricchi di questo mondo! E tuttavia le società dall’occhio spento non danno una lacrima per lo sperpero criminale di tutte queste esistenze!

L’Inferno è sulla Terra!

XI

A seconda che abbiamo più o meno avuto fortuna in questa vita, seguendo il cammino che prendiamo per uscire, quello dell’astuzia o della forza, due uomini ci ricevono alla porta: il becchino o il carnefice. Questi due dannati occupano l’ultimo cerchio degli inferni terrestri.

L’Inferno è sulla Terra!

Essi sono rinchiusi in una stretta fossa le cui pareti sono costituite da scheletri pressati, il cui fondo è coperto da mannaie recentemente affilate. Davanti ad essi il Diavolo depone il mangiare e il bere quotidiano: carne verde putrida e sangue in un cranio decapitato di recente.

Il becchino è stanco di carne e il carnefice di sangue. – Lasciatemi bere, dice il primo, sono pieno, sbuffa. – lasciatemi mangiare, dice il secondo, sono ubriaco e a stomaco vuoto. – E l’uno e l’altro si preparano a placare i vivi tormenti sentiti dall’uomo.

L’Inferno è sulla Terra!

Ma il becchino è sporco di terra, e il carnefice macchiato di sangue, dalla testa ai piedi. E nel momento in cui il primo avvicina le sue labbra al cranio, il sangue schizza sulla faccia del secondo. E quando il secondo avvicina i suoi denti alla carne, questa sfugge, con un’attrazione misteriosa, sotto i piedi del primo. In questo modo col tempo il viso del carnefice diventa scarlatto come la gola di un vulcano, e le gambe del becchino gonfie come quelle di un idropico. – Maledizione! gridano entrambi, noi siamo condannati a essere insieme affamati e pieni per tutta l’Eternità!

E, nella loro cieca rabbia, si precipitano uno sull’altro; questo per bere, quello per mangiare qualcosa dell’uomo vivente. Spaventoso abbraccio! selvaggio delirio che permane inutile! Con i suoi denti voraci il carnefice non coglie che una carne insipida, e il becchino sente le sue labbra bruciare per il sangue che cola dalle vene infiammate del carnefice!

L’Inferno è sulla Terra!

Quanti minuti ci sono da un sole all’altro, tante volte essi rinnovellano la lotta spaventosa! Quante gocce di sangue scappano dal cranio dove bevono, tante ne versano le loro vene per rimpiazzarlo! Quanti pezzi di carne mancano sotto i loro piedi, tanti pezzi si staccano dai loro corpi ansimanti! E tuttavia una vendetta sempre nuova contrae il loro fegato: sempre i loro occhi piangono nuova pioggia sanguinosa, sempre rispuntano sulle loro ossa nuovi muscoli, una nuova pelle.

– Fermiamoci, dice il becchino, sono stanco di passare la mia vita nelle tue budella. – Anche io lo voglio, dice il carnefice, sono stanco di tagliare con i denti le tue ossa.

L’Inferno è sulla Terra!

Ma appena l’armistizio è concluso la fossa è sconvolta al rullo di mille tamburi velati. Nello stesso tempo essa si riempie di luci sepolcrali, del fischio di fruste crudeli e dei tristi ritornelli del cantico dei morti. Ed ecco che una voce nasale, voce di giudice o di prete, grida: “Lavorate, lavorate più forte, maledetti! Versate il sangue, tormentate la fibra per nostro conto; fate la vostra parte, vi impediamo di arrestarvi nei secoli dei secoli!”.

E l’implacabile lotta ricomincia, e di nuovo sgorga il sangue, e di nuovo gridano i pezzi di carne sotto le zanne affilate!…

L’Inferno è sulla Terra!

Se il becchino e il carnefice non avessero paura a raccontare i loro sogni, gli uomini vedrebbero che io non esagero affatto le pene che li ossessionano; si convincerebbero che l’Obbrobrio e la Maledizione pesano in modo enorme sull’anima a qualsiasi livello essa sia discesa nell’impudenza e nella crudeltà. Si guardino bene le labbra del carnefice tutte iniettate di sangue, il viso pallido del becchino, i suoi occhi spenti, circondati da un cerchio livido; si osservi il contegno imbarazzato di questi due uomini e la scura espressione della loro fisionomia quando si trovano in presenza degli altri; si osi cercare la loro anima nel fondo delle pupille di falcone e di barbagianni…

E mi si dica se questa gente non è soffocata dal rimorso, inseguita da atroci terrori, risvegliata ogni notte da apparizioni disgustanti, gocciolanti sangue!

L’Inferno è sulla Terra!

E tuttavia essi non sono più colpevoli di quegli animali attenti che ricoprono di terra le spoglie putrefatte dei loro simili. Non bisogna confondere più quelli che sotterrano con quelli che uccidono. Il becchino e il carnefice sono i più da compiangere fra tutti gli esseri che hanno un cuore in seno. Altri percepiscono il prezzo del sangue, altri s’ingrassano con il succo della carne; non resta loro che la schiuma del liquido che versano, il fango delle fosse che scavano. Sono dannati nelle loro persone, e condannati nelle loro razze all’eternità della pene e dell’infamia.

Quelli che uccidono, che vivono della morte degli altri, lo sanno, lo vogliono, quelli che bisogna trascinare davanti al tribunale dell’opinione per la collottola, sono i privilegiati – giudici, proprietari, preti, medici e altri – che non permettono in nessun modo agli uomini di vivere lavorando, di morire tranquilli, di essere sotterrati in pace. Purtroppo! gli assassini legali vivono colmi d’onori e di ricchezze.

L’Inferno è sulla Terra!

Spaventoso sacrilegio che l’uomo commette sui resti dell’uomo! Infami i violatori che non si arrestano davanti alle fredde grazie della Morte e ai suoi occhi senza sguardo! Caronti rimpannucciati, questi funzionari sacri e diplomati che frugano nelle bare guadagnandosi lo sporco obolo dei loro salari! Odiosi sciacalli in guanti bianchi che dormono accanto alle tombe aperte e dicono ai parenti dei morti:

“Noi abbiamo impresso nel seno della terra il timbro della nostra potenza; nessuno può depositare quello che ama senza il nostro permesso. Ai ricchi lasciamo acquistare le tombe sontuose, davanti ai poveri bea la fossa comune; nessuno resta scoperto dopo la morte. Si può passeggiare nei cimiteri fioriti. La demenza e i costumi sono salvaguardati; che volete di più? – Il prete deve vivere degli altari, il medico dei malati, e chi governa dei cadaveri!”.

L’Inferno è sulla Terra!

La morte è ineluttabile per l’uomo; è con spavento che egli vede la sua grande ombra chinarsi su di lui; egli lascia parenti e amici in lacrime! Non è una prova abbastanza pesante? Bisogna che il potere resti padrone di tormentarci anche nei nostri ultimi momenti? Gli permetteremo a lungo di violare ciò che è più prezioso di un testamento, quello che deve essere il più sacro dei culti, voglio dire la suprema aspirazione delle nostre anime quando s’involano verso le regioni infinite? Il nostro corpo sarà sempre privato di una pacifica sepoltura in seno agli elementi? Non possiamo dunque capire che un Gérard de Nerval, per esempio, possa essere libero di lasciar marcire le proprie spoglie mortali in una fogna, se attribuisce a questa specie di inumazione una qualche idea filosofica? Sopporteremo ancora, e poi ancora, che i pubblici ufficiali verranno a mischiare le loro cupide pretese, i loro formalismi e i loro paternostri all’esplosione del primo dolore dei sopravvissuti?!

Se almeno l’Autorità valorizzasse essa stessa i terreni della sepoltura che concede; se, lavoratrice accurata, raspasse con le sue unghie adunche; se soltanto desse una rosa, una margherita a quelli che sono sotto terra per tutti i soldi che pagano quelli che rimangono sopra! Se il governo onorasse o lasciasse onorare i morti che amiamo! Se ci fosse permesso di rendere un altro culto diverso da quello dei cantici latini mormorati dai preti!

Se l’ignobile poliziotto non sporcasse con la sua presenza infetta il santo asilo delle tombe! Se almeno potessimo restare soli dopo il nostro ultimo respiro!!

Ma no. L’Autorità vuole che le nostre ossa siano numerate, allineate una accanto all’altra. E sono i più disgraziati, i più poveri che incarica di questa missione. Al mendicante il portafoglio, dice il proverbio. Dopo avere spogliato il proletario di ogni suo bene, di ogni diritto al lavoro, all’onore, la Civilizzazione, vigliacca e paurosa, l’obbliga anche a sotterrare i morti; accumula sulla sua testa le vendette e i disprezzi di tutti!

L’Inferno è sulla Terra!

Uomo! sii glorioso. Tu hai diritto a circa sei piedi di terra del governo e alle attenzioni particolari degli impresari di pompe funebri. Ma sei suddito fin nella tomba. Le necropoli sono amministrate, i morti hanno i loro registri, l’ordine regna anche là! La Burocrazia è scivolata nel letto dei cadaveri, ha violato il loro pudore come non l’avrebbe fatto nemmeno l’avida iena! Tutto va bene, tutto è in regola!

L’Inferno è sulla Terra! Sono i vivi che lo preparano ai morti!

XII

La Natura è raccolta in un profondo silenzio; la rugiada trascina il suo vestito bianco sulle praterie; la dolce chiarezza della luna invade i cieli, il giorno comincia per il mondo dei morti.

Sono immerso nel prato primaverile giovane e tenero. La testa appoggiata sulle braccia conserte, gli occhi guardano le brillanti sentinelle della terra, le stelle tremanti che vanno, una dopo l’altra, al loro solito posto.

Riprendo a sognare. Mi sembra di essere nella fossa comune, fra tutti questi cadaveri! Ho freddo, nuoto in un oceano di vermi: è un sogno spaventoso!

Tutte queste scatole di abete incassate, serrate una dopo l’altra, si agitano, tremano, scoppiano. Quelli che rinchiudono non possono liberarsi dalla pressione che li tortura. Orrore! le ossa sono appiattite, deformate, compenetrate tra loro!

Gli sfortunati cadaveri tentano con ogni sforzo di sollevarsi. Insultano, bestemmiano; la sofferenza strappa loro esclamazioni che mai ho sentito da nessuna parte. Il rumore che esce da questa fossa maledetta è talmente prolungato, lugubre, spaventoso, che le ronde dei cani erranti, degli uccelli di notte e dei ladri non osano avvicinarsi.

E io sento, purtroppo!, distintamente questi pianti strazianti e confusi:

“Perché mi stringi così forte? – Togli le unghie dei tuoi piedi dalle pupille dei miei occhi! – Manco d’aria; la terra e le bare pesano sul mio corpo in maniera spaventosa! – Sono preso tra le tavole della mia bara; stavo per scappare ma esse si sono rinchiuse su di me! – Dove sono, gran Dio? Non vedo più né il cielo blu né l’aria trasparente; non posso muovere nemmeno il dito mignolo! – Che risveglio! – Soffoco! – Inghiotto sabbia e carne assassinata! – Santa Vergine, liberami! – Tacete, disgraziati! Si direbbe che siamo di già all’Inferno; voglio dormire. – Ho tradito i miei amici, ho ucciso mio padre; i supplizi dell’Eternità cominciano per me! – Sono il dannato di cui i popoli pronunciano il nome con raccapriccio! Sono colui che è diventato imperatore sgozzando, quello che hanno sepolto qui i barbari vendicatori. Sono il più incancrenito, il più pestifero di tutti questi cadaveri: i cani non mi vogliono! Sono Napoleone, il maledetto!!”.

Orribile assemblea! In questa fossa si confondono tutte le ambiziose allucinazioni, tutte le follie, tutte le furie d’orgoglio, tutti i tradimenti, ignoranze, superstizioni, cupidigie, rapine, violenze, concupiscenze, barbarie criminali, pene, dolori, miserie e malattie generate dalla Civilizzazione!

Là sono accostate la testa che medita l’assassinio e il petto che ha trafitto, le gambe che marciano per i re e i denti che strappano le cartucce delle sommosse, le spalle che portano i fardelli e la mano che indica loro quello che devono fare. – Là, accanto al nero carbonaio, giace la bianca fanciulla dai seni vergini! Il vecchio è coricato sopra tutti quelli che vennero al mondo dopo di lui! – Sulle membra fragili del suo bambino hanno gettato la madre; lei sente i suoi strilli acuti ma non può sollevarsi! – I nemici non saprebbero staccare una dall’altra le loro bocche che si baciano, gli amici si mordono con avidità! – I più soffocati vogliono salire sugli altri e li riempiono di lividi per aprirsi un passaggio! – Alcuni sono capovolti con la testa in basso, altri messi sotto i piedi, altri squartati, strangolati, ansimanti; tutti sono coperti di un sangue ghiacciato che dà un fremito mortale! – Ve ne sono parecchi che raschiano con le dita i vermi che pullulano nelle loro viscere verdi! –

Il vecchio ridiventa neonato; il bambino passa in qualche ora tutti i gradi dell’esistenza; la sua testa si copre di capelli bianchi. Le donne sono figlie e madri nello stesso tempo; la morte fa nascere i feti che non respirano. Tutte queste macerie del mondo terrestre non sanno se devono desiderare la morte o la vita, né ciò che è la vita né ciò che è la morte! Digrignano i denti e ridono come pazzi; sentono che li si divora e rinascono nello stesso istante. Il globo sembra loro un deserto dove i grani di sabbia si assemblano e si trasformano per costituire esseri nuovi. Essi vedono l’aria, l’acqua, il fuoco passare su un caos di detriti che si animano e rinascono. Hanno perduto ogni nozione di spazio e di tempo. Gridano con voce lamentosa:

L’Inferno è sulla Terra!”.

Improvvisamente, sulla cima di una montagna vicina mi appare un fuoco crescente simile al disco della luna nel suo primo quarto. A poco a poco questa fase crescente si allunga, si restringe e si estende in una falce tagliente. Poi si disegnano successivamente, dietro la montagna, lunghi capelli grigi, una fronte calva, tratti così vecchi che sembrano dissolversi, un vegliardo smisuratamente grande che porta scritto in lettere di fuoco il suo nome sul petto. Mi stropiccio gli occhi per vedere meglio e leggo: Il Tempo, fedele servitore della Rivoluzione.

Adesso l’aspetto della fossa comune cambia. Lo Spirito delle trasformazioni vi passa sopra, e con la punta della sua ala vi semina alcune stelle. Nello stesso istante, le scatole di abete si accendono e si storcono tra le fiamme come foglie secche. Mentre che crepitano, il Tempo grida con la sua voce arrugginita:

“Il braccio è smagrito dal mio compito, ma non si stanca mai. Non c’è più una goccia di sudore sulla pelle della mia fronte, ma io sono sempre più disposto verso il mio eterno lavoro. Ho disseccato più mari, sommerso più continenti di quanti capelli mi restano in testa; ho accartocciato gli imperi come foglie di carciofo; e quanto agli uomini, disperdo le loro città facilmente come formicai. Tuttavia, più avanzo nella mia carriera senza fine, più i miei compiti sono penosi, più rare le ore di riposo. La Rivoluzione, sempre giovane, sventra i suoi vecchi servitori impietosamente come un cacciatore sprona il suo cavallo. Il mondo inutilmente cambia, il mio compito resta lo stesso e lo zelo della mia amante raddoppia con i secoli. Do continuamente la morte senza potere mai sperarla”.

L’eterno Melchisedech si tacque. Il fumo prodotto dall’incendio delle bare si dissipò. Tutti gli esseri che avevo prima visto disperati, furiosi o tristi mi apparvero raggianti la bontà sovrumana che dà l’allegria. Le loro voci erano fresche e soavi come quelle che i poeti prestano agli spiriti celesti. Esse cantavano:

“L’aria si profuma e si depura, è meno pesante per i nostri polmoni. Un fremito di felicità corre nelle nostre vene; sentiamo grandi ali sulle nostre spalle; siamo pronti a slanciarci in mondi migliori. Attendiamo che il gioioso sole si mostri all’orizzonte, più scintillante, più largo. Allora proveremo il nostro volo attraversando l’aria e gli oceani come giovani rondini, che ronzano fino all’arrivo del loro lontano viaggio!

L’Inferno è sulla Terra che noi lasciamo. In quella dove andiamo troveremo il Cielo. – Che tu sia benedetta, Rivoluzione!”.

XIII

Ecco il momento dello sfacelo umano;

L’obitorio prenderà i corpi trascinati dalle acque;

L’egoismo, come un sultano, gode e regna; vi sono

Dei delitti da nascondere, e il suo Bosforo è là.

Hégésippe Moreau

Quale beneficio ricava l’artigiano dal lavoro che fa sotto il sole? In quali mari senza fondo scorrono i suoi sudori e le sue lacrime? Chi gli dà una consolazione, un alleviamento, un felice asilo per i suoi tardi giorni? Chi una speranza, un sostegno?

Quando è solo, il povero, nessuno gli viene in aiuto nella malattia. Per arrivare alla sua mansarda, forse le donne temono di stancare i loro piccoli piedi, i sogni felici di sporcare la punta delle loro ali?

E quando è padre, la sofferenza è centuplicata, perché il bambino è troppo debole, la donna troppo sensibile per non disperare. Perché la Fame grida sempre e l’Opulenza non sente mai. Perché il Mondo è troppo vecchio per non farsi eremita, sordo, avaro e senza cuore. Perché gli uomini sono arrivati all’estremo lembo dell’ipocrisia. Non si lamentano quando soffrono per fare credere al loro coraggio; piangono quando vedono soffrire per fare credere alla loro pietà. Non provano nulla di ciò che fingono; non sono né compassionevoli né coraggiosi; la miseria reale pesa sulle loro coscienze come un doppio rimorso; essi la lasciano sola e senza appoggio.

Porta la croce, proletario; lavora, lavora! Dai la ricca schiuma del tuo sangue per poche gocce amare di bevande avvelenate; dai la farina bianca della tua vita contro la crusca, contro il pane nero! – L’Inferno è sulla Terra!


Giovani, uomini e donne, quando siete innamorati, felici come uccelli; quando vi stringete petto contro petto, pensate alle innumerabili sofferenze di chi trema nell’isolamento: non stornare la vostra attenzione!

Pensateci spesso, al contrario: non per fare loro l’insulto della vostra elemosina, ma per contribuire secondo le vostre forze all’arrivo del Diritto. Pensateci, apportate la vostra eloquenza, il vostro stile o la vostra pietra alla rivoluzione che le libererà!

Pensateci! che la felicità vi faccia desiderare la giustizia; che la vostra mano benefattrice e vendicativa si posi nella loro. È molto facile amare tutti quando si è amati da qualcuno quaggiù. Nessuno è garantito contro la sfortuna sulla terra; e sollevare quelli che soffrono è lavorare per se stessi.

Giovani, uomini e donne, quando siete felici come gli uccelli di primavera pensate agli sfortunati. L’amore, il giovane amore, quello che vi incatena, è la sublime uguaglianza, la suprema giustizia, quella che si apprende, che si insegna con un bacio, quella che rende bella e buona ogni creatura vivente!


Avete visitato gli ultimi asili dei poveri? Vi siete fermati all’Hôtel-Dieu, all’Ospizio dei vecchi, all’Obitorio, davanti all’Anfiteatro? Non è vero che avete sofferto, che avete avuto paura? Potevate restare senza emozioni, voi di sangue e di nervi, quando le corde della chitarra fremono sotto un dito?

Ah! sfortuna a voi se non avete pianto sulle disgrazie degli altri! Sfortuna a voi se avete riso di gusto quando singhiozzavano i poveri! Perché la carità, la vendetta, l’odio del male, l’amore del bene, è una sola passione. Non la si calcola, la si prova. Oggi è esattamente al contrario; non si sente niente, si specula su tutto; i filantropi sono i più duri fra gli uomini, essi soccorrono soltanto gli ipocriti che gli somigliano. Il fiero artigiano non può aspettarsi qualcosa da nessuno!

Lavora, lavora, porta la tua croce, proletario! – L’Inferno è sulla Terra!


Ancora quattro stazioni da fare e arriveremo al sommo del Golgota moderno! Era ora; la stanchezza mi prende, e io che sostengo questa croce pesante solo con la punta della mia penna, mi sento spossato.

Riprendi forza, anima mia, oltrepassiamo risolutamente queste ultime tappe del dolore. Dovrei cedere davanti al compito monotono che ho scelto, quando l’operaio non si ferma davanti al lavoro massacrante che gli viene imposto? Dovrei cedere?

No di certo. Voglio lottare contro le seduzioni del riposo, voglio scrivere ancora queste difficili righe. Tanto meglio se esse mi costeranno pena e tante lacrime! Perché io le verserò su questa carta, come il povero versa la sua vita sulla materia che forma.

E forse riuscirò a sedurre, a commuovere quelli che non hanno solidificato nel loro cuore la colpevole risoluzione di proteggere il male. Sarà difficile:

L’Inferno è sulla Terra!


Stazione dell’Hôtel-Dieu! – Il lavoratore vi è portato su una barella, su un materasso puzzolente, sotto coperte sporche e pesanti che impediscono all’aria di arrivare fino a lui. Vi è portato da due uomini che non sono nulla per lui, che si fermano a ogni bettola per ridere e bere, mentre i curiosi esaminano con comodo l’aspetto del paziente.

Egli entra da una porta affollata di sfortunati come lui. Questi lo guardano con invidia, perché prende l’ultimo posto vacante.

Egli riceve ogni mattina la visita di un medico dall’occhio indifferente, che lo esamina per amore della scienza, l’interroga bruscamente, gli risponde appena e parla di politica tastandogli il polso. Durante il giorno, gli studenti, il cappellano e le suore gli tormentano il corpo e l’anima in mille modi. – Il suo povero corpo così rotto, la sua povera anima così triste!

L’operaio è coricato in una sala immensa, in un letto che la Morte spopola continuamente, che la Malattia ripopola senza interruzione. Ai suoi lati, uno rantola, un altro gioca a carte, altri lo spiano, chi lo crederebbe? per la gloria del buon Dio!

Si alza dal letto, appena convalescente, per ritornare al lavoro assassino, al dolore profondo, alla fame, alla sete di felicità; oppure per essere steso sulla tavola fatale, la tavola fredda dove uomini freddi sezionano, con strumenti d’acciaio, il suo cuore, il suo largo cuore che forniva tanti battiti, di lavoro e d’amore!

Porta la croce, proletario; lavora, lavora! Dai la ricca schiuma del tuo sangue per poche gocce amare di bevande avvelenate; dai la farina bianca della tua vita contro la crusca, contro il pane nero! – L’Inferno è sulla Terra!


Stazione dell’Ospizio! – Gi invalidi del lavoro vi sono ammassati come i prigionieri nelle casematte. Vi sono nutriti, vestiti, curati come galeotti, prendono l’aria come soldati in caserma, sono riscaldati come Cosacchi. Le malattie epidemiche li mietono come i venti di novembre spazzano via la razza degli insetti alati!

Ah! poveri vecchi! Quando sono ricchi, i loro eredi li ossessionano con un insieme di cure interessate. Quando sono indigenti, fanno a chi se ne sbarazza prima. Le loro famiglie li consegnano all’assistenza pubblica, questa li rinvia agli ospedali, e l’ospizio non li mantiene a lungo in attesa della Morte!

– Ho pietà del vecchio in piena Civilizzazione! Lo dovremmo circondare di cure, il suo posto dovrebbe essere chiaramente indicato nell’armonia dei gruppi umani, i suoi consigli aiuterebbero potentemente gli uomini, i suoi racconti istruirebbero senza fatica i bambini, potrebbe dirigere pazientemente tante utili ricerche, conservare tante cose preziose collezionandole, e noi lo sacrifichiamo! Sì, il debole e flebile vecchio è divenuto la vittima di interessi sordidi, di disprezzabili astuzie, di vigliacchi tradimenti. Ne hanno fatto un essere burbero, irritabile, capriccioso, di peso a se stesso e agli altri, disprezzabile, quasi odioso, inutile sempre, perché non si è trovato come impiegare le sue attitudini. Di tutti i patriarchi di una generazione, si venerano solo quelli che si sono mostrati sprezzanti verso gli uomini, che li hanno distrutti in massa nelle battaglie. I re, loro onnipotenti complici, gli fanno costruire sontuose abitazioni, e i popoli li adorano. Quanto a quelli che non hanno fatto altro che bene, li si ricopre di terra pesante per non sentire più le loro lamentele! – L’Inferno è sulla Terra!


Stazione dell’Obitorio! – Al centro di Parigi, sulla riva destra della Senna, fangosa come conviene ad una alleata del Tamigi, su di un marciapiede desolato, si trova l’Obitorio!

Brutta e piccola casa, quadrata, bassa, umida, a metà capanna, a metà monumento, verde alla base, grigia sulla facciata, il tetto nero!

Tirate il campanello! Alla porta troverete una persona viva, dentro cinque o sei morti distesi sulla pietra perché i passanti possano richiederli. – Quando ne hanno il coraggio!

Se la persona viva non camminasse lo si prenderebbe per uno dei cadaveri che custodisce. – Cadaveri infeltriti, verdi, portati a spasso dal fiume o dalla fogna per settimane intere, talmente macerati, sfigurati, orrendi, spaventosi, che i loro parenti stessi li vedono di colore blu. – Il blu della Morte!

È il freddo e formidabile Obitorio! Esso raccoglie i tuffatori che la Disperazione attira nel fondo delle acque, nel cuore delle fiamme! – I tristi tuffatori che mai riappaiono!

Passa la soglia, giovane filosofo, se vuoi conoscere gli uomini del tuo tempo. Controlla il tuo disgusto, avvicina questi morti, domanda la causa della loro fine così drammatica, così solitaria. E riconoscerai che questa stessa società, che li espone adesso al pubblico, gli ha dato il colpo finale e vuole nascondere il proprio delitto lavando le sue vittime!

Questo vecchio si è annegato perché non aveva più pane! – Questo artista si è impiccato perché la maggioranza dei suoi confratelli ha diffamato il suo cuore e negato il suo talento! – Questa fanciulla ha visto l’amante del suo cuore sposare un’altra donna, e non potendo invecchiare negli slanci d’amore ha preferito addormentarsi nella tranquillità della tomba!

E perché il pane manca ai vecchi? – Perché gli incoraggiamenti sono negati all’artista? – Perché la bellezza, la salute, la qualità del cuore non contano più nella bilancia che pesa la fortuna?

E perché tutti non hanno diritto al lavoro, all’istruzione, all’amore? Perché la proprietà, le autorità accademiche e familiari? Perché la sofferenza dello stomaco, l’umiliazione dell’intelligenza e del cuore? Perché il lungo supplizio di Caino, la morte sanguinosa di Abele? Perché il male, l’assassinio, la guerra? Perché la tracotanza del ricco, la depressione del povero! Perché l’indigestione e la voglia inappagata? Perché la morte dell’uomo per mano dell’uomo?!…

L’Inferno è sulla Terra! Porta la croce, proletario; lavora, lavora! Dai la ricca schiuma del tuo sangue per poche gocce amare di bevande avvelenate; dai la farina bianca della tua vita contro la crusca, contro il pane nero!


Stazione dell’Anfiteatro! – Nel mondo per benissimo, fra le donne nervose e bionde, è molto alla moda cercare forti impressioni. Queste donne fanno presente agli studenti il desiderio di visitare le sale di dissezione. Dicono, le miserabili, che ciò procurerebbe loro deliziose emozioni. L’amministrazione, generalmente bestia e facente ordinariamente tutto nel peggiore dei modi, ha almeno il buon senso di impedire alle donne l’entrata alle preparazioni anatomiche. Tuttavia, dato che ci tenete, signore, io che non voglio rifiutarvi niente, vi spalanco le porte dell’anfiteatro!

– Ma prima promettetemi di leggermi e di non arrossire. Nessuno saprà che avete aperto queste pagine. E se qualche maldestro parla di me davanti a voi, virginalmente abbassate gli occhi, tossite in mi bemolle e dite soltanto che una donna rispettabile non oserebbe sentire il mio nome. Questa piccola menzogna vi fornirà l’occasione di una visita al vostro confessore. E, quanto a me, non mi lagnerò di essere rinnegato da voi in pubblico, se, in privato, fate buona accoglienza a questi moralissimi e signorilissimi I giorni dell’esilio. Sarò fierissimo se vorrete intrattenervi con me solo quando fa notte nera, quando l’uragano si scatena all’esterno, quando la dolce candela notturna si consuma piangendo nel suo vaso di alabastro, quando le tendine di seta ben tirate inquadreranno le vostre divine grazie nei loro riflessi blu e rosa. Non vi chiedo che questo. Date in seguito quello che volete, dapprima al vostro curato, poi al vostro sposo. E che il pubblico si accontenti del resto! –

Dunque, seguitemi. Vedete arrivare interi e riconoscibili tutti questi corpi che non usciranno di qui che a pezzi. Sentite sbattere tutte queste teste sull’ultimo guanciale che avranno in questo mondo, il blocco di legno duro dove altri, a centinaia, hanno lasciato i loro capelli. Ne arrivano più o meno venti per ogni sala; a Parigi ne bisognano circa cento al giorno!

Guardate, signore, ecco il piacere!

Gli studenti corrono a queste spoglie come gli asini all’avena; gli fanno festa nella lingua dei professori: un dialetto rimodernato dal greco, molto distinto senza dubbio, ma di cui non comprendono una parola, perché sono diplomati. Fissano i loro cadaveri, in tutte le posizioni, alla tavola di stagno dove si tortura la morte! Li distendono alcuni sul dorso, come dei crocefissi; altri li allungano sul ventre; mettono questi da un lato quegli di traverso, molti con la testa cadente, oppure con i piedi in aria, spesso le braccia piegate dietro le spalle, incrociate, attaccate per impedire al corpo di scivolare!

Guardate, signore, ecco il piacere!

Provano poi i loro strumenti sulle dita, le labbra e le gengive; rasano i capelli e la pelle del cranio per fare prima. Lo scalpello penetra, grida, stride sulle ossa della testa. Lavorano con tutte e due le mani.

Guardate, signore, ecco il piacere!

Quando tutte queste preparazioni sono finite, essi si dividono i soggetti, tagliano le membra, li sventrano, aprono il petto, rompono a colpi di martello risuonanti i crani sonori, staccano la calotta ossea con ganci di ferro, passano le loro dita sulla sede suprema dell’intelligenza umana, su questo cervello così fine nella sua struttura meravigliosa. Lo fanno macerare nell’acqua, indurire negli acidi; lo tagliano a fette, lo dettagliano, lo spezzettano, lo tritano, lo pressano tra due vetrini per guardarlo al microscopio, lo riducono ad una pasta sanguinante, orribile da vedere, che rimane attaccata alle loro unghie, che vi presentano, al ballo, tendendovi la mano!

Ancora due! Guardate, signore, ecco il piacere!

Essi tolgono il naso e le orecchie, strappano i muscoli, srotolano le viscere, pinzano i nervi, rompono, torturano, affettano, dilacerano, squartano, attanagliano ogni fibra del corpo, mettendo tutto a nudo; il sangue, la carne, l’osso che grattano e il midollo delle ossa; strappano i denti, estraggono la lingua dalla bocca e cavano gli occhi! – Gli occhi così belli!!

Guardate, signore, ecco il piacere!

Poi riempiono la grande stufa di grasso, di stomaci, d’intestini, di polmoni e di cuori che gridano, si torcono, gemono, singhiozzano bruciando e portando fino alle nuvole un fumo nero, un odore ributtante, al fine di testimoniare in alto il sacrilegio dell’uomo!

Guardate, signore, ecco il piacere!

Essi soffiano su questo olocausto offerto agli dèi dell’università; lo fanno gioiosamente bruciare, vi accendono le pipe, si scaldano le mani, si massaggiano le gambe per esprime il loro benessere; e scherzano su organi che vivevano ancora il giorno prima; se li nascondono nelle tasche per scherzo, posano il proprio panino sulle preparazioni, e lo mordono con le mani ancora insanguinate. E tutto il resto delle buffonate… Niente è gradevole come i piccoli borghesi, i simpatici studenti in medicina!

Se ne avete lo stomaco, guardate, signore, ecco il piacere!

Quando hanno finito il loro lavoro del giorno, lavoro di formiche, essi lo nascondono con cura in un petto aperto e vuoto allo scopo di ritrovarlo intatto l’indomani, poi cuciono tutto il resto, lo coprono con un pezzo di pelle bianca, e se ne vanno cantando. Per cui si possono vedere, spettacolo spaventoso, dei morti preposti dai loro carnefici a guardia delle proprie macerie; morti che fanno paura per l’espressione di tortura e di rabbia disegnata nei loro tratti; morti che sembrano strapparsi, violentarsi da se stessi, e soffrire della propria nudità molto di più dei viventi!

Guardate, signore, ecco il piacere!

E quando questi poveri morti hanno subito le profanazioni della curiosità vana, devono ancora essere sporcati dalla grossolana cupidigia. Dopo la smorfia della scimmia, la pedata della bestia da soma; dopo lo studente, il commesso dell’anfiteatro. Quest’ultimo sporco, malnutrito, maldestro, malsano, orrendo salariato della morte, passa tutte le sere in rivista le tavole del lavoro. Resti d’uomini e di bambini, tronchi di donne e di vecchi, coste, cristallini, unghie e peli, quarti di genitali e mezze mammelle, raccoglie tutto quello che è stato usato in un catino stretto, talmente sporco che il diavolo non lo toccherebbe con la punta della sua lunga coda. È una confusione, un abominio, una ripugnanza, una pestilenza di cui niente può dare un’idea; c’è da fare vomitare un becchino!

Guardate, signore, ecco il piacere!

Quanti figli di famiglia si formano lo spirito e il cuore a questa grande scuola! Ne escono ignoranti, pedanti, tracotanti, infine dottori. Credono di possedere il segreto dell’esistenza perché conoscono il posto preciso del cuore e della ghiandola pineale! Si immaginano di conoscere le cause della malattia perché constatano il disordine che essa produce! Trattano i vivi come scorticano i morti! Non si rendono conto delle risorse vitali; essi mostrano un sovrano disprezzo per la scienza umanitaria e vorrebbero sostituire le loro piccole formule alle grandi leggi dell’essere! Sono importanti, dominatori, fini dicitori, spiriti forti. Gli prende a volte il prurito di fare parlare di sé nella propria provincia, e allora diventano agitatori del vuoto, filantropi per mantenimento, democratici per ambizione. Fieri di fare paura, convinti della loro superiorità sul popolo, preti della materia, pretendono, come i preti dello spirito, una dittatura sacerdotale. Negano l’esistenza dell’anima, la sua immortalità, l’armonia della natura, le aspirazioni dell’umanità, la vita futura, tutti questi grandi moventi della vera morale. Ridono della delicatezza, della generosità, della sofferenza, dell’affetto; fanno dell’amore la più stancante, la più ebete, la più ributtante delle necessità materiali; non ne parlano se non fregandosi le mani.

Guardate, signore, ecco il piacere!


Osservazione. – I medici mi domanderanno se credo le dissezioni inutili agli studenti, e con che cosa dunque le rimpiazzerei?

Distinguiamo, cari confratelli. Le dissezioni sono utili, ma non la furfanteria di apprendisti macellai, non lo spreco di carne umana, non la sporcizia, il materialismo, la vanità, l’insensibilità, il gergo da eruditi che ne deriva.

Si è fatto, in questi ultimi tempi, un deplorevole abuso della teoria, negli studi di medicina, come in tutti gli altri. Si è resa la scienza anatomica stancante, impossibile a forza di minuzie. E volendo sapere ogni cosa si è finito col dimenticare.

Domando a mia volta se i dettagli fastidiosi dei trattati descrittivi non siano inutili, per i tre quarti almeno, agli studenti di medicina, se non siano per loro nocivi, stornandoli dalla grande osservazione delle leggi della vita; mi domando se non siano dimenticati non appena appresi a memoria, e se trovano una qualche applicazione nella pratica ordinaria?

Quando rinunceremo dunque una buona volta alla stupida pretesa di fare enciclopedisti di tutti i contadini che piovono a Parigi ogni anno da tutte le parti dell’impero, ogni anno per farsi discrostare un poco. Non mi dispiace che la nazione frrrancese sia delicata, sensibile, intelligente e maligna più di tutte; ma infine ognuno dei suoi membri non può sperare di diventare un mostro di sapere, un immortale, un accademico!

Per quel che mi riguarda, sono persuaso che le dissezioni numerose ed assidue sono necessarie solo a chirurghi, fisiologi, micrografi, oculisti e altre specializzazioni particolari. A questi basterebbero ampiamente i corpi di coloro che muoiono indicando espressamente questa destinazione. Se non bastano che si arrangino in un modo o nell’altro senza avere il diritto di toccare gli altri, di fare pagare l’imposta della morte, il tributo dei corvi, agli sventurati già crocifissi al tempo della loro esistenza!

Ho detto che gli anatomisti erediteranno dei cadaveri per esercitare il talento delle loro dita. Non credo di essere un utopista, in effetti, penso che in un quarto di secolo, gli uomini, rassicurati sul futuro destino delle loro anime non daranno più tanta importanza alla conservazione della loro argilla in un luogo consacrato.

Io stesso, per quanto possa risultarmi gradevole riposare dopo la mia morte nel letto blu delle acque, non esiterei a legare il mio corpo, se la cosa dovesse far loro piacere, sia al mio buon cugino e amico il dottor Charles Viard, sia ai miei vecchi compagni d’internato, all’abile professore Broca, sia allo scienziato e celebre oftalmologo Desmarres. Sarei sicuro di essere utilmente impiegato per il vero progresso della scienza, e trattato da loro con tutti i riguardi dovuti alla mia buona volontà.

Quanti amici della buona medicina e dei buoni medici, e quanti malati riconoscenti agirebbero come me. Non abbiamo visto il professore Orfila fare circolare nella scuola la sua popolarità e fornire defunto il suo gran cadavere ai suoi cari studenti? Quanti ipocondriaci, spiriti originali, eccentrici, osservatori e curiosi vorranno che la gente sappia di quali malattie sono morti, specialmente quando le conoscenze mediche, più diffuse in generale, permetteranno a ciascuno di rischiare sul proprio male un’opinione personale. – Affermo che queste donazioni soddisfarebbero, e anche di più, lo zelo dei più zelanti.

In effetti, se a questo aggiungo la volgarizzazione delle scoperte del dottor [Louis] Auzoux, la certezza che molte altre invenzioni di questo genere saranno fatte in futuro e messe a disposizione di tutte le intelligenze, obbligo i più sapienti a convenire che le dissezioni possono essere singolarmente ristrette. Esse diverrebbero per lo studente un lavoro eccezionale, destinato soltanto a verificare i dati acquisiti dai libri e grazie ai cadaveri artificiali. – Faccio sempre le mie riserve per gli uomini speciali, abili a tagliare, non è prudente cercare noie con gente simile.

Così saranno risparmiati ai giovani questi studi ripugnanti e penosi che rendono indifferente il cuore, inaridiscono le intelligenze e spessissimo distruggono la salute. Certo c’è bisogno di anatomisti, di chirurghi, di falegnami e di micrografi. Ma non troppo, come dice un ritornello del mio paese.


– Ho scoperto l’orribile realtà delle vostre sofferenze, lavoratori! Le ho riportate come esse sono, allo scopo di accendere una luce nel vostro cuore, al fine che esse siano impresse una volta per tutte e non possano essere dimenticate da nessuno.

Sono andato fino al limite del cammino della vostra croce; ho fatto, ve lo giuro, tutto quello che potevano le mie forze.

Se i miei sforzi sono stati traditi dal disgusto, la fatica e la lunghezza della strada, perdonatemi, perdonatemi fratelli miei, non negatemi la vostra stima, non me ne fate una colpa!

Ah! duro è il compito! deserta, sconosciuta è la discesa agli Inferi! Sotto i miei piedi rotolano sassi, sotto le mie mani gridano i rovi; sono immerso nelle tenebre; i vapori di zolfo, la polvere mi soffocano.

Tuttavia ho resistito. Ho fatto la mia corsa. Sono di ritorno alla dolce luce!


Mi avevano allevato per fare di me un borghese, non un uomo. Accreditatemi, proletari, di una buona volontà che difficilmente si trova nella classe media. Non respingetemi se sono più debole di voi.

Perché la franchezza è una forza. Perché la penna distrugge molte resistenze contro le quali si spezzano i martelli duri. E spesso i più forti hanno bisogno, sulla terra, di uno più piccolo di loro.

Se accade qualche volta che vi si sollevi contro di me; se la gente di partito vi insegnano a maledirmi, come è di già accaduto…

Ebbene! sopporterò questa stessa maledizione con il coraggio passivo dell’uomo spesso misconosciuto. E dirò:

Lavora, lavora, cammina in avanti, poeta, porta così la croce fino alla soglia dell’Umanità futura.

L’Inferno è sulla Terra!!!

Il lago d’Annecy

Annecy, luglio 1855

L’acqua, è la Libertà!

I giorni dell’esilio, I volume

I

Respiro bene sotto i cieli belli; ho costeggiato molte rive, passato molte frontiere; ho conosciuto molti uomini, parlato molte lingue, da quella in cui le madri cullano i loro piccoli fino a quelle che sospirano le donne nel delirio d’amore; ho condotto molti proscritti alla loro ultima dimora; ho riso qualche volta, più spesso ho pianto: tutte le emozioni che l’uomo può sentire sono state le mie. E non so ancora cos’è la felicità. La felicità di cui si parla tanto mangiando, bevendo e vivendo… Non la conosco assolutamente!

Tuttavia, meno la trovo e più la cerco. Più le mie forze si affaticano, più i miei pensieri si elevano; più indugia la mia salute pigra, e più la mia immaginazione vagabonda si slancia in avanti. Più mi sento immerso nell’abisso della Disperazione, e più mi dibatto, afferrando con le mie mani i rari ciuffi d’erba che crescono lungo il pendio degli abissi sconosciuti.

L’impazienza che divora la mia vita accelera ogni secondo come il movimento della pietra che cade. Gli anni e i giorni accrescono la pesantezza del fardello che mi soffoca. Spesso la respirazione mi manca, e mille pensieri strani scolpiscono il mio cervello coi loro rumori confusi. Spesso l’Ispirazione e la Noia si disputano senza motivo la mia anima, palpitante; più spesso ancora lascio sfuggire la vita dal mio essere, come un liquore avvelenato da un flacone di cristallo…


Per il pensiero è troppo vegetare, è troppo soffrire! Voglio irrigidirmi contro di te, Desolazione muta, il cui sguardo uccide. Voglio rinascere alla vita che si agita al mio fianco; voglio riprendere radice nel suolo fertile dove fioriscono i prati e i myosotis. Senza respiro, sommerso, sul punto di morire, voglio abbracciare ogni possibilità di salvezza: fiore di ninfea, cuore di donna, dolce respiro di bimbo. Voglio amarvi, benedirvi, coprirvi dei miei ultimi respiri, dei miei tristi baci!

Voglio impadronirmi dei cieli e delle acque, delle terre verdeggianti, della brezza che guarisce la febbre, e del canto dell’uccello che riposa dolcemente le anime stanche. Voglio ritornare agli amori della mia giovinezza!

Ah! se non è troppo tardi… voglio dire velocemente: Bella, tre volte bella, promessa d’infinita felicità, fermati! Ideale, Ideale, divorante meteora che non ho visto che in sogno, ti ho colto; tu mi appartieni! Magnifica Natura, voglio rispondere ai grandi sorrisi, alle mille voci delle tue sublimi armonie; voglio cantare con te l’inno dei mattini e delle sere!

Se non è ancora troppo tardi… vieni, preferita del mio cuore, circonda la mia testa con i tuoi capelli, attira il mio sguardo fino in fondo ai tuoi occhi, fissalo, conservalo. Che io non veda più questo mondo infernale! Che non senta più il mio petto oppresso dal peso di un’umanità d’argilla! Che la solitudine in due si faccia nella mia anima!

Se non è ancora troppo tardi… conducimi sui bordi del lago incantato. Ci coricheremo fra le alte erbe della prateria; tu chinerai sulla mia bocca le tue labbra carezzanti, mormorerai in un sospiro e dirai:

“Perché sognare sempre? Perché risvegliarsi, provocare il pensiero torturante? Perché cercare così lontano la felicità che ci segue, povera anima inquieta?!

“Vedi la neve di Luglio dormire sul granito, come sulla faccia di un penitente la lacrima d’estasi sfuggita ai suoi occhi! Senti il grillo nell’erba, la sorgente delle vallate; la stella e il sole nel loro corso che non varia mai. Tutto è felice nel mondo. Rinasce, rinasce ancora!

“Arriva al punto di sapere attendere. La Felicità è donna, e la donna non è feroce; può averla chi non la perseguita con irritanti inseguimenti. La donna che ti chiama senza che tu la prevenga; ama a suo tempo e non al tuo; lei saprà condurti attraverso le insidie del mondo e sull’abisso delle acque. Non domandarle né che tempo fa né che ora è. Che importa la vita del tuo corpo, se la tua anima è gioiosa!

“Vieni! L’universo è bello, il firmamento è puro; l’onda è leggera ai remi e facile al battello che la fende con la sua prua!”.

II

La superficie delle acque è liscia come un vetro di Venezia; il cielo vi riflette le pieghe del suo vestito azzurro, i mille ricami delle sue nuvole bianche, i suoi orizzonti neri d’uragani. Sul fondo del lago riposano le ombre delle Alpi, colossali guerrieri vinti nei diluvi e coperti d’allora dal lenzuolo delle nevi. In lontananza corrono le barche a vele spiegate, le vele latine che fendono l’aria come falci taglienti.

Mi slancio, con la mia amata, sulla superficie mossa. I flutti si cullano coi loro baci umidi; ascoltano la cadenza dei nostri remi e si fanno di lato, docili, per lasciarci passare. Sulle alte cime la Tempesta in delirio scuote la criniera fremente. Oh! lasciamola ruggire! Amiamoci, amiamoci!

Che m’importa del nome di queste montagne e della parte del mondo dove mi sorprende un secondo amore? Che mi interessa del presente e del passato, degli uomini e delle loro questioni, e dei loro discorsi ingannatori? Come potrebbe sfiorarmi tutta la gloria che essi danno e quella che promettono? Ho perso perfino il ricordo del mio nome, perfino la coscienza della mia natura umana; non sento più battere le mie arterie; il mio petto si solleva appena.

Europa! Miserabile arena di ambizioni furiose, tu puoi versare il tuo sangue in guerre insensate! Io ho previsto la tua sorte, ho voluto evitare il colpo che ti arrivava: e tu mi hai lapidato!

E tu mi hai lapidato!… Ora sono stanco, dormo, e sogno, e canto:

“Non cancellate, onde, il solco delle gondole gioiose! Brezza, non portare il profumo dei respiri! Voglio morire sull’acqua. L’acqua è la vita, la gioia, il Lete ai dolori, il balsamo alle ferite, la freschezza alla febbre, la purezza, la resurrezione per quelli che sono morti, lo specchio dell’Avvenire e dell’Infinito. – L’acqua, è la libertà!”.

III

Oh Savoia! Amo la tua natura selvaggia, promettente la fecondità come una vergine innamorata; amo le dolci brezze delle tue montagne profumate d’infiniti profumi; amo il tuo cielo che ricorda le mattinate di Napoli e le serate d’Irlanda! Amo la tua grandezza e la tua forza!

Sì amo il paese delle Alpi brulle e delle valli fertili, la patria dell’aquila e dello scricciolo, dell’abete e del salice, del camoscio e dell’orso fulvo!

Guardatela! La sua testa è coronata da un casco di ghiacciai, innalza fino ai cieli il suo rosso pennacchio di rododendri; ai suoi piedi si allungano i bei laghi d’azzurro e i verdi nastri del giunco flessibile, le sorgenti termali che rendono la salute, le miniere che danno la ricchezza, le pianure dal grano d’oro, le praterie feconde. Sui suoi robusti fianchi cresce la vigna, la sempre giovane, l’inebriante, l’innamorata, la patrona dei gioiosi deliri che cresce non potandola e matura, stesa sotto il forte sole, pigra come un lucertola verde!

Amo il paese dove gli elementi amici si affascinano, si slanciano, si penetrano, si sposano in trasporti amorosi; dove si trova l’acqua nelle fenditure delle rocce, nuvole in equilibrio sui fianchi dei precipizi, valli prigioniere da geenne di pietra, ghiaccio estivo nelle case antiche, calore d’inverno nelle campagne fortunate che ricordano le tue, bella Andalusia!


Amo i ricchi torrenti estesi sui fianchi dei monti, come fili d’argento sulla fronte dei vegliardi; le cascate che scuotono nell’aria mille parti dei loro vestiti; l’arcobaleno che si specchia pacifico nel caos delle nevi e nella polvere delle acque; amo il Fier maestoso e limpido, che scorre con le sue onde impetuose attraverso le gole, simile agli eroi delle nostre lotte civili, intrepidi nelle mischie, simili a Guglielmo Tell, Washington, Buonarroti, Bolivar!

Amo il paese dove il cielo e l’acqua rivaleggiano in chiarezze e negli orrori più neri, dove i panorami sono grandiosi, i monti rosei e argentati; dove tutto è fermo e diritto; l’abete sui picchi, le stagioni sui loro troni, e l’uomo su un povero battello che l’uragano flagella, o nell’aspra montagna dove si rifugia il vento invernale!


Amo la patria dei valenti e dei forti, la Savoia battagliera, vivaio di guerrieri. Amo i tre colori e la croce delle sue bandiere. Amo la brava gente che rende amore per amore e franchezza per franchezza; il cui focolare è largo e l’anima aperta, che fanno mordere al fuoco solo grossi tronchi di quercia, e al cuore solo grandi sentimenti.


Qui tutto è nuovo, tutto è puro. L’aria è buona per i polmoni; la terra è irrigata d’azzurro, di sole, di freschezza, e le acque sono vive; la felicità grida nell’acqua, nell’erba, nel fiore. I bagni sono salutari; gli zefiri carezzano con tanta amicizia! L’uragano è sulle cime e la gioia nelle pianure.

E pensare che vi sono piante, uccelli e fanciulle che appassiscono nelle città mansardate, quando vi sono cieli di simili oasi! Oh! grandi detentori di soldi e di terra, piccoli emuli di quelli d’Irlanda che allontanano i poveri dalle magnificenze della natura, è proprio qui che vi maledico! Non sarò certo io ad incensarvi, ricchi industriali e agricoltori della povera Savoia.


22 luglio. – Al passo di cavalli pesanti, su di un carro di spighe dorate, l’Estate abbronzata percorre i campi…

Dall’alto dei monti discende la fresca dea, la Flora delle Alpi, l’incantatrice, la variegata, con la gonna gonfia di mille fiori. Ha raccolto la lupinella scarlatta, le labiate piene di api, le orchidee dalle figure allegoriche, la canapa dagli inebrianti profumi, la melissa e il caprifoglio, la pervinca dagli occhi blu e la radica dei boschi.

Oh! quanti ne hai sedotto, e dei maggiori, Flora, preferita dai cieli, ricca di tesori di tutti i climi! Sei tu che porti nelle lunghe trecce dei tuoi capelli, dalla testa ai piedi, la rosa rossa delle Alpi, la stella blu del San Bernardo, la veronica delle valli, la polio di roccia e il myosotis che costeggia i torrenti. Sei tu che amerebbero Jean-Jacques, Candolle, Humboldt e Saussure, tu che rendi i sentieri dell’Esilio meno deserti e le sue ore meno lunghe al mio amico Vallier.


La robusta Cerere delle piante, l’Ondina voluttuosa dei ruscelli, la Naiade dai capelli d’oro, che si bagna sulle rive del lago, si riparano dal caldo sui fieni secchi. Esse presentano all’Estate che passa il loro largo cestino dai colori cangianti. Là c’è il trifoglio dalla corolla zuccherina, le innumerevoli leguminose dalle ali bianche, blu, gialle e rosa, che si perdono nell’erba come altrettante farfalle. Là sono anche gli spessi ranuncoli, le garze volatili delle erbe, i papaveri scarlatti, i mirtilli, i grani, il tornasole infastidito nel suo portamento da gran signore, i gigli e le ninfee dalle corone d’oro e d’argento, gli steli slanciati del giunco, la margherita che sa i segreti dell’avvenire, e la regina dei giardini, l’adorata dall’usignolo, la rosa…


Gli uccelli gioiosi che possono cantare sempre senza mai stancarsi dei loro canti, vengono a veder passare il carro della loro grande amica.

“Salve! dicono, Estate benedetta che ci dai il calore e la luce, le lunghe mattinate e le serate sognanti, i frutti del ciliegio, i ribes rossi e bianchi, la fragola dei sentieri, il mughetto delle valli, il grano, i boschi, le aie, per noi e per i piccoli dei nostri amori.

“Siamo numerosi in questo paese, e vi siamo felici. Voliamo dalla palude al ghiacciaio, dal larice al sambuco, dall’abisso alle nuvole; popoliamo tutto, le erbe delle praterie e le fenditure delle rocce. La nostra vista può cogliere tutte le meraviglie della natura riunite attorno alle tue rive, caro lago incantato! I nostri fratelli del Lemano sono tristi e solitari; la natura che abitano è troppo vasta per le loro ali e per le loro voci; non possono né parlarsi né inseguirsi da un bordo all’altro dell’immensa tovaglia di cristallo; sono divisi come gli uomini; gli uni restano Svizzeri, gli altri Savoiardi.

“Oh radiosa Estate! durante i tuoi giorni di festa, non possiamo temere i fucili del cacciatore. La quaglia dal richiamo sonoro e la pernice spigolante possono cantare a piena gola le messi e il verde!”.

VI

Questo terreno che i miei passi misurano era calpestato da chi si chiamava Jean-Jacques. Sulla collina non lontana si possono vedere le rovine della casa che abitava.

(Il culto dei grandi uomini non riporta nulla alla povera Savoia. Il proprietario del terreno su cui si trova l’antica casa della signora de Warens, lascia crescere le ortiche sulle ultime pietre. Nei prossimi anni, quando le rive del delizioso lago di Annecy saranno meglio apprezzate e più conosciuti dal grosso dei turisti, questo stesso proprietario si sentirà preso da una venerazione immediata per la memoria del cittadino di Ginevra e farà piamente ricostruire la sua dimora. Oh! che grande trappola per il positivismo entusiasta degli Insulari! – Non mi si dica dopo di ciò che i proprietari non sono artisti, intelligenti e sensibili! Essi si degnano di fare entrare nelle loro profonde speculazioni la celebrità di un povero diavolo di filosofo…).

Nel mezzo di questa natura calma si riposava un poco la sua povera anima che, più tardi, doveva tanto soffrire.

Singolare uomo! Tormentato dai suoi pensieri come un ottuagenario; sensibile come un bambino alla minima prova d’affetto che veniva data; tremante come un profeta all’ora dell’ispirazione; fermo, ostinato nella sua inesorabile logica; a volte trasportato a volte abbattuto; rassegnato a tutte le prove della sua dura carriera; incurante della vita quotidiana come un poeta; menato per il naso da una governante che non amava ma che gli era indispensabile per lucidargli le scarpe.

Tutto ricorda il suo nome nelle contrade alpestri, in Svizzera e in Savoia: i fiori che raccoglieva; le brave persone con cui amava parlare; i freschi sentieri lungo i ruscelli dove passeggiava a testa bassa, perseguendo il pensiero così pronto a fuggire via; le sorgenti che ridono al cielo attraverso il velo di crescione verde; le poltrone di pietra nella montagna; le abbazie e i castelli che si slanciano nelle acque del lago, su più o meno delle isole cariche di alberi, simili a battelli di verde. Egli amava tutto ciò!

Mi sono seduto sugli scalini di questa casa; ho ripensato, nella mia memoria, alle prove che quest’uomo ha sofferto, e alle sue opere che prepararono una rivoluzione nelle società occidentali. – Era mattino; il sole arrossava l’orizzonte, mettendo in fuga le tenebre della notte con la sua polvere d’oro. E mi sono sentito fremere di quel divino rispetto che fa nascere in noi il ricordo dei grandi mortali. E mi ci sono abbandonato felice, senza contare le ore. Quando sono ridisceso il sovrano dei grandi astri rischiarava e vivificava tutto: era una bella giornata. Salve, Luce! Salve, Pensiero! Mi dicevo. Niente può contro di voi…


Oggi siamo a mezzo secolo di distanza da te, formidabile Rivoluzione di Jean-Jacques e dei nostri padri! Che cosa hai fatto tuttavia per coloro che mancano di tutto, per quelli che sono gravati di famiglia e d’imposte, per quelli che difendono col loro sangue l’eredità dei ricchi. Spettro sanguinoso! dimmi, che cosa hai fatto per loro?…

Che abbiamo fatto noi stessi?… Niente ancora, Cristo! E mentre che scrivo dolcemente queste pagine, steso sull’erba, all’ombra delle siepi fiorite, o nel fondo della mia barca dondolante sull’acqua blu; mentre che gioisco del sublime spettacolo delle tue magnificenze, oh natura beneamata! mentre che lavoro da artista secondo il mio gusto, per me, secondo le ispirazioni della mia anima… là, attorno alla mia dimora, sono migliaia di uomini che sopportano il peso schiacciante del giorno o il fuoco degli altiforni, mortale per la vita, per arricchire lo sfruttatore che beve il loro sangue, impoverisce il midollo delle ossa e fa credere, oh sfortuna, che li circonda di una paterna sollecitudine!… E lo fa credere e dire a chi, proletari, considerate come il più devoto dei vostri difensori!! (Vedi di Eugène Sue, [La marquise] Cornélia d’Alfi, [ou le lac d’Annecy et ses environs]).

Fin quando il Lavoro non sarà per tutti ciò che oggi è per me, riposo e voluttà; fin quando sarà miseria, oppressione, guerra e parassitismo nelle società dalle mammelle flosce… non riposare anima mia! non farti complice del delitto o soltanto dell’indifferenza dei felici di questo mondo.

Buona è la ridente poesia per gli uomini felici, per le società giuste, per i tempi di pace e di libertà. L’usignolo rispetta la tristezza dell’inverno, non canta i suoi amori che nelle belle nottate di primavera. Nemmeno io voglio insultare la miseria di quelli che soffrono; avrei piuttosto vergogna di non condividerla!

Non mi è dato di alleggerire le loro privazioni materiali; nessuno lo potrebbe. Tutto quello che si getta di libertà, di fortuna e di avvenire nell’abisso dei dolori moderni va a vantaggio, forzatamente, purtroppo! degli imprenditori e dei despoti. L’elemosina è insultante, e il sacrificio è oggi inutile. Il ferro non si spezza che col ferro, il denaro non cede che al denaro; la miseria non può guarire che con l’eccesso di miseria. Bisogna che il Male, l’Iniquità, l’Umiliazione, e la Fame, e la Disperazione, aumentino, aumentino ancora! Bisogna che esse devastino le società come i lupi spinti dalla voglia!

Oh, almeno, dato che le cose stanno così, dato che solo le società possono mescolare le società, dato che solo la guerra può svegliare le rivoluzioni addormentate; e dato che io non sono che un uomo senza denaro, senza ambizioni di potere, senza intrighi, senza altra forza che la poesia… Se le cose stanno così…

Resterò nelle mediocri condizioni che il caso mi ha dato; mescolerò le idee scandalose, frusterò le vendette feconde, farò gridare il Pamphlet stridente e l’amara Ironia!

Avvolgerò dei serpenti nel mio braccio e senza temere i loro morsi colpirò con le loro teste a dritta e a manca, in alto soprattutto, le pance troppo piene! E disturberò le loro digestioni e le loro notti beate!

Agli avvenimenti dirò: galoppate, galoppate su cavalli da battaglia, rotolate al rombo del cannone, superate la fanfara con trombe brillanti! Guerra, portaci la Pace, e tu, Furto, la Giustizia, e tu, Prostituzione, l’Amore! Inondate, Torrenti di fango e di lussuria, questa società nera! Squadroni nemici, Veleni e Piaghe, relitti dell’Inferno, schiacciate gli uomini, violate le donne, danzate, calpestate le città fumanti! Che non si sappia da dove venite né dove andate! Che si ignori perché avete cominciato, perché continuate, perché finite! Io vi seguirò, da solo, scarmigliato, salace, insoddisfatto, fino al mare di sangue dove andrete a dibattervi e morire. Vi ho dato la tonalità armonica, il tempo del valzer, quando ho gridato: Hurrah!!!


…La trentina morde i miei capelli come la fiamma bianca i carboni, come la neve gli abeti neri. E non ho ancora fatto niente per te, Umanità, madre mia, di ciò che sognavo! Oh! quanto è capricciosa e fugace l’Ispirazione! Quanto stanca e fa tremare! Oh! quanto è poca la nostra forza mentre i desideri sono illimitati! Il pensiero percorre i tempi e gli universi in un secondo, e la penna non sa scrivere, purtroppo! che una lettera per volta. L’istinto della giustizia, la passione del vero abbattono in un minuto le società inique; il fucile e la spada non uccidono un uomo se non dopo dieci colpi! Tuttavia, faccio quello che posso, accada quello che accada! Almeno, all’ora suprema, mi sarà permesso di incrociare le mie braccia sul petto e dirmi, addormentandomi: ho portato avanti il mio solco, e da solo ero appena sufficiente, e mi decorerò con le mie proprie mani dell’ordine della Buona Volontà!

V

Al mattino, il terribile sole abbraccia l’onda come l’innamorato che sveglia la sua amante adorata. La carezza, la stringe, la cova, la riscalda, la soffoca con i suoi raggi ardenti; respira il suo fiato; la fa arrossire, fremere, torcere, e morire, tuffando sguardi di fuoco nelle sue migliaia di occhi verdi.

Gloria a te, Amore santo!


La ballerina delle rive canta: “Gioia! Gioia! Sono la sorella di Venere, madre d’Amore e delle Grazie. Siamo nate nello stesso momento dalla schiuma del mare, e la forma del mio corpo richiama i voluttuosi fremiti dell’onda che mi ha messa al mondo. Sono fiera e graziosa: mi alzo nell’aria trascinando il mio amante con me. Noi ci inseguiamo, ci ostacoliamo, ci facciamo il solletico con le ali. E quando abbiamo troppo amato, beviamo a lungi sorsi la freschezza del lago blu.

“Gloria a te, Amore santo!”.


Quando il sole arriva al punto più alto della sua corsa, l’aquila reale si slancia dal sommo dei ghiacciai. Il suo grido superbo non arriva fino a noi che ci trasciniamo penosamente sulla terra. È l’aquila che dice all’astro del giorno: “Salve! Salve! amante del mio sguardo, sovrano dei mondi, Febo dai capelli d’oro! Quando tu ti alzi, i più bei popoli si prosternano per cantare la tua gloria. E quando ti corichi, i popoli più bravi spiegano le loro vele per inseguire in seno ai mari il tuo brillante incendio. Amo la tua luce e la tua fecondità. E quando abbracci la volta blu, giro il collo su quello della mia compagna fulva e canto e dico: sii felice, mia regina, di essere amata dal re dei cieli. E noi gridiamo tutti e due:

“Gloria a te, Amore santo!”.


La carpa dorata dorme sulle onde. Oh! quanto è felice nell’acqua il pesce! Niente arresta la sua corsa rapida; non è stanco del contatto con i suoi simili; non parla: è una fatica in meno per arrivare allo stesso scopo degli uomini chiacchieroni. A lui l’aria e il sole per alleggerire la sua gioia; a lui le pietre e gli abissi per nascondere la sua tristezza. A lui gli insetti dalle ali d’argento; a lui i piccoli innumerevoli generati senza dolore in un giorno di sole.

Gloria a te, Amore santo!


Il pescatore canta:

“Quando il sole è buono, quando l’uccello dorme sull’albero,

Quando il pesce gioioso sogna l’amore nell’acqua,

Quando la brezza dei monti, correndo sul marmo,

Diventa fresca e dolce al riposo:

Remo e sudo per non morire

La morte è più debole di me.

Così passa la vita: soffrire obbligare a soffrire,

Il delitto ha preso forza di legge.


“La gioia è solo nella tomba,

Il sonno è nella notte;

Tutto il giorno l’uomo soccombe,

Il suo duro lavoro è maledetto!

Non abbiamo più sulla terra

Che un solo piacere permesso:

Fare

Bambini a mezzanotte.


“Gloria a te, Amore santo!”.


Come un vecchio granatiere superstite della campagna di Russia, l’Inverno è fuggito nel suo mantello di neve. A lungo separato dalla terra che lo piange, il sole torna a stendersi nel letto della sposa; fa arrossire le rose e le ciliegie sulle sue felici gote. Lei ha i suoi ruscelli come collane d’argento, le sue foreste di pini e di castagni come corona; il firmamento è un velo d’oro e d’azzurro; le nuvole cingono i suoi fianchi con una sciarpa leggera. L’usignolo parla d’amore quando le campagne dei villaggi suonano i lamenti dell’Angelus e il Coprifuoco. È in queste ore pericolose che lo spirito arriva alle ragazze…

Gloria a te, Amore santo!


Quando tramontano gli ardori del giorno, le giovani bagnanti seguono la riva da vicino. Raccolgono la scabiosa e i ranuncoli, li stendono sull’erba e danzano attorno spogliandosi. Come ninfe sorprese, al minimo rumore si stringono le camicie di tela sulle spalle bianche, provano l’acqua coi loro piedi graziosi, tornano indietro, ritornano alzando grida gioiose e lunghi scoppi di riso. In fine, eccole immerse fino al collo, le pazzerelle. Questa vuole fare rimbalzare sull’acqua dei sassi piatti; quella imita le signorine verdi [di Ginevra]; l’audacia della più grande eccita l’emulazione delle compagne; la più piccola nasconde il viso spaventato nei lunghi riccioli dei capelli.

Povere bambine! Oggi avete ancora la salute, l’innocenza, il lago limpido, il sole caldo, e su di voi le montagne amate, un riparo per la sera. Possiate un giorno non rimpiangere tutto ciò! Che l’Emigrazione dalla gamba magra, la vecchia marchesa in stracci, non vi conduca in città lontane! Che l’infame reclutatrice non vi consegni alla prostituzione, al male, alla nostalgia, alle notti senza sonno, ai giorni senza pane. State lontane dalla Cupidigia, la barbara consigliera che porta agli abissi. Amate e vivrete accanto a chi vi ama, nel rustico focolare. L’Amore è tanto forte da riscattare dalla Morte!

Gloria a te, Amore santo!


Il sole si addormenta, illuminando le viscere del granito e gli ondeggianti pennacchi degli abeti. Colpito dal vento, il popolo dei giunchi sonori eleva nell’aria le sue mille voci frementi:

“Siamo i neonati della terra vergine che dorme nel fondo delle acque. Nostre nutrici sono le onde che ci coprono con le loro lingue trasparenti e ci bullonano mollemente al mormorio delle loro labbra. Siamo molti figli; nostra madre, la giovane Terra, è prigioniera negli umidi abissi; ci invia verso il giorno e l’aria come altrettanti sospiri di speranza. Andiamo alla conquista dell’elemento liquido come, fra gli uomini, i pionieri del pensiero avanzano all’assalto delle coscienze fredde. Dapprima lottiamo a fatica contro il furore delle onde, le scosse disperate dei venti e le barche pesanti. Poi cresciamo e ci moltiplichiamo; ci irrobustiamo, mettiamo radici, le facciamo penetrare nella terra e nella sabbia, diffondiamo i nostri grani dintorno e superiamo ogni resistenza.

“Andiamo, un passo… due passi… poi quattro. Invadiamo, serriamo l’impero del vecchio Nettuno dal tridente rammollito; accarezziamo le sue punte e moderiamo il loro slancio con i nostri discorsi ingannatori. Ogni anno i più forti fra noi soccombono, ma avanziamo sulle loro spoglie come, nella battaglia, i soldati ebbri. Con i nostri mucchi un nuovo suolo si forma; sale, sale… la terra arriva infine alla superficie della pianura umida. Invano i flutti urlatori cercano di riprendersi quello che hanno perduto: la terra resiste a tutto; noi combattiamo in suo nome!

“E quando essa ha vinto, le erbe più felici e più fragili, le piante parassite si installano nel suo seno gonfio, abbronzato dal sole. Noi gli lasciamo il posto. Perché amiamo le grandi lotte, la guerra degli elementi e la tempesta folle che ci sbatte nelle sue braccia. E tracciamo sempre, più avanti, più in profondità. Perché siamo gli steli verdi della promessa e i fiori dell’alleanza che la Natura, nella sua sollecitudine, fa riprodurre tra la terra e l’acqua.

“Gloria a te, Amore santo!”.


Chi potrà, Natura, celebrare degnamente i misteri e le risorse della tua infinita fecondità?! Sei tu che fai vivere il muschio sulle rocce, l’insetto nell’erba, e nella palude, nel mezzo delle grandi acque, la capinera chiacchierona che costruisce il suo nido con un’arte maggiore della rondine, e lo sospende con dei fili, come un’amaca, fra le canne agitate dall’uragano.

Ascoltate la sua canzone:

“Lascio al fringuello gli alberi del frutteto, al re del verde le spesse siepi, la vigna in fiore al fanello, al verdone della prateria, al rondone le rovine del castello. Per me amo i tiepidi vapori che dormono sulle acque e i sospiri delle brezze che attraversano le erbe marine. Sono l’amica del nuotatore e del marinaio; li avverto della presenza delle insidie, segno l’uragano che sta per piombare su di loro. E quando non distinguono più la loro strada se non al lucore sinistro dei fulmini, grido per l’angoscia e li dirigo, volando, alla non lontana riva. Oh! quanto è dolce amare nel mio nido di alghe verdi, quando gli elementi si scatenano attorno a me, quando mi dimenticano nel loro terribile abbraccio, quando fulminano la quercia!…

“Gloria a te, Amore santo!”.


Quando le Tenebre coprono la terra con il loro velo di crespo, quando la Raffica insensata fa scoppiare le cime flessibili dei salici e dei pioppi d’Italia, allora che il buonuomo Mezzanotte infila la sua testa grigia nel berretto da notte e conduce i suoi dodici sbadigli di tuono nei crepacci delle rocce… Allora i gigli delle valli, ripiegati sul loro stelo, piangono la luce assente, dopo che il diligente barcaiolo ha gettato la fedele ancora, avvolte le vele, seccato, verniciato, lisciato la sua barca così cara, come farebbe un cavaliere col suo cavallo… Allora che le Alpi tremanti, come giovani vergini, si accostano alla notte…

A quest’ora, il Cavaliere del Lago si alza pesantemente sugli abissi, perché è con fatica che sostiene il suo corpo bardato di ferro al di sopra dell’acqua.

Il nome del Cavaliere? – Si chiama forse Umberto dalla bianca mano, formidabile capo che per primo portò nelle battaglie la croce dei duchi di Savoia? – Forse è il Conte Verde, sterminatore dei Mori? – Oppure è Filiberto-Emanuele, glorioso vincitore di San Quintino? – La leggenda rimane muta. L’abisso mormora, vuole sangue fresco. Che non gli si parli di morti! Si abbia paura delle sue collere tenebrose e degli insaziabili appetiti che questa parola risveglia nelle sue viscere!

“Mi si conduca il mio corsiero sardo! Voglio scalare i monti alla cui guardia è stata assegnata la mia razza”. – Così disse il Cavaliere.


Tutto intorno al lago si estendono le scuderie di cristallo rinfrescate da mille sorgenti sgorganti e profumate alle erbe marine. Più di mille cavalli sono incatenati da cavezze d’oro a stalle di marmo. Mai se ne dissetarono più belli e robusti negli abbeveratoi di alabastro del palazzo della Lidia; mai quelli di Serse ebbero così grande abbondanza di melissa, di salvia e di menta piperita.

Al richiamo del padrone corrono i paggi servizievoli. Mai una cavalcatura berbera sentì più velocemente il proprio nome di Bravo, il corsiero sardo, quando gli scudieri lo chiamavano da un capo all’altro delle scuderie sonore.

Bisognava vederlo colpire il suolo con la zampa e sprigionare scintille sotto l’argento degli zoccoli. Bisognava sentirlo trascinare la sua catena d’oro sulla pietra venata, poi superare la porta e drizzarsi sulle zampe posteriori!

Lo si sella, lo si imbriglia, gli si mettono alle zampe dei ferri palmati in meno tempo che mi occorre a raccontarlo.


Dal momento che il cavallo sardo sente sulla sua criniera la mano ferma del padrone, i suoi fianchi si alzano e il sudore imperla i suoi peli lucenti. Da due anni non è uscito.

E quando il Cavaliere dalla pesante armatura inforca i piedi nella staffa, la Savoia risuona come un tamburo di bronzo colpito da mille colpi in una volta.


Il Cavaliere del Lago erra per monti e per valli. Vedendolo, Febo gioioso sembra ricordarsi del suo divino compare, il temibile Marte, quando portava la corazza forgiata da Vulcano.

Che cerca il Cavaliere? – Nemici da combattere? No, ne ha tanti e tanti stesi davanti ai piedi del proprio cavallo che adesso ha paura del sangue e vede ogni notte, nei suoi sogni, le teste separate dal tronco con occhi dagli sguardi bluastri che lo minacciano.

Che cerca il Cavaliere? – Camosci oppure orsi? No, tante volte ha cacciato la lama del suo coltello nella gola delle capre, ha sgozzato i cuccioli, affumicato le volpi, che la montagna è vedova dei suoi abitanti, e vi si camminerebbe per anni senza sentire i trastulli di due fiere.

Restano ancora sulla sommità della nevosa Tournette una coppia di aquile, fiere di essere rimaste padrone della contrada con la morte di tutti. Hanno cantato a lungo, l’altra sera, al tramonto. E il Cavaliere sanguinario le ha scoperte nella notte. Col suo guanto di ferro ha fatto pressione sulla femmina che copriva i piccoli; ha tutto schiacciato.

E l’aquila maschio ha cercato di cavargli gli occhi, ma ha spezzato il suo becco sul cimiero dell’elmo da combattimento. Morente di dolore, ha lasciato la sua montagna natale, e dopo questa notte funesta percorre le Alpi gemendo. Non vuole un’altra compagna; batte con la sua ala tremante le punte dei ghiacciai, e beve l’acqua delle nevi per rinfrescare il suo sangue.

Che cerca il duro Cavaliere? – Affascinati dai riflessi della corazza gli orrendi figli della notte gli fanno da corteo.

Lui, con la punta della spada brillante, sposta la testa di quelli che passano troppo vicino; il suolo ne è tutto nero. Ah! se non distruggesse che i gufi, il Cavaliere del Lago!

Che cerca dunque? – Lascia avanzare il cavallo a piccoli passi; non ha neanche tossito da quando è uscito dal suo umido palazzo. E tuttavia gli sguardi tenebrosi tradiscono i selvaggi ardori delle sue viscere. Serra il cavallo tra le gambe magre con un movimento nervoso che non ho mai visto fare a un cavaliere; i suoi denti stridono, la bocca è piena di una schiuma rossastra: una tigre spaventerebbe di meno. – Che cerca il Cavaliere maledetto?

– Non ti impazientire, lettore, lo saprai troppo presto se la tua anima è sensibile al racconto delle grandi disgrazie. –

Sotto la betulla dalla bianca corteccia, alla luce delle stelle tremanti, si è addormentata la pastorella delle Alpi. La sua gola è nuda, le sue mani tremano, il sudore scorre dalla sua fronte: sogna l’amore. – Collera dei venti, lasciala dormire!

L’ha vista il Cavaliere del Lago: “Prepara i tuoi fianchi, dice, mio buon cavallo, per la mia nuova fidanzata”. E sanguinosi desideri salgono alle tempie pulsanti. E la vertigine corre nella testa. – Collera dei venti, risveglia, oh! risveglia la pastorella dal seno nudo!

L’uomo ha messo piede a terra. Il cavallo fiuta le erbe balsamiche. Il cane del gregge si slancia per difendere la sua padrona e cade vittima della sua fedeltà. – Siete onesti, ma siete deboli, vi sarà fatto altrettanto.


E la carica sul dorso del fiero corsiero il Cavaliere maledetto! Dagli arcioni della sua sella, prende delle corde di seta macchiate di sangue e le passa sui fianchi della fanciulla piangente che chiama la madre. Due nodi, tre nodi… “Soffro, mio grazioso signore, risparmiami!”. – E solo la Tempesta le risponde col suo riso infernale.

Ma lui stringe ancora di più la fanciulla tremante, e gli chiude la bocca con la criniera del cavallo. Poi mette tra i denti di marmo i due capi della corda assassina, quindi spinge fino in fondo i suoi speroni nel ventre della bestia. – Non era la prima spedizione di questo genere che facevano insieme.


“Avanti, Bravo! Vola sull’ala della Notte, per le gole e le rocce, le foreste e i fossi; come l’attimo che passa, sbalordisci l’aria e i venti con la rapidità della tua corsa! La fortuna è bella. Avanti! Avanti!”. – Amava tanto il suo cavallo, il Cavaliere del Lago.

Un salto ancora! Ed eccolo sul bordo dell’abisso beante. Le canne fremono ai nitriti ben noti del corsiero rapitore; nelle case delle rive le donne s’inginocchiano santamente; l’Eco trema nel suo vestito grigio e ripete i monotoni esorcismi del clero savoiardo.

Un salto, un salto ancora! Eccoli sospesi tra il cielo e l’abisso; l’acqua turbina, schiuma d’allegria; un lampo acceca il Cavaliere che lancia un grido di rabbia. Avanti! Avanti!


Come un blocco di granito distaccato dal bianco dei monti, il gruppo vivente affonda nei flutti che racchiudono su di lui il loro lenzuolo verde. Il lago esala un lungo sospiro soddisfatto, ha la sua preda; non la restituirà più!

Senza dubbio, purtroppo! il Cavaliere voleva andare a letto con la pastorella delle Alpi, e poi collocarla in uno dei sarcofagi preparati per ricevere le vittime dei suoi focosi trasporti.

Il Silenzio che dorme si estende un istante sulle tracce che il Delitto ha lasciato sulla faccia delle acque…


Un’ora dopo, sotto il cielo stellato, sull’acqua fosforescente, un pescatore dirige la sua barca leggera cantando i suoi amori. Ai raggi della luna distingue due corpi che appaiono e scompaiono a ogni istante. Li raggiunge con due colpi di remo, poi, con grandi sforzi, li corica nel fondo della sua barca.

Uno respira ancora, lo contempla con tutta la passione che dà un primo amore, e muore… Era la pastorella delle Alpi, la figlia bruna di Mentone, la fidanzata del bel pescatore di Talloires.

Perché la Morte crudele non porta via mai gli uomini che gusterebbero al meglio le sue amare consolazioni? Dio d’amore e di grazia, tu solo puoi sapere ciò che avrebbe dato il giovane pescatore per seguire la sua amante nelle grotte di cristallo che scintillavano sotto le acque!

Egli prende la sua testa tra le mani e si mette a piangere. Quanto soffre l’uomo quando i singhiozzi pervengono a forzare il passaggio della sua gola!


Tuttavia la fragile barca è sovraccarica. Per la prima volta essa affonda al di sotto dello specchio azzurro e il flutto, suo nemico, la sommerge grondando. Così viene a bagnare le gambe nude del pescatore e lo sottrae per un istante al suo profondo dolore.

Il pericolo è pressante, mortale. Il robusto battelliere vuole separare il cadavere della sua fidanzata dal guerriero bardato di ferro che la tiene fra le sue braccia. Ma non può separarli. Tanto sono tenaci i legami che riesce a tessere il Delitto!

Un tappeto di capelli della povera fanciulla è attaccato al collo del Cavaliere del Lago; nessuna forza umana potrebbe staccare questi capelli dalle carni assassine. Nell’agonia del suo onore, senza dubbio la vergine ha serrato così forte la gola del carnefice che ha tagliato con la sua capigliatura nera il colletto della sua corazza, per cui lui è morto strangolato.


La fossa muggente si apre. Nel fondo sorridono i pesci dagli occhi verdi che si rifocillano con la carne dei cadaveri. La barca alla fine si rovescia. L’abisso insaziabile attira tutto…

Per molto tempo l’agile nuotatore disputa al furioso elemento i resti del suo amore. Ma le forze si esauriscono; abbandona quindi al suo destino ciò che aveva di più caro, e l’istinto supremo di conservazione gli ritorna per chiamare aiuto.


È l’alba. I contadini mettono il naso alla finestra di cartone e si sfregano gli occhi per vedere da dove partono le grida di angoscia. Corrono ora da uno ora dall’altro, si agitano, discutono, disputano molto per non fare nulla. E venti volte il pescatore sarebbe morto se non avesse avuto due buone braccia per ricondurlo alla riva desiderata.


Quando riprese i sensi raccontò nel villaggio di Talloires la spaventosa catastrofe della notte. Poi non salì più nella sua navicella né danzò più né corteggiò più le ragazze del villaggio. Spesso i battellieri gli riferirono di aver sentito, verso l’alba, come dei singhiozzi, nel posto dove si era svolto il lugubre dramma.

… Era la voce dell’abisso? O quella del Cavaliere del Lago? Oppure i sospiri d’amore che la pastorella di Mentone inviava dal fondo delle acque al suo fedele fidanzato?…


… Da allora, in queste belle contrade, non si è più risvegliati la notte dal galoppo serrato del corsiero di battaglia. E le ragazze se ne vanno gaiamente a danzare sulle montagne, al chiaro di luna, senza temere sconosciuti rapitori.


– Non ridere, lettore. Non è stata solo la mia immaginazione a trovare quello che ho scritto. Questo racconto è il semplice riflesso di drammi troppo reali contro i quali inciampano ogni giorno i piedi del pensatore che attraversa il mondo e sente battere la propria anima in seno.

Ragazze! non addormentatevi sotto i lampadari, nelle braccia di un vecchio cavaliere da valzer! –

VI

Abisso, abisso! Quante vittime ha divorato la tua rabbia! Quante ragazze hai preso intorno a mezzanotte, quando i loro fidanzati le stringono la mano! Quanti ragazzi che tendono coraggiosamente le loro vele contro la tormenta! Tu hai attirato il pescatore e il battelliere, gente dura che cerca la propria vita fra le onde; il proscritto che si riposa un istante sulle tue rive; il bambino che gioca e non sa nuotare; il vecchio la cui esperienza aveva stornato tante delle tue trappole mortali!

Le onde blu si distendono sul proprio bottino, corrono, corrono; il freddo le rende bianche, la rabbia cieche, il tuono le segue col suo rumore schiacciante. Esse ritornano quello che erano in cima ai monti: fredde come la neve, insensibili come la tristezza, spaventose come la solitudine, innumerevoli come i secoli dell’eternità, causa di naufragio e di morte!

Il Dio delle nevi è seduto su un picco rischiarato dal sole morente; sotto i suoi piedi sono i ghiacci eterni. Una stella più brillante delle altre risplende fra i suoi capelli. Così l’uomo passa e ripassa senza sosta tra il bianco lenzuolo della morte e la luce ardente delle resurrezioni.

Tale vista riporta l’anima mia verso l’Eternità!

VII

Sogno spesso che potrei morire in questo paese, senza posizione sociale, senza ricchezze. Senza considerazione. Senza raccomandazioni ufficiali; fuori delle nazioni, fuori delle leggi, fuori del mondo degli uomini che gronda attorno a me!

Sogno che in questo caso non sarei libero di dire ai miei amici: “Prendete il mio corpo, circondatelo di iris e gladioli; portatelo sulle rive del lago con l’armonia degli inni di libertà. E gettatemi nell’acqua canterina, con la penna in mano e il mio Byron sul cuore!”.

Sogno che esistono sotto tutti i cieli le vittime predestinate della tirannia, dell’usura. Sono gli uomini che rifiutano di associarsi al brigantaggio degli altri, ai loro spergiuri, ai loro assassinii legali; gli scoscesi, gli aguzzi, gli inopportuni che si levano senza sosta contro le società, come l’eterno rimorso delle loro coscienze in pena!

Sono i proscritti… Quelli che si spogliano, che si cacciano come lupi, che si spediscono, da un continente all’altro, con minori precauzioni delle balle di merci! Quelli fra i quali si pesca come in un vivaio, fra i quali si fruga come in un battuta: fin quando non ne resta nemmeno uno per gridare: Libertà! Quelli contro cui si impiega durezza e coraggio perché non c’è niente da temere dal loro isolamento e dalla loro debolezza! I piccoli regali che i governi si fanno reciprocamente per mantenere la loro sacrosanta amicizia! I giocattoli viventi che divertono i prìncipi quasi morti! Quelli che tutti gli asini, porci e mastini, divoratori di bilanci, cercano di raggiungere per respingerli con la punta del piede! Quelli che sono fuori della vita, fuori della morte comune, perché hanno giurato di conquistare il diritto di vivere a spese di tutti!

Sogno infine di essere uno di questi uomini… e che non ho che un diritto contro questa società: il diritto della coscienza e della dignità fiera, il diritto di inghiottire l’insulto nel silenzio delle notte, di serrare i pugni sul mio cuore, di accumulare l’odio e di promettere una vendetta terribile nel mondo in cui siamo, o piuttosto in un altro…


Aspettando, voglio morire fuori dell’opinione, della legislazione e del costume; libero come sono vissuto. Voglio una sepoltura ignorata, lontana dalle città fangose, nel più freddo dei ghiacciai, ai piedi dei salici, sotto le fustaie o nelle onde, come ho scritto e detto tante volte.

Quando sarà morta la volontà di ferro che, così spesso, mi preserva dalla sporcizia, non voglio che il capriccio o la paura consegnino il mio corpo a una qualsiasi autorità. Nessuno di voi ha diritti sulla mia persona, domestici del potere! Sono morto civilmente, non faccio più parte del gregge, non sono più per il mattatoio né per il cimitero, non sono una cosa da sotterrare, da fare a pezzi, da falciare.

Indietro, preti e spretati! Non toccatemi. Non ho bisogno né dei vostri registri né delle vostre pergamene né dei vostri atti. Le vostre candele hanno l’odore del vecchio caprone innamorato, la vostra acqua benedetta è un veleno, i vostri uffici puzzano di impiegato, le vostre preghiere risuonano alle mie orecchie come rosari di bestemmie! Fate pagare tanto per un crocifisso di legno e tanto per un crocifisso d’argento! Violate la suprema uguaglianza, l’uguaglianza della tomba! Vendete da diciotto secoli, prevaricatori infami, i nobili tratti del Cristo che si è dato per noi!

Ah! se mai doveste introdurre il mio corpo nella vostra chiesa d’inferno, la rabbia che mi ha tante volte eccitato durante la vita sarebbe ancora così forte da galvanizzarmi. E alzandomi in tutta la mia altezza, gli occhi brillanti, il braccio nudo, strapperò i vostri stracci neri e li disperderò ai quattro venti nei cieli! E griderò: Anatema, Abuso e Sacrilegio! E voi tutti scapperete, la coda tra le gambe, spaventati d’avere violato il segreto di un sarcofago!!

Sì, se osaste tanto, sarei obbligato, da morto, a tenere fede alla mia parola da vivo! C’è in me non so che forza sovrannaturale che farebbe questo miracolo e vi getterebbe nella costernazione!


Strana tirannia quella che vi prende nella culla per non lasciarvi che nella tomba! Tirannia che non è possibile allontanare dalla propria testa che con una ribellione esemplare e continue sofferenze! Perché mai non dovrebbe essere permesso morire senza essere fatto a pezzi da pubblici ufficiali? Perché non potrei indicare a un amico il luogo deserto dove penso di trovare riposo, e le preghiere di chi mi accompagnerà senza corteo, all’alba di un mattino? Perché, nel momento di prendere congedo da questo mondo che aborro, devo inviargli delle lettere di spiegazione, e fornirgli io stesso una base per i suoi sarcasmi?

Ma, in definitiva, a chi appartiene il suolo che calpestiamo? A qualche centinaio d’istrioni che si fanno chiamare re e ministri? Oppure a tutti gli uomini? A me come agli altri? Pretendo averne una parte, entrare in questo mondo e uscirne come mi piace, esente da estrema unzione e da battesimo!


Umanità abitudinaria e vigliacca, fino a quando piegherai la schiena sotto il lenzuolo nero che i preti e i governanti tendono al tuo passaggio. Quante tappe percorrerai ancora nell’acqua benedetta e nel sangue? Vedi forse gli animali della foresta venire, come gli uomini, a dichiarare le loro nascite, le loro unioni e le loro morti all’ufficio dei più forti? Li vedi confessare, come peccati, i segreti delle loro famiglie, vergognosi, arrossenti, non sapendo come comportarsi, rigirando fra le dita i peli dei baffi? Vedi che gli si chieda loro conto, come da noi, del numero dei piccoli e dei mezzi d’esistenza? Vedi che gli si assegni un posto per riposare, quando cadono in seno alla terra, stanchi del peso della vita?

Ah! quante volte sarei tentato di dire, con Jean-Jacques: ritorniamo alla ferocia primitiva! E quante volte mi dico, come Guerrazzi, il cantore moderno della grande Firenze: “Gli animali hanno anche loro le passioni, e spesso meno cattive di quelle degli uomini. Noi, quando vogliamo offendere un uomo lo chiamiamo bestia. Se le bestie possedessero la parola per ingiuriarci, quante volte direbbero: Uomo!… E con maggior ragione di noi”. (Assedio di Firenze, [Paris 1836]).

E che può dare il governo ai vostri corpi, uomini paurosi, che gli chiedete un ultimo asilo? Sei piedi di terra appena in un luogo banale, rigurgitante della putrefazione di migliaia d’altri. Un bel letto, un letto pulito, in verità! Vale la pena di fare tanto cammino per tutta la vita allo scopo di arrivare in un posto simile!

Ma guardate dunque l’universo! La natura non è forse più grande, più calma, più splendida dei cimiteri degli uomini? Forse vi impedisce l’accesso a qualcuno dei suoi meravigliosi siti prima o dopo la morte? Non avete che da scegliere i monti, le valli, i mari, i laghi e i fiumi, gli alberi, la pietra, l’onda o il ciuffo d’erba che amate di più per dormire il vostro buon sonno. Là avrete le piogge, le brezze, le lacrime di rosa, i vapori trasparenti per rinfrancarvi dalle fatiche; là avrete il sole per asciugare i vostri sudori. Là non sarete più importunati dal rumore dei viventi né dalla paura dei morti; là sarete dolcemente cullati dal concerto delle armonie selvagge!

Non siete stati anche troppo tempo schiavi sulla terra? Volete esserlo anche sotto? Dove, e quando, finalmente vi apparterrete?


Quando morirò lascerò quel che resta della mia argilla a chi sa mantenere le proprie promesse. E gli farò giurare di non lasciarmi sporcare da nessuna autorità, e di andare a rimettermi in seno alla natura, nel posto che indicherò. Perché non voglio compromettere gli uomini di oggi rendendoli complici di una simile rivendicazione: so bene quanto fra i più indipendenti dipendono ancora dall’opinione, dall’interesse.

E se qualche funzionario viene a chiedere perché è stato fatto in questo modo, la persona da me indicata risponderà: “Perché mi ha fatto comodo così. Che cosa volete? Chi siete? Non vi conosco. Non ho nulla da rispondere. Con quale diritto mi bloccate? Colui che non è più sulla terra è vissuto libero, malgrado voi, ed è morto libero, anche questa volta malgrado voi. Andate a cercarlo nelle acque che lo trasportano da riva a riva! Ho fatto per lui quello che lui ha giudicato giusto fare. Incriminatemi, se l’osate, voi che non conoscete né il prezzo della libertà né la religione dell’attaccamento!”.


… Conosco due esseri al mondo, una donna e un uomo, ai quali chiederei un simile servizio, e che lo eseguirebbero a qualsiasi costo. In verità, che importanza hanno le amicizie del mondo, i favori, gli onori, le persecuzioni e gli odi a chi può contare su affetti simili? Che importa l’opinione, la fama, la gloria a chi conosce le ineffabili gioie che dà l’amicizia e l’amore?

Potere, Potere! ti sfido a farmi rimpiangere un solo atto della mia vita d’artista e di uomo onesto! Ti sfido a rendermi scontento quando sento la mia mano nella mano di un amico, quando il mio cuore batte sul cuore di quella che amo, quando i sogni notturni mi portano, sulle loro ali d’oro, i graziosi sospiri di una madre che non mi ha mai fatto soffrire che per eccesso di tenerezza! Ti sfido ad avvelenare la mia vita facendomi dubitare degli affetti che mi hanno teso la mano quando ero nel più profondo abisso di miseria, di calunnia, di disperazione!


Non perdere dunque il tuo tempo, Potere, ad accanirti su chi ti disprezza. Continua piuttosto sul tuo cammino glorioso; prendi Sebastopoli e Mosca, temibile guerriero! Prendi la luna anche, inghiotti il mare e i suoi pegni, Gortschakov, Nuraviev, lo zar, il grande Costantino e le loro navi piene di macerie: mangia tutto, digerisci tutto e che ti siano leggeri! Trattieni anche il sole sul clivo del Tramonto! Tutto ti è permesso, tutto ti è possibile. Non sei forse l’invincibile, il terribile, il grande vincitore che, con un colpo della tua spada di legno, da un capo all’altro d’Europa, disperdi gli innumerevoli battaglioni dei proscritti, come in altri tempi la giumenta di Gargantua disperdeva, con la sua formidabile coda, le mosche bovine che la infastidivano nella sua marcia trionfale? Ecco, Potere, amico mio, se mai dovessi tornare dalla Crimea, ti comprerò un’aquila viva per cantare le tue conquiste…

Una pagina del mio dossier tratta dagli archivi della polizia

Homo homini lupus

Hobbes

Track’d like wild beasts, like them they sought the wild,

As to a mother’s bosom flies the child;

But vainly wolves and lions seek their den,

And still more vainly men escape from men.

Byron

Così volavano i miei pensieri attraverso l’immensa natura, come uccelli viaggiatori che si richiamano, si riuniscono e passano sulle nostre teste, incuranti delle fatiche e dei languori del viaggio. Così scrivevo d’amore e di odio, di miseria e di gioia. Così ritornavo insensibilmente alla pienezza dell’esistenza. Così passavo i miei giorni come le notti sognatrici…

Ma come prevedere l’astuzia? Che fare contro la forza? Come preservarsi dai grossolani contatti con i poliziotti e con il loro respiro infetto? Conosco un sistema: chinare la schiena al bastone e la gola al collare, trascinare con noncuranza la catena del padrone, chiamarsi cane, borghese, contribuente o valletto. Preferisco la libertà in ogni caso, l’aria dei monti, il castello sperduto tra gli abeti, il bastone di viaggio e i sogni vagabondi dei figli di Bohème!

Non è che la polizia sia intelligente, è bestia come un calzettaio; – non è che sia bene informata, raccoglie sempre le chiacchiere che corrono nelle strada da settimane: al momento cerca ancora Mazzini in Svizzera; – non è che sia tenuta in considerazione, nessuno può parlare di avere rapporti con essa senza disonorarsi; – non è che sia pulita, i suoi agenti non possono comprarsi che guanti da gendarme e saponi alla rosa; – non è che il suo personale sia sconosciuto, la spia è individuata alla prima occhiata da ogni uomo onesto: non ne sostiene infatti lo sguardo; – non è che sia colta e raffinata, è reclutata fra gli uomini più ignoranti e grossolani; – non è che sia abile, essa è soltanto brutale; – non è che sia attiva, i suoi dipendenti passano le giornate a domino e le notti a puttane, si ubriacano e mangiano come porci all’ingrasso: il resto del tempo è a loro disposizione.

Ma essa è la polizia, il palladio della società, l’amministrazione preferita; ha molti impiegati, abbastanza soldi, un po’ d’oro; è lo specchio attorno al quale planano le migliaia di ali della Lussuria; è l’amante cortigiana di cui tutti cercano i favori e il denaro; è il concime caro alle mosche! Ufficialmente o ufficiosamente l’immensa maggioranza dei miei contemporanei si fa mantenere; per le donne va benissimo, lo devono alla loro bellezza; ma per gli uomini è imperdonabile, è la loro bruttezza che vendono. – Per cui di colpo di fortuna in colpo di fortuna, di spiata in spiata, di riffe o di raffe, la polizia finisce, dopo molta carta sporca, sudore diffuso, per incappare sulla vostra pista… quando non vi date la pena di nasconderla.

Tutto questo per raccontarti, lettore, che un giorno in cui pensavo a darti qualche cattivo pezzo alla mia maniera, il 22 luglio, ho ricevuto da non so quale pagliaccio dell’intendenza di Annecy l’amabile invito a presentarmi l’indomani davanti al suo padrone.

Coltivi chi voglia la conoscenza di monsignore il proconsole piemontese, non vi vedo alcuno ostacolo se coloro che lo fanno sono in regola con la propria dignità; ma io me ne priverei il più a lungo possibile. Continuate a fare il vostro mestiere, illustrissimo funzionario, ma non contate sull’onore di una mia visita. Vi mando un saluto con quattro dita, il pollice e la punta del naso e vi prego di gradire l’assicurazione della mia più alta considerazione.


Sorrido ancora di disgusto, come qualcuno che volendo fare una passeggiata si ricorda del contatto con un rospo in un bel prato dove pensava di sognare, come un goloso che apprestandosi ad assaporare una pesca succosa morde un… verme! E sorriderò a lungo, così a lungo che il mio riso farà girare la tua parrucca, portinaio che custodisci le chiavi e i costumi della buona città di Annecy in quel di Ginevra!

Ai dieci, cento, o più fra i perspicaci che mi leggono chiedo di indovinare: perché mi trovai, in un bel mattino d’estate, bandito dalla Savoia dorata dal sole? E faccio seguire la proposta di questo enigma con altrettanti punti interrogativi ed esclamativi quante sono le vallate e i picchi sul naso pittoresco del venerabile presidente Dupin: ?! ?! ?! ?! ?! ?! ?! ?! ?! ecc., ecc., ecc.

Che torto facevo dunque alla povera Savoia? – Quanto di più ne facevano i governi sardi, i grandi proprietari e gli industriali indigeni, i bancarottieri fraudolenti che vivono nell’ozio, gli addormentatori ufficiali della Democrrrazia frrrancese! – Chi si lamentava del mio soggiorno sulle rive del lago incantato? Faccio retrospettivamente un severo esame di coscienza. Non mi ricordo di avere una sola volta guardato, senza il rispetto dovuto a questa istituzione, il fiammeggiante pennacchio dei carabinieri del re. Sono anche sicuro di non avere mai avuto un’idea che fosse di natura tale da sovvertire lo spirito del più sveglio degli abitanti di Annecy. Non mi posso accusare, in coscienza, d’avere mai camminato sui piedi di nessun dignitario locale. Il padrone di casa, che avevo pagato in anticipo, non è certamente più contento di me di queste misure dittatoriali; neanche la donna di servizio della casa, una buona donna che bagnò molti fazzoletti il giorno della mia partenza. Mi sono scrupolosamente guardato dal minimo apprezzamento irriverente riguardo i signori rifugiati, perfettamente blu e frrrancesi, tollerati e stimati nei reami statali. I buoni contadini, i bei ragazzi e i cani da caccia del vicinato erano tutti amici miei. Sono troppo sognatore, troppo amico del mio riposo e del mio lavoro per uscire dagli intimi godimenti del focolare e passare un solo secondo del mio tempo al caffè; mi rispetto troppo per occuparmi di politica e di polizia, per vedere gente; non parlo che a due o tre amici. Un uomo come me è un incubo per le autorità; essa non può trarre né una informazione né una imprecazione né un sì né un no, nemmeno un punto da mettere su una i. Quale pretesto fra i più zelanti potevano dunque trovare per bandirmi dai tranquilli domini di S.M. cristiana?… Tra mille, tra diecimila, lettore, ti lascio ancora…

Ma voglio aiutarti un poco. – Se la polizia ha deciso di giocarti qualche cattivo tiro, non sono certo i motivi che le mancheranno, anche se non gliene fornisci più di quanto Bonaparte dia felicità alla Francia con tutti i suoi soldi, il suo onore e il suo sangue. Che tu possa convincertene ma non per esperienza personale, lettore amico mio! In verità ti dico che la polizia bisogna che trovi dei pretesti; e quello che ha portato alla luce contro di me… te lo do uno a centomila, a un milione!

Tu non indovini, resti muto, me lo aspettavo. Il fatto è che, intelligente come tu devi essere, non sapresti mai immaginare simile povertà di spirito in persone che hanno tutto a loro disposizione, fino agli accademici, fino ai detenuti liberati, fino a [Henri Joseph] Gisquet, fino a [Eugène François] Vidocq, fino al delitto… Voglio dirtelo: le spie dei briganti europei della polizia mi accusano di follia! Sì, rileggi questa frase, apri bene i tuoi grandi occhi e i condotti uditivi, lettore; le spie hanno decretato, me, folle!!


Al diavolo il tono serio quando parlo di simili canaglie. Datti la carica, mia buona penna d’acciaio: alla russa, scorticali!

Ah! mastri staffieri, signori porta-budella, bei valletti di carnefice, maleducati mal soffiati e mal leccati, cani rognosi di prefettura… siete voi, siete voi gli infami, i disprezzati, gli ignari, i fannulloni, voi che mi accusate di follia?! Ma sentite le risate, e vedete che sono per voi!

Ah! miserabili ubriachi, eravate pieni fino alla gola, eravate fuori quando avete inventato ciò. E ciò non è sufficiente, perché l’ispirazione non mi aiuta.

Prima di tutto apprendete a rispettare l’ortografia nei pezzi di carta che inviate alla gente. Vi conviene portarvi uno specchio quando andate a sedervi in qualche cabaret guercio, in mezzo ai vostri moralissimi compagni di gozzoviglia. E poi mi direte, voi stessi, se è possibile che dei pensieri muniti di un senso qualsiasi possano uscire da teste d’asino come le vostre?!


A dire il vero sarei curioso di conoscere la testa pensante della vostra banda, a cui spetta l’onore di una così importante scoperta!

Perbacco! deve trattarsi di un cranio d’eccezione, quello che riesce a contenere un cervello così rimarchevole! Perché non circondate le sue tempie dell’alloro di Apollo o della quercia di Ercole? Perché non l’inviate al professor [Louis Françisque] Lélut dell’Istituto, o al professore [Ulysse] Trélat, ex ministro, che hanno fatto tanti studi coscienziosi sulla fronte dei cretini, degli idioti, dei pazzi e dei filosofi? Perché non fate impagliare quest’uomo e colare del piombo nella scatola del suo malizioso intelletto? Non lo trovate troppo ingegnoso per un uomo solo? Perché non gli date in matrimonio qualche principessa di difficile collocamento, allo scopo di elevare, se possibile, la media intellettuale delle razze reali? Perché non costruite un Pantheon solo per lui? Perché non supplicate S. S. Pio IX di canonizzarlo? Perché non lo nominate vostro plenipotenziario a Monaco? Perché non lo mettete all’inseguimento del cittadino Soulé, il grande serpente del mare delle Antille? Perché non lo inviate a qualche esposizione zoologica per il premio di perspicacia? Perché non lo mettete in mostra facendo pagare un soldo? Perché non lo decorate?!…

– Perché non so, in fede mia, come potete ricompensare degnamente un così prezioso soggetto, un funzionario che ha salvato la Savoia del più incorreggibile degli anarchici! –


Se tu mi credi pazzo, razza venduta, sarai felice di agitare i miei campanelli fra le masse e domandare al buon senso pubblico la giustizia che mi è dovuta. No, tu non persegui i pazzi con tanto accanimento; no, non li fai espellere da tutti i paesi d’Occidente. Se tu non lo temessi non circonderesti delle tue attenzioni speciali colui che ha come sola forza il proprio pensiero. Ne avresti vergogna e non vorresti vederlo prima che si veda lui stesso. No, tu non manterresti a Torino, Berna, Ginevra, Losanna e Londra qualche spia in suo onore. E non lo faresti avvicinare nella strada da agenti disprezzabili, tarati, identificati, conosciuti da tutti, che lui non vuole conoscere affatto.

Dite dunque, dite dunque, magnifici Rettori, compromessi più di quanto non lo siano mai stati i governi; confessate che una parola chiara vi fa tremare come un insieme di mosche; – che le mie predizioni vi hanno fatto venire la pelle d’oca; – che temete di non riuscire sempre a soffocare il mio pensiero. No, non ci riuscirete, lo giuro, ed è vicino il giorno in cui esso sarà esteso, compreso, anche nelle città e nelle campagne della Francia asservita. Confessate dunque che la Verità è forte come l’Amore, e la Convinzione più potente della Forza, l’imbecille portatrice di spada. Dite dunque che basta un uomo libero per far fremere tutto un regno di schiavi. Dite che non avete mai sentito una voce come la mia, una voce che cerca in fondo alle viscere le più sensibili fibre della vita, per farle fremere.


E quand’anche fossi pazzo?… Ad ogni buon conto c’è da diventarlo osservando la vostra ignobile società turbinare sull’abisso dei decadimenti! C’è da diventarlo quando si lavora dieci ore al giorno, e ciò da quindici anni!

Chi fra di voi è il più bravo, provi due anni soltanto, accanto a me, a vivere la mia vita di lotta, di delusioni, di privazioni e di ostracismo che mi avete fatto fare! Provi ad avere il coraggio di restare libero e onesto malgrado tutto, contro tutti!… E vedremo ciò che ritroverete alla fine di questo periodo!

Ah! se ho perso la ragione combattendo per l’umanità… se ho sofferto lo stesso male di Socrate, Pascal, Rousseau, Cristo, Salomon de Caus, Saint-Simon, Hennequin e tanti altri grandi… sarei fiero e lo direi a chi vorrebbe ascoltarmi. Come il guerriero, mostrerei con orgoglio le ferite ricevute nei combattimenti. E quando sareste a portata di voce, griderei: voi non avete mai provato quali spaventose vertigini danno le aspirazioni più sublimi. Siete troppo bestie per diventare pazzi, troppo calcolatori per curare e onorare, come fanno i Turchi, quelli che lo diventano a forza di lavoro. – Ognuno per sé, ognuno per sé! Le società presenti non sanno fare altro che finire i propri malati!


Non c’è problema. Nel mondo vi sono molti borghesi che credono come il Vangelo a quello che dice la polizia! E poi, questa nostra epoca è talmente gonfia di insipide chiacchiere che la grande diplomazia è diventata qualcosa di perfettamente identico alle discussioni tra portinaie del Marais!…

… Più è inverosimile e stupido un pettegolezzo e più presto si fa strada in questo mondo di stupide discussioni!

… A tal punto che molta gente onesta e moderata come le guardie nazionali, ma limitata come storioni, affermano, senza avermi mai visto né inteso, molto seriamente, e dopo informazioni molto positive, che ho la barba rossa, gli aculei al posto delle unghie, la spiacevole passione di mangiare i bambini, e che sono pazzo da legare!

Che fare? Fumare, sputare e lasciarli dire; riconfermarmi nella perseveranza che danno le convinzioni incrollabili, e lavorare senza sosta a fare condannare tutta questa gente dai posteri!

Andiamo, stupidi sudditi del Papa e dell’Imperatore, Francesi nati maligni che siete lo zimbello d’Europa; ecco la mia testa! Acconciatela, se l’osate, col berretto di Momus; attaccatevi come campane tutti i diademi dei vostri re. E vi rispondo di avere tanta forza nella nuca di fargli suonare un carillon che non avete mai sentito dai tempi in cui questi gioielli erano portati dalle loro altezze sorde e mute.


Perché sono io, io il pazzo, che da più di quattro anni vi annuncio la Guerra e l’Invasione alle porte; sono io, il pazzo, che ho predetto la caduta della Democrazia urlatrice e dell’Impero flemmatico, i tradimenti, le mancanze, le piaghe, le pesti e i terremoti; sono io, io il pazzo, che gli avvenimenti giustificano in pieno e di cui sembrano aspettare la parola per svolgersi come tanti serpenti; sono io, il pazzo, che non afferma nulla senza prove, che mette in difficoltà tutti i vostri saggi, e che, malgrado voi, porterà a termine la missione profetica che si è data!


Lettore, ti suppongo nervoso e amico del bello, – inchinati per il complimento e continuiamo se non ti dispiace. – Mi persuado che tu non puoi vedere una mosca nel latte, un neo sul seno di una donna, un gufo fra i piccoli uccelli, un cane pastore in mezzo agli agnelli che morde, e nemmeno un ragno sulle rose o un bottegaio ad un ballo, senza sentire sollevarsi il tuo cuore.

Quanto sarebbe invincibile il tuo disgusto se, viaggiando nei più bei paesi del mondo, sui fiumi più impetuosi e i laghi più puri, sotto il cielo blu d’Italia, inciamperesti ad ogni passo in un doganiere, in un gendarme arrabbiato fino ai denti, in spie imperiali di Francia e Austria al lavoro! Che cosa diventerebbe il tuo entusiasmo, la tua estasi, tutto il prestigio della bellezza, dimmi, lettore, se tu ti sentissi, per un motivo o per un altro, nelle mani di tutta questa gente da sacco e da corda che macchiano la natura di cui si credono re?


Mi trovo in questa situazione, da sette anni, per avere osato commettere, in questo mondo di don Giovanni da bottega, una indiscrezione che quelli che vendono le loro amanti non perdonano, cioè aver dichiarato di essere innamorato della Libertà. E per avere confessato questo santo amore, ecco giustificati i mezzi estremi della polizia, l’impiego di odiose spie che il governo recluta fra i mangiatori di rane, bancarottieri fraudolenti, rinnegati di società segrete, ingrommatori di pipe disponibili, spugne di birra, imbuti con occhialini, pantaloni di pelle invecchiati negli uffici e nelle caserme, sfuggiti al bagno, fantasmi di forca, spurgatori di liquami; deliziosa società dove i più abili sono scelti per formare la buon costume.


Sì, sono in questa situazione. E se il rappresentante del potere sardo nella regione di Ginevra avesse potuto avere la soddisfazione di farmi la morale, mi avrebbe certamente rimproverato le mie opinioni folli, i miei scritti incendiari che non si è degnato di leggere, e la misantropia che mi rende insopportabile alla parte benpensante dell’emigrazione.

Oh! pietà, dolce Gesù. Costoro parlano di idee, di dottrine, di diritto e di dovere! E tutta la loro religione è nello stomaco, la loro coscienza nelle borse! E li si potrebbe portare fino a San Pietroburgo con uno scudo! Servirebbero non importa chi, scriverebbero non importa che cosa, venderebbero padre e madre, mangerebbero i fratelli, farebbero violentare le proprie sorelle… basta che li si riempia! – Costoro parlano d’onore, di giustizia e di libertà!

Ho visto dei ricchi golosi nutrire, nei vivai, delle murene voraci. Gli gettavano carne umana assassinata, verdastra, che strappavano avidamente. Ma per grassi che fossero gli allevatori, per golosi che fossero i pesci così ingozzati, gli uni e gli altri non offrivano uno spettacolo d’insieme così odioso quanto quello del governo che gonfia i suoi funzionari con le imposte e le sofferenze dell’umanità!


La mia giusta ira mi ha di già fornito espressioni sdegnate, molti termini triviali e paragoni seccanti per stigmatizzare simili esseri; tuttavia non sono ancora soddisfatto. Quanto è povero il dizionario francese!

Se li chiamassi rospi, mentirei: perché il rospo ha il pudore di non mostrarsi di giorno: – se li chiamassi porci, mentirei: perché il porco è sporco ma non è traditore e serve a qualcosa dopo la sua morte; – se li chiamassi vipere, mentirei ancora: perché la vipera è graziosa; – se li chiamassi iene, mentirei sempre: perché la iena non si accanisce che sui cadaveri.

Se li dicessi infami, alzerebbero le spalle come gentiluomini; – se li dicessi assassini, si pretenderebbero spie; – se li dicessi spie, si direbbero ladri; – se li dicessi magnaccia, si proclamerebbero amici del ministro o dell’ambasciatore. – Rinuncio a qualificarli; sulle loro schiene la mia penna si spezzerebbe senza conclusione. Involontariamente, quando parlo, la mano mi prude, lo sputo mi viene in bocca e la rabbia ai denti.

Se li cacciassi dalla porta, rientrerebbero dalla finestra; – se li minacciassi, andrebbero a denunciarmi; – se gli sputassi in faccia, si asciugherebbero con un fazzoletto rubato a qualche povera ragazza; – se gli gettassi delle pietre, si chiuderebbero in casa; – se cercassi di annegarli, sono così pieni di vino e di salute che nuoterebbero sempre; – se volessi marchiarli con un ferro rovente, il loro grasso rancido li preserverebbe. – Ve lo dico, non ci si può mai sbarazzare di una spia che vi pedina; è più tenace della pece, più piatto della cimice, più ripugnante di un ragno, mille volte meno fiero di un pidocchio!

Spesso mi sono chiesto se questi disgraziati, avendo ancora delle madri, potessero sopportare i loro sguardi, e che cosa rispondessero alle povere donne, quando queste chiedevano conto dell’onore del loro nome. Mi sono chiesto se tenessero alla vita di quelle che li avevano messi al mondo e se avessero dimenticato che si muore di vergogna! Ed ho sperato per loro che non avessero più la madre!


So che il rigore può essere prefetto e pensare di non essere ladro; sei mila anni d’ingiustizia hanno talmente falsato la nozione naturale di diritto che oggi basta indossare un’uniforme per coprire e giustificare gli atti più colpevoli. Quando gli uomini vedono passare il più spesso dei cafoni rivestito d’una livrea governativa qualsiasi, non fosse altro che una piuma sul sedere, salutano e s’inchinano fino al suolo, si salvano a gambe levate e raccomandano la loro anima a Dio.

Quanto a me, proclamo il civilizzato di molto superiore alla scimmia in quanto ha la paura per dissimulare il suo pensiero, la legge per proteggere le sue rapine, la parrucca per coprire la sua calvizie, e l’uniforme per nascondere la sua bruttezza.

Il gendarme e il massacratore sono i padroni del mondo; per gli altri uomini, gli altri uomini sono padroni della propria pipa quando l’hanno fumata. La natura, l’aria, i cieli, le acque, la terra, le valli e le montagne si prosternano davanti alla Burocrazia.

Che un impiegato di pubblica sicurezza vi veda battere il suo cane, che un ufficiale giudiziario vi sorprenda in conservazione con sua moglie, che il funzionamento del vostro cervello non sia gradito al signor commissario, che l’angolo del vostro naso con l’orizzonte spiaccia al più piccolo imbrattacarte del consolato, che facciate paura starnutendo alla progenitura di qualche topo di fogna: è di già molto, anzi è troppo. Eccovi, ipso facto, allontanato dal paese che amate, dalle sue isole e colonie; la vostra casa, le vostre lettere, i vostri segreti, il vostro riposo sono a disposizione di uno scavatore di giustizia; egli può mettervi la mano sul colletto nel mezzo di una festa, a tavola, a letto, a fianco di vostra moglie, di giorno e di notte. Consideratevi contento ancora che il longanime governo non vi faccia l’autopsia ancora vivo per assicurarsi che le vostre viscere non contengano qualche ordine del giorno rivoluzionario, e il vostro cervello qualche opinione sovversiva.

Sii fiera, nobile Francia! La tua polizia è la prima del mondo; tu tieni in Occidente lo scettro della Delazione e dello Spergiuro; non dai vita ad altri eroi che a delle spie; il tuo nome vuol dire insulto alla libertà! Perché dappertutto si sa come gli agenti guadagnano la propria miserabile esistenza, e chiunque passeggia con la croce dell’onore diventa sospetto di spionaggio e di frode. E non contenta del tuo obbrobrio, obblighi i deboli governi che ti circondano a seguirti, più lontano che possono, sulla via del disonore.

Sii fiera, tu sei dignitosamente rappresentata in tutte le taverne e i luoghi senza nome dei capitalisti. Là cantano le tue vittorie tra due partite a picchetto, con l’entusiasmo che dà l’assenzio e il trentasei. È là che si valuta la testa di un proscritto, il coraggio di un capitano, la coscienza di un ministro, la portata di una rivoluzione, la condotta di una guerra o la solidità di un trono.

Così vivono le grosse pance e i ceffi vermigli! Così vivono i Falstaff e gli altri Macari e i Mercadet del glorioso paese dove sono stato messo al mondo!


Dunque mi avete pedinato da cespuglio in cespuglio, da frontiera in frontiera come un uccello ferito. Dunque mi avete fatto buttare fuori, col pretesto di alienazione mentale, da tutti gli Stati del re di Piemonte, ivi compreso Cipro e Gerusalemme. Dunque mi avete vietato la Svizzera, il Belgio e la Repubblica di San Marino. Perbacco, sono dei grandi risultati, e mi credete molto imbarazzato, molto a disagio dove mi trovo.

Quanto siete stupidi! Che cosa mi può interessare che voi mi interdiate tutto l’Occidente, e anche tutto l’Oriente? Vi resterà la vergogna: ecco tutto. Forse che l’aria non è la stessa sotto tutti i cieli? Forse che il mondo non si estende davanti a me, nella sua lunghezza e larghezza, con le sue grandi città e i suoi pacifici villaggi? Forse che io non sono sempre là, anche dove voi vorreste che io non fossi? Forse che i vostri passaporti sono fatti per gli Irochesi? Forse che non è necessario in fin dei conti che io viva da qualche parte? Forse che non troverò dappertutto dei caratteri tipografici? E anche se voi mi respingete fino alle rive dell’Oceano, forse che l’America non è a soli dodici giorni dall’Europa, l’America più libera di questo vecchio continente che si crepa sotto i miei piedi?

Se fossi obbligato a trascinare un partito dietro di me, se mi fossi agganciato a non so quale reputazione bastarda, se rassomigliassi a tutti questi imbecilli che non sanno fare niente, mi capireste. Ma come volete impedirmi di manifestare la mia opinione su di voi e sui vostri simili, sui governi e le opposizioni, su Napoleone e Robespierre, d’Orléans e Plon-Plomb, Dio e Diavolo, Papa e Inferno? Ditemi un poco, come l’impedireste?…


È molto utile, in verità, la misura che avete preso contro di me! Valeva realmente la pena di dissigillare le lettere che costituiscono il mio segreto, di sequestrare i libri che sono la mia proprietà, di esporvi una volta di più ai miei pamphlet pungenti, di sputare in aria perché lo sputo ricadesse sul vostro naso! Le vostre spalle di pigmei non hanno di già un carico sufficientemente pesante, povera gente alla quale è dato il compito di sostenere tutto un mondo che sta crollando?

Ma valutate dunque la lunghezza delle vostre braccia, saggiate la forza dei vostri pugni sulle macchinette degli Champs-Elysées, considerate freddamente quanto pesate sui destini d’Europa, e vedrete se tutte le vostre risorse ed energie possono bastare per qualche mese nei confronti del colosso del Nord!

Ecco come sprecano le finanze e le sottoscrizioni patriottiche, buon popolo di Francia! Danno la caccia a dei poveri diavoli di proscritti e alle loro opere, pagano da bere alle spie, da mangiare alle regine, la colazione alle cortigiane, il biberon ai principini! Sono queste le tue intenzioni, popolo, eccellente popolo, il cui nome e i voti santificano tutto?!


Sappiatelo dunque, voi della censura! Chi può concepire dei pensieri li pubblica malgrado tutto; sono proprio i mezzi di diffusione che mancano di meno. Se voglio, per esempio, pubblicare un libro che vi spiace, sono certo di averlo stampato, diffuso, fatto conoscere prima che il più vigile dei vostri poliziotti si sia sfregato gli occhi per svegliarsi. Perché io lavoro per me, mentre loro, i mendicanti, festeggiano a vostre spese.

Sappiatelo! Vi è nella volontà e nella discrezione una potenza invincibile. Voi avete soldati e funzionari per ogni gusto, fondi pubblici e fondi segreti. Ebbene! io sono più forte e più ricco di voi. Ho con me la Franchezza e l’Idea. E questi due ausiliari non si pagano né con monete d’oro né a prezzo di infamie, di disonore, di disprezzo per se stessi e di maledizione degli altri. Non ho bisogno di bagnare nel sangue il becco della mia penna, come voi vi immergete la punta delle vostre spade. Non ho bisogno di portarmi dietro una guardia di pretoriani, di personaggi viziosi e pagliacci. Dipendo meno di voi dal pubblico.

Sappiatelo! Voi comprate solo servitori in vendita, penetrate solo coscienze di già violate, con i soldi seducete solo coscienze di seconda mano. Voi non farete credere a nessuno che un uomo che sente il proprio valore venda la sua coscienza e il suo spirito per un pezzo di pane sporco.

Sappiatelo! Quelli che sono inseriti nei registri delle vostre ambasciate, Alessandro di Russia, Costantino, il signor de Rothschild, il signor Janne o il signor Domange, il reclutatore, possono licenziarli senza problemi. Perché la carne di spia si vende all’asta! Scommetto che in Francia [Faustin Elie] Soulouque ne trova quante ne desidera, e delle migliori, solo che prometta loro una buccia un po’ più leggera dei tradizionali pantaloni di Haiti.

La caccia dell’Imperatore

Agosto 1855

Da qualche parte

All’attacco! All’attacco! Il popolo caccia.

G. Matthieu

È partito il mercante di mostarda, il pio eroe di Strasburgo e di Boulogne, il maledetto che si sveglia solo per il massacro e lo spergiuro, il dileggiato Badinguet primo! È partito per la caccia all’uomo.

All’attacco! All’attacco! L’Imperatore caccia.

Attorno a lui urlano i mastini della sua muta: molossi dalla zanna vorace, artigli scavatori di viscere, alti al garrese dalle lunghe orecchie, bassotti dalle gambe storte, levrieri di Spagna e d’Africa, terrier di Scozia. – Cani di ogni pelo e tipo, correnti, accucciati, rampanti soprattutto. – Cani di alta e bassa corte che si slanciano, seguono, sforzano, strappano per avere il resto del bottino rigettato dal loro padrone.

All’attacco! All’attacco! L’Imperatore caccia.

Rampano attorno a lui vecchi cavalli e cavalli nuovi, cavalli leggeri e pesanti, cavalli ciechi e mocciosi, cavalli di calesse, d’incoronazione, di monta e di sostituzione; i bavosi e gli ansanti, quelli che hanno avuto il fuoco nelle gambe; rozze da abbattere, asini sellati, muli imperialmente testardi: tutti grandi mangiatori di avena che trottano, saltano, danzano e ragliano finché si vuole per avere qualcosa.

All’attacco! All’attacco! L’Imperatore caccia.

E gli scudieri saltano in sella. – All’attacco! All’attacco! – Scudieri esausti, panciuti, forzati, contusi, tarati: [Jean-Gilbert] Fialin e [Bernard Pierre] Magnan, [Charlemagne de] Maupas e [Boniface de] Castellane, e [Charles Auguste de] Morny l’intrepido! Sono venuti tutti dai saloni e dalle taverne, da ogni cucina e da ogni cantina, da ogni caserma e da ogni alcova, a bocca aperta e stomaco vuoto. Scudieri in calze corte, pantaloni di cuoio, bianchi, rossi, verdi, violetti e tricolori. Non si tiene conto alla corte dell’opinione delle bestie. Tutto va bene. L’uomo di Dicembre si definisce il Leone!

All’attacco! All’attacco! L’Imperatore caccia.

E gli scudieri saltano in sella, fruste dispiegate, cuori in gola. – All’attacco! All’attacco! “Andiamo! sciogliete i cani. Trova, ritrova, conduci, canaglia! Denuncia, tradisci, mordi, ammazza. Tutto è nostro, tutto è per noi. Viva la caccia!”.

All’attacco! All’attacco! L’Imperatore caccia.


Avanti! Bestie e persone, le prime portano le seconde, si spingono, si strisciano, si urtano, ringhiano, si mordono, saltano, urlano e reclamano. – All’attacco! All’attacco! – Li si frusta, li si spezza, li si scatena: poliziotti, guardie campestri, gendarmi a cavallo e a piedi, fissi o mobili, finanzieri e gabellieri, tiratori di corda e demoni di forca, spie e doganieri, mendicanti di montagna, mendicanti di salotti e mendicanti di pianure. Tutto si slancia!

All’attacco! All’attacco! L’Imperatore caccia.

Tutto va bene: spighe e uva, tori e giovenche, cinghiali e porci, sotto e sopra, anguille e fanciulle, tele sopraffine e vino gentile. Mangiano nella casa, carezzano la moglie e la cameriera, battono il grano e la gente, sfondano le botti, le porte e altre cose. Tua figlia è bella, pagliaccio, portala sotto i lenzuoli dell’avventuriero; tuo figlio è forte, invialo a Sebastopoli ai conflitti dei re. – Paga contadino, l’imposta del possesso, dell’onore e del sangue. Vuoi un imperatore? ergo paga per le spese del culto, se non ti dispiace!

All’attacco! All’attacco! L’Imperatore caccia.

Nelle città e nei campi, alle frontiere e sui mari tutti fuggono, tutti scappano davanti a una mente alterata; tutti mostrano ai cacciatori l’inverso del loro cuore. Filosofi e rappresentanti, medici e notai, operai e laboratori, bambini, donne e vecchi, tutti sgambettano, tutti a rotta di collo. – All’attacco! All’attacco! – È un si salvi chi può generale. Intere popolazioni si coricano ventre a terra e gettano nel letto dei fiumi i loro fucili e le loro falci. La Francia è preda della dissenteria, del panico. E le nazioni d’Occidente, se ridono molto della sua condizione, ne hanno male al cuore.

All’attacco! All’attacco! L’Imperatore caccia.

Niente resiste loro, i banditi si incoraggiano. “Saccheggia, massacra, mitraglia e impicca; uccidi, uccidi! Tantbeau, Briffault, Ravageaud, Sangrado! Alla corda! al fuoco! alla guerra! – All’attacco! – Coraggio miei bravi di Dicembre! Sciacquatevi la faccia col sangue! Bevete, perbacco! e tanta salute! Fate dei roghi con i cadaveri, riscaldatevi le mani morte di freddo! Rompiamo i vetri, è il borghese che pagherà”.

All’attacco! All’attacco! L’Imperatore caccia.


Hallali!! La Francia è in ginocchio, quella di Clovis, di Luigi XIV e della Repubblica, la sopravvissuta del primo impero: in ginocchio sotto lo stivale di uno pagliaccio da circo. Scudieri cantate vittoria, cavalli annusate, asini colpite con lo zoccolo, mastini mordete, valletti di scuderia frugate, cortigiane ridete, è Badinguet che si fa avanti, come l’infernale dio di Sofocle, come il macellaio e il carnefice, tenendo il suo coltello in mano!

All’attacco! All’attacco! L’Imperatore caccia.

Quando si è piegata sui garretti, quando ha pianto tutto il sangue delle vene, quando i suoi grandi occhi così dolci si sono aperti per l’ultima volta alla luce del cielo, la cerva delle foreste non si rialza più; non passa più sotto le fustaie fiera come una regina, seguita dai suoi amanti dalle dieci corna; non conduce più i suoi cerbiatti alla fontana. Ma muore con il colpo che l’ha ferita. – Mentre la Francia vive per cantare e danzare il suo insigne disonore! Mentre la si vede spudorata come una donna delle Halles, parata come una cortigiana, lasciva come una Messalina, ricevere senza pudore gli omaggi degli artisti e le visite degli stranieri! Mentre sacrifica senza rimorsi, in un duello ineguale, la verde gioventù delle sue campagne! – Ma quale sottile veleno portano nel proprio fegato questi vagabondi senza cuore, tanto da fare morire le nazioni più importanti sotto i loro infami abbracci! Oh! sfortuna alla donna che, dopo due rifiuti, si arrende all’ostinata violenza del rapitore! Le farà pagare caro il suo passato disprezzo. Sfortuna alla Francia deflorata da Napoleone-il-Pirata! Niente laverà la sua eterna sporcizia.

All’attacco! All’attacco! L’Imperatore caccia.

L’Uccisione! L’Uccisione! le vittime del giorno rantolano sotto i piedi dei cavalli, membra squartate, cavalli dispersi, petti bucati dalle pallottole, bocche e narici sanguinanti, crani aperti. I segugi si abbuffano a pieno muso in un mare di cadaveri. Per una volta nella sua vita l’agente di polizia si dichiara sazio di carne umana.

All’attacco! All’attacco! L’Imperatore caccia.

Ne hanno ucciso parecchi; ogni commissario di polizia ha il carniere pieno. Riempiono le loro prigioni di uomini, come i borghesi riempiono i loro contenitori di carne di cervo. La cancrena si diffonde nelle ferite di molti di essi; tanti muoiono soffocati; gli altri si disputano come fiere le lenticchie, le parrucche dei magistrati e gli scarponi dei militari, nelle ciotole imperiali. Nel frattempo la caccia rientra alle Tuileries per fare festa.

All’attacco! All’attacco! L’Imperatore caccia.

Tutto rigurgita: fosse comuni, casematte e pontoni. Le navi dalle bandiere tricolori portano il di più sotto i climi tropicali, nei deserti brucianti e nelle isole perdute. Questi sono i bottini della morte. Mai rivedranno le dolci rive della patria che molti amano ancora. In mancanza di braccia per coltivarli, molti fertili campi daranno dei cardi, le donne e i bambini condurranno la pesante carriola piangendo il padre di famiglia.

All’attacco! All’attacco! L’Imperatore caccia.

Non è tutto. Qualcuno sfuggito al massacro generale; più fortunato di altri, avrà trovato rifugio nei paesi vicini. Povero asilo! Quasi altrettanto varrebbe la prigione. Perché questi saranno numerati, guardati e perseguiti come obiettivi di riserva. L’Europa occidentale è la fagianeria di sua M. I. Bruxelles, Berna e Torino tremano salutando gli impiegati di via Gerusalemme. I governi degli Stati limitrofi, i loro prefetti e gendarmi sono le guardine e i cani da muta dell’imperatore dei Francesi; egli li fa ispezionare, sorvegliare, reprimere, degradare o decorare dai suoi ambasciatori, consoli e spioni. Sotto la clava degli orrendi decembristi anche l’Occidente deperisce.

All’attacco! All’attacco! L’Imperatore caccia.

Per poco, l’onesto cittadino di Turgovia, il celebre policeman di Londra faranno decretare l’estradizione dei proscritti politici sulla base del diritto internazionale dell’Occidente, come misura di salvezza per la Civilizzazione. Sarebbe l’ultimo e il più vigliacco delirio prodotto da questa ignobile orgia. Sarebbe il rintocco funebre di Badinguet-il-Misterioso e della sua allegra compagnia! – Ciò che è scritto è scritto. –

All’attacco! All’attacco! L’Imperatore caccia.


Se non fossero che uomini! Se, in questa società da corpo di guardia, nel mezzo di questi saturnali degradanti, non si trovasse una donna, una figlia di Madrid dorata dal sole!

La celebre Bruttezza delle virtù del Delitto, che Napoleone III e Robespierre condussero sul loro stesso carro del trionfo: potrebbe ancora comprendersi. Ma che loro facciano condividere a delle donne il disprezzo di cui sono colpiti; che carichino teste graziose del pesante diadema dei tiranni criminali; che li consacrino imperatrici o dee della Libertà; che le facciano salire alla loro sinistra su di un trono sanguinoso: ecco il lato orrendo del Terrore!

Povero secolo, quello in cui le più belle creature acconsentono a sbiancare le atrocità nere partecipandovi! Civilizzazione triste quella che corrompe a tal punto i sentimenti e i sensi delle fanciulle che il loro cuore non si ribella più all’odore del sangue! Pregiudizi immorali, quelli che fanno nascere nell’anima di una donna non so che inqualificabile capriccio per un vecchio debosciato, perché è un imperatore e può uccidere quando vuole!

Oh! chi non si affliggerebbe nel sentire una giovane e bella donna presiedere ai massacri di Dicembre, alle deportazioni, alle proscrizioni, agli imprigionamenti in massa? Chi non si affliggerebbe di vederla tuonare, come il Genio delle torture, su pezzi di corpi rantolanti! Chi non soffrirebbe di sentire la mano di Eva nella mano di Giuda?

Spagnola! Spagnola! La tua vanità ti ha perduta. Troppo spesso, nell’arena, avevi visto scintillare il sangue rosso dei tori sulla sciarpa del matador. E da quando ti hanno presentato l’imperiale mantello di Francia macchiato di sangue mal versato, macchiato d’oro male acquisito, tu l’hai indossato sulle tue spalle come uno splendido abito da ballo, contenta di essere più ricca e più magnifica delle tue compagne!

Ah! se tu ti fossi mostrata più preoccupata del tuo onore che degli onori; se l’avessi guardata da vicino questa tunica di Deianira che non puoi più staccare dalle tue braccia bianche, saresti retrocessa d’orrore! Ti saresti convinta che la Bellezza perde sempre unendosi al Crimine, e che tutte le grandezze di questo mondo non possono cancellare una sporcizia quando questa raggiunge la coscienza. Dove sognavi la Felicità e la Gloria, avresti scoperto la Tristezza e la Riprovazione.

Ora è troppo tardi per piangere la tranquillità, le gioie e la salute perdute; troppo tardi per rimpiangere la bella città delle serenate; i caballero brillanti e la splendida corrida; ora non potrai sentire se non in sogno le chitarre clamorose, i tuoni dei fuochi d’artificio, e i cori che cantano nelle vervena di Giugno, nelle notti stellate. E quando cullerai sul tuo cuore questi sogni felici, Spagnola! Spagnola! ti sentirai risvegliata dal Rimorso che medita al tuo fianco nuovi delitti.

All’attacco! All’attacco! L’Imperatore caccia.


Napoleone, hai conservato il cavallo che ti portava nei giorni di Dicembre, che beveva il sangue e saliva sui morti per salutare la folla? Hai mantenuto sulla tua faccia magra l’orribile pallore del cadavere? Oggi, come allora, ti vedi in parata sotto il sole, alla testa dei battaglioni di mercenari che hai guidato a sicuri massacri? Tutte queste teste di bulldog e di bestie da soma sono tue? – Sì, tu dici, sono mie. – Oh! guardali, guarda la tua vergogna! Quanto sei ricco e glorioso, Napoleone!

Stai attento, assassino! È uno spaventoso esempio che danno i tuoi simili, quelli che passano sulla terra senza fede, senza coscienza, senza amore. Essi fanno dubitare di ogni verità, disperare di ogni giustizia, aspirare al niente, benedire l’assassinio e il male. Essi fanno credere al diritto della forza, alla santità dello spergiuro, all’abilità del tradimento. – Quelli che sono stati mitragliati non si attendevano la palla; quelli che sono stati sgozzati non si attendevano il coltello; quelli che sono stati colpiti da dietro non si aspettavano nelle reni il più feroce insulto; quelli che hanno fatto di Parigi la Roma e la Bisanzio dei loro tristi imperi non si aspettavano di essere cacciati, tamburo battente, da nuovi Barbari più civilizzati e più spietati dei Vandali di Genserico! – Il Delitto chiama il Delitto. L’ombra della Morte si trascina dietro lo scheletro della sua padrona al pallido chiarore della luna, essa è più grande ancora e più spaventosa!

All’attacco! All’attacco! L’Imperatore caccia.

Ma tu hai freddo, boia! quel poco di denti che ti restano sbattono di dispetto gli uni contro gli altri. Tu temi la solitudine e il silenzio dove l’anima inquieta ripassa in se stessa un severo esame; tu ti allontani dalle fontane cristalline dove si vedrebbe la tua bruttezza. Galoppi forsennato, sulla polvere delle grandi strade, chino, testa bassa, in tutti i pantani di fango che un insopportabile miraggio ti fa prendere per altrettanti flussi di sangue. Fuggi, fuggi con tutta la forza delle gambe del tuo cavallo. – All’attacco! All’attacco! – Se ti fermassi un solo istante per rinfrancarti, vedresti nel fondo del bicchiere di vino vermiglio migliaia di occhi sanguinanti gridarti:

“All’attacco! All’attacco! L’Imperatore caccia.

“Ti vietiamo di trovare riposo nell’ubriachezza; vogliamo che essa ti sia pesante e piena di rimorsi. Ti vietiamo di dimenticare i tuoi delitti sul seno delle donne; vogliamo che, se per caso, tu riproducessi la tua triste immagine, essa diventi per te causa di mille torture.

“All’attacco! All’attacco! L’Imperatore caccia.

“Quello che è scritto è scritto. – Leggiamo nell’avvenire. La tua caduta è prossima come quella degli ultimi capelli dalla tua testa pelata. La tua imperiale dinastia finirà in una fogna. E diciamo il vero. Perché siamo le pupille delle vittime immolate a Dicembre dalla tua cieca ambizione.

“All’attacco! All’attacco! L’Imperatore caccia!”.

Epilogo

Pregare, è lavorare!

I

La Giustizia, il Lavoro, la Libertà mi hanno dettato questo libro. Voglio ringraziarli, adorarli sotto i loro puri emblemi; voglio imprimerli per sempre nel mio cuore. Voglio, arrivata la sera, giungere le mani in silenzio, raccogliermi, pensare e pregare. – Pregare, è lavorare!

La Preghiera è il soffio dell’anima, il suo canto d’allegria o di dolore, la consacrazione dei ricordi, la molla delle speranze, l’infinito della tenerezza, l’abisso e il cielo dell’effusione dove il pensiero radioso si slancia quando lascia la terra per i mondi migliori. – Pregare, è lavorare!

La Preghiera è necessaria all’uomo; è la sua vita morale, la sua voce interiore, lo slancio di tutto il suo essere verso l’Eternità. – Pregare è essere felici!

La Preghiera non sarà più appresa nei libri, non sarà più diretta verso un essere incomprensibile e formidabile, essa non sarà più recitata per ubbidire a un comandamento severo. – Pregare, è lavorare!

Ma essa sarà pensata, disegnata dalle nostre emozioni quotidiane; si alzerà verso le nostre affezioni più care, verso esseri che respirano, parlano, sentono come noi e possono rendere amore per amore. Si indirizzerà, toccante, ai morti e ai vivi che ci sono cari, che divinizziamo: al bambino, alla donna, all’amico, alla creatura ideale; essa animerà le nostre creazioni, speranze, intraprese. – Pregare, è lavorare!

La Preghiera sarà sospirata, mormorata dolcemente, a ben dichiarata, cantata, secondo le disposizioni dello spirito. La si dirà nei momenti di raccoglimento supremo in cui l’uomo passa dalla veglia al sonno, quando non ha ancora dimenticato la sua vita presente, e quando di già i sogni mostrano l’avvenire e il passato. – Pregare, è ricordare!

Essa sarà l’inno della sera, il dolce inno che ci culla, ci dispone al riposo, alla gioia del cuore, l’inno precursore dei sogni felici. – Pregare è sperare!

Pregare, è vivere! – La Preghiera, come il Sogno, varierà secondo l’età dell’uomo, le sue occupazioni, le sue idee. La Preghiera, come il Sogno, rifletterà la vita. Il bambino e la donna non pregheranno come l’uomo. Il proscritto non pregherà per niente come l’individuo sedentario. Ecco le preghiere sotto l’impressione delle quali mi addormento ogni notte:

II

Pregare, è lavorare!

Giustizia, Vergine immacolata che smetti di piacerci dal momento in cui i tuoi occhi sono battuti e il tuo corpo ingrossa. Giustizia, la più preziosa delle aspirazioni della nostra giovinezza: ti adoro sotto i tratti di un amabile bambino!

Vieni dunque, benvenuta nel mio cuore, ragazzo di dodici anni, più saggio più giusto dei magistrati e dei dottori giudei, tu che li hai confusi! Sorridimi, Cristo che amo dall’età in cui tu non eri ancora né capo di religione né Dio né onnipotente. Allora tutta la tua scienza era la verità, l’esperienza e l’amore. Allora tutto nuovo e irresistibile il pensiero si impadroniva della tua anima nascente. Tu brillavi d’illusione, la lotta ti appassionava, i tuoi propri discorsi ti facevano tremare come una foglia di betulla. Tu attraversavi allora, pieno di coraggio, le prime prove di questa vita di apostolato e di martirio che ebbe come trono, come cattedra e come croce il glorioso Calvario.

In te sognavo l’infanzia futura, l’infanzia felice che ci predirà l’avvenire, ci delizierà la terra, ci renderà la fiducia in noi stessi senza la quale siamo incapaci di grandi disegni, e prendendoci per mano, ci insegnerà, ci imporrà le sue vive credenze, il suo entusiasmo che niente frena, ci eleverà, ci ingrandirà, per quanto sia piccola!

Giustizia, la più preziosa delle aspirazioni della nostra giovinezza, ti adoro sotto i tratti di un amabile bambino!

Pregare, è lavorare!

III

Pregare, è lavorare!

Lavoro consolatore, tu che popoli la solitudine, conforti il prigioniero, distrai il ricco, nobiliti il povero, Lavoro, scopo della vita, suo sostegno e sua bellezza, Lavoro dalle braccia abili, dalla testa potente, ti invoco sotto le caratteristiche dell’uomo robusto.


Dammi la mano, Xavier Charre, amico mio. Fai passare nella mia anima il coraggio, la forza, il genio che vivono nella tua! che io sia paziente, fermo, risoluto come te nella lotta intrapresa!


Molti sono i poeti che non hanno mai scritto un verso. Molti sono gli artisti che mai hanno maneggiato l’arco o il pennello. Molti sono gli uomini energici che mai hanno tenuto il governo degli affari. Molti sono i filosofi che si chiamano operai!

Tu sei più poeta, più artista e più saggio di me, mio grande amico. Perché io sogno la gloria; e tu, tu sei sulle ali di un sogno nel fumo di un sigaro. Perché io mi preoccupo ancora degli uomini, e tu non li vedi più. Perché io rifletto mentre tu canti, scrivo quando tu sogni. Perché ogni sogno è brillante, ogni realtà è pallida; perché ogni sogno è felice, ogni realtà è penosa.

Quelli che mi chiamano pazzo ti chiamano ignorante, semplice di spirito, limitato di mezzi. Fratello, sai perché?

È che tu non sei fatto, come loro, per gli intrighi, i problemi, le vanità meschine. È che tu non sei un uomo di partito, di polizia, di tradimento e di menzogna. È che tu non sai speculare sugli interessi di un’amicizia.

Sii fiero di ciò. Lasciali brillare nei loro discorsi frivoli, nelle conversazioni calunniose, nei giuramenti fragili che prestano e violano con la duplicità del loro cuore. Disprezza tutta questa gente che si fa schiava del popolo per meglio rubargli i soldi e i suffragi.

Tutto è calcolo per loro: il sorriso, l’elogio, la colpa, il pugno, la lettera che scrivono, la raccomandazione che danno, le separazioni e i ravvicinamenti che provocano. Essi ti importunano nel successo, ti soffocano nella disgrazia; ti vendono sempre. Li puoi vedere, come le mosche, abbattersi sul miele e fuggire i venti freddi che precedono l’inverno. Disprezzali!

Ti chiamano ignorante, tu, grande operaio, che dai consigli al poeta e all’architetto, che puoi esercitare venti mestieri con la tua mano, tu che fai rose con il platino, capelli con il legno, meraviglie con tutto!

Ti chiamano ignorante, tu che decori le facciate dei palazzi, alzi archi di trionfo, scolpisci col tuo martello giganteschi palmizi, fontane sgorganti, fiori delicati, uomini in armi, cannoni, spade, bandiere, mezzelune, allori e lacrime!

Ti chiamano ignorante, tu che cogli i rapporti di tutte le arti, che potresti sondare gli anelli innumerevoli della grande catena che ricollega l’operaio allo scultore, lo scultore al pittore, il pittore al poeta, il poeta al filosofo, l’uomo all’infinito! Tu che sai animare la materia, farle prendere sotto le tue dita le forme più belle! Tu che concepisci sublimi pensieri torcendo il ferro! Tu che hai appreso tutto senza maestri, senza risorse! Tu che hai posto nella povertà stessa l’orgoglio della tua rivolta, che hai tutto sacrificato: moglie, figli, posizione all’amore della giustizia! Tu che sopporti coraggiosamente l’esilio, che passi le notti e i giorni su di un lavoro deprezzato, che ti alzi quando essi dormono, che vegli quando giocano, che colpisci quando chiacchierano! Essi ti chiamano ignoranteignorante!!

Oh! bestemmia, ingiustizia! Ed ecco tuttavia i protettori delle arti, gli amici dell’operaio, i suoi vendicatori! Fai rivoluzioni per loro, popolo, nominali tuoi capi e tuoi rappresentanti. E quando tu li avrai elevati sulla scena del mondo, quando essi gesticoleranno, spergiureranno, ti chiameranno vile moltitudine, canaglia, ignoranteignorante!!

Ah! dato che in questo mondo, la penna vale ancora più del martello, poiché il mio mestiere è quello di scrivere, un mestiere miserabile, vorrei vendicarti della loro tracotanza. Continua il tuo grande lavoro, io li perseguiterò, pamphlet alle reni. Dirò loro che la vile moltitudine è l’ozioso borghese che vive della manna del cielo; che gli ignoranti sono i facitori di costituzioni, di commedie, di canzoni da osteria, di proclami incendiari; che gli ambiziosi e gli schiavi sono quelli che adulano la folla e non comprendono il genio del lavoratore, quelli che non lo amano mai per se stesso!

Ignoranti sono loro! Ignorano i loro intrighi, ignorano i partiti! Insensato il loro odio, insensate le vendette! Perduta la loro opinione sugli uomini e le cose, perduta la pena, il loro nome! Perduti essi stessi, annegati, rotti, schiacciati, annichiliti, annientati, svaniti nel turbine che si leva sul mondo! – Ignoranti!… Ignoranti!!


Lavoro dalle braccia abili, dalla testa potente, ti invoco sotto i tratti di un uomo forte.

Lavorare, è pregare!

IV

Combattere, è pregare!

Libertà, Libertà, proteggimi!

Tu che mantieni tutti gli astri alla loro distanza e ogni uomo al suo posto! Tu che ci appari sempre sotto forme nuove! Tu che tutti gli artisti hanno pensato per se stessi! Tu, la beneamata dagli esseri, lo scopo sempre fuggente e sempre inseguito, Libertà, proteggimi!

Tu che vedi i bambini, rosei, gioiosi, folleggiare fra le erbe, arrampicarsi sugli alberi coi piedi nei precipizi!

Tu di cui la fanciulla al galoppo sul prato, danzante un valzer sotto i lampadari, oppure con la gola piena di sospiri, distesa su di una soffice ottomana, vicino a un’arpa vibrante, stringe un ritratto sul cuore!

Tu che ami il vecchio mattiniero e narratore, con le labbra sull’orlo di un bicchiere, i pugni sulle anche, un arcolaio sotto il suo piede!

Tu che l’uomo a suo agio carezza all’angolo del focolare! Tu, sua compagna di tavola, gioiosa comare nel letto, brava ragazza dai seni compiacenti, dalle piccole parole d’amore, dai sospiri di benessere!

Tu che ami il sognatore, chino su dei segreti baciante o stropicciante lettere che li rivelano, l’occhio fisso, i capelli scarmigliati, il dito sul labbro!

Tu che segui il giovane sulle strade di campagna, nei campi di battaglia, nelle montagne sconosciute!

Libertà, Libertà!, mia santa e mia amante, ascolta la mia preghiera:


Com’era grande e fiera, sui bastioni cadenti, Saturnina la coraggiosa, romana dall’occhio scuro! Col suo vestito grigio sembrava portare il lutto per la patria morente, e si era fatta una sciarpa con la bandiera d’Italia. Sulla sabbia, attorno, fischiavano le palle dalle traiettorie imprevedibili. Le sue narici si dilatavano all’odore della polvere, come quelle di una cavalla da corsa al simun del deserto.

I Francesi avevano trascinato fino al Tevere le loro mitragliatrici grigie come il fumo delle polvere; gli avevano ucciso l’amante, il bersagliere lombardo!

E Saturnina si era chinata sul suo corpo, aveva preso nella sua mano fragile la carabina da combattimento, e con un pezzo del suo vestito s’era fatta del soldato morto un ricordo sacro!

Non vedeva più nel mondo che tre cose belle e desiderabili:

L’esercito nemico che presenta le fila dei suoi petti alle palle assassine;

La Vendetta che carica le armi, dà fuoco alla polvere e sfigura gli uomini del Nord;

E la Morte che consola, la Morte dai grandi domini, la triste, la gelosa che s’era presa il suo amante.

E più avanzano gli assedianti, più lei è contenta, più scatena il suo furore sul loro sangue detestato, più si avvicina a quello che ha perduto, più è in cielo!

Le sue dita sono nere il suo occhio sanguinante; tra i denti strappa le cartucce facilmente come quando tagliava il filo di seta nei suoi giorni di felicità.

Eccoli, eccoli! Di già la tromba nemica suona un canto trionfale. Di già le orde papiste hanno occupato il tuo suolo libero, Repubblica romana, figlia e madre di eroi!

La ragazza carica la sua arma di salnitro, di piombo e di pietre; si inginocchia accanto al caro cadavere, l’avvolge nelle pieghe della bandiera che difendevano entrambi, allontana i suoi pensieri dalla terra degli uomini!…

Quando la vedono, gli uccisori di donne, gli assassini delle nazioni, i soldati di Bonaparte-Parricida, esitano un istante. Poi avanzano, risoluti, verso il gruppo d’amore e toccano il cadavere con la punta dei fucili.

Allora avreste visto Saturnina la coraggiosa alzarsi, saltare, far fuoco con la sua arma sul gruppo nemico, mordere, graffiare gli occhi e torcerci morente in mezzo alle baionette. Fino a cadere, rossa del proprio sangue, sul corpo mutilato del bersagliere lombardo!…

Libertà, Libertà!, mia santa e mia amante, vendica la caduta di Roma, la vergogna della Francia, le lacrime dell’Europa libera e la morte di Saturnina, l’italiana dall’occhio scuro.

Combattere, è pregare!

V

Italia! Italia! Nazione beneamata, non posso tradurre i miei pensieri nella tua lingua così bella! Non posso raggiungere l’armonia divina che presiede alle opere dei tuoi grandi immortali! Perché mi devo dibattere, sfortunato prigioniero, nel labirinto di un idioma di retori e di avvocati? Perché non mi ha esiliato quando ero più giovane, la patria dei soldati, dei preti e dei giudici che ti dà un colpo mortale, nobile Italia!!

Allora la mia lingua leggera e la mia anima flessibile si sarebbero sviluppate con gli accenti della tua voce. Allora il mio occhio ridente avrebbe sopportato bene il lampo delle tue luci così vive, i colori ardenti dei tuoi dipinti e il calore del tuo sole. E ora, non ti scorticherei con una parlata del Nord, con la mia bocca vandala. E non arrossirei della mia ignoranza accanto ai fratelli italiani che l’esilio mi fa conoscere.


Italia! Italia! Grande in altri tempi, grande ora, celebre nella libertà come nella schiavitù! Contrada sempre famosa da Romolo a Garibaldi, da Virgilio a Pindemonte, da Michelangelo a Canova! Patria di guerrieri, di filosofi, di artisti, di grandi proscritti, di grandi profeti! Terra degli Appennini, della lupa nutrice, del leone di San Marco e delle aquile romane! Suolo fecondo, felice, dove crescono le foreste, le messi e la vite; che le Alpi e il Mediterraneo cullano nelle loro grandi braccia! Italia che contiene Napoli, Venezia, Firenze, Milano e Roma, madre di grandi repubbliche e di imperi famosi, la più sfortunata, la più provata fra le nazioni martiri, sanguinosa arena dove le orde del Nord dividevano il loro bottino!!

Ah! scuotiti dal torpore, rompi le catene, alzati! Soffia sulle ceneri della tua gloria che stanno raffreddandosi come le onde degli oceani! Spada in mano! Pennello in mano! Rendici i canti da Dante all’Ariosto! A mare le tue gondole! A mare i tuoi vascelli! Scoprici i mondi, quello del pensiero, quello della materia! Avanti! È per l’Umanità!


Io so, Italia, quale destino sublime ti riserva l’Avvenire.

Il tuo futuro splendore sarà ancora più grande di quello del passato. Tu non brillerai più nelle guerre, e quando scavando il tuo suolo il lavoratore troverà macerie di armi ne farà giocattoli per i suoi bambini o decorazioni per i suoi teatri.

Ma la tua lingua sarà parlata da tutti gli artisti del mondo, e sulle rive del Tevere, i popoli fratelli costruiranno un immenso teatro alle nove sorelle della Grecia. La danza e la musica, le corse, le regate, le lotte di uomini e di animali, il tetro dramma, la commedia sorridente si daranno la mano. La natura umana vi sarà vista sotto tutti i suoi aspetti, grandi o meschini, illustri o ridicoli, agili o forti, attivi o sognanti, gioiosi o desolati.

Nelle tue pianure, Italia, sotto il tuo cielo azzurro si riuniranno tutti i popoli che si conoscono meglio e che si ameranno di più. È là che essi laveranno nei flutti del vino generoso le macchie di sangue causate dalle spade.

Allora le aquile non grideranno più sui monti; i leoni, i lupi e gli orsi saranno stati distrutti dalle solitudini. La luna crescente, l’arcobaleno, le stelle, le navi, gli alberi, i frutti, i fiori, gli uccelli, gli animali utili li rimpiazzeranno sulle bandiere degli uomini.

Salve! Italia, sole del mondo nell’Avvenire!


Novembre 1855

* * *

Fine del terzo e ultimo volume

Postfazione di Raoul Vaneigem. Terrorismo o rivoluzione

La linea di demarcazione

Ecco la fine degli alibi. E che significhi subito la fine di tutti coloro che alimentano la menzogna e il dubbio sul progetto rivoluzionario. Già una volta, nel maggio 1968, l’occasione accordata dalla storia alla soggettività individuale ha tracciato con nettezza la linea di demarcazione tra i riformisti della sopravvivenza e gli insorti dalla volontà di vivere. Ma il riflusso del movimento di emancipazione globale ha incoraggiato il ritorno in forze degli ideologi e dei loro pedanti parassiti, economisti, sociologi, analisti politici, artisti, specialisti del tutto su niente, promossi, dallo stato di cose, al ruolo di burocrati del potere in via di cibernetizzazione. Lungi dal cancellare la frontiera del maggio, la nuova struttura, in cui lo spettacolo si ricompone recuperando ciò che per poco non lo distruggeva, scava ancor più il fossato.

In un contesto storico altro e fondamentalmente identico, la lotta di classe riprende i contorni senza l’ambiguità che ha conosciuto alla vigilia delle grandi sommosse. La lotta contro il “milione dorato” alla quale chiamava Gracchus Babeuf rinasce, colpita da una nuova svalutazione ma con una rabbia antica, nel confronto che pone contro i partigiani della sopravvivenza, contro il “milione imputridito” del partito della disgregazione, i partigiani della vita da ri-appassionare, il “partito” del superamento.

La questione sociale ha cessato di porsi in termini di ripartizione dell’avere. Appare ora come ciò che è sempre stata in realtà, una costruzione dell’essere concreto, una emancipazione non del cittadino ma dell’individuo sociale. Generalizzandosi sotto la pressione delle sue proprie esigenze, l’imperialismo della merce semplifica la scelta. Il sistema dominante traccia, con umorismo da becchino, sulla pelle di ciascuno la linea punteggiata seguendo la quale le istruzioni per l’uso prescrivono di tagliare. Bisogna o arruolarsi tutti interi nella sua impresa e morire per lui, o accettare le mutilazioni e sopravvivere (è certo la cosa più difficile) o affondarlo per fondare l’armonia sociale.

Le giornate del ’68 hanno mostrato con molta evidenza che la complessità del reale si condensa a poco a poco nella semplicità dei gesti; come, nello stesso momento, la verità per farsi sentire ha bisogno della voce dei pavé. E l’effetto non se n’è attenuato: mentre la coscienza del rifiuto della sopravvivenza progredisce in modo discontinuo, con le sue precipitazioni e regressioni, si introduce nel cameo dei mercanti di immagini, di tempo libero, di lavoro e di saponette una forma di fatalità, una buona coscienza di essere oggetto che ricava, dall’immediatezza del profitto, dalla sottomissione assoluta alla logica mercantile, dal susseguirsi rapido degli affari, dal cinismo dei ruoli, un nuovo identikit della felicità. Forse che l’urbanista e l’imprenditore edile – nella sua pelle di capro espiatorio – non perseguono in negativo e all’estremo opposto lo stesso piacere di chi sabota la fabbrica nel momento in cui radono al suolo vecchi quartieri, espellono gli abitanti e si assumono il rischio calcolato di finire sulle forche di cemento che costruiscono alle spese di ricchi masochisti? La loro scelta è fatta, andranno fino in fondo, lasciando la cattiva coscienza ai giovani Turchi della contestazione, che giocano il rosso o il nero alla roulette della promozione e della riuscita spettacolare.

In tal modo si unifica contraddittoriamente una borghesia legata con tutta la sua pratica all’organizzazione della sopravvivenza. Mentre dall’altra parte il proletariato aggrega chiunque si trovi coinvolto, senza potere reale di controllo, in un sistema di scambio senza fine, dove tutto è organizzato per strapparlo a lui stesso e perderlo, dove il tempo e la forza della vita si cambiano in tempo e forza di lavoro; il tempo e la forza di lavoro in salario, il salario in oggetti di rappresentazione, in rappresentazione di oggetti e, accessoriamente, in beni di sussistenza; le immagini e i beni consumabili in ruoli; e il tutto in sopravvivenza in un movimento che tende – senza arrivarci mai e senza che il proletariato possa arrivarci anche qualora lo volesse – ad estendere la sopravvivenza all’insieme dell’esistenza.

Nel movimento di accumulazione della merce in tutte le sue forme, lo spettacolo costituisce il momento congelato (e tuttavia sensibile ai cambiamenti) della rappresentazione alienante, e lo Stato, la forma organizzativa dell’autoregolazione che interviene ad ogni stadio contraddittorio dello sviluppo. L’evoluzione del sistema spettacolare-mercantile verso la sua fase totalitaria ed ultima, lascia apparire, inseparabilmente e tendenzialmente, la riduzione della cultura allo spettacolo, la riduzione dello Stato nazionale a un potere gerarchizzato tecnocratico-poliziesco (con possibilità di autonomie regionali e di federazioni internazionali), la riduzione del capitalismo di Stato e privato all’accumulazione della merce socializzata come valore di scambio simultaneamente concreto (prodotto) e astratto (spettacolo).

(La religione ha subito per prima un tipo identico di riduzione. Negata come mito o rappresentazione sacra del mondo rovesciato, essa si è conservata come frammento spettacolare e come anima dannata dello spettacolo, come modello di ogni alienazione).

L’insieme fonda la società spettacolare-mercantile o società della sopravvivenza. Sotto qualsiasi opzione politica si collochino, le opposizioni arcaiche che reclamano il ritorno alla cultura autonoma pura, al capitalismo antitecnocratico, allo Stato nazionale, non rischiano affatto di frenare durevolmente il processo. D’altro lato, non c’è nulla di più urgente per chi prepara nel rifiuto della sopravvivenza l’autogestione generalizzata, di intervenire senza esitazioni né riserve contro un sistema che non si distrugge da solo se non distruggendoci allo stesso tempo. Il “partito” del superamento non avrà altra origine che non sia una tale lotta, efficace e rapida.


Il deperimento e il rinforzamento simultaneo caratterizzano il processo spettacolare-mercantile. A mano a mano che si estende alla quasi totalità delle manifestazioni della vita, il sistema precipita il suo sprofondamento. L’accumulazione forsennata di alienazioni l’allontana sempre più dalla pratica umana senza la quale non può continuare ad esistere. Divenendo i1 suo proprio oggetto di contemplazione, si disfa facendo eguali, in un ultimo scambio, la sua somma e il niente. Questo grado di nichilismo obiettivo suppone senza dubbio più umanità in una termite che negli ultimi uomini.

Ma la sua scomparsa può fortunatamente avvenire in un altro modo. Il totalitarismo spettacolare-mercantile ha già subito l’assalto della parte di vita inalienabile, della soggettività irriducibile, dei gesti individuali non recuperabili dalla sopravvivenza. Per quanto rapidamente interrotta dall’intervento stalinista, l’esperienza del maggio 1968 ha permesso al proletariato di cogliersi nella sua coscienza di classe. Se non è deciso a liquidare il potere della merce e a sostituirgli il potere assoluto dell’autogestione generalizzata, il proletariato, privato, in nome della garanzia della sopravvivenza, di ogni possibilità di trasformare la vita quotidiana e le sue condizioni, non ha nessun altro avvenire che una proletarizzazione che gli farà rimpiangere il suo passato più scuro.

Classe di servitori del sistema, di padroni-schiavi, di organizzatori della sopravvivenza, la borghesia porta in sé l’inumanità tutta intera come il proletariato porta in sé il progetto dell’uomo totale. Sia che imputridisca sul filo della logica mercantile sia che raggiunga la sua fine nella fine della società delle classi, essa ha, soprattutto per i rivoluzionari, l’importanza che il conquistatore – coi suoi arsenali, le sue misure, tattiche e strategiche, i suoi effettivi, le sue armi di persuasione e di dissuasione, i suoi depositi – ha per il franco-tiratore.

La proletarizzazione la rode. La borghesia ricca e dirigente dei tecnocrati, dei leader sindacali, degli uomini politici, dei vescovi, dei generali, dei capo-poliziotti, entra in conflitto con la borghesia povera e sfruttata dei capi servizio, dei poliziotti subalterni, dei piccoli commercianti, dei sacerdoti più poveri, dei quadri. Sarebbe una visione rallegrante se non fosse che questo bel mondo sifilitico secerne una potenza ideologica tanto più adatta a mascherarne il deperimento quanto più tende a propagarsi come volontà di morte collettiva.

Con un movimento inverso, la frazione passiva del proletariato ne subisce gli effetti; essa partecipa, in una vera ideologia proletaria, alla disgregazione del vecchio mondo, con le sue varietà di contestazione e di anticontestazione, se è vero come è vero che la contestazione è la coscienza attiva della disgregazione e che essa definisce per negativo relativamente a sé tutto ciò che entra in deperimento.

Il risultato dello scontro che verrà dipende dal potere offensivo e difensivo dell’ala rivoluzionaria del proletariato. Da coloro che hanno non solo la coscienza, ma anche il potere di intervenire: gli operai delle officine di produzione, delle officine di distribuzione, dei centri agricoli. Costoro hanno tra le mani le radici del mondo rovesciato, costoro possono distruggere la merce. Da scudi che ricevono tutti i colpi e che servono dopo la battaglia da trofeo per i nuovi capi, essi diventeranno l’arma assoluta dell’autogestione generalizzata.

Gli ultimi giorni della cultura

Non esiste anti-cultura, né contro-cultura, né tanto meno cultura parallela o sotterranea. Sotto queste distinzioni da sociologo si opera, sottomessa ad uno sviluppo contraddittorio, la riduzione progressiva della cultura allo spettacolo, ad uno spettacolo che trasforma in ideologia tascabile le immagini del non vissuto, e le riunisce in uno spazio-tempo dove la merce è non solo prodotta, distribuita e consumata, ma anche generalizzata come necessità, caso, libertà, durata, rappresentazione; come somma delle categorie del vissuto ridotto alla sopravvivenza.

In tali condizioni cosa significa la riedizione di Ernest Cœurderoy?

Sul mercato della cultura, il libro è prima di tutto un valore di scambio. Si vende e si compra come un condizionatore d’aria o un organo elettrico. In questo caso la merce risponde alla domanda presunta di una nuova clientela, i contestatori, disposti a pavoneggiarsi col loro Cœurderoy sotto il braccio con la stessa risolutezza della domestica del XVI arrondissement con l’ultimo Montherlant. E poiché l’uso dell’intelligenza testimonia più imbecillità a sinistra che l’uso della stupidità a destra, le leggi del profitto si applicano ovunque con una bella uniformità.

D’altra parte la cultura è anche un dominio che l’esplosione del mito, alla fine dei regimi unitari, condanna ad una autonomia mortale. Più la cultura si separa come attività specifica, dall’insieme della pratica sociale, anch’essa spezzettata, più tende a scomparire in quanto tale.

Aspirata e lentamente digerita dall’organizzazione dell’apparenza, essa obbedisce alla legge del rinnovamento permanente. Costretta a trarre dalle moderne ideologie e dal suo proprio fondo storico un’abbondanza di prodotti che confermino illusoriamente la sua sopravvivenza come sfera autonoma e che rispondano alle sollecitazioni imperative dello spettacolo in espansione, la cultura sparisce culturalizzando il mondo delle rappresentazioni separate. Il suo museo di oggetti mummificati e di zombi scimmiotta il vivente accrescendo, grazie ad un’incessante archeologia del passato e del presente, il numero di tracce del vissuto; arricchisce così la galleria degli stereotipi proposti a tutti dalla fiera dei ruoli.

Dopo essere stata il rifugio della gratuità e, all’epoca romantica, il tempio proibito ai mercanti, la cultura ha ceduto alla logica del sistema economico-sociale dominante. Entra come derrata di lusso a portata di tutti nell’economia, mentre lo spettacolo, assorbendola, conferisce ai miraggi della realizzazione soggettiva l’etichetta dell’intellettualità. Il processo della merce la costituisce così, con un movimento di rafforzamento e di deperimento insieme, in un luogo organizzativo dove lo spettacolo si struttura identificando la sua essenza astratta e la sua realtà concreta.

Con le sue grandi arie di passato, la cultura porta al mondo spettacolare la illusione di una dimensione storica. Al modello di organizzazione che essa gli offriva nella disfatta delle grandi ideologie, secondo la tradizione del mito e secondo lo spirito delle religioni, la cultura aggiunge in premio la sua natura di fenomeno storico, fondando per la dilettazione morbosa degli stercofagi strutturalisti una struttura spazio-temporale, un inesauribile liquame da studio in cui si muovono i lombrichi della sincronia e della diacronia.

E la cultura è anche il pensiero dello spettacolo, la sua intelligenza separata. Più essa funziona nello spettacolo e grazie allo spettacolo, più si gonfia di conoscenze parziali. Più si allontana dalla vita, più ne subisce l’attrazione astratta, più ne parla con le parole cosiddette di “tutti i giorni”, tanto ha l’abitudine di girare a vuoto. Già preoccupati di gloria o di posterità, gli artisti, i pensatori, gli imbonitori piacevoli dell’inutile, si iscrivono oggi come lavoratori qualificati nelle fabbriche del linguaggio, dove le parole di successo li pagano in gettoni di prestigio, in moneta del padrone. E più il linguaggio si arricchisce riempito di una grande quantità di importanza nulla, meglio il potere paga.

La cultura entra nei meccanismi autoregolatori del potere. L’incitamento al sopraconsumo di immagini e di cognizioni risponde alla necessità di equilibrare la sopraproduzione degli atteggiamenti ideologici, delle menzogne sul quotidiano imposte dalla società dominante (prestigio, onorabilità, e loro contrari). Poco importa che le cognizioni abbiano a che fare con la fantasia o facciano parte delle scienze dette esatte, dato che la discussione che suscitano non ha altro scopo che di appassionare a vuoto.

Il deperimento e il rafforzamento insieme della cultura nello spettacolo seguono il medesimo movimento dello spettacolo che deperisce e si rafforza a mano a mano che la vita deperisce e si conferma sopravvivenza. La decomposizione generale assume la sua fatalità dalla sopravvivenza e dalle sue condizioni storiche, dalla sua conferma come durata, alla quale tende a ridursi ogni temporalità nella prospettiva del potere. Ma là si trova anche il suo punto debole, il punto dove si concentrano contraddittoriamente tutte le forze del rifiuto, tutte le esigenze della volontà di vivere. Il rinnovamento accelerato dello spettacolo dissimula la miseria accelerando il ritmo delle povertà; e soprattutto, spinto dall’esigenza modernista, perfeziona le tecniche di espansione e di diffusione, migliora tutto l’equipaggiamento materiale della menzogna e del condizionamento. Crea così una zona propizia al sabotaggio e al “distornamento”, all’azione sovversiva diretta del “partito” del superamento.


La cultura di oggi riunisce in un fascio, in una confusione dove i valori si sommano per raggiungere lo zero, Platone e i discorsi di Nixon, Monsu Desiderio e l’ultimo disco di Sheila, il mistero delle cattedrali e la menopausa della regina dei Belgi, Paisiello e le informazioni del “Corriere di Bukavu”, la genetica e l’impero azteco, Burbaki e lo strangolatore di Boston, gli effetti della pillola e lo scaglionamento delle ferie pagate, la gnosi e il Manuale di fornicazione familiare.

I testi di Cœurderoy non sfuggono certo a questo susseguirsi di scoperte, di informazioni, di immagini, di concatenamenti retorici, che mette sempre più gli uomini in grado di indottrinare e di essere indottrinati senza che la loro persona sia impegnata in ciò che concerne veramente. Colto nella prospettiva del potere e di conseguenza nella sua forma disincarnata, Cœurderoy corre il rischio del recupero, né più né meno di Sade.

Tuttavia la prospettiva del potere non fornisce che il puerile rovescio delle cose. La cultura come sfera separata testimonia della separazione, ma anche contro di essa. Nata dalla vita quotidiana e dalla sua creatività, l’opera culturale non si lascia ridurre puramente e semplicemente a spettacolo senza mettere in evidenza, contraddittoriamente, la pratica umana che l’ha ispirata. Costretta all’annientamento, essa rivela la parte di creatività non recuperata, libera le forze di realizzazione soggettiva momentaneamente bloccate nella trincea culturale.

Prima di sparire, la cultura svela la tradizione di ciò che la nega radicalmente, la linea di volontà di vita che l’impossibile realizzazione storica ha momentaneamente sviato verso il suo cimitero di catalettici. Tutto avviene ora come se lo spettacolo, prosciugando a poco a poco il lago della cultura passata, lasciasse emergere delle città dimenticate, delle costruzioni che la rifrazione dell’acqua faceva vedere differentemente, dei segni pronti a riprendere vita oggi, al primo shock.

Ora, l’importanza della materia culturale riportata a nuova luce – che si tratti di Don Deschamps, di Rathgeber, di una tela di Altdorfer o di una stele babilonese – deriva soprattutto dalla coincidenza non fortuita tra la resurrezione del vissuto momentaneamente pietrificato e il movimento di liberazione della creatività individuale, che è al centro del progetto rivoluzionario.

Così come il linguaggio del potere non riesce a soppiantare la poesia e come la vita non si risolve completamente in sopravvivenza, il sistema mercantile non riesce a trasformare in pura merce la creazione culturale. Lo scacco segna simultaneamente il luogo del rovesciamento di prospettiva, il punto del reinvestimnento globale della creatività uscita dal passato nel progetto di autogestione generalizzata.

Il dadaismo e il surrealismo hanno commesso l’errore di non associare la liberazione della poesia vissuta e la rivoluzione della vita quotidiana. Non appena si mette in causa come separazione, l’opera letteraria, artistica o filosofica, tenta di perseguirsi in quanto teoria radicale; ma ricade nella ideologia se esita lungo la strada, se non sviluppa, in una prospettiva di lotta collettiva, l’espressione della volontà di vivere che la sottende.

Dada aveva ben capito che la creatività, differita nell’opera culturale, merita di riprendere il suo movimento, la sua radicalità, di ritornare alla vita quotidiana per realizzarsi in essa imprimendole il potere della soggettività. Ma ha trascurato le lezioni della creatività selvaggia: la tigre che Dada non ha opportunamente offerto alla storia, la storia l’ha rimpiazzata col bue bolscevico.

Il surrealismo prende il cambio dall’ideologia dadaista. Mantiene l’illusione di una cultura al servizio della vita; una cultura imbottita, fino alla mutazione o all’intossicazione, di ciò che essa ha sempre mal tollerato, Sade, Lautréamont, Fourier, le grida della follia e dell’innocenza oppressa. Ma, per l’appunto, la cultura ha bisogno di vaccini, di colpi di frusta, di brodi di vita vera.

Dopo Dada, la menzogna consiste nel parlare di cultura senza dire spettacolo e nel passare sotto silenzio il progetto di realizzazione dell’arte e della filosofia. Il surrealismo è stato l’ultima coerenza di questa menzogna. Ha ben meritato i suoi galloni nel voyeurismo moderno. Non ha forse combattuto per la sovrabbondanza delle immagini, per il libero accesso a questo “tutto è permesso” da supermercato dove evidentemente niente è vero?

Sotto la sua bella incoscienza lirica il surrealismo, ultimo atto dell’ultima arte e dell’ultima filosofia possibile al di fuori dell’autoparodia, ha soprattutto contribuito a rianimare la fiera delle apparenze, a rinnovare lo stock delle rappresentazioni.

La maledizione dell’errore iniziale ha voluto che si consumassero, nella contraddizione drammaticamente vissuta tra volontà rivoluzionaria e ideologia culturale, quegli uomini del superamento che erano Artaud, Péret, Breton e qualche altro, mentre il “surrealismo vero”, quello della disgregazione, non conosceva miglior portavoce di Aragon-la-Rimbambita, dello sbirro Eluard-di-Praga e dell’ano del papa, Dalì-di-Carabanchel y Cordobes.

Grazie al surrealismo, tutte le immagini hanno libero corso, dal termometro a forma di cazzo al capo di Stato a forma di figa; proibirli fa parte del gioco della valorizzazione, anche un poliziotto intelligente lo capisce.

Tra il clan dei masturbatori ed il clan di coloro che non hanno niente da masturbare le scommesse sono permanenti. Ma il partito della vita che cazzo c’entra con tutto ciò?


Al sistema di morte che ci domina si oppone il partito preso dell’emancipazione totale, del superamento, dell’armonia sociale, dell’autogestione generalizzata. Alla cultura non resta che sparire in una di queste due soluzioni: o ridursi allo spettacolo come frammento pseudo-autonomo rinnovato e immediatamente assorbito, o negarsi realizzandosi nel potere assoluto del vissuto.

Nel momento in cui riscopre la sua origine, la creazione spirituale raggiunge anche la sua fine come attività separata. Coloro che si sforzano di afferrarla alle radici della vita multidimensionale non possono distinguersi da coloro che si apprestano a distornare la storia per realizzare l’immaginario. Realizzare l’arte e la filosofia appartiene al progetto di autogestione generalizzata altrettanto sicuramente quanto l’attività artistica o filosofica dipende dalla partecipazione burocratica al sistema spettacolare-mercantile. La creatività non ha più alibi.

Ancora prima che il feticismo della merce si sia esteso a tutti gli aspetti della vita, la coscienza sensibile dei pericoli che minacciavano l’individuo e la preoccupazione di mettervi riparo per mezzo di una ricerca teorica e pratica di una vera armonia sociale si manifestano in gradi diversi di alta violenza in Sade, Blake, Fourier, Marx, Hölderlin, Cœurderoy, Dejacque, Lautréamont, Libertad, Machno, Ravachol, Stirner, Bakunin, Bonnot, Pouget, Durruti. Quali circostanze storiche, individuali e collettive incitano all’espressione profetica e all’analisi critica? Qual è l’unità profonda tra Hyperion e l’illegalismo? Come Cœurderoy e Lautréamont annunciano la Comune quali poeti obiettivi? Ecco le domande che un qualunque studente abbastanza dotato per bruciare l’università, edificio e ideologia, risolverebbe facilmente dopo aver usato bene il petrolio e la sua critica. Esse non hanno interesse che tra due colpi di mano contro la merce.

Stato nichilista e nichilismo antistatale

Fondata sul sistema dello scambio assoluto, la società della sopravvivenza trascina verso il ciclo infernale dell’interscambiabilità i valori e i princìpi comunemente ammessi e singolarmente trasgrediti. Il vortice spettacolare riunisce, nella rotazione irregolarmente accelerata di un’acqua sporca verso il buco dello scarico, l’insieme degli atteggiamenti esaltati, disapprovati, incoraggiati, permessi, condannati, giudicati.

Il sistema mercantile produce l’obiettività del vuoto con un movimento di sviluppo che aspira ogni umanità a profitto della sua astrazione concreta e oppressiva. Un tempo dormivamo per un padrone, oramai sopravviviamo per una entità, per un fantasma. Ciò che pesa su di noi non è più il capitale ma la logica della merce, non è più il potere di un uomo o di una classe cosciente della sua superiorità e della sua supremazia, e neppure di una casta cinica, ma la macchina dirigente i cui dirigenti, come l’ufficiale della Colonia penale di Kafka, non sono che miserevoli ingranaggi condannati alla ruggine dell’infarto e dell’indementimento precoce.

Centro nervoso e muscolare dell’organizzazione spettacolare-mercantile, ragione e braccio secolare del totalitarismo di scambio, lo Stato si riconverte, per deperimento e rinforzo, in un potere cibernetizzato, in una autoregolazione dello sregolamento generale, in una legalità in sé di ciò che non ha più leggi. A mano a mano la sua zona di diffusione raggiunge ovunque e da dovunque gli uomini per trasformarli in cittadini a parte intera (nel senso di eunuchi onnipotenti), il suo potere si sottomette agli imperativi della accumulazione, della riproduzione e della socializzazione della merce.

La cittadinanza si identifica col diritto di partecipare di forza allo spettacolo, mentre lo spettacolo traduce in varietà di nichilismo la promozione di tutti gli esseri e di tutte le cose ridotte allo stato di merce. È questo doppio sentimento di frustrazione, come essere umano e come cittadino-spettatore-produttore-consumatore del vuoto invadente che, nel maggio del ’68, ha scatenato una prima reazione a catena in cui l’energia soggettiva liberandosi ha scosso tutti gli strati della popolazione francese. In un lampo, l’immensa speranza del rovesciamento del mondo rovesciato ha illuminato, non fosse altro che per il tempo di domandarsi: e se fosse possibile? – perfino le coscienze più ottenebrate.

L’astio e il rancore che continuano a nutrire oggi la repressione, l’esorcismo, la rimozione di ciò che si vorrebbe far passare per un momento di follia poiché denunciava la follia dominante, mostrano più che mai con quale violenza la passione distrutta si trasforma in passione di distruggere.

Una prima volta, il ritorno della rivoluzione sociale ha colto il vecchio mondo nel collimatore. La grande paura del milione imputridito ha costellato di escrementi emozionali le sue frontiere di classe. Anche se è risaputo negli uffici e nelle fabbriche che i capi puzzano, è bene che si sappia oramai che non hanno che l’odore del sistema mercantile che proteggono. E ovunque ci sono capi, puoi sentire l’odore di Stato e di potere gerarchizzato che ne è l’essenza.

Il Maggio ’68 ha rivelato ai più ciechi ciò che la confusione ideologica cercava di dissimulare, la lotta reale tra il “partito” della disgregazione e il “partito” del superamento globale. Poi, il riflusso del movimento rivoluzionario che portava in sé la realizzazione collettiva dei desideri individuali, ha respinto verso lo spettacolare il ricordo dell’autenticità, vissuta senza consequenzialità.

Senza dubbio la festa interrotta ha brutalmente rinviato a tutte le angosce, a tutti i fantasmi della stasi; ma l’insoddisfazione generale porta il marchio del colpo che quasi la vuotava come un ascesso. La società spettacolare-mercantile ha recuperato in una dicotomia nuova una grande parte delle forze radicalmente rivolte contro di essa. Le ideologie tascabili si sono raggruppate attorno ad una distinzione bipolare, ad un antagonismo tra il sinistrismo che porta e falsifica la speranza in una rivoluzione globale, e il destrismo, che vi si oppone con tutta l’energia della rinuncia tormentata o accettata.

L’illusione di un possibile scontro ha la realtà alienante di uno scontro di illusioni. Lo spettacolo mette così in scena, nel modo di una commedia drammatica, la contraddizione maggiore del “partito” della sopravvivenza: e nasconde in una sinistra ideologica l’ostilità antispettacolare del “partito” della vita, e il progetto di autogestione generalizzata. La realtà insurrezionale del Maggio scompare sotto la menzogna ed entra nella prospettiva del potere, ma la buffoneria gauchiste gli fa da così squallido travestimento che lo spazio-tempo momentaneamente perduto appare ancora di più come un vuoto che niente può colmare, se non la rivoluzione.

Poiché la rivoluzione non esiste per il potere al di fuori dello spettacolo, il destrismo ed il sinistrismo esprimono nel linguaggio dominante il recupero necessario del conflitto reale. Del resto, se il “partito” del superamento tarda a manifestarsi con efficacia, niente si opporrà allo scatenamento di una guerra civile grottesca e sanguinosa nella maniera melodrammatica del fascismo e dell’antifascismo.

I protagonisti lucidano i loro ruoli. Il coro di destra canta l’ordine, lo Stato, la gerarchia, la merce. Un coro che va, non senza conflitti, dai contralti ai bassi: neofascismo, conservatorismo, stalinismo, socialdemocraticismo, sindacalismo, trotzkismo. Nel coro della sinistra si vocifera fino a sfiatarsi, il contestazionismo ha ereditato i frammenti dell’anarchismo e di un pugno di rivendicazioni parziali portate all’assoluto (libertà delle donne, degli omosessuali, dei bambini, dei koala), il gruppismo, l’antigruppismo, l’individualismo, lo spontaneismo, il consiliarismo vocalizzano in critica critica mentre il situazionismo, solo in un angolo, dà il tono e fa finta di colpire tutto ciò che passa alla sua portata.

Tutto questo vecchio mondo in bellezza non ha mai perduto niente delle sue fratture, delle sue divergenze e dei suoi rancori; ma la pressione clandestina della coscienza selvaggia e della sua pratica impone allo spettacolo una divisione di tipo manicheo, dove sinistrismo e destrismo si spalleggiano e si gonfiano mutualmente di questo vuoto di cui provano un comune orrore. Il nichilismo non fa che accrescersene maggiormente.

Per imbecille che sia, l’ideologia gauchiste, proprio perché imbecille, conserva la traccia della teoria radicale. Recupero in briciole della teoria globale principalmente elaborata dai situazionisti, il gauchisme ha conservato a modo suo il ricordo della teoria radicale che esso falsifica. La contestazione portata dappertutto e presa per unità, e il suo rifiuto ideologico di ogni ideologia per radicalità.

Ogni contestazione entra nei meccanismi di autoregolazione che caratterizzano l’imperialismo della merce, ma nello stesso tempo accelera il deperimento del sistema, e il deperimento generalizza la contestazione. Dove misurare più semplicemente l’efficacia della contestazione come elemento di deperimento se non al centro di gravità del sistema spettacolare-mercantile, nello Stato? Gli scioperi di magistrati, funzionari, poliziotti, non sono che degli epifenomeni divertenti. Ciò che colpisce realmente lo Stato e che esso ripercuote ovunque in quanto organo di mediazione, di repressione e di seduzione, è l’indebolimento tendenziale del potere. È così che la spinta di nichilismo, suscitata dallo sviluppo del sistema mercantile, si impadronisce dello Stato ed è così che lo Stato la diffonde, volente o nolente. Come si presenta l’interazione tra diminuzione tendenziale del potere, antagonismo spettacolare e Stato in via di cibernetizzazione?

La domanda non ha senso al di fuori dell’interesse passionale che la sottende e che bisogna ricordare brevemente. Dai primi anni del 1960 era chiaro che il malessere nella società veniva dalla degradazione del clima passionale. Non solo la restrizione dello spazio-tempo della vita quotidiana condannava al ripetitivo e allo scorrimento lineare, ma i ruoli, sostituti di realizzazione autentica, cadevano nella devalorizzazione generale. L’apparenza di passione scompariva. Era prevedibile allora che l’accumulazione di valori di scambio senza valore passionale avrebbe portato con sé un uso passionale vuoto, un gusto del nichilismo che sarebbe andato dall’assassinio immotivato alla difesa assurda dei valori defunti, e che solo il progetto rivoluzionario avrebbe potuto riportare alla positività. La disposizione in destrismo e sinistrismo (gauchisme) organizza e raggruppa le pulsioni nichiliste, e rimette la politica in pista dandole una nuova spinta passionale. Una tale gratuità non fa che accrescere l’importanza del ludico. Più l’indebolimento tendenziale del potere si accentua, più il destrismo reclama il ritorno a uno Stato forte, con dimostrazioni di xenofobia, nazionalismo, mediocratismo. Il suo intervento frena la riduzione dello Stato a potere cibernetizzato, a profitto della sua funzione poliziesca e nazionale; intralcia il dinamismo del sistema mercantile ma non in modo durevole, come dimostra la lotta tra vecchio franchismo e tecnocrazia spagnola. Se, per difetto di regolazione, pressione delle ideologie all’opposizione, azioni rivoluzionarie locali, la cibernetizzazione rallenta, la diminuzione tendenziale del potere subisce una battuta d’arresto. L’ala estrema del destrismo dà nella lotta concorrenziale per il rinforzo dello Stato, il tono ai riformisti statali (liberali, stalinisti, socialisti, trotzkisti e ai loro apparati di partito, sindacati, organizzazioni, consigli economici); il sinistrismo si rinforza a misura che la contestazione risponde al ristabilimento del potere, recupera l’opposizione reale, e tende a prendere in prestito dal situazionismo la sua ideologia del superamento, della creatività, della immediatezza, alla quale non può offrire, nella violenza vissuta dell’astrazione e nella coscienza concreta del vuoto, che una pratica del gioco terrorista.

Se, al contrario, la cibernetizzazione progredisce, ravviva nel destrismo l’opposizione dell’estrema destra e conferma il potere dei tecnocrati. La diminuzione di autorità disinnesca la violenza gauchiste a profitto di una ideologia che domanda al situazionismo la sua apparenza unitaria e la sua ideologia anti-ideologica, e nutre di un riformismo della vita quotidiana, delle sue esperienze comunitarie, la “umanizzazione” del sistema mercantile.

L’irregolarità del processo mercantile fa sì che tali tendenze si affermino oggi simultaneamente senza raggiungere uno stadio parossistico. Tuttavia, al di fuori della prospettiva rivoluzionaria, l’unica via è quella del terrorismo. Se ha il sopravvento l’antagonismo ideologico tra destrismo e sinistrismo la guerra civile è inevitabile. Se al contrario l’autoregolazione dello Stato interviene, se l’antagonismo imputridisce, eccoci rimandati ai problemi insolubili della sopravvivenza e della noia, alla passione di distruggere. In un caso e nell’altro vince il nichilismo.

Apparentemente lo Stato ha buon gioco eccitando i Cosacchi del nichilismo per calmarli immediatamente con lo spettro della guerra civile e con una repressione ripartita tra una parte e l’altra, anche se nelle tradizioni della giustizia di classe. Esso tenta di apparire come il conciliatore sociale, e proprio in questo senso tutti i programmi dei partiti e dei gruppi politici precisano il suo divenire ideale. Ma basta una leggera regressione, un grano di sabbia nel reticolo, perché scoppi la crisi, o meglio perché essa riveli la sua realtà immediata. Se il capitalismo è soggetto a crisi, il sistema spettacolare-mercantile, lui, non rischia nulla da questo lato, per la semplice ragione che è uno stato di crisi permanente, è l’autoregolazione dello sgretolamento provocato dall’accumulazione e dalla socializzazione della merce; immagine della crisi che ha trovato “soluzione” nel mondo invertito dello spettacolo, esso riassorbe in un tempo ridotto alla durata – a un tempo misurato e che gli è misurato – la crisi sempre più profonda della volontà di vivere.

Al minimo pretesto – recessione economica, brutalità poliziesca, sommossa di football, regolamento di conti... – la violenza sociale riprenderà il suo corso. Non è forse il momento di compenetrarsi bene della teoria radicale, di comportarsi da moderati lavorando al progresso della rivoluzione internazionale? Poiché se il partito del superamento non riesce a liquidare le condizioni della sopravvivenza, è l’autodistruzione di tutti. Se i Cosacchi sono sguinzagliati, se i mercenari e i desperado del nichilismo si mettono in marcia, non finiremo mai di ridere nel sangue.

Non c’è ritorno indietro. Se la società della sopravvivenza ha giurato di paralizzarci a poco a poco, tanto varrebbe evitare di crepare lentamente nelle fogne della solitudine, tra la noia e l’inquinamento; tanto varrebbe precipitare allegramente il corso delle cose della morte degli esseri reificati.

Se la morsa si stringe, molti preferiranno morire prendendo il piacere di trascinare con sé, con bombe, machete o mortaio, tutto ciò che viene dal regno della sopravvivenza, giudici, preti, sbirri, capi immediati, padroni. Ecco le condizioni che Cœurderoy, Maldoror, gli Sciti di Blok e Artaud invocavano dal fondo della soggettività oppressa. Esse attendono nella strada, dove i giornali redistribuiscono la criminalità, passano i fatti diversi al setaccio che li porta sul conto del destrismo o del gauchisme, precisano i ruoli nutrendoli secondo gli stereotipi della collera e della indignazione.

Anime belle del linguaggio dominante, siete voi che incitate all’assassinio, all’odio, al saccheggio, alla guerra civile. Nell’ombra dello spettacolo crudele e ridicolo sorge la guerra antica dei poveri contro i ricchi, che oggi è, mascherata e falsificata dalla rifrazione ideologica, la guerra dei poveri che vogliono restarlo e dei poveri che vogliono smettere di esserlo.

Se la storia dovesse tardare a pronunciare, dalla viva voce dei proletari dell’antiproletariato, l’ordine di liquidazione del sistema mercantile, che essi sono capaci di eseguire, le forme antiche della violenza legalista e illegalista unificherebbero i due campi nella stessa e antagonista autodistruzione. Nell’ala estrema del destrismo e nel sinistrismo situazionizzato il gioco terroristico ha già il sopravvento come pratica ideologica della fine delle ideologie. Se noi non salviamo il ludico, esso si salverà contro di noi.


Il destrismo ha sguinzagliato i suoi miserabili. Il terrore bianco si annuncia con gli abituali miasmi della paura. La caccia alla selvaggina gauchiste allinea i capi abbattuti, nel rancore soddisfatto dell’impotenza a godere. Giovani insolenti, capelloni o arabi pagano il conto delle passioni strozzate nello spettacolo, il prezzo del voyeurismo che raggiunge l’efficacia del riflesso poliziesco nel reprimere, in ciò che vede e che vuol vedere, il desiderio di parteciparvi realmente.

Grazie al gioco degli antagonismi, basterà che alla vigliaccheria dei piccoli borghesi polizieschi smetta di rispondere la vigliaccheria degli amici delle vittime e delle vittime in potenza perché la tattica delle rappresaglie abbia la meglio sulle manifestazioni di esorcismo e sullo scoutismo protestatario. Un operaio tira sul suo capo-servizio, lo sbaglia, abbatte un poliziotto per goffaggine. Il procuratore della Corte di Assise della Loira-Atlantico chiede e ottiene contro di lui la pena di morte. Il cerchio è chiuso. Quando si spargerà l’esempio della banda Baader, e tutto congiura perché ciò accada, il procuratore subirà il castigo che si infligge, per persona interposta, ogni volta che reprime negli altri il suo proprio rifiuto di umiliazioni. Non passa mese senza che il servizio d’ordine sindacale e i commando padronali non intervengano contro gli scioperanti selvaggi, senza che la polizia non metta in prigione, non maltratti o non uccida per errore. Quale migliore incitamento alla guerriglia urbana, all’autodifesa selvaggia? Fino a che non sarà ammesso dappertutto e senza riserve che bisogna distruggere il sistema mercantile e gettare le basi dell’autogestione generalizzata, nessuna repressione, nessuna promessa, nessuna ragione potranno distogliere i rivoltosi della sopravvivenza dall’autodistruzione generale e dalla logica in corso secondo la quale è meglio abbattere un poliziotto che suicidarsi, uccidere un giudice che abbattere un poliziotto, linciare un padrone che uccidere un giudice, e saccheggiare i grandi magazzini, incendiare la Borsa, devastare le banche, dinamitare le chiese che linciare i padroni: perché le regole del gioco terrorista sono i poliziotti, i giudici, i padroni, i capi, i difensori della merce e del suo sistema di morte che li impongono e ne moltiplicano la rappresentazione.

L’esortazione illegalista ha perduto oggi il suo volontarismo desueto. L’organizzazione spettacolare incita più imperativamente alla violenza che gli anarchici del passato. L’odio per la famiglia non sa che farsene di apologeti poiché il sistema mercantile non sa che farsene della famiglia. Ma dall’istante in cui il destrismo – funzione spettacolare del nichilismo negativo – resuscita l’autorità paterna poco importa se dispotica o riformista, e la ragione ludica del nichilismo positivo quella di compensare in violenza parcellare la perdita del progetto unitario dell’autogestione generalizzata.

Incapace di portare ai bambini la coscienza della loro ricchezza e della loro spoliazione, il turbamento che introduce tra di loro il sistema mercantile raggiungendoli direttamente e per mediazione familiare è sufficiente per gettare l’inquietudine nei focolari e nelle associazioni dei genitori. (Ben diffuso, un solo testo rivoluzionario per bambini basterebbe a ridicolizzare tutto il linguaggio del loro condizionamento. A cosa pensano, sognando, gli “anti-educastratori”?). Non c’è nulla di profetico nell’assicurare che una tale inquietudine non finirà presto.

L’odio in briciole colpisce più crudelmente dello shock unitario del rifiuto. Quando i prigionieri del fuori presteranno man forte ai prigionieri delle immonde bastiglie, quando gli alienati sociali libereranno gli alienati cosiddetti mentali, sarà la disperazione di non vedere via d’uscita alla società della sopravvivenza che presiederà al massacro dei secondini e dei poliziotti in camice bianco.

Oliando la menzogna spettacolare coi resti dell’illusione celeste, i preti attirano più sicuramente la collera popolare che il fulmine che una volta invocavano sugli empi. Ortopedici dell’alienazione intima, pagliacci del sacrificio, messaggeri tradizionali della realtà rovesciata, commessi viaggiatori dello scorfano di Nazaret e di santo Guevara, devono sapere che niente può salvarli se non la critica in atto della religione, ritorno dei fuochi di gioia della Comune e della rivoluzione spagnola, la fiamma ecumenicamente portata dalle chiese alle sinagoghe, dalle moschee ai templi buddisti, fino a che non resti più una pietra dell’infamia divina.

La marcia del nichilismo si prende gioco dell’invocazione apocalittica. Se il proletariato non si disfa rapidamente mettendo fine alla società delle classi, alla società della sopravvivenza, al sistema spettacolare-mercantile, alla prospettiva del potere, se non fonda l’autogestione generalizzata, l’armonia sociale nel gioco delle assemblee sovrane e dei loro consigli, il mal di sopravvivenza rischia di generalizzare il riflesso condizionato di morte.

Il furore nazista ha già una volta, in condizioni molto meno favorevoli, dato il “la”. L’esca del profitto astratto immediato – la distruzione ecologica non ne è che un aspetto – esprime, nella rimozione e nel rovesciamento, la tensione individualmente provata da tutti verso una vita pluripassionale. Se il peso di una tale inversione sociale, obiettivamente incoraggiata dalla logica della merce, blocca il rovesciamento di prospettiva, impedisce il superamento globale, fa disperare perfino la coscienza rivoluzionaria, isola e distrugge i tentativi di insurrezione, non ci resterà che il gioco della distruzione in tutti i sensi, il piacere suicida del terrorismo, la lotteria delle sentenze immediatamente esecutive in un western sociale in cui tutti avranno meritato la pallottola che li colpisce. Tutto o niente ma non la sopravvivenza. La rivoluzione o il terrorismo.


Ora la presa dello spettacolo non è tale oggi che il proletariato si dissimuli completamente a se stesso. È invano che, grazie alla culturizzazione e ai suoi cani da guardia, la proletarizzazione crescente si fa passare per una nuova negritudine, per una fierezza di essere niente, cioè qualcosa nella scala dell’apparenza. Nessun proletario ci si sente a suo agio, ciò non ha nulla di rassicurante per chi vuole persuaderlo del contrario.

Più ancora, ciò che evoca i sogni della soggettività e le speranze della volontà di vivere, continua ad esercitare, a scapito degli involucri ideologici, un potere di animazione sulla maggioranza. Come la teoria situazionista aveva incontrato, prima del ’68, malgrado la diffusione ristretta, la migliore accoglienza degli spiriti spontaneamente disposti a capirla e a praticarla, la sua falsificazione ideologica non ha perduto la sua attrattiva razionale e passionale che per guadagnare in potere di fascinazione. Per assurdo che sia il loro impiego nei circuiti del linguaggio dominante, parole come sopravvivenza, spettacolo, realizzazione individuale, critica globale, mostrano abbastanza come lo spettacolo recuperi male la teoria radicale, e peggio ancora coloro che la praticano con la coscienza critica del recupero possibile.

Se il situazionismo diventa la panacea del gauchisme, la sua pseudo-unità nella decomposizione, questo significa anche che esso costituisce l’ultima ideologia, quella che non può che sparire, sia nella realtà alienata del gioco terrorista, sia nel movimento di realizzazione del progetto situazionista. Da ideologia critica non può che diventare ideologia in armi; e da pseudo-unità dei rifiuti, fronte dei delinquenti che portano separatamente la rivolta parziale su tutti i fronti dell’oppressione e della menzogna.

Al suo ultimo stadio, un tale recupero mette anche in luce una separazione essenziale, principio di ogni gerarchia, di ogni sacrificio, di ogni separazione: la divisione tra intellettuale e manuale.

Mentre l’accumulazione e la socializzazione della merce comportano un abbassamento tendenziale del potere, la devalorizzazione del ruolo e della funzione dell’intellettuale coincide con la culturalizzazione dello spettacolo. Assorbendo la cultura, lo spettacolo tende a ridurre il ruolo intellettuale ad una funzione burocratica, mentre l’astrazione da sé, nei ruoli ai quali l’individuo è sottomesso, è sentita come promozione e regressione verso l’intellettualismo.

Lo spettatore si intellettualizza a mano a mano che lo spettacolo prosciuga i serbatoi della cultura. Di modo che, rifiutandosi come spettatore, come partecipante alla passività generale, ciascuno viene a criticarsi nella sua intellettualizzazione forzata.

A differenza del vecchio rancore degli autodidatti e degli ignoranti verso gli uomini di cultura patentati, il rifiuto spontaneo dell’intellettualismo risponde a una critica confusa dello spettacolo e dei ruoli. Così è divertente vedere come nell’antagonismo delle ideologie di destra e di sinistra, l’intellettualismo degli anti-intellettuali si leva contro gli intellettuali dell’anti-intellettualismo; come i pensa-bestia fanno la guerra alle bestie pensanti.

L’intellettuale – quello dell’accademia, del caffè del commercio o dei gruppuscoli – secerne ideologia come l’ideologia generalizzata intellettualizza il più abbrutito dei vecchi combattenti. I cambiamenti sociali non sono stati suscitati fino ad oggi che tramite l’agitazione degli intellettuali, sotto il loro controllo e con la mediazione della cultura. A considerare come la radicalità di Marx, de Sade, Fourier, ha potuto scomparire, come comincia a rivivere nel progetto situazionista e come si espone a diventare, tra le mani della nuova universalità intellettuale un incomprensibile ammasso condannato due volte dalla pratica terrorista – in quanto sua sorgente occulta e in quanto sua inutile dimensione astratta – pare urgente trasmetterla a coloro che ne conoscono l’uso, dato che viene dalla loro pratica e dato che solo la loro pratica può perseguirla senza fine. È tempo che coloro che la trasmettono e la perseguono siano già dei declassati coscienti della lotta per la liquidazione delle classi, dei rivoluzionari che vivono il più unitariamente possibile e vogliono provare la loro efficacia distruggendo la radice del mondo delle separazioni.

Da coloro che si preparano ad agire soli perché sanno che migliaia di altri agiranno nello stesso senso, nascerà il “partito” del superamento, questa resurrezione, in condizioni molto più favorevoli, di ciò che Marx ed Engels avevano potuto chiamare “il nostro partito”.

Il “partito” del superamento e il gioco sovversivo

... L’umanità non sarà distrutta né dal Disordine dell’anarchia né dalla confusione del Dispotismo [...]; non nascerà da questo nuovo conflitto tra le due potenze primordiali dell’uomo niente altro che una nuova Rivoluzione che lo conserverà.

Hurrah! o la rivoluzione ad opera dei Cosacchi

A mano a mano che prosegue il movimento di accumulazione e di socializzazione della merce, la vecchia opposizione tra capitalismo privato e capitalismo di Stato si abolisce nella realtà totalitaria del sistema spettacolare-mercantile.

Individualizzando l’alienazione, l’universalità mercantile fa toccare a ciascuno l’identità che esiste tra tutte le forme di oppressione e di menzogna e il movimento di riduzione con cui la vita si cambia in sopravvivenza. Contraddittoriamente, tutte le forme di rifiuto portano in sé la propagazione collettiva della volontà di vivere, sentita individualmente.

Tutto tende a divenir merce in un processo dove ciò che si oppone all’imperialismo mercantile tende a diventare tutto. La rivoluzione è legata a questa presa di coscienza. La radice della società spettacolare-mercantile è la merce, l’essere e l’oggetto totalitariamente trasformato in valore di scambio. La radice dell’autogestione generalizzata è l’uomo stesso, l’individuo concreto nel suo movimento di liberazione unitaria e collettiva.

Il fascino che esercita oggi il situazionismo mostra che la teoria radicale ha raggiunto una frazione del proletariato ma che questa frazione non se ne è impadronita che in frammenti. Dato che la frazione toccata era quella dei lavoratori intellettuali, che disponeva di poca efficacia nella lotta contro il sistema mercantile, il ghetto stalinista isolava la frazione operaia, ecc. Ma anche perché la pratica della radicalità mancava di precisione.

Per indispensabili che siano, il rifiuto della gerarchia, la critica globale, l’analisi permanente, la diffusione della teoria radicale e la sua pratica non sfuggiranno al rischio dello slittamento ideologico e al volontarismo etico che tenta di opporvisi, fino a che la radice del sistema mercantile non sarà stata raggiunta grazie ad una azione collettiva in cui le passioni individuali dominano e si ingranano, grazie ad un gioco sovversivo dove l’avventura vissuta esperimenta, in distornamenti e sabotaggi, la distruzione della merce e l’autogestione generalizzata.

Affermare la volontà di vivere, illuminare le ragioni della soggettività radicale, chiamare alla lotta contro il sacrificio, il ruolo, il militantismo, non prende il suo vero senso che in una pratica la cui efficacia fonda obiettivamente la speranza di cambiare radicalmente le condizioni dominanti. Nei periodi in cui si elaborava l’analisi delle nuove condizioni storiche, le esigenze imposte al rivoluzionario nell’unità della sua teoria e della sua pratica obbedivano alla necessità di fondare una coerenza, in modo essenzialmente difensivo, in un mondo dove tutto l’aggrediva. Non riuscendo a sconvolgere direttamente le condizioni alienanti, la tecnica offensiva consisteva nel prendersela con le persone, nel trattare da nemico chiunque si allineasse alle condizioni dominanti.

D’ora in poi, è possibile esigere meno e ottenere di più dall’anti-militante rivoluzionario, dato che è possibile passare all’attacco del sistema, gareggiare nell’efficacia dei colpi dati e provare, con la pratica del gioco sovversivo, l’eccellenza delle proprie passioni nella razionalità che le anima.

Perché non scegliere la facilità? Dove c’è scambio non c’è piacere. Smettete di lasciar cadere la vita per afferrarne l’ombra, di rimuginare noia, di militare, di lavorare, di gerarchizzare, di rinunciare, di programmare, di agire per non dire nulla, di durare il tempo che durano queste cose. Smettete di economizzare sul niente. Rilassatevi e senza sforzo riscoprite l’avventura del sabotaggio e del distornamento, imparate a giocare, da soli o in molti, alla distruzione del sistema mercantile, con rischio e piacere.

La teoria non è colta radicalmente fino a che non è sperimentata. Essa non tocca che superficialmente l’individuo che non vi scopra l’uso che può trarne la sua volontà di vivere. Fuori da una tale unità, le passioni si ingorgano, si rivoltano contro se stesse, la teoria si sbriciola, l’ideologia e le passioni si accordano nella stessa inversione. O il terrorismo, o il gioco sovversivo. La posta in gioco è importante. Dopo ciò che i sociologi hanno potuto chiamare – perché essa non li ha fatti saltare in aria – l’esplosione del Maggio, le belve della spontaneità sono scatenate. L’autoregolazione del potere, minacciata da tutte le parti come il potere minaccia da dovunque, punta sull’antagonismo tra destrismo e sinistrismo, e sul suo deperimento, per canalizzare l’energia soggettiva. Ma per chiunque scopra di colpo il carattere unico del suo universo soggettivo, la pluralità dei desideri, la violenza del voler-vivere, cosa può esistere di più innocentemente piacevole che il gesto del gettare nel macchinario delle vessazioni quotidiane un po’ di limatura di ferro? Il “partito” del superamento nascerà da tali gesti, da tali individui. La sua esistenza come manifestazione collettiva è legata alla domanda: cosa può fare ogni individuo per distruggere ciò che lo distrugge, moltiplicando le sue possibilità di vita autentica? Dalla risposta dei fatti verrà l’autogestione generalizzata.

Non soltanto il gioco sovversivo esclude, per semplice coerenza, ogni pratica militante, ogni azione che implicherebbe il sacrificio, la rinuncia o l’accrescimento della miseria, ma l’apprendistato dell’autogestione – che ne è la positività – incita a tutti gli arricchimenti della vita quotidiana. Sui luoghi di intervento, la ricerca dell’impunità è la forma tattica più sommaria della creatività.

Così che, invece di predicare la soluzione rivoluzionaria dall’esterno, come avviene non appena si ricorre unilateralmente al libro, ai discorsi, al testo – anche se portano in sé la loro critica – è preferibile che la teoria radicale si comunichi inseparabilmente nella propagazione dei metodi di sabotaggio e distornamento; sta ai giocatori sovversivi diffonderla a loro volta, con tutti i mezzi, propagando le loro tecniche particolari e i tipi di azione che giudicano appropriati alle loro possibilità di movimento nel sistema.

Di fatto non c’è una fabbrica, non c’è un ufficio in cui il sabotaggio e il distornamento non si applichino allegramente. Basta generalizzarli con la coscienza del progetto che unisce la liquidazione del sistema mercantile e l’apprendistato dell’autogestione generalizzata. La presenza della critica globale dà all’azione intrapresa contro frammenti della merce il suo massimo di efficacia, di impunità, di piacere. Essa è la dimensione rivoluzionaria nella sovversione e nell’emancipazione quotidiana individuale, l’apertura verso il superamento collettivo, la garanzia della razionalità tattica e strategica. (Ho esposto in modo sommario in “I. S.” n. 12 un primo schizzo di modello possibile d’organizzazione sociale armonizzata). Congiungendosi con il gioco sovversivo spontaneo, la critica radicale, che ha trovato il suo punto di sviluppo meno incompleto nella critica situazionista, rinforzerà l’unità fondamentale pratica che permetterà tutte le varietà di azioni rivoluzionarie.

È importante che ciascuno faccia individualmente la prova della sua autonomia e della sua efficacia affinché, abituato ad agire da solo nella coscienza di un progetto comune, ad assumere su se stesso sia i successi che i fallimenti, impari a non tollerare mai che si agisca in nome suo, a non sostituirsi mai agli altri e a scoprire nel rafforzamento della sua volontà di vivere la verità pratica dell’azione collettiva.

È ad iniziare dall’individuo, con le sue passioni, la sua creatività, la sua immaginazione, la sua sete insaziabile di esperienze vissute, che esploderanno i movimenti di liberazione e di armonizzazione collettiva. E nessun movimento collettivo raggiungerà la forza qualitativa della radicalità fino a che non avrà dimostrato di accrescere il potere degli individui sulla loro vita quotidiana. Essere radicale, è mettere la storia al servizio della felicità individuale.

Al contrario delle folle, condizionate e condizionabili, che le masse coscienti si compongano di individui coscienti della loro soggettività e delle loro esigenze globali! Che l’imperialismo della soggettività sviluppi, nelle lotte in corso, la spontaneità dell’autogestione collettiva! Ciascuno per sé e l’autogestione per tutti.

Il gioco sovversivo considera ormai il sistema spettacolare-mercantile dal punto di vista del migliore intervento rivoluzionario possibile. Nel paesaggio dall’alienazione sociale quali sono le posizioni chiave del nemico? Dove la pratica radicale ha più possibilità di colpire radicalmente?

Per quanto unitariamente la strategia debba apparire a poco a poco alla coscienza, va da sé che i metodi di lotta, la qualità dei combattenti, le possibilità di tallonamento tattico differiscono secondo il luogo di esercizio del gioco sovversivo, cioè secondo la situazione privilegiata dei giocatori nella prospettiva del potere: organizzazione spettacolare, apparato repressivo, base economica.


Nemici naturali della borghesia, che raggruppa attualmente gli organizzatori della sopravvivenza, i proletari non diventano rivoluzionari che evitando i trabocchetti dell’ideologia, nel movimento in cui la loro pratica spontanea elabora la teoria radicale e si conferma come coscienza pratica. Fino ad oggi l’accento è stato messo da un lato sull’elaborazione della teoria radicale attraverso l’analisi delle varie forme di rifiuto del vecchio mondo e attraverso la pratica in cui l’analista si negava come coscienza separata; da un altro lato – ma inseparabilmente – sulla sua diffusione. Il problema era quello di dire dovunque alla gente: ecco le vere ragioni che guidano le vostre azioni. Così che, prendendo coscienza della loro miseria e della loro ricchezza, si riconoscano in un progetto comune e, da quel momento, agiscano efficacemente con una migliore conoscenza di ciò che realmente desiderano. Il risultato della critica situazionista l’hanno rivelato le giornate del Maggio. Persino un sociologo potrebbe, per mezzo di un semplice identikit, misurare l’impatto dell’I. S.

Ora che il relitto del gauchisme manipola le briciole della rivoluzione possibile nella prospettiva del potere gerarchizzato, è tempo di sostituire la disperazione col piacere: di incitare alla teoria radicale stimolandone i modi di impiego.

Come rinforzare la teoria e la pratica rivoluzionarie partendo da e sulla base di esperienze vissute? La risposta viene dalle condizioni dei ruoli e delle funzioni che determinano il gioco sovversivo per ogni individuo.

I ruoli sono le compensazioni sostitutive della povertà funzionale che diventano funzioni di integrazione allo spettacolo. È altrettanto malagevole e malsano intraprendere la critica dei ruoli partendo dai ruoli che lavorano a testa in giù.

A seconda che il proletariato agisca sui luoghi possibili di intervento radicale, più per mezzo della funzione che per mezzo del ruolo, o più per mezzo del ruolo che per mezzo della funzione, la facilità e l’efficacia del gioco sovversivo variano. Mentre il lavoratore intellettuale, arruolato nell’armata dei quadri, gettato nello spettacolo con il prestigio come funzione, trova molta difficoltà a percepirsi quale individuo concreto nel labirinto dei ruoli, e a scoprire il filo di una azione critica e non ideologica, l’operaio, nelle condizioni di influenza immediata sul sistema mercantile in cui si trova per la maggior parte del tempo, ha tutte le possibilità e tutte le occasioni di negarsi come lavoratore e come manuale.

Ma, d’altro canto, l’operaio stesso sopravvive anche nello spettacolo e nella giungla dei ruoli. A sua volta ha dunque molto da imparare dei metodi di lotta radicale sul fronte dello spettacolo e dell’organizzazione statale. La generalizzazione del gioco sovversivo radicale garantisce la fine delle separazioni.

Il principio secondo cui ciò che è più facile distruggere e distornare è anche ciò che è immediatamente concreto nei meccanismi oppressivi del sistema spettacolare-mercantile indica chiaramente che la funzione semplice e più concreta permette la migliore pratica rivoluzionaria clandestina. Nulla impedisce, all’occorrenza, di citare sommariamente, a titolo di esempio, qualche possibilità di intervento, di cui l’opportunità e le conseguenze prevedibili saranno sempre calcolate alla luce della critica e della strategia globale.

Ricetta per il passatempo degli impiegati e dei funzionari subalterni (banche, uffici tasse, assicurazioni, ministeri, divisioni amministrative): distruzione di dossier e archivi, blocco delle comunicazioni, incendio dei locali con la critica dei settori parassitari, distornamento dei fondi a favore degli scioperi selvaggi, autodifesa contro ogni vessazione, ecc.

Ricetta per il piacere dei medici: denunciare i manicomi e provocare la loro distruzione, liberare i detenuti, incoraggiare l’assenteismo, spiegare il ruolo e la funzione del medico nel sistema dominante, preparare la liquidazione della medicina come specializzazione, ecc.

Ricetta per la soddisfazione degli avvocati: favorire l’evasione dei prigionieri e la distruzione degli stabilimenti penitenziari o di “rieducazione”, pubblicizzare i metodi polizieschi e il modo di rispondervi, incendiare le cancellerie e le preture, preparare l’incriminazione dei giudici e dei procuratori, diffondere libelli contro la merce giudiziaria, ecc.

Ricetta per la salvaguardia degli ingegneri tecnici: preparare il distornamento della produzione al momento dell’occupazione delle fabbriche, spiegare il funzionamento e il disfunzionamento del settore industriale prioritario, sabotare la trasmissione degli ordini, mostrare il ridicolo obiettivo dei capi, portare tutto l’aiuto tecnico necessario agli scioperanti selvaggi, ecc.

Ricetta per il divertimento degli studenti e delle studentesse dei licei e dei professori: rendere impossibile la sopravvivenza ai detentori dell’autorità, distornare l’equipaggiamento tecnico a profitto della diffusione della teoria radicale, collaborare alla liberazione dei bambini e studiare il superamento possibile dell’infanzia nell’autogestione generalizzata, distruggere i locali costruiti come prigioni e centri di droga ideologica, ridicolizzare obiettivamente le associazioni dei genitori, inventare tecniche di autodifesa, preparare il reinvestimento della cultura nella teoria radicale, scoprire la passione dell’amore e praticarla nella prospettiva fourieristica dell’armonizzazione sociale, ecc.

Ricetta per la gioia dei tecnici dei circuiti di comunicazione (tutte quelle persone che particolarmente privilegiano la ricchezza dell’equipaggiamento materiale messo in opera dalla riduzione della cultura a spettacolo): interventi-pirata alla radio e alla televisione, in diretta o per mezzo di bande magnetiche e film inseriti nei programmi, annotazioni dei linotipisti nei libri e nei giornali che stampano, ecc.

Che ogni professione scopra così ciò che affretterà la sua fine ogni volta che un lavoratore scopre come può distruggere tutto quello che si appropria di lui, per appropriarsi di tutto ciò che gli permette di costruirsi. La creatività non ha limiti. (Solo il giorno in cui i poliziotti, nell’altro campo, folgorati da intelligenza e trascinati dall’emulazione, bruceranno i registri, distruggeranno gli apparati elettronici e impareranno a vivere, noi cominceremo a dimenticarlo).


Non fosse che relativamente alla facilità di esecuzione, di impunità e di efficacia, il piacere della sovversione ludica è, con ogni evidenza, il privilegio di chi ha nelle mani la merce in gestazione, degli operai dei settori di produzione e di distribuzione: fabbriche, depositi, grandi magazzini, centri di produzione e cooperative agricole, trasporti di merce (camionisti, ferrovieri, scaricatori, ecc.).

Praticati dappertutto, il sabotaggio e il distornamento si esercitano col massimo di riuscita felice. Nel settore vitale del sistema spettacolare-mercantile, il lavoratore manuale è, dal punto di vista della lotta rivoluzionaria, colui che ha in pugno la materia prima dello scambio generalizzato.

Non è scandaloso che, con o senza occupazioni di fabbriche, gli scioperi non siano mai arrivati fino ad oggi a mettere le mani sulla merce?

Nel migliore dei casi ne sospendono la produzione, raramente la distribuzione, non turbando che superficialmente i meccanismi di autoregolazione. Ora, a questo stadio di intervento, non è il sabotaggio che importa di più, ma il distornamento, il distornamento della materia prima degli scambi, tutti i modi di sottrarla ai circuiti di produzione e di distribuzione in cui essa diviene valore di scambio, si accumula, si riproduce, si socializza, tutti i modi di metterla al servizio collettivo della volontà di vivere individuale.

I depositi, i supermercati, le industrie prioritarie (cioè quelle che forniranno l’equipaggiamento materiale necessario alla realizzazione dei nostri desideri), possono veramente ritrovare, al loro livello di sviluppo attuale, le funzioni che occupavano nelle comunità ancestrali di tipo libertario (tra i Trobriandesi, per esempio), la forgia e il granaio comunali. I prossimi scioperi saranno meno noiosi, e dunque più rivoluzionari, quando offriranno l’avvio a un uso umano dei beni di produzione e di consumo.

Come potrebbero degli scioperanti trascurare, se lo sciopero fosse veramente il loro, se essi vi agissero in piena autonomia, di impadronirsi degli stock per distribuirli, utilizzarli a loro profitto, (armi, mezzi di pressione sui dirigenti padronali e sindacali), o di distruggerli se non hanno valore d’uso (putridume in scatola, prodotti inquinanti, gadget, ecc...)?

Contro il terrorismo del furto, del saccheggio, e dello sfruttamento legale, i venditori, le venditrici, gli addetti alle casse di registrazione dispongono di tattiche sicure. Gli è sufficiente, sotto qualche pretesto di sciopero, organizzare la distribuzione gratuita dei prodotti tradizionalmente trasformati in merce e la diffusione di testi che spieghino come questa pratica nuova annuncia il modo di organizzazione sociale gestita da tutti. A titolo individuale è possibile far scivolare nell’imballaggio di un prodotto un foglietto con l’indicazione del prezzo di costo reale, precisandone la pessima qualità, la sua funzione di illusione. E così via. La creatività sovversiva porta in se stessa, più sicuramente che i richiami alla coerenza rivoluzionaria, questo principio del piacere saziabile e insaziabile, questa semenza di realizzazione autentica che si sparge dappertutto, rinsalda la libertà, precisa l’autonomia, distrugge dall’interno i ruoli, le ideologie, gli autoritarismi, i comportamenti ripugnanti (gelosia, avarizia, disprezzo della donna, del bambino, dell’uomo...). Nell’autonomia che si generalizza con la sovversione portata contro il sistema mercantile, è la sopravvivenza che è messa in causa in nome della vita, fondando così il movimento di autogestione generalizzata.

Se si vuole evitare che la logica di morte del terrorismo abbia il sopravvento, bisogna aprire la porta alla libera espressività anonima e coscientemente orientata contro l’ordine delle cose, non contro i suoi servitori. Le ideologie se la prendono con gli uomini, il gioco sovversivo con le condizioni. Il terrorismo mostra ai piccoli capi che se non mangiano i grandi saranno mangiati per primi. Il ludico sovversivo si accontenta di scuotere l’albero di cocco della gerarchia affinché non vi resti nessuno – se non coloro che si sono messi troppo in alto o che ci si aggrappano – nel momento di bruciarlo. Ugualmente è preferibile, nella tattica di cattura degli ostaggi, portare la minaccia di distruzione su prototipi costosi, sugli stock, sui calcolatori piuttosto che sui padroni (che si giustizieranno solo in caso estremo, per esempio se si tarda a ottenere il disarmo e il ritiro delle forze repressive inviate per spezzare lo sciopero insurrezionale). L’esperienza clandestina, la sovversione anonima, offrono a chi teme i “superiori” gerarchici – non per vigliaccheria, ma perché sa bene come un proprietario di autorità, per ridicola che sia, dispone dei poteri di tormentare e di reprimere – l’occasione di riprendere sicurezza, di misurare l’inganno dei ruoli, di scoprirsi come soggettività originale, di non avere quella paura che è la molla del terrorismo, di conoscere questo sentimento segreto di ricchezza autentica che fa il coraggio e la risolutezza nello sciopero e nell’insurrezione .

Siamo in migliaia a scoprire, confermando le nostre proprie possibilità, una rivoluzione di cui vogliamo gustare il piacere al punto di correrne i rischi; e noi conosciamo abbastanza bene la forza della repressione per studiare tutti i modi di evitarne il dispiacere. Prudente o incendiario, il giocatore sovversivo non è mai candidato al martirio. Il grande gioco della sovversione anonima prepara l’apparizione internazionale del “partito” del superamento in azioni collettive esemplari. In questo stile di intervento radicale, l’individuo si coglie alla radice cogliendo la radice del mondo mercantile, diventa il proprio leader contrario a tutti i leader, dà alle sue passioni autentiche – all’amore, agli incontri, al gioco, all’odio, alla creazione, al sogno – la loro dimensione di realizzazione multidimensionale, il loro alveo nella storia da fare.

A questo punto si pongono i problemi della tattica. Il sabotaggio non ha ragione di esistere che dove il distornamento è impossibile o inutile? Ogni errore nocivo al progresso della teoria e della pratica radicale deve essere messo in conto alla provocazione padronale o sindacale e corretto come tale? Le organizzazioni non sono che delle federazioni di individui autonomi, uniti e disuniti in rapporti obiettivamente e soggettivamente di tipo fourierista? Ecc.

“Se voi credete che ciò stia per finire, vi sbagliate di grosso... ”.


5 gennaio 1972

 


[Raoul Vaneigem, Terrorisme ou révolution, in Ernest Cœurderoy, Pour la révolution, Paris 1972, pp. 9-44. Traduzione italiana pubblicata in Raoul Vaneigem, Wolf Woland, Terrorismo o rivoluzione e Teoria radicale, lotta di classe (e terrorismo). Appunti per il bilancio di un’epoca, Torino 1982, pp. 7-47]

 
 

Questo sito, oltre a informare i compagni sulle pubblicazioni delle Edizioni Anarchismo, archivia in formato elettronico, quando possibile, i testi delle varie collane.

L’accesso ai testi è totalmente libero e gratuito, le donazioni sono ben accette e servono a finanziare le attività della casa editrice.

Prossime uscite
Rudolf Rocker, Nazionalismo e cultura Charles Malato, Dalla Comune all'anarchia William Godwin, Ricerca sulla giustizia politica e sulla sua influenza su morale e felicità