Introduzione di Alfredo M. Bonanno
Prima edizione: novembre 1975
Seconda edizione: marzo 2016
Pierre-Joseph Proudhon
Sistema delle contraddizioni economiche. Filosofia della miseria
Seconda edizione
Introduzione di Alfredo M. Bonanno
Introduzione alla seconda edizione
Introduzione alla prima edizione
1. – Opposizione del fatto e del diritto nell’economia della società
2. – Insufficienza delle teorie e delle critiche
1. – Opposizione tra il valore d’utilità e il valore di scambio
2. – Costituzione del valore – definizione della ricchezza
3. – Applicazione della legge di proporzionalità dei valori
III. Evoluzioni economiche: epoca prima. La divisione del lavoro
1. – Effetti antagonisti del principio di divisione
2. – Impotenza dei palliativi. Blanqui, Chevalier, Dunoyer, Rossi e Passy
IV. Epoca seconda. Le macchine
1. – Ufficio delle macchine nel loro rapporto con la libertà
2. – Contraddizione delle macchine. Origine del capitale e del salariato
3. – Rimedio contro l’influenza disastrosa delle macchine
V. Epoca terza. La concorrenza
1. – Necessità della concorrenza
2. – Effetti sovversivi della concorrenza e come essa distrugga la libertà
3. – Rimedi contro la concorrenza
VI. Epoca quarta. Il monopolio
2. – Disastri nel lavoro e pervertimenti d’idee causati dal monopolio
VII. Epoca quinta. La polizia o l’imposta
1. – Idea sintetica dell’imposta. Punto di partenza e sviluppo di quest’idea
1. – Colpevolezza dell’uomo. Esposizione del mito del peccato
2. – Esposizione del mito della Provvidenza. Retrogradazione di Dio
IX. Epoca sesta. La bilancia del commercio
1. – Necessità del libero commercio
2. – Necessità della protezione
3. – Teoria della bilancia del commercio
1. – Origine e filiazione dell’idea di credito. Pregiudizi contraddittori relativi a questa idea
2. – Sviluppo delle istituzioni di credito
3. – Menzogna e contraddizione del credito. Suoi effetti sovversivi. Suo potere depauperante
XI. Ottava epoca. La proprietà
2. – Cause dello stabilimento della proprietà
3. – Come la proprietà si depravi
4. – Dimostrazione dell’ipotesi di Dio per mezzo della proprietà
1. – La comunione deriva dall’economia politica
2. – Definizione di ciò che è proprio e di ciò che è comune
3. – Posizione del problema comunista
4. – La comunione prende il suo fine per il suo principio
5. – La comunione è incompatibile con la famiglia, immagine e prototipo della comunione
6. – La comunione è impossibile senza una legge di riparto, ed essa perisce mediante il riparto
7. – La comunità è impossibile senza una legge d’organizzazione e perisce mediante l’organizzazione.
8. – La comunità è impossibile senza la giustizia, e perisce per la giustizia
9. – La comunità eclettica, non intelligente e inintelligibile
10. – La comunità è la religione della miseria
XIII. Decima epoca. La popolazione
1. – Distruzione della società mercé la generazione e il lavoro
2. – La miseria è opera dell’economia politica
3. – Principio d’equilibrio della popolazione
Appendice I. Di un certo Proudhon, di alcuni imbecilli e di altre cose
Introduzione alla seconda edizione
Sento spesso, parlando con molti compagni, un desiderio diffuso di accostarsi ai problemi dell’economia. E mi rendo conto che questo desiderio è, per molti aspetti, destinato a rimanere tale. Non perché si tratti di problemi difficili, che richiedono necessariamente una preparazione di fondo per essere compresi. Ma per altri motivi che fanno da ostacolo. Vediamo di chiarire alcuni di questi ostacoli, prima di azzardarci a dare qualche indicazione di lettura riguardo Proudhon.
Tutti parliamo di cose che conosciamo solo in parte, a volte in minima parte, e questo è normale, direi che oggi, allo stato di elevatissima parcellizzazione della ricerca scientifica, è quasi inevitabile. Nessuno può dire veramente di sapere fino in fondo quello su cui insiste nel farci conoscere le sue opinioni. Che poi di queste opinioni non abbiamo effettivamente bisogno, andando a ingrossare il gran mare delle idiozie che ci circonda, questo è tanto vero quanto inutile sottolinearlo. Ci sarebbe bisogno di idee, ma chi può dirsi veramente in grado di avere delle idee? Pochi. Quando qualche idea bussa al nostro cuore e lo mette in subbuglio, gettandoci nelle braccia dell’azione, subito mille preoccupazioni dettate dal senso comune, incrollabile roccaforte del quieto vivere, intervengono per circondarla di distinguo, di prese di distanza, di bambagia protettiva. Non facciamoci troppo male con le idee, meglio avvolgerle in un involucro ideologico che ci fa bellamente sembrare quello che non siamo, anche se qualche volta la coda esce da sotto il basto che malamente ci accomodiamo sulla schiena.
Per carità, che c’entrano le idee con l’economia? Quando mai gli economisti hanno avuto delle idee? A volte i compagni mi sollecitano a una tenue spiegazione di qualche problema tecnico – oggi quasi sempre avvolto in neologismi inglesi per darsi un tono e non sembrare troppo volgare – e, non sempre, ma qualche volta, mi azzardo a dire un tocco di scienza in più. Di scienza!, si fa per dire, di quell’arte bastarda che mette in mano ai massacratori strumenti più o meno rozzi per continuare nel loro orribile progetto. Tale è l’economia.
Ovvio, mi sembra, che per capire dove sta per arrivare il colpo bisogna conoscere e le intenzioni dell’energumeno che ci aggredisce e le forme e strutture dell’arma che impiega, ma questa ovvietà indiscutibile, è spesso messa da parte. Diomio! Mettersi a studiare economia, un anarchico! Meglio rammaricarsi della mancata conoscenza e lasciare che altri lo facciano, altri che della manna conoscitiva piovuta sul capo fanno tesoro per guadagni in termini personali e di classe.
Dicevo dell’azzardo al quale qualche volta mi abbandono. Nessuna risposta. Non dico chiara, nel senso che un singolo, piccolissimo accenno ad un problema tecnico – economico, ché di questo stiamo parlando – sia stato recepito e quindi si voglia provvedere a un semplice approfondimento, no, non dico questo, dico: nessun segno di ricezione, come se stessi parlando una straordinaria lingua incognita. Che diavolo succede se aumenta la quantità di denaro in circolazione? Se si decide l’utilizzo di una moneta diversa da quella oggi adottata? Se diminuisce la produzione di beni di consumo durevoli (che cosa sono mai questi beni che vengono consumati e durano più a lungo di un cono gelato? Forse sono più duri da masticare?). E se l’occupazione lavorativa diminuisce? E come si stabilisce effettivamente il valore di un bene? (Che cosa sia il valore, ovviamente, nessun economista lo sa con certezza, ma tutti ne parlano – e ne parliamo – come di qualcosa di veramente esistente, abbastanza simile a quando si discute della Trinità o dell’anima dei defunti). E i debiti dello Stato? E le tasse? E le imposte? (Ma non sono la stessa cosa? No, non sono la stessa cosa). E così via.
Silenzio. Eppure i giornali – sì, proprio i giornalacci che strillano come aquile tutti i giorni – parlano continuamente di questi problemi. E perfino i fogli anarchici, da me religiosamente archiviati nei miei due archivi, quello grande e quello piccolo, insistono a parlare di questi problemi (economici?). E allora. Semplice, tutti parliamo di cose che non sappiamo. Normale, non vi pare?
Non sto suggerendo di impadronirsi di un Que sais je?, come ce n’erano a profusione in Francia una volta, scegliendo quello specializzato in economia. Da noi esistevano anticamente i bignamini. Non hanno mai risolto nessun problema di conoscenza. Dico che si potrebbero affrontare alcuni problemi, magari scegliendo letture non difficili, eliminando le inutili superfetazioni matematiche che hanno alimentato le illusioni del capitale quarant’anni fa, e discuterne con altri compagni, seriamente. Seguendo questa strada si vedrebbe che mettendo da parte le vuote chiacchiere che spesso facciamo fra anarchici in nome, ognuno, delle proprie certezze, sulle quali è disposto a giurare eterna fedeltà, e legandosi alla necessità di parlare di cose concrete (che cos’è il denaro? perché il denaro non è il capitale? che cos’è una banca? che cos’è la Borsa? che cos’è un’azione di una società per azioni? perché un’azione di questo genere è diversa da un’obbligazione? che cos’è la sottoscrizione di un prestito statale? e non molti altri) si eviterebbero molte malcomprensioni, parecchie polemiche e quasi la totalità delle tempeste all’interno di un bicchiere d’acqua.
Non sto suggerendo di prendersi una laurea in economia, chi ce l’ha se la tenga visto che oggi anche con quella non riuscirà lo stesso a trovare un lavoro, sto parlando di piccoli passi su di un terreno minato, dove il nostro nemico continua a seminare i suoi trabocchetti e dove continuamente perpetua il suo dominio.
Eccoci al nostro Proudhon.
Non è una lettura facile. E detto questo potrei chiuderla qui. Con quale ardire mi permetto di ripubblicare questo libro che fece venire tanti dolori di pancia al povero Marx? Non sarebbe stato meglio mettere a dormire Proudhon come qualcun altro ha messo a dormire Marx? No, non sono d’accordo. L’anarchico propone una lettura straordinariamente efficace dell’economia, dei suoi meccanismi più intimi, delle sue trasformazioni, e scopre la sua intrinseca contraddittorietà. Il grande risultato di Proudhon, che quarant’anni di studio mi hanno reso sempre più chiaro, è che queste contraddizioni non sono risolvibili, non c’è nella realtà nessun superamento hegeliano, ma solo oltrepassamenti, che di volta in volta possono sfociare in una nuova sistemazione del processo produttivo (di sfruttamento, questo è ovvio), con la nascita di una società diversa da quella che oggi ci opprime e che il sogno di tutti noi ci fa sperare migliore. Solo sperare, nessuna certezza. Battersi per una certezza, come insegnava Marx, ha prodotto quel socialismo reale che ci ha allietati tutti nel secolo scorso. Proudhon fa vedere bene che non ci sono meccanismi automatici nello stesso processo economico, non ci sono scontri di forze sotterranee, non ci sono talpe, tutto è in lotta con tutto, costantemente, perché l’uomo è questa cosa miserevole. L’ironia che impiega per rispondere alle tristi favole di Rousseau è sempre pungente.
Osservando alcune serie statistiche fornite da Proudhon ci si accorge che sono vecchie di più di un secolo e mezzo, eppure i processi sono sempre identici, nulla è cambiato, e nulla cambierà fin quando le lacrime e il sangue saranno versati dalla parte dei lavoratori e i guadagni affluiranno nelle casseforti degli sfruttatori. Vedersi accompagnati per mano nello svolgimento di questi processi, senza l’apparato ostico e pretenzioso dei moderni lodatori del capitale, è impressionante. Questo è Proudhon, un operaio che sa cosa vuol dire lavorare quattordici ore al giorno e di questo parla, certo con la disponibilità di conoscenza di chi è riuscito, con i denti, a strappare la cultura dalle grinfie dei padroni e per questo motivo sa quanto questa cultura sia povera cosa se viene ereditata come il dono grazioso di un beneficio di classe o come una sinecura ereditaria.
E, alla fine, ci si accorge che l’economia è un triste imbroglio, un gioco delle tre carte, una truffa maldestra e continuamente bisognosa di essere supportata da altri imbrogli e altre truffe. E, alla fine, quando non dovesse più funzionare il meccanismo dell’accumulo truffaldino (negli ultimi tre anni il debito degli Stati europei è raddoppiato), c’è sempre il ricorso alla guerra, dapprima convenzionale, guerra contro altri popoli, piccole guerre qua e là per il mondo, e se anche questi sbocchi non dovessero funzionare, la guerra radicale, quella dell’ultima trincea, la guerra civile. Nessun ostacolo ferma i padroni se non la loro completa distruzione. Non dimentichiamolo.
Trieste, 19 giugno 2014
Alfredo M. Bonanno
Introduzione alla prima edizione
Un’“operazione” Proudhon, oggi [1975], presenta non poche difficoltà teoriche e pratiche, sia per chi si accinge, come noi, alla stesura di una guida per il lettore, sia per chi si assume l’onere della lettura.
Le difficoltà teoriche restano affidate alla ricchezza di un testo che, proponendosi come indagine economica, costantemente è diretto alla visione della realtà sociale nel suo insieme, visione per forza di cose molto più ricca e complicata di quanto non sia l’astrazione economica nelle sue coagulazioni teoriche.
Le difficoltà pratiche si individuano nella strategia diffamatoria e tipicamente chiesastica di una lettura che tende a fare di Proudhon il “banale” supporto di un’analisi accettata dalla chiesa rivoluzionaria in auge e, quindi, anche solo per questo, indiscutibile e veritiera.
Ma i due tipi di difficoltà vanno affrontati separatamente, non dimenticando di fare cenno a difficoltà marginali che si innestano in questi due filoni centrali.
Ad accrescere le dimensioni delle difficoltà teoriche contribuisce lo stesso Proudhon. «Io sono – egli scrive – un rivoluzionario, non sono un voltagabbana». (Lettera del 4 marzo 1842). Scrittore focoso, esuberante, ricchissimo, produttivo come pochi, spesso indulgente nella polemica, a volte noioso per le continue ripetizioni, a volte dilettevole per lampi di ottima prosa e arguta verve nella migliore tradizione dei moralisti francesi, autore di qualcosa come 38 grosse opere, 14 volumi di lettere, 3 raccolte di articoli, 6 volumi di appunti. Lui stesso si rese conto della necessità di fare chiarezza in questo grande mare tumultuoso dove non pochi vecchi filibustieri pescarono e pescano pesci di ogni sorta. In una lettera a Bergmann (14 maggio 1862), pochi anni prima di morire scriveva: «Penso che sarebbe opportuno che riassumessi in poche pagine, con chiarezza e semplicità, ciò che voglio, ciò in cui credo, ciò che sono». In un’altra lettera: «Si predicano in questo momento non so quanti Vangeli nuovi. E non ho voglia di aumentare il numero di questi pazzi». (Lettera del 27 luglio 1844).
Alla base di questa grande costruzione si identifica una logica ordinatrice spietata, ma di tipo diverso della solita che regge la visione del mondo dettata dalla prospettiva statalista. «Sistema non ne possiedo, respingo formalmente la supposizione di averne uno. Il sistema dell’umanità non sarà conosciuto che alla fine dell’umanità. Quello che mi interessa, è di riconoscere la sua strada, e se posso, di contribuire a tracciarla». (“Le Pleuple”, 21 marzo 1849). Alla base del lavoro di Proudhon si colloca il pluralismo sociale, centro di tutte le contraddizioni, “pluralismo e contraddizioni che garantiscono la vita e il movimento dell’intero universo”.
Il filo conduttore della sua critica sociologica della realtà apparentemente contraddittoria, è proprio questo pluralismo di dottrine, di istituzioni, di mentalità, di strutture, che costituisce l’essenza della società. All’interno di questa scelta di campo si inserisce il processo critico nei confronti dei punti di riferimento costanti del potere.
Le difficoltà teoriche sono quindi eliminabili con un’attenta lettura diretta a cogliere i momenti critici del passaggio dall’individuale al collettivo, momenti in cui vengono individuati i punti di contatto tra i diversi livelli di contraddizioni e le istituzioni “costanti” che pretendono condizionare l’uomo in nome di valori cosiddetti “superiori”: la proprietà capitalista, l’assolutismo dello Stato, lo spiritualismo idealistico. Spiegando le sue scelte di metodo, eccolo scrivere a Williaumé: «Trovai che la società, in apparenza comprensibile, regolare, sicura di se stessa, era abbandonata al disordine e all’antagonismo; che era anche sprovvista di scienza economica e di morale; lo stesso per i partiti, le scuole, le utopie e i sistemi. Cominciai allora, o meglio ricominciai, su nuove basi, un lavoro di riconoscimento generale dei fatti, delle idee e delle istituzioni, senza partito preso, e senza altra regola d’apprezzamento che la stessa logica». (Lettera del 29 gennaio 1856).
Restano le difficoltà pratiche. I testi di Proudhon in lingua italiana, a parte il tanto noto Che cos’è la proprietà? sono di difficile reperimento. Qualche antologia come quella curata da Mario Bonfantini nel 1957 e le edizioni della Utet. Le critiche sono improntate a due correnti ben precise: la marxista e la liberale. Un modello della critica del primo genere sono le brevi parole che Gian Mario Bravo fa precedere alla parte dedicata a Proudhon nell’antologia Il socialismo prima di Marx (Roma, II ed. 1970). Vi si ripetono i giudizi di Marx. La condanna suona in questo modo assoluta e senza ricorso. Proudhon appare come un confusionario, mezzo economista e mezzo filosofo, in sostanza né economista né filosofo. Troppo poco sistematico per essere economista, troppo poco rispettoso dei padri della chiesa filosofica tedesca per essere filosofo. In questo modo si costruisce l’alibi che chiude una lettura produttiva dei testi di Proudhon e, in particolare, una lettura diretta a scontrarsi con la concezione deterministica di un certo marxismo, funzionale soltanto alla visione precostituita del partito.
Da canto suo il morente liberalismo ha ravvisato, specie in Italia e in questi ultimi anni [1975], un filone non trascurabile nel pensiero anarchico (Proudhon e Merlino sono i due pensatori di cui ci risulta con certezza questo tipo di operazione), filone sfruttabile per alimentare una prospettiva teorica che, contraddetta dalla realtà e dall’accentuarsi delle contraddizioni produttive, trova il proprio campo d’attività nell’ambiente rarefatto delle elucubrazioni universitarie. È in questo senso che va letta l’Introduzione di Vittorio Frosini al volume curato da Aldo Venturini Il socialismo senza Marx (Bologna 1974), che è una ricca antologia di scritti di Francesco Saverio Merlino.
Questa brava gente non si preoccupa per nulla di chiarire la base essenziale del pensiero di Proudhon. Essi prendono il lettore per mano conducendolo con più o meno maestria filistea attraverso un labirinto di luoghi comuni e di citazioni erudite, per dimostrare come la posizione di Proudhon sia importante dal punto di vista scientifico (sociologico) e come ciò non abbia nulla a che vedere col piano delle lotte reali (tesi avanzata dai liberali), oppure come Proudhon sia importante quale confuso ripetitore di teorie molto diffuse all’epoca, eminentemente esposte e cristallizzate dalla grande opera marxiana (tesi avanzata dai marxisti, neo dominatori delle nostre aule universitarie).
È logico che il povero Proudhon finisce per sopportare il supplizio di Damiens. Tirato da tutte le parti le sue membra stentano a staccarsi e deve intervenire il caritatevole carnefice per tagliare i tendini con un grosso coltello. In pratica sia l’operazione mistificatoria marxista, sia la patetica operazione dei liberali non riescono a smembrare il robusto corpo teorico proudhoniano e si accaniscono senza risultati evidenti. La conclusione più logica è il colpo di coltello: evitare di mettere in circolazione le opere nella loro totalità, tagliando le parti pubblicate in tutto quello che potrebbero avere di controproducente per il sostegno della tesi avanzata.
Il capostipite di questo modo di ragionare è proprio Engels. Nella sua Introduzione del 1884 alla Miseria della filosofia di Marx, non si prende per niente cura di dare indicazioni e chiarificazioni sull’opera di Proudhon, contro cui il lavoro di Marx era diretto, ma sposta il problema su Johann Rodbertus. Lo stesso Marx non centra il problema della ricerca di Proudhon e, nella sua intenzione essenzialmente polemica, non rende giustizia a una visione rivoluzionaria della realtà che, in ultima analisi, fatte le dovute proporzioni riguardo la concezione autoritaria della lotta, non era molto diversa dalla sua e verso cui aveva contratto non pochi debiti. Da parte sua Proudhon aveva precisato in una lettera a A. Gauthier: «Tu mi chiedi spiegazioni sul modo di ricostruire la società. In due parole: abolire progressivamente e fino alla sua estinzione l’eredità, ecco il passaggio. L’organizzazione risulterà dal principio di divisione del lavoro e della forza collettiva, combinato con il mantenimento della personalità nell’uomo e nel cittadino». (Lettera del 2 maggio 1841).
Sgombrato il terreno dalle vere o pretese difficoltà ci resta il problema di spiegare, in breve e chiaramente, il nocciolo del pensiero proudhoniano, condizione essenziale per comprendere le “contraddizioni” che si pongono quale momento di una ricerca complessiva considerata come unità indissolubile. Che cosa occorre per la rivoluzione? Proudhon ha le sue ricette, che cambierà via via nel corso della loro preparazione: «Un saggio che sappia fondare la scienza economica, una scienza con i suoi assiomi, le sue determinazioni, il suo metodo, la sua propria certezza, una scienza né matematica, né giuridica. Non occorre meno di questo per produrre la rivoluzione. Dopo la scienza economica, una filosofia della storia che cammini verso l’avvenire e poi una filosofia generale». (Lettera a Charles Edmond del 10 gennaio 1852).
Il pluralismo sociologico costituisce la base della sua critica sulla proprietà capitalista, come critica di un individualismo atomistico che contrasta con l’essere collettivo, con la pluralità delle persone e dei gruppi sociali. Per Proudhon l’individualismo capitalista negando l’esistenza degli organismi collettivi autonomi intende impadronirsi in proprio del surplus produttivo. Allo stesso modo, il pluralismo sociologico consente la critica dell’assolutismo dello Stato, visto sia sotto l’aspetto fascista che sotto quello di un totalitarismo di sinistra. Per Proudhon lo Stato non risulta da un insieme di gruppi sociali, ma dal dominio esercitato da un gruppo sugli altri tramite l’appropriazione dei poteri appartenenti a tutta la collettività. Alla base stessa del pluralismo sociologico sta una critica filosofica dello spiritualismo dogmatico, che poi sarebbe una forma di idealismo integrale non dissimile dal materialismo visto attraverso la lente determinista tipicamente hegeliana. Proudhon indica il pericolo di un integralismo dogmatico che diventi il mezzo ideologico di un principio dominatore agente nel campo sociale.
Il tema centrale del pensiero di Proudhon è quindi la critica del potere, considerato assolutista anche quando ama darsi l’atteggiamento democratico, anche quando pretende dare la libertà. La lotta contro l’assolutismo è condotta in nome di una realtà pluralista che si oppone a ogni sistema semplificante che cerca di mummificare la realtà sociale nelle sue libere manifestazioni.
Una possibile conclusione sarebbe stata il conservatorismo eterodosso alla Victor Cousin diretto a un eclettico stato di disorganizzazione, copertura pretestuosa della spontaneità e della volontà. Secondo il modo di lavorare di Proudhon: «Io dimentico i miei vecchi libri e non li leggo più. Con questa abitudine, deve frequentemente succedere nei miei scritti che ci siano cose difficilmente conciliabili». (Lettera a Clerc del 4 marzo 1863). È proprio nelle Contraddizioni economiche, in questo difficile e complesso compendio della problematica sociale a carattere contraddittorio, che Proudhon cerca di studiare la realtà nella ricca varietà che la contraddistingue, senza nulla perdere e senza nulla sacrificare a un preteso altare della semplicità o dell’efficienza. Eppure il suo discorso non scade mai nel pluralismo individuato e quindi ineliminabile, simile a una condanna, ma si mantiene costantemente nel pluralismo visto come metodo d’indagine e quindi come mezzo efficiente di conoscenza. In questa vasta opera Proudhon studia le lotte del lavoro, della produzione, della circolazione delle ricchezze. Ma la lotta del lavoro, derivante dalla divisione parcellare, e la sua contrapposizione al capitale, così come emerge dal sistema di sfruttamento realizzato storicamente dalla classe dominante, non trova la sua mummificazione nel quadro di una indagine esclusivamente economica, essa al contrario viene continuamente rinviata al problema della divisione e dell’alienazione generale della società sottoposta alla gestione del potere a forma capitalista. Per Proudhon non esiste una divisione netta tra analisi economica e analisi sociologica, quindi morale. La sua riflessione si svolge nel campo delle istituzioni economiche ma anche in quello dei rapporti sociali che vengono da quelle istituzioni caratterizzati e che contribuiscono a caratterizzare, via via, nello svolgimento delle modificazioni storiche, le istituzioni stesse.
La struttura esteriore delle Contraddizioni economiche lascia a desiderare. Ed è proprio in questo senso che si diresse per prima cosa la critica distruttiva di Marx. Le contraddizioni sono individuate a due livelli: tra i termini economici che vengono anche chiamati “epoche” e all’interno di ogni singolo termine. Le epoche individuate sono dieci: divisione del lavoro, macchine, concorrenza, monopolio, imposta, bilancia di commercio, credito, proprietà, comunità, popolazione. Da un punto di vista generale ogni termine è in contrasto con quello precedente.
Certo, il metodo è piuttosto approssimativo. In una lettera a Clerc Proudhon scrive: «Vi sarebbe senza dubbio più di una espressione scorretta da rimpiazzare se facessi una edizione completa delle mie opere e se tenessi che tutto fosse in armonia. Eppure sono dell’idea che tutto vi si sostenga segua e si giustifichi». (Lettera del 14 marzo 1863). Malgrado questa limitazione Proudhon riesce a scoprire in modo efficace le contraddizioni, denunciandole violentemente, mettendo in risalto l’interessato contributo degli economisti ufficiali a una gestione di potere fondata sullo sfruttamento. Ogni termine assume l’aspetto della necessità, il monopolio è altrettanto necessario della libera concorrenza, per cui i difensori dell’uno e dell’altra, accanitamente in contrasto, finiscono per dimostrare l’inutilità della scienza economica e la sostanziale brutalità del potere che perpetua lo sfruttamento, accontentandosi, tramite i suoi giullari prezzolati, di darsi una patina superficiale di scientifico perbenismo.
Se la rivoluzione francese del 1789 determinò la liberazione dagli ostacoli feudali riguardo la produzione e il commercio, dette vita a una serie di conflitti che resero indispensabile l’emersione del monopolio, termine contrario della liberalizzazione. Il sistema capitalista viene costretto a una lotta costante che finisce per renderlo contraddittorio e logico nello stesso tempo. A proposito della proprietà, ecco le famose parole: «Se dovessi rispondere alla domanda seguente: Che cos’è la schiavitù? E se in una parola io rispondessi: è l’assassinio, il mio pensiero sarebbe subito compreso. Non avrei bisogno di un lungo discorso per dimostrare che togliere a un uomo il pensiero, la volontà, la personalità, è un potere di vita e di morte, per cui fare di un uomo uno schiavo, è assassinarlo. Per quale motivo dunque a quest’altra domanda: Che cos’è la proprietà? Non potrei rispondere allo stesso modo: è il furto! Senza avere la certezza di essere frainteso, per quanto questa seconda proposizione non sia altro che la prima trasformata». (Qu’est-ce que la Propriété? Ou Recherches sur le principe du Droit et du Gouvernement. Premier Mémoire, ns. tr., Paris 1840, p. 5).
Ogni “livello” corrisponde a un principio economico, ogni principio genera conseguenze di due tipi: positive e negative. A esempio, la divisione del lavoro determina l’aumento della produzione, lo sviluppo delle capacità professionali e forse la creatività, ma al contrario la stessa divisione del lavoro causa un regresso nelle capacità professionali e trasforma l’uomo in un automa. L’artigiano padrone della propria arte creativa si trasforma nell’operaio generico. La macchina determina una riduzione degli sforzi lavorativi umani, esprime l’intelligenza creatrice e il dominio che esercita sulle cose ma, nello stesso tempo, degrada il lavoratore trasformandolo in semplice manovratore, diminuisce per lunghi periodi le possibilità stesse di lavoro, aumenta la subordinazione del lavoratore alle forze che lo sfruttano.
Non bisogna dimenticare che la lotta di Proudhon è, almeno sul piano teorico, diretta contro quella specie di filosofia del “migliore dei mondi possibili” che fu il liberalismo francese dell’epoca di Frédéric Bastiat. Le sue critiche in questa direzione sono fortissime. Gli strali densi di una sottile ironia non si contano in tutto il libro. In effetti, specie nelle ultime pagine, si vede come il suo lavoro è diretto a provare che, in contrapposizione alle “armonie” di certi servi del potere, si può ricostruire un’analisi sociale che indichi con esattezza le disarmonie e le contraddizioni che costituiscono la vera essenza della società, disarmonie e contraddizioni che non possono essere superate con accorgimenti e con panacee, con riforme e con lotte “democratiche”, in quanto a ogni mossa, per quanto diretta dai migliori intendimenti, corrispondono effetti in eguale misura positivi e negativi. Quindi, a ogni tentativo di spingere in un certo senso la costruzione sociale si mettono in moto forze che hanno una sola possibilità reale: quella di inserire nel già molto complesso e contraddittorio tessuto economico e sociale altri elementi altrettanto contraddittori e subitamente pronti a generare ancora infiniti altri elementi non differentemente contraddittori. L’alternativa evidente resta la rivoluzione, cioè la radicale eliminazione del gioco delle parti, il salto qualitativo che fa cessare il computo aritmetico delle quantità, computo nientificato dall’algebra delle contraddizioni.
Scrive a questo riguardo Pierre Ansart: «La divisione della società in due classi antagoniste corrispondenti al Capitale e al Lavoro non cessa di costituire sia il quadro sociale delle antinomie come le loro conseguenze. In pratica, i princìpi economici, si sviluppano in una società in cui il principio generale è quello del furto e dello sfruttamento del lavoro, i quali incessantemente hanno come conseguenza il rafforzamento dell’antagonismo sociale. In ogni epoca del sistema economico viene confermata la distinzione della società in due classi antagoniste e lo sfruttamento sociale ed economico del proletariato. Socialmente, i meccanismi dell’economia costringono irrimediabilmente il proletariato in una situazione di subordinazione: la degradazione, l’abbrutimento, la sottomissione alle gerarchie strappano all’operaio la partecipazione che in epoche passate aveva nella produzione artigianale. Economicamente, l’estorsione operata sui salari dal furto capitalista impedisce radicalmente alla classe lavoratrice di consumare ciò che produce». (Sociologie de Proudhon, ns. tr., Paris 1967, pp. 43-44). Il punto finale dell’indagine proudhoniana non è quindi il tentativo di una soluzione, punto significativo per coloro che intendono vedere nel futuro la strutturata condizione di una prospettiva in corso di formazione oggi ma in aderenza a canoni precisi e precisi interessi. Ogni visione autoritaria è assente dal progetto di ricerca di Proudhon. Questo ha spinto molti studiosi – come lo stesso Ansart – anche favorevoli in linea di massima alla tesi di Proudhon, a chiedersi perché accanto alla costante analisi sulle contraddizioni non si trovi un’analisi o, almeno, qualche indicazione, riguardo la probabile evoluzione dell’economia capitalista. Leggendo in questo modo il testo di Proudhon si deve concludere che esso è parziale, manchevole, incapace di darci una chiave per comprendere il senso delle crisi del capitale. Se ogni parte del sistema è contraddittoria, se tutto il sistema nel suo insieme è sconvolto da un doppio movimento contraddittorio (positivo e negativo), che cosa cambia nel corso degli avvenimenti? Aumentando il numero delle contraddizioni, proliferando gli intrecci e gli imbrogli, non si ha altro risultato che quello di mettere al lavoro le teste vuote degli economisti e dei filosofi per dare una sistemazione più o meno logica a tanto materiale.
Gli schemi classici del marxismo devono qui essere messi da parte. Ma non bisogna dimenticare che Proudhon è materialista, sebbene il suo modo particolare di scrivere e la terminologia del tempo rendano questa scoperta non sempre agevole. Il suo materialismo emerge chiaramente quando parla del problema della miseria e ci dice che il progresso della miseria è e resta adeguato e parallelo al progresso della ricchezza. Egli non dice che l’impoverimento sarà crescente man mano che crescerà l’accumulazione del capitale, ma al contrario che si avrà un arricchimento “relativo” delle classi più povere e che la miseria resterà sempre come punto di riferimento relativo nei confronti del capitale.
Chi avrà la bontà di soffermarsi un attimo su questo pensiero comprenderà non solo la profondità dell’analisi di Proudhon, ma i motivi teorici che la differenziano – anche dal punto di vista formale – dall’analisi marxista.
Il povero resta povero finché vi sarà una differenza di classe, anche se non esisterà un impoverimento crescente commisurabile al tasso di accrescimento dell’accumulazione capitalista. E questa sua povertà sarà fenomeno non soltanto salariale, sarà fenomeno non soltanto aritmetico, ma ben più profondamente sarà fenomeno sociale nel senso più ampio del termine. Il persistere della contraddizione tra ricchezza e miseria svilupperà l’allargarsi delle contraddizioni nei diversi livelli. Il salario verrà sempre più nominalizzato mentre lo sfruttamento si scatenerà a livelli del tutto sconosciuti prima.
Per chi è a conoscenza delle moderne problematiche rivoluzionarie relative ai processi di liberazione e ai corrispettivi processi di sfruttamento, la profondità dell’intuizione di Proudhon è chiarissima. Il consumismo oggi ci insegna con grande evidenza che la miseria del lavoratore non deve necessariamente assumere l’aspetto tradizionale del passato, ma può presentarsi come “forma” relativa, come riappropriazione dei margini salariali concessi, attraverso un processo di inserimento in zone di consumo fasulle e artificiali. Non solo, lo stesso discorso deve potersi fare anche a livello di equilibri contraddittori mondiali tra zone sviluppate e zone non sviluppate. Gli scompensi tra miseria e ricchezza sono individuabili solo a condizione di chiarire il concetto di sviluppo “relativo”, sia in senso positivo che in senso negativo. Allo sviluppo relativo dei popoli sottosviluppati sono infatti molto interessati i paesi sviluppati, questo determina un notevole aumento nel consumo dei prodotti di questi ultimi e la contemporanea possibilità di ottenere a prezzi vantaggiosi (perché si sono attuate migliori condizioni di produzione) le materie prime che vengono prodotte dai primi. In altri termini, almeno ci pare, la pregiudiziale di un aumento costante della miseria in relazione all’aumento della ricchezza (accumulazione capitalista) non è un dato indispensabile per impostare il discorso rivoluzionario. E questa conclusione può anche venirci attraverso l’analisi fatta da Proudhon.
In una cosa Marx aveva ragione: lo schema dialettico è estraneo a Proudhon. La sua utilizzazione è spesso superficiale e quasi mai funzionale alla dimostrazione della vera realtà del suo pensiero. Il fatto non è, a nostro avviso, accidentale. La ricchezza del pensiero di Proudhon – a prescindere dall’uomo e dalle sue esperienze – è, nello stesso tempo, causa ed effetto della sua formulazione teorica, dello scopo analitico perseguito durante tutta la sua vita. Il campo indagato appare a Proudhon troppo ricco e troppo eterogeneo per poterlo racchiudere dentro la scatola di un meccanismo logico condizionante lo svolgimento stesso della realtà. Chi ha presente la Fenomenologia dello Spirito [1807] hegeliana si ricorderà di come la realtà venga costretta ad adeguarsi al ritmo del metodo logico, fino a essere snaturata, fino a trasformare l’alterna vicenda dell’uomo alla ricerca di se stesso in un itinerario romanzesco di gradevole lettura ma di scarsa validità per un’azione liberatoria. Proudhon ci appare quindi contraddittorio non solo come giudice di una situazione contraddittoria, ma anche come indagatore utilizzante un metodo contraddittorio, nella piena coscienza dei limiti del metodo stesso. La verità è che quel metodo gli serve come supporto per un ragionamento più ampio e non ha alcuna pretesa di servire per cose alle quali non può prestare aiuto alcuno. Al contrario, per Hegel, per Marx, il metodo dialettico non è un metodo, è la realtà nella sua essenza più intima. In Proudhon questa tesi, pur nella grande confusione di elementi, non è mai rintracciabile. La contraddizione regna sovrana, il metodo fornisce una strada, anche un poco pesante e tortuosa, ma sempre una strada. In altre situazioni, altri potranno utilizzare altre strade, altri metodi. Ma la realtà resta là, davanti al ricercatore, estranea al metodo, ricca delle proprie contraddizioni, incapace di prestare una logica perché priva di logica valida per tutti i tempi e per tutti i luoghi. La chiave interpretativa delle contraddizioni sarà individuata, di volta in volta, nella situazione storica, perché in quella prospettiva le singole “figure” avranno un certo grado contraddittorio, perché certe scelte (e non altre) sono state fatte e perché certe contraddizioni (e non altre) sono state messe in moto. In una nota poco conosciuta Proudhon scrive a questo proposito: «Rinnovo qui l’osservazione fatta su Hegel – nel Programme de Philosophie populaire – sull’esempio del quale avevo adottato l’idea che l’antinomia dovesse risolversi in un termine superiore, la sintesi, distinta dai due primi, la tesi e l’antitesi: errore di logica quanto di esperienza, dal quale mi sono oggi corretto. L’antinomia non si risolve; in ciò è il vizio fondamentale di tutta la filosofia hegeliana. I due termini di cui essa si compone si bilanciano, sia fra di loro, sia con altri termini antinomici; ciò conduce al risultato cercato. Una bilancia non è affatto una sintesi come l’intendeva Hegel e come io avevo supposto dopo di lui: fatta questa riserva, per puro interesse logico, mantengo tutto ciò che ho detto nelle mie Contraddizioni». (La giustizia nella rivoluzione e nella chiesa [1858], tr. it., Torino 1968, pp. 446-447).
Non vogliamo parlare della famosa polemica e del libello marxiano, tanto se ne è parlato con tutti i condimenti che le cucine marxiste hanno saputo preparare. Oggi, la critica marxiana del testo di Proudhon non ha molto valore per servire da guida, sia pure limitativa, alla lettura di Proudhon. Al contrario, il notissimo libro di Marx è indispensabile per servire da guida allo svolgimento del pensiero maturo di Marx, maturo almeno in senso filosofico se non economico. Si è ripetuto, con la Miseria della filosofia, lo stesso fenomeno de L’ideologia tedesca [1845-1846], in particolare della critica a Stirner. Scarsamente valida per comprendere Stirner oggi, quell’analisi è di grande importanza per comprendere Marx. Non è un caso, a nostro avviso, che i due testi che servirono a Marx per situare la propria posizione teorica nei confronti del materialismo storico siano due libelli contro due teorici anarchici. La cortina fumogena dei partiti marxisti non potrà mai nascondere del tutto i debiti e i crediti di queste operazioni.
Il fondo vero del problema è sempre lo stesso. Se il processo dialettico così com’è visto da Marx non è accidentale ma è precisamente diretto a costruire il sostegno teorico del “partito guida del proletariato”, della “dittatura del proletariato”, dello “Stato proletario” e simili aberrazioni, l’utilizzazione chiaramente marginale in Proudhon del metodo dialettico è altrettanto precisamente diretta a dimostrare che la realtà è troppo ricca per qualsiasi metodo che non sia il “pluralismo sociologico” e che, pertanto, solo una corrispondente ricchezza di esperienze e di solidarietà, di collettività agenti in modo molteplice, di esseri sociali capaci di trasformarsi anche in forma contraddittoria ma di emergere dalla contraddittorietà proprio per il riconoscimento della validità delle esperienze, può validamente interpretarla senza che tutto ciò abbia nulla a che vedere con la costrizione mentale e fisica dell’uomo, sia pure con scopi rivoluzionari.
Volendo mettere da parte il confronto polemico, e in questo senso si possono leggere con profitto le Note di Proudhon alla sua copia della Miseria della filosofia, dove si riscontrerà la sorpresa e la calma con cui Proudhon lesse il libello di Marx, si deve ammettere che Proudhon e Marx seguono un ragionamento in un certo senso parallelo, almeno riguardo gli obiettivi della lotta. Denunciano l’individualismo nell’economia che causa la separazione tra produzione e società. Denunciano il fondamento repressivo delle dottrine idealiste, della confusione tra organismo e società, tra scienza e verità. Denunciano il ruolo di sostegno della religione a favore della repressione e dello sfruttamento. Eppure, nonostante tutto (e il discorso si potrebbe ancora una volta identificare in quello riguardante Stirner), i marxisti (a cominciare dallo stesso Marx) hanno sempre insistito nel considerare Proudhon come un teorico piccolo-borghese. La realtà non può smentirsi. Chi progetta la conquista del potere deve necessariamente darsi un programma ben preciso, delimitato, apparentemente logico (non ha importanza se sostanzialmente assurdo), deve dare, a coloro che intende utilizzare, sia come agenti attivi che come soggetti passivi della propria azione, l’impressione che tutto sia risolto e, non potendo ovviamente fare questa paradossale affermazione, deve utilizzare l’espediente di dire che tutto è risolvibile in quanto le eventuali cose non risolte trovano risoluzione nella logica stessa della realtà che, prima o poi, finisce per costringere alla razionalità anche le cose apparentemente contraddittorie. In questo modo agisce il processo oggettivante della Chiesa cattolica, che impone il carisma della parola per garantire se stessa, i propri agenti, e i soggetti passivi che ricevono l’azione, contro eventuali critiche. Chi si confessa con un prete cattolico non s’interessa se il soggetto che riceve la confessione sia una “degna persona”, se moralmente sia all’altezza del compito affidatogli dai suoi superiori o se, al contrario, sia un volgare ladro o un assassino. Quello che conta è che vesta quell’abito, che abbia ricevuto quell’investitura, che pronunci quelle precise parole. Il mistero è grande garanzia di forza per il potere. Più le cose sono oscure, più è facile oggettivarle, più in questo modo vengono strappate alla corrosiva critica di coloro che si domandano: perché?
Non diversamente il metodo dialettico consente al partito autoritario di garantire una validità costante all’azione dei suoi agenti e una logica costante all’aspettativa delle masse. Non è importante che queste si dispongano criticamente verso la realtà, anzi ciò sarebbe un male notevole, quello che conta è che la visione della realtà sia esattamente quella fornita dall’organizzazione, tanto ci saranno sempre quei centri di potere che elaboreranno interpretazioni della realtà da fornire in pasto alle masse, come pure, garantendo la persistenza dello sfruttamento, ci saranno sempre le masse disposte ad accettare questa elaborazione come cosa “sacra” perché proveniente dall’autorità carismatica.
Uscendo da quest’atmosfera asfissiante, respirando l’aria movimentata e spesso tempestosa della realtà, si ha l’impressione di trovarsi nel caos e nell’impossibilità di comprendere qualcosa. La realtà, dapprima ordinata e sistematica, appare priva di significato. Quanto più agevole il dolce tepore del grembo materno, quanto più gradevole il mormorio delle parole del prete che ci assolve dei nostri peccati mettendoci nella condizione di ricominciare di nuovo a cuor leggero sicuri di trovare sempre nuova protezione e comprensione, quanto più sicuro il partito politico rivoluzionario che ci protegge e ci illumina, ci dice quello che è giusto e quello che è sbagliato, che è depositario delle chiavi del meccanismo intrinseco della realtà e come tale sa quando occorre scendere in piazza per farsi ammazzare e quando, invece, occorre andare a recitare la farsa elettorale. Fuori di tutto ciò: pericoli e confusione.
Un senso di smarrimento si prova leggendo Proudhon, specie per il lettore contemporaneo abituato alle “tranquillità” marxiste. Ancora una volta, più che per altri scrittori anarchici, la lettura di Proudhon è per uomini di buona volontà.
Catania, 12 settembre 1975
Alfredo M. Bonanno
[Introduzione al Sistema delle contraddizioni economiche. Filosofia della Miseria, tr. it., Catania 1975, pp. 7-15, pubblicato su Alfredo M. Bonanno, Potere e contropotere, seconda ed., Trieste 2012, pp. 222-250].
Prologo
Prima di entrare nella materia che è l’oggetto di queste nuove Memorie, debbo rendere conto di una ipotesi, che, senza dubbio, parrà strana, ma senza la quale è impossibile andare avanti ed essere inteso; voglio parlare dell’ipotesi di Dio.
Si dirà: supporre Dio è come negarlo. Perché non lo affermate? È colpa mia se la fede nella Divinità è diventata un’opinione sospetta? Se la semplice congettura di un Essere supremo è notata come indizio d’uno spirito debole e se di tutte le utopie filosofiche è la sola che il mondo non tollera più? È colpa mia se l’ipocrisia e la stupidità si celano ovunque sotto codesta santa etichetta? Che un dottore supponga nell’universo una forza sconosciuta che attrae i soli e gli atomi e fa muovere tutta la macchina; per lui codesta supposizione, interamente gratuita, è affatto naturale. È accolta, incoraggiata: esempio, l’attrazione, ipotesi che non si riuscirà mai a verificare e che pure copre di gloria il suo inventore. Ma quando, per spiegare il corso delle faccende umane, suppongo, con tutta la riserva immaginabile, l’intervento di un Dio, sono sicuro di mettere sottosopra la gravità scientifica e di offendere le orecchie severe: tanto la nostra pietà ha meravigliosamente screditato la Provvidenza, tanti imbrogli opera col mezzo di questo dogma o di questa finzione il ciarlatanesimo d’ogni foggia.
Ho veduto i deisti dei miei tempi e la bestemmia è salita alle mie labbra; ho considerato la fede del popolo, di quel popolo che [Jacques] Brydaine chiamava il migliore amico di Dio e la negazione che stava per sfuggirmi mi ha fatto fremere. Tormentato da contrari sentimenti, ho fatto appello alla ragione, e la ragione per l’appunto, fra tante opposizioni dogmatiche mi impone ora l’ipotesi. Il dogmatismo a priori, applicato a Dio, è rimasto sterile; chi sa dove, a sua volta ci condurrà l’ipotesi?....
Dirò dunque in qual modo studiando nel silenzio del mio cuore, e lungi da qualsiasi rispetto umano, il mistero delle rivoluzioni sociali, Dio, il grande ignoto, sia divenuto per me una ipotesi, cioè un necessario strumento dialettico.
Se seguo, attraverso le sue trasformazioni successive l’idea di Dio, trovo che codesta idea è innanzi tutto sociale; intendo dire che è piuttosto un atto di fede del pensiero collettivo, che un concetto individuale. Ora, come e in quale occasione un tale atto di fede si produce? Importa determinarlo.
Dal punto di vista morale e intellettuale, la società, ovvero l’uomo collettivo, si distingue essenzialmente dall’individuo per la spontaneità di azione, altrimenti detta istinto. Mentre l’individuo non obbedisce, o si immagina di non obbedire se non a motivi di cui ha piena conoscenza e ai quali è padrone di ricusare o accordare la propria adesione; mentre, in una parola, si giudica libero e tanto più libero quanto si stima meglio atto a ragionare e più istruito, la società è soggetta a moti in cui, a primo aspetto, non si scorge né deliberazione né progetto, ma poi, via via sembrano diretti da una mente superiore, che esiste fuori della società e spinge questa con una forza irresistibile verso uno scopo ignoto. La fondazione delle monarchie e delle repubbliche, la distinzione delle caste, le istituzioni giudiziarie, ecc., sono altrettante manifestazioni di questa spontaneità sociale, della quale è più facile notare gli effetti, che indicare il principio o rendersi ragione. Tutti gli sforzi, anche di coloro che dietro le orme di [Jacques] Bossuet, Vico, Herder, Hegel, si sono applicati alla filosofia della storia, hanno mirato sinora ad accertare la presenza del destino provvidenziale che governa tutti i movimenti dell’uomo. E io osservo a questo riguardo, che la società non manca mai, prima di agire, d’evocare il suo genio; come se volesse farsi ordinare dall’alto quanto già la sua spontaneità ha risolto. Le sorti, gli oracoli, i sacrifici, le acclamazioni popolari, le pubbliche preci sono la forma più consueta di codeste spontanee deliberazioni della società.
Questa misteriosa facoltà, del tutto intuitiva, e per così dire soprasociale, poco o punto sensibile nelle persone, ma che aleggia sull’umanità come un genio ispiratore, è il fatto primordiale di ogni psicologia.
Ora, diversamente dalle altre specie animali, soggette, come lui, del pari ad appetiti individuali e ad impulsi collettivi, l’uomo ha il privilegio di percepire e indicare al proprio pensiero l’istinto o il fatum che lo guida; vedremo più tardi che ha anche la facoltà di penetrarne e anche influenzarne i decreti. E il primo moto dell’uomo, rapito e pieno d’entusiasmo (del soffio divino) è di adorare la Provvidenza invisibile da cui sente di dipendere e che egli chiama Dio, cioè vita, essere, spirito, o più semplicemente ancora, Io; dacché tutti codesti vocaboli, nelle lingue antiche, sono sinonimi e omofoni.
Io sono Io, dice Dio ad Abramo, e tratto con Te... E a Mosè: Io sono l’Essere. Tu parlerai ai figli d’Israele: l’Essere mi manda ai tuoi. Queste due parole, Essere e Io, hanno nella lingua originale, la più religiosa che gli uomini abbiano mai parlato, la medesima impronta caratteristica. [Je-hovah e nei composti Jah, l’essere; Jao, iou-piter, uguale significato; ha-jah, ebraico egli fa; ei, greco egli è, ei-nai, essere; an-i, ebraico e in coniugazione th-i, me; e-go, io, ich, i, m-i, m-e, t-ibi, t-e e tutti i pronomi personali nei quali le vocali i e, eï, oï, raffigurano la personalità in genere e le consonanti m o n, s o t servono a indicare il numero d’ordine delle persone. Del resto, si disputi pure sull’analogia; non mi oppongo, a questa profondità, la scienza del filologo non è più che nube e mistero. Ciò che importa, ribadisco, è che il rapporto fonetico dei nomi sembra tradurre il rapporto metafisico delle idee]. Altrove, quando Jehova, facendosi legislatore per mezzo di Mosè, attesta la propria eternità e giura per la propria essenza, egli usa questa formula di giuramento: Io, ovvero con un raddoppiamento d’energia: Io, l’Essere. In modo che il Dio degli Ebrei è il più personale e il più volontario di tutti gli dèi, e nessuno meglio di lui esprime l’intuizione dell’umanità.
Dio appare dunque all’uomo come un me, come un’essenza pura e permanente, che si pone dinanzi a lui come un monarca dinanzi al suo servo e che si afferma, ora per la bocca dei poeti, dei legislatori, degl’indovini, musa, nomos, numeri; ora con l’acclamazione popolare: Vox populi, vox Dei. Ciò può servire anche a spiegare come vi siano oracoli veri e oracoli falsi; perché gl’individui isolati sin dalla nascita non giungono da soli all’idea di Dio, mentre la ricevono avidamente non appena è ad essi presentata dall’anima collettiva; in che modo infine le razze stazionarie, come i Cinesi, finiscano per smarrirlo. [I Cinesi hanno conservato nelle loro tradizioni il ricordo di una religione che avrebbe cessato d’esistere fra loro verso il V o il VI secolo innanzi l’era volgare (V. Pauthier, Chine, Paris, Didot, 1843). Una cosa più sorprendente ancora è che questo popolo singolare, perdendo il suo culto primitivo, pare abbia compreso che la divinità non è altro che il me collettivo del genere umano; in modo che da più di duemila anni, la Cina, nella sua credenza volgare, sarebbe giunta agli ultimi risultati della filosofia dell’Occidente. “Ciò che il cielo vede e intende”, è detto nello Sciù-Ching, “non è altro che quel che vede e intende il popolo. Ciò che il popolo giudica degno di ricompensa e di pena, è ciò che il cielo vuol punire e ricompensare. Vi è una comunicazione intima tra il cielo e il popolo: coloro che governano il popolo siano dunque attenti e riservati”. Confucio ha espresso il medesimo pensiero in altra maniera: “Acquistati l’affetto del popolo e acquisterai l’impero – Perdi l’affetto del popolo, e perderai l’impero”. Ecco dunque la ragione generale, l’opinione dichiarata regina del mondo, come è avvenuto altrove per la rivelazione. Il Tao-te-ching è più decisivo ancora. In questo libro, abbozzo di una critica della ragion pura, il filosofo Lao-Tse identifica sempre, sotto il nome di Tao, la ragione universale e l’essere infinito; ed è, a mio avviso, in questa costante identificazione di princìpi che le nostre abitudini religiose e metafisiche hanno profondamente differenziato, la causa della oscurità del libro di Lao-Tse]. Primo, in quanto agli oracoli, è chiaro che tutta la loro certezza viene dalla coscienza universale che li ispira; e in quanto all’idea di Dio, si comprende facilmente perché l’isolamento e lo statu quo gli sono ugualmente rovinosi. Da una parte la mancanza di comunicazione tiene l’anima assorta nell’egoismo animale; dall’altra, l’assenza del moto, cangiando poco a poco la vita sociale in routine e meccanismo, elimina alla fine l’idea di volontà e di provvidenza. Cosa strana! la religione, che perisce a causa del progresso, perisce anche per l’immobilità.
Notiamo per soprappiù che, riportando alla coscienza, vaga e per così dire obiettivata, di una ragione universale, la prima rivelazione della divinità, noi non ipotizziamo alcun giudizio preventivo sulla realtà o non-realtà di Dio. Ammettiamo difatti che Dio non sia altra cosa che l’istinto collettivo o la ragione universale: resta da sapere ciò che codesta ragione è in se stessa. Dacché, come mostreremo in seguito, la ragione lavora in una sfera a parte e come una realtà distinta dalla ragione universale non è accolta nella ragione individuale, o, in altri termini, la conoscenza delle leggi sociali, o le teorie delle idee collettive, quantunque dedotta dai concetti fondamentali della ragione pura, è tuttavia empirica e non sarebbe stata mai scoperta a priori, per via d’induzione o di sintesi. Da dove segue che la ragione universale con cui riferiamo codeste leggi come opera sua; la ragione universale, che esiste, ragiona, lavora in una sfera a parte e come una realtà distinta dalla ragione pura, in modo che il sistema del mondo quantunque creato secondo le leggi delle matematiche, è una realtà distinta dalle matematiche, dalla quale non si sarebbe potuta dedurre l’esistenza delle sole matematiche segue, concludo, che la ragione universale è precisamente nel linguaggio moderno, ciò che gli antichi chiamavano Dio. La parola è mutata; che sappiamo noi della cosa?
Consideriamo le evoluzioni dell’idea divina.
Una volta affermato con un primo giudizio mistico l’Essere supremo, l’uomo generalizza immediatamente questo tema con un altro misticismo – l’analogia. Dio non è, per dire così, che un punto; a momenti riempirà il mondo.
In quel modo che sentendo il proprio me sociale, l’uomo aveva salutato il suo Autore; così scoprendo indizi di consiglio e d’intenzione negli animali, nelle piante, nelle fonti, nelle meteore e in tutto l’universo, egli attribuisce a ogni oggetto particolare e poscia al tutto, un’anima, uno spirito o genio che vi presiede: svolgendo questa induzione deificatrice dalla più elevata sommità della natura, che è la società, alle più umili esistenze, alle cose inanimate e inorganiche. Dal suo me collettivo, preso come polo superiore della creazione, fino all’ultimo atomo di materia, l’uomo distende dunque l’idea di Dio, cioè l’idea di personalità e d’intelligenza, come il Genesi ci racconta che Dio stesso distese il cielo, cioè creò lo spazio e il tempo, nei quali tutte le cose si comprendono.
Onde che senza un Dio, sovrano fabbro, non esisterebbero l’universo né l’uomo; questo è l’atto di fede sociale. Ma anche senza l’uomo Dio non sarebbe pensato – facciamo addirittura questo passo – Dio non sarebbe nulla. Se l’umanità ha bisogno di un autore, Dio, gli dèi, hanno pur essi bisogno altrettanto di un rivelatore; la teogonia, le storie del cielo, dell’inferno e dei loro abitanti, sogni del pensiero umano, sono la controparte dell’universo, che da certi filosofi fu detta il sogno di Dio. E che magnificenza in questa creazione teologica, opera della società! La creazione del demiurgo fu annientata, colui che noi chiamiamo l’Onnipotente fu vinto e, per secoli, l’immaginativa incantata dei mortali fu stornata dallo spettacolo della natura a causa della contemplazione delle meraviglie dell’Olimpo.
Scendiamo da codesta regione fantastica, la ragione spietata batte all’uscio e bisogna rispondere alle sue gravi questioni.
Che è Dio? essa dice: dov’è? com’è? cosa vuole? cosa può? cosa promette? – ed ecco, alla luce dell’analisi, tutte le divinità del cielo, della terra e dell’inferno si riducono a un non so che d’incorporeo, impassibile, immobile, incomprensibile, indefinibile; in breve, a una negazione di tutti gli attributi dell’esistenza. Difatti, sia che l’uomo attribuisca a ogni oggetto uno spirito o genio speciale, sia che concepisca l’universo come governato da una potenza unica, egli non fa che supporre sempre una entità incondizionata, cioè impossibile, per dedurne una qualsiasi spiegazione di fenomeni giudicati altrimenti inconcepibili. Mistero di Dio e della ragione! Al fine di rendere l’oggetto della sua idolatria sempre più razionale, il credente lo spoglia via via di quanto potrebbe farlo reale, e a forza di miracoli di logica e di genio, gli attributi dell’Ente per eccellenza si trovano a essere gli stessi di quelli del nulla. È una evoluzione inevitabile e fatale: l’ateismo giace in fondo a ogni teodicea.
Tentiamo di far comprendere questo progresso.
Dio, creatore di tutte le cose, è appena egli medesimo creato dalla coscienza, in altre parole, non appena noi abbiamo elevato Dio dall’idea di me sociale, all’idea di me cosmico, ecco che la nostra riflessione si mette a demolirlo, sotto pretesto di perfezionamento. Perfezionare l’idea di Dio! purificare il dogma teologico! Questa fu la seconda allucinazione del genere umano.
Lo spirito di analisi, Satana infaticabile che interroga e contraddice senza tregua, doveva, tosto o tardi, cercare la prova del dogmatismo religioso. Ora, sia che il filosofo determini l’idea di Dio, o la dichiari indeterminabile; sia che l’avvicini alla sua ragione, sia che l’allontani, io dico che questa idea riceve una scossa, e siccome è impossibile che la speculazione si fermi, così è necessario che a lungo andare, l’idea di Dio, scompaia. Dunque il movimento ateistico è il secondo atto del dramma teologico, e questo secondo atto è dato dal primo, come l’effetto dalla causa. I cieli narrano la gloria dell’Eterno, dice il salmista. Aggiungiamoci: e la loro testimonianza lo abbatte.
Infatti, a misura che l’uomo osserva i fenomeni, crede scorgere alcuni intermediari tra la natura e Dio: come rapporti di numero, di figura, di successione, leggi organiche, evoluzioni, analogie. Un certo concatenamento in cui le manifestazioni si producono o si richiamano reciprocamente. Egli osserva ancora che nello sviluppo della società alla quale appartiene, le volontà private e le deliberazioni prese in comune esercitano pure una qualche influenza, e dichiara a se stesso che il grande Spirito non agisce sul mondo direttamente e da sé solo, né arbitrariamente e a capriccio ma mediatamente attraverso congegni e organi sensibili e secondo alcune norme. E risalendo col pensiero la catena degli effetti e delle cause, pone all’estremo, come a un bilanciere, Dio.
“Par delà tous les cieux, le Dieu des cieux réside” ha detto un poeta [Voltaire]. In modo che, al primo apparire della teoria, l’Essere Supremo è ridotto alla funzione di forza motrice, di chiavarda o chiave di volta, o, se mi si consente un paragone ancora più triviale, di sovrano costituzionale, che regna ma non governa, giura di conformarsi alla legge e ne nomina i ministri che l’eseguono. Ma sotto l’impressione del miraggio che lo affascina, il deista non vede altro in questo ridicolo sistema, che una prova novella della sublimità del suo idolo, il quale, secondo lui, adopera le sue creature come strumenti della sua potenza e volge a gloria propria la sapienza umana.
Ben presto, non contento di limitare l’impero dell’Eterno, l’uomo, divenendo, sotto un certo rispetto, sempre più deicida, vuole avervi parte.
Se io sono uno spirito, un Io sensibile che emette idee, seguita il deista, io partecipo all’esistenza assoluta; sono libero, creatore, immortale, pari a Dio. Cogito, ergo sum; penso, dunque sono immortale. Ecco il corollario, la traduzione dell’Ego sum qui sum: la filosofia è d’accordo con la Bibbia. L’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima sono affermati dalla coscienza nel medesimo giudizio; là l’uomo parla in nome dell’universo, nel cui seno trasporta il suo Me; qui parla in nome proprio, senza accorgersi che in questo andirivieni, si ripete e nulla più.
L’immortalità dell’anima, vera scissura della divinità, che quando, dopo lungo trascorrere di tempo, fu promulgata, parve un’eresia ai fedeli dell’antico dogma, fu nondimeno considerata come completamento della maestà divina, e necessario postulato della eterna bontà e giustizia. Senza l’immortalità dell’anima non si comprende Dio, dicono i deisti, simili in ciò ai politici teorici, per i quali una rappresentanza sovrana e funzionari, ovunque inamovibili, sono le essenziali condizioni della monarchia. Pure, se è esatta la parità delle dottrine, è altrettanto flagrante la contraddizione delle idee; onde il dogma dell’immortalità dell’anima divenne di un tratto la pietra d’inciampo dei teologi filosofi, i quali dai tempi di Pitagora e di Orfeo si sono sforzati inutilmente di porre in accordo gli attributi divini con la libertà umana, e la ragione con la fede. Bel trionfo per gli empi!... Ma l’illusione non poteva dileguarsi così presto; il dogma dell’immortalità dell’anima, appunto perché era una limitazione dell’Ente increato, era un progresso. Ora, se lo spirito umano s’inganna, a causa del parziale acquisto del vero, non indietreggia però giammai, e questa perseveranza nel suo cammino è la prova della sua infallibilità. Ed ecco una nuova dimostrazione. Facendosi simile a Dio, l’uomo faceva Dio simile a sé: questa correlazione che, durante molti secoli sarebbe stata dichiarata esecranda, fu la molla invisibile da cui scattò il nuovo mito. Al tempo dei patriarchi, Dio stringeva alleanza con l’uomo; ora, per cementare il patto, Dio si farà uomo. Prenderà la nostra carne, il nostro aspetto, le nostre passioni, le nostre gioie e le nostre pene, nascerà da donna e morrà come noi. Poi, dopo questa grande umiliazione dell’infinito, l’uomo pretenderà ancora di avere ingrandito l’ideale del suo Dio, facendo, con un giro di logica, un conservatore, un redentore di colui che fino allora aveva chiamato creatore. L’umanità non dice ancora: sono io Iddio. Questa usurpazione metterebbe orrore alla sua pietà. Essa dice: Dio è in me, Emmanuel, nobiscum Deus. E nel momento in cui la filosofia con orgoglio e la coscienza universale con spavento, gridano a voce unanime: gli dèi se ne vanno, excedere deos, s’inaugura, un periodo di diciotto secoli di adorazione fervida e di pace sovrumana.
Ma il termine fatale s’approssima. La potestà regia, che si lascia circoscrivere, finirà con la demagogia, la divinità che si definisce, si risolve in un pandemonio. La cristolatria è il termine ultimo di questa lunga evoluzione del pensiero umano. Gli angeli, i santi, le vergini regnano in cielo con Dio, dice il Catechismo; i demoni e i reprobi vivono nell’inferno tra i supplizi eterni. La società ultramondana ha la sua destra e la sua sinistra; è tempo che l’espiazione “si compia, che questa mistica gerarchia scenda sulla terra e si mostri nella sua realtà”.
Quando [John] Milton raffigura la prima donna in atto di specchiarsi in una fonte e tendere amorosamente le braccia verso la propria immagine, come per abbracciarla, egli dipinge nel modo più preciso il genere umano. – Questo Dio che tu adori, o uomo! questo Dio che facesti buono, onnipossente, giusto, sapientissimo, immortale, santo, sei tu stesso: questo ideale di perfezione è la tua immagine, purificata nello specchio ardente della tua coscienza. Dio, la Natura e l’Uomo sono il triplice aspetto dell’ente uno e identico; l’uomo è Dio stesso giunto, attraverso mille evoluzioni, alla coscienza di sé; in Gesù Cristo l’uomo s’è sentito Dio e il cristianesimo è davvero la religione dell’Uomo-Dio. Non c’è altro Dio fuor di colui che dalle origini ha detto: io; non c’è altro Dio che Te. Ecco le ultime conclusioni della filosofia che muore svelando il mistero della religione e il proprio.
* * *
Pare allora che tutto sia finito; che l’umanità cessando di adorarsi e di mistificarsi da sé, il problema teologico sia rimosso per sempre. Gli dèi sono partiti; all’uomo non resta che annoiarsi e morire nel suo egoismo. Che solitudine spaventosa si distende intorno a me e s’inabissa nel fondo dell’anima mia! La mia esaltazione somiglia all’annullamento e da che mi sono fatto Dio, non mi vedo se non come un’ombra. Può darsi che io sia sempre un Me, eppure mi è difficile credermi assoluto, e se io non sono l’assoluto, sono nulla più che la metà di una idea.
Poca filosofia allontana dalla religione, ha detto non so quale ironico pensatore, e molta filosofia vi riconduce. L’osservazione è di una verità umiliante.
Ogni scienza si sviluppa in tre epoche successive, che possono chiamarsi paragonandole alle grandi epoche della civiltà: epoca religiosa, epoca sofistica, epoca scientifica. [Vedi, fra gli altri, A. Comte, Cours de Philosophie positive, Paris 1830 e P. J. Proudhon, De la création de l’ordre dans l’humanité, Besançon 1843]. Così, l’alchimia rappresenta il periodo religioso della scienza che più tardi si chiamò chimica e il cui assetto definitivo non s’è trovato ancora! L’astrologia forma il periodo religioso di un’altra costruzione scientifica, l’astronomia.
Ora, ecco che dopo essersi burlati per sessant’anni della pietra filosofale, i chimici, guidati dall’esperienza, non osano più negare la trasmutabilità dei corpi; mentre gli astronomi sono indotti dalla meccanica del mondo a sospettare un organismo del mondo, cioè alcunché di simile all’astrologia. Non è forse il caso di dire, come il filosofo dianzi citato, che se poca chimica distoglie dalla pietra filosofale, molta chimica riconduce alla pietra filosofale, e del pari che se poca astronomia fa deridere gli astrologi, molta astronomia farebbe credere agli astrologi? [Non intendo qui affermare in maniera positiva la trasmutabilità dei corpi, né proporla come scopo alle investigazioni, e molto meno ho la pretesa di dire quale debba essere su questo punto l’opinione dei dotti. Voglio soltanto notare la specie di scetticismo che fanno nascere in qualsiasi mente non prevenuta le più generali conclusioni della filosofia chimica, o per meglio dire, le ipotesi inconciliabili che servono di sostegno alla sue teorie. La chimica è veramente la disperazione della ragione; essa tocca al fantastico per ogni parte, e quanto più l’esperienza ce lo fa conoscere, tanto più essa ci sembra circondata da misteri impenetrabili. Questa considerazione mi era testé suggerita dalla lettura delle Lettres sur la chimie di (Justus von) Liebig. Infatti, Liebig dopo avere eliminate dalla scienza le cause ipotetiche e tutte le entità ammesse dagli antichi, come la forza creatrice della materia, l’orrore del vuoto, lo spirito reggitore, ecc., ammette come condizione della intelligibilità dei fenomeni chimici una serie di entità non meno oscure: la forza vitale, la forza chimica, la forza elettrica, la forza di attrazione, ecc. La si direbbe una realizzazione delle proprietà dei corpi, a simiglianza di quel che hanno fatto delle facoltà dell’anima gli psicologi con i nomi di libertà, immaginazione, memoria, ecc. Perché non tenersi agli elementi? Perché se gli atomi hanno peso per se stessi, come pare che creda il Liebig, non sarebbero ancora per se stessi elettrici e viventi? Cosa curiosa! I fenomeni della materia, come quelli dello spirito, non diventano intelligibili se non supponendoli prodotti da forze inintelligibili e governati da leggi contraddittorie; ciò risulta da ogni pagina del libro di Liebig. La materia, secondo Liebig, è essenzialmente inerte e sprovveduta di qualunque attività spontanea; e allora com’è che gli atomi sono pesanti? Il peso inerte agli atomi non è il moto proprio, eterno, spontaneo della materia? E ciò che noi crediamo quiete, non sarebbe piuttosto un equilibrio? Perché dunque supporre ora una inerzia smentita dalle definizioni, ora una virtualità esteriore da nulla attestata? Da ciò che gli atomi sono pesanti, Liebig conclude che sono indivisibili. Che ragionamento! Il peso non è altro che la forza, cioè una cosa che non può cadere sotto i sensi e non lascia scorgere di sé altro che i propri fenomeni; una cosa perciò a cui non si può applicare il concetto di divisione e quello di non divisione; e dalla presenza di questa forza, dalla ipotesi di un’entità indeterminata e materiale si conclude in favore di una materialità indivisibile! Del resto Liebig confessa che non è possibile alla nostra intelligenza figurarsi particelle assolutamente indivisibili, riconosce di più che il fatto di questa indivisibilità non è provato; ma soggiunge che la scienza non può fare a meno di questa ipotesi, in modo che, per confessione dei maestri, la chimica ha per punto di partenza una finzione che ripugna all’intelletto, tanto quanto è affatto estranea all’esperienza. Che ironia! I pesi degli atomi, dice Liebig, sono disuguali, perché i loro volumi sono disuguali. Tuttavia è impossibile dimostrare che gli equivalenti chimici esprimono il peso relativo degli atomi, ossia, in altre parole, che ciò che noi, secondo il calcolo delle equivalenze atomiche, riguardiamo come atomo non sia composto di più atomi. Come dire che una quantità maggiore di materia pesi più di una quantità minore, e poiché il peso è l’essenza della materialità, si concluderà, a rigore, che la differenza dei corpi semplici deriva unicamente sia dai diversi modi di associazione degli atomi, sia dai diversi gradi di condensazione, e che insomma gli atomi sono trasmutabili, il che Liebig non ammette. “Non abbiamo, egli dice, alcun motivo di credere che un elemento si converta in un altro”. Cosa ne sapete voi? I motivi di credere a questa conversione possono benissimo esistere senza che voi li scorgiate e non è provato che, su questo proposito, la vostra intelligenza non pareggi la vostra esperienza. Pure ammettendo l’argomento negativo di Liebig, cosa ne segue? Che, salvo cinquantacinque eccezioni, rimaste sinora irriducibili, tutta la materia è in metamorfosi perpetua. Ora, è una legge della nostra ragione di supporre nella natura unità di sostanza del pari che unità di forza e unità di sistemi; per altro la serie dei composti chimici e dei medesimi corpi semplici vi ci conduce irresistibilmente. Come dunque rifiutare di battere fino alla meta la via aperta dalla scienza e di ammettere una ipotesi che è la fatale conclusione della stessa esperienza? Come nega Liebig la trasmutabilità degli elementi, così respinge la formazione spontanea dei germi. Ora, se si rigetta la formazione spontanea dei germi, è forza ammettere la loro eternità, ed essendo, d’altra parte, provato dalla geologia che il globo non fu sin dall’eternità abitato, si è costretti ad ammettere ancora che a un dato momento i germi eterni degli animali e delle piante siano sbocciati, senz’opera di padre o di madre, sulla faccia del globo. E così la negazione della generazione spontanea riconduce l’ipotesi di codesta spontaneità. Cosa offre di più contraddittorio la metafisica tanto sprezzata? Non si creda per ciò che io neghi il valore e la certezza delle teorie chimiche, né che l’atomismo mi paia cosa assurda, né che io accolga l’opinione degli epicurei sulla generazione spontanea. Quel che m’importa di porre in rilievo una volta ancora è che, dal punto di vista dei princìpi, la chimica ha bisogno di un’estrema tolleranza, essa non è possibile se non a patto di un certo numero di finzioni che ripugnano alla ragione e all’esperienza e si distruggono fra loro].
Io sono certamente, meno di molti atei, proclive al meraviglioso, ma non posso impedirmi di pensare che le storie dei miracoli, delle predizioni, degli incantesimi, ecc., non sono altro se non narrazioni alterate di effetti straordinari prodotti da certe forze latenti, o, come si diceva una volta, da potenze occulte. La nostra scienza è ancora così brutale e piena di malafede e nei nostri dottori trovi così poca scienza insieme a tanta burbanza, negando essi i fatti che li impacciano onde proteggere le opinioni di cui si giovano, che io diffido di questi spiriti forti non meno che dei superstiziosi. Sì, ne sono convinto; il nostro razionalismo grossolano inaugura un periodo che, a forza di scienza, diverrà veramente prodigioso; l’universo agli occhi miei è un laboratorio di magia nel quale c’è da aspettarsi di tutto... Ciò detto torno al mio tema.
Si cadrebbe in inganno dunque se si pensasse, dopo la rapida esposizione da me fatta delle evoluzioni religiose, che la metafisica abbia detto ormai l’ultima parola sul doppio enigma espresso da queste parole: esistenza di Dio, immortalità dell’anima. Qui, come altrove, le conclusioni più ardite e meglio fondate della ragione, quelle che sembrano aver troncata per sempre la questione teologica, ci riconducono al misticismo primordiale e implicano i dati novelli di una filosofia inevitabile. La critica delle opinioni religiose ci fa oggi sorridere di noi e delle religioni, eppure il riassunto di questa critica è semplicemente la riproduzione del problema. Il genere umano, nel momento in cui scrivo, è alla vigilia di riconoscere e di affermare qualcosa che equivarrà per lui all’antica nozione della divinità; e questo non più, come un tempo, con un moto spontaneo, ma per riflessione e in virtù di una dialettica invincibile.
Cercherò di spiegarmi in poche parole.
Se vi è un punto sul quale i filosofi abbiano, loro malgrado, finito per mettersi d’accordo, è senza dubbio la distinzione tra l’intelligenza e la necessità, tra il soggetto del pensiero e il suo oggetto, tra il me e il non-me; o, come volgarmente si dice, tra lo spirito e la materia. So benissimo che tutte queste parole non esprimono nulla di reale e di vero, che ciascuna di esse indica una scissione dell’assoluto che, solo, è vero e reale, e che prese separatamente, implicano tutte al pari una contraddizione. Ma non è meno certo altresì che l’assoluto ci è completamente inaccessibile, che noi non lo conosciamo altrimenti che per i suoi termini opposti, i soli che cadano sotto il nostro empirismo e che se l’unità sola può ottenere la nostra fede, la dualità è la prima condizione della scienza.
Così, chi pensa e chi è pensato? Cos’è un’anima? Cos’è un corpo? Sfido a sfuggire questo dualismo. È delle essenze come delle idee; le prime si mostrano separate nella natura, come le seconde nell’intelletto. – È nello stesso modo che le idee di Dio e dell’immortalità dell’anima, malgrado la loro identità, si sono collocate successivamente e contraddittoriamente nella filosofia; così appunto, malgrado la loro fusione nell’assoluto, il me e il non-me si offrono separatamente e contraddittoriamente nella natura e noi abbiamo esseri che pensano e, nello stesso tempo, esseri che non pensano.
Ora, chiunque si sia data la pena di rifletterci sopra, sa ormai che una distinzione simile, per quanto sussista in realtà, è ciò che la ragione può incontrare di più inintelligibile, contraddittorio e assurdo. Non si può concepire un essere qualsiasi senza le proprietà dello spirito o senza le proprietà della materia. Di maniera che, se voi negate lo spirito, perché, non trovando posto in nessuna delle categorie di tempo, spazio, moto, solidità, ecc., vi sembra privo di tutti gli attributi che costituiscono il reale, io negherò alla mia volta la materia, la quale, non offrendomi di notevole altro che la sua passività e d’intelligibile altro che le sue forme, in nessuna parte si manifesta come causa (volontaria e libera) e si nasconde del tutto come sostanza. Così si giunge all’idealismo puro, cioè al nulla. Ma il nulla ripugna a quei non so che i quali vivono e ragionano, riunendo in se medesimi, in uno stato (non saprei dire quale) di sintesi incominciata o di scissione imminente, tutti gli attributi antagonisti dell’essere. Siamo obbligati dunque a iniziare con un dualismo i cui termini sappiamo perfettamente che sono falsi. Ma esso è per noi la condizione del vero e ci s’impone invincibilmente. In breve dobbiamo, come Descartes, come il genere umano cominciare dal me, cioè dallo spirito.
Ma dopo che le religioni e le filosofie, disciolte dall’analisi, sono venute a fondersi nella teoria dell’assoluto, non siamo riusciti meglio a sapere cosa sia lo spirito e differiamo dagli antichi non per altro che per la ricchezza del linguaggio di cui ammantiamo l’oscurità che ci circonda. Solamente, mentre per gli uomini dei tempi andati l’ordine attestava una intelligenza fuori del mondo, per i moderni sembra piuttosto attestarla nel mondo. Ora, si metta dentro o fuori, dal momento che la si afferma in grazia dell’ordine, bisogna o ammetterla ovunque l’ordine si manifesta, o non ritrovarla in nessuna parte. Non c’è più ragione di attribuire l’intelligenza alla testa che produsse l’Iliade che a una massa di materia cristallizzata in ottaedri. E reciprocamente è tanto assurdo riferire il sistema del mondo alle leggi fisiche, senza tenere conto del me ordinatore, quanto l’attribuire la vittoria di Marengo a combinazioni strategiche, senza pensare al Primo Console. Tutta la differenza che si può fare è che in quest’ultimo caso il me pensante è circoscritto nel cervello di Bonaparte, mentre, riguardo all’universo, il me non ha sito speciale e si diffonde ovunque.
I materialisti hanno creduto di trionfare dell’opinione contraria, dicendo che l’uomo, avendo paragonato l’universo al proprio corpo, completò il paragone accordando a questo universo un’anima simile a quella che egli supponeva essere il principio della propria vita e del proprio pensiero. In tal modo tutti gli argomenti in favore dell’esistenza di Dio si riducevano a un’analogia tanto più falsa in quanto il termine di confronto era esso medesimo ipotetico.
Certo non vengo qui a difendere il vecchio sillogismo. Ogni combinazione supera una intelligenza ordinatrice; ma nel mondo esiste un ordine ammirabile; dunque il mondo è opera di una intelligenza. Questo sillogismo tanto ripetuto da Giobbe e Mosè in poi, lungi dall’offrire uno scioglimento, è soltanto la formula dell’enigma che si vuol decifrare. Noi conosciamo perfettamente cosa è l’ordine, ma ignoriamo nel modo più completo cosa intendiamo dire con la parola Anima, Spirito, Intelligenza; come dunque logicamente dalla presenza dell’uno concludere in favore della esistenza dell’altro? Io pertanto rigetterò la pretesa prova dell’esistenza di Dio tratta dall’ordine del mondo, fino a che si abbiano più ampie informazioni, né ci vedrò altro, se non tutt’al più, una equazione proposta alla filosofia. Dal concetto dell’ordine all’affermazione dello spirito c’è tutto un abisso di metafisica da colmare e mi guardo bene, lo ripeto, dal prendere il problema per una dimostrazione.
Ma non si tratta di ciò ora. Ho voluto mettere in chiaro che la ragione umana era fatalmente e invincibilmente condotta a distinguere l’essere in me e non-me. Spirito e materia, anima e corpo. Chi non vede come l’obiezione dei materialisti provi proprio quel che essa cerca di negare? L’uomo che distingue in se stesso un principio spirituale e un principio materiale, cos’altro è se non la natura medesima che proclama via via la sua doppia essenza e rende testimonianza alle proprie leggi? E notiamo l’inconseguenza del materialismo; esso nega ed è costretto a negare che l’uomo sia libero: ora meno libertà ha l’uomo, più importanza mostrano i suoi detti e devono considerarsi come espressioni della verità. Quando odo questa macchina che mi dice: io sono anima, io sono corpo, sebbene una rivelazione simile mi stupisca e mi confonda, pure essa agli occhi miei riveste un’autorità incomparabilmente più grande di quella del materialista, il quale correggendo la coscienza e la natura pretende che dicano: io sono materia e null’altro che materia; l’intelligenza è semplicemente la facoltà materiale di conoscere.
Cosa avverrebbe se, prendendo alla mia volta l’offensiva, dimostrassi come sia insostenibile l’esistenza dei corpi, o, in altri termini, la realtà di una natura puramente corporea? – La materia, si dice, è impenetrabile. – Impenetrabile a che? domando io. Senza dubbio a se medesima, perché nessuno oserebbe dire che è tale per lo spirito; sarebbe ammettere ciò che si vuole rigettare. A tal riguardo io propongo una doppia questione. Cosa ne sapete voi? che significa ciò?
1° L’impenetrabilità, grazie la quale si pretende di definire la materia è una pura ipotesi di fisici disattenti, una conclusione grossolana dedotta da un giudizio superficiale. L’esperienza mostra nella materia una divisibilità all’infinito, una dilatabilità all’infinito, una porosità senza limiti immaginabili, una permeabilità al calore, all’elettricità, al magnetismo, del pari che una proprietà di ritenerle tutte indefinite. E poi affinità, influenze reciproche e trasformazioni innumerevoli; cose tutte poco compatibili col concetto di un aliquid impenetrabile. L’elasticità che meglio di qualsiasi altra proprietà della materia poteva condurre, mediante l’idea di molla o di resistenza, a quella di impenetrabilità, varia secondo mille circostanze e dipende interamente dall’attrazione molecolare. Ora, cosa c’è che meno di quest’attrazione si concili con l’impenetrabilità? Del resto c’è una scienza che a rigore si potrebbe definire scienza della penetrabilità della materia: essa è la chimica. Difatti, in che differisce dalla penetrazione quella che chiamano composizione chimica? [I chimici distinguono la miscela dalla composizione, nello stesso modo che i logici distinguono l’associazione delle idee dalla sintesi. Vero è nondimeno che, secondo i chimici, la composizione sarebbe anche essa una miscela, o piuttosto una aggregazione non più fortuita, ma sistematica degli atomi, i quali in tanto danno composti diversi in quanto varia la loro combinazione. Ma questa è una ipotesi affatto gratuita, una ipotesi che non spiega nulla e non ha neanche il merito di essere logica. Com’è che una differenza puramente numerica e geometrica nella composizione e nella forma dell’atomo genera proprietà fisiologiche così diverse? e se gli atomi sono indivisibili e impenetrabili, com’è che la loro associazione, limitata agli effetti meccanici, non li lascia inalterabili, in quanto alla loro essenza? Dov’è qui il rapporto tra la causa supposta e l’effetto ottenuto? Diffidiamo della nostra ottica intellettuale. Accade alle teorie chimiche quel che accade ai sistemi di psicologia. L’intendimento, per rendersi conto dei fenomeni, opera sugli atomi che non vede né vedrà mai, come sul me che non scorge meglio, e a tutto applica le sue categorie, cioè distingue, individua, concreta, enumera, contrappone ciò che, immateriale, è profondamente identico e indiscernibile. La materia, del pari che lo spirito fa, agli occhi nostri; tutte le parti, e siccome le sue metamorfosi nulla hanno di arbitrario, noi ce ne serviamo come testo per foggiare tutte le teorie psicologiche o atomiche, vere in quanto con un linguaggio convenzionale ci rappresentano fedelmente la serie dei fenomeni, ma radicalmente false quando pretendono realizzare le loro astrazioni e su questa base porre le conclusioni]. – Insomma, noi conosciamo le forme della materia, in quanto alla sostanza, niente. Come dunque è possibile affermare la realtà di un essere invisibile, impalpabile, incoercibile, che cangia sempre, sempre sfugge, ed è penetrabile solamente col pensiero, al quale non lascia vedere di sé altro che i travestimenti? Materialisti! io vi prometto di attestare la realtà delle nostre sensazioni; in quanto a ciò che dà loro occasione d’essere, tutto quel che voi ne potete dire implica questa reciprocità: qualche cosa (che voi chiamate materia) dà occasione alle sensazioni che si manifestano in una qualche altra cosa (che io chiamo spirito).
2° Ma da dove viene questa supposizione, che nulla giustifica nell’osservazione esteriore e non è punto vera, dell’impenetrabilità della materia e quale ne è il senso?
Qui appare il trionfo del dualismo. La materia è dichiarata impenetrabile, non come i materialisti e il volgo si figurano, non dalla testimonianza dei sensi, ma dalla coscienza. È il me, natura incomprensibile, che sentendosi libero e incontrando fuori di se stesso un’altra natura ugualmente incomprensibile, ma distinta anche e permanente, malgrado le sue metamorfosi, pronuncia, per virtù delle sensazioni e delle idee, da questa essenza suggerite, che il non-me è esteso e impenetrabile. L’impenetrabilità è una parola metaforica, una immagine sotto la quale il pensiero, scissione dell’assoluto, ci rappresenta la realtà materiale, altra scissione dell’assoluto. Ma codesta impenetrabilità, senza cui la materia svanisce, è, in ultima analisi, un giudizio spontaneo del senso intimo, un a priori metafisico, una ipotesi non accertata... dello spirito.
Di modo che, sia che la filosofia, dopo aver rovesciato il dogmatismo teologico, spiritualizzi la materia, o materializzi il pensiero, idealizzi l’essere o realizzi l’idea; sia che, identificando la sostanza e la causa, sostituisca ovunque la forza, frasi tutte che non spiegano e non significano nulla: essa ci riconduce sempre all’eterno dualismo e imponendoci di credere in noi stessi, ci obbliga di credere in Dio, se non addirittura negli spiriti. Vero è che facendo rientrare lo spirito nella natura, a differenza degli antichi, i quali la separavano, la filosofia è condotta a questa conclusione famosa che riassume press’a poco tutto il frutto delle sue ricerche. Nell’uomo lo spirito ha coscienza di sé, mentre in ogni altro essere sembra che questa coscienza manchi. – “Ciò che veglia nell’uomo, sogna nell’animale e dorme nella pietra...”, ha detto un filosofo.
La filosofia, infine, non ne sa più di quanto ne sapeva nascendo: come se non fosse venuta al mondo se non per giustificare il motto di Socrate, essa ci dice, coprendosi del funereo lenzuolo: so che non so nulla. Che dico? la filosofia sa oggi che tutti i suoi giudizi poggiano su due ipotesi del pari false e impossibili, eppure entrambe necessarie e fatali, la materia e lo spirito. In modo che, mentre in altri tempi l’intolleranza religiosa e le discordie filosofiche, diffondendo ovunque le tenebre, scusavano il dubbio e allettavano a una noncuranza libidinosa, il trionfo della negazione su tutti i punti non consente neanche il dubbio; il pensiero, libero d’ogni impaccio, ma vinto dai propri successi, è costretto ad affermare ciò che gli sembra apertamente contraddittorio e assurdo. I selvaggi dicono che il mondo è un gran feticcio guardato da un gran manitù. Per trenta secoli i poeti, i legislatori, i savi della civiltà, trasmettendosi d’età in età la lampada filosofica, non hanno scritto nulla che superi la sublimità di questa professione di fede. Ed ecco che alla fine della lunga cospirazione contro Dio, la quale pose a se stessa il nome di filosofia, la ragione emancipata conclude come la ragione selvatica: l’universo è un non-me obiettivato da un me.
L’umanità suppone dunque fatalmente l’esistenza di Dio: e se durante il lungo periodo chiuso ai nostri tempi, essa ha creduto alla realtà della propria ipotesi; se ne ha venerato l’inconcepibile oggetto; se, dopo essersi colta in questo atto di fede, persiste scientemente, ma non più liberamente nella nozione di un essere sovrano che essa sa essere una semplice personificazione del proprio pensiero; se è in procinto di ricominciare le sue invocazioni magiche, bisogna credere che in una così meravigliosa allucinazione si nasconda un qualche mistero, che merita essere profondamente studiato.
Dico allucinazione e mistero, senza però pretendere di negare il contenuto soprumano dell’idea di Dio, e senza ammettere la necessità di un nuovo simbolismo, cioè di una nuova religione. E se non c’è dubbio che l’umanità affermando Dio, o quel che si voglia sotto il nome di me o di spirito, non fa che affermare se stessa, è altresì innegabile che in tal caso essa s’afferma altrimenti da quella che si conosce; ciò risulta da tutte le mitologie e da tutte le teodicee. Essendo poi questa affermazione irresistibile, si connette a rapporti segreti che importa, se è possibile, determinare scientificamente.
In altre parole, l’ateismo, detto anche umanismo, vero in tutta la sua parte critica e negativa, se si fermasse all’uomo considerato come figlio della natura e mettesse in disparte quella prima affermazione dell’umanità che essa è figlia, immagine, emanazione, riflesso o verbo di Dio, sarebbe, rinnegando così il proprio passato, una contraddizione di più. Dobbiamo dunque criticare l’umanismo, verificare se l’umanità, presa nel suo complesso e in tutti i periodi del suo sviluppo, soddisfi alla idea divina, fatta anche deduzione degli attributi iperbolici e fantastici di Dio; se soddisfi alla pienezza dell’essere, se soddisfi a se medesima. Dobbiamo, in una parola, ricercare se l’umanità tende a Dio secondo l’antico dogma, ovvero se essa stessa diventa Dio, come dicono i moderni. Forse troveremo infine che i due sistemi, malgrado la loro apparente opposizione, sono entrambi veri e, nel fondo, identici: in tal caso l’infallibilità della ragione umana, nelle sue manifestazioni collettive, così come nelle altre speculazioni riflesse sarebbe espressamente confermata. – Insomma fino a che non avremo verificata sull’uomo l’ipotesi di Dio, la negazione atea non può essere definitiva.
Dovremo dare dunque una dimostrazione scientifica, o piuttosto empirica dell’idea di Dio: ora codesta dimostrazione non è stata mai tentata. Mentre la teologia dogmatizzava sull’autorità dei suoi miti e la filosofia speculava con l’aiuto delle sue teorie, Dio è rimasto allo stato di concetto trascendentale, cioè inaccessibile alla ragione, e l’ipotesi dura sempre.
Dura, io dico, codesta ipotesi più vivace e spietata che mai. Noi siamo venuti a una di quelle epoche fatali, in cui la società, sdegnosa del passato e tormentata dall’avvenire, ora abbraccia con frenesia il presente, lasciando a qualche solitario pensatore la cura di preparare la novella fede; ora grida a Dio dall’abisso dei suoi godimenti e invoca un segno di salute, o cerca nello spettacolo delle sue risoluzioni, come nelle viscere di una vittima, il segreto dei propri destini.
Che bisogno ho d’insistere su ciò? L’ipotesi di Dio è legittima, infatti s’impone a ogni uomo, malgrado lui; nessuno dunque può rimproverarmene. Chi crede mi consentirà la supposizione che Dio esiste; chi non crede deve accordarmela del pari, avendola egli stesso fatta prima di me, in quanto ogni negazione implica una previa affermazione, e chi dubita fa presto a capire che il suo dubbio suppone un non so che al quale prima o poi s’applicherà il nome di Dio.
Ma se, per ciò solo che penso, ho il diritto di supporre Dio, devo conquistare il diritto di affermarlo. In altri termini, se la mia ipotesi s’impone invincibilmente, essa è al momento tutto quanto io posso pretendere. Infatti affermare significa determinare; ora ogni determinazione, per esser vera, deve essere esposta empiricamente; chi dice determinazione, dice rapporto, condizionalità, esperienza. E dovendo la determinazione del concetto di Dio uscire da una dimostrazione empirica, noi dobbiamo astenerci da tutto quanto, perché la ricerca di quest’altra incognita, non essendo fornito dall’esperienza, oltrepasserebbe l’ipotesi, sotto pena di ricadere nelle contraddizioni della teologia e di sollevare per conseguenza nuove proteste dell’ateismo.
* * *
Mi resta da dire perché, in un libro di Economia Politica, ho dovuto muovere dall’ipotesi fondamentale di ogni filosofia.
Innanzi tutto, ho bisogno dell’ipotesi di Dio per fondare l’autorità della scienza sociale. – Quando l’astronomo, per spiegare il sistema del mondo, appoggiandosi esclusivamente all’apparenza, suppone, come fa il volgo, che il cielo è a volta, la terra piana, il sole grosso come una palla che descrive una curva in aria dall’Oriente all’Occidente, immagina infallibili i sensi, salvo a rettificare più tardi, come procede nell’osservazione, l’asserto da dove fu obbligato a prendere le mosse. In realtà la filosofia astronomica non poteva ammettere a priori che i sensi ci ingannano e che noi non vediamo quel che vediamo; cosa diverrebbe allora la certezza dell’astronomia? Ma, potendo in certi casi ciò che i sensi inferiscono modificarsi e completarsi da sé, l’autorità dei sensi rimane incrollabile e l’astronomia è possibile.
Del pari, la filosofia sociale non ammette a priori che l’umanità nei suoi atti non possa ingannare nè ingannarsi? Senza ciò cosa diverrebbe l’autorità del genere umano, cioè l’autorità della ragione, che è poi tutt’uno con la sovranità del popolo? Ma essa pensa che i giudizi umani, veri sempre in ciò che hanno di attuale e d’immediato, possono completarsi e rischiararsi successivamente gli uni con gli altri a misura che s’acquistino nuove idee, in modo da mettere sempre d’accordo la ragione generale con la speculazione individuale ed estendere indefinitamente la sfera della certezza, il che è sempre affermare l’autorità dei giudizi umani.
Ora il primo giudizio della ragione, il preambolo d’ogni Costituzione politica che cerchi una sanzione e un principio, è questo: c’è un Dio; il che vuol dire: la società è governata con senno, previdenza, intelligenza. Questo giudizio che esclude l’azzardo è pur quello che stabilisce la possibilità di una scienza sociale; ogni studio storico e positivo dei fatti sociali, intrapreso con uno scopo di miglioramento e di progresso, deve supporre col popolo l’esistenza di Dio, salvo a rendere conto più tardi di questo giudizio. Così la storia della società non è altro, a veder nostro, se non una lunga determinazione dell’idea di Dio, una rivelazione progressiva del destino dell’uomo. E mentre l’antica sapienza faceva dipendere tutto da una nozione arbitraria e fantastica della divinità, nozione che opprimeva la ragione e la coscienza e ogni moto arrestava col terrore di un padrone invisibile; – la nuova filosofia, invertendo il metodo, spezzando così l’autorità di Dio come quella dell’uomo, e non accettando altro giogo che quello del fatto e dell’evidenza, fa convergere tutto verso l’ipotesi teologica, segnata quale ultimo dei suoi problemi.
L’ateismo umanitario è dunque l’ultimo termine dell’affrancamento morale e intellettuale dell’uomo e per conseguenza l’ultima fase della filosofia, che serve di passaggio alla ricostruzione o verificazione scientifica di tutti i dogmi abbattuti.
Mi occorre l’ipotesi di Dio, non solo, come ho detto, per dare un significato alla storia, ma ancora per legittimare le riforme che in nome della scienza devono operarsi nello Stato.
Sia che noi consideriamo la Divinità come estranea alla società, di cui modera dall’alto i movimenti (opinione affatto gratuita e probabilmente illusoria); sia che la giudichiamo immanente nella società e identica alla ragione impersonale e inconscia, la quale, come un istinto fa camminare la civiltà (quantunque l’impersonalità e l’ignoranza di sé ripugnino all’idea d’intelligenza); sia infine che tutto quanto accade nella società risulti dal rapporto dei suoi elementi (sistema il cui merito consiste tutto nel mutare un attivo in passivo, nel fare necessità l’intelligenza, o, ciò che torna lo stesso, prendere la legge per la causa); segue sempre che apparendoci necessariamente le manifestazioni dell’attività sociale o come indizi della volontà dell’Essere Supremo, ovvero come una specie di linguaggio tipico della ragione generale e impersonale, o finalmente come segnali della necessità, codeste manifestazioni avranno per noi un’autorità assoluta. Essendo la loro serie legata, tanto nel tempo che nello spirito, i fatti compiuti determinano e legittimano i fatti da compiere, la scienza e il destino s’accordano, in quanto tutto ciò che accade procede dalla ragione e reciprocamente, siccome la ragione giudica solo grazie all’esperienza di quanto accade, segue che la scienza ha diritto a partecipare al Governo e quel che stabilisce la sua competenza come consiglio, giustifica il suo intervento come sovrano.
La scienza, espressa, riconosciuta e accolta dal suffragio universale come divina, è la regina del mondo. Quindi, grazie all’ipotesi di Dio, è perentoriamente e irrevocabilmente messa da parte qualsiasi opposizione stazionaria o retrograda, qualsiasi rifiuto opposto dalla teologia, dalla tradizione e dall’egoismo.
Mi occorre l’ipotesi di Dio per mostrare il legame che unisce la civiltà alla natura.
Difatti, questa ipotesi meravigliosa, in forza della quale l’uomo si assimila all’assoluto, presumendo l’identità delle leggi della natura e delle leggi della ragione, ci permette di vedere nell’industria umana il complemento dell’atto creativo, rende solidale l’uomo e il globo da lui abitato, e nei lavori che fa per trarre profitto dal campo assegnatoci dalla Provvidenza e che diviene così in parte opera nostra, ci fa concepire il principio e la fine di tutte le cose. Se dunque l’umanità non è Dio, essa però continua Dio, o, se si preferisce un altro modo d’esprimersi, ciò che l’umanità esegue oggi con riflessione è la stessa operazione che essa cominciò istintivamente e che la natura sembra compiere per necessità. In ogni caso, e qualunque opinione si preferisca, una cosa rimane certa, l’unità di azione e di legge. – Esseri intelligenti, attori di una commedia diretta con intelligenza, possiamo difficilmente trarre da noi illazioni che si riferiscano all’universo e all’eterno e, quando fossimo giunti a organizzare definitivamente il lavoro tra noi, dire con orgoglio: la creazione è spiegata. Si trova così determinato il campo d’esplorazione della filosofia; la tradizione è il punto di partenza d’ogni speculazione sull’avvenire; l’utopia è messa in disparte per sempre; lo studio del me, trasferito dalla coscienza individuale alle manifestazioni della volontà sociale, acquista il carattere di obiettività che dianzi gli mancava e divenendo psicologia la storia, la teologia antropologia e le scienze naturali metafisica, la teorica della ragione si deduce non più dalla vacuità dell’intelletto, ma dalle forme innumerevoli di una natura nella quale può largamente e direttamente esercitarsi l’osservazione.
A me occorre l’ipotesi di Dio per fare testimonianza del mio buon volere verso una moltitudine di sette, alle cui opinioni non partecipo, mentre ne temo i rancori: – deisti; so di un tale che per la causa di Dio sarebbe pronto a trar fuori la spada e a far lavorare la ghigliottina, come Robespierre, fino alla distruzione dell’ultimo ateo, non riflettendo che questo ateo sarebbe lui; – mistici, il cui partito, composto in gran parte di studenti e di donne, sotto la bandiera dei signori [Félicité de] Lamennais, [Edgar] Quinet, [Pierre] Leroux e altri, ha preso per motto: Tale il padrone tale il servo; tale è Dio tale è il popolo; e per regolare il salario di un operaio comincia dal restaurare la religione; – spiritualisti, i quali, se io non tenessi conto dei diritti dello spirito, m’accuserebbero di fondare il culto della materia, contro il quale io protesto con tutte le forze dell’anima mia; – sensisti e materialisti, per i quali il dogma divino è il simbolo della coazione e il principio dell’assoggettamento delle passioni, mentre senza queste, essi dicono, non c’è per l’uomo né piacere né virtù né genio; – eclettici e scettici, librai-editori di tutte le vecchie filosofie, non filosofi essi, ma coalizzati in vasta confraternita con approvazione e privilegio, contro chiunque pensi, creda o affermi senza loro licenza; – conservatori infine, retrogradi, egoisti, e ipocriti che predicano l’amor di Dio per odio del prossimo, accusano eternamente la libertà dei malanni del mondo e calunniano la ragione, consci come sono della propria imbecillità.
È possibile che si muova accusa a una ipotesi che, lungi dal bestemmiare i venerati fantasmi della fede, aspira soltanto a metterli in piena luce; che, invece di rigettare i dogmi tradizionali e i pregiudizi della coscienza, chiede soltanto di verificarli; che pur rifuggendo da idee esclusive, prende per assioma l’infallibilità della ragione, e grazie a questo fecondo principio, non verrà mai ad alcuna conclusione contraria alle sette antagoniste? È possibile che i conservatori religiosi e politici mi rimproverino di turbare l’ordine della società, quando io muovo dall’ipotesi di una intelligenza sovrana, forte d’ogni pensiero d’ordine; che i democratici semi-cristiani mi maledicano come nemico di Dio, e perciò traditore verso la repubblica, quando io ricerco il senso e il contenuto dell’idea di Dio; e che i mercanti universitari mi taccino d’empietà perché io dimostro non avere alcun valore i loro prodotti filosofici, quando io sostengo che la filosofia si deve studiare nel suo oggetto, cioè nelle manifestazioni della società e della natura?...
A me occorre l’ipotesi di Dio per giustificare il mio stile.
Nell’ignoranza in cui mi trovo di tutto quanto riguarda Dio, il mondo, l’anima, il destino; costretto a procedere come il materialista, cioè mediante l’osservazione e l’esperienza, ad esporre le mie conclusioni col linguaggio del credente, perché non ce n’è altro; non sapendo se le mie formule, mio malgrado teologiche, debbano essere prese in senso proprio o figurato; obbligato, in codesta perpetua contemplazione di Dio, dell’uomo e delle cose, a subire la sinonimia di tutti i vocaboli che entrano nelle tre categorie del pensiero, della parola e dell’azione, senza voler affermare per un verso nulla più che per l’altro; il rigore della dialettica esigeva che io supponessi addirittura questa incognita che si chiama Dio. Noi siamo ripieni della Divinità, Jovis omnia plena [Virgilio]; i nostri monumenti, le nostre tradizioni, le nostre leggi, le nostre idee, le nostre lingue, le nostre scienze tutto è infetto di questa indelebile superstizione, fuori la quale noi non possiamo né parlare né agire, e senza la quale neanche pensiamo.
Finalmente, a me occorre l’idea di Dio per spiegare la pubblicazione di queste nuove Memorie.
La nostra società si sente gravida di avvenimenti e guarda inquieta l’avvenire: come rendere ragione di questi vaghi presentimenti col solo soccorso di una ragione universale, immanente se si vuole, e permanente, ma impersonale e per conseguenza muta; – o anche con l’idea di necessità, se ciò implica che la necessità conosca se stessa e quindi abbia presentimenti? Rimane dunque ancora una volta l’ipotesi di un agente o incubo che incalza la società e le accorda le visioni.
Ora, quando la società profetizza, essa s’interroga con la bocca degli uni e si risponde con la bocca degli altri. Fa mostra di saviezza chi sa ascoltare e comprendere, perché Dio stesso ha parlato, – semel locutus est Deus [Ambrogio].
L’Accademia delle Scienze morali e politiche ha proposto la seguente questione:
“Determinare i fatti generali che regolano i rapporti dei profitti con i salari e spiegarne le rispettive oscillazioni”.
Alcuni anni fa la medesima Accademia domandava: “Quali sono le cause della miseria?”. Il fatto è che il secolo decimonono ha un solo pensiero: uguaglianza e riforma. Ma lo spirito soffia dove vuole; molti si posero a ruminare la questione, nessuno rispose. Il collegio degli indovini ha dunque rinnovata la domanda, ma in termini più comprensivi. Esso vuol sapere se l’ordine regna nella fabbrica; se le mercedi sono eque, se la libertà e il privilegio si compensano con giustizia; se la nozione del valore, che domina tutti i fatti dello scambio, è, nella forma assegnatale dagli economisti, sufficientemente esatta, se il credito protegge il lavoro; se la circolazione è regolare, se i carichi sociali pesano ugualmente su tutti, ecc.
E difatti, avendo la miseria per causa immediata l’insufficienza del reddito è necessario conoscere com’è che, salvo i casi di disgrazia o di mala volontà, il reddito dell’operaio era insufficiente. È sempre la stessa questione della disuguaglianza degli averi che levò tanto rumore nel secolo scorso e che, per una strana fatalità, si riproduce continuamente nei programmi accademici, come se là fosse il nodo gordiano dei tempi moderni.
L’uguaglianza dunque, il suo principio, i suoi mezzi, i suoi ostacoli, la sua teoria, i motivi del suo aggiornamento, la causa delle iniquità sociali e provvidenziali: ecco quel che bisogna insegnare al mondo, a dispetto dei sarcasmi dell’incredulità.
So bene che le vedute dell’Accademia non sono così profonde e che, come fosse un concilio, ha in orrore le novità, ma più essa si rivolge al passato, più riflette l’avvenire e per conseguenza più dobbiamo credere alla sua ispirazione, infatti i veri profeti sono quelli che non comprendono ciò che annunziano. Ascoltate:
“Quali sono, dice l’Accademia, le applicazioni più utili che si possono fare del principio dell’associazione volontaria e privata a sollievo della miseria?”.
E ancora:
“Esporre la teoria e i princìpi del contratto di assicurazione, farne la storia e dedurre dalla dottrina e dai fatti gli svolgimenti che questo contratto può ricevere e le varie applicazioni utili che se ne potrebbero fare nello stato di progresso in cui si trova attualmente il nostro commercio e la nostra industria”.
I pubblicisti ammettono concordi che l’assicurazione, forma rudimentale della società commerciale, è un’associazione nelle cose, societas in re, cioè una società le cui condizioni, fondate sopra rapporti puramente economici, sfuggono al capriccio dell’uomo. In modo che una filosofia dell’assicurazione o della mutua garanzia degli interessi, che fosse dedotta dalla teoria generale delle società reali, in re, conterrebbe la formula dell’associazione universale, alla quale l’Accademia non crede. E quando, riunendo nel medesimo punto di vista il soggetto e l’oggetto, l’Accademia chiede, accanto a una teoria dell’associazione degli interessi, una teoria dell’associazione volontaria, essa ci rivela quel che debba essere la società più perfetta, e nella stessa maniera afferma quanto v’ha di più contrario alle sue convinzioni. Libertà, uguaglianza, solidarietà, associazione! – Per quale sbaglio inconcepibile un corpo così eminentemente conservatore ha proposto ai cittadini questo nuovo programma dei diritti dell’uomo? Così Caifa profetava la redenzione mentre rinnegava Gesù Cristo.
Sulla prima di codeste questioni quarantacinque memorie giunsero in due anni all’Accademia; segno che il soggetto corrispondeva mirabilmente allo stato degli animi. Ma tra tanti concorrenti, non essendo alcuno stato ritenuto degno di premio, l’Accademia ha ritirato il quesito adducendo a pretesto l’insufficienza dei concorrenti, ma in realtà perché l’insuccesso del concorso era il solo scopo che l’Accademia s’era proposto; a lei premeva di poter dichiarare, senza aspettare altro, che le speranze dei partigiani dell’associazione non avevano alcun fondamento.
Così dunque i signori dell’Accademia sconfessano nella sala delle sedute, ciò che annunziarono sul tripode! Una tale contraddizione non mi sorprende e Dio mi guardi dal farne accusa agli accademici. Gli antichi credevano che le rivoluzioni si annunziassero con segni spaventevoli e che, fra gli altri prodigi, parlassero gli animali. Era certo un simbolo per indicare quelle idee subitanee e quelle parole strane che circolano a un tratto nelle masse nei momenti di crisi e paiono prive di ogni umano precedente, tanto sono fuori della cerchia del comune giudizio. Nell’epoca in cui viviamo non poteva non prodursi un simile fenomeno.
Dopo avere, con grande stento e spontaneità macchinale, pecudesque locutae [Virgilio], proclamato l’associazione, i signori dell’Accademia delle Scienze morali e politiche sono rientrati nella loro ordinaria prudenza e la routine è venuta a smentire l’ispirazione. Sappiamo discernere gli avvisi che vengono dall’alto dai giudizi interessati degli uomini, e teniamo per certo che nei discorsi dei savi, è soprattutto indubitabile ciò a cui la loro riflessione ha preso la minor parte.
Tuttavia l’Accademia, rompendola bruscamente con le sue intenzioni, pare che abbia provato qualche rimorso. Invece di una teoria dell’associazione, alla quale dopo averci pensato, essa non crede più, chiede un Esame critico del sistema d’istruzione e d’educazione di [Johann] Pestalozzi, considerato principalmente nei suoi rapporti col benessere e la moralità delle classi povere. Chi sa? può darsi che il rapporto dei profitti e dei salari, l’associazione, l’organizzazione del lavoro insomma, si trovino in fondo a un sistema d’insegnamento. La vita dell’uomo non è un perpetuo tirocinio? La filosofia e la religione non sono l’educazione dell’umanità? Organizzare l’istruzione significherebbe dunque organizzare l’industria e fare la teoria della società: l’Accademia, nei momenti di lucido intervallo, torna sempre a quel punto.
Quale influenza, è ancora l’Accademia che parla, esercitano il progresso e il gusto del benessere materiale sulla moralità di un popolo?
Preso nel senso più apparente, questo nuovo quesito dell’Accademia è banale e buono tutt’al più a servir d’esercizio a un retore. Ma l’Accademia che deve fino alla fine ignorare il senso rivoluzionario dei suoi oracoli, ha alzato il sipario sulla sua glossa. Cos’ha visto dunque di così profondo in codesta tesi epicurea?
“È, essa ci dice, che il gusto del lusso e dei godimenti, l’amore singolare che sente per essi il maggior numero, la tendenza degli animi e delle intelligenze a occuparsene esclusivamente, l’accordo dei privati e dello Stato per farne la causa e lo scopo di tutti i loro progetti, di tutti i loro sforzi, di tutti i loro sacrifici, generano sentimenti generali o individuali, che benefici o nocivi, divengono princìpi di azione più potenti forse di quelli che in altri tempi hanno dominato gli uomini”.
Giammai più bella occasione s’era offerta a filosofi moralisti di accusare il sensualismo del secolo, la venalità della coscienza e la corruzione eretta a mezzo di governo; in luogo di ciò che fa l’Accademia delle Scienze morali? Con la calma più automatica, essa istituisce una serie ove il lusso, per tanto tempo proscritto dagli stoici e dagli asceti – questi maestri in santità – deve comparire alla sua volta come una norma di condotta così legittima, pura e grande come tutte quelle suggerite già dalla religione e dalla filosofia. Determinate, essa ci dice, i princìpi di azione (senza dubbio ora vecchi e logori) ai quali succede provvidenzialmente nella storia la voluttà e, in base ai risultati di quelli, calcolate gli effetti di questa. – Dimostrate, in una parola, che Aristippo non ha fatto che andare innanzi al secolo suo e che la sua morale, al pari di quella di Zenone e di [Tommaso da] Kempis, doveva avere il suo giorno di trionfo.
Dunque noi abbiamo a che fare con una società che non vuole più essere povera, che si burla di quanto in altri tempi le fu caro e sacro, la libertà, la religione, la gloria, ove non abbia la ricchezza; per ottenere la quale subisce qualunque insulto, si fa complice di qualunque vigliaccheria. E questa sete ardente di piacere, questa brama irresistibile del lusso, sintomi di un nuovo periodo nella civiltà, sono i precetti supremi in virtù dei quali noi dobbiamo lavorare all’espulsione della miseria. Così dice l’Accademia. Che diviene dopo ciò il precetto dell’espiazione e dell’astinenza, la morale del sacrificio, della rassegnazione e dell’aurea mediocrità? Quale diffidenza verso i compensi promessi nell’altra vita e quale smentita al Vangelo! Ma soprattutto quale giustificazione per un Governo che ha presa la chiave d’oro per sistema! E come! uomini religiosi, cristiani, altrettanti Seneca hanno potuto di un tratto profferire tante massime immorali!
L’Accademia, completando il suo pensiero, ci risponde:
Dimostrate come il progresso della giustizia criminale, nel processare e punire gli attentati contro le persone e la proprietà, segua e segni le epoche della civiltà dallo stato selvatico, fino a quello dei popoli meglio ordinati a civile reggimento.
Sembra che i criminalisti dell’Accademia delle scienze morali abbiano previsto la conclusione delle loro premesse? Il fatto che devesi studiare e che l’Accademia indica con le parole progresso della giustizia criminale, non è altro se non il progressivo addolcimento che si manifesta sia nelle forme della procedura criminale, sia nella penalità a misura che nella civiltà crescono la libertà, la cultura, la ricchezza. In modo che, essendo il principio delle istituzioni repressive l’inverso di tutti quelli che costituiscono il benessere della società, vi è eliminazione costante di tutte le parti del sistema penale, come di tutto l’apparato giudiziario e che la conclusione ultima di questo movimento è questa: la sanzione dell’ordine non è né il terrore né il supplizio, e per conseguenza né l’inferno né la religione.
Che capovolgimento delle idee ammesse! Che negazione di tutto ciò di cui all’Accademia delle Scienze morali è commessa la difesa! Ma se la sanzione dell’ordine non è più nel timore di un castigo da subire in questa vita o nell’altra, dove trovare più le garanzie protettrici delle persone e delle proprietà? O piuttosto senza istituzioni repressive, cosa diventa la proprietà? E senza la proprietà, cosa diventa la famiglia?
L’Accademia che nulla sa di tutte queste cose, risponde, senza turbarsi: Esponete le varie fasi dell’organizzazione della famiglia sul suolo francese dai tempi antichi fino ai giorni nostri.
Il che è come dire: determinate, studiando i progressi anteriori della organizzazione familiare, le condizioni d’esistenza della famiglia in uno stato d’uguaglianza di fortune, di associazione volontaria e libera, di solidarietà universale, di benessere materiale e di lusso, d’ordine pubblico senza prigioni, corti di assise, polizia, né carnefice.
Riuscirà meraviglioso forse che dopo avere, a somiglianza dei più audaci novatori, messo in questione tutti i princìpi dell’ordine sociale, la religione, la famiglia, la proprietà e la giustizia, l’Accademia delle Scienze morali e politiche non abbia proposto quest’altro quesito: Qual è la miglior forma di governo? Difatti, il Governo è per la società la fonte da cui esce ogni iniziativa, ogni guarentigia, ogni riforma. Era importante dunque sapere se il Governo, così come si trova stabilito nella Costituzione, si accomodi alla soluzione pratica delle questioni accademiche. Ma mostrerebbe di conoscere assai male gli oracoli chi credesse che essi procedano per induzione e analisi; e precisamente perché il problema politico era una condizione o corollario delle dimostrazioni richieste, l’Accademia non poteva presentarlo al concorso. Una conclusione di codesta fatta le avrebbe aperto gli occhi e senza aspettare le memorie dei concorrenti, si sarebbe affrettata a sopprimere l’intero suo programma. L’Accademia ha ripreso la questione dall’alto: le opere di Dio essenzialmente belle, justificata in semetipsa [S. Tommaso], sono vere insomma perché procedono da lui. I pensieri dell’uomo somigliano ai densi vapori nei quali guizzano lunghe e sottili strisce luminose. Cos’è dunque la verità rispetto a noi e quale il carattere della certezza?
Il che sarebbe come se l’Accademia dicesse: Voi verificherete l’ipotesi della vostra esistenza, l’ipotesi dell’Accademia che v’interroga, l’ipotesi del tempo, dello spazio, del moto, del pensiero e delle leggi del pensiero. Poi verificherete l’ipotesi del pauperismo, l’ipotesi della disuguaglianza delle condizioni, l’ipotesi dell’associazione universale, l’ipotesi della felicità, l’ipotesi della monarchia e della repubblica, l’ipotesi di una provvidenza!...
È addirittura la critica di Dio e del genere umano.
Io mi richiamo al programma dell’onorevole compagnia; ma le condizioni del mio lavoro non furono determinate da me, bensì dall’Accademia delle Scienze morali e politiche. Ora, come posso io adempiere a queste condizioni, se non sono dotato io stesso dell’infallibilità, in una parola se non sono Dio o indovino? L’Accademia ammette così che la divinità e l’umanità sono identiche o almeno correlate; ma qui si tratta di sapere in che codesta correlazione consista; tale è il significato del problema della certezza, tale è lo scopo della filosofia sociale.
Dunque, in nome della società ispirata da Dio, un’Accademia interroga. In nome della medesima società, io sono uno dei veggenti che tentano di rispondere. Il compito è immenso e non prendo l’impegno di adempierlo; andrò sin dove Dio vorrà. Ma, qualunque sia il mio discorso, esso non viene da me; il pensiero che fa scorrere la mia penna non è personale mio e nulla di quanto scrivo mi si può imputare. Riferirò i fatti tali e quali li avrò visti; li giudicherò secondo quel che ne avrò detto, chiamerò ogni cosa col suo nome più energico e nessuno potrà scorgere in ciò un’offesa. Cercherò liberamente e secondo le regole della divinazione da me appresa, quel che vuole da noi il consiglio divino che in questo momento trova la sua espressione sulla bocca eloquente dei savi e nei vagiti inarticolati del popolo. E quando negherò tutte le prerogative consacrate dalla nostra Costituzione, non sarò un fazioso. Mostrerò a dito ove ci spinga l’invisibile pungolo; né i miei atti né i detti saranno irritanti, eppure provocherò la nube, e quando farò cadere la folgore sarò innocente. Nella inchiesta solenne alla quale m’invita l’Accademia, ho più che il diritto di dire la verità; ho il diritto di parlare come penso; possano il mio pensiero, il modo d’esprimerlo e la verità essere sempre una sola e medesima cosa!
E tu, lettore, dacché senza lettore non vi è scrittore; entra a metà dell’opera mia. Senza di te non sarei altro che un bronzo sonoro; favorito dalla tua attenzione, dirò meraviglie. Vedi quel turbine che passa e che si chiama società, dal quale scoppiano con terribile bagliore, lampi, tuoni e faville? Voglio farti toccar col dito le molle nascoste che la mettono in movimento, ma occorre che tu ti riduca sotto il mio comando, allo stato di pura intelligenza. Gli occhi dell’amore e del piacere sono impotenti a riconoscere la beltà in uno scheletro, l’armonia nelle viscere messe a nudo, la vita nel sangue nero e rappreso. Del pari i segreti dell’organismo sociale sono un enigma indecifrabile per l’uomo che ha l’intelletto offuscato dalle passioni e dai pregiudizi. Codeste sommità sublimi non si raggiungono se non nella silenziosa e fredda contemplazione. Permetti dunque che, prima di svolgere sotto i tuoi occhi le pagine del libro della vita, io prepari l’anima tua con la purificazione scettica che vollero in tutti i tempi nei loro discepoli i grandi maestri dei popoli: Socrate, Gesù Cristo, San Paolo, San Remigio, Bacone, Descartes, Galileo, Kant, ecc.
Chiunque tu sia, coperto dei cenci della miseria o rivestito di abiti sontuosi e di lusso, io ti riporto a quella nudità luminosa che non è offuscata né dai fumi dell’opulenza né dai veleni dell’invidiosa povertà. Come persuadere il ricco che la differenza delle condizioni deriva da un errore di conteggio e come mai il povero, sotto il peso della sua miseria, può immaginare che il proprietario possieda in buona fede? Prendere notizia delle sofferenze del lavoratore è per l’ozioso la più insopportabile distrazione e similmente il rendere giustizia a chi è felice è per il miserabile il più amaro calice.
Ti sei innalzato in dignità; io ti destituisco ed eccoti libero. C’è troppo ottimismo sotto codesta divisa d’ordinanza, troppa subordinazione, troppa lentezza. La scienza esige l’insurrezione del pensiero; ora il pensiero di un uomo in carica è il suo stipendio.
La tua amante, bella, appassionata, artista non è, voglio credere, posseduta da altri che da te. Cioè la tua anima, il tuo spirito, la tua coscienza passarono nel più incantevole oggetto di lusso che la natura e l’arte abbiano prodotto per eterno martirio degli uomini affascinati. Io ti separo da codesta divina metà di te stesso; volere la giustizia e amare una donna è troppo oggi. Per avere pensieri grandi e netti bisogna che l’uomo sdoppi la sua natura e rimanga sotto la sua ipostasi mascolina. Sicché nello stato in cui io ti metto, la tua amante non ti riconoscerà più: ricordati della moglie di Giobbe.
Che religione hai?... Dimentica la tua fede e diventa ateo per saggezza. – Come? dici, ateo malgrado la nostra ipotesi? – No, anzi a causa della nostra ipotesi. Bisogna da gran tempo avere sollevato il proprio pensiero al di sopra delle cose divine per avere il diritto di supporre una personalità fuori della famiglia umana, una vita al di là di questa vita. Del resto non temere per la tua salvezza. Dio non si turba contro chi lo sconosce razionalmente più di quel che si curi di chi lo adora sulla sua parola; ora nello stato in cui è la tua coscienza, la migliore cosa per te è di non pensare nulla di lui. Non accorgerti di cosa avviene della religione, come dei governi, il più perfetto dei quali sarebbe la negazione di ogni Governo. – Nessuna fantasia religiosa o politica impacci e leghi l’anima tua; è ormai l’unico mezzo per non essere né un minchione né un rinnegato.
Dicevo al tempo della mia entusiastica giovinezza: non udrò suonare i secondi vespri della repubblica e i nostri poeti in bianche tuniche cantare sul tono dorico l’inno del ritorno: Cangia, o Dio, la servitù nostra, come il vento del deserto in un’aura refrigerante?... Ma ho disperato dei repubblicani e non voglio più sapere di religione né di preti.
Vorrei ancora per rendere sicuro il tuo giudizio, caro lettore, rendere la tua anima insensibile alla pietà, superiore alla virtù, indifferente alla felicità. Ma sarebbe esigere troppo da un neofita. Ricordati solo e non lo dimenticare giammai, che la pietà, la felicità e la virtù, come la patria, la religione e l’amore sono maschere...
I. La scienza economica
1. – Opposizione del fatto e del diritto nell’economia della società
Affermo la realtà di una scienza economica.
Questa proposizione sulla quale pochi economisti oggi ammettono dubbi, è forse la più ardita che un filosofo abbia mai sostenuto; e il seguito di queste ricerche proverà, spero, che il più grande sforzo dello spirito umano sarà un giorno quello di farne la dimostrazione.
Affermo d’altra parte la certezza assoluta e nello stesso tempo il carattere progressivo della scienza economica, la più comprensiva, a mio avviso, di tutte le scienze, la più pura, la meglio tradotta nei fatti; novella proposizione che fa di codesta scienza una logica o una metafisica in concreto e muta radicalmente le basi dell’antica filosofia. In altri termini, la scienza economica è per me la forma obiettiva e la realizzazione della metafisica; è la metafisica in azione, la metafisica proiettata sul piano inclinato del tempo; e chiunque si occupa delle leggi del lavoro e dello scambio è veramente e specialmente metafisico.
Dopo quanto ho detto nel prologo non c’è qui nulla che debba sorprendere. Il lavoro dell’uomo continua l’opera di Dio, il quale, creando tutti gli esseri, non fa altro che realizzare dal di fuori le leggi eterne della ragione. La scienza economica è quindi necessariamente una teoria delle idee, una teologia naturale e una psicologia. Questo accenno generale sarebbe stato sufficiente per spiegare come, dovendo trattare di materie economiche, io dovessi supporre previamente l’esistenza di Dio e a qual titolo io, semplice economista, aspiri a risolvere il problema della certezza.
Mi affretto però a dire che non considero come scienza l’insieme incoerente di teorie al quale s’è dato da quasi cent’anni il nome ufficiale di economia politica, e che, malgrado l’etimologia del nome, non è ancora altro che il codice o la routine immemorabile della proprietà. Queste teorie non ci danno che i rudimenti o la prima sezione della scienza economica, ed è per ciò che, nello stesso modo della proprietà, esse sono tra loro in contraddizione, e cinquanta volte su cento inapplicabili. La prova di codesta asserzione che è, in un certo senso, la negazione dell’economia politica, quale ci fu trasmessa da A[dam] Smith, [David] Ricardo, [Thomas] Malthus, [Jean-Baptiste] Say e la vediamo durare da mezzo secolo, risulterà particolarmente da questo scritto.
L’insufficienza dell’economia politica ha in ogni tempo fatto impressione sugli spiriti contemplativi, i quali troppo innamorati dei propri sogni per addentrarsi nelle difficoltà della pratica, e limitandosi a giudicarla dai suoi risultati apparenti, hanno formato, sin dall’origine, un partito d’opposizione allo statu quo e si sono lasciati andare a una satira perseverante e sistematica della civiltà e delle sue costumanze. Di rimando, alla proprietà, base di tutte le istituzioni sociali, non mancarono mai difensori zelanti, che, orgogliosi del titolo d’uomini pratici, resero guerra per guerra ai detrattori della economia politica e lavorarono con mano coraggiosa e spesso abile a consolidare l’edificio innalzato di concerto dai pregiudizi generali e dalla libertà individuale. La controversia pendente ancora tra i conservatori e i riformisti, ha per riscontro, nella storia della filosofia, la disputa tra i realisti e i nominalisti, ed è quasi inutile soggiungere che da una parte e dall’altra l’errore e la ragione sono pari e che la rivalità, la meschinità e la intolleranza delle opinioni furono la sola causa del malinteso.
Per cui le due potenze si disputano il governo del mondo e si anatematizzano col fervore di due culti ostili: l’economia politica, o la tradizione, e il socialismo o l’utopia.
Cos’è dunque, in parole più esplicite, l’economia politica? Cos’è il socialismo?
L’economia politica è la raccolta delle osservazioni fatte sinora sui fenomeni della produzione e della distribuzione delle ricchezze, cioè sulle forme più generali, più spontanee e per conseguenza più autentiche del lavoro e dello scambio.
Gli economisti hanno classificato meglio che hanno potuto queste osservazioni, hanno descritto i fenomeni, accertato i loro accidenti e rapporti; hanno rimarcato, in molte circostanze, un carattere di necessità che li ha indotti a chiamarli leggi; e questo complesso di conoscenze, raccolto, per così dire, dalle manifestazioni più ingenue della società, costituisce l’economia politica.
L’economia politica è dunque la storia naturale delle costumanze, tradizioni, pratiche e consuetudini (routines) più appariscenti e più universalmente accreditate dell’umanità, in ciò che concerne la produzione e la distribuzione della ricchezza. A questo titolo, l’economia politica si considera come legittima in fatto e in diritto; in fatto, perché i fenomeni che studia sono costanti, spontanei e universali; in diritto, perché codesti fenomeni hanno per sé l’autorità del genere umano, che è l’autorità massima. L’economia politica quindi si dà il nome di scienza, cioè conoscenza ragionata e sistematica di fatti regolari e necessari.
Il socialismo, che, simile al dio Visnù, sempre morente e redivivo sempre, ha fatto da una ventina d’anni in qua la sua decimillesima incarnazione nella persona di cinque o sei rivelatori, il socialismo afferma l’anomalia della costituzione attuale della società e pertanto di tutte le istituzioni anteriori. Esso pretende e prova che l’ordine civile è fittizio, contraddittorio, inefficace, generatore d’oppressione, di miseria e di delitti. Esso accusa, per non dire calunnia, tutto il passato della vita sociale e spinge con tutte le sue forze al rifacimento dei costumi e delle istituzioni.
Il socialismo conclude, dichiarando l’economia politica una ipotesi falsa, una sofistica inventata per giustificare lo sfruttamento dei più da parte dei meno e facendo l’applicazione dell’adagio: a fructibus [eorum] cognoscetis [Matteo], compie la dimostrazione dell’impotenza e della nullità della economia politica, grazie al quadro delle calamità umane di cui le addossa la responsabilità.
Ma, se l’economia politica è falsa, la giurisprudenza, che in ogni dove è la scienza del diritto e della consuetudine, è falsa anch’essa, in quanto fondata sulla distinzione del tuo e del mio suppone la legittimità dei fatti descritti e classificati dall’economia politica. Le teorie di diritto pubblico e internazionale, con tutte le varietà di governo rappresentativo sono anch’esse false, perché poggiano sul principio dell’appropriazione individuale e dell’assoluta sovranità della volontà.
Il socialismo accetta tutte queste conseguenze. Per lui l’economia politica, considerata da molti come la fisiologia della ricchezza, non è altro che la pratica organizzata del furto e della miseria; come la giurisprudenza, decorata dai legislatori del nome di ragione scritta, non è altro, ai suoi occhi, che la compilazione delle rubriche del brigantaggio legale e ufficiale, – e per dirlo con una sola parola, della proprietà. – Considerate nei loro rapporti queste due pretese scienze, l’economia politica e il diritto formano, a detta del socialismo, la teoria completa dell’iniquità e della discordia. Passando poscia dalla negazione all’affermazione, il socialismo oppone al principio di proprietà quello di associazione e si vanta di restaurare da cima a fondo l’economia sociale, ossia di costituire un nuovo diritto, una novella politica, istituzioni e costituzioni diametralmente opposte alle forme antiche.
Come si vede, la linea di separazione tra il socialismo e l’economia politica è netta e l’ostilità flagrante.
L’economia politica inclina alla consacrazione dell’egoismo, il socialismo pencola verso l’apoteosi della comunità.
Gli economisti, salvo qualche infrazione ai loro princìpi, di cui credono dovere accusare i governi, sono ottimisti, quanto ai fatti compiuti; i socialisti per i fatti da compiere.
I primi affermano che ciò che deve essere è; i secondi che ciò che deve essere non è. Per conseguenza, mentre i primi si atteggiano a difensori della religione, dell’autorità e di altri princìpi contemporanei e conservatori della proprietà, benché la loro critica, appoggiandosi unicamente alla ragione, rechi frequenti scosse ai loro pregiudizi; i secondi rigettano l’autorità e la fede, e fanno appello solo alla scienza, sebbene una certa irreligiosità, affatto illiberale, e un poco di scientifico disdegno dei fatti siano sempre il carattere più appariscente delle loro dottrine.
Del resto, gli uni e gli altri non cessano di accusarsi reciprocamente d’imperizia e di sterilità.
I socialisti chiedono conto ai loro avversari dell’ineguaglianza delle condizioni, delle iniquità commerciali ove il monopolio e la concorrenza, in mostruosa unione, generano eternamente il lusso e la miseria; rimproverano alle teorie economiche, foggiate sempre sul passato, di lasciare l’avvenire senza speranza; in breve, additano il regime della proprietà come un’allucinazione orribile, contro la quale l’umanità protesta e si dibatte da quattromila anni.
Gli economisti, dal canto loro, sfidano i socialisti a produrre un sistema in cui possa farsi a meno della proprietà, della concorrenza, degli ordinamenti governativi; provano, con i documenti alla mano, che tutti i progetti di riforma non furono mai altro che rapsodie di frammenti tolti a prestito dal regime che il socialismo denigra, plagi insomma dell’economia politica, fuori della quale il socialismo è incapace di concepire e formulare un’idea.
Ogni giorno si ingrossa il materiale di questo grave processo e la questione si complica.
Mentre la società cammina e inciampa, soffre e arricchisce, seguendo la consuetudine economica, i socialisti sin dai tempi di Pitagora, di Orfeo e dell’impenetrabile Hermes, lavorano a stabilire il loro dogma contraddittoriamente all’economia politica. Alcuni saggi di associazione furono qua e là tentati secondo le loro teorie; ma sinora questi rari tentativi, perduti nell’oceano del sistema di proprietà, sono rimasti senza risultato e come se il destino avesse deciso di esaurire l’ipotesi economica prima di attaccare l’utopia socialista, il partito riformatore è costretto a mandar giù i sarcasmi degli avversari, aspettando che venga il suo turno.
Ecco a che punto è la causa: il socialismo denuncia senza requie i mali della civiltà, accerta giorno per giorno l’impotenza dell’economia a soddisfare le attrazioni armoniche dell’uomo e snocciola requisitoria su requisitoria; l’economia politica accresce la mole degli “atti”, con i sistemi socialisti che tutti, gli uni dopo gli altri, passano e muoiono spregiati dal senso comune. La pertinacia del male alimenta le querimonie degli uni, mentre i costanti insuccessi dei riformatori danno da mordere all’ironia maligna degli altri. Quando verrà la sentenza? Il tribunale è deserto; intanto l’economia politica fa uso dei propri vantaggi e, senza prestare cauzione, seguita a spadroneggiare nel mondo: possideo quia possideo.
Se dalla sfera delle idee scendiamo alla realtà del mondo, l’antagonismo diventa più grave e più minaccioso.
Quando, in questi ultimi anni, il socialismo, provocato da lunghe tempeste, fece la sua fantastica apparizione tra noi, uomini rimasti fino allora indifferenti e tiepidi in ogni controversia, si rifugiarono spaventati in seno alle idee monarchiche e religiose; la democrazia, accusata di trascinare alle estreme conseguenze, fu maledetta e respinta. Questa accusa lanciata dai conservatori ai democratici era una calunnia. La democrazia è per natura così antitetica al pensiero socialista com’è inetta a sostituire il principato contro il quale è destinata a cospirare sempre senza mai riuscire nell’intento. Si vide ben presto ciò, e ne siamo testimoni, nelle proteste di fede cristiana e proprietaria fatte dai democratici, i quali, da quel momento, cominciarono a vedersi abbandonati dal popolo.
D’altra parte la filosofia non si mostrò meno della politica e della religione estranea e ostile al socialismo.
Nel modo stesso che nell’ordine politico la democrazia ha per principio la sovranità del numero e la monarchia la sovranità del principe; e nelle cose della coscienza la religione non è altro che la sottomissione a un essere mistico chiamato Dio, e al prete che lo rappresenta; e nell’ordine economico la proprietà, cioè l’esclusivo dominio dell’individuo sugli strumenti del lavoro, è il punto di partenza delle teorie; così la filosofia prendendo per base i pretesi a priori della ragione, è condotta fatalmente ad attribuire al solo me la generazione e l’autocrazia delle idee e a negare il valore metafisico dell’esperienza, cioè a mettere da per tutto, al posto della legge obiettiva, l’arbitrio, il dispotismo.
Ora, una dottrina la quale, nata di un tratto nel cuore della società, senza precedenti e senza antenati, respingeva da tutte le regioni della coscienza e della società il principio dell’arbitrio, per sostituirvi come unica verità il rapporto dei fatti; che rompeva con la tradizione e non accettava di servirsi del passato se non come un punto da dove si lanciarsi nell’avvenire; una tale dottrina doveva fatalmente sollevare contro di sé le autorità costituite; e oggi si può vedere come, malgrado le loro discordie intestine, le dette autorità, che poi si contemperano in una, si accordino per combattere il mostro che sta per inghiottirle.
Agli operai che si lamentano dell’insufficienza del salario e dell’incertezza del lavoro, l’economia politica oppone la libertà del commercio. Ai cittadini che cercano le condizioni della libertà e dell’ordine, gl’ideologi rispondono con i sistemi rappresentativi. Alle anime tenere che, perduta la fede antica, chiedono la ragione e lo scopo dell’esistenza, la religione parla dei profondi segreti della Provvidenza, e la filosofia tiene in serbo il dubbio. Sotterfugi sempre! idee sode nelle quali il cuore e lo spirito si riposino, mai! Il socialismo grida che è tempo di far vela verso la terra ferma e di entrare nel porto; ma, non c’è porto, dicono gli anti-sociali, l’umanità cammina custodita da Dio, condotta dai preti, dai filosofi, dagli oratori e dagli economisti e la nostra circumnavigazione è eterna.
La società dunque si trova, sin dall’origine, divisa in due grandi partiti: uno tradizionale, essenzialmente gerarchico, il quale, secondo l’oggetto che considera, si chiama via via principato o democrazia, filosofia o religione, in una parola, proprietà; – l’altro, che risuscitando a ogni crisi della civiltà si proclama innanzi tutto anarchico e ateo, cioè refrattario a ogni autorità divina e umana: è il socialismo.
Ora la critica moderna ha dimostrato che in un conflitto di questa specie, la verità si ritrova non già escludendo uno dei contrari, ma bensì e solamente conciliandoli entrambi; è, dico, ormai risaputo nella scienza che ogni antagonismo, sia nella natura, sia nelle idee, si risolve in un fatto più generale o in una formula complessa, che mette d’accordo i termini opposti, assorbendoli, per così dire, l’uno e l’altro. Non potremmo quindi noi, uomini di senso comune, aspettando la soluzione che sarà indubbiamente recata dall’avvenire, prepararci a questa grande transizione con l’analisi delle potenze combattenti, nonché delle loro qualità positive e negative? Un lavoro significante, fatto con esattezza e coscienza, quando anche non ci conducesse di un tratto alla soluzione, avrebbe almeno l’inestimabile vantaggio di rivelarci le condizioni del problema e tenerci così in guardia contro ogni utopia.
Cosa c’è dunque di necessario e di vero nell’economia politica? dove va? che può fare? cosa vuole da noi? Ecco quanto mi propongo di determinare nella presente opera. – Cosa vuole il socialismo? La medesima investigazione ce lo farà sapere.
Dacché, in fin dei conti, se lo scopo al quale tendono il socialismo e l’economia politica è lo stesso, cioè la libertà, l’ordine e il benessere nella famiglia umana, è evidente che le condizioni da adempiere, o, in altre parole, le difficoltà da vincere per conseguire la meta, sono le medesime per l’uno e per l’altra, e non rimane a far altro che pesare i mezzi tentati o proposti tanto da una parte quanto dall’altra. Ma siccome solo all’economia politica fu sinora concesso di tradurre in atti le proprie idee, mentre il socialismo s’è contentato di satirizzare continuamente, è chiaro che facendo giusta stima dei lavori economici, avremo con ciò stesso ridotto al loro giusto valore le declamazioni socialiste; di modo che la nostra critica, speciale in apparenza, potrà riuscire a conclusioni assolute e definitive. E ciò è bene spiegare con alcuni esempi prima di entrare nell’esame particolareggiato dell’economia politica.
2. – Insufficienza delle teorie e delle critiche
Notiamo subito una importante osservazione: i litiganti sono d’accordo nel riferirsi a una autorità comune che ciascuno di essi fa conto di avere con sé: la scienza.
Platone, utopista, organizzava la sua repubblica ideale in nome della scienza, che, per modestia ed eufemismo, egli chiamava filosofia. Aristotele, uomo pratico, in nome della medesima filosofia, confutava l’utopia platonica. E così va la guerra sociale dai tempi di Platone e di Aristotele. I socialisti moderni fanno tutti richiamo alla scienza una e indivisibile, senza però potersi mettere d’accordo né sul contenuto né sui limiti né sul metodo di codesta scienza; gli economisti, da canto loro, affermano che la scienza sociale non è altro che l’economia politica.
Bisogna dunque innanzi tutto riconoscere ciò che possa essere una scienza della società.
La scienza in genere è la cognizione ragionata e sistematica di ciò che è.
Applicando questa nozione fondamentale alla società, diciamo: la scienza sociale è la cognizione ragionata e sistematica non di quel che la società è stata, né di quel che essa sarà, ma di quel che essa è in tutta la sua vita, cioè nel complesso delle sue manifestazioni successive; perché lì soltanto vi può essere ragione e sistema. La scienza sociale deve abbracciare l’ordine umanitario, non solo in questo o quel periodo della sua durata, né in alcuni dei suoi elementi; ma in tutti i suoi princìpi e nella integrità della sua esistenza; come se l’evoluzione sociale, distesa nel tempo e nello spazio, fosse d’un tratto raccolta e fermata su un quadro, che, mostrando la serie delle epoche, ne seguisse il concatenamento e l’unità. Tale deve essere la scienza di qualsiasi realtà vivente e progressiva; tale è incontestabilmente la scienza sociale.
Potrebbe darsi quindi che l’economia politica, malgrado la sua tendenza individualista e le sue affermazioni esclusive, fosse parte costituente della scienza sociale, nella quale i fenomeni che essa descrive sarebbero come i livelli primi di una vasta triangolazione e gli elementi di un tutto organico e complesso. Da questo punto di vista il progresso dell’umanità, andando dal semplice al composto, sarebbe interamente conforme al cammino della scienza, e i fatti discordi e sovente perturbatori, che formano oggi il fondo e l’oggetto dell’economia politica, dovrebbero essere considerati da noi come altrettante ipotesi particolari, successivamente realizzate dalla umanità, mirando a una ipotesi suprema, la cui realizzazione risolverebbe tutte le difficoltà e, senza abrogare l’economia politica, darebbe soddisfazione al socialismo. – Per cui come ho detto nel Prologo, non possiamo in qualunque caso ammettere che l’umanità s’inganni in qualsivoglia modo si esprima. Chiariamo ora ciò con i fatti.
Il problema più agitato oggi è quello dell’organizzazione del lavoro. – Come San Giovanni Battista predicava nel deserto: fate penitenza, i socialisti vanno gridando da per tutto questa novità vecchia come il mondo: organizzate il lavoro, senza mai poter dire quel che debba essere, secondo la loro mente, questa organizzazione. Come che sia, gli economisti hanno veduto in questo clamore socialista una ingiuria alle loro teorie; come se avessero ricevuto il rimprovero d’ignorare la prima cosa che dovrebbero avere imparato a conoscere, il lavoro. Hanno dunque replicato alle provocazioni degli avversari, prima sostenendo che il lavoro è organizzato, che altra organizzazione possibile del lavoro non c’è fuori della libertà di produrre e di scambiare, così per conto proprio, come in società con altri, nel quale ultimo caso la via da tenere è tracciata dai codici civile e commerciale. Poi, siccome questa argomentazione non serviva se non ad eccitare le risa degli avversari, hanno preso l’offensiva e facendo vedere che i socialisti non capivano nulla di questa organizzazione che agitavano come uno spauracchio, hanno finito col dire che questa era una nuova chimera del socialismo, una parola vuota di senso, un’assurdità. Gli scritti più recenti degli economisti sono pieni di questi spietati giudizi.
Intanto è certo che le parole organizzazione del lavoro offrono un senso chiaro e razionale al pari di queste altre: organizzazione della fabbrica, organizzazione dell’amministrazione civile, organizzazione della carità, organizzazione dell’esercito, organizzazione della guerra. Sotto questo riguardo, la polemica degli economisti appare improntata a una deplorevole irragionevolezza. – Certo l’organizzazione del lavoro non può essere un’utopia e una chimera, perché dal momento che il lavoro, condizione suprema della civiltà esiste, segue che è già sottomesso a un’organizzazione che è permesso agli economisti di trovare buona, ma è giudicata detestabile dai socialisti.
Rimarrebbe dunque, rispetto alla proposizione d’organizzare il lavoro, formulata dal socialismo, codesta obiezione pregiudiziale, che il lavoro è organizzato. Ora ciò non può in alcun modo sostenersi, essendo notorio che nel lavoro, né l’offerta né la domanda né la divisione né la quantità né le proporzioni né il prezzo né la garanzia, nulla, assolutamente nulla, è tenuto in regola; ma ogni cosa è in balia dei capricci del libero arbitrio, cioè del caso.
In quanto a noi, guidati dall’idea che ci siamo fatta della scienza sociale, affermeremo, contro i socialisti e contro gli economisti, non già che bisogna organizzare il lavoro né che esso è organizzato, ma che si organizza.
Il lavoro, diciamo, si organizza; è in via d’organizzarsi sin dal principio del mondo e si organizzerà fino alla fine. L’economia politica c’insegna i primi rudimenti di questa organizzazione; ma il socialismo ha ragione di pretendere che, nella sua forma attuale, l’organizzazione è insufficiente e transitoria, e tutto il compito della scienza è di cercare senza posa, tenuto conto dei risultati conseguiti e dei fenomeni che si vanno compiendo, quali siano le innovazioni immediatamente realizzabili.
Il socialismo e l’economia politica, facendosi una guerra burlesca, vanno dietro a una stessa idea, l’organizzazione del lavoro.
Ma l’uno e l’altra sono colpevoli d’infedeltà alla scienza e di calunnia reciproca, quando da una parte, l’economia politica, prendendo per scienza i suoi brandelli di teoria, respinge ogni progresso ulteriore e quando il socialismo, abdicando la tradizione, tende a ricostituire la società sopra basi introvabili.
Il socialismo a nulla vale senza una critica profonda e uno sviluppo incessante dell’economia politica; e, per applicare qui il celebre aforisma della scuola: nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, nulla c’è nelle ipotesi socialiste che non si trovi nelle pratiche economiche. Di rimando, l’economia politica diviene una impertinente rapsodia dal momento che attribuisce un valore assoluto ai fatti raccolti da Adam Smith e J.-B. Say.
Un’altra questione non meno controversa della precedente è quella dell’usura o del mutuo ad interesse.
L’usura, cioè il prezzo dell’uso, è l’emolumento di qualsivoglia natura che il proprietario trae dal prestito della cosa propria. Quidquid sorti accrescit usura est, dicono i teologi. L’usura, fondamento del credito, occupa il primo posto tra le molle che la spontaneità sociale mette in movimento nella sua opera di organizzazione e la cui analisi scopre le leggi profonde della civiltà. I filosofi antichi e i padri della Chiesa, che bisogna considerare come i rappresentanti del socialismo nei primi secoli dell’era cristiana, per una singolare inconseguenza, ma derivante dalla povertà delle cognizioni economiche di quei tempi, ammettevano l’affitto, e condannavano il mutuo a interesse perché, secondo loro, il denaro è improduttivo. Distinguevano quindi il prestito delle cose che si consumano con l’uso, e tra queste mettevano il denaro, e il prestito delle cose che, senza consumarsi, riescono col loro prodotto profittevoli a chi ne fa uso.
Gli economisti durarono poca fatica a dimostrare, generalizzando il concetto dell’affitto, che, nell’economia della società, l’azione del capitale o la sua produttività era la stessa, sia che si consumasse in salari, sia che conservasse l’ufficio di strumenti; che per conseguenza bisognava o proscrivere l’affitto della terra o ammettere l’interesse del denaro, poiché l’uno e l’altro erano al medesimo titolo, la ricompensa del privilegio, l’indennità del prestito. Ci vollero più di quindici secoli per far passare quest’idea e rassicurare le coscienze spaventate dagli amatori del cattolicesimo contro l’usura. Ma l’evidenza e il voto generale stavano per gli usurai, essi guadagnarono la battaglia contro il socialismo e vantaggi immensi, incontestabili, trasse la società dalla legittimazione dell’usura. In questa circostanza il socialismo che aveva tentato di generalizzare la legge fatta da Mosè per i soli israeliti: Non fœnerabis proximo tuo, se alieno, fu sconfitto per una idea che esso aveva accettata dalla pratica economica, cioè il fitto, innalzato fino alla teoria della produttività del capitale.
Ma gli economisti a loro volta furono meno fortunati quando più tardi si sentirono chiamati a giustificare il terratico in sé e a stabilire la teoria del reddito dei capitali. Si può dire che su questo punto abbiamo perduto tutto il vantaggio che avevano prima contro il socialismo.
Senza dubbio, e sono il primo a riconoscerlo, il prezzo di locazione della terra, così come quello del denaro e d’ogni altro valore mobile e immobile, è un fatto spontaneo, universale, che ha la sua base nelle parti più profonde della nostra natura e che diviene ben presto, grazie al suo normale sviluppo, uno dei più potenti congegni dell’organizzazione. Dimostrerò anche come l’interesse del capitale sia la semplice materializzazione dell’aforisma: ogni lavoro deve lasciare un’eccedenza. Ma, di fronte a questa teoria, o, per dir meglio, di fronte a questa finzione della produttività del capitale, si drizza un’altra tesi non meno certa, e che in questi ultimi tempi ha fatto colpo sui più abili economisti. Secondo codesta tesi, ogni valore nasce dal lavoro e si compone essenzialmente di salari, ovvero, in altre parole: nessuna ricchezza procede originariamente dal privilegio, né ha valore se non per l’opera dell’uomo e per conseguenza il solo lavoro, nell’umana società, è fonte d’ogni reddito. Come dunque conciliare la questione del terratico o della produttività del capitale, teoria confermata dalla pratica universale e che l’economia politica, schiava, com’è, della consuetudine, è costretta a subire senza poterla giustificare, con quell’altra teoria che ci dice comporsi normalmente il valore di salari e giunge fatalmente, come dimostreremo, all’eguaglianza del prodotto netto e del prodotto lordo nella società?
I socialisti non si sono lasciati sfuggire l’occasione. Impadronendosi del principio che fa sorgente d’ogni reddito il lavoro, si sono messi a chiedere conto ai capitalisti, del terratico e dei profitti. E siccome gli economisti avevano riportato la prima vittoria, generalizzando sotto un comune denominatore il terratico e l’usura, così i socialisti hanno preso la rivincita facendo sparire sotto il principio, ancora più generale, del lavoro, i diritti padronali del capitale. La proprietà è stata demolita da cima a fondo, gli economisti non hanno saputo far altro che tacere; ma il socialismo, impotente a fermarsi su questa novella china è trascorso fino agli ultimi confini dell’utopia comunista e, priva di una soluzione pratica, la società è ridotta a non potere giustificare la sua tradizione, né abbandonarsi ad esperimenti il cui minimo difetto sarebbe quello di farla indietreggiare di qualche migliaio di anni. In una situazione somigliante cosa prescrive la scienza?
Certo non di fermarsi in un mezzo termine arbitrario, impalpabile, impossibile, ma di generalizzare ancora e di scoprire un terzo principio, un fatto, una legge superiore che spieghi la finzione del capitale e il mito della proprietà, conciliandoli con la dottrina che attribuisce al lavoro l’origine d’ogni ricchezza. – Ecco ciò che il socialismo avrebbe dovuto fare se avesse voluto procedere a rigore di logica. Difatti, la teoria della reale produttività del lavoro e quella della produttività fittizia del capitale sono l’una e l’altra essenzialmente economiche; il socialismo non s’è data altra pena che quella di mostrarne la contraddizione, senza trarre fuori nulla né dalla propria esperienza né dalla propria dottrina, dacché sembra così sprovvisto dell’una come dell’altra. Ora, in buona procedura, il litigante che accetta l’autorità di un titolo per una parte, deve accettarla per il tutto; non è permesso scindere i documenti e le testimonianze. Il socialismo aveva il diritto di negare l’autorità dell’economia politica relativamente all’usura, mentre si faceva puntello di codesta autorità nei riguardi della decomposizione del valore? No davvero. Tutto ciò che il socialismo poteva esigere in questo caso era, o che l’economia politica fosse costretta a conciliare le proprie teorie, o che a lui stesso fosse data questa spinosa incombenza. Più si va in fondo a questi solenni dibattiti, più si vede che tutto il processo è venuto dal fatto che l’una delle parti non vuol vedere, mentre l’altra non vuol camminare.
È un canone del nostro diritto pubblico che nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e mediante una giusta e previa indennità.
Questo principio è sommamente economico, perché, da una parte suppone il dominio eminente del cittadino che viene espropriato e la cui adesione, secondo lo spirito democratico del patto sociale, è necessariamente pregiudicata; dall’altra parte l’indennità o prezzo dell’immobile espropriato si regola non sul valore intrinseco dell’oggetto, ma secondo la regola generale del commercio, che è l’offerta e la domanda, ossia, in una parola, secondo l’opinione pubblica. L’espropriazione eseguita in nome della società può essere assimilata a un affare di convenienza, consentito da ciascuno verso tutti; deve pagarsi non solo il prezzo, ma la convenienza e così in pratica si valuta l’indennità. Se i giureconsulti romani avessero colta questa analogia, si sarebbero mostrati meno esitanti sull’espropriazione per causa di pubblica utilità.
L’indennità, ecco la sanzione del diritto sociale d’espropriazione. Ora, in pratica, non solo il principio d’indennità non si applica tutte le volte che si dovrebbe, ma è addirittura impossibile che ciò avvenga. Così la legge che ha creato le ferrovie ha ammesso l’indennità per il terreno occupato dalle rotaie; ma nulla ha fatto per quella folla d’industrie che era alimentata dal traffico stradale e le cui perdite saranno di gran lunga superiori al valore dei terreni rimborsato ai proprietari. Parimenti, quando si trattò d’indennizzare i fabbricanti di zucchero di barbabietola, a nessuno venne in mente che lo Stato dovesse anche indennizzare quella moltitudine d’operai e d’impiegati che vivevano sull’industria della fabbricazione dello zucchero di barbabietola e che forse stavano per cadere nella miseria. Non pertanto è certo, data la nozione del capitale e la teoria della produzione, che come il proprietario di terre, al quale la ferrovia toglie il suo strumento di lavoro, ha diritto di essere indennizzato, nello stesso modo l’industriale il cui capitale è isterilito dalla medesima strada ferrata ha diritto anch’egli all’indennità. Perché dunque non gliela danno? Ahimè! in questo caso non è possibile indennizzare. Con un sistema di rigida giustizia e imparzialità la società si troverebbe spessissimo nell’impossibilità di agire e tornerebbe all’immobilità del diritto romano. Bisogna che delle vittime ci siano... Il principio d’indennità è per conseguenza lasciato in disparte; vi è inevitabile bancarotta dello Stato verso una o più classi di cittadini.
Ed ecco farsi innanzi i socialisti a rimproverare all’economia politica di sacrificare l’interesse del popolo e creare privilegi – poi, additando nella legge d’espropriazione il rudimento di una legge agraria, concludono bruscamente in favore dell’espropriazione universale, cioè della produzione e del consumo in comune.
Ma qui il socialismo ricade dalla critica nell’utopia e nelle sue contraddizioni appare di nuovo l’impotenza. Se il principio dell’espropriazione per causa d’utilità pubblica, recato alle ultime conseguenze conduce a una completa riorganizzazione della società, prima di mettere mano all’opera, è necessario determinare questa novella organizzazione; ora, lo ripeto, tutta la scienza del socialismo consiste in brandelli di fisiologia e di economia politica. Poi bisogna, stando al principio dell’indennità, se non rimborsare, almeno garantire ai cittadini i valori da essi erogati; bisogna insomma assicurarli contro qualsiasi eventualità di mutamento. Ora, come farà il socialismo a prendere la cauzione del patrimonio pubblico del quale pretende la gestione, fuori di questo patrimonio?
Non si esce, a voler stare nella buona e sincera logica, da questo cerchio. Ond’è che i socialisti, più franchi nei loro procedimenti di certi altri settari dalle idee ondeggianti e pacifiche, troncano ogni difficoltà e si ripromettono, giunti al potere, di espropriare tutti e non indennizzare o garantire chicchessia. In fin dei conti ciò potrebbe essere né ingiusto né sleale; sventuratamente bruciare non è rispondere, come diceva a Robespierre l’interessante Desmoulins; e in codeste dispute si vedono sempre luccicare il fuoco e la ghigliottina. Qui, come ovunque, due diritti ugualmente vani si trovano di fronte, il diritto del cittadino e il diritto dello Stato: è dir molto che c’è una formula superiore alle utopie del socialismo e alle teorie stroncate dell’economia politica e che si tratta di scoprirla? Che fanno in questo senso le parti contendenti? Nulla. Si direbbe piuttosto che non sollevano le questioni se non per avere l’opportunità d’ingiuriarsi scambievolmente. Cosa dico? Non intendono le questioni e mentre il pubblico si occupa dei sublimi problemi della società e del destino umano, gl’impresari della scienza sociale, ortodossi e scismatici, non s’accordano sui princìpi. Ne sia prova la questione che ha fornito occasione a queste ricerche e che certo non è intesa meglio dai suoi autori che dai suoi detrattori: il rapporto dei profitti e dei salari.
Economisti, un’Accademia avrebbe messo a concorso un tema del quale non capisce essa stessa i termini! Come può esser venuta una tale idea?...
Ebbene, sì, ciò è incredibile, fenomenale; ma è così. Nello stesso modo dei teologi, i quali non rispondono ai problemi della metafisica che con miti e allegorie che riproducono sempre i problemi senza mai risolverli, così gli economisti alle questioni che si propongono rispondono raccontando in che maniera sono stati condotti a proporsele. Se intendessero che si può andare oltre, cesserebbero d’essere economisti.
Cos’è per esempio, il profitto? Ciò che rimane all’imprenditore dopo aver coperte tutte le spese. Ora le spese si compongono di giornate di lavoro e di valori consumati, o, in ultima analisi, di salari. Quale dunque il salario di un operaio? il meno che gli si possa dare, cioè non si sa. Quale deve essere il prezzo della merce trasportata al mercato dall’imprenditore? il più che potrà avere, cioè ancora non si sa. È anche proibito in economia politica immaginare un calmiere per la merce e per la giornata di lavoro, mentre s’ammette la valutazione dell’una e dell’altra; e ciò perché, dicono gli economisti, la valutazione è un’operazione essenzialmente arbitraria che non può giammai arrivare a una conclusione certa e sicura. Come trovare dunque il rapporto tra due incognite, che, stando all’economia politica, non possono in nessun caso separarsi?
Dunque l’economia politica propone problemi insolubili, eppure, vedremo adesso che codesta proposta è inevitabile, com’è del pari da parte del nostro secolo inevitabile la soluzione. Ecco perché ho detto che l’Accademia delle Scienze morali e politiche, ponendo a concorso il rapporto dei profitti e dei salari, aveva parlato senza consapevolezza, ma profeticamente.
Si dirà: non è forse vero che se il lavoro è molto ricercato e scarseggiano gli operai, il salario potrà andar su, mentre, d’altra parte ribasserà il profitto? e che se a cagione della concorrenza la produzione sovrabbonda vi sarà ingombro e vendita in perdita e per ciò mancanza di profitto per l’imprenditore e minaccia di mancanza di lavoro per l’operaio? e che allora costui offrirà al ribasso l’opera sua? che se è inventata una macchina, dapprima essa spegnerà i fuochi delle sue rivali, poi, stabilito una volta il monopolio, e posto l’operaio alla dipendenza dell’imprenditore, il profitto e il salario andranno ciascuno in senso inverso dell’altro? Tutte codeste cause e altre ancora non possono studiarsi, valutarsi, compensarsi, ecc., ecc..
Monografie, storie! Ne abbiamo a ufo da Adam Smith e J.-B. Say in qua; e ormai non si odono che variazioni sui loro testi. Ma non così deve essere intesa la questione, quantunque l’Accademia non le abbia dato altro senso. Il rapporto del profitto e del salario deve essere preso in senso assoluto e non dal punto di vista inconcludente degli accidenti del commercio o della divisione degli interessi: due cose che devono ricevere ulteriormente la loro interpretazione. Mi spiego.
Considerando il produttore e il consumatore come una persona sola la cui retribuzione è naturalmente uguale al suo prodotto: poi distinguendo in questo prodotto due parti, l’una delle quali restituisce al produttore le spese anticipate, mentre l’altra costituisce il suo guadagno, in virtù dell’assioma che ogni lavoro deve lasciare un’eccedenza, noi dobbiamo determinare il rapporto di una di queste due parti con l’altra. Ciò fatto, sarà facile dedurne i rapporti di fortuna di queste due classi di persone: gl’imprenditori e i salariati, come ancora di rendersi conto di tutte le oscillazioni commerciali. Il che sarà una serie di corollari da aggiungere alla dimostrazione.
Ora, perché un tale rapporto esista e possa valutarsi, bisogna necessariamente che una legge, interna o esterna, presieda alla costituzione del salario e del prezzo di vendita; e siccome nello stato attuale delle cose il salario e il prezzo variano e oscillano senza tregua, si domanda quali siano i fatti generali, le cause, che fanno variare e oscillare il valore e in quali limiti si compie codesta oscillazione.
Ma questo stesso quesito è contrario ai princìpi. Chi dice oscillazione, suppone necessariamente una direzione media verso la quale il centro di gravità del valore la riconduce sempre, e quando l’Accademia chiede che si determinino le oscillazioni del profitto e del salario, per ciò stesso essa chiede che si determini il valore. Ora ciò appunto rigettano i signori accademici; essi non vogliono intendere che se il valore è variabile, è per ciò stesso determinabile, che la variabilità è indizio e condizione di determinabilità. Essi pretendono che il valore, variando sempre, non possa mai essere determinato. Come se si sostenesse che, dato il numero delle oscillazioni di un pendolo per ogni minuto secondo, la distesa delle oscillazioni, la latitudine e l’elevazione del luogo ove si fa l’esperienza, non possa essere determinata la lunghezza del pendolo, perché il pendolo è in moto. Tale è il primo articolo di fede dell’economia politica.
Quanto al socialismo, non pare che abbia compreso meglio la questione e che se ne curi. Dei molteplici suoi organi gli uni mettono addirittura da parte il problema, sostituendo alla specificazione il ragionamento, cioè bandendo dall’organismo sociale il numero e la misura; gli altri si tolgono d’imbarazzo applicando al salario il suffragio universale. Va da sé che tali scempiaggini trovano gonzi a migliaia e centinaia di migliaia che le pigliano sul serio.
La condanna dell’economia politica è stata espressa da Malthus nel famoso brano:
“Un uomo che nasce in un mondo già occupato, se la sua famiglia non ha mezzo di nutrirlo o se la società non ha bisogno del suo lavoro, non ha il minimo diritto di reclamare una qualsiasi porzione di vitto; egli, in realtà, è di troppo sulla terra. Al gran banchetto della natura non c’è posto per lui. La natura gli intima di andarsene e non tarderà essa stessa ad eseguire l’intimazione”.
Ecco dunque qual è la conclusione necessaria, fatale, dell’economia politica, conclusione che io dimostrerò con un’evidenza ignota sinora in questo ordine di ricerche: morte a chi non possiede.
Allo scopo di cogliere più efficacemente il concetto di Malthus, traduciamolo in proposizioni filosofiche, spogliandolo della vernice oratoria.
“La libertà individuale e la proprietà che ne è l’espressione, sono ammesse nell’economia politica: l’uguaglianza e la solidarietà non lo sono. Sotto questo regime, ognuno da sé, ognuno per sé, il lavoro, al pari di ogni altra merce, è soggetto all’alto e al basso e da ciò derivano i rischi del proletariato. Chiunque non abbia rendita, né salario non ha diritto di esigere nulla dagli altri, la sua sventura ricade su lui solo. Al gioco della fortuna ha avuto disdetta”.
Dal punto di vista dell’economia politica, queste proposizioni sono irrefutabili, e Malthus, che le ha formulate con una precisione così allarmante, non merita alcun rimprovero. Dal punto di vista delle condizioni della scienza sociale queste stesse proposizioni sono radicalmente false e anche contraddittorie.
L’errore di Malthus, o, per dire meglio, dell’economia politica, non consiste già nel dire che un uomo, il quale non ha di che mangiare, debba perire, né a pretendere che sotto il regime dell’appropriazione individuale, colui che non ha da lavorare né ha rendite proprie non possa fare altro che uscire dalla vita col suicidio, se non preferisce vedersene cacciato dalla fame; tale è, da una parte, la legge della nostra esistenza; tale è, dall’altra, la conseguenza della proprietà. E [Pellegrino] Rossi s’è data soverchia pena per giustificare su questo punto il buon senso di Malthus. Sospetto però che Rossi, facendo così distesamente e con tanto amore l’apologia di Malthus, abbia voluto raccomandare l’economia politica nel modo stesso in cui il suo compatriota Machiavelli, nel libro del Prìncipe, raccomandava il dispotismo all’ammirazione del mondo. Facendo vedere nella miseria la condizione sine qua non dell’arbitrio industriale e commerciale, sembra che Rossi voglia dirci: ecco il vostro diritto, la vostra giustizia, la vostra economia politica, ecco la proprietà.
Ma l’ingenuità gallica non capisce queste finezze e meglio sarebbe stato dire alla Francia nella sua lingua immacolata: l’errore di Malthus, il vizio radicale dell’economia politica, consiste, in tesi generale, nell’affermare come definitiva una condizione transitoria, – la distinzione della società in patriziato e proletariato; e segnatamente nel dire che in una società organizzata e per conseguenza solidale, possa consentirsi che gli uni possiedano, lavorino e consumino, mentre gli altri né possedimento avrebbero né lavoro né pane. Finalmente Malthus, ossia l’economia politica, si sbaglia nelle sue conclusioni quando nella facoltà di riproduzione indefinita di cui gode la specie umana né più né meno di tutte le specie animali e vegetali, vede una permanente minaccia di carestia, mentre bisognava dedurne soltanto la necessità e perciò l’esistenza di una legge d’equilibrio, tra la popolazione e la produzione. In due parole, la teoria di Malthus, e qui è il gran merito di questo scrittore, merito del quale nessuno dei suoi colleghi s’è curato di tenergli conto, è una riduzione all’assurdo di tutta l’economia politica.
In quanto al socialismo, è stato giudicato molto tempo fa da [Jeremy] Bentham e da Thomas More con una sola parola: utopia, cioè non-luogo, chimera.
Tuttavia, bisogna dirlo a onore dello spirito umano e perché giustizia sia resa a tutti, né la scienza economica e legislativa poteva essere, nei suoi cominciamenti, diversa da quella che noi abbiamo veduta, né può la società fermarsi a questa prima determinazione.
Ogni scienza deve dapprima circoscrivere il proprio campo, produrre e raccogliere i suoi materiali; prima del sistema i fatti; innanzi al secolo dell’arte il secolo dell’erudizione. Sottomessa, come ogni altra disciplina, alla legge del tempo e alle condizioni dell’esperienza, la scienza economica, prima di ricercare come le cose debbano andare nella società, doveva dirci come vanno, e tutti questi procedimenti consuetudinari, che gli autori chiamano pomposamente nei loro libri leggi, princìpi, teorie, malgrado la loro incoerenza e la loro contraddittorietà, dovevano essere raccolti con scrupolosa diligenza e descritti con severa imparzialità. – Per adempiere a questo compito ci voleva forse più genio e soprattutto più zelo che non sarà richiesto dal progresso ulteriore della scienza.
Se dunque l’economia sociale è ancora oggi piuttosto un’aspirazione verso l’avvenire che una conoscenza della realtà, bisogna riconoscere altresì che gli elementi di questo studio ci sono tutti nell’economia politica; e credo di esprimere il sentimento generale, dicendo che questa opinione è ormai quella dell’immensa maggioranza delle intelligenze. Vi sono, è vero, pochi difensori del presente; ma il disgusto dell’utopia è generale e tutti intendono la verità in una formula che concili questi due termini: conservazione e movimento.
In tal modo, e grazie a Smith, a Say, a Ricardo e a Malthus, come ai loro temerari contraddittori, i misteri della fortuna, atria Ditis, sono messi allo scoperto: la preponderanza del capitale, l’oppressione del lavoratore, le macchinazioni del monopolio, folgorate su tutti i punti, indietreggiano innanzi agli sguardi dell’opinione. Sui fatti osservati e descritti dagli economisti si ragiona e si congettura; spirano sotto la generale riprovazione, appena tratti alla luce, diritti abusivi e costumanze inique rispettati per tutto il tempo che durò l’oscurità nella quale trovavano alimento. Si comincia a sospettare che il governo della società debba essere appreso non più in una ideologia fantastica del genere del Contratto Sociale; ma, come aveva intravisto Montesquieu, nel rapporto delle cose; e già una sinistra, con tendenze eminentemente sociali, formata di dotti, di magistrati, di giureconsulti, di professori, e anche di capitalisti e grandi industriali, tutti rappresentanti nati e difensori del privilegio, si colloca, nella nazione, sopra e fuori le opinioni parlamentari e cerca di sorprendere nell’analisi dei fatti economici i segreti della vita della società.
Figuriamoci dunque l’economia politica come una immensa pianura, ingombra di materiali preparati per la costruzione di un edificio. Gli operai aspettano il segnale, pieni di ardore e impazienti di mettersi al lavoro; ma l’architetto è scomparso senza lasciare alcuna pianta. Gli economisti hanno serbato memoria di una quantità di cose; sfortunatamente non hanno neanche l’ombra di un piano complessivo. Sanno l’origine e la storia di ogni pezzo d’opera; ciò che è costata la lavorazione, quale legname dia le migliori travi e quale argilla i migliori mattoni; quanto si è speso in utensili e in trasporto; quanto guadagnavano i carpentieri e quanto gli scalpellini; ma di nessuna cosa sanno la destinazione e il posto. Gli economisti non possono dissimulare di avere sotto gli occhi i frammenti di un capolavoro gettati là alla rinfusa, disiecti membra poetae [Orazio]; ma non sono riusciti finora a ritrovare il disegno generale e tutte le volte che hanno tentato qualche accozzamento, hanno dato luogo a strane incoerenze. Disperati alla fine di andare dietro a combinazioni senza risultato, hanno finito con l’erigere in dogma l’inconvenienza architettonica della scienza, ossia, come dicono, gli inconvenienti, dei suoi princìpi, insomma hanno negato la scienza. [“Il principio che presiede alla vita delle nazioni non è la scienza pura, ma è costituito dai dati complessi che risultano dallo stato della cultura, dei bisogni e degli interessi”. Così si esprimeva, nel dicembre 1844, una delle menti più lucide che ci siano in Francia, Léon Faucher. Che si spieghi, se è possibile, come un uomo della sua tempra sia stato indotto dalle proprie convinzioni economiche a dichiarare che i dati complessi della società sono in opposizione con la scienza pura].
Così la divisione del lavoro, senza cui la produzione sarebbe press’a poco nulla, è soggetta a mille inconvenienti, il peggiore dei quali è la demoralizzazione dell’operaio; le macchine producono, col buon mercato, l’ingombro e la mancanza di lavoro; la concorrenza sbocca nell’oppressione; l’imposta, vincolo materiale della società, non è spesso che un flagello temuto come l’incendio e la grandine; il credito ha per correlativo obbligato la bancarotta; la proprietà è un brulichio di abusi; il commercio degenera in giochi d’azzardo dove è permesso talora di truffare; in breve, il disordine trovandosi da per tutto in proporzione uguale con l’ordine, senza che si sappia come questo giungerà ad eliminare quello, taxis ataxian diokein, gli economisti hanno preso il partito di concludere che tutto va per il meglio e considerano ogni proposta di modificazione come ostile all’economia politica.
All’edificio sociale dunque non s’è più pensato, la folla ha fatto irruzione nel recìnto: colonne, capitelli e zoccoli, legname, pietre, metalli, tutto è stato distribuito in lotti e sorteggiato, con codesti materiali raccolti per erigere un magnifico tempio, la proprietà ignorante e barbara ha costruito capanne. Trattasi perciò non solo di ritrovare il piano dell’edificio, ma di mandare via quelli che l’occupano, i quali sostengono che la loro città è superba, e al solo parlare di restauro si ordinano in battaglia sulle loro porte. Uguale confusione non fu veduta a Babele; ma per fortuna noi parliamo francese e siamo più arditi dei compagni di Nimrod. Lasciamo l’allegoria: il metodo storico e descrittivo, adoperato con tanto successo fino a che s’è trattato soltanto di fare delle ricognizioni, è ormai inutile: dopo migliaia di monografie e di tavole non siamo più innanzi di quel che si fosse ai tempi di Senofonte e di Esiodo. I Fenici, i Greci, gl’Italiani lavoravano un tempo come noi facciamo oggi; collocavano il loro denaro, salariavano i loro operai, estendevano i loro possedimenti, facevano spedizioni e riscossioni, tenevano i conti, speculavano, facevano aggiotaggio, si rovinavano secondo tutte le regole dell’arte economica, sapevano non meno bene di noi arrogarsi monopoli, scorticare il consumatore e l’operaio. Di tutto ciò abbondano i ragguagli e quando noi ripassassimo eternamente le nostre statistiche e le nostre cifre, ci troveremmo pur sempre dinanzi agli occhi il caos – il caos immobile e uniforme.
Si crede, è vero, che dai tempi mitologici fino all’attuale anno 57° della nostra grande rivoluzione, il benessere generale sia cresciuto; il cristianesimo è stato creduto per lungo tempo la causa principale di questo miglioramento, del quale gli economisti vogliono dare adesso ogni merito ai loro princìpi. Dacché, in fin dei conti, essi dicono, quale influenza ha esercitato il cristianesimo sulla società? Profondamente utopistico alla sua origine, esso non ha potuto mantenersi ed estendersi, se non adottando poco a poco tutte le categorie economiche: il lavoro, il capitale, la rendita territoriale, l’usura, il traffico, la proprietà, consacrando insomma la legge romana, che è la più alta espressione dell’economia politica.
Il cristianesimo estraneo, per la sua parte teologica, alle teorie sulla produzione e il consumo, è stato per la civiltà europea quel che non è molto erano per gli operai girovaghi, le società artigiane e la massoneria, una specie di contratto di assicurazione e di mutuo soccorso. Sotto questo aspetto nulla esso deve all’economia politica e il bene che ha fatto non può essere da questa addotto a testimonianza della propria certezza. Gli effetti della carità e dell’abnegazione sono fuori del campo dell’economia politica, la quale deve procurare il benessere della società con l’organizzazione del lavoro e con la giustizia. Per soprappiù io sono disposto a riconoscere i felici risultati del meccanismo della proprietà; ma noto che questi risultati sono coperti interamente dalle miserie che un tale meccanismo naturalmente produce; di modo che, come dichiarava, non è molto, innanzi al Parlamento inglese un illustre ministro, e come noi stessi dimostreremo, nella società presente il progresso della miseria è parallelo e adeguato al progresso della ricchezza, e ciò annulla completamente i meriti dell’economia politica. Di modo che l’economia politica non è giustificata né dalle sue massime né dalle sue opere; e in quanto al socialismo, tutto il merito suo sta nell’avere posto in chiaro questa circostanza. Siamo dunque costretti a riprendere l’esame dell’economia politica, perché essa sola contiene, almeno in parte, i materiali della scienza sociale, e a verificare se le sue teorie non nascondano un qualche errore il cui raddrizzamento concilierebbe il fatto col diritto, rivelando la legge organica della società e fornendo il concetto politico dell’ordine.
II. Il valore
1. – Opposizione tra il valore d’utilità e il valore di scambio
Il valore è la pietra angolare dell’edificio economico. L’artefice divino che ci ha commessa la continuazione dell’opera sua non s’è spiegato, ma da alcuni indizi si possono trarre opportune congetture. Il valore difatti presenta due facce: l’una che gli economisti chiamano valore d’uso o valore in sé; l’altra valore di scambio o d’opinione. Gli effetti che sotto questo duplice aspetto produce il valore e che sono assai irregolari fino a che esso non sia stabilito, o per esprimerci più filosoficamente, fino a che non sia costituito, mutano del tutto.
Ora, ricercare in che consiste la correlazione tra valore utile e valore di scambio, cosa debba intendersi per valore costituito e con quali peripezie si operi la costituzione di cui parliamo, è l’oggetto e lo scopo dell’economia politica. Io prego il lettore di volgere tutta la sua attenzione a ciò che segue, essendo questo capitolo il solo di tutta l’opera nel quale occorra un po’ di buona volontà da parte sua. Per mia parte mi sforzerò di essere sempre più semplice e chiaro.
Tutto ciò che può in qualche maniera servirmi ha per me valore e tanto più io sono ricco quanto più la cosa utile è abbondante; su questo non c’è difficoltà di sorta. Il latte e la carne, la frutta e i cereali, la lana, lo zucchero, il cotone, il vino, i metalli, il marmo, la terra insomma, l’acqua, l’aria, il fuoco e il sole sono relativamente a me valori d’uso, valori per natura e per destinazione. Se tutte le cose che servono alla mia sussistenza fossero così abbondanti come sono alcune di esse, per esempio la luce; o, in altre parole, se la quantità di ciascuna specie di valori fosse inesauribile, il mio benessere sarebbe per sempre assicurato, io non avrei bisogno di lavorare e non ci penserei neanche. In tale stato ci sarebbe sempre utilità nelle cose, ma non si potrebbe più con verità dire che valgono, perché il valore, come vedremo, indica un rapporto essenzialmente sociale. E ancora è solo per mezzo dello scambio che noi, facendo una specie di riconversione dalla società alla natura, abbiamo acquistato la nozione d’utilità. Tutto lo sviluppo della civiltà dipende dunque dalla necessità in cui si trova la razza umana di provocare senza tregua la creazione di nuovi valori; e similmente i mali della società hanno la loro prima radice nella lotta perpetua contro la nostra inerzia. Togliete all’uomo il bisogno che incita il suo pensiero e lo dispone alla vita contemplativa e il migliore prodotto della creazione non sarà altro che il primo dei quadrupedi.
Ma come il valore d’uso diventa valore di scambio? Dacché bisogna notare che le due specie di valore, sebbene contemporanee nel pensiero (non scorgendosi il primo se non per occasione del secondo), ammettono nondimeno un rapporto di successione: il valore permutabile è dato da una specie di riflesso del valore utile, come i teologi insegnano che nella Trinità, il Padre, contemplandosi nell’eternità, genera il Figlio. Questa generazione del valore non è stata fatta notare con sufficiente accuratezza dagli economisti; è bene fermarvisi alquanto.
Non trovando nella natura un gran numero delle cose che mi bisognano se non in quantità assai limitata o non trovandone affatto, sono costretto a cooperare alla produzione di quanto mi manca; e non potendo mettere le mani su tante cose, proporrò ad altri uomini, miei collaboratori in occupazioni diverse, di cedermi parte dei loro prodotti in cambio di quel che io produco. Avrò dunque, rispetto a me, più di quanto mi abbisogni del mio prodotto speciale; e del pari i miei simili avranno, rispetto a loro, più di quanto hanno bisogno di usare dei rispettivi prodotti. Questa tacita convenzione si compie mediante il commercio. Faremo osservare che la successione logica delle due specie di valore, appare meglio nella storia che nella teoria, avendo gli uomini passato migliaia di anni a disputarsi i beni naturali (è ciò che si chiama la comunità primitiva) prima che la loro industria avesse determinato alcuno scambio.
Ora, l’attitudine che hanno tutti i prodotti, sia naturali sia industriali, di servire alla sussistenza dell’uomo, si chiama particolarmente valore d’utilità; l’attitudine che essi hanno di essere dati un per l’altro, è valore di scambio. In fondo è la stessa cosa, perché il secondo caso non fa che aggiungere al primo l’idea di una sostituzione, e tutto ciò può parere inutilmente sottile; nella pratica le conseguenze sono meravigliose e a vicenda felici o funeste.
Così la distinzione stabilita nel valore è data dai fatti e nulla ha di arbitrario: tocca all’uomo, subendo questa legge, di volgerla a favore del proprio benessere e della propria libertà. Il lavoro, secondo la bella espressione di [Léon] Walras, è una guerra dichiarata alla parsimonia della natura; per esso sono nello stesso tempo generate la ricchezza e la società. Non solo il lavoro produce assai più copia di beni che non ce ne doni la natura – fu già notato che i soli calzolai della Francia producono dieci volte più che le miniere del Perù, del Brasile e del Messico – ma estendendo il lavoro, con le trasformazioni che fa subire ai valori naturali, e moltiplicando all’infinito i suoi diritti, accade a poco a poco che ogni ricchezza, a forza di passare per la trafila industriale, torni intera a colui che la creò e nulla o quasi nulla rimane al possessore della materia prima.
Tale è dunque il procedimento dello sviluppo economico: al primo momento, appropriazione della terra e dei valori naturali; poi associazione e distribuzione, mediante il lavoro, fino alla completa uguaglianza. Gli abissi sono disseminati sulla nostra via, la spada pende sulle nostre teste; ma per scongiurare ogni pericolo abbiamo la ragione: ora la ragione è l’onnipotenza. Dal rapporto che lega il valore utile al valore permutabile risulta che se per accidente o malevolenza, fosse interdetto lo scambio a uno dei produttori, o se l’utilità del suo prodotto venisse a cessare di un tratto, egli, con i magazzini pieni, non possederebbe nulla. Quanto più sacrifici avesse sostenuti e dimostrato abilità nel produrre, tanto più sarebbe profonda la sua miseria. – Se l’utilità del prodotto, invece di sparire affatto, fosse scemata soltanto, cosa che può accadere in mille modi, il lavoratore, invece di fallire sotto il colpo di una catastrofe subitanea, si troverebbe impoverito solamente. Obbligato a barattare una considerevole quantità dei suoi valori contro una scarsa quantità di valori estranei, la sua sussistenza si troverebbe ridotta in una misura uguale al deficit della sua vendita, e ciò lo porterebbe, per gradi, dall’agiatezza all’inedia. Se infine l’utilità del prodotto venisse a crescere, o se la produzione fosse resa meno costosa, il conto dello scambio tornerebbe vantaggioso al produttore, il cui benessere potrebbe così innalzarsi dalla mediocrità laboriosa all’oziosa opulenza. Questo fenomeno di impoverimento e di arricchimento si manifesta sotto mille forme e in mille combinazioni; in ciò consiste il gioco appassionato e intricatissimo dell’industria e del commercio, ed è questa lotteria piena di tranelli che gli economisti credono debba durare eterna e di cui l’Accademia delle Scienze morali e politiche, chiede, senza appello, la soppressione, quando sotto i nomi di profitto e di salario, essa domanda che si concili il valore d’uso col valore di cambio, cioè che si trovi il mezzo di rendere tutti i valori utili ugualmente permutabili, e viceversa tutti i valori permutabili ugualmente utili.
Gli economisti hanno benissimo fatto emergere il doppio carattere del valore; ma non ne hanno espresso con la medesima nettezza l’indole contraddittoria. Qui comincia la nostra critica.
L’utilità è la condizione necessaria dello scambio; ma togliete lo scambio e l’utilità s’annulla; questi due termini sono indissolubilmente legati. Dov’è dunque che appare la contraddizione?
Traendo tutti noi la comune sussistenza dal lavoro e dallo scambio, ed essendo tanto più ricchi quanto più produciamo e permutiamo, ne consegue che ciascuno debba produrre il più che può di valore utile, onde aumentare in uguale ragione i suoi scambi e perciò i suoi godimenti. Ebbene, il primo effetto, l’effetto inevitabile della moltiplicazione dei valori è l’impoverimento; più una merce abbonda, più essa perde nello scambio e commercialmente si deprezza. Non è vero che c’è contraddizione tra la necessità del lavoro e i suoi risultati?
Prego il lettore, prima di correre incontro alla spiegazione, di fermare la sua attenzione sul fatto.
Un contadino il quale ha raccolto venti sacchi di frumento, ch’egli si propone di mangiare con la sua famiglia, si ritiene più ricco che se ne avesse raccolto solo dieci; nello stesso modo, una donna di casa che ha tessuto cinquanta braccia di tela si ritiene anche essa più ricca che se ne avesse tessuto soltanto dieci. Relativamente all’azienda domestica hanno ragione tutti e due; ma dal punto di vista dei loro rapporti col di fuori possono ingannarsi completamente. Se il raccolto del grano è riuscito doppio in tutto il paese, venti sacchi si venderanno meno di quello che si sarebbero venduti dieci sacchi se il raccolto fosse riuscito solo la metà. E parimenti, in un caso simile, cinquanta braccia di tela varranno meno di venticinque. Di maniera che il valore decresce come aumenta la produzione dell’utilità, e un produttore può cadere nell’indigenza arricchendosi sempre. E a ciò pare che non vi sia rimedio, perché il solo mezzo salutare sarebbe questo, che la quantità dei prodotti diventasse di tutti, come quella dell’aria e della luce, infinita. Ma ciò è assurdo. Dio della mia ragione! avrebbe esclamato Jean-Jacques; non sono gli economisti che sragionano, la stessa economia politica si mostra infedele alle proprie definizioni: mentita est iniquitas sibi.
Negli esempi dianzi recati il valore utile supera il valore permutabile; in altri casi è minore. Allora si produce il medesimo fenomeno, ma in senso inverso: la bilancia è troppo favorevole al produttore; chi ci perde è il consumatore. Così accade specialmente nelle carestie, nelle quali il rialzo delle vettovaglie ha sempre qualcosa di artificiale. Vi sono anche professioni in cui tutta l’arte consiste nel dare a una utilità mediocre, e della quale si potrebbe benissimo fare a meno, un esagerato valore d’opinione: tali sono, in genere, le arti di lusso. L’uomo, eccitato dalla passione estetica, è avido d’inezie, il cui possesso soddisfa altamente la sua vanità, il suo gusto innato per il lusso e l’amore del bello, affetto nobile e rispettabile; su ciò speculano i fornitori di questa specie d’oggetti. Colpire la fantasia e l’eleganza non è cosa meno assurda del porre tasse sulla circolazione; ma nel primo caso l’imposta è riscossa da certi industriali in voga, protetti dal favore generale e tutto il merito dei quali si riduce sovente a falsare il gusto e far nascere l’incostanza. Pure nessuno si lamenta e tutti gli anatemi dell’opinione pubblica sono per i monopolisti che riescono a elevare di qualche centesimo il prezzo della tela e del pane.
Non basta avere notato nel valore utile e nel valore permutabile questo sorprendente contrasto là dove gli economisti sono avvezzi a non vedere altro che una cosa semplicissima; bisogna mostrare come questa pretesa semplicità celi un mistero profondo che abbiamo il dovere di penetrare.
Io sfido qualunque economista a dirmi, senza tradurre o ripetere la questione, per qual motivo il valore decresce a misura che aumenta la produzione, e di rimando cosa fa crescere questo medesimo valore a misura che la produzione diminuisce. In termini tecnici il valore utile e il valore permutabile, necessari l’uno all’altro, sono in reciproca ragione inversa; io chiedo dunque perché la rarità, non l’utilità, significa aumento dei prezzi. Notiamolo bene, il rialzo e il ribasso delle merci sono indipendenti dalla quantità di lavoro impiegata nella produzione e il maggiore o minore costo di produzione non serve per spiegare le variazioni dei prezzi.
Il valore è capriccioso come la libertà, non tiene conto né dell’utilità né del lavoro, anzi pare che, nel corso ordinario delle cose, a parte alcune perturbazioni eccezionali, gli oggetti più utili siano sempre quelli destinati a vendersi a prezzo più vile o, in altre parole, che è giusto vedere meglio retribuiti gli uomini i quali lavorano con più soddisfazione e coloro che sudano, faticando, sangue e acqua, remunerati nel peggiore modo. Di maniera che seguendo il principio fino alle ultime conseguenze, si arriverebbe legittimamente a questa conclusione: che le cose, il cui uso è necessario, e la quantità infinita, si devono avere per nulla, e quelle la cui utilità è nulla e la rarità estrema, devono avere un prezzo inestimabile. Ma, per colmo d’imbarazzo, la pratica non ammette questi estremi. Da una parte nessun prodotto umano può crescere all’infinito e dall’altra le cose più rare hanno bisogno d’essere, in un grado qualsiasi, utili, senza di che non sarebbero suscettibili di valore alcuno. Il valore utile e il valore permutabile rimangono dunque fatalmente collegati l’uno all’altro, sebbene per la loro natura tendano continuamente a escludersi.
Non affaticherò il lettore con la confutazione delle logomachie che si potrebbero presentare per gettare luce sul tema; riguardo alla contraddizione inerente alla nozione del valore non c’è né causa assegnabile nè spiegazione possibile. Il fatto di cui parlo è di quelli chiamati primitivi, cioè che possono servire a spiegarne altri; ma sono per se medesimi insolubili come i corpi semplici. Tale il dualismo dello spirito e della materia. Spirito e materia sono due vocaboli che, presi separatamente, indicano ciascuno uno speciale concetto della mente senza corrispondere a nulla di reale. Nella stessa maniera, dato nell’uomo il bisogno di una grande varietà di prodotti con l’obbligo di procurarseli col proprio lavoro, l’opposizione tra il valore utile e il valore permutabile ne risulta necessariamente e da questa opposizione, una contraddizione sulla soglia stessa dell’economia politica. Nessuna mente o volontà divina o umana potrebbe impedirla. Per cui invece di cercare una spiegazione chimerica, contentiamoci di constatare la necessità della contraddizione.
Qualunque sia l’abbondanza dei valori creati e la proporzione in cui essi si permutano, bisogna, perché lo scambio dei prodotti avvenga, se voi domandate, che il mio prodotto vi convenga; se offrite, che io gradisca il vostro. Nessuno ha diritto d’imporre agli altri la propria merce, il solo giudice dell’utilità, o, ciò che è lo stesso, del bisogno, è il compratore. Dunque, nel primo caso, voi siete arbitro della convenienza, nel secondo lo sono io. Togliete la reciproca libertà e lo scambio non è più l’esercizio della solidarietà industriale: è una rapina. Il comunismo, diciamolo così a volo, non supererà giammai questa difficoltà.
Ma, con la libertà, la produzione rimane necessariamente indeterminata, sia in quantità, sia in qualità, onde tanto dal punto di vista del progresso economico, quanto da quello della convenienza dei consumatori, la valutazione è eternamente arbitraria e il prezzo delle merci oscillerà sempre. Supponiamo per un istante che entrambi i produttori vendano a prezzo fisso; ce ne saranno che producendo a buon mercato o meglio, guadagneranno molto, mentre altri non guadagneranno nulla. In ogni modo l’equilibrio è rotto. – Si vuole, per impedire il ristagno del commercio, limitare la produzione allo stretto necessario? È violare la libertà: perché, se togliendomi la facoltà di scegliere, mi condannate a pagare un maximum, distruggete la concorrenza, unica garanzia del buon mercato e provocate il contrabbando. E così per impedire l’arbitrio commerciale, vi gettate nell’arbitrio amministrativo; per creare l’uguaglianza distruggete la libertà, il che è la negazione della stessa uguaglianza. – Raggrupperete i produttori in un solo opificio? suppongo che possediate questo segreto. Non basta ancora. Bisognerà che raggruppiate i consumatori in una famiglia comune; ma in tal caso vi allontanate dalla questione. Non si tratta di abolire l’idea di valore, cosa impossibile, com’è l’abolizione del lavoro, bensì di determinarla. Non si tratta di uccidere la libertà individuale, ma di socializzarla. Ora è provato essere il libero arbitrio la causa dell’opposizione tra valore utile e valore di cambio; come risolvere questa opposizione fino a che dura il libero arbitrio? E come sacrificare questo senza sacrificare l’uomo?...
Dunque per il semplice fatto che nella mia qualità di libero compratore sono giudice dei miei bisogni, giudice della convenienza dell’oggetto, giudice del prezzo che voglio pagare, e d’altra parte voi, nella vostra qualità di libero produttore siete padrone dei mezzi di produzione e per conseguenza avete la facoltà di ridurre le spese, l’arbitrio s’introduce per forza nel valore e lo fa oscillare tra l’utilità e l’opinione.
Ma codesta oscillazione, benissimo scorta dagli economisti, è soltanto l’effetto di una contraddizione che, allargandosi, genera i fenomeni più inattesi. Tre anni di fertilità in certe province della Russia sono una calamità pubblica, come nei nostri vigneti tre anni di abbondanza sono una calamità per il vignaiolo. Gli economisti, lo so bene, attribuiscono questo guaio alla mancanza di sbocchi, perciò è una grande questione per loro quella degli sbocchi. Sventuratamente va detto della teoria degli sbocchi lo stesso della teoria dell’emigrazione, voluta contrapporre a Malthus; è una petizione di principio. Gli Stati meglio provvisti di sbocchi sono soggetti all’eccesso di produzione al pari dei paesi più isolati: dove più che alla borsa di Parigi o di Londra si conoscono i colpi di rialzo o di ribasso? Dall’oscillazione del valore e dagli effetti irregolari che ne derivano, i socialisti e gli economisti, ciascuno dalla propria parte, hanno dedotto conseguenze opposte, ma egualmente false. I primi hanno preso occasione da ciò per calunniare l’economia politica ed escluderla dalla scienza sociale; gli altri per rigettare ogni possibilità di conciliazione fra i termini e affermare come legge assoluta del commercio l’incommensurabilità dei valori e perciò delle fortune.
Dico che dalle due parti l’errore è uguale:
1° L’idea contraddittoria di valore, messa così bene in luce dall’inevitabile distinzione tra valore d’uso e valore di scambio, non viene da una falsa percezione dello spirito né da una terminologia viziosa né da qualsiasi aberrazione pratica, ma è insita alla natura delle cose e s’impone alla ragione come forma generale del pensiero, cioè come categoria. Ora essendo il concetto di valore il punto di partenza dell’economia politica, segue che tutti gli elementi della scienza – anticipo questa parola – sono contraddittori in sé e in opposizione tra loro, tanto che su ciascun problema l’economista si trova sempre tra una affermazione e una negazione ugualmente irrefutabili. L’antinomia infine, per servirmi della parola consacrata dalla filosofia moderna, è il carattere essenziale dell’economia politica, cioè nello stesso tempo, la sua sentenza di morte e la sua giustificazione.
Antinomia, letteralmente contro-legge, vuol dire opposizione nel principio o antagonismo nel rapporto, come la contraddizione o antilogia indica opposizione o contrarietà nel discorso. L’antinomia, chiedo perdono se entro in questi particolari di scolastica, ma poco familiari ancora alla maggior parte degli economisti, l’antinomia è il concetto di una legge a doppia faccia, una positiva, l’altra negativa. Tale è per esempio la legge dell’attrazione, che fa girare i pianeti intorno al sole e che i geometri scompongono in forza centripeta e forza centrifuga. Tale è anche il problema della divisibilità della materia all’infinito, che Kant ha dimostrato potersi negare e affermare con argomenti del pari plausibili e irrefutabili.
L’antinomia non fa che esprimere un fatto, e s’impone imperiosamente allo spirito: la contraddizione propriamente detta è un assurdo. Questa distinzione tra l’antinomia (contra-lex) e la contraddizione (contra-dictio), mostra in qual senso si è potuto dire che in un certo ordine di idee e di fatti l’argomento di contraddizione non serba più lo stesso valore che ha in matematica.
Nelle matematiche è di regola che, dimostrata falsa una proposizione, la proposizione inversa è vera, e così viceversa. Questo è anche il grande mezzo di dimostrazione matematica. In economia sociale la cosa va altrimenti. Vedremo, per esempio, che dimostrando falsa la proprietà in base alle sue conseguenze, la formula contraria, cioè il comunismo, non risulta vera, ma è messo in chiaro che la si può negare nel tempo stesso e al medesimo titolo che la proprietà. Segue forse da ciò, come con enfasi assai ridicola è stato detto, che ogni verità, ogni idea procede da una contraddizione, cioè da qualche cosa che si nega e s’afferma nello stesso momento e dal medesimo punto di vista e che si debba gettare via la vecchia logica che fa della contraddizione il segno caratteristico dell’errore? Questo ciarlatanismo è degno di sofisti che, senza fede né buona fede, lavorano ad eternare lo scetticismo, onde tenere su la loro impertinente nullità.
Siccome l’antinomia, quando sia disconosciuta, conduce senza fallo alla contraddizione, s’è presa l’una per l’altra, specialmente nel francese ove si usa designare ogni cosa per i suoi effetti. Ma né la contraddizione né l’antinomia che l’analisi scopre in fondo a ogni idea semplice sono il principio del vero. La contraddizione è sempre sinonimo di nullità; quanto all’antinomia, alla quale talora si applica lo stesso nome, essa è difatti il precursore della verità, alla quale, per così dire, fornisce la materia; ma non è la verità e, considerata in sé, è la causa efficiente del disordine, la forma propria della menzogna e del male.
L’antinomia si compone di due termini, necessari l’uno all’altro, ma opposti sempre e tendenti a distruggersi reciprocamente. Oso appena aggiungere, ma bisogna pure averlo in mente, che il primo di questi termini ha ricevuto il nome di tesi, posizione, e il secondo quello di antitesi, contrapposizione. Questo meccanismo è ora tanto conosciuto che ben presto, io spero, lo si vedrà figurare nel programma delle scuole elementari. Vedremo adesso come dalla combinazione di questi due zeri venga fuori l’unità o l’idea che fa sparire l’antinomia.
Pertanto non c’è nulla di utile nel valore che non possa permutarsi, nulla di permutabile se l’utilità manca; il valore d’uso e il valore di scambio sono inseparabili. Ma mentre, per i progressi dell’industria, la domanda varia e si moltiplica all’infinito, e la fabbricazione tende per conseguenza a ravvalorare l’utilità naturale delle cose e finalmente a convertire ogni valore utile in valore di scambio; – da un’altra parte, la produzione, aumentando senza tregua la potenza dei suoi mezzi e riducendo sempre le proprie spese, tende a ricondurre la venalità delle cose alla primitiva utilità, di modo che il valore d’uso e il valore di scambio sono in perpetua lotta.
Gli effetti della lotta sono notissimi: le guerre per la prevalenza nel commercio e negli sbocchi, l’ingombro, il ristagno, le proibizioni, i massacri della concorrenza, il monopolio, il ribasso dei salari, le leggi del maximum, l’enorme disuguaglianza delle fortune, la miseria traggono origine dall’antinomia del valore. Mi si dispensi dal fornirne qui la dimostrazione, la quale del resto, scaturirà naturalmente dai capitoli seguenti.
I socialisti pure, invocando a ragione la fine di questo antagonismo, hanno avuto il torto di sconoscerne la fonte e di non vedervi altro fuorché una svista del senso comune, riparabile per decreto dell’autorità pubblica. Da ciò quella esplosione di sensibilità piagnucolosa che ha reso il socialismo così scipito per le menti positive e che, propagando le più assurde illusioni, trae sempre tanta gente in inganno. Ciò che io rimprovero al socialismo non è già di essere venuto senza motivo, ma di rimanere così lungamente e con tanta ostinazione stupido.
2° Ma gli economisti hanno avuto il torto non meno grave di respingere a priori, e ciò a causa dell’elemento contraddittorio, o meglio, antinomico del valore, ogni idea e ogni speranza di riforma, senza voler mai capire che appunto perché la società era pervenuta al suo massimo periodo di antagonismo, doveva essere imminente la conciliazione, l’armonia. Un attento esame dell’economia politica lo avrebbe fatto toccar con mano ai suoi adepti, se avessero fatto maggior conto dei lumi della metafisica moderna. È difatti dimostrato, con i dati più positivi della ragione umana, che là ove si manifesta un’antinomia, c’è promessa di risoluzione dei termini e per conseguenza segnale di una trasformazione. Ora la nozione del valore, quale fu esposta, tra gli altri da J.-B. Say, è precisamente in questa situazione. Ma gli economisti, rimasti per la più parte e per una inconcepibile fatalità, estranei al movimento filosofico, non supponevano che il carattere essenzialmente contraddittorio, e come essi dicevano, variabile del valore, fosse nel tempo stesso il segno autentico della sua costituzionalità, cioè della sua natura eminentemente armonica e determinabile. Qualsiasi onta ne risulti per le varie scuole economiche, certo è che l’opposizione da esse fatta al socialismo procede unicamente da questo falso concetto dei loro stessi princìpi; basterà, tra le tante, una prova.
L’Accademia delle Scienze (non quella delle Scienze morali, l’altra), uscendo un giorno dalle proprie competenze, ammise alla lettura una memoria la quale si proponeva di calcolare le tavole del valore per tutte le merci, in base alle medie di prodotto per ogni uomo e per ogni giornata di lavoro in ciascun genere d’industria. Il “Giornale degli Economisti” (agosto 1845) prese subito nota di questa comunicazione, usurpatrice ai suoi occhi, per protestare contro il progetto di tariffa che ne era l’oggetto e ristabilire ciò che esso chiamava i veri princìpi.
“Non c’è, diceva nelle sue conclusioni, una misura, un tipo del valore; è la scienza economica che lo dice, come la matematica ci dice che non c’è il moto perpetuo, né la quadratura del circolo e che questa quadratura e questo moto non si troveranno quindi mai. Ora, se non c’è una stima del valore, se la misura del valore non è neanche una illusione metafisica, qual è definitivamente la norma regolatrice degli scambi?... È, l’abbiamo detto, quella dell’offerta e della domanda in modo generale; ecco l’ultima parola della scienza”.
Ora, come faceva il “Giornale degli Economisti” a provare che non c’è misura del valore? – Mi valgo del vocabolo consacrato; io dimostrerò che questa espressione misura del valore ha qualcosa di ambiguo e non significa con esatte parole ciò che si vuole, ciò che si deve dire.
Questo giornale ripeteva, accompagnandola con esempi, l’esposizione da noi fatta sopra della variabilità del valore, ma senza giungere come noi alla contraddizione. Ora, se lo stimabile redattore, uno dei più distinti della scuola di Say, avesse avuto più severe abitudini dialettiche; se si fosse da lungo tempo esercitato, non solo a osservare i fatti, ma a cercarne la spiegazione nelle idee che li producono, non dubito che si sarebbe espresso con maggiore riservatezza e che invece di vedere nella variabilità del valore l’ultima parola della scienza, avrebbe anzi ammesso che ne era la prima. Riflettendo che la variabilità nel valore dipende non dalle cose, ma dallo spirito, avrebbe compreso che, come la libertà dell’uomo ha la sua legge, così il valore deve avere la propria. E per conseguenza che l’ipotesi di una misura del valore, giacché questa espressione si adopera, non ha nulla d’irrazionale; anzi, al contrario, è illogica e insostenibile la negazione di questa misura.
Difatti, in che l’idea di misurare e per conseguenza di fissare il valore, ripugna alla scienza? Tutti credono a questa fissazione, tutti la vogliono, la cercano, la suppongono; ogni proposta di vendita o di compera non è altro, in fin dei conti, che un paragone tra due valori, cioè una determinazione più o meno giusta se si vuole, ma effettiva. L’opinione del genere umano sul divario che c’è tra il valore reale e il prezzo commerciale è, si può dire, unanime. Da ciò dipende che se tante merci si vendono a prezzo fisso; ce n’è anche talune che persino nelle loro variazioni sono sempre fisse, il pane, per esempio. Non si negherà che se due industriali possono spedirsi reciprocamente in conto corrente e a prezzo inteso, determinate quantità dei loro prodotti rispettivi, dieci, cento, mille industriali non possano fare altrettanto. Ora ciò appunto importerebbe la soluzione del problema della misura del valore. Il prezzo di qualunque cosa sarebbe discusso, ne convengo, perché la discussione è ancora per noi il solo modo di fissare il prezzo; pure, come ogni scintilla sprizza fuori dall’attrito, la discussione, benché sia una prova d’incertezza, ha lo scopo, a parte la maggiore o minore buona fede che vi si mescola, di scoprire il mutuo rapporto dei valori, cioè la loro misura, la loro legge.
Ricardo, nella sua teoria della rendita, ha dato un magnifico esempio della commensurabilità dei valori. Egli ha fatto vedere che le terre arative stanno fra loro, come, a spese uguali, stanno le loro rendite, e la pratica universale è in ciò d’accordo con la teoria. Ora chi ci dice che questa maniera positiva e sicura di valutare le terre e in genere tutti i capitali fissi, non possa estendersi anche ai prodotti?...
Si dice: l’economia politica non si regge con formule a priori, essa si pronuncia solo sui fatti. Ora, sono per l’appunto i fatti e l’esperienza che ci insegnano non esserci, né potere esistere una misura del valore, e provano che se una tale idea ha dovuto presentarsi naturalmente, la sua realizzazione è del tutto chimerica. L’offerta e la domanda, ecco la sola regola degli scambi.
Non starò qui a ripetere che l’esperienza prova precisamente il contrario; che tutto, nel movimento economico della società, indica una tendenza alla costituzione e alla fissazione del valore; che quello è il punto culminante dell’economia politica, la quale, con codesta costituzione, si trova trasformata, è il supremo segno dell’ordine nella società. – Questo quadro generale, ripetuto senza prove, diverrebbe insipido. Io mi tengo per ora nei termini della discussione e dico che l’offerta e la domanda, nelle quali si vuol vedere la sola norma dei valori, non sono altro che due forme cerimoniali che servono a mettere a fronte il valore d’utilità e il valore di scambio e a provocare la loro conciliazione. Sono questi i due poli elettrici che messi in rapporto producono il fenomeno di affinità economica che si chiama scambio. Come i poli della pila, l’offerta e la domanda sono diametralmente opposti e tendono senza tregua ad annullarsi reciprocamente. È per il loro antagonismo che il prezzo delle cose o si esagera o si annienta e occorre conoscere se non sia possibile, in qualunque occasione, equilibrare o fare transigere queste due potenze, di maniera che il prezzo delle cose sia sempre l’espressione della giustizia. Dire dopo ciò che l’offerta e la domanda sono la regola degli scambi, è dire che l’offerta e la domanda sono la regola dell’offerta e della domanda; non è spiegare la pratica, ma dichiararla assurda, e io nego che la pratica sia assurda. Citai testé Ricardo, il quale, in un caso speciale, fornì una regola positiva di paragone dei valori. Gli economisti fanno ancora meglio: ogni anno raccolgono dai quadri statistici la media di tutti i listini dei prezzi. Ora, che significa una media? Ognuno intende che in una particolare operazione, presa a caso sopra un milione, nulla può indicare se sia l’offerta, valore utile, che ha prevalso, o se sia invece il valore permutabile, cioè la domanda. Ma siccome ogni esagerazione nel prezzo delle merci è presto o tardi seguita da un ribasso proporzionale; siccome, in altre parole, nella società i profitti dell’aggio sono uguali alle perdite, si può ragionevolmente considerare la media dei prezzi di un periodo completo quale indice del valore reale e legittimo dei prodotti. Vero è che questa media arriva troppo tardi, ma chi ci dice che non la si potrebbe scoprire anticipatamente? c’è un economista che osi dire di no?
Per amore o per forza, bisogna dunque cercare la misura del valore; è la logica che lo impone e le sue conclusioni sono ugualmente contrarie agli economisti e ai socialisti. L’opinione che nega l’esistenza di questa misura è irrazionale, è storta. Dite sin che vi piaccia da una parte che l’economia politica è una scienza che poggia sui fatti e che i fatti sono contrari all’ipotesi di una determinazione del valore; – dall’altra che questa scabrosa questione non ha più ragione di esistere in una comunità universale in cui ogni antagonismo sarebbe assorbito, io ripeterò sempre a destra e a sinistra:
1° Che non essendovi fenomeno senza una causa, non ce n’è neanche senza legge e che se la legge dello scambio non s’è trovata, la colpa non e dei fatti, ma dei dotti;
2° Che fino a quando l’uomo lavorerà per sussistere e lavorerà liberamente, la giustizia sarà la condizione della fratellanza e la base dell associazione; ora, senza una determinazione del valore, la giustizia è monca, è impossibile.
2. – Costituzione del valore – definizione della ricchezza
Noi conosciamo il valore sotto due aspetti contrari, non lo conosciamo nel suo tutto. Se potessimo acquistare questa nuova idea, avremmo il valore assoluto e una tariffa dei valori, come quella chiesta dall’Accademia delle Scienze, sarebbe possibile.
Figuriamoci dunque la ricchezza come una massa tenuta da una forza chimica in stato permanente di composizione e nella quale entrino continuamente elementi nuovi, combinandosi in proporzioni diverse, ma secondo una legge certa; il valore è il rapporto proporzionale (la misura) secondo la quale ciascuno degli elementi entra nel tutto.
Da ciò seguono due cose: una che gli economisti si sono ingannati cercando la misura generale del valore nel grano, nel denaro, nella rendita, ecc., e del pari quando, dopo avere dimostrato che codesta misura del valore non si trova né qua né là, hanno concluso che non c’è misura né ragione del valore; l’altra che la proporzione dei valori può variare di continuo, senza cessare perciò di essere soggetta a una legge la cui determinazione è precisamente la soluzione richiesta.
Questo concetto del valore soddisfa, lo si vedrà, a tutte le esigenze, poiché abbraccia nello stesso tempo il valore di scambio in ciò che esso ha di positivo e di fisso, e il valore utile in ciò che ha di variabile; in secondo luogo fa cessare la contrarietà che sembrava un ostacolo insuperabile a qualunque determinazione. Di più mostreremo come il valore, così inteso, differisca interamente da ciò che sarebbe una semplice giustificazione delle due idee di valore e valore permutabile e che esso è dotato di nuove proprietà.
La proporzionalità dei prodotti non è una rivelazione che noi pretendiamo di fare al mondo, né una novità che rechiamo nella scienza, più di quanto la divisione del lavoro fosse una cosa ignota allorché Adam Smith ne spiegò le meraviglie. La proporzionalità dei prodotti è, come ci sarebbe facile provare con citazioni innumerevoli, una idea volgare che si trova in tutte le opere di economia politica, senza però che sinora si sia pensato a darle il posto che le spetta; e questo è quello che tentiamo di fare noi. Del resto ci teniamo a fare questa dichiarazione, onde rassicurare il lettore sulle nostre pretese di originalità e conciliarci gli animi poco favorevoli, per timidezza, alle novità.
Gli economisti pare che non abbiano mai inteso per misura del valore altro che un tipo, una specie d’unità primordiale, esistente per sé e che si applicherebbe a tutte le merci, come il metro si applica a tutte le grandezze. Quindi è sembrato a molti che tale ufficio fosse adempiuto dal denaro. Ma la teoria monetaria ha dimostrato che ben lungi dall’essere la misura del valore, la moneta n’è solo l’aritmetica e un’aritmetica convenzionale. Il denaro è al valore ciò ch’è il termometro al calore. Il termometro con la sua scala arbitrariamente graduata indica quando vi sia perdita o accumulazione di calore; ma non dice quali siano le leggi d’equilibrio del calore, in quale proporzione esso si trovi nei vari corpi, quale quantità ne occorra per produrre un’ascensione di 10, 15 o 20 gradi nel termometro. È cosa sicurissima che i gradi della scala, tutti tra loro uguali, corrispondono a uguali addizioni di calore.
L’idea che s’aveva della misura del valore è dunque inesatta. Quel che noi cerchiamo non è la misura del valore, come tante volte s’è detto, ma la legge secondo cui i prodotti si proporzionano nella ricchezza sociale, in quanto dalla conoscenza di questa legge dipendono il rialzo e il ribasso delle merci in ciò che codesti fenomeni hanno di normale e legittimo. In una parola, nello stesso modo che per la misura dei corpi celesti s’intende il rapporto risultante dal paragone di questi corpi tra loro, così per misura dei valori bisogna intendere il rapporto che risulta dalla loro reciproca comparazione. Ora dico che questo rapporto ha la sua legge e questa comparazione ha un principio suo.
Suppongo dunque una forza che combina in determinate proporzioni gli elementi della ricchezza e ne fa un tutto omogeneo, e se anche gli elementi costituitivi non si trovino nella proporzione voluta, la combinazione sì farà ugualmente, però invece di assorbire tutta la materia, ne rigetterà una parte come inutile. Il movimento interno per il quale avviene la combinazione e che determina l’affinità delle diverse sostanze è, nella società, lo scambio; non più lo scambio considerato nella sua forma elementare, d’uomo a uomo, ma in quanto fusione di tutti i valori prodotti dalle industrie private in una sola e medesima ricchezza sociale. Finalmente la proporzione secondo la quale ogni elemento entra nel composto, è ciò che noi chiamiamo valore; l’eccedenza che rimane dopo avvenuta la combinazione è non valore; fino a che per l’arrivo di una certa quantità di altri elementi esso non entri in una combinazione, non è possibile che si scambi.
Spiegheremo più in là l’ufficio del denaro.
Stabilito ciò, si comprende come, a un dato momento, la proporzione dei valori che formano la ricchezza di un paese, possa a forza di statistiche e d’inventari essere determinata o almeno valutata empiricamente, come i chimici hanno scoperto, con l’esperimento aiutato dall’analisi, la proporzione d’idrogeno e d’ossigeno indispensabile alla formazione dell’acqua. Questo metodo, applicato alla determinazione dei valori nulla ha che ripugni; è un semplice affare di computo. Ma un lavoro simile, per quanto interessante, ci insegnerebbe ben poco. Infatti, mentre noi sappiamo che la proporzione varia senza posa, dall’altra è chiaro che non dandoci una stima complessiva della pubblica ricchezza la proporzione dei valori se non unicamente per il luogo e l’ora in cui si compilerebbe la tabella, noi non potremmo indurne la legge di proporzionalità della ricchezza. Un solo lavoro di codesta fatta non basterebbe, ci vorrebbero, ammettendo pure che si possa avere fiducia in un tale procedimento, migliaia e milioni di lavori simili.
Ora, accade nella scienza economica tutt’altro da ciò che avviene nella chimica. I chimici, ai quali l’esperimento ha fatto scoprire così belle proporzioni, nulla sanno del come e del perché di tali proporzioni, né della forza che le determina. L’economia sociale al contrario, alla quale nessuna indagine a posteriori potrebbe far conoscere la legge di proporzionalità dei valori, può coglierla nella forza stessa che la produce e che ormai è tempo di far conoscere.
Questa forza che A. Smith ha celebrato con tanta eloquenza e che i suoi successori hanno sconosciuta, ponendola alla pari col privilegio, è il lavoro. Il lavoro differisce da produttore a produttore in quantità e qualità. Accade a questo riguardo, quel che accade a tutti i grandi princìpi della natura e alle leggi più generali, semplici nella loro azione e formula, ma modificati all’infinito dalla molteplicità delle cause particolari e adatti a manifestarsi sotto una varietà innumerevoli di forme. È il lavoro, il lavoro solo che produce tutti gli elementi della ricchezza e che li combina fino nelle loro ultime molecole secondo una legge di proporzionalità variabile, ma certa. È il lavoro infine che, come principio di vita, agita mens agitat, la materia, molem, della ricchezza e le dà proporzione. La società, ossia l’uomo collettivo, produce una infinità d’oggetti il cui godimento costituisce il suo benessere. Questo benessere si sviluppa non solo in ragione della quantità dei prodotti, ma anche in ragione della loro varietà (qualità) e proporzione. Da questo postulato fondamentale segue che la società deve sempre, a ogni istante della sua vita cercare nei suoi prodotti una proporzione tale che vi si ritrovi la più forte somma di benessere, avuto riguardo alla potenza e ai mezzi di produzione. Abbondanza, varietà e proporzione nei prodotti sono i tre termini che costituiscono la ricchezza. La ricchezza oggetto dell’economia sociale è sottomessa alle medesime condizioni d’esistenza alle quali soggiacciono il bello, oggetto dell’arte; la virtù, oggetto della morale; il vero, oggetto della metafisica.
Ma come si stabilisce questa mirabile proporzione, tanto necessaria che senza di essa una parte delle fatiche umane va perduta, cioè riesce inutile, disarmonica, non vera, e perciò sinonimo d’indigenza, di nulla?
Prometeo, secondo la favola, è il simbolo dell’attività umana. Prometeo ruba il fuoco al cielo e inventa le prime arti; Prometeo prevede il futuro e vuol farsi uguale a Giove; Prometeo è Dio. Chiamiamo dunque la società Prometeo.
Prometeo dà al lavoro in media dieci ore al giorno, sette al riposo e altrettante al piacere. Per trarre dai suoi esercizi il più utile frutto, Prometeo tiene nota della pena e del tempo che ogni oggetto del suo consumo gli costa. La sola esperienza può ammaestrarlo in ciò, e questa esperienza durerà per tutta la sua vita. Lavorando e producendo Prometeo prova dunque una infinità di disinganni. Ma in ultima analisi, più egli lavora, più il suo benessere si raffina e il suo lusso s’idealizza; più estende le sue conquiste sulla natura e più fortifica in se stesso il principio di vita e di intelligenza, il cui esercizio solo lo rende beato. E ciò al punto che, fatta una volta la prima educazione del lavoratore, e messo ordine nelle sue occupazioni, lavorare non è più, per lui, penare, è vivere, è godere. Ma l’attrattiva del lavoro non ne distrugge la regola, poiché, al contrario, n’è il frutto, e coloro i quali protestando che il lavoro deve essere attraente concludono negando la giustizia e ammettendo il comunismo, somigliano ai fanciulli, che dopo aver raccolto i fiori in giardino, fanno un’aiuola sul pianerottolo.
Nella società la giustizia non è altro che la proporzionalità dei valori; essa ha per garanzia e sanzione la responsabilità del produttore.
Prometeo sa che il tale prodotto costa un’ora di lavoro, il tal altro un giorno, una settimana, un anno; sa del pari che tutti codesti prodotti con l’accrescimento del loro costo, formano il progresso della sua ricchezza. Egli comincerà dunque ad assicurare la propria esistenza provvedendosi delle cose che costano meno e che sono le più necessarie; poi, a misura che si sentirà in posizione più solida, penserà agli oggetti di lusso, procedendo sempre, se è savio, secondo la gradazione naturale del prezzo che ogni cosa gli costa. Qualche volta Prometeo s’ingannerà nel suo calcolo, o anche, trasportato dalla passione, sacrificherà un bene immediato per un godimento prematuro e, dopo aver sudato sangue e acqua, soffrirà la fame. La legge porta in se stessa la propria sanzione; non la si può violare senza che colui che la infrange sia tosto punito.
Say ha dunque avuto ragione di dire: “La felicità di questa classe (quella dei consumatori) composta di tutte le altre costituisce il benessere generale, lo stato di prosperità di un paese”. Solamente avrebbe dovuto soggiungere che il benessere della classe dei produttori, che si compone anche essa di tutte le altre, costituisce ugualmente il benessere generale, lo stato di prosperità di un paese. – E così quando dice: “La fortuna di ciascun consumatore è in perpetua rivalità con tutto ciò ch’egli compra”, avrebbe dovuto aggiungere che la fortuna di ciascun produttore è intaccata continuamente da quanto egli vende. Senza questa reciprocità nettamente espressa, la più parte dei fenomeni economici diventa inintelligibile, e io farò vedere a suo luogo come, a causa di questa grave omissione, il maggior numero degli economisti che scrivono libri ha sragionato a proposito della bilancia del commercio.
Ho detto che la società produce dapprima le cose che costano meno e che sono le più necessarie. Ora è vero che nel prodotto la necessità abbia per correlativo il buon mercato e viceversa, sicché queste due parole necessità e buon mercato, come queste altre, rincaro e superfluo sono sinonimi?
Se ogni prodotto del lavoro, preso isolatamente, potesse bastare all’esistenza dell’uomo, la sinonimia non sarebbe dubbia; avendo tutti i prodotti le medesime proprietà, i più vantaggiosi a produrre e quindi i più necessari sarebbero i meno costosi. Ma non è con questa precisione teorica che si forma il parallelismo tra l’utilità e il prezzo dei prodotti; sia la previdenza della natura, sia qualunque altra la causa, l’equilibrio tra il bisogno e la facoltà produttrice è più che una teoria, è un fatto attestato dalla pratica quotidiana e dal progresso della società.
Rimontiamo alla nascita dell’uomo, all’inizio della civiltà; non è vero che le industrie originarie e più semplici, quelle che richiesero meno preparazione e costo furono le seguenti: raccolta, pascolo, caccia e pesca, dopo le quali, a lungo intervallo, venne l’agricoltura? In seguito quelle quattro industrie primordiali sono state perfezionate e, di più, appropriate: doppia circostanza che non altera l’essenza dei fatti; ma, al contrario, le dà maggiore rilievo. Infatti, la proprietà si è sempre appigliata di preferenza agli oggetti di più immediata utilità, ai valori fatti, per così dire, di modo che si potrebbe tracciare la scala dei valori con i progressi dell’appropriazione.
Nella sua opera Della libertà del lavoro [tr. it., Torino 1859], [Charles] Dunoyer si è positivamente attenuto a questo principio, distinguendo quattro grandi categorie industriali, disposte da lui secondo l’ordine del loro sviluppo, cioè dal minimo al massimo dispendio di lavoro. Sono: l’industria estrattiva, che comprende tutte le funzioni semibarbare citate più su; l’industria commerciale, l’industria manifatturiera, l’industria agricola. Ed è con profonda ragione che il dotto autore ha posto in ultimo luogo l’agricoltura. Dacché, malgrado la sua remota antichità, è positivo che questa industria non ha proceduto d’ugual passo con le altre. Ora la successione delle cose nell’umanità non deve essere determinata in base all’origine, ma secondo l’intero sviluppo. Può darsi che l’industria agraria sia nata prima delle altre, o che tutte siano contemporanee, pure deve assegnarsi l’ultima data a quella che più tardi si è perfezionata. Così la natura medesima delle cose, al pari che i suoi propri bisogni, indicavano al lavoratore l’ordine in cui egli doveva condurre la produzione dei valori che compongono il suo benessere. La nostra legge di proporzionalità è dunque nello stesso tempo fisica e logica, obiettiva e soggettiva; possiede il più alto grado di certezza. Vediamone l’applicazione.
Di tutti i prodotti del lavoro nessuno forse costò più lunghi e pazienti sforzi che il calendario. Pure non ce n’è alcuno il cui godimento possa oggi acquistarsi a più buon mercato e che per conseguenza, secondo le nostre definizioni sia diventato più necessario. Come spiegheremo questo mutamento? Come il calendario così poco utile alle prime orde alle quali era sufficiente l’alternarsi della notte e del giorno, come dell’inverno e dell’estate, è divenuto a lungo andare così indispensabile, così poco dispendioso, così perfetto? Perché per un mirabile accordo, tutti questi epiteti nell’economia sociale sono sinonimi? Come insomma rendere ragione della variabilità di valore del calendario, secondo la nostra legge di proporzione?
Perché il lavoro necessario alla produzione del calendario fosse eseguito, fosse anzi possibile, bisognava che l’uomo trovasse mezzo di avere un po’ di tempo disponibile nelle sue prime occupazioni e in quelle che ne furono immediata conseguenza. In altre parole, bisognava che queste industrie divenissero più produttive o meno costose che non fossero a principio, e ciò è come dire che bisognava risolvere il problema della produzione del calendario a carico delle stesse industrie estrattive.
Suppongo dunque che di un tratto, mediante una felice combinazione di sforzi, mercé la divisione del lavoro, l’uso di qualche macchina, la direzione più intelligente degli agenti naturali, in una parola, con la propria industria, Prometeo trovi mezzo di produrre, in un giorno, tanto di un dato oggetto, quanto prima ne produceva in dieci. Cosa ne seguirà? Il prodotto cangerà di posto sul quadro degli elementi della ricchezza; essendo cresciuta la sua potenza di affinità (oso chiamarla così) per altri prodotti, si troverà in rapporto diminuito il suo valore relativo e invece d’essere valutato per cento, lo sarà per dieci. Ma questo valore sarà pur sempre rigorosamente determinato e il lavoro sarà quello che fisserà la cifra della sua importanza. Il valore dunque varia e la legge dei valori è immutabile; e, meglio ancora, se il valore è suscettibile di variazione, lo è perché è sottoposto a una legge il cui principio è essenzialmente mobile, cioè il lavoro misurato dal tempo.
Il medesimo ragionamento si applica alla produzione del calendario, e di ogni altro valore possibile. Non devo aggiungere come la civiltà, ossia, il fatto sociale dell’accrescimento della ricchezza, moltiplicando i nostri affari, rendendo i minuti del nostro tempo sempre più preziosi, obbligandoci a tenere registro perpetuo e particolareggiato di tutta la nostra vita, abbia reso il calendario una delle cose più necessarie a tutti. È noto per altro che questa scoperta ammirabile ha suscitato, come naturale compimento, una delle più ragguardevoli nostre industrie, l’orologeria.
Qui trova posto naturalmente un’obiezione, la sola che si possa elevare contro la teoria della proporzionalità dei valori.
Say e gli economisti suoi seguaci hanno osservato che essendo il lavoro soggetto anche esso a valutazione, e non distinguendosi, per ciò, da qualsiasi altra merce, si cadeva in un circolo vizioso prendendolo come principio e causa efficiente del valore. Dunque, si concluse, bisogna rivolgersi alla rarità e all’opinione.
Questi economisti, mi permettano che lo dica, hanno dimostrato in ciò una prodigiosa disattenzione. Si dice che il lavoro vale, non in quanto sia una merce, ma in vista dei valori che si suppone siano potenzialmente racchiusi in esso. Il valore del lavoro è una espressione metaforica, un’anticipazione della causa sull’effetto. È una finzione uguale a quella della produttività del capitale. Il lavoro produce, il capitale ha valore; e quando per una specie di ellissi si parla del valore del lavoro, si fa una trasposizione che non contravviene alle regole del discorso, ma che i teorici non devono prendere per una realtà. Il lavoro, come la libertà, l’amore, l’ambizione, il genio è una cosa vaga e indeterminata per sua natura, ma che si definisce qualitativamente mediante il suo oggetto, cioè diventa una realtà grazie al prodotto. Quando dunque si dice, il lavoro di costui vale cinque franchi al giorno, è come dire: il prodotto del lavoro quotidiano di costui vale cinque franchi.
Così l’effetto del lavoro è quello di eliminare continuamente la rarità e l’opinione come elementi costitutivi del valore e, per una necessaria conseguenza, di trasformare le utilità naturali o vaghe (appropriate o non) in utilità misurabili o sociali; da dove risulta che il lavoro è nello stesso tempo una guerra dichiarata alla parsimonia della natura e una cospirazione permanente contro la proprietà. In base a codesta analisi, il valore, considerato nella società che formano naturalmente fra loro, mediante la divisione del lavoro e lo scambio, i produttori, è il rapporto di proporzionalità dei prodotti che compongono la ricchezza, e ciò che chiamasi specialmente valore di un prodotto è una formula che indica, in caratteri monetari, la proporzione di questo prodotto nella ricchezza generale. – L’utilità fonda il valore; il lavoro ne fissa il rapporto, il prezzo è l’espressione nella quale, salvo le aberrazioni che dovremo studiare, si traduce questo rapporto.
Ecco il centro intorno al quale oscillano il valore utile e il valore permutabile, il punto in cui vengono a inabissarsi e sparire, ecco la legge assoluta, immutabile che domina le perturbazioni economiche, i capricci dell’industria e del commercio e che governa il progresso. Ogni sforzo della umanità che pensa e lavora, speculazione individuale e sociale, presa come parte integrante della ricchezza collettiva obbedisce a questa legge. Il destino dell’economia politica era di farla riconoscere, ponendone successivamente tutti i termini contraddittori; lo scopo dell’economia sociale, che chiedo per un istante il permesso di distinguere dall’economia politica, quantunque nel fondo l’una non dovrebbe differire dall’altra, sarà quello di promulgarla e realizzarla dappertutto.
La teoria della misura o della proporzionalità dei valori è, si badi, la teoria stessa dell’uguaglianza. In quel modo infatti che nella società, ove s’è visto essere completa l’identità tra il produttore e il consumatore, il reddito pagato a un ozioso è come un valore gettato nelle fiamme dell’Etna, così il lavoratore al quale si dà un salario eccessivo è come un mietitore al quale si donasse un pane per ogni spiga da lui colta e tutto ciò che gli economisti hanno dichiarato essere consumo improduttivo non è altro in fondo, se non una infrazione alla legge di proporzionalità.
Vedremo in seguito come da questi dati così semplici il genio sociale deduce a poco a poco il sistema ancora oscuro dell’organizzazione del lavoro, del riparto dei salari, del prezzo dei prodotti e della solidarietà universale. L’ordine nella società si stabilisce sui calcoli di una giustizia inesorabile e non già sui sentimenti paradisiaci di fratellanza, di affettuoso ossequio e di amore che tanti onorevoli socialisti si sforzano ora di suscitare nel popolo. Invano, recando l’esempio di Gesù Cristo, essi predicano la necessità e danno l’esempio del sacrificio; l’egoismo è più forte e la legge di severità, la fatalità economica, è solo atta a domarlo. L’entusiasmo umanitario può produrre delle scosse favorevoli al progresso della civiltà; ma queste crisi del sentimento, del pari che le oscillazioni del valore, non avranno altro risultato se non quello di stabilire in modo più forte e assoluto la giustizia. La natura, o la divinità, ha diffidato dei nostri cuori, non ha creduto all’amore dell’uomo per il prossimo e tutto ciò che la scienza scopre intorno alle mire della Provvidenza sulla via della società – lo dico a vergogna della coscienza umana, ma bisogna che la nostra ipocrisia lo sappia – attesta dalla parte di Dio una misantropia profonda. Dio ci aiuta non per sua bontà, ma perché l’ordine è la sua essenza; Dio procura il bene del mondo, non perché lo giudichi degno, ma perché la religione della sua suprema intelligenza ce l’obbliga, e mentre il volgo gli dà il dolce nome di Padre, è impossibile indurre nello storico e nell’economista filosofo l’opinione ch’egli ci ami e ci stimi.
Imitiamo questa sublime indifferenza, questa stoica atarassia di Dio; e poiché il precetto della carità non è mai riuscito a produrre il bene sociale, cerchiamo nella ragione pura le condizioni della concordia e della virtù.
Il valore, concepito come proporzionalità dei prodotti o, in altre parole, come valore costituito, suppone necessariamente e in ugual grado utilità e venalità, indivisibilmente e armonicamente unite. Esso suppone l’utilità, poiché senza questa condizione il prodotto sarebbe sfornito dell’affinità che lo rende permutabile e ne fa un elemento della ricchezza; suppone la venalità, poiché se il prodotto non fosse sempre e a un determinato prezzo disponibile per lo scambio, sarebbe un non valore, sarebbe nulla. Ma nel valore costituito tutte queste proprietà acquistano un significato più largo, più regolare, più vero. L’utilità non è più l’attitudine, per così dire, inerte che hanno le cose di servire ai nostri godimenti e alle nostre esplorazioni. La venalità non è l’esasperazione di una fantasia cieca o di una opinione senza princìpi. Finalmente la variabilità ha cessato di significare un dibattimento pieno di malafede tra l’offerta e la domanda. Tutto ciò è scomparso per far luogo a una idea positiva, normale e determinabile sotto tutte le modificazioni possibili. In forza della costituzione dei valori ogni prodotto, se è lecito porre una tale analogia, è come il nutrimento che, scoperto dall’istinto di alimentazione, poi preparato dall’organo digestivo, entra nella circolazione generale ove si converte, secondo determinate proporzioni, in carne, ossa, liquidi, ecc., e dà al corpo la vita, la forza e la bellezza.
Ora, cosa avviene nell’idea di valore quando dalle nozioni antagoniste di valore utile e di valore di scambio ci innalziamo a quella di valore costituito o di valore assoluto? C’è, per così dire, un incassamento, una compenetrazione reciproca, nella quale i due concetti elementari uncinandosi l’un l’altro come gli atomi di Epicuro, si assorbono l’uno all’altro e spariscono, lasciando al loro posto una composizione dotata, ma a un grado superiore, di tutte le loro proprietà positive e sbarazzata di tutte le loro proprietà negative. Un valore degno di questo nome, come la moneta, gli effetti commerciali di prim’ordine, i titoli di rendita sullo Stato, le azioni di un’impresa solida, non può più né esagerarsi senza ragione né perdere nello scambio. Esso soggiace soltanto alla legge naturale dell’aumento delle specialità industriali e dell’accrescimento dei prodotti. C’è di più: un valore simile non è il risultato di una transazione, cioè di un eclettismo, di un giusto mezzo, o di una mescolanza. È il prodotto di una completa fusione; è un prodotto affatto nuovo e distinto dagli elementi che lo compongono, come l’acqua, prodotta dalla combinazione dell’idrogeno e dell’ossigeno è un corpo a parte, totalmente distinto dai suoi elementi.
La risoluzione di due idee antitetiche in una terza d’ordine superiore è ciò che nel linguaggio delle scuole si chiama sintesi. Questa soltanto dà l’idea positiva e completa, che si ottiene, come s’è visto, con l’affermazione o negazione successiva – il che è lo stesso – di due concetti diametralmente opposti. Da dove si trae questo corollario di capitale importanza così in pratica come in teoria; tutte le volte che nella sfera della morale, della storia o della economia politica, l’analisi ha constatato l’antinomia di una idea, si può affermare a priori che questa antinomia cela una idea più elevata, che tosto o tardi farà la sua apparizione.
Mi rincresce d’insistere tanto su nozioni familiari a tutti i giovani che abbiano appena presa la laurea; ma dovevo entrare in questi particolari, per farli intendere a certi economisti, i quali, a proposito della mia critica della proprietà, hanno ammucchiato dilemmi su dilemmi per provarmi che se io non fossi proprietario sarei necessariamente comunista. E tutto ciò per non sapere cosa siano la tesi, l’antitesi e la sintesi.
L’idea sintetica di valore, come condizione fondamentale d’ordine e di progresso per la società, era stata vagamente intravista da A. Smith, quando, per servirmi delle espressioni di [Adolphe] Blanqui “egli mostrò nel lavoro la misura universale e invariabile dei valori e fece vedere che ogni cosa ha il suo prezzo naturale, verso cui gravita continuamente in mezzo alle fluttuazioni del prezzo corrente, cagionate da circostanze accidentali, estranee al valore venale della cosa stessa”.
Ma questa idea del valore era affatto intuitiva presso Smith; ora la società non muta le proprie abitudini sulla fede d’intuizioni; per decidersi ha bisogno di fatti. Occorreva che l’antinomia s’affermasse in maniera più sensibile e netta; J.-B. Say ne fu l’interprete principale. Però, malgrado gli sforzi d’immaginazione e la spaventosa sottigliezza di questo economista, la definizione di Smith lo domina senza ch’egli se ne accorga e scatta fuori da tutti i suoi ragionamenti.
“Valutare una cosa, dice Say, è dichiarare che essa deve essere stimata tanto quanto un’altra che si indica... Il valore di qualsiasi cosa è vago e arbitrario fino a che esso non sia riconosciuto...”. C’è dunque un modo di riconoscere il valore delle cose, cioè di fissarlo; e siccome questo riconoscimento, codesta fissazione, si fa paragonando le cose tra loro, segue che c’è un carattere comune, un principio, grazie al quale si dichiara che una cosa vale tanto quanto un’altra, o più, o meno.
Say aveva detto prima: “La misura del valore è il valore di un altro prodotto”. Poi essendosi accorto che questa frase era una tautologia, la modificò in questa maniera: “La misura del valore è la quantità di un altro prodotto”, espressione anche essa poco intelligibile. Altrove questo scrittore, ordinariamente così chiaro e sodo, si perde in vane distinzioni: “Si può fare stima del valore delle cose, ma non lo si può misurare, cioè paragonarlo con un titolo invariabile e riconosciuto, perché di codesti titoli non ce n’è. Tutto ciò che si può fare si riduce a valutare le cose paragonandole fra loro”. In altre circostanze distingue i valori reali dai valori relativi. “I primi sono quelli in cui il valore delle cose muta secondo le variazioni delle spese di produzione; i secondi sono quelli in cui il valore delle cose cangia in rapporto al valore delle merci”.
Singolare preoccupazione di un uomo di genio, che non s’accorge come paragonare, valutare, fare stima è lo stesso che misurare; che ogni misura, essendo sempre una comparazione, indica per ciò solo un rapporto vero, se il paragone è fatto bene; che per conseguenza, valore o misura reale e valore o misura di relazione sono cose perfettamente identiche; e che la difficoltà si riduce, non già a trovare un tipo di misura, perché tutte le quantità possono reciprocamente adempiere questo ufficio, bensì a determinare il punto di confronto. In geometria il punto di confronto è l’estensione, e l’unità di misura è ora la divisione del circolo in 360 parti, ora la circonferenza del globo terrestre, ora la dimensione media del braccio della mano, del piede o del pollice dell’uomo. Nella scienza economica, l’abbiamo detto sull’autorità di A. Smith, il punto di vista, sotto il quale tutti i valori si paragonano, è il lavoro; in quanto all’unità di misura, quella adottata in Francia è il franco. Pare impossibile come tanti uomini sensati si arrabattano da quarant’anni per una idea così semplice. Ma no: La comparazione dei valori s’effettua senza che tra essi vi sia alcun punto di confronto e senza unità di misura; – ecco ciò che, pur di non accettare la teoria rivoluzionaria dell’uguaglianza, gli economisti del secolo decimonono hanno deciso di sostenere nei confronti di tutti e contro tutti. Che ne diranno i posteri?
Io ora cercherò di mostrare, con esempi palmari, che l’idea di misura o proporzione dei valori, necessaria in teoria, si è realizzata e si realizza sempre in pratica.
3. – Applicazione della legge di proporzionalità dei valori
Ogni prodotto è un segno rappresentativo del lavoro.
Ogni prodotto può per conseguenza essere cambiato con un altro e la pratica universale lo attesta.
Ma sopprimete il lavoro, non vi rimangono altro che delle utilità più o meno grandi, le quali non essendo dotate di alcun carattere economico, di alcun segno umano, sono reciprocamente incommensurabili, cioè logicamente non permutabili.
Il denaro, come qualsiasi altra merce, è segno rappresentativo del lavoro: a questo titolo ha potuto servire come mezzo comune di valutazione e intermediario nelle transazioni. Però la funzione speciale, attribuita dall’uso ai metalli preziosi, di servire come agenti nel commercio è puramente convenzionale, e qualunque altra merce potrebbe, forse meno comodamente, ma in modo del pari autentica, adempiere questo ufficio: gli economisti lo ammettono e si reca in proposito più di un esempio. Quale è dunque il motivo della preferenza generalmente accordata ai metalli per servire di moneta e come si spiega codesta specialità di funzione del denaro, che non ha riscontro nell’economia politica? Dacché ogni cosa unica e senza pari nella sua specie è per ciò solo di più difficile intelligenza, spesso anche non la s’intende affatto. Ora è possibile ristabilire la serie da dove sembra distaccata la moneta, e per conseguenza ricondurre questa al suo vero principio?
Nel trattare tale questione gli economisti, secondo la loro abitudine, sono usciti fuori del dominio della loro scienza: si sono occupati di fisica, di meccanica, di storia, ecc.; hanno parlato di tutto e non hanno risposto. I metalli preziosi, hanno detto, a cagione della loro rarità, densità, incorruttibilità offrivano per servire come moneta vantaggi che si era ben lungi dal rinvenire, al medesimo grado, nelle altre merci. Insomma, gli economisti, invece di rispondere alla questione economica che ad essi era presentata, si sono messi a trattare la questione tecnica. Hanno fatto valere benissimo la convenienza meccanica dell’oro e dell’argento a fungere da moneta, ma ciò che nessuno ha visto né compreso è la ragione economica che ha determinato in favore dei metalli preziosi il privilegio di cui godono.
Ora, quel che nessuno ha notato è che di tutte le merci l’oro e l’argento sono le prime il cui valore sia stato costituito. Nel periodo patriarcale l’oro e l’argento si mercanteggiano ancora e si permutano in verghe, ma già con una tendenza visibile a predominare e con marcata preferenza. A poco a poco i sovrani se ne impadroniscono e vi appongono il loro suggello e da questa consacrazione sovrana nasce la moneta, cioè la merce per eccellenza, quella che nonostante tutte le scosse del commercio conserva un valore proporzionale determinato e si fa accettare in qualsiasi pagamento.
Ciò che infatti distingue la moneta non è la durezza del metallo, la quale è minore di quella dell’acciaio; né la sua utilità che è di molto inferiore a quella del grano, del ferro, del carbone fossile e di una quantità di altre sostanze reputate vili rispetto all’oro; non sono né la rarità, né la densità, potendo l’una e l’altra essere sostituite sia con la lavorazione di altre materie, sia come avviene oggi, con banconote che rappresenta mucchi enormi di ferro o di rame. Il carattere distintivo dell’oro e dell’argento viene, lo ripeto, da ciò che, grazie alle loro proprietà metalliche, alle difficoltà della loro produzione e soprattutto all’intervento dell’autorità pubblica, essi hanno prontamente acquistato, come merci: la fissità e l’autenticità.
Dico dunque che il valore dell’oro e dell’argento e segnatamente della parte che entra nella fabbricazione delle monete, benché non sia forse calcolato ancora in modo rigoroso, non ha però più nulla di arbitrario. E aggiungo che non è più suscettibile di deprezzamento, come accade per gli altri valori; sebbene possa variare continuamente. Tutto lo spreco di ragionamenti e d’erudizione che s’è fatto per provare, adducendo l’esempio del denaro, che il valore è cosa essenzialmente indeterminabile, è riuscito soltanto a creare una massa di paralogismi provenienti da una falsa idea della questione, ab ignorantia elenchi.
Filippo I re di Francia mischiò alla lira tornese di Carlomagno un terzo di lega, immaginandosi che, avendo egli solo il monopolio della fabbricazione delle monete, gli fosse lecito fare quel che fa ogni commerciante che abbia il monopolio di un prodotto. Cos’era infatti l’alterazione delle monete tanto rimproverata a Filippo e ai suoi successori? se non un ragionamento giustissimo dal punto di vista della consuetudine commerciale, ma falsissimo nella scienza economica, ed è che essendo l’offerta e la domanda regola dei valori, si possa, o determinando una scarsezza fittizia, o accaparrando la fabbricazione, far salire il pregio e quindi il valore delle cose e che ciò sia vero così dell’oro e dell’argento com’è del grano, del vino, dell’olio, del tabacco. Pure, non appena fu sospettata la frode di Filippo, la sua moneta fu ridotta al giusto valore ed egli stesso perdette quanto aveva creduto di guadagnare sui propri sudditi. Lo stesso accadde in tutti i tentativi analoghi. Da dove veniva l’errore?
Dicono gli economisti, che mediante la falsificazione delle monete la quantità dell’oro e dell’argento non è in realtà né scemata né accresciuta e però la proporzione di questi modelli con le altre merci non si è mutata, onde non è in facoltà del sovrano di fare che valga quattro ciò che nello Stato valeva due. Si consideri altresì che se invece di alterare le monete, il re avesse potuto raddoppiarne la massa, il valore permutabile dell’oro e dell’argento sarebbe ribassato di metà, sempre per questa ragione di proporzionalità e d’equilibrio. L’alterazione delle monete era dunque da parte del re un prestito forzato, o meglio una bancarotta, una truffa.
Benissimo: gli economisti spiegano egregiamente, quando vogliono, la teoria della misura dei valori; basta per ciò condurli a discorrere della moneta. Come dunque non vedono che la moneta è la legge scritta del commercio, il tipo dello scambio, il primo termine della lunga catena di creazioni che tutte, sotto nome di merci, devono ricevere la sanzione sociale e diventare, se non di fatto, almeno di diritto accettabili, come la moneta, su qualunque mercato?
“La moneta, dice assai bene [Marie] Augier, non può funzionare come scala per constatare le contrattazioni stipulate, né come buono strumento dello scambio se non in quanto sempre più il suo valore s’approssima all’ideale della permanenza; giacché essa non altro scambia o compra se non il valore suo proprio”. [Du Crédit public et de son histoire, Paris 1842]. Traduciamo in una formula generale questa osservazione giudiziosissima.
Il lavoro diviene garanzia di benessere e d’uguaglianza quando il prodotto di ciascun individuo è in proporzione con la massa, non potendo esso scambiare o comprare altro valore che non sia uguale al suo proprio valore.
Non è strano che si prenda così la difesa del commercio aggiotatore e infedele e che nello stesso tempo si gridi contro il tentativo di un monarca falso monetario, il quale infine applica al denaro il principio fondamentale dell’economia politica, quello della instabilità arbitraria dei valori? Metta in vendita la manifattura 750 grammi di tabacco per un chilogrammo, e gli economisti grideranno al furto; – ma se essa, usando del suo privilegio aumenta di due franchi il prezzo del chilogrammo diranno che il tabacco è caro, ma non troveranno nulla che contraddica ai princìpi. Che imbroglio è l’economia politica!
Vi è dunque nella monetazione dell’oro e dell’argento qualcosa di più di quanto hanno detto gli economisti: c’è la consacrazione della legge di proporzionalità, il primo atto di costituzione dei valori. L’umanità opera in tutto per infinite gradazioni; dopo avere compreso che tutti i prodotti del lavoro devono essere sottoposti a una misura proporzionale che li rende tutti ugualmente permutabili, essa comincia col dare questo carattere di permutabilità assoluta a un prodotto speciale che diverrà tipo e patrono di tutti gli altri. Così per elevare i suoi membri alla libertà e all’uguaglianza, l’umanità comincia col creare i re. Il popolo ha il sentimento confuso di questo cammino provvidenziale, quando nei sogni di fortuna e nelle leggende parla sempre d’oro e di regno e i filosofi hanno reso omaggio alla ragione universale quando nelle loro omelie cosiddette morali e nelle loro utopie d’ordinamento sociale tuonano con pari fracasso contro l’oro e la tirannia. Auri sacra fames! [Virgilio]. Oro maledetto! esclama buffonescamente un comunista. Tanto varrebbe dire: maledetto frumento, maledetta vigna, maledetti montoni, poiché, al pari dell’oro e dell’argento, ogni valore commerciale deve conseguire una esatta e rigorosa determinazione. L’impresa è cominciata da lungo tempo: oggi avanza a vista d’occhio.
Passiamo ad altre considerazioni.
Un assioma generalmente ammesso dagli economisti è che ogni lavoro deve lasciare un’eccedenza.
Questa proposizione è per me di una verità assoluta e universale; è il corollario della legge di proporzionalità, che può considerarsi come il riepilogo di tutta la scienza economica. Ma, mi scusino gli economisti, il principio che ogni lavoro deve lasciare un’eccedenza non ha senso nella loro teoria e non è suscettibile di dimostrazione. Come mai se l’offerta e la domanda sono l’unica regola dei valori si può riconoscere ciò che eccede e ciò che basta? Se né il prezzo di costo né il prezzo di vendita né il salario possono essere matematicamente determinati, com’è possibile concepire un sovrappiù, un profitto? La consuetudine commerciale ci ha dato, insieme al nome, l’idea del profitto; e siccome noi siamo politicamente uguali, si conclude che ogni cittadino ha un eguale diritto a realizzare guadagni nella sua industria personale. Ma le operazioni del commercio sono essenzialmente irregolari e s’è provato perentoriamente che l’attività commerciale è un prelevamento arbitrario e forzato del produttore sul consumatore, in una parola, uno spostamento per non dire altro. Ciò si vedrebbe ben presto se fosse possibile paragonare la cifra totale dei disavanzi di ogni anno con l’ammontare dei ricavi. Nel senso dell’economia politica il principio che ogni lavoro deve lasciare un’eccedenza, non è altro se non la consacrazione del diritto costituzionale che tutti abbiamo acquistato con la rivoluzione, di rubare al prossimo.
La legge di proporzionalità dei valori può sola rendere ragione di questo problema. Io prenderò la questione più dall’alto; è abbastanza grave perché la si tratti con l’ampiezza che merita.
La maggior parte dei filosofi, così come dei filologi, vedono nella società nulla più che un essere razionale, e per dire meglio un nome astratto che serve a designare una collettività d’uomini. È un pregiudizio che abbiamo acquistato sin dall’infanzia con le prime lezioni di grammatica quello di credere che i nomi collettivi, i nomi di genere e di specie non esprimono realtà di sorta. Ci sarebbe molto da dire in proposito, ma non voglio uscire dal mio soggetto. Per il vero economista la società è un essere vivente dotato di una propria attività e intelligenza, retto da leggi speciali che l’osservazione sola scopre e la cui esistenza si manifesta non sotto una forma fisica ma col concerto e l’intima solidarietà di tutti i suoi membri. Così, quando prima, sotto l’emblema di un Dio della favola facevamo l’allegoria della società, il nostro linguaggio in fondo non aveva nulla di metafisico, noi davamo un nome all’essere sociale, unità organica e sintetica. Agli occhi di chiunque ha riflettuto sulle leggi del lavoro e dello scambio (lascio in disparte ogni altra considerazione) la realtà, la personalità dell’uomo collettivo, è tanto certa quanto lo è la realtà e la personalità dell’uomo individuo. Tutta la differenza consiste nel fatto che questo si presenta ai sensi sotto l’aspetto di un organismo le cui parti sono materialmente coerenti, circostanza che nella società non esiste. Ma l’intelligenza, la spontaneità, lo sviluppo, la vita, tutto quanto costituisce al più alto grado la realtà dell’essere è così essenziale alla società come all’uomo; e di là deriva che il governo della società è scienza, cioè studio di rapporti naturali e non arte cioè talento e arbitrio. E di là viene che ogni società declina quando passa nelle mani degli ideologi.
Il principio: ogni lavoro deve lasciare un’eccedenza, indimostrabile nell’economia politica, cioè nella tradizione sistematica della proprietà, è uno di quelli che meglio attestano la realtà della persona collettiva; come vedremo, questo principio è vero per gli individui appunto perché emana dalla società che conferisce loro il beneficio delle sue leggi.
Veniamo ai fatti. Si è osservato che le imprese ferroviarie sono fonti di ricchezza più per lo Stato che per gl’imprenditori. L’osservazione è giusta; e si sarebbe dovuto aggiungere che s’applica non solo alle ferrovie, ma a tutta l’industria. Però questo fenomeno che deriva essenzialmente dalla legge della proporzionalità dei valori e dell’identità assoluta della produzione e del consumo, è inesplicabile con la nozione comune del valore utile e del valore di scambio.
Il prezzo medio del trasporto delle merci sui carri è di 18 centesimi per tonnellata e chilometro, presa e collocata in magazzino la merce. Si è calcolato che a tal prezzo, una impresa ordinaria di ferrovia non piglierebbe il 10% di lucro netto, risultato presso a poco uguale a quello di una impresa di trasporti stradali. Ma ammettiamo che la celerità del trasporto ferroviario stia a quello sui carri come 4 sta ad 1; siccome nella società il tempo è valore, così, a parità di prezzo, la ferrovia avrà sul trasporto con carri un vantaggio del 400%. Pure questo enorme vantaggio, realissimo per la società, non lo è nel modo stesso per l’impresa ferroviaria, la quale, mentre dà al pubblico un vantaggio di 400%, non prende per sé che il 10%. Supponiamo difatti, per rendere la cosa ancora più evidente, che la ferrovia porti la propria tariffa a 25 centesimi rimanendo a 18 quella dei vetturali; essa perderà, immantinente, tutte le consegne; spedizionieri, destinatari, ognuno tornerà al procaccia, al carretto magari. La locomotiva sarebbe lasciata in abbandono e il vantaggio sociale del 400% sacrificato alla perdita del 33%.
La ragione di ciò è facile da cogliere: il vantaggio che risulta dalla celerità della ferrovia è sociale e ogni individuo non vi partecipa se non in proporzione minima (badiamo che qui si parla del trasporto di merci), mentre la perdita colpisce direttamente e personalmente il consumatore. Un beneficio sociale pari a 400 rappresenta, per l’individuo, quando la società fosse composta soltanto di un milione di uomini, quattro diecimillesimi: mentre una perdita del 33% per il consumatore, farebbe un deficit sociale di trentatre milioni. L’interesse privato e l’interesse collettivo, così divergenti a primo aspetto, sono dunque del tutto identici e adeguati; e questo esempio può ormai servire a far comprendere come nella scienza economica tutti gl’interessi si conciliano.
Dunque perché la società consegua il vantaggio supposto, bisogna necessariamente che la tariffa ferroviaria non oltrepassi il prezzo del trasporto con i carri o lo superi di pochissimo.
Ma perché codesta condizione s’adempia, o, in altri termini, perché la ferrovia sia commercialmente possibile, è indispensabile che la materia trasportabile sia abbastanza abbondante per coprire almeno l’interesse del capitale impegnato e le spese di manutenzione della linea. Sicché la prima condizione d’esistenza per una ferrovia è una circolazione considerevole, il che suppone una produzione più considerevole ancora, una grande massa di scambi. Ma produzione, circolazione, scambi, non sono cose che si improvvisano; poi le diverse forme del lavoro non si sviluppano isolatamente e l’una dall’altra indipendente; il loro progresso è, per necessità, connesso, solidale, proporzionato. L’antagonismo può esistere tra gl’industriali; l’azione sociale è, loro malgrado, una, convergente, armonica, personale insomma. Vi è quindi un giorno assegnato per la creazione dei grandi strumenti del lavoro ed è quello in cui il consumo generale può sostenerne l’impiego, cioè – giacché tutte queste proposizioni sono sostanzialmente identiche – quello in cui il lavoro circostante può alimentare le nuove macchine. Anticipare l’ora segnata dal progresso del lavoro, sarebbe imitare quel pazzo che per andare da Lione a Marsiglia fece allestire una nave per sé solo.
Chiariti questi punti, nulla c’è di più facile che spiegare come il lavoro debba lasciare un’eccedenza a ciascun produttore.
Dapprima mettiamoci dal punto di vista sociale; Prometeo, uscendo dal seno della natura, si desta alla vita in una inerzia piena d’incanto; che però diverrebbe ben presto miseria e tortura se non s’affrettasse a trarsene fuori col lavoro. In questo ozio primitivo, essendo nullo il prodotto di Prometeo, il suo benessere è identico a quello del bruto e si può rappresentare con zero.
Prometeo si pone all’opera e nella sua prima giornata, prima giornata della seconda creazione, il prodotto di Prometeo, cioè la sua ricchezza, il suo benessere è uguale a 10.
Nel secondo giorno Prometeo divide il suo lavoro e il suo prodotto diventa uguale a 100.
Nel terzo giorno e in ciascuno dei seguenti Prometeo inventa macchine, scopre utilità nei corpi, nuove forze nella natura; il campo della sua esistenza si estende dal dominio dei sensi alla sfera dei sentimenti morali e della intelligenza, e a ogni passo che fa la sua industria, la cifra della sua produzione s’ingrossa e gli esprime un accrescimento di felicità. E poiché per lui consumare significa produrre, è evidente che ogni giornata di consumo, esaurendo solo il prodotto del dì precedente, lascia un’eccedenza di prodotto per l’indomani.
Ma notiamo ancora e soprattutto questo fatto capitale che il benessere dell’uomo è in ragione diretta dell’intensità del lavoro o della molteplicità delle industrie, in modo che l’accrescimento della ricchezza e l’accrescimento della fatica sono correlativi e paralleli.
Dire ora che ogni individuo partecipa a queste condizioni generali dello sviluppo collettivo, sarebbe affermare una verità che, per essere evidentissima, potrebbe sembrare scipita. Consideriamo piuttosto le due forme del consumo nella società.
La società, al pari dell’individuo, ha dapprima gli oggetti di consumo personale, oggetti dei quali il tempo le fa sentire a poco a poco il bisogno e i suoi istinti misteriosi le impongono di creare. Si ebbe così nel Medioevo un momento decisivo in cui la costruzione dei palazzi comunali e delle cattedrali divenne una passione violenta che bisognò soddisfare a ogni costo; ne dipendeva l’esistenza del comune. Sicurezza e forza, ordine pubblico, accentramento, nazionalità, patria, indipendenza, ecco ciò che compone la vita della società, l’insieme delle sue facoltà mentali; ecco i sentimenti che dovevano trovare la loro espressione e i loro simboli. Tale era stata in altri tempi la destinazione del Tempio di Gerusalemme, vero palladio della nazione giudaica, come il Tempio di Giove Capitolino a Roma. Più tardi, dopo il palazzo municipale e il duomo, organi per dir così, dell’accentramento e del progresso, vennero gli altri lavori di utilità pubblica, ponti, teatri, scuole, ospedali, strade, ecc.
Essendo i monumenti di pubblica utilità d’uso essenzialmente comune e per conseguenza gratuiti, la società recupera le sue anticipazioni con i vantaggi politici e morali che risultano da queste grandi opere e, dando un pegno di sicurezza al lavoro e un ideale agli animi, imprimono un nuovo impulso all’industria e alle arti.
Ma avviene altrimenti con gli oggetti di consumo domestico che soli entrano nella categoria dello scambio: i quali non sono producibili se non secondo le condizioni di mutualità che ne permettono il consumo, cioè rimborso immediato e con lucro ai produttori. Abbiamo illustrato sufficientemente queste condizioni nella teoria della proporzionalità dei valori che potrebbe chiamarsi egualmente teoria della progressiva riduzione dei prezzi di costo.
Ho dimostrato con la teoria e con i fatti il principio che ogni lavoro deve lasciare un’eccedenza; ma questo principio, la cui certezza è pari a quella di una proposizione di aritmetica, è ancor lungi dall’adempiersi per tutti. Mentre col progresso dell’industria collettiva ogni giornata di lavoro individuale ottiene un prodotto sempre maggiore, onde, per necessaria conseguenza, il lavoratore, col medesimo salario, dovrebbe divenire ogni dì più ricco, pure esistono nella società classi che guadagnano e altre che deperiscono; lavoratori con doppio, triplo e centuplo salario e altri in deficit; ovunque insomma gente che gode e gente che soffre e per una mostruosa divisione delle facoltà industriali, individui che consumano e non producono. Il riparto del benessere segue tutti i movimenti del valore e li riproduce in miseria e lusso, con dispersioni di energia spaventose. Ma dappertutto altresì il progresso della ricchezza, cioè la proporzionalità dei valori è la legge dominante e quando gli economisti oppongono ai lamenti del partito sociale l’accrescimento progressivo della fortuna pubblica e i sollievi recati anche alla condizione delle classi più sfortunate, proclamano, senza accorgersene, una verità che è la condanna delle loro teorie.
Scongiuro gli economisti di farsi una domanda nel silenzio del loro cuore, lungi dai pregiudizi che li turbano e senza riguardo agli impieghi che occupano o aspettano, agli interessi che servono, ai suffragi che ambiscono, alle distinzioni nelle quali la loro vanità si culla; dicano se fino a oggi il principio, che ogni lavoro deve lasciare un’eccedenza, era loro comparso dinanzi con questa catena di preliminari e di conseguenze da noi sollevate e se con queste parole abbiamo inteso esprimere qualcosa d’altro che il diritto di fare l’aggiotaggio su valori, manipolando l’offerta e la domanda; se non sia vero che affermano nello stesso tempo, da una parte il progresso della ricchezza e del benessere e per conseguenza la misura dei valori, e dall’altra l’arbitrio delle transazioni commerciali e l’incommensurabilità dei valori, cioè quanto vi è di più contraddittorio. Non è forse in virtù di questa contraddizione che si ode ripetere continuamente nei corsi e si legge nei libri di economia politica, quest’assurda ipotesi: se il prezzo di tutte le cose fosse raddoppiato...? Come se il prezzo di tutte le cose non fosse la proporzione delle cose, e si potesse raddoppiare una proporzione, un rapporto, una legge! Non è insomma in virtù dell’abitudine sistematica e anormale del regime di proprietà, difesa dell’economia politica, che ciascuno nel commercio, nell’industria, nelle arti e nello Stato, sotto pretesto di servizi resi alla società, tende senza posa ad esagerare la propria importanza, sollecita ricompense, sovvenzioni, grasse pensioni e lauti emolumenti, come se la retribuzione d’ogni servizio non fosse necessariamente segnata dall’ammontare del suo conto? Perché gli economisti non diffondono con tutte le loro forze questa verità così semplice e luminosa: “il lavoro di ciascun uomo non può comprare altro fuori del valore che esso racchiude e questo valore si proporziona ai servizi di tutti gli altri lavoratori”, se, com’essi mostrano di credere, il lavoro d’ognuno deve lasciare un’eccedenza?...
Ma qui si presenta un’ultima considerazione che esporrò brevemente.
J.-B. Say, che fra tutti gli economisti ha insistito di più sulla indeterminabilità assoluta del valore, si è anche affannato per rovesciare questa proporzione. Egli è, se non m’inganno, l’autore della formula: Ogni prodotto vale ciò che costa; o, ciò che è lo stesso, i prodotti si comprano con prodotti. Questo aforisma, pieno di conseguenze favorevoli al principio d’uguaglianza, è stato contraddetto poi da altri economisti; esamineremo l’una dopo l’altra, l’affermazione e la negazione.
Quando io dico: ogni prodotto vale i prodotti che è costato, ciò significa che ogni prodotto è un’unità collettiva che sotto una forma novella aggruppa un certo numero di altri prodotti consumati in dosi diverse. Da dove segue che i prodotti dell’industria umana gli uni relativamente agli altri generi e specie formano una serie dal semplice al composto, secondo il numero e la proporzione degli elementi, tutti tra loro equivalenti, che costituiscono ciascun prodotto. Poco importa ora che questa serie, del pari che l’equivalenza dei suoi elementi, siano più o meno esattamente espresse nella pratica dell’equilibrio dei salari o delle fortune; si tratta innanzi tutto del rapporto nelle cose, della legge economica. Perché qui, come sempre, l’idea genera dapprima e spontaneamente il fatto, il quale riconosciuto poi dal pensiero che gli ha dato esistenza, si rettifica a poco a poco e si definisce conformemente al suo principio. Il commercio libero e di concorrenza è una lunga operazione di raddrizzamento che tende a fare risaltare la proporzionalità dei valori, aspettando che il diritto civile la consacri e la prenda per norma dello stato delle persone. Dico dunque che il principio di Say: Ogni prodotto vale ciò che costa, indica una serie di produzione umana analoga alla serie animale e alla vegetale e in cui le unità elementari (giornate di lavoro) sono reputate uguali. In questo modo, l’economia politica afferma, mediante una contraddizione, ciò che né Platone né Rousseau né alcun pubblicista antico e moderno hanno creduto possibile, l’uguaglianza delle condizioni e delle fortune.
Prometeo è sempre via via agricoltore, vignaiolo, panettiere, tessitore. Qualunque mestiere faccia, non lavorando che per se stesso, compra quel che consuma (i suoi prodotti) con una sola e medesima moneta (i suoi prodotti) la cui unità metrica è necessariamente la sua giornata di lavoro. Vero è che il lavoro stesso è suscettibile di variazione: Prometeo non è sempre ugualmente disposto, e da un momento all’altro il suo ardore, la sua fecondità crescono e scemano. Ma, come ogni cosa soggetta a variazioni, il lavoro ha la sua media e questo ci autorizza a dire che in fin dei conti la giornata di lavoro paga la giornata di lavoro, né più né meno.
È vero che, se si confrontano i prodotti di una certa epoca della vita sociale a quelli di un’altra, la centomilionesima giornata del genere umano darà un risultato di gran lunga superiore a quello della prima; ma è anche il caso di dire che la vita dell’essere collettivo – a somiglianza dell’individuale – non può essere scissa; che se i giorni non si somigliano, sono però indissolubilmente uniti e che nella totalità dell’esistenza, la pena e il piacere sono ad essi comuni. Se dunque il sarto, per fare il valore di una giornata, consuma dieci volte la giornata del tessitore, è come se il tessitore desse dieci giorni della propria vita per un giorno della vita del sarto. È precisamente ciò che accade quando un contadino paga 12 franchi al notaio per uno scritto la cui redazione costa un’ora, e questa ineguaglianza, questa iniquità negli scambi è la più potente causa di miseria che i socialisti abbiano svelato e che gli economisti confessano sottovoce, aspettando che un segno del padrone li autorizzi a riconoscerla a voce alta.
Qualsiasi errore nella giustizia commutativa, è l’immolazione del lavoratore, la trasfusione del sangue di un uomo nel corpo di un altro uomo... Non c’è da sgomentarsi; non ho nessuna intenzione di fulminare con una irritante filippica la proprietà; ci penso tanto meno che, secondo i miei princìpi, l’umanità non s’inganna mai; che costituendosi dapprima sul diritto di proprietà, essa non ha fatto altro se non porre uno dei princìpi della sua futura organizzazione e che una volta abbattuta la preponderanza della proprietà, ciò che rimane da fare è ricondurre all’unità codesta famosa antitesi. Tutto quanto mi si potrebbe obiettare in favore della proprietà lo so al pari di qualunque dei miei censori, ai quali chiedo la grazia di mostrare un po’ di cuore quando sono a zero di dialettica. Come sarebbero valutabili ricchezze di cui non fosse modulo il lavoro? E se è il lavoro che crea la ricchezza e legittima la proprietà, come spiegare il consumo dell’ozioso? Come mai si può ammettere la lealtà di un sistema di riparto nel quale il prodotto vale, secondo le persone, ora più ora meno di quel che costa?
Le idee di Say conducevano a una legge agraria, per cui il partito conservatore s’è affrettato a protestare contro di essa. “La prima fonte della ricchezza è il lavoro”, aveva detto Pellegrino Rossi. “Proclamando questo grande principio, la scuola industriale ha messo in evidenza non solo un principio economico, ma quello tra i fatti sociali che in mano a un abile storico diventa la più sicura guida per accompagnare la specie umana nel suo cammino e nelle sue dimore sulla faccia della terra”.
Perché, dopo aver posto nel suo corso queste parole così profonde, Rossi ha creduto di doverle ritrattare più tardi in una rivista, compromettendo gratuitamente la sua dignità di filosofo e d’economista?
“Dite che la ricchezza non è se non il risultato del lavoro; affermate che in ogni caso il lavoro è la misura del lavoro, il regolatore dei prezzi, e per sfuggire in un modo o nell’altro alle obiezioni che d’ogni parte suscitano codeste dottrine, quali incomplete, quali assolute, voi sarete condotti di buono o mal grado a generalizzare la nozione del lavoro e a sostituire all’analisi una sintesi perfettamente erronea”.
Mi duole che un uomo come Rossi mi suggerisca un pensiero così triste, ma il fatto è che, leggendo il brano riferito devo dire: la scienza e la verità non sono più nulla; ciò che si adora adesso è la bottega e, dopo la bottega, il costituzionalismo disperato che la rappresenta. A chi dunque pensa d’indirizzarsi Rossi? Vuole il lavoro o qualcosa d’altro? Vuole analisi o sintesi? Vuole tutte codeste cose insieme? Scelga; la conclusione gli sarà inevitabilmente contraria.
Se il lavoro è la fonte d’ogni ricchezza, se è la più sicura guida per intendere lo svolgimento storico delle istituzioni umane sulla faccia del globo, come mai l’uguaglianza di riparto, l’uguaglianza secondo la misura del lavoro non è una legge?
Se, al contrario, vi sono ricchezze che non derivano dal lavoro, in che modo il possesso di tali ricchezze è un privilegio? Qual è la legittimità del monopolio? Venga fuori una buona volta questa teoria del diritto di consumo improduttivo, questa giurisprudenza del buon piacere, questa religione dell’ozio, sacra prerogativa di una casta di eletti!
Che significa ora l’appello all’analisi dai falsi giudizi della sintesi? Questi vocaboli di metafisica non sono buoni che a darla ad intendere ai gonzi, i quali non pensano che la medesima proposizione può essere resa indifferentemente e a volontà sintetica o analitica. Il lavoro è principio del valore e fonte della ricchezza. Proposizione analitica, come la vuole Rossi, poiché questa proposizione è il riassunto di una analisi nella quale si dimostra esservi identità tra la nozione primitiva di lavoro e le nozioni susseguenti di prodotto, valore, capitale, ricchezza, ecc. Pure vediamo che Rossi rigetta la dottrina che risulta da codesta analisi. – Il lavoro, il capitale, la terra sono le fonti della ricchezza. Proposizione sintetica, come cioè a Rossi non garbano: difatti, la ricchezza è qui considerata come nozione generale, che si produce sotto tre specie distinte, ma non identiche. E nondimeno la dottrina così formulata è quella che Rossi preferisce. Piace ora a Rossi che noi rendiamo analitica la sua teoria del monopolio e sintetica la nostra del lavoro? Posso dargli questa soddisfazione... Ma mi vergognerei di prolungare tanto un simile scherzo con un uomo così grave. Rossi conosce meglio d’ogni altra persona che l’analisi e la sintesi nulla provano di per sé sole e che ciò che soprattutto importa, come diceva Bacone, è di fare confronti esatti ed enumerazioni complete.
Giacché Rossi era in vena di astrazioni, poteva dire alla falange di economisti che raccoglie con tanto rispetto le più piccole parole cadute dalla sua bocca:
“Il capitale è la materia della ricchezza, come l’argento è la materia della moneta, come il grano è la materia del pane e, risalendo la serie fino al principio, come la terra, l’acqua, il fuoco, l’atmosfera, sono la materia di tutti i nostri prodotti. Ma è il lavoro, il solo lavoro che crea successivamente qualsiasi utilità data a queste materie e le trasforma per conseguenza in capitali e in ricchezze. Il capitale è lavoro, cioè intelligenza e vita realizzate, come gli animali e le piante sono realizzazioni dell’anima universale, come i capolavori di Omero, di Raffaello e di Rossini sono l’espressione delle loro idee e dei loro sentimenti. Il valore è la proporzione secondo cui tutte le realizzazioni dell’anima umana devono bilanciarsi per produrre un complesso armonico, che, essendo ricchezza, genera per noi il benessere, o piuttosto è il segno, non l’oggetto della nostra felicità. La proposizione non c’è misura del valore è illogica e contraddittoria; ciò risulta dai motivi stessi sui quali si è preteso di stabilirla. La proposizione: il lavoro è il principio di proporzionalità dei valori, non soltanto è vera perché risulta da un’analisi irrefragabile, ma è la meta del progresso, la condizione e la forma del progresso sociale, il principio e la fine dell’economia politica. Da questa proposizione e dai suoi corollari: ogni prodotto vale ciò che costa e i prodotti si comperano con i prodotti; si deduce il dogma dell’eguaglianza delle condizioni. L’idea del valore socialmente costituito, ossia della proporzionalità dei prodotti, serve inoltre a spiegare: a) come una invenzione meccanica, malgrado il privilegio che crea temporaneamente e le perturbazioni che eccita, finisce sempre per produrre un miglioramento generale; – b) come la scoperta di un procedimento economico non possa mai dare all’inventore un profitto uguale a quello che procura alla società; – c) come, mediante una serie d’oscillazioni tra l’offerta e la domanda, il valore di qualsiasi prodotto tenta costantemente a livellarsi col prezzo di costo e con i bisogni del consumo e quindi a stabilirsi in maniera fissa e positiva; – d) come aumentandosi di continuo la massa delle cose consumabili con la produzione collettiva e per conseguenza, essendo la giornata di lavoro sempre meglio ricompensata, il lavoro debba lasciare un’eccedenza a ciascun produttore; – e) come il da fare, lungi dal diminuire, per il progresso industriale, cresca sempre in qualità e quantità, cioè in intensità e difficoltà per tutte le industrie; – f) come il valore sociale elimini continuamente i valori fittizi o, in altre parole, come l’industria operi la socializzazione del capitale e della proprietà; – g) finalmente come il riparto dei prodotti, facendosi regolare in proporzione e misura della mutua garanzia prodotta dalla costituzione dei valori, spinge la società all’uguaglianza delle condizioni e delle fortune. Finalmente, implicando la teoria della costituzione successiva di tutti i valori commerciali un progresso infinito del lavoro, della ricchezza e del benessere, il destino economico della società ci è rivelato: Produrre senza tregua, con la minima quantità di lavoro per ogni prodotto, la massima quantità e varietà possibile di valori in modo da conseguire per ogni individuo la maggior somma di benessere fisico, morale e intellettuale e per la specie la più alta perfezione e una infinita gloria”.
Ora che abbiamo determinato, non senza fatica, il senso della questione proposta dall’Accademia delle Scienze Morali riguardo alle oscillazioni del profitto e del salario, è tempo di affrontare la parte essenziale del nostro compito.
Ovunque il lavoro non è stato socializzato, cioè ovunque il valore non s’è determinato sinteticamente, vi è perturbazione e slealtà negli scambi, guerra di astuzie e di tranelli, impaccio alla produzione, alla circolazione, al consumo, fatica improduttiva, mancanza di garanzie e di solidarietà, indigenza e lusso, ma nel tempo stesso rapina, sforzo del genio sociale per conquistare la giustizia e tendenza costante verso l’associazione e l’ordine. L’economia politica non è altro se non la storia di questa grande lotta. Da una parte infatti l’economia politica, in quanto consacra e pretende eternare le anomalie del valore e le prerogative dell’egoismo, è in realtà la teoria della sventura e l’organizzazione della miseria; ma, in quanto espone i mezzi inventati dalla civiltà per vincere il pauperismo, sebbene questi mezzi siano tornati sempre a vantaggio esclusivo del monopolio, l’economia politica è il preambolo dell’organizzazione della ricchezza.
È importante dunque riprendere lo studio dei fatti e delle abitudini economiche, trarne lo spirito e formularne la filosofia. Senza di ciò nessuna intelligenza del cammino della società è possibile, e nessuna riforma si può tentare. L’errore del socialismo è stato sinora quello di perpetuare l’estasi religiosa, lanciandosi in un fantastico avvenire invece di cogliere la realtà che lo schiaccia; come il torto degli economisti sta nel vedere in ogni fatto compiuto un decreto di prescrizione contro ogni ipotesi di mutamento.
In quanto a me, non intendo così la scienza economica, la vera scienza sociale. Invece di rispondere con un ragionamento a priori ai gravissimi problemi dell’organizzazione del lavoro e del riparto delle ricchezze, interrogherò l’economia politica come depositaria dei segreti pensieri dell’umanità, farò parlare i fatti secondo l’ordine della loro generazione ed esporrò, senza metterci nulla di mio, le loro deposizioni. Sarà nello stesso tempo una storia di trionfi e di dolori, ove i personaggi saranno le idee, gli episodi, le teorie, e le date saranno le formule.
III. Evoluzioni economiche: epoca prima. La divisione del lavoro
L’idea fondamentale, la categoria dominante dell’economia politica è il valore.
Il valore giunge alla sua determinazione con un seguito di oscillazioni tra la domanda e l’offerta.
Per conseguenza il valore si presenta successivamente sotto tre aspetti: valore utile, valore di scambio e valore sintetico o valore sociale, che è il vero valore. Il primo termine genera contraddittoriamente il secondo e i due insieme, assorbendosi in una reciproca compenetrazione, producono il terzo, in modo che la contraddizione o l’antagonismo delle idee pare il punto di partenza di tutta la scienza economica e si può dire di essa, parodiando il motto di Tertulliano sul Vangelo, credo quia absurdum: nell’economia della società vi è verità latente quando c’è contraddizione apparente, credo quia contrarium.
Dal punto di vista dell’economia politica, il progresso della società consiste dunque nella pronta risoluzione del problema della costituzione dei valori, ossia della proporzionalità e solidarietà dei prodotti.
Ma, mentre nella natura la sintesi dei contrari è contemporanea alla loro opposizione, nella società gli elementi antitetici sembrano prodursi a lunghi intervalli e non risolversi se non dopo una lunga e tumultuosa agitazione. È così che ad esempio, non si può concepire neanche l’idea di valle senza collina, di una sinistra senza una destra, di un polo nord senza un polo sud, di un bastone con una sola estremità o che avesse i due capi e non la parte centrale, ecc. Il corpo umano con la sua dicotomia così perfettamente antitetica è formato integralmente nel primo istante del concepimento: ripugna l’idea di una formazione e di un adattamento pezzo per pezzo come il vestito che più tardi, imitandolo, lo coprirà. [Un sottile filologo, Paul Ackermann, ha mostrato con l’esempio del francese, che ogni parola di una lingua ha la sua contraria o, come dice l’autore, il suo antonimo, onde il dizionario può essere disposto per coppie e formare un ampio sistema dualista. Cfr. Dictionnaire des Antonymes, Paris 1842].
Nella società, così come nello spirito, s’è tanto lontani dal vedere l’idea arrivare d’un tratto alla sua pienezza, che una specie di abisso separa per così dire le due posizioni antinomiche e quando si giunge finalmente a riconoscere queste, non si scorge per ciò ancora quale sarà la sintesi. Bisogna che i concetti primitivi siano, per così dire, fecondati da controversie ardenti e da lotte appassionate; le battaglie sanguinose saranno i preliminari della pace. In questo momento l’Europa, stanca di guerre e di polemiche, aspetta un principio conciliatore, e il sentimento vago di questa situazione è quello che induce l’Accademia delle Scienze morali e politiche a chiedere quali sono i fatti generali che regolano i rapporti dei profitti con i salari e ne determinano le oscillazioni, o altrimenti, quali sono gli episodi più salienti e le fasi più rimarchevoli della guerra tra il lavoro e il capitale.
Se dunque dimostrerò che l’economia politica con tutte le sue ipotesi contraddittorie e le sue conclusioni equivoche, non è altro che l’organizzazione del privilegio e della miseria, avrò provato con ciò stesso che essa contiene implicitamente la promessa di una organizzazione del lavoro e dell’uguaglianza, poiché, come s’è detto, ogni contraddizione sistematica annunzia un accordo; di più, avrò posto le basi di questo accordo. Insomma, esporre il sistema delle contraddizioni economiche è gettare le fondamenta dell’associazione universale; dire come i prodotti dell’opera collettiva sono usciti dalla società è spiegare come sarà possibile farveli ritornare; mostrare la genesi dei problemi della produzione e della distribuzione significa prepararne la soluzione. Tutte queste proposizioni sono identiche e di una uguale evidenza.
1. – Effetti antagonisti del principio di divisione
Tutti gli uomini sono uguali nella comunità primitiva, eguali per la loro nudità e per la loro ignoranza, eguali per la potenza indefinita delle loro facoltà. Gli economisti abitualmente tengono conto solo del primo di codesti aspetti: trascurano o disconoscono completamente il secondo. Pure, secondo i più profondi filosofi dei tempi moderni, [François de] La Rochefoucauld, [Claude-Adrien] Helvétius, Kant, Fichte, Hegel, l’intelligenza differisce negli individui soltanto per la determinazione qualitativa, la quale costituisce la specialità o attitudine propria di ciascuno; mentre ciò che essa ha d’essenziale, cioè il giudizio, è in tutti quantitativamente uguale. Di là risulta che prima o poi, secondo che tali circostanze siano o no favorevoli, il progresso generale deve condurre tutti gli uomini da un’uguaglianza originaria e negativa all’equivalenza positiva dei talenti e delle cognizioni.
Insisto su questo dato prezioso della psicologia, la cui necessaria conseguenza è che la gerarchia delle attitudini non potrà d’ora innanzi essere ammessa come principio e legge d’organizzazione; la sola eguaglianza è la nostra regola, com’è anche il nostro ideale. Nello stesso modo che l’eguaglianza della miseria deve, come ho provato con la teoria del valore, mutarsi progressivamente in eguaglianza di benessere, così l’eguaglianza degli animi, negativa al principio, perché non esprime altro che il vuoto, deve riprodursi positivamente all’ultimo termine dell’educazione dell’umanità. Il movimento intellettuale si svolge parallelo all’economico: entrambi sono la traduzione, l’espressione l’uno dell’altro; la psicologia e l’economia sociale vanno d’accordo, o per dir meglio, sviluppano, ciascuna da un punto di vista diverso, la medesima storia. Ciò appare soprattutto nella grande legge di Smith, la divisione del lavoro.
Considerata nella sua essenza, la divisione del lavoro è il modo secondo il quale si realizza l’eguaglianza delle condizioni e delle intelligenze. Con la diversità delle funzioni, essa effettua la proporzionalità dei prodotti e l’equilibrio negli scambi e per conseguenza ci schiude la via alla ricchezza; come ancora, scoprendosi l’infinito ovunque nell’arte e nella natura, ci conduce a idealizzare tutte le nostre operazioni e fa lo spirito creatore, cioè la stessa divinità, mentem diviniorem, immanente e sensibile in tutti i lavoratori.
La divisione del lavoro è dunque la prima fase dell’evoluzione economica e del progresso intellettuale: il nostro punto di partenza è vero da parte dell’uomo e dal lato delle cose e il procedimento della nostra esposizione nulla ha di arbitrario.
Ma nell’ora solenne della divisione del lavoro il vento delle tempeste comincia a soffiare sull’umanità. Il progresso non si compie in maniera uguale e uniforme per tutti, quantunque a lungo andare esso debba investire e trasfigurare ogni creatura intelligente e laboriosa. Incomincia con l’impadronirsi di un piccolo numero di privilegiati, che formano in questo modo l’eletta delle nazioni, e intanto le masse persistono o si sprofondano più nella barbarie. Questa preferenza d’individui da parte del progresso ha per tanto tempo fatto credere alla naturale e provvidenziale disuguaglianza delle condizioni, ha generato le caste e costituisce gerarchicamente tutte le società. Non si capiva che ogni ineguaglianza, che non è altro che una negazione, portava in sé la nota della propria illegalità e l’annunzio della propria decadenza, e ancor meno si poteva pensare che questa medesima disuguaglianza procedesse accidentalmente da una causa la cui ulteriore influenza doveva riuscire a toglierla via del tutto.
Riproducendosi così l’antinomia del valore nella legge della divisione, si è trovato che il primo e più potente strumento di sapienza e di ricchezza che la Provvidenza aveva posto nelle nostre mani è divenuto per noi strumento di miseria e d’imbecillità. Ecco la fomula di questa nuova legge di antagonismo alla quale noi dobbiamo le due più antiche malattie della civiltà: l’aristocrazia e il proletariato: Il lavoro, dividendosi, secondo la legge che gli è propria e che è la condizione prima della sua fecondità, arriva alla negazione dei propri fini e si distrugge da sé. In altri termini: La divisione fuori della quale non c’è progresso, non ricchezza, non eguaglianza, fa subalterno l’operaio, rende inutile l’intelligenza, nociva la ricchezza, impossibile l’eguaglianza.
Tutti gli economisti, da Adam Smith in poi, hanno messo in luce i vantaggi e gl’inconvenienti della legge di divisione, ma insistendo molto più sui primi che sui secondi, perché ciò serviva meglio al loro ottimismo e senza che nessuno di loro si sia chiesto che cosa potessero essere gl’inconvenienti di una legge. J.-B. Say ha riassunto così la questione: “Un uomo, il quale per tutta la sua vita esegue la medesima operazione, giunge senza dubbio ad eseguirla, meglio e più prontamente di un’altra persona qualsiasi; ma nello stesso tempo diviene meno atto a qualunque altra occupazione sia fisica, sia morale; le altre sue facoltà si estinguono e ne risulta una degenerazione nell’uomo individualmente considerato. È una ben triste confessione quella di non aver fatto mai altro che la diciottesima parte di uno spillo, né si pensi che solo l’operaio, il quale per tutta la sua vita tratti una lima o un martello, degeneri così dalla dignità della propria natura; ciò accade anche a chi, per il suo stato, è indotto ad esercitare le più delicate facoltà dell’animo... Insomma, si può dire che la separazione dei lavori e un abile impiego delle forze dell’uomo, accrescono prodigiosamente i prodotti della società, ma tolgono qualche cosa all’attitudine di ciascun uomo preso individualmente”. (Trattato d’Economia politica, tr. it., Torino 1854). Dunque qual è, dopo il lavoro, la causa prima della moltiplicazione della ricchezza e dell’abilità dei lavoratori? La divisione.
Qual è la causa prima della decadenza della mente e, come dimostreremo ben presto, della miseria incivilita? La divisione.
Come mai lo stesso principio, seguito rigidamente nelle sue conseguenze, conduce a risultati diametralmente opposti? Non un economista, prima o dopo Smith, s’è accorto che vi fosse qui un problema da mettere in chiaro. Say arriva fino a riconoscere che nella divisione del lavoro la medesima causa che produce il bene genera il male; poi, dopo qualche parola di commiserazione sulle vittime della separazione delle industrie, contento di aver fatta un’esposizione imparziale e fedele, ci pianta lì. “Sappiate, pare che dica, che dividendo sempre più la mano d’opera, più s’aumenta la potenza produttiva del lavoro, ma nel tempo stesso, riducendosi progressivamente il lavoro a un meccanismo, l’intelligenza s’abbrutisce”.
Invano si leva la voce contro una teoria che creando col lavoro un’aristocrazia di attitudini, conduce fatalmente all’ineguaglianza politica; invano si protesta in nome della democrazia e del progresso che in avvenire non vi saranno più né nobiltà né borghesia né paria. L’economista risponde con l’impassibilità del destino. Voi siete condannati a produrre molto e a produrre a buon mercato; senza ciò la vostra industria sarà sempre meschina e voi vi attaccherete alla coda della civiltà invece di prenderne in mano le redini. – Come! tra noi, uomini generosi, vi deve essere gente predestinata all’abbrutimento e col perfezionarsi della nostra industria è fatale che s’accompagni l’aumento del numero dei nostri fratelli maledetti!... – Ahimè!... Ecco l’ultima parola dell’economista.
Non si può disconoscere che la divisione del lavoro, come fatto generale e come causa, ha tutti i caratteri di una legge; ma siccome codesta legge regola due ordini di fenomeni radicalmente inversi e che si distruggono tra loro, bisogna confessare che essa è di una specie sconosciuta nelle scienze esatte; che è, cosa strana, una legge contraddittoria, una contro-legge, un’antinomia. Aggiungiamo in modo pregiudiziale che questo sembra il carattere comune di tutta l’economia delle società e perciò della filosofia.
Ora, a meno che non si operi una ricomposizione del lavoro, la quale tolga gl’inconvenienti della divisione, conservandone gli effetti utili, la contraddizione inerente al principio è irrimediabile. Bisogna, secondo la parola dei sacerdoti giudei che tramavano la morte di Cristo, bisogna che il povero perisca per assicurare la fortuna del proprietario, expedit unum hominem mori pro populo [Giovanni]. Passo a dimostrare la necessità di questa sentenza, e dopo ciò il lavoratore parcellare, se gli rimane un barlume di intelligenza, si consolerà pensando ch’egli muore secondo le regole dell’economia politica.
Il lavoro che doveva dare l’impulso alla coscienza e renderla sempre più degna di felicità, recando, con la divisione parcellare, l’infiacchimento dello spirito, toglie all’uomo la parte più nobile di se stesso, minorat capitis, e lo rigetta nell’animalità. Da quell’istante l’uomo decaduto lavora da bestia e va trattato come una bestia. A codesta sentenza della natura e della necessità è data esecuzione dalla società.
Il primo effetto del lavoro parcellare, dopo quello della depravazione dell’anima, è il prolungamento delle giornate di lavoro che crescono in ragione inversa della somma d’intelligenza che vi si eroga. Pregiandosi il prodotto dal doppio punto di vista della quantità e della qualità, se, per una qualsiasi evoluzione industriale, il lavoro piega in un senso, vi deve essere compenso in un altro senso. Ma non potendo la durata della giornata di lavoro andare più in là di sedici a diciotto ore, dal momento che il compenso non si può prenderlo sul tempo, lo si dovrà prendere sul prezzo e la mercede si abbasserà. E il ribasso dipende non già, come si è goffamente creduto, perché il valore è essenzialmente arbitrario, ma perché è essenzialmente determinabile. Poco importa che la lotta dell’offerta e della domanda termini ora a vantaggio del padrone, ora a profitto del salariato; codeste oscillazioni possono variare di ampiezza, secondo notissime circostanze accessorie e che furono mille volte valutate. Quel che è certo, e a noi interessa di porre in rilievo, è che la coscienza universale non mette al medesimo livello di prezzo il lavoro di un sottocapo e quello di un manovale. Bisogna ridurre il prezzo della giornata, in modo che il lavoratore dopo aver subita la mortificazione dell’anima per essere costretto ad esercitare un mestiere degradante, deve sottostare anche a quella del corpo per la scarsezza della ricompensa. È l’applicazione letterale della parola evangelica: a chi ha poco toglierò anche il poco che ha.
Vi è negli accidenti economici una ragione spietata che ride della religione e dell’equità così come degli aforismi della politica e fa l’uomo felice o infelice, secondo obbedisca o si sottragga alle prescrizioni del destino. Certo siamo lungi da quella carità cristiana che ispira oggi tanti onorevoli scrittori e che penetrando il cuore della borghesia, si sforza di temperare con una moltitudine di fondazioni pie i rigori della legge. L’economia politica non conosce altro che la giustizia, una giustizia inflessibile e chiusa come la borsa dell’avaro; l’economia politica è l’effetto della spontaneità sociale e l’espressione della volontà divina, perciò affermo: Dio è contraddittore dell’uomo, la provvidenza è misantropa, Dio ci fa pagare a misura di sangue e di lagrime ogni lezione che ci dà e per colmo dei guai, nei rapporti con i nostri simili noi facciamo tutti come lui. Dov’è dunque l’amore del padre celeste per le sue creature? Dov’è la fratellanza umana?
Ma i deisti dicono: può essere altrimenti? Cade l’uomo, rimane l’animale; come il Creatore riconoscerà in questo la propria immagine? Non è naturale che allora lo tratti come una bestia da soma? Ma codesta prova non sarà perenne e presto o tardi il lavoro, dopo essersi specificato, finirà per sintetizzarsi.
Ecco l’argomento consueto di tutti coloro che s’affannano a giustificare la Provvidenza e che spessissimo non riescono ad altro che a fornire novelle armi all’ateismo. È come dire che Dio ci avrebbe nascosto durante seimila anni una idea che poteva risparmiare milioni di vittime, la distribuzione speciale nello stesso tempo e sintetica del lavoro! Invece ci avrebbe elargito, per mezzo dei suoi servitori Mosè, Buddha, Zarathustra, Maometto, ecc., rituali insipidi, obbrobri della ragione, i quali hanno fatto sgozzare più uomini che non contengano lettere! Inoltre, se stiamo alla rivelazione primitiva, l’economia sociale sarebbe la scienza maledetta, il frutto dell’albero riservato a Dio e che l’uomo non doveva toccare! Perché questa riprovazione religiosa del lavoro, se è vero, come va scoprendo la scienza economica, che il lavoro sia il padre dell’amore e lo strumento della felicità? Perché codesta invidia del progresso? Ma se il progresso dipende da noi soli, a che giova adorare questo fantasma di divinità, e che cerca da noi con questo codazzo d’ispirati che ci perseguitano con i loro sermoni? Voi tutti cristiani, protestanti, ortodossi, neorivelatori, ciarlatani e gonzi ascoltate il primo versetto dell’inno umanitario sulla misericordia di Dio: “A misura che il principio della divisione del lavoro riceve un’applicazione completa, l’operaio diventa più debole, più limitato, più dipendente! L’arte progredisce, l’artigiano indietreggia!”. ([Alexis de] Tocqueville, La Democrazia in America, tr. it., Torino 1968).
Guardiamoci dall’anticipare sulle nostre conclusioni e di pregiudicare l’ultima rivelazione dell’esperienza. Dio, per ora, ci appare meno favorevole che avverso; limitiamoci a constatare il fatto.
L’economia politica al suo punto di partenza ci ha fatto udire queste parole misteriose e cupe: Come cresce la produzione delle utilità, così scema la vendita, e similmente, giunta alla prima tappa, ci ammonisce con voce terribile: Come progredisce l’arte, così indietreggia l’artigiano.
Per fermare meglio le idee citiamo qualche esempio.
Quali sono, in tutta la metallurgia, i meno industriosi tra i salariati? Quelli precisamente che sono chiamati meccanici (mécaniciens). Da quando il complesso degli utensili si è così mirabilmente perfezionato, un “meccanico” non è altro che un individuo il quale sa dare un colpo di lima o porgere un pezzo d’opera alla pialla. In quanto alla meccanica è affare dell’ingegnere e del sottocapo. Un maniscalco di campagna riunisce talora in sé, per le sole esigenze del suo mestiere, le attitudini diverse del magnano, del fabbro, del meccanico, del carpentiere, del veterinario; c’è da fare sbalordire il mondo dei sapienti a discorrere della scienza che c’è sotto il mantello di quest’uomo, al quale il popolo, burlone sempre, ha posto il nomignolo di bruciaferro (brûle-fer). Un operaio del Creuzot, che per dieci anni ha visto tutto ciò che il suo mestiere offre di più grandioso e compiuto, appena fuori dal cantiere, non è che un essere inabile a rendere il menomo servigio e a guadagnarsi la vita. L’incapacità dell’artiere è in ragione diretta della perfezione dell’arte, e ciò è vero nella metallurgia come in tutti gli altri stati professionali.
Il salario degli operai meccanici s’è mantenuto sinora a un saggio elevato, ma è fatale che un giorno scenda, non potendo sostenerlo la mediocre qualità del lavoro.
Ho citato un’arte meccanica, ecco ora una industria liberale.
[Johann] Gutenberg e i suoi industriosi compagni [Johannes] Fust e [Peter] Schöffer avrebbero mai pensato che grazie alla divisione del lavoro, la loro sublime invenzione sarebbe caduta nel dominio dell’ignoranza, direi quasi dell’idiotismo? Vi sono pochi uomini così deboli d’intelligenza e di così scarsa cultura com’è la massa degli operai addetti alle diverse branche dell’industria tipografica, compositori, torcolieri, fonditori, legatori e cartolai. La tipografia, quale esisteva ancora al tempo degli Stefani [capostipite Henri Stefani], è divenuta quasi un’astrazione. L’impiego delle donne nella composizione ha colpito al cuore codesta nobile industria e ne ha compiuto l’avvilimento. Ho visto una compositrice, ed era delle migliori, che non sapeva leggere e conosceva le lettere unicamente per la forma. Tutta l’arte si è ritratta nella specialità dei proti e dei correttori, modesti dotti, che l’impertinenza degli autori e dei tipografi umilia sempre, e in alcuni operai veramente artisti. La stampa, in una parola, caduta nel meccanismo, non è più, nei riguardi delle persone addette, al livello della civiltà; ben presto non rimarranno che i monumenti.
Sento dire che gli operai tipografi di Parigi s’adoperano con l’associazione a rialzarsi dalla presente decadenza; possano i loro sforzi non consumarsi in un vano empirismo, né perdersi in sterili utopie!
Dopo l’industria privata, vediamo l’amministrazione.
Nei pubblici servizi, gli effetti del lavoro parcellare si producono del pari spaventosi e intensi; in ogni parte dell’amministrazione, a misura che l’arte si sviluppa, gl’impiegati inferiori vedono assottigliarsi lo stipendio. – Un fattorino postale riceve da 400 a 600 franchi di trattamento annuo e l’amministrazione ne ritiene il decimo per la pensione. Dopo trent’anni di servizio, la pensione, o piuttosto la restituzione, risulta di 300 franchi l’anno, che, ceduta dal titolare a un ospizio, gli danno diritto al letto, alla zuppa e alla lavatura della biancheria. Il cuore mi sanguina a dirlo, ma io trovo che l’amministrazione è ancora generosa; cosa volete che sia la mercede di un uomo il cui unico ufficio è quello di camminare? All’Ebreo Errante la leggenda accorda cinque soldi e non più; i fattorini della posta ne pigliano venti o trenta, vero è che i più hanno famiglia. Il ramo di servizio che richiede l’uso delle facoltà intellettuali è riservato ai direttori e ai commessi, e questi, che fanno un lavoro da uomini, sono meglio pagati.
Da per tutto, dunque, tanto nei servizi pubblici, quanto nell’industria libera le cose sono acconciate in modo che i nove decimi dei lavoratori servono come bestie da soma all’altro decimo; ecco l’effetto inevitabile del progresso industriale e la condizione indispensabile d’ogni ricchezza. E necessario rendersi ben conto di questa verità elementare prima di parlare d’uguaglianza, di libertà, di istituzioni democratiche e di altre utopie, la cui realizzazione suppone una precedente completa rivoluzione nei rapporti dei lavoratori.
L’effetto più rimarchevole della divisione del lavoro è la decadenza della letteratura.
Nel Medioevo e nell’antichità, il letterato, specie il dottore enciclopedico, successore del trovatore e del poeta, sapendo tutto, poteva tutto. La letteratura con la mano in alto regolava la società: i re cercavano il favore degli scrittori o si vendicavano del loro sprezzo bruciandone le persone e le opere. Era anche questo un modo di riconoscere la sovranità letteraria. Oggi si è industriale, avvocato, medico, banchiere, commerciante, professore, ingegnere, bibliotecario, ecc.; non più letterato. O piuttosto chiunque si sia elevato a un grado un po’ notevole nella sua professione, è per ciò solo necessariamente letterato; la letteratura, come la laurea, è divenuta parte elementare d’ogni professione. Il letterato, nel senso puro della parola, è lo scrittore pubblico, specie di commesso-fraseggiatore agli stipendi di tutti e la cui varietà più nota è il giornalista...
Fu una strana idea quella ch’ebbero quattro anni addietro le Camere, di fare una legge sulla proprietà letteraria! come se ormai non fosse evidente la tendenza dell’idea a divenire tutto, non lasciando alcuna importanza allo stile. Grazie a Dio l’eloquenza parlamentare è andata, come la poesia epica, come la mitologia. Il teatro attira di rado gli uomini di affari e i dotti, e mentre quelli che se ne intendono deplorano la decadenza dell’arte, l’osservatore filosofo vi scorge il progresso della ragione virile, importunata, anziché rallegrata da queste difficili bagatelle. L’interesse del romanzo intanto si sostiene in quanto si approssima alla realtà; la storia si riduce a una esegesi antropologica, l’arte del dire insomma s’è fatta ausiliare subalterna dell’idea, del fatto. Il culto della parola, essa stessa troppo frondosa e lenta per gli spiriti impazienti, è negletto e i suoi artifici perdono qualunque lenocinio. La lingua del secolo XIX si compone di fatti e di cifre, è il più eloquente chi con meno parole sa dire più cose. Chiunque non sa quest’arte, è relegato senza misericordia tra i retori, si dice di lui che non ha idee.
In una società nascente il progresso delle lettere va innanzi necessariamente al progresso filosofico e industriale e per lungo tempo serve ad esprimerli entrambi. Ma viene il giorno in cui il pensiero trabocca dagli argini della lingua e allora la preminenza conservata alla letteratura diviene per la società un sintomo sicuro di decadenza. Difatti, il linguaggio è per ciascun popolo la raccolta delle sue idee native, enciclopedia che gli rivela dapprima la Provvidenza; è il campo che la sua ragione deve coltivare prima di volgersi alla diretta osservazione della natura e alle ricerche sperimentali. Ora quando una nazione, dopo avere esaurito la scienza contenuta nel proprio vocabolario, invece di continuare la sua istruzione con una filosofia elevata, s’avviluppa nel suo mantello poetico e si mette a giocare con i suoi periodi e i suoi emistichi, si può francamente affermare che codesta società è perduta. Tutto in essa diverrà sottile, meschino e falso; essa non avrà neanche il vantaggio di conservare nella sua splendidezza la lingua di cui si è follemente invaghita. Anziché vederla procedere nella via dei geni di transizione, di Tacito, di Tucidide, di Machiavelli, di Montesquieu, la si vedrà cadere, per una tendenza irresistibile dalla maestà di Cicerone alle sottigliezze di Seneca, alle antitesi di Sant’Agostino, ai giochi di parole di San Bernardo.
Non c’è dunque da farsi illusione: dal momento in cui lo spirito, assorto prima nel verbo, passa all’esperienza e al lavoro, il letterato propriamente detto non è altro che la misera personificazione della minore tra le nostre facoltà; e la letteratura, ciarpame dell’industria intelligente, trova spaccio solo tra gli oziosi che essa trastulla e i proletari che affascina, i ciurmatori che assediano il potere e i ciarlatani che vi si difendono, i gerofanti del diritto divino che imboccano il portavoce del Sinai e i fanatici della sovranità del popolo i cui scarsi organi, ridotti a provare la loro facoltà tribunizia sulle tombe, aspettando di poterla far piovere dall’alto dei rostri, non sanno fare altro che offrire al pubblico parodie di Gracco e di Demostene.
La società, in tutti i suoi poteri, è dunque concorde ad abbassare indefinitamente la condizione del lavoratore parcellare; e l’esperienza, confermando la teoria, prova che questo operaio è condannato all’infortunio fin dalla nascita, senza che nessuna riforma politica, nessuna associazione d’interessi, nessuno sforzo della carità pubblica o dell’insegnamento possa soccorrerlo. I vari specifici immaginati in questi ultimi tempi, lungi dal poter guarire la piaga, servirebbero piuttosto ad inasprirla, irritandola; e tutto quanto s’è scritto a tale riguardo, mette sempre più in evidenza il circolo vizioso dell’economia politica.
2. – Impotenza dei palliativi. Blanqui, Chevalier, Dunoyer, Rossi e Passy
Tutti i rimedi proposti contro i funesti effetti della divisione parcellare si riducono a due, i quali poi si riassumono in uno, essendo il primo l’inverso del secondo: rialzare l’elemento morale dell’operaio, aumentando il suo benessere e la sua dignità; ovvero prepararne alla lontana l’emancipazione e il benessere con l’istruzione.
Esamineremo successivamente questi due sistemi dei quali l’uno ha per rappresentante Blanqui, l’altro [Michel] Chevalier.
Blanqui è l’uomo dell’associazione e del progresso, lo scrittore dalle tendenze democratiche, il professore accolto con simpatia dal proletariato. Nella sua prolusione del 1845, Blanqui ha proclamato come mezzo di salvezza l’associazione del lavoro e del capitale, la partecipazione dell’operaio ai guadagni, ossia un principio di solidarietà industriale. “Il nostro secolo, egli ha detto, deve veder nascere il produttore collettivo”.
Ma Blanqui dimentica che il produttore collettivo è nato da molto tempo, al pari del consumatore collettivo e che la questione non è più genetica, bensì medica. Si tratta di fare che il sangue proveniente dalla digestione collettiva, invece di portarsi tutto alla testa, al ventre, al petto, scorra anche nelle gambe e nelle braccia. Io non so quali mezzi si proponga di adoperare Blanqui, per effettuare il suo generoso proponimento, se la creazione di opifici nazionali o l’accomandita dello Stato, ovvero l’espropriazione degli imprenditori ai quali si sostituirebbero società lavoratrici, o finalmente se si contenterà di raccomandare agli operai la cassa di risparmio, nel qual caso la partecipazione potrebbe essere rimandata alle calende greche.
Comunque sia, l’idea di Blanqui si risolve in un aumento di salario, derivante dal titolo di consoci, o almeno di cointeressati che egli conferisce agli operai. A che servirebbe dunque per l’operaio la sua partecipazione ai guadagni?
Una filanda di 15 mila fusi che occupa 300 operai non rende, in un anno, a dir molto, 20.000 franchi di guadagno. Mi è stato detto da un industriale di Mulhouse che le fabbriche di tessuti nell’Alsazia sono generalmente al disotto del pari e che codesta industria è ormai un modo di guadagnar denaro non più col lavoro, ma con la speculazione.
Vendere, vendere a tempo, vendere caro, ecco tutta la questione; fabbricare non è altro che un mezzo per preparare un’operazione di vendita. Quando dunque suppongo, in media, un lucro di 20 mila franchi per ogni opificio di 300 persone, siccome il mio argomento è generale, ci vogliono 20 mila franchi perché io mi attenga al vero. Tuttavia teniamo questa cifra. Dividendo 20 mila franchi, guadagno della fabbrica, per 300 persone e 300 giornate di lavoro, mi rimane per ognuna un residuo di 22 centesimi e 2 millesimi, cioè un supplemento di 18 centesimi per la spesa giornaliera, giusto un pezzo di pane. Ora vale la pena d’espropriare gl’imprenditori e di rischiare la fortuna pubblica per fondare stabilimenti più deboli, in quanto, essendosene frazionata la proprietà in azioni piccolissime e non sostenendosi col guadagno, le imprese mancherebbero di zavorra e non sarebbero più assicurate contro le tempeste? E se non si tratta di espropriazione, che meschina prospettiva è quella che si offre alle classi operaie di un aumento di 18 centesimi, come premio di alcuni secoli di risparmio; dacché non ci vorrà meno per formarsi capitali propri, supponendo che le periodiche mancanze di lavoro non obblighino i lavoratori a mangiarsi periodicamente i risparmi!
Il fatto che ho citato è stato messo in vista in parecchi modi. Il signor [I. F.] Passy [tornata dell’Accademia delle Scienze morali e politiche, settembre 1845] ha computato egli stesso nei registri di una filanda di Normandia, nella quale gli operai erano associati all’imprenditore, il salario di molte famiglie per dieci anni e ha trovato delle medie di 12 a 1400 franchi l’anno. Poi ha voluto paragonare la situazione degli operai di filanda pagati in ragione dei prezzi ottenuti dai padroni, con quella degli operai che sono semplicemente salariati e ha riconosciuto che le differenze sono quasi insensibili. Questo risultato si poteva facilmente prevedere. I fenomeni economici obbediscono a leggi astratte e impassibili come i numeri; sono il privilegio, la frode, l’arbitrio quelli che ne turbano l’immortale armonia.
Blanqui, pentendosi, a quanto pare, di avere fatto questa prima concessione alle idee socialiste, si è affrettato a ritrattare le sue parole. Nella tornata medesima in cui Passy dimostrava l’insufficienza della società con partecipazione, esclamò: “non pare che il lavoro sia una cosa suscettibile d’organizzazione e che possa lo Stato regolare il benessere dell’umanità come la marcia di un esercito, e anche con una precisione matematica. È una tendenza cattiva, una illusione che l’Accademia non deve stancarsi di combattere, perché non è soltanto una chimera, ma un pericoloso sofisma. Rispettiamo le intenzioni buone e leali; ma non temiamo di dire che pubblicare un libro sull’organizzazione del lavoro è rifare per la cinquantesima volta un trattato sulla quadratura del circolo o sulla pietra filosofale”.
Poi, trascinato dal suo zelo, Blanqui finisce di rovinare la teoria della partecipazione, già così fortemente scossa da Passy, col seguente esempio: “Il signor Dailly, agricoltore dei più avveduti, ha tenuto il conto per ogni pezzo di terra e un conto per ogni prodotto e ha constatato che nell’intervallo di trent’anni, il medesimo individuo non ha mai ottenuto l’identico raccolto sul medesimo spazio di terra. I prodotti variarono da 26.000 franchi a 9.000 o 7.000 franchi, talora anche scesero a 300 franchi. Vi sono certi prodotti, le patate, per esempio, che lo rovinano una volta su nove. Come dunque in presenza di tali variazioni sui redditi così incerti, stabilire distribuzioni regolari e salari uniformi per i lavoratori?...”.
Si potrebbe rispondere che le variazioni di prodotto in ogni pezzo di terra indicano semplicemente che bisogna associare i proprietari tra loro, dopo avere associato gli operai ai proprietari, istituendo così una solidarietà più efficace; ma sarebbe anticipare il giudizio su ciò che è precisamente in questione e che Blanqui, dopo avervi riflettuto, giudica definitivamente introvabile, l’organizzazione del lavoro. Per altro è evidente che la solidarietà non aggiungerebbe un obolo alla comune ricchezza, non tenendo conto del non toccare essa in alcun modo il problema della divisione.
Tutto sommato, il guadagno degli industriali, che eccita tanta invidia eppure è spesso assai problematico, non vale a togliere la differenza tra i valori effettivi e quelli richiesti e l’antico progetto di Blanqui, meschino nei suoi risultati, sconfessato dal suo autore, sarebbe per l’industria manifatturiera un flagello. Ora essendo la divisione del lavoro stabilita dappertutto, il ragionamento si generalizza e noi arriviamo a questa conclusione, che la miseria è una conseguenza del lavoro, così come lo è dell’ozio.
Si è detto a questo proposito, ed è un argomento molto gradito al popolo: aumentate il prezzo dei servizi, raddoppiate, triplicate le mercedi.
Confesso che se questa argomentazione fosse possibile, otterrebbe un pieno successo, qualsiasi cosa abbia detto Chevalier, al quale devo su questo punto una piccola correzione.
Secondo Chevalier, se si aumentasse il prezzo di una merce qualsiasi, le altre merci crescerebbero di prezzo nella stessa proporzione e nessuno ne ricaverebbe vantaggio.
Questo ragionamento che gli economisti si trasmettono da più di un secolo è tanto falso quanto vizioso, e toccava a Chevalier, nella sua qualità d’ingegnere, di raddrizzare la tradizione economica. Lo stipendio di un capo ufficio è di 10 franchi al giorno, quello di un operaio di 4: se il reddito di ciascuno cresce di 5 franchi, il rapporto degli averi che nel primo caso era come 100 a 40, nel secondo sarà di 100 a 60. L’aumento dei salari s’effettua necessariamente per addizione e non per quoziente, sarebbe quindi un ottimo mezzo di livellamento e gli economisti meriterebbero che i socialisti rinviassero loro la taccia d’ignoranza che a diritto e a torto è ad essi data dagli economisti.
Ma io dico che una tale argomentazione è impossibile e che è assurda la supposizione. Come ha per altro visto assai bene Chevalier, la cifra che indica il prezzo della giornata di lavoro è un esponente algebrico senza alcuna influenza sulla realtà e quel che prima di tutto bisogna pensare ad accrescere, per rettificare le dise-guaglianze della distribuzione, non è l’espressione monetaria, ma il valore dei prodotti. Senza ciò ogni movimento di rialzo nei salari non può avere altro effetto che quello di un rialzo sul frumento, sul vino, sulla carne, sullo zucchero, sul sapone, sul carbone fossile, ecc., cioè il rincaro. Infatti cos’è il salario?
È il prezzo di costo del frumento, del vino, della carne, del carbone fossile; è il prezzo integrale d’ogni cosa. Andiamo ancora più innanzi: il salario è la proporzionalità degli elementi che compongono la ricchezza e che sono giorno per giorno consumati produttivamente dalla massa dei lavoratori. Ora raddoppiare il salario, come l’intende il popolo, significa attribuire a ciascun produttore una porzione superiore in quantità al prodotto dell’opera sua, il che implica un’assurda contraddizione; e se il rialzo cade soltanto su un piccolo gruppo d’industrie, si provoca una perturbazione generale negli scambi, la carestia insomma. Dio mi guardi dall’azzardare predizioni! Pure, malgrado tutta la mia simpatia per il miglioramento dello stato della classe operaia, è impossibile, lo dichiaro, che scioperi accompagnati da un aumento di salari non si concludano con un rincaro generale. Ciò è così certo come il prodotto quattro dall’addizione di due con due. Non è con simili specifici che gli operai giungeranno all’acquisto della ricchezza e, ciò che vale mille volte più della ricchezza, all’acquisto della libertà. Gli operai, sostenuti da una stampa imprudente, esigendo un aumento di salari, hanno fatto gl’interessi del monopolio più che i propri; così possano riconoscere quando il malessere tornerà ancora più pungente, l’amaro frutto della loro inesperienza!
Convinto dell’inutilità, o per meglio dire, dei funesti effetti dell’aumento dei salari e intendendo bene come la questione sia tutta organica e niente affatto commerciale, il signor Chevalier piglia il problema a rovescio. Egli chiede per la classe operaia, prima d’ogni altra cosa, l’istruzione e suggerisce ampie riforme in questo senso.
L’istruzione! è anche la parola del signor Arago agli operai, è il principio d’ogni progresso. L’istruzione!… Bisogna comprendere una volta per sempre quel che da essa possiamo riprometterci per la soluzione del problema intorno al quale ci travagliamo; bisogna, dico, vedere, non già se sia desiderabile che tutti la ricevano, cosa che nessuno pone in dubbio, ma se essa è possibile.
Per cogliere bene la portata degli intenti di Chevalier è indispensabile conoscere bene la sua tattica.
Chevalier assueffatto da gran tempo alla disciplina, prima per i suoi studi politecnici, poi per le sue relazioni sansimoniane e in ultimo per la sua posizione universitaria, non pare disposto ad ammettere che un allievo possa avere una volontà diversa da quella del regolamento, né che un settario possa pensare altrimenti dal caposetta o un funzionario diversamente da chi tiene il potere. Questo può essere un modo di concepire l’ordine tanto rispettabile quanto un altro e non intendo esprimere in proposito né lode né biasimo.
Chevalier è costretto a manifestare la sua opinione personale. Ebbene, in virtù del principio che tutto quanto la legge non vieta è lecito, egli s’affretta a mettere le mani avanti, ed esporre il proprio parere, salvo poi ad acconciarsi, se occorre, all’avviso dell’autorità. È così che Chevalier, prima di fissarsi nel girone costituzionale, s’era dato ad Enfantine; così aveva ragionato sui canali, sulle ferrovie, sulla finanza, sulla proprietà, assai tempo prima che il ministero avesse adottato qualsiasi sistema sulla costruzione delle ferrovie, sulla conversione delle rendite, sui brevetti d’invenzione, sulla proprietà letteraria, ecc.
Chevalier non è dunque un cieco ammiratore dell’insegnamento universitario e, fino a nuovo ordine, non si perita di spiattellare ciò che ne pensa. Le sue opinioni sono radicalissime.
Villemain aveva detto nel suo rapporto: “Lo scopo dell’istruzione secondaria è quello di preparare a tempo un’elite d’uomini per tutti gli uffici da occupare e disimpegnare nell’amministrazione, nella magistratura, nel foro, e nelle diverse professioni liberali, compresi i gradi superiori e le specialità dotte dell’esercito”.
“L’istruzione secondaria, osserva Chevalier, è chiamata anche a preparare coloro che si dedicheranno all’agricoltura o all’industria manifatturiera, al commercio, all’ingegneria. Ora nel programma tutta codesta gente è dimenticata. L’omissione è un po’ grave; perché in fin dei conti il lavoro industriale nelle sue varie forme, l’agricoltura, il commercio non sono nello Stato né un accessorio né un incidente; costituiscono l’elemento principale... Se l’Università vuole giustificare il proprio nome, bisogna che prenda un partito in questo senso, se no, vedrà sorgere nei sui confronti una università industriale... Sarà un controaltare, ecc..”.
E siccome la caratteristica di una idea luminosa è quella di rischiarare tutte le questioni che ad essa si ricollegano, l’insegnamento professionale fornisce a Chevalier un mezzo assai spiccio di troncare, cammin facendo, la controversia del clero con l’Università circa la libertà d’insegnamento.
“Bisogna convenire che si fa una parte troppo bella al clero lasciando la latinità base dell’insegnamento. Il clero conosce il latino tanto quanto l’Università; è la sua lingua. Il suo insegnamento per altro è a più buon mercato; è dunque impossibile che non attiri a sé una gran parte della gioventù nei suoi piccoli seminari e negli istituti che dirige...”.
La conclusione viene spontanea: mutate la materia dell’insegnamento e scattolicizzate il regno: e siccome il clero non conosce altro che il latino e la Bibbia, e non conta nel suo seno né dottori in lettere né agricoltori né ragionieri e fra quarantamila preti non ce ne sono forse tanti che sappiano lavare un piatto, o fare un chiodo, si vedrà ben presto a chi i padri di famiglia daranno la preferenza, se all’industria o al breviario e se essi non stimeranno che il lavoro sia la lingua più bella per pregare Dio.
Così finirebbe l’opposizione ridicola tra l’educazione religiosa e la scienza profana, tra lo spirituale e il temporale, la ragione e la fede, l’altare e il trono, vecchie rubriche ormai vuote di senso, ma con le quali si trastulla ancora la bonomia del pubblico, aspettando che se ne indisponga.
Chevalier non insiste per altro su questa soluzione: egli sa che religione e monarchia sono due compari che, sebbene litighino sempre, non possono stare l’uno senza dell’altro e per non destare sospetti, si slancia attraverso un’altra idea rivoluzionaria, l’eguaglianza.
“La Francia è in grado di fornire alla scuola politecnica venti volte più allievi che non vi vadano ora (essendo in media 176, diventerebbero 3520). Basta che l’Università lo voglia... Se la mia opinione valesse qualcosa, io sosterrei che l’attitudine matematica è molto meno speciale che non si creda comunemente. Si guardi con quale successo ragazzi, presi per dir così dalle strade di Parigi seguono le classi della Martinière sotto il metodo del capitano Tabareau”.
Se l’insegnamento secondario, riformato secondo le idee di Chevalier, fosse frequentato da tutti i giovani francesi, mentre d’ordinario non lo è che da 90.000, non ci sarebbe nessuna esagerazione ad innalzare la cifra delle specialità matematiche da 3520 a 10.000; ma, per la medesima ragione, noi avremmo 10.000 artisti, filosofi e filologi; – 10.000 medici, fisici, chimici e naturalisti; – 10.000 economisti, giureconsulti, amministratori; – 20.000 industriali, capi di arte, negozianti e ragionieri; – 40.000 agricoltori, vignaioli, minatori, ecc., in tutto 100.000 attitudini all’anno, cioè un terzo della gioventù. Il rimanente invece di attitudini speciali, avendo attitudini miste, si collocherebbe indifferentemente qua e là da per tutto.
Certo è che un così potente impulso dato alle intelligenze accelererebbe il cammino dell’eguaglianza e non dubito che tale non sia il voto segreto di Chevalier. Ma ecco precisamente ciò che mi disturba: le attitudini non mancano mai, al pari della popolazione; la questione sta nel trovare impiego per gli uni e pane per gli altri. Invano ci dice il signor Chevalier:
“L’istruzione secondaria offrirebbe minore presa all’accusa che le si dà di lanciare nella società torrenti di ambiziosi privi d’ogni mezzo per appagare le proprie voglie e interessati a sconvolgere lo Stato; gente inapplicata e inapplicabile, buona a nulla, mentre si crede adatta a tutto, specialmente a dirigere gli affari pubblici. Gli studi scientifici esaltano meno l’animo. Essi lo rischiarano e nello stesso tempo lo regolano; dispongono l’uomo alla vita pratica...” – Questo è un discorso da patriarchi; un professore di economia politica deve avere maggior rispetto per la sua cattedra e per il suo uditorio. Il Governo non ha più di centoventi posti disponibili ogni anno e centosettantasei politecnici ammessi alla scuola; che imbarazzo nascerebbe se il numero delle ammissioni salisse a diecimila, o soltanto, prendendo la cifra di Chevalier, a 3500? E generalizzate: la somma totale degli impieghi civili è di settantamila, cioè vi sono tremila posti disponibili ogni anno; che spavento per il Governo, se, adottando le idee riformatrici di Chevalier, si vedesse assediato da cinquantamila sollecitatori!
Si è fatta spesso la seguente obiezione ai repubblicani senza che essi abbiano risposto: quando ogni cittadino avrà il suo certificato d’elettore, i deputati saranno forse migliori e il proletariato avrà fatto un qualche progresso? Rivolgo la stessa domanda al signor Chevalier: quando ogni anno scolastico vi darà centomila attitudini, cosa ne farete?
Per mettere a posto questi giovani scenderete fino all’ultimo scalino della gerarchia. Farete cominciare il giovane, dopo quindici anni di studi sublimi, non come oggi, dai gradi di aspirante ingegnere, di sottotenente di artiglieria, di alfiere di vascello, di sostituto, di controllore, di guardia generale, ecc.; ma dagli ignobili uffici di pioniere, di soldato del treno, di cavafango, di mozzo, di imballatore, di gabelliere. Là dovrà aspettare che la morte diradi le file per mandarlo innanzi di un passo. E potrà accadere che un uomo uscito dalla Scuola Politecnica e capace di diventare un [Sébastien] Vauban muoia cantoniere su una strada di seconda categoria o caporale in un reggimento.
Quanto al cattolicesimo, s’è mostrato più prudente e come vi ha sorpassato tutti voialtri sansimonisti, repubblicani, universitari, economisti nella conoscenza dell’uomo e della società! Il prete sa che la vita è semplicemente un viaggio e che la perfezione non si può realizzare quaggiù; perciò si contenta di abbozzare sulla terra un’educazione che si dovrà compiere in cielo. L’uomo educato dalla religione, contento di sapere, di fare, e di conseguire quanto basta al suo destino sulla terra, non può mai divenire un imbarazzo per il Governo; ne sarebbe piuttosto il martire! Diletta religione! ed è proprio vero che una borghesia la quale ha tanto bisogno di te, ti sconosce così!...
In quali lotte spaventose dell’orgoglio e della miseria ci precipita questa smania d’istruzione universale! a che cosa servirà l’istruzione professionale, a che varranno le scuole di agricoltura e di commercio se i vostri studenti non possiedono né stabilimenti né capitali? Che bisogno di cacciarsi in corpo ogni sorta di scienza fino a vent’anni per andar poi a riattaccare i fili del telaio meccanico o a picconare il carbone fossile in fondo a un pozzo? Come! voi, per confessione vostra non avete che 3000 impieghi da distribuire ogni anno a 50.000 attitudini possibili e parlate ancora di creare altre scuole? Rimanete piuttosto nel vostro sistema d’esclusione e di privilegio, sistema vecchio come il mondo, sostegno delle dinastie, dei patriziati, vera macchina da castrare gli uomini per dare sicurezza ai piaceri di una casta di sultani. Fate pagar caro le vostre lezioni, moltiplicate gl’impacci, allontanate con la lunghezza delle prove il figlio del proletario cui la fame non consente l’attesa e proteggete con tutto il vostro potere le scuole ecclesiastiche ove s’impara a lavorare per l’altra vita, a rassegnarsi, digiunare, rispettare i grandi, amare il re e pregare Dio. Ogni studio è diventa presto o tardi abbandonato: la scienza è un veleno per gli schiavi.
Certo, Chevalier è troppo sagace per non essersi accorto delle conseguenze della sua idea. Ma egli deve aver detto nell’intimo dell’animo suo e bisogna applaudire alla sua buona intenzione: – Occorre prima di tutto che gli uomini siano uomini; in quanto al poi, chi vivrà vedrà.
Noi quindi andiamo innanzi a casaccio, condotti dalla Provvidenza, la quale non ci avverte altrimenti che battendoci; ecco il principio e la fine dell’economia politica.
All’opposto di Chevalier, professore d’Economia politica al Collège de France, il signor Dunoyer, economista dell’Istituto non vuole che si organizzi l’insegnamento. L’organizzazione dell’insegnamento è una varietà dell’organizzazione del lavoro: dunque niente organizzazione. L’insegnamento, nota il signor Dunoyer, è una professione non una magistratura: come tutte le professioni, deve essere e restare libera. Il comunismo, il socialismo, la tendenza rivoluzionaria i cui agenti principali sono stati Robespierre, Napoleone, Luigi XVIII e [François] Guizot, hanno gettato fra noi le idee funeste di accentramento e di assorbimento d’ogni attività nello Stato. La stampa è libera e la penna dei giornalisti è una merce; la religione è libera e chiunque porti sottana, lunga o corta, e sa eccitare a tempo la curiosità pubblica, può raccogliere intorno a sé un uditorio. [Jean-Baptiste] Lacordaire ha i suoi devoti, Leroux i suoi apostoli, [Philippe] Buchez il suo convento. Perché non lasciare libero anche l’insegnamento? Se il diritto di chi impara è indiscutibile, come lo è quello del compratore: il diritto dell’insegnante, specie del genere venditore, gli è correlativo; è impossibile toccare la libertà dell’insegnamento senza violare la più preziosa delle libertà, quella della coscienza. E poi, aggiunge il Dunoyer, se lo Stato deve fornire l’insegnamento a tutti, si pretenderà ben presto, che fornisca lavoro, poi si vorrà l’abitazione, poi il cibo... E dove si va finire?
L’argomentazione di Dunoyer è irrefutabile: organizzare l’insegnamento significa dare a ciascun cittadino la promessa di una professione liberale e di un salario conveniente; questi due termini sono così intimamente legati come la circolazione arteriosa e la circolazione venosa. Ma la teoria del signor Dunoyer implica del pari che il progresso sussiste soltanto per una parte eletta dell’umanità, e che per i nove decimi del genere umano la barbarie è la condizione perpetua d’esistenza. È anzi ciò che costituisce, secondo Dunoyer, l’essenza delle società, la quale si manifesta in tre tempi, religione, gerarchia, mendicità. Di modo che in questo sistema, che è poi quello di [Antoine-Louis] Destutt de Tracy, di Montesquieu, di Platone, l’antinomia della divisione, come quella del valore, è insolubile.
Provo un gusto enorme, lo confesso, a vedere Chevalier partigiano dell’accentramento dell’istruzione combattutto da Dunoyer partigiano della libertà: Dunoyer a sua volta in contrasto con Guizot; Guizot il rappresentante degli accentratori in contrasto con la Carta che stabilisce come principio la libertà; la Carta calpestata dagli universitari che reclamano per sé soli il privilegio dell’insegnamento, malgrado l’ordine formale del Vangelo che dice ai preti: Andate e insegnate. E sopra tutto questo fracasso d’economisti, di legislatori, di ministri, di accademici, di professori e di preti, la Provvidenza economica che dà una smentita al Vangelo, gridando: cosa volete, o pedagoghi, che me ne faccia del vostro insegnamento?...
Chi ci trarrà da questo imbroglio? Il signor Rossi pende per una soluzione eclettica: poco diviso, egli dice, il lavoro rimane improduttivo; troppo diviso abbrutisce l’uomo. La saggezza sta tra i due estremi: in medio [stat] virtus. – Sventuratamente questa saggezza intermedia non è che una mediocrità di miseria aggiunta a una mediocrità di ricchezza, sicché la condizione non muta di un punto. La proporzione del bene e del male invece d’essere come 100 a 100 è soltanto come 50 a 50; questo basta onde dare una volta per sempre la misura dell’eclettismo. Del resto il giusto mezzo del signor Rossi è in opposizione diretta con la grande legge economica: Produrre la massima quantità possibile di valore al minimo costo possibile... Ora, come mai il lavoro può adempiere il proprio destino senza una estrema divisione? Cerchiamo più oltre, se v’accomoda.
“Tutti i sistemi, dice Rossi, tutte le ipotesi economiche appartengono all’economista; ma l’uomo intelligente, libero, responsabile è sotto l’impero della legge morale... L’economia politica è una scienza che esamina i rapporti delle cose e ne trae alcune conseguenze. Essa esamina quali sono gli effetti del lavoro: voi, nella pratica, dovete applicare il lavoro secondo l’importanza dello scopo. Quando l’applicazione del lavoro è contraria a uno scopo più elevato che non sia la produzione della ricchezza, non bisogna attuarla... Supponiamo che fosse un mezzo di ricchezza nazionale quello di far lavorare i fanciulli quindici ore al giorno: la morale direbbe che ciò non è permesso. Proverebbe questo la falsità dell’economia politica? No: prova soltanto che voi confondete quel che deve essere separato”.
Se il signor Rossi possedesse un po’ più di quel candore gallico che gli stranieri acquistano così difficilmente, egli avrebbe, come dice la signora [Marie de] Sévigné, gettata la propria lingua ai cani. Ma è necessario che un professore parli, parli, parli, non per dire qualcosa, ma per non restare muto. Rossi gira tre volte intorno alla questione, poi ci si corica sopra: e ciò basta a certa gente per credere che egli abbia risposto.
Certo è un brutto sintomo per una scienza, quando, sviluppandosi secondo i princìpi che le sono propri, le tocca a un dato punto di essere smentita da un’altra scienza; come, per esempio, allorché i postulati dell’economia politica si trovano contrari a quelli della morale. Suppongo che tanto l’economia politica quanto la morale siano scienze.
Cos’è dunque la cognizione umana se tutte le sue affermazioni si distruggono tra loro? di che bisognerà fidarsi? Il lavoro parcellare è un’occupazione da schiavo, ma è il solo veramente fecondo: il lavoro non diviso, è serbato all’uomo libero, ma non frutta quel che costa. Da una parte l’economia politica ci dice: siate ricchi; dall’altra la morale: siate liberi; e Rossi, parlando in nome di tutte due, ci avvisa nello stesso tempo che noi non possiamo essere né liberi né ricchi, poiché esserlo a metà significa non esserlo affatto. La dottrina di Rossi, lungi dal soddisfare questa duplice tendenza dell’umanità, offre l’inconveniente, per non essere esclusiva, di toglierci tutto: è, sotto un’altra forma, la storia del sistema rappresentativo.
Ma l’antagonismo è ben più profondo che non sia parso al Rossi. Dacché, riducendosi il salario, secondo l’universale esperienza, concordando in ciò con la teoria, in ragione della divisione del lavoro, è chiaro che sottomettendoci alla schiavitù parcellare, non otterremo per questo la ricchezza, non avremo fatto altro che cambiare gli uomini in macchine: tale è la popolazione operaia dei due mondi. E poiché, d’altra parte, senza la divisione del lavoro, la società ricadrebbe nella barbarie, è ancora evidente che sacrificando la ricchezza non si arriverebbe alla libertà; guardate in Asia e in Africa le razze nomadi. C’è dunque necessità, ordine perentorio, assoluto, da parte della morale e della scienza economica di risolvere il problema della divisione. Ebbene, dove sono gli economisti? Dopo più di trent’anni da che [Pierre] Lemontey, sviluppando una osservazione di Smith fece rimarcare l’influenza demoralizzatrice e omicida della divisione del lavoro, quali ricerche si sono fatte? quali combinazioni si sono proposte? la questione è stata compresa?
Tutti gli anni gli economisti rendono conto con un’esattezza che loderei ancora più se non la vedessi rimanere sempre sterile, del movimento commerciale degli Stati d’Europa. Essi sanno quanti metri di panno, quante pezze di seta, quanti chilogrammi di ferro sono stati fabbricati; quale è stato il consumo individuale del pane, del vino, dello zucchero, della carne. Si direbbe che per loro il nec plus ultra della scienza sia la pubblicazione d’inventari e che l’ultimo termine della loro intesa sia quello di diventare i controllori generali delle nazioni. Giammai tanti materiali raccolti offrirono una più bella prospettiva alle indagini; cosa s’è trovato? quale principio nuovo è venuto fuori da questa massa? quale soluzione è risultata per tanti vecchi problemi? che nuova direzione si è impressa agli studi?
Una questione, tra le altre, sembra essere stata preparata per un giudizio definitivo: quella del pauperismo. Il pauperismo è il meglio conosciuto tra tutti gli accidenti del mondo incivilito; si sa press’a poco da dove viene, quando e come si manifesta e ciò che costa. Si è calcolato quale è la sua proporzione nei diversi gradi di civiltà e si è nel tempo stesso formata la convinzione che tutti gli specifici con i quali lo si è fino a oggi combattuto sono riusciti impotenti. Il pauperismo è stato diviso in generi, specie, varietà: è una completa storia naturale, uno dei rami più importanti dell’antropologia. Ebbene, quel che risulta inconfutabile da tutti i fatti raccolti, ma non si è veduto mai, non si vuol vedere e gli economisti si ostinano a coprire col silenzio, è che il pauperismo è costituzionale e cronico nella società fino a che sussista l’antagonismo tra capitale e lavoro e che questo antagonismo non può finire se non con la negazione assoluta dell’economia politica. Quale uscita da questo labirinto hanno saputo scoprire gli economisti?
Quest’ultimo punto merita d’essere considerato un istante.
Nella primitiva comunità, la miseria, come ho fatto notare nel paragrafo precedente, è la condizione universale.
Il lavoro è la guerra dichiarata a questa miseria.
Il lavoro si organizza, prima con la divisione, poi con le macchine, poi con la concorrenza, ecc., ecc..
Ora si tratta di sapere se non è nell’essenza di codesta organizzazione, tale quale ci è data nell’economia politica, di aggravare la miseria degli uni, in modo fatale e invincibile, pur facendo cessare quella degli altri. Ecco in quali termini deve essere posta la questione del pauperismo, ecco come vogliamo risolverla.
Cosa dunque significano queste eterne chiacchiere degli economisti sulla imprevidenza degli operai, la loro accidia, la mancanza di dignità, l’ignoranza, il lassismo, i prematuri matrimoni, ecc.? Tutti codesti vizi, tutta codesta corruttela è il mantello del pauperismo; ma la causa, la causa prima che mantiene fatalmente nell’obbrobrio i quattro quinti del genere umano dov’è? La natura non ha fatto forse tutti gli uomini ugualmente grossolani, ribelli al lavoro, barbari e selvatici? Non sono forse usciti dal medesimo fango il patrizio e il proletario? Da dove viene che, dopo tanti secoli e malgrado tanti prodigi dell’industria, delle scienze, delle arti, il benessere e la cortesia non hanno potuto divenire patrimonio comune? Com’è che a Parigi, a Londra, nei centri delle ricchezze sociali la miseria è tanto schifosa quant’era ai tempi di Cesare e di Agricola? Come mai accanto a una aristocrazia raffinatissima rimane così incolta la plebe? Si accusano i vizi del popolo; ma i vizi della classe elevata non sono, a quanto pare, minori; fors’anche sono maggiori. La macchia originale è la stessa in tutti; com’è che il battesimo della civiltà non ha avuto uguale efficacia per tutti? Non sarebbe forse perché il progresso è a sua volta un privilegio e che l’uomo il quale non possiede né carro, né cavalcatura, è obbligato a guazzare nella melma? Che dico! nell’uomo che giace nell’estrema miseria non sorge neanche il desiderio della salute; egli è caduto così in basso che anche l’ambizione s’è spenta nel suo cuore.
“Fra tutte le virtù private, osserva con moltissima ragione Dunoyer, la più necessaria, quella che ci fa acquistare successivamente tutte le altre è la passione del benessere, il desiderio vivo d’uscire fuori dalla miseria e dall’abiezione; questa che è nello stesso tempo emulazione e dignità, non lascia contento l’uomo in una situazione inferiore... Ma questo sentimento che sembra tanto naturale è, sventuratamente, meno diffuso di quanto si creda. Pochi rimproveri sono dalla massima parte degli uomini meritati meno di quelli che le indirizzano i moralisti ascetici, d’essere cioè troppo amanti degli agi; si sarebbe più giusti facendo il rimprovero opposto... C’è anzi questo di rimarchevole nella natura degli uomini che meno essi hanno cultura e mezzi, meno sono punti dalla brama di acquistarne. I selvaggi più miserabili e meno istruiti tra gli uomini, sono precisamente quelli nei quali è più difficile suscitare bisogni e con maggiore difficoltà si desta il desiderio di uscire dallo stato in cui si trovano; per cui è necessario che l’uomo si sia già procurato col lavoro un qualche benessere prima di provare con qualche vivacità quel bisogno di migliorare la propria condizione e di perfezionare la propria esistenza che io chiamo amore per il benessere”. [Della libertà del lavoro, op. cit.].
Dunque la miseria delle classi lavoratrici proviene in generale dalla loro fiacchezza di cuore e di mente, o come in qualche luogo dice Passy, dalla debolezza, dall’inerzia delle loro facoltà morali e intellettuali. Questa inerzia risulta dal fatto che le classi lavoratrici, ancora semi-selvagge, non sentono con sufficiente energia il desiderio di migliorare la propria condizione. La quale cosa è fatta appunto notare da Dunoyer. Ma siccome questa mancanza di desiderio è essa stessa un effetto della miseria, segue che la miseria e l’apatia sono l’una e l’altra effetto e causa, e il proletariato si aggira in un circolo fatale.
Per venir fuori da questo abisso occorrerebbe o una certa somma di benessere, cioè un progressivo aumento della mercede, ovvero intelligenza e coraggio, cioè un progressivo sviluppo delle facoltà: due cose diametralmente opposte alla degradazione di anima e di corpo che è naturale effetto della divisione del lavoro. Il guaio del proletariato è dunque affatto provvidenziale e tentare di sopprimerlo, ai termini nei quali si ritrova l’economia politica, sarebbe come provocare la tromba rivoluzionaria.
Non senza una profonda ragione, tratta dalle più elevate considerazioni morali, la coscienza universale, manifestandosi a vicenda con l’egoismo dei ricchi e l’apatia del proletariato, rifiuta la qualità d’uomo a chi adempie all’ufficio di una leva o di una molla. Se, per ipotesi impossibile, il benessere materiale potesse toccare in sorte all’operaio parcellare, si vedrebbe accadere qualcosa di mostruoso: gli operai addetti ai lavori ripugnanti, diverrebbero come quei Romani satolli delle ricchezze del mondo, la cui abbrutita intelligenza non era più capace d’inventare nuovi godimenti. Il benessere senza l’educazione abbrutisce il popolo e lo rende insolente, è un’osservazione fatta dalla più remota antichità: Incrassatus est [dilectus] et recalcitravit, dice il Deuteronomio [32]. Del resto il lavoratore parcellare s’è giudicato da sé: egli è contento, purché non gli manchino il pane, un giaciglio e la sbornia la domenica. Un altro stato qualsiasi gli tornerebbe pregiudizievole e comprometterebbe l’ordine pubblico.
A Lione c’è una classe di persone che in grazia del monopolio concesso dal Municipio pigliano retribuzioni superiori a quelle dei professori di facoltà e dei capi divisione dei ministeri, alludo ai facchini. Il prezzo di carico e scarico in certi punti di Lione, in base alla tariffa delle compagnie di facchini, è di 30 centesimi per 100 chilogrammi. A questa ragione non è raro che un individuo guadagni 12, 15 e persino 20 franchi al giorno; e non si tratta che portare quaranta o cinquanta sacchi da un battello a un magazzino. È affare di poche ore. Che condizione favorevole allo sviluppo dell’intelligenza, così per i padri come per i figli, se di per se stessa, per l’agio che procura, la ricchezza fosse un principio moralizzatore! Ma non è così: i facchini di Lione sono oggi quelli che furono sempre, ubriachi, crapuloni, brutali, insolenti, egoisti e vigliacchi. Fa pena dirlo, ma considero questa dichiarazione come un dovere, perché è intrinsecamente esattissima: una delle prime riforme da operare nelle classi lavoratrici consisterà nel ridurre i salari di alcune e aumentare quelli delle altre. Il monopolio non merita maggiore rispetto perché ne godano classi d’infimo ordine, soprattutto quando serve ad alimentare un grossolano individualismo. La sommossa dei lavoranti della seta non ha trovato simpatie di sorta nei facchini e in genere presso tutta le gente addetta ai trasporti, anzi l’attitudine di costoro è stata piuttosto ostile. Nulla di quanto avviene fuori dei porti riesce a scuoterli. Bestie da soma, fatte per il dispotismo, purché non si tocchi il loro privilegio, vivono affatto estranee alla politica. Devo però dire a loro discolpa che da qualche tempo le necessità della concorrenza hanno fatto qualche breccia nella tariffa e già sentimenti più umani si manifestano in queste nature rozze e massicce: ancora qualche riduzione, condita con un po’ di miseria, e le compagnie lionesi formeranno un corpo scelto quando bisognerà prendere di assalto quella Bastiglia.
Insomma, è cosa impossibile e contraddittoria che nel sistema attuale della società il proletariato consegua il benessere mediante l’educazione o l’educazione grazie al benessere. Senza mettere in conto che il proletario, l’uomo-macchina, è inetto a conseguire così l’agiatezza come l’istruzione, è dimostrato da una parte, che il suo salario tende piuttosto a scendere che a elevarsi, e dall’altra che la cultura, anche quando egli potesse ottenerla, gli riuscirebbe inutile, essendo tratto continuamente verso la miseria e la barbarie. Tutto quanto in questi ultimi anni s’è tentato in Francia e in Inghilterra con l’intento di migliorare la sorte delle classi povere, riguardo il salario dei fanciulli e delle donne, e l’istruzione elementare, a meno che non sia il frutto di secondi fini del radicalismo, è stato compiuto a rovescio dei dati economici e in un pregiudizio dell’ordine stabilito. Il progresso, per la massa dei lavoratori, è sempre un libro chiuso da sette suggelli e il fatale enigma non sarà certo spiegato con qualche controsenso legislativo.
Del resto, se gli economisti, a forza di ripetere i loro vecchiumi, hanno finito per smarrire persino l’intelligenza delle cose sociali, non si può dire che i socialisti abbiano risolta meglio l’antinomia che emerge dalla divisione del lavoro. Al contrario, si sono fermati alla negazione, ma non significa tenersi sempre alla negazione, quando, per esempio, si contrappone all’uniformità del lavoro parcellare una sedicente varietà in cui ognuno potrà in una stessa giornata mutare lavoro a volontà, dieci, quindici, venti volte?
Come se cambiare dieci, quindici, venti volte al giorno l’oggetto di un esercizio parcellare, sia rendere sintetico il lavoro; come se, per conseguenza, venti frazioni di giornata di un manovale valgano a dare l’equivalente della giornata di un artista. Supponendo pure che questo volteggiamento industriale fosse praticabile, mentre si può asserire a priori che sfumerebbe innanzi alla necessità di rendere responsabili i lavoratori e perciò personali le funzioni e, non muterebbe in nulla le condizioni fisiche, morali e intellettuali dell’operaio: tutt’al più potrebbe, per mezzo della dissipazione, ravvalorare la sua incapacità e quindi la sua soggezione. È ciò che dichiarano apertamente gli organizzatori, comunisti e d’altra specie. Essi hanno così poco la pretesa di risolvere l’antinomia della divisione, che tutti ammettono come condizione essenziale dell’organizzazione, la gerarchia del lavoro, cioè la classificazione degli operai in parcellari e generalizzatori o sintetici e che in tutte le utopie, la distinzione delle attitudini, fondamento o pretesto eterno della disuguaglianza dei beni, è ammessa come base. Riformatori i cui piani non si potevano raccomandare se non per la logica, e che contro l’estrema semplicità, l’uniformità, la monotonia, la parcellarità del lavoro, vengono a proporre una pluralità come una sintesi, codesti riformatori, dico, sono giudicati e vanno rimandati a scuola.
Ma tu, critico, chiederà senza dubbio il lettore, quale soluzione proponi? Mostraci questa sintesi che mantenendo la responsabilità, la personalità, in una parola, la specialità del lavoratore, deve riunire la estrema divisione e la più grande varietà in un tutto complesso e armonico.
La mia risposta è pronta: interroghiamo i fatti, consultiamo l’umanità, guida migliore non si può avere. Dopo le oscillazioni del valore, la divisione del lavoro è il fatto economico che influisce nel modo più sensibile sui profitti e sui salari. È il primo livello piantato dalla Provvidenza nel terreno dell’industria, il punto di partenza dell’immensa triangolazione che, a lungo andare, dovrà determinare i diritti e i doveri di ciascuno e di tutti. Seguiamo dunque i nostri segnali, senza cui ci smarriremmo e perderemmo:
Sed longe sequere et vestigia semper adora [Stazio].
IV. Epoca seconda. Le macchine
“Ho visto con profondo rincrescimento continuare la penuria nei distretti manifatturieri del paese”. Parole della regina Vittoria all’apertura del Parlamento.
Se qualche cosa può indurre i sovrani a riflettere è questa: che, spettatori più o meno impassibili delle calamità umane, essi si trovano, per la costituzione medesima della società, e l’indole del loro potere, nell’assoluta impossibilità di guarire le sofferenze dei popoli; è loro interdetto persino di occuparsene. Ogni questione di salario e di lavoro, dicono di comune accordo i teorici economisti e rappresentativi, deve rimanere fuori delle attribuzioni del potere. Dall’alto della sfera gloriosa, ove li ha collocati la religione, i troni, le dominazioni, i principati, le potenze e tutta la milizia celeste guardano, inaccessibili alle tempeste, la bufera che imperversa nella società; ma il loro potere non si estende ai venti e ai flutti. Nulla possono i re per la salvezza dei mortali. E, per verità, codesti teorici hanno ragione; il principe è stabilito per conservare non per sconvolgere; per proteggere la realtà, non per effettuare l’utopia. Egli rappresenta uno dei due princìpi antagonisti; ora, creando l’armonia, si eliminerebbe da sé; e ciò da parte sua sarebbe supremamente incostituzionale e assurdo.
Ma, siccome a dispetto delle teorie, il progresso delle idee, cambia senza posa la forma esteriore delle istituzioni, in modo da rendere continuamente necessarie quelle cose stesse che il legislatore non aveva volute, né previste; e così, per esempio, le questioni d’imposta diventano questioni di riparto; quelle d’utilità pubblica, questioni di lavoro nazionale e d’organizzazione industriale; quelle di finanza, operazioni di credito; quelle di diritto internazionale, questioni di dogana e di sbocchi; rimane dimostrato che il principe, non dovendo mai, secondo la teoria, intervenire nelle cose, le quali pure, senza che la teoria l’abbia previsto, diventano ogni giorno e con moto irresistibile, compito di Governo, non è e non può essere, come la Divinità da dove emana, checché si sia detto, altro che una ipotesi, una finzione.
Ed essendo impossibile che il principe e gl’interessi che ha la missione di patrocinare consentano a piegarsi e annientarsi innanzi ai princìpi che novellamente emergono e ai diritti nuovi che si piantano lì, segue che il progresso, dopo essersi compiuto negli animi con moto irresistibile, si effettua nella società per via di scosse, e la forza, malgrado le calunnie che le si addossano, è pur sempre la condizione sine qua non delle riforme. Ogni società nella quale la potenza d’insurrezione è compressa, è una società morta per il progresso: non c’è nella storia verità meglio provata.
Ciò che dico delle monarchie costituzionali è vero anche delle monarchie rappresentative; da per tutto il patto sociale ha vincolato il potere e paralizzato la vita senza che fosse possibile al legislatore accorgersi che il suo lavoro contrastava il suo intento o di procedere in altro modo. Deplorevoli attori delle commedie parlamentari, monarchi e rappresentanti, ecco dunque quel che voi siete: talismani contro l’avvenire! Ogni anno vi reca le doglianze del popolo e quando vi si chiede il rimedio, la vostra sapienza si copre il volto! Se si tratta di sostenere il privilegio, cioè la consacrazione del diritto del più forte che vi ha creati e tutti i giorni muta, ecco che al minimo cenno del vostro capo si agita e corre alle armi e si ordina in battaglia una milizia numerosa. E quando il popolo si lamenta che, malgrado il suo lavoro, e precisamente a causa del suo lavoro, è divorato dalla miseria, quando la società vi chiede i mezzi per vivere, voi gli recitate un atto di misericordia! Tutta la vostra energia è per l’immutabilità, tutta la vostra virtù svanisce in aspirazioni! Come il fariseo, invece di sostentare vostro padre, voi pregate per lui! Possediamo il segreto della vostra missione: voi esistete solo per impedirci di vivere. Nolite ergo imperare, andatevene! In quanto a noi che consideriamo sotto un punto di vista ben diverso la missione del potere, e vogliamo che il compito speciale del Governo sia precisamente d’esplorare l’avvenire, cercare il progresso, procurare a tutti libertà, uguaglianza, salute e ricchezza, continuiamo con coraggio l’opera nostra di critica, ben sicuri, quando avremo svelata la causa del malessere della società, il principio delle sue febbri, il motivo delle sue agitazioni, che non ci mancherà la forza per applicare il rimedio.
1. – Ufficio delle macchine nel loro rapporto con la libertà
L’introduzione delle macchine nell’industria avviene in opposizione alla legge di divisione e quasi per ristabilire l’equilibrio profondamente compromesso da codesta legge. Per valutare bene questo movimento e coglierne lo spirito, diventano necessarie alcune considerazioni generali.
I filosofi moderni, dopo avere raccolto e classificato i loro annali, sono stati condotti dalla natura dei loro lavori a occuparsi anche di storia e allora, non senza sorpresa, si sono accorti che la storia della filosofia era in fondo la stessa cosa che la filosofia della storia; di più, che questi due rami della speculazione, in apparenza tanto diversi, la storia della filosofia e la filosofia della storia non erano poi altro che l’apparato scenico dei concetti della metafisica, la quale è tutta la filosofia.
Ora, se si divide la materia della storia universale in un certo numero di categorie, come le matematiche, la storia naturale, l’economia sociale, ecc., si troverà che ognuna di queste divisioni contiene anche la metafisica. E sarà lo stesso fino all’ultima suddivisione della totalità della storia; così l’intera filosofia sta in fondo a qualsiasi manifestazione naturale o industriale, senza riguardo a grandezze o qualità. Per innalzarsi ai suoi più sublimi concetti si possono adoperare con uguale successo tutti i paradigmi e incontrandosi tutti i postulati della ragione nella più modesta industria così come nelle scienze più generali per fare di qualunque artigiano un filosofo, cioè una mente generalizzatrice e sommamente sintetica basterebbe insegnargli – cosa? – la sua professione.
Finora, è vero, la filosofia, come la ricchezza, è stata riservata per certe caste: noi abbiamo la filosofia della storia, la filosofia del diritto e alcune altre filosofie ancora; è una specie di appropriazione che, al pari di altre molte d’uguale origine, deve scomparire. Ma per eseguire codesta immensa equazione bisogna cominciare dalla filosofia del lavoro; dopo ogni lavoratore potrà mettere mano, a sua volta, alla filosofia del proprio stato.
Essendo dunque ogni prodotto d’arte o d’industria, ogni costituzione, politica e religiosa, ogni creatura organica o inorganica nulla più che una realizzazione, un’applicazione naturale o pratica della filosofia, è dimostrata l’identità delle leggi della natura e della ragione, dell’essere e dell’idea. E quando da parte nostra affermiamo la costante conformità dei fenomeni economici con le leggi pure del pensiero, l’equivalenza del reale e dell’ideale nei fatti umani, non facciamo altro se non ripetere in un caso particolare questa eterna dimostrazione. Che diciamo infatti?
Per determinare il valore, ossia, in altre parole, per organizzare nel proprio seno la produzione e la distribuzione delle ricchezze, la società procede esattamente come la ragione nel generare i concetti. Dapprima pone un primo fatto, emette una prima ipotesi, la divisione del lavoro, vera antinomia, i cui risultati antagonistici si sviluppano nell’economia sociale, nella stessa maniera in cui le conseguenze avrebbero potuto dedursi nello spirito; di modo che il movimento industriale, seguendo, in tutto, le deduzione delle idee, si divide in una doppia corrente: l’una d’effetti utili, l’altra di risultati sovversivi, tutti però necessari e legittimi prodotti della medesima legge. Per costituire armonicamente questo principio a doppia faccia e risolvere codesta antinomia, la società ne fa sorgere una seconda, la quale sarà ben presto seguita da una terza, e così procederà il cammino del genio sociale, fino a che, esaurite tutte le sue contraddizioni – suppongo, ma non è provato, che la contraddizione nell’umanità abbia un termine – torni di un tratto su tutte le sue posizioni anteriori e, con una sola formula, risolva tutti i suoi problemi.
Seguendo nella nostra esposizione questo metodo dello sviluppo parallelo della realtà e dell’idea, abbiamo un doppio vantaggio: dapprima quello di sfuggire alla taccia di materialismo, così spesso data agli economisti, per i quali i fatti sono verità per ciò solo che sono fatti e fatti materiali. Per noi, al contrario, i fatti non sono materia, perché non sappiamo cosa voglia dire la parola materia, bensì manifestazioni visibili d’idee invisibili. A questo titolo i fatti provano soltanto secondo la misura delle idee che rappresentano: ed ecco perché abbiamo rigettato come illegittimi e non definitivi il valore d’uso e il valore di scambio e poi la stessa divisione del lavoro, benché per gli economisti fossero dotati di un’autorità assoluta.
In secondo luogo non ci si può accusare di spiritualismo, idealismo o misticismo; perché, non ammettendo come punto di partenza altro che la manifestazione esteriore dell’idea, idea da noi ignorata, che non esiste fino a che non si riflette, come la luce che non sarebbe nulla se il sole esistesse in un vuoto infinito; rigettando ogni a priori teogonico e cosmogonico, ogni indagine sulla sostanza, sulla causa, sul me e non-me, ci limitiamo a ricercare le leggi dell’essere e a seguire il sistema dalle sue apparenze fino al punto che la ragione può toccare.
Senza dubbio, andando al fondo, ogni cognizione s’arresta dinanzi a un mistero: tali sono, per esempio, la materia e lo spirito, che noi ammettiamo come due essenze incognite, alla base di tutti i fenomeni. Ma ciò non significa che il mistero sia il punto di partenza della cognizione, né il misticismo la condizione necessaria della logica. Al contrario, la spontaneità della nostra ragione tende a respingere perpetuamente il misticismo, essa protesta a priori contro ogni mistero, perché il mistero non serve ad altro che ad essere negato dalla ragione, e la negazione del misticismo è la sola cosa per la quale la ragione non abbia bisogno d’esperienza.
Insomma, i fatti umani sono l’incarnazione delle idee umane; dunque studiare le leggi dell’economia sociale è fare la teoria delle leggi della ragione e creare la filosofia. Ora possiamo proseguire il corso delle nostre ricerche.
Abbiamo lasciato, nel capitolo precedente, il lavoratore alle prese con le leggi della divisione: come si regolerà questo indefesso Edipo per risolvere l’enigma?
Nella società la comparsa continua delle macchine è l’antitesi, la formula inversa della divisione del lavoro; è la protesta del genio industriale contro il lavoro parcellare e omicida. Cos’è infatti una macchina? Un modo di riunire diverse particelle del lavoro che la divisione aveva separate. Qualunque macchina può essere definita così: un riassunto di più operazioni, una semplificazione d’impulsi, un condensamento di lavoro, una riduzione di spese. Sotto tutti questi rapporti la macchina è la controparte della divisione. Dunque con la macchina vi sarà restaurazione del lavoratore parcellare, diminuzione di fatica per l’operaio, ribasso di prezzo nei prodotti, movimento nel rapporto dei valori, progresso verso nuove scoperte, aumento del generale benessere.
Come la scoperta di una formula conferisce una nuova potenza al geometra, così l’invenzione di una macchina è un abbreviamento di mano d’opera che moltiplica la fòrza del produttore, e si può credere che l’antinomia della divisione del lavoro, se non interamente vinta, sarà bilanciata e neutralizzata. Bisogna leggere nel corso di Chevalier gl’innumerevoli vantaggi che derivano alla società dall’uso delle macchine: è un quadro sorprendente, al quale mi piace rinviare il lettore.
Le macchine, collocandosi nell’economia politica in un punto di vista contraddittorio alla divisione del lavoro, rappresentano la sintesi che nello spirito umano si oppone all’analisi. E, come lo si vedrà adesso – nella divisione del lavoro e nelle macchine è già data tutta intera, così con l’analisi e con la sintesi si ha tutta la logica, tutta la filosofia. L’uomo che lavora procede necessariamente e via via per divisione e con l’aiuto di strumenti. Similmente chi ragiona fa, necessariamente, uso via via dell’analisi e della sintesi, e di nulla più che questo. Né il lavoro e la ragione andranno mai oltre: Prometeo, come Nettuno, in tre passi è in capo al mondo.
Da questi princìpi luminosi e semplici al pari di assiomi si deducono conseguenze di gran peso.
Come nella operazione intellettuale l’analisi e la sintesi sono essenzialmente inseparabili e, d’altra parte la teoria diviene legittima solo a condizione di seguire passo passo l’esperienza, segue che il lavoro, riunendo l’analisi e la sintesi, la teoria e l’esperienza in un’azione continua e, come forma esteriore della logica, riassumendo la realtà e l’idea, ci appare di nuovo come modo universale d’insegnamento. Fit fabricando faber: il più assurdo di tutti i sistemi d’educazione è quello che separa l’intelligenza dall’attività e scinde l’uomo in due entità impossibili, uno che astrae e un automa. Ecco perché applaudiamo alle giuste lagnanze di Chevalier, di Dunoyer e di tutti coloro che invocano la riforma dell’insegnamento universitario; ed ecco ancora su che poggia la fiducia che noi abbiamo nei risultati di codesta riforma. Se l’educazione fosse soprattutto sperimentale e pratica, riservando il discorso a spiegare, riassumere e coordinare il lavoro, se fosse concesso di apprendere con gli occhi e con le mani a chi non può con l’immaginazione e la memoria, si vedrebbero ben presto moltiplicarsi insieme alle forme del lavoro le attitudini. Sapendo ognuno la teoria di qualche cosa, conoscerebbe per ciò stesso la lingua filosofica, potrebbe all’occorrenza, fosse anche solo una volta in tutta la sua vita, creare, modificare, perfezionare, far prova d’intelligenza e di comprensione, produrre il suo capolavoro, mostrarsi uomo insomma. L’ineguaglianza degli acquisti della memoria non muterebbe in nulla l’equivalenza delle facoltà, e il genio non ci sembrerebbe più quel che è realmente, la salute dello spirito.
I belli ingegni del secolo decimottavo disputarono lungamente su ciò che sia il genio, in che differisca dal talento, cosa si debba intendere per spirito, ecc. Avevano trasportato nella sfera intellettuale le medesime distinzioni che nella società separano le persone. C’erano per loro geni re e dominatori, geni prìncipi, geni ministri, poi ancora spiriti gentiluomini e spiriti borghesi, talenti cittadini e talenti campagnoli. Al basso della scala stava la folla grossolana della gente addetta alle industrie, anime appena sbozzate, escluse dalla gloria degli eletti.
Tutte le retoriche sono ancora piene di queste impertinenze che l’interesse monarchico, la vanità dei letterati e l’ipocrisia socialista si sforzano di accreditare per mantenere la perpetua schiavitù delle nazioni e l’ordine delle cose.
Ma se è dimostrato che tutte le operazioni dello spirito si riducono a due, analisi e sintesi, necessariamente inseparabili, sebbene distinte; se per inevitabile conseguenza, malgrado l’infinita varietà dei lavori e degli studi, la mente ricomincia sempre la medesima tela, l’uomo di genio non è altro che un uomo di buona costituzione, che ha lavorato molto, molto meditato, molto analizzato, paragonato, classificato, riassunto e concluso; mentre l’essere limitato che si rannicchia in inveterate pratiche endemiche, invece di sviluppare le proprie facoltà, ha ucciso la propria intelligenza con l’inerzia e l’automatismo. È cosa assurda il distinguere come diversificante per natura ciò che in realtà differisce solo per l’età, poi di mutare in privilegio ed esclusione i diversi gradi di uno sviluppo o gli azzardi di una spontaneità, che, grazie al lavoro e l’educazione, devono di giorno in giorno svanire.
I retori psicologici, che hanno classificato le anime umane in dinastie, razze nobili, famiglie borghesi e proletariato, avevano osservato tuttavia come il genio non fosse universale e avesse la sua specialità; in conseguenza, Omero, Platone, Fidia, Archimede, Cesare, ecc., i quali tutti parevano loro primi ognuno nel suo genere, furono da essi dichiarati uguali e sovrani di regni separati. Che inconseguenza! Come se la specialità del genio non rivelasse la legge stessa dell’eguaglianza delle intelligenze! come se, d’altra parte, la costanza del successo nel prodotto del genio non provasse che opera secondo princìpi a lui estranei, che sono pegno della perfezione delle sue opere, tanto li segue con fedeltà e sicurezza! Questa apoteosi del genio, sognata a occhi aperti da uomini, le cui ciarle rimarranno sempre sterili, farebbe credere alla innata stupidità della maggioranza dei mortali, se non fosse la prova palmare della loro perfettibilità.
Così il lavoro, dopo avere diversificato le attitudini e preparato il loro equilibrio grazie alla divisione delle industrie, completa, se così mi è lecito dire, l’armamento delle intelligenze con le macchine. Stando alla testimonianza della storia, del pari che in base all’analisi e nonostante le anomalie cagionate dall’antagonismo dei princìpi economici, l’intelligenza si diversifica negli uomini non per potenza, nettezza ed estensione; ma, in primo luogo per specialità, o, come dicono le scuole, per determinazione qualitativa; in secondo luogo per esercizio e educazione. Dunque, per l’individuo, come per l’uomo collettivo, l’intelligenza è piuttosto una facoltà che viene, si forma, si sviluppa, quae fit, anzi che una entità o entelechia che esiste tutta formata anteriormente al tirocinio. La ragione, o con qualunque altro nome si designi, genio, talento, industria è al punto di partenza una virtualità nuda e inerte che a poco a poco ingrandisce, si fortifica, si colorisce, si determina e varia all’infinito. Per l’importanza dei suoi acquisti, per il suo capitale insomma, l’intelligenza varia e varierà sempre da un individuo all’altro; ma come potenza, uguale originariamente in tutti, il progresso sociale consisterà nel renderla, perfezionando continuamente i suoi mezzi, uguale in tutti. Senza ciò il lavoro rimarrebbe per gli uni un privilegio, per gli altri una punizione.
Ma l’equilibrio delle attitudini, del quale abbiamo visto il preludio nella divisione del lavoro, non compie tutto il destino delle macchine, e le mire della Provvidenza vanno assai più in là. Con l’introduzione delle macchine nell’economia è dato l’impulso alla libertà.
La macchina è il simbolo della libertà umana, il segno del nostro dominio sulla natura, l’attributo della nostra potenza, l’espressione del nostro diritto, l’emblema della nostra personalità. Libertà, intelligenza, ecco tutto l’uomo. Se noi scartiamo come mistica e inintelligibile ogni speculazione sull’essere umano considerato dal punto di vista della sostanza (spirito o materia), ci rimangono soltanto due categorie di manifestazioni che comprendono, la prima tutto quanto chiamiamo sensazioni, volizioni, passioni, attrazioni, istinti, sentimenti; l’altra tutti i fenomeni classificati sotto i nomi di attenzione, percezione, memoria, immaginazione, paragone, giudizio, raziocinio, ecc. Quanto all’apparecchio organico, ben lungi dall’essere esso il principio o la base di questi due ordini di facoltà, lo si deve considerare come la realizzazione sintetica dei medesimi, l’espressione viva e armonica. Come dalla emissione che nei secoli l’umanità avrà fatta dei suoi princìpi antagonisti, deve un giorno risultare l’organizzazione sociale, così l’uomo deve del pari essere considerato come il risultato di due serie di virtualità.
Dunque, dopo essersi affermata come logica, l’economia sociale, proseguendo l’opera sua, prende aspetto di psicologia. L’educazione dell’intelligenza e della libertà, in una parola, il benessere dell’uomo, espressioni tutte perfettamente sinonime, ecco lo scopo comune dell’economia politica e della filosofia. Determinare le leggi della produzione e della distribuzione della ricchezza significa dimostrare con una esposizione obiettiva e concreta le leggi della ragione e della libertà; significa creare a posteriori la filosofia e il diritto. Ovunque ci volgiamo siamo in piena metafisica.
Tentiamo ora con i dati riuniti della psicologia e dell’economia politica di definire la libertà.
Se è lecito concepire la ragione umana alla sua origine come un atomo lucido e riflettente, capace di rappresentare un giorno l’universo, ma al primo istante vuoto di qualsiasi immagine; si può anche considerare la libertà al sorgere della coscienza come un punto vivo, punctum saliens, una spontaneità vaga, cieca o piuttosto indifferente e capace di ricevere tutte le impressioni, disposizioni e inclinazioni possibili. La libertà è la facoltà di agire e di non agire, la quale per una scelta o determinazione (adopero questa parola nel senso passivo e nel senso attivo nello stesso tempo) qualsiasi, esce dalla sua indifferenza e diviene volontà.
Dico dunque che la libertà, al pari dell’intelligenza, è di sua natura una facoltà indeterminata, informe, che trae valore e carattere dalle impressioni esteriori, facoltà per conseguenza negativa nell’inizio, ma che poco a poco si determina e si disegna con l’esercizio, con l’educazione.
L’etimologia, almeno come io la intendo, della parola libertà farà meglio capire il mio pensiero. La radice è lib-et, piace (cfr. tedesco: lieben, amare); da dove s’è fatto lib-eri, figli, quelli che ci sono cari, nome riservato ai figli del padre di famiglia; lib-ertas, condizione, carattere o inclinazione di fanciulli di prosapia nobile; lib-ido, passione da schiavo che non riconosce né Dio né legge né patria, sinonimo di licentia, cattiva condotta. Secondo che la spontaneità si determina utilmente, generosamente o in bene, la si è chiamata libertas; al contrario, quando si determina in maniera nociva, viziosa e vile, in male, la si chiama libido.
Un dotto economista, Dunoyer, ha dato una definizione della libertà, che, ravvicinata alla nostra, finirà per dimostrarne l’esattezza: “Chiamo libertà il potere che l’uomo acquista di usare delle proprie forze più facilmente, a misura che si affranca dagli ostacoli che ne impacciavano originariamente l’esercizio. Dico che egli è tanto più libero, quanto più è liberato dalle cause che gli impedivano di servirsene, più lungi ha rimosso da sé codeste cause, più ha ingrandita e svincolata la sfera della propria azione... Così si dice che un uomo ha la mente libera, gode di una gran libertà di spirito, non solo quando la sua intelligenza non è turbata da alcuna violenza esteriore, ma ancora quando essa non è oscurata dalla ubriachezza né alterata da malattia né impotente per mancanza d’esercizio”.
Dunoyer considera qui il solo aspetto negativo della libertà, cioè la riguarda come se fosse sinonimo di affrancamento dagli ostacoli. Intesa così la libertà, non sarebbe una facoltà dell’uomo, non sarebbe nulla. Ma ben presto Dunoyer, pur persistendo nella sua incompleta definizione, coglie il vero lato della cosa, ed è quando gli accade di dire che l’uomo inventando una macchina, aiuta la propria libertà, non perché, come diciamo noi, la determina, ma, secondo lo stile di Dunoyer, perché toglie ad essa una difficoltà; “Così la favella articolata è strumento migliore della favella per segni; si è dunque più liberi d’esprimere il proprio pensiero e d’imprimerlo nella mente altrui con la parola e non con i gesti. La parola scritta è uno strumento più potente della parola articolata; si è dunque più liberi di agire sulla mente dei propri simili quando si sa rappresentare la parola agli occhi, che quando la si sa solamente articolare. La stampa è uno strumento due o trecento volte più potente della penna; si è dunque due o trecento volte più liberi d’entrare in rapporto con gli altri uomini quando si è in grado di diffondere le proprie idee con la stampa che quando non si può altrimenti pubblicarle se non per scrittura”.
Non metterò in rilievo tutto quel che c’è d’inesatto e d’illogico in questo modo d’intendere la libertà. Dopo Destutt de Tracy, ultimo rappresentante della filosofia di [Étienne de] Condillac, lo spirito filosofico s’è annebbiato tra gli economisti della scuola francese; la paura dell’ideologia ha pervertito il loro linguaggio, e leggendo le loro opere si scorge che l’adorazione del fatto li conduce a perdere persino il sentimento della teoria. Preferisco meglio accertare che Dunoyer, e l’economia politica con lui, non si è ingannato sull’essenza della libertà, forza, energia o spontaneità indifferente per sé a ogni azione e per conseguenza ugualmente suscettibile di qualsiasi determinazione, buona o cattiva, utile o nociva. Dunoyer ha sospettato il vero quando ha scritto: “Invece di considerare la libertà come un dogma, la presenterò come un risultato; invece di farne l’attributo dell’uomo, ne farò l’attributo della civiltà; invece d’immaginare le forme di Governo adatte a stabilirla, esporrò nel modo che potrò meglio come essa nasca da tutti i nostri progressi”. Poi soggiunge non meno a proposito: “Si noterà quanto questo metodo differisca da quello dei filosofi dogmatici, i quali parlano soltanto di diritti e di doveri, di ciò che i governi hanno il dovere di fare e le nazioni il diritto di esigere, ecc. Io non sentenzio apoditticamente: gli uomini hanno il diritto d’essere liberi; mi limito a chiedere: come accade che lo siano?”.
Da quel che abbiamo esposto si può desumere la natura del libro di Dunoyer: rassegna degli ostacoli che impacciano la libertà, e dei mezzi (strumenti, metodi, idee, costumi, religioni, governi, ecc.) che la favoriscono. Se non fossero le omissioni, l’opera di Dunoyer sarebbe riuscita la vera filosofia dell’economia politica.
Dopo avere sollevato il problema, ci dà una definizione conforme in ogni punto a quella che dà la psicologia e suggeriscono le analogie del linguaggio: ed ecco in qual modo a poco a poco lo studio dell’uomo si trova trasportato dalla contemplazione del me all’osservazione delle realtà.
Ora, nello stesso modo che le determinazioni della ragione nell’uomo ebbero il nome d’idee (idee sommarie, supposte a priori, ossia princìpi, concetti, categorie; e idee secondarie o più specialmente acquisite ed empiriche), parimenti le determinazioni della libertà hanno ricevuto il nome di volizioni, sentimenti, abitudini, costumi. Poi continuando il linguaggio, figurativo per sua natura, a fornire gli elementi della psicologia prima, si è presa l’abitudine di assegnare alle idee, come luogo o capacità in cui risiedono, l’intelligenza; e alle volizioni, sentimenti, ecc., la coscienza. Tutte queste astrazioni sono state per lungo tempo prese dai filosofi per altrettante realtà, e nessuno s’accorgeva che qualunque distribuzione delle facoltà dell’anima è necessariamente opera di fantasia e che la loro psicologia era una fantasmagoria.
A ogni modo, se noi ora consideriamo questi due ordini di determinazioni, la ragione e la libertà, come riuniti e fusi dalla organizzazione in una persona viva, ragionevole e libera, intenderemo subito com’essi debbano prestarsi un mutuo aiuto e influire ciascuno sull’altro. Se per errore o inavvertenza della ragione, la libertà, cieca per sua natura, prende una falsa e funesta abitudine, la ragione non tarderà anche essa a risentirne. Invece d’idee vere, conformi ai rapporti naturali delle cose, essa assorbirà pregiudizi tanto più difficili a sradicare più tardi per opera dell’intelligenza, in quanto essi saranno diventati nel corso dell’età più cari alla coscienza. In questo stato la ragione e la libertà sono menomate; la prima è turbata nel suo sviluppo, la seconda è compressa nel suo slancio, e l’uomo è traviato, cioè è nello stesso tempo malvagio e sventurato.
Quando in seguito a una percezione contraddittoria e a una incompleta esperienza, la ragione ebbe sentenziato per bocca degli economisti che non era una regola del valore e che la legge del commercio era l’offerta e la domanda, la libertà si lasciò trascinare dalla foga dell’ambizione, dell’egoismo, del gioco; il commercio è diventato un’alea, sottomessa a certe norme di polizia; la miseria è scaturita dalle fonti della ricchezza; il socialismo, schiavo esso stesso delle abitudini formali, non ha saputo fare altro che protestare contro gli effetti, invece di insorgere contro le cause; e la ragione ha dovuto riconoscere, allo spettacolo di tanti mali, che aveva sbagliato strada.
L’uomo non può giungere al benessere se non in quanto la sua ragione e la sua libertà, non solo procedano concordi, ma ancora non si fermino giammai nel loro sviluppo. Ora, siccome il progresso della libertà, del pari che quello della ragione, è indefinito, e per altro queste due potenze sono intimamente legate e solidali, bisogna concludere che la libertà è tanto più perfetta, quanto più si determina in conformità alle leggi della ragione che sono poi quelle delle cose, e che se la ragione fosse infinita, la libertà anche essa diverrebbe infinita. In altri termini, la pienezza della libertà è nella pienezza della ragione: Summa lex, summa libertas.
Questi preliminari erano indispensabili per valutare bene l’ufficio delle macchine e porre in rilievo il concatenamento delle evoluzioni economiche. A questo proposito rammenterò al lettore che noi non scriviamo una storia secondo l’ordine di tempo, ma secondo la successione delle idee. Le fasi o categorie economiche sono nella loro manifestazione ora contemporanee, ora invertite, e da ciò viene l’estrema difficoltà che hanno provata sempre gli economisti a sistemare le loro idee; da ciò il caos dei loro libri, anche i più considerevoli sotto ogni rapporto, come quelli di A. Smith, Ricardo e J.-B. Say. Ma le teorie economiche hanno e mantengono la loro successione logica e la loro serie nell’intendimento. Quest’ordine noi ci lusinghiamo di scoprire, e perciò l’opera presente sarà simultaneamente una filosofia e una storia.
2. – Contraddizione delle macchine. Origine del capitale e del salariato
Per il fatto stesso che le macchine diminuiscono la fatica dell’operaio, esse abbreviano e diminuiscono il lavoro, in modo che diventa di giorno in giorno sempre più offerto e meno richiesto. A poco a poco, è vero, la riduzione dei prezzi fa aumentare il consumo, onde la proporzione si ristabilisce e il lavoratore è richiamato all’officina. Ma siccome i perfezionamenti industriali si succedono senza posa e tendono continuamente a sostituire l’operazione meccanica al lavoro dell’uomo, segue la tendenza costante a eliminare una parte del servizio e quindi ad allontanare dalla produzione i lavoratori. Ora, accade nell’ordine economico quel che è nell’ordine spirituale: fuori della chiesa non c’è salvezza; fuori del lavoro non c’è sussistenza. La società e la natura, del pari spietate, sono d’accordo per eseguire questo nuovo decreto.
“Quando una nuova macchina, o, in generale, un procedimento spiccio qualsiasi, dice J.-B. Say, rimpiazza un lavoro umano già in attività, una parte delle braccia industriose, il cui servizio viene utilmente supplito, rimane inoperosa. – Una macchina nuova rimpiazza dunque il lavoro di una parte dei lavoratori, ma non diminuisce la quantità delle cose prodotte; perché allora non la si adotterebbe; essa sposta il reddito. Ma l’effetto ulteriore è a tutto vantaggio delle macchine; dacché, se l’abbondanza del prodotto e la modicità del prezzo di costo fanno ribassare il valore venale, il consumatore, cioè ogni persona, ne profitterà”.
L’ottimismo di Say è una infedeltà alla logica e ai fatti. Non trattasi qui soltanto di un piccolo numero di accidenti, che si siano manifestati nel corso di trenta secoli a causa dell’introduzione di una, due o tre macchine; si tratta di un fenomeno regolare, costante e generale. Dopo che il reddito fu spostato, come dice Say, da una macchina, lo è da un’altra e poi ancora da un’altra e così di seguito, fino a che rimanga da fare un lavoro o effettuare scambi. Ecco come il fenomeno deve essere presentato e considerato; ma allora conveniamo che esso muta singolarmente di aspetto. Lo spostamento del reddito, la soppressione del lavoro e del salario è un flagello cronico, permanente, indelebile, una specie di colera che ora appare sotto la figura di Gutenberg, poi prende quella di [Richard] Arkwright; qui lo si chiama [Joseph-Marie] Jacquard, più in là James Watt o [Théodore] marchese di Jouffroy. Dopo avere infierito più o meno lungamente sotto una forma, il mostro ne assume un’altra; e gli economisti, che lo credono partito, si mettono a gridare: non era niente! Tranquilli e soddisfatti, pur di potere insistere con tutto il peso della loro dialettica sul lato positivo della questione, chiudono gli occhi sul lato sovversivo, salvo quando sentono parlare di miseria, ricominciano i loro sermoni sull’imprevidenza e l’ubriachezza dei lavoratori.
Nel 1750 – è una osservazione di Dunoyer e dà la misura di tutte le elucubrazioni della stessa specie: – “nel 1750 dunque la popolazione del Ducato di Lancaster era di 300.000 anime. Nel 1801, grazie allo sviluppo delle macchine da filare, codesta popolazione era di 672.000 anime. Nel 1831 era di 1.336.000 anime. Invece di 40.000 operai occupati dapprima nell’industria cotoniera, se ne contano, dopo l’invenzione delle macchine, 1.500.000”.
Dunoyer soggiunge che nel tempo in cui il numero degli operai addetti a questo lavoro prese questo singolare sviluppo, il prezzo del lavoro diventò una volta e mezzo più considerevole. Non avendo dunque la popolazione fatto altro che seguire il movimento industriale, il suo accrescimento è stato un fatto normale e incensurabile; che dico? un fenomeno felicissimo, perché lo si cita a onore e gloria dello sviluppo meccanico. Ma, di un tratto, Dunoyer fa un voltafaccia; essendo ben presto mancato il lavoro a questa moltitudine di congegni filatori, il salario dovette necessariamente decrescere: la popolazione aumentata dalle macchine si trova immiserita dalle macchine, e Dunoyer esclama: l’abuso del matrimonio è la causa della miseria.
Il commercio inglese, sollecitato dalla sua immensa clientela, richiama operai da tutte le parti e spinge al matrimonio; fino a che il lavoro abbonda, il matrimonio è una cosa eccellente di cui si ama additare gli effetti nell’interesse delle macchine; ma, siccome la clientela è oscillante, non appena il lavoro e il salario mancano, si grida all’abuso del matrimonio, si accusa d’imprevidenza gli operai. L’economia politica, cioè il dispotismo proprietario, non può mai avere torto: la colpa deve essere del proletariato.
L’esempio della stampa è stato citato molte volte, sempre nel senso ottimista. Il numero delle persone che vive oggi con la fabbricazione dei libri è forse mille volte maggiore che non fosse quello dei copisti e dei miniatori prima di Gutenberg; dunque, si conclude con aria soddisfatta, l’arte tipografica non ha danneggiato nessuno. Fatti analoghi potrebbero prodursi all’infinito, senza che se ne possa ricusare uno solo, ma la questione non avrebbe fatto un solo passo. Ancora una volta: nessuno contesta che le macchine abbiano contribuito al benessere generale: ma io affermo, riguardo questo fatto inconfutabile, che gli economisti negano la verità quando assicurano in modo assoluto che la semplificazione dei procedimenti tecnici non produsse in nessun luogo il risultato di diminuire il numero delle braccia addette a una qualunque industria. Ciò che gli economisti dovrebbero dire è che le macchine, al pari della divisione del lavoro, sono nello stesso tempo nel presente sistema di economia sociale una fonte di ricchezza e una causa permanente e fatale di miseria.
“Nel 1836 in un opificio di Manchester, nove telai, ciascuno di trecentoventiquattro fusi, erano serviti da quattro filatori. In seguito si raddoppiò la lunghezza delle slitte (chariots), facendo sostenere da ogni slitta seicentottanta fusi, e due uomini bastarono a dirigerli”.
Ecco nudo e crudo il fatto dell’eliminazione dell’operaio a causa della macchina. Con una semplicissima combinazione due operai su quattro sono messi fuori: cosa importa che tra cinquant’anni, raddoppiata la popolazione del globo, quadruplicata la clientela dell’Inghilterra, costruite nuove macchine, gli industriali inglesi riprendano i loro operai? Gli economisti intendono rifarsi, a favore delle macchine, dell’aumento della popolazione? Rinuncino allora alla teoria di Malthus e smettano di declamare contro l’eccessiva fecondità dei matrimoni.
“Non finì là: ben presto un nuovo perfezionamento meccanico permise di far eseguire da un solo operaio il lavoro che prima ne richiedeva quattro”. Nuova riduzione di tre parti sulla mano d’opera; in complesso, riduzione di quindici sedicesimi sul lavoro dell’uomo.
Un fabbricante di Bolton scrive: “L’allungamento delle slitte dei nostri telai ci permette di adoperare ventisei filatori dove ne occorrevano trentacinque nel 1837”. – Altra decimazione dei lavoratori; una vittima su quattro.
Questi fatti sono presi dalla “Revue d’economie politique” del 1842; e non c’è chi non possa aggiungerne altri analoghi: io ho assistito all’introduzione dei torchi a macchina nelle tipografie e posso dire di aver visto con gli occhi miei il danno sofferto dagli stampatori. Da quindici o vent’anni, il tempo appunto che è decorso dall’introduzione di codesta macchina, una parte degli operai s’è applicata alla composizione, altri hanno lasciato il mestiere, molti sono morti di miseria; è in tal modo che si opera la rifusione dei lavoratori per effetto delle innovazioni industriali. Vent’anni or sono, ottanta equipaggi a cavalli facevano il servizio della navigazione da Beaucaire a Lione: tutto ciò è scomparso innanzi a una ventina di piroscafi. Certo, il commercio ha guadagnato; ma cos’è diventata questa popolazione marinaia! s’è forse trasportata dai battelli nei piroscafi? No: è andata dove vanno le industrie spostate, s’è dispersa. Del resto, i documenti che seguono, tratti dalla medesima fonte, daranno una idea più positiva dell’influenza dei perfezionamenti industriali sulle sorti degli operai.
“La media dei salari settimanali a Manchester è franchi 12,50 (10 scellini). Su 450 operai non ce n’è una quarantina che guadagnino 25 franchi”. L’autore dell’articolo ha cura di rimarcare che un inglese consuma cinque volte più di un francese; è dunque come se un operaio francese dovesse vivere con 2 franchi e 50 centesimi la settimana.
“The Edinburg Review”, 1835. “La slitta di Sharp e Robert di Manchester è dovuta a una coalizione di operai, che non volevano accettare una riduzione di salario, e codesta invenzione ha punito severamente gli imprudenti coalizzati”. – Ci vorrebbe proprio una pena per quel “punito”! L’invenzione di Sharp e Robert di Manchester doveva nascere dalla situazione delle cose; il rifiuto degli operai a subire la riduzione di salario è stato unicamente l’occasione che ne ha determinata la comparsa. Non si direbbe, al tuono di vendetta che piglia “The Edinburg Review”, che le macchine abbiano un effetto retroattivo?
Un industriale inglese: “L’insubordinazione di molti operai ci ha fatto pensare a fare a meno di loro. Abbiamo fatto e provocato tutti gli sforzi immaginabili dell’intelligenza per sostituire ai servizi dell’uomo strumenti più docili, e vi siamo riusciti. La meccanica ha liberato il capitale dell’oppressione del lavoro. Ovunque ancora impieghiamo un uomo, lo facciamo soltanto in via provvisoria, aspettando che s’inventi il mezzo di far gli affari nostri senza di lui”.
Che razza di sistema è questo in cui un negoziante è portato a deliziarsi nel pensiero che la società potrà ben presto fare a meno degli uomini! La meccanica ha liberato il capitale dall’oppressione del lavoro! È proprio come se il ministero si mettesse a liberare il bilancio dall’oppressione dei contribuenti. Insensati! Se gli operai vi costano, essi sono pur quelli che comprano da voi: cosa ne farete dei vostri prodotti, quando gli operai scacciati non consumeranno più? Così il contraccolpo delle macchine, dopo aver schiacciato gli operai, non tarda a toccare i padroni; perché, quando la produzione esclude il consumo, è ben presto essa stessa costretta a fermarsi.
“Durante il quarto trimestre del 1841, quattro grossi fallimenti, avvenuti in una città manifatturiera dell’Inghilterra, posero sul lastrico 1.720 persone”. – Questi fallimenti avevano per causa l’ingorgo della produzione il che significa l’insufficienza degli sbocchi o le strettezze del popolo. Che peccato che la meccanica non possa liberare il capitale dall’oppressione dei consumatori! Che peccato che le macchine non comprino i tessuti da loro stesse fabbricati! Sarebbe l’ideale della società se il commercio, l’agricoltura e l’industria potessero andare senza che vi fosse un sol uomo sulla terra! “In una parrocchia della contea di York gli operai da nove mesi in qua lavorano non più di due giorni la settimana”. – Macchine. “A Geston due fabbriche, valutate 60.000 sterline, si sono vendute per 26.000. Esse producevano più di quanto potessero vendere”. – Macchine! “Nel 1841 il numero dei fanciulli al disopra dei tredici anni è scemato nelle manifatture, perché il loro posto è preso da fanciulli d’età inferiore” – Macchine.
L’operaio adulto torna apprendista, garzone; il risultato era previsto sin dalla fase della divisione del lavoro, durante la quale abbiamo visto la qualità dell’operaio scadere a misura che l’industria si perfeziona.
Terminando, il giornalista fa questa riflessione: “Dopo il 1836 l’industria cotoniera è andata indietro”; – cioè essa non è più in rapporto con le altre industrie: altro risultato previsto dalla teoria della proporzionalità dei valori.
Oggi le coalizioni e gli scioperi degli operai sembrano cessati in tutta l’Inghilterra, e gli economisti si rallegrano con ragione di questo ritorno all’ordine e, diciamolo pure, al buon senso. Ma da ciò che gli operai non aggiungeranno più ormai, almeno amo sperarlo, la miseria dei loro scioperi volontari alla miseria procurata dalle macchine, segue che la situazione sia mutata? E se nulla è mutato nella situazione, l’avvenire non sarà sempre la triste copia del passato?
Gli economisti si compiacciono di riposare lo spirito sui quadri della felicità pubblica; a questo segno si riconoscono e si valutano reciprocamente. Tuttavia non mancano tra loro immaginazioni malinconiche e pessimiste, pronte sempre a opporre ai racconti della prosperità crescente le prove di una miseria ostinata.
Théodore Fix riassumeva così la situazione generale nel dicembre 1844: “L’alimentazione dei popoli non è più esposta alle terribili perturbazioni cagionate dalle carestie e dalla fame, così frequenti fino al principio del secolo decimonono. La varietà delle colture e i perfezionamenti agricoli hanno scongiurato il doppio flagello in modo quasi assoluto. Si valutava nel 1791 a circa 47 milioni di ettolitri la produzione totale del frumento in Francia; il che dava, dedotte le sementi, un ettolitro e 65 centilitri per abitante. Nel 1840 la medesima produzione fu valutata 70 milioni d’ettolitri, cioè ettolitri 1,82, a testa, essendo la superficie coltivata press’a poco quale era prima della Rivoluzione... I manufatti sono cresciuti in proporzione per lo meno pari a quella delle derrate alimentari; e si può dire che la massa dei tessuti si sia più che raddoppiata e forse triplicata da cinquant’anni a questa parte. Il perfezionamento dei processi tecnici ha condotto a questi risultati... Dal principio del secolo la vita media è cresciuta di due o tre anni: indizio irrifiutabile di una più grande agiatezza, o, se si vuole, di un’attenuazione della miseria. Nello spazio di vent’anni la cifra dell’entrata indiretta, senza alcun mutamento oneroso nella legislazione, è salita da 540 milioni a 720: sintomo di progresso economico assai più che di progresso fiscale. Il 1° gennaio 1844 la cassa dei depositi amministrativi e giudiziari doveva alle casse di risparmio 351 milioni e mezzo, e Parigi figurava in questa somma per 105 milioni. Eppure codesta istituzione s’è sviluppata solo da dodici anni in qua, e bisogna notare che i 351 milioni e mezzo attualmente dovuti alle casse di risparmio non costituiscono l’intera massa delle economie realizzate, perché a un dato momento i capitali depositati ricevono un’altra destinazione... Nel 1843, su 320.000 operai e 80.000 domestici dimoranti nella capitale, 90.000 operai hanno depositato alle casse di risparmio 2.547.000 franchi, e 34.000 domestici 1.268.000”.
Tutti questi fatti sono verissimi, e la conseguenza che se ne trae in favore delle macchine è della più squisita esattezza: in realtà esse hanno dato un potente impulso al benessere generale. Ma i fatti che noi ora menzioneremo non sono meno autentici e la conseguenza che ne uscirà contro le macchine non sarà meno giusta, ed è che esse sono una causa incessante di pauperismo. Faccio appello alle cifre dello stesso Fix.
Su 320.000 operai e 80.000 domestici residenti a Parigi ce n’è 230.000 dei primi e 46.000 dei secondi, totale 276.000, che non mettono nulla alle casse di risparmio. Nessuno oserebbe affermare che si tratti di 276.000 dissipatori e bricconi che si espongono volontariamente alla miseria. Ora, siccome tra quegli stessi che fanno economie ci sono individui poveri o di modesta fortuna, per i quali la cassa di risparmio non è altro che una sosta nel libertinaggio e nella miseria, concludiamo che su tutti gl’individui che vivono del loro lavoro forse i tre quarti o sono imprevidenti, oziosi e corrotti perché non mettono nulla alla cassa di risparmio, o sono troppo poveri per fare economie di sorta. Non c’è altra uscita. Ma, a parte la carità, il senso comune non permette di accusare in massa la classe lavoratrice: è necessario dunque rigettare la colpa sul nostro regime economico. Come mai Fix non ha visto che le sue cifre s’accusavano da se stesse?
Si spera che col tempo tutti o quasi tutti i lavoratori metteranno qualcosa alla cassa di risparmio. Senza aspettare la testimonianza dell’avvenire, possiamo verificare subito se codesta speranza è fondata.
Secondo i ragguagli di Vée, sindaco del 5° circondario di Parigi “il numero delle famiglie indigenti iscritte sui registri degli uffici di beneficenza è di 30.000: il che dà 65.000 persone”. Il censimento fatto a principio del 1846 diede 88.474. – E le famiglie povere, ma non iscritte, quante sono? – Altrettante. Mettiamo dunque 180.000 poveri non dubbi, sebbene non ufficiali. E tutti coloro che vivono nelle strettezze, anche con le apparenze dell’agiatezza, quanti sono? Due volte tanti: totale 360.000 persone a Parigi nelle angustie.
“Si parla del grano, esclama un altro economista, Louis Leclerc; ma non ci sono forse immense popolazioni che non mangiano pane? Senza uscire dalla nostra patria, non ci sono forse popolazioni che vivono esclusivamente di mais, di grano nero, di castagne?...”.
Leclerc espone il fatto, diamone l’interpretazione. Se, come non c’è dubbio, l’accrescimento della popolazione si fa sentire principalmente nelle grandi città cioè nei centri ove si consuma più grano, è chiaro che la media per testa è potuta crescere senza che vi sia un miglioramento nella condizione generale. Nulla di più bugiardo di una media.
“Si parla, continua il medesimo autore, dell’accrescimento del consumo indiretto. Invano si tenterebbe di assolvere la falsificazione parigina: essa c’è, ha i suoi maestri, i suoi scolari, la sua letteratura, i suoi trattati didattici e classici... La Francia possedeva vini squisiti; che se n’è fatto? cos’è diventata quella luccicante ricchezza? dove sono i tesori che il genio nazionale creò da Probo in poi? Tuttavia, quando si pone mente alle enormità alle quali dà luogo il vino, ovunque sia caro, ovunque non sia entrato nel regime regolare; quando a Parigi, capitale del regno dei vini buoni, si vede il popolo tracannare un non so che di falsificato, alterato, nauseabondo, talora esecrabile, e le persone agiate bere in casa propria o accettare senza dire una parola, nelle trattorie rinomate, vini fatturati, torbidi, violacei, di una insipidezza, di una fiacchezza, di una povertà tali da far fremere il più meschino villano di Borgogna o di Turenna, non si può più dubitare che le bevande alcoliche siano tra i più imperiosi bisogni della nostra natura!”.
Ho citato questo brano in tutta la sua lunghezza, perché riassume su un caso particolare tutto quanto vi sarebbe da dire sugli inconvenienti delle macchine. Riguardo al popolo, è del vino come dei tessuti e generalmente di tutte le derrate e merci create per il consumo delle classi povere. È sempre la medesima deduzione: ridurre con qualunque mezzo le spese di fabbricazione, a fine 1° di sostenere con vantaggio la concorrenza contro i colleghi più fortunati o più ricchi; 2° servire l’innumerevole clientela di miserabili che non è in grado di comprare se si tratta di genere di buona qualità. Prodotto con i mezzi ordinari, il vino è troppo caro per la massa dei consumatori e corre il rischio di rimanere nelle cantine dei tavernai. Il fabbricante di vino gira intorno alla difficoltà; non potendo rendere autonoma la coltivazione, trova modo di mettere il prezioso liquido a portata di tutti. Certi selvaggi, nella loro fame, mangiano terra, l’operaio della civiltà beve acqua. Malthus fu un gran genio.
Per ciò che riguarda l’aumento della vita media, riconosco la sincerità del fatto, ma nel tempo stesso dichiaro difettosa l’osservazione. Spieghiamo ciò. Supponiamo una popolazione di dieci milioni di anime: se per una qual si voglia causa, la vita media venisse a crescere di cinque anni per un milione d’individui, e la mortalità continuasse a infierire come prima sugli altri nove milioni, si troverebbe, ripartendo sul totale l’accrescimento, che la vita media crescerebbe di sei mesi per ciascun individuo. Va detto della vita media, sedicente indizio del benessere medio, lo stesso dell’istruzione media: il livello delle cognizioni si eleva sempre, ma ciò non impedisce che vi sia oggi in Francia tanta gente barbara quanta ce n’era ai tempi di Francesco I. I ciarlatani che si proponevano di esercitare le ferrovie hanno menato gran rumore dell’importanza della locomotiva per la circolazione delle idee; e gli economisti sempre intenti a valersi delle frivolezze civilizzate, hanno subito ripetuto a coro questa sciocchezza. Come se le idee, per diffondersi, avessero bisogno della locomotiva! E cosa dunque impedisce alle idee di circolare dall’Istituto ai sobborghi di Sant’Antonio e di San Marcello nelle vie strette e miserabili della vecchia città e del Marais, da per tutto insomma ove dimora una moltitudine più priva d’idee che di pane? Da dove viene che tra parigino e parigino, malgrado gli omnibus e la piccola posta, la distanza sia ora tre volte maggiore che non fosse nel secolo decimoquarto?
L’influenza sovversiva delle macchine sull’economia sociale e sulla condizione dei lavoratori s’esercita in mille modi, i quali tutti s’intrecciano e si richiamano reciprocamente: la cessazione del lavoro, la riduzione del salario, la produzione soverchia, l’ingombro, l’alterazione e la falsificazione dei prodotti, i fallimenti, lo spostamento degli operai, la degenerazione della specie e finalmente le malattie e la morte.
Théodore Fix ha egli stesso notato che da cinquant’anni a questa parte la statura media dell’uomo in Francia è scemata di qualche millimetro. Questa osservazione vale quella accennata dianzi: su chi cade questa diminuzione?
In un rapporto letto all’Accademia delle Scienze morali sui risultati della legge 22 marzo 1841, Léon Faucher si esprimeva così: “I giovani operai sono pallidi, deboli, di piccola statura e lenti al pensiero come nei movimenti. A quattordici o quindici anni non sembrano più sviluppati dei fanciulli di nove a dieci anni viventi in condizioni normali. In quanto al loro sviluppo intellettuale e morale, se ne trovano che all’età di tredici anni non hanno la minima nozione di Dio, non hanno mai udito parlare dei loro doveri, e per i quali la prima scuola di morale è stata la prigione”.
Ecco quanto ha visto Léon Faucher, con gran dispiacere di Charles Dupin, e perché ha dichiarato essere impotente a porvi qualsiasi rimedio la legge 22 marzo. Né ci turbi codesta impotenza del legislatore; il male proviene da una causa la cui necessità per noi è pari a quella del sole e nelle ristrettezze in cui ci troviamo, montare in collera o ricorrere a palliativi non farebbe che rendere peggiore la situazione. Sì, mentre la scienza e l’industria fanno progressi tanto meravigliosi, è d’indeclinabile necessità, a meno di ammettere la possibilità d’improvviso spostamento del centro di gravità dell’incivilimento, che l’intelligenza e gli agi del proletariato s’attenuino; mentre s’allunga e migliora la vita delle classi agiate è fatale che peggiori e s’accorci quella delle classi indigenti. Ciò risulta dagli scritti dei benpensanti, cioè dei più ottimisti.
Secondo [Sébastien] de Morogues, 7.500.000 uomini in Francia non hanno da spendere che franchi 91 all’anno, cioè venticinque centesimi al giorno. Cinque soldi!...
Cinque soldi! C’è qualche cosa di profetico in questo ritornello odioso:
In Inghilterra (non compresa la Scozia e l’Irlanda), la tassa dei poveri era:
1801... 4.078.88l di sterline per una popolazione di 8.872.980
1818... 7.870.801 di sterline per una popolazione di 11.978.875
1833... 8.000.000 di sterline per una popolazione di 14.000.000.
Il progresso della miseria è stato dunque più rapido di quello della popolazione; che diventano innanzi a questo fatto le ipotesi di Malthus? – Eppure è indubitabile che nel tempo stesso la media del benessere è cresciuta, cosa esprimono dunque le statistiche?
Il rapporto di mortalità nel primo circondario di Parigi è di uno sopra cinquantadue abitanti e per il dodicesimo di uno sopra ventisei. Ora, quest’ultimo conta un indigente sopra sette abitanti, mentre l’altro ne ha solo uno sopra ventotto. Ciò non impedisce che, come osserva assai bene Fix, sia cresciuta a Parigi la vita media.
A Mulhouse le probabilità della vita media sono di ventinove anni per i fanciulli della classe agiata, e di due anni per quelli degli operai; nel 1812, la vita media era nella medesima località di venticinque anni, nove mesi e dodici giorni, mentre nel 1827 era discesa a ventun’anni e nove mesi. Tuttavia per tutta la Francia la vita media è in aumento. Che significa ciò?...
Blanqui, non potendo spiegarsi tanta prosperità congiunta a tanta miseria esclama: “L’accrescimento della produzione non è aumento di ricchezza... La miseria si spande invece sempre più, a misura che l’industria si concentra. È uopo che vi sia qualche vizio radicale in un sistema che non garantisce nessuna sicurezza né al capitale né al lavoro e che sembra moltiplicare gl’imbarazzi dei produttori, mentre li forza a moltiplicare i loro prodotti”.
Non c’è alcun vizio radicale. Ciò che fa stupire Blanqui è semplicemente ciò di cui l’Accademia alla quale egli appartiene ha chiesto la determinazione: sono le oscillazioni del pendolo economico, il valore, che tocca alternativamente il bene e il male, fino a che non sia suonata l’ora dell’equazione universale. Se mi si consente un altro paragone, dirò che l’umanità nel suo cammino è come una colonna di soldati, i quali, partiti al medesimo passo e nello stesso momento al rullo misurato del tamburo, perdono a poco a poco le distanze. La colonna avanza; ma la distanza dalla testa alla coda si fa sempre maggiore ed è necessario effetto del movimento che vi siano dei ritardatari e degli sviati.
Ma bisogna penetrare più oltre nell’antinomia. Le macchine promettevano un sovrappiù di ricchezza; esse hanno mantenuto la parola, ma dando contemporaneamente un sovrappiù di miseria. – Promettevano la libertà e io proverò che hanno recato la schiavitù.
Ho detto che la determinazione del valore e con essa le tribolazioni della società, cominciano con la divisione delle industrie, senza la quale non potrebbero esistere né scambio né ricchezza né progresso. Il periodo che in questo momento attraversiamo, quello delle macchine, si distingue per un carattere particolare, che è il salariato.
Il salariato procede in linea retta dall’uso delle macchine, cioè, per dare al mio pensiero tutta la generalità d’espressione che occorre, dalla finzione economica grazie a cui il capitale diviene agente di produzione. Il salariato insomma, posteriore alla divisione del lavoro e allo scambio, è il correlativo necessario della teoria della riduzione delle spese, in qualunque modo codesta riduzione si ottenga. Questa genealogia è troppo interessante per non dirne qualcosa.
La prima, la più semplice, la più potente delle macchine è la fabbrica.
La divisione si limitava a separare le diverse parti del lavoro, lasciando ciascuno applicarsi alla specialità che gli tornava gradita; la fabbrica aggruppa i lavoratori secondo la proporzione delle parti al tutto. È, nella forma sua più elementare, la ponderazione dei valori, introvabile secondo gli economisti. Ora, con la fabbrica crescono nello stesso tempo la produzione e il disavanzo.
Un uomo ha notato che dividendo la produzione e le sue diverse parti, e facendole eseguire ciascuna da un operaio a parte, si otterrebbe una moltitudine di forze il cui prodotto sarebbe molto superiore alla somma di lavoro che è dato dallo stesso numero di operai, quando il lavoro non sia diviso.
Cogliendo il bandolo di questa idea, egli pensa che formando un gruppo permanente di lavoratori assortiti per l’intento speciale ch’egli si propone, otterrà una produzione più sostenuta, più abbondante e meno costosa. Non è del resto indispensabile che gli operai siano riuniti nel medesimo locale: l’esistenza della fabbrica non richiede necessariamente questo contatto. Essa risulta dal rapporto e dalla proporzione dei diversi lavori e dal pensiero comune che li dirige. In una parola, la riunione nel medesimo sito può avere i suoi vantaggi che non vanno trascurati; ma non è ciò che costituisce la fabbrica.
Ecco dunque la proposta che fa lo speculatore a coloro che vuole per suoi collaboratori: vi garantisco a perpetuità il collocamento dei vostri prodotti, se vi piace accettarmi per compratore e per intermediario. L’affare è così evidentemente vantaggioso, che la proposta non può essere respinta. L’operaio vi trova continuità di lavoro, prezzo fisso e sicurezza; da parte sua l’imprenditore troverà più facile la vendita, poiché producendo a migliori condizioni, può aumentare il prezzo; finalmente i suoi benefici saranno più considerevoli a cagione della massa delle commissioni. Non ci sarà alcuno, nel pubblico o nelle sfere governative, che non feliciti l’imprenditore per avere accresciuta la ricchezza sociale con le sue combinazioni, e non gli voti una ricompensa.
Ma, in primo luogo, chi dice riduzione di spese, dice riduzione di servizi, non già, è vero, nel nuovo opificio, ma per gli operai della medesima arte rimasti fuori, come ancora per molti altri i cui servizi accessori saranno meno richiesti in avvenire. Dunque ogni formazione d’opificio corrisponde a un taglio di lavoratori; questa asserzione, per quanto sembri contraddittoria, è verissima così per la fabbrica come per una macchina.
Gli economisti ne convengono: ma ripetono qui la loro eterna canzone, che dopo un certo tempo, essendo cresciuta la domanda del prodotto in ragione della riduzione del prezzo, il lavoro, a sua volta, finirà per essere ricercato più di prima. Senza dubbio, col tempo, l’equilibrio si ristabilirà; ma, ripetiamolo, l’equilibrio, rifatto appena su questo punto, si turberà immediatamente su un altro, perché lo spirito d’invenzione, al pari del lavoro, non si arresta mai. Ora, quale teoria potrebbe giustificare queste perpetue ecatombi? “Quando si sarà ridotto, scriveva Sismondi, al quarto o al quinto di quel che è ora il numero degli uomini, occorrerà soltanto il quarto o il quinto dei preti, dei medici, ecc. Quando costoro siano tolti affatto di mezzo, si potrà fare a meno del genere umano”. E ciò accadrebbe effettivamente se per il lavoro d’ogni macchina in rapporto con i bisogni del consumo, cioè per ristabilire la proporzione dei valori continuamente distrutta, non abbisognasse creare senza tregua nuove macchine, aprire altri sbocchi e per conseguenza moltiplicare i servizi e spostare altre braccia. In tale maniera, da una parte l’industria e la ricchezza, dall’altra la popolazione e la miseria s’avanzano, per così dire, in fila e l’una trae seco sempre l’altra.
Ho fatto vedere come agli inizi dell’industria l’imprenditore tratti da pari a pari i suoi compagni, che diventano più tardi i suoi operai. È chiaro infatti che codesta primitiva uguaglianza è dovuta sparire rapidamente grazie alla posizione vantaggiosa del padrone e alla dipendenza degli operai. Invano la legge assicura a ciascuno il diritto d’intrapresa, pari alla facoltà di lavorare solo e vendere direttamente i prodotti del proprio lavoro. Secondo l’ipotesi, quest’ultimo partito è impraticabile, perché la fabbrica ha avuto per scopo l’annientamento del lavoro isolato. E in quanto al diritto di tirare l’aratro e andare avanti, la questione è nell’industria, come in agricoltura; non vale nulla saper lavorare, bisogna essere arrivati a tempo. La bottega, come la terra, cede al primo occupante. Quando uno stabilimento ha avuto l’agio di svilupparsi, di allargare la sua base, farsi la sua scorta di capitali, assicurarsi una clientela, cosa può mai contro una forza tanto superiore l’operaio, che di altro non dispone se non delle braccia? Non fu quindi con un atto arbitrario della potestà sovrana, né con fortuita e brutale usurpazione che si stabilirono nel Medioevo le corporazioni e le maestranze. La forza delle cose le aveva create gran tempo innanzi che i decreti regi le avessero legalmente consacrate, e malgrado la riforma del 1789, le vediamo ricostituirsi sotto i nostri occhi con un’energia cento volte più intensa. Abbandonate il lavoro alle sue tendenze, e l’assoggettamento di tre quarti del genere umano è assicurato.
Non è tutto. La macchina o la fabbrica, dopo aver degradato l’operaio dandogli un padrone, ne compie l’avvilimento, facendolo decadere dal posto di artigiano a quello di manovale.
In altri tempi la popolazione rivierasca della Saona e del Rodano si componeva in gran parte di marinai, tutti assuefatti alla condotta dei battelli, sia con cavalli, sia col remo. Oggi che il trasporto a vapore si è stabilito su quasi tutti i punti, i marinai, non trovando più da vivere col proprio mestiere o passano nell’ozio tre quarti della loro vita, o si fanno fuochisti.
Invece della miseria, la degradazione, ecco il male minore cui le macchine riducono l’operaio. La macchina somiglia a un pezzo di artiglieria: eccetto il capitano, tutti gli altri sono addetti al suo servizio, sono schiavi.
Da che si impiantarono le grandi manifatture, una folla di piccole industrie che alimentavano il focolare domestico è scomparsa: si crede forse che le operaie a 50 e a 75 centesimi abbiano tanta intelligenza quanto ne avevano le loro ave?
“Dopo l’apertura della ferrovia da Parigi a Saint-Germain, racconta Dunoyer, si è attivato tra il Pecq e una moltitudine di luoghi più o meno vicini un tal numero d’omnibus e di vetture che la ferrovia, contro ogni qualsiasi previsione, ha aumentato l’impiego dei cavalli in proporzioni considerevoli”.
Contro ogni previsione! Ci vuole un economista per prevedere cose di questa fatta. Moltiplicate le macchine, voi aumentate il lavoro penoso e umiliante: questo apoftegma è tanto certo quanto qualsiasi altro dal diluvio in qua. Mi si accusi pure, se così piace, di malvolere contro la più bella invenzione del nostro secolo: nulla mi vieterà di dire che il principale risultato delle ferrovie, dopo l’assoggettamento della piccola industria, sarà quello di creare una popolazione di lavoratori degradati: cantonieri, spazzini, facchini, scaricatori, carrettieri, guardiani, portinai, pesatori, pittori, ripulitori, fuochisti, pompieri, ecc. Quattromila chilometri di ferrovie daranno alla Francia un supplemento di cinquantamila servi. Non è certo per codesta gente che Chevalier chiede le scuole professionali.
Si dirà forse che, essendo la massa dei trasporti cresciuta proporzionalmente più che non sia il numero dei giornalieri, la differenza è a tutto vantaggio della ferrovia e che, in fin dei conti, c’è progresso. Si può anche generalizzare l’osservazione e applicare lo stesso ragionamento a tutte le industrie.
Ma è proprio questa generalità del fenomeno che pone in rilievo l’assoggettamento dei lavoratori. Il primo ufficio nell’industria l’hanno le macchine, il secondo gli uomini: tutto il genio sviluppato dal lavoro sbocca nell’abbrutimento del proletariato. Che gloriosa nazione sarà la nostra, quando su quaranta milioni di abitanti ne conterà trentacinque di persone che stentano la vita faticando, o scarabocchiando carta, o stando a servizio!
Con la macchina e la fabbrica, il diritto divino, cioè il principio di autorità, ha fatto il suo ingresso nell’economia politica. Il capitale, la maestranza, il privilegio, il monopolio, l’accomandita, il credito, la proprietà, ecc., questi sono nel linguaggio economico i nomi diversi di quel non so che chiamato altrimenti potere, autorità, sovranità, legge punitiva, rivelazione, religione, Dio infine, causa e principio di tutte le nostre miserie e di tutti i nostri delitti e che più cerchiamo di definire, più ci sfugge.
È dunque impossibile che nello stato presente della società, la fabbrica con la sua organizzazione gerarchica e le macchine, invece di favorire esclusivamente gl’interessi della classe meno numerosa, meno laboriosa e più ricca, siano strumento del bene di tutti?
È quel che andiamo a vedere.
3. – Rimedio contro l’influenza disastrosa delle macchine
Riduzione della mano d’opera è sinonimo di ribasso di prezzo e per conseguenza di aumento di scambi; perché il consumatore, pagando meno, comprerà più. Ma riduzione della mano d’opera è anche sinonimo di restringimento del mercato, perché se il produttore guadagna meno, meno compra. Ed è così che vanno le cose. La concentrazione delle forze nella fabbrica, e l’intervento del capitale nella produzione, sotto il nome di macchina, generano nello stesso tempo la produzione eccessiva e la miseria e tutti hanno potuto vedere questi due flagelli più gravi dell’incendio e della peste, svilupparsi ai nostri giorni in larga distesa e con intensità rovinosa. Tuttavia è impossibile che noi indietreggiamo: bisogna produrre, produrre senza posa, produrre a buon mercato; senza ciò l’esistenza della società è compromessa. Il lavoratore che per evitare l’abbrutimento di cui lo minacciava il principio della divisione, aveva creato tante macchine mirabili, si trova per effetto delle sue stesse opere o colpito di interdizione o soggiogato. Quali mezzi si propongono contro questa alternativa?
Sismondi, come tutti gli uomini dalle idee patriarcali, vorrebbe che la divisione del lavoro, con le macchine e gli opifici, fosse abbandonata, e ogni famiglia tornasse al sistema primitivo, cioè al ciascuno a casa sua, ciascuno per sé nel senso più letterale della parola. – Significa rinculare; è impossibile.
Blanqui torna alla carica col suo progetto di partecipazione dell’operaio e di accomandita di tutte le industrie a profitto del lavoratore collettivo. – Ho dimostrato che questo progetto compromette la fortuna pubblica, senza migliorare in modo sensibile le sorti dei lavoratori; e lo stesso Blanqui sembra aderire a questa opinione.
Come conciliare infatti la partecipazione dell’operaio ai benefici col diritto degli inventori, degli imprenditori, dei capitalisti, dei quali gli uni devono rifarsi delle forti anticipazioni e dei lunghi e pazienti sforzi, gli altri mettono in gioco continuamente la fortuna acquistata e corrono da soli il rischio di intraprese che sono spesso aleatorie e i terzi non potrebbero sopportare una qualunque riduzione nella misura degli interessi, senza perdere in qualche maniera i risparmi? Come, insomma, accordare l’uguaglianza che si vorrebbe stabilire tra lavoratori e i padroni con la preponderanza che non si può togliere ai capi degli stabilimenti, agli accomandatari, agli inventori e che implica così nettamente per loro l’esclusiva appropriazione dei guadagni? Decretare per legge l’ammissione di tutti gli operai al riparto dei lucri, sarebbe pronunciare la dissoluzione della società. Tutti gli economisti l’hanno avvertito tanto bene che hanno finito col mutare in un’esortazione ciò che prima avevano immaginato come uno schema. Ora, fino a quando il salariato non avrà altro profitto se non quello che gli sarà lasciato dall’imprenditore, si può stare sicuri della sua perpetua indigenza: non è nella facoltà dei detentori della mano d’opera che le cose vadano diversamente.
Del resto, l’idea, certo lodevolissima, di associare gli operai agli imprenditori tende a questa conclusione comunista, evidentemente falsa nelle sue premesse: – L’ultima parola delle macchine è di fare l’uomo ricco e felice senza che abbia bisogno di lavorare. Poiché dunque gli agenti naturali devono fare tutto per noi, le macchine devono appartenere allo Stato, e lo scopo del progresso è il regime della comunità. Esaminerò a suo tempo la teoria comunista.
Credo però di dovere sin da adesso prevenire i partigiani di quest’utopia che la speranza nella quale si cullano a proposito delle macchine è una semplice illusione d’economisti, qualche cosa come il moto perpetuo, che si cerca sempre e non si trova mai, perché lo si chiede a chi non può darlo. Le macchine non camminano da sole: bisogna, per tenerle in moto, organizzare intorno ad esse un immenso servizio, di modo che alla fine, creando l’uomo a se stesso tanto più bisogni quanto più strumenti possiede, la faccenda seria con le macchine è non tanto di spartirne i prodotti ma di assicurarne l’alimentazione, cioè rinnovare senza tregua il motore. Ora, questo motore non è l’aria, non è l’acqua, il vapore o l’elettricità; è il lavoro, cioè lo sbocco.
Una ferrovia sopprime su tutta la linea che percorre, il carriaggio, le diligenze, i fabbricanti di basti e selle, i carpentieri, gli albergatori; colgo il fenomeno nell’istante consecutivo all’apertura della strada ferrata. Supponiamo che lo Stato, per misura di conservazione o per principio d’indennità, dia agli industriali spostati la proprietà o l’esercizio della ferrovia; essendosi ridotto, suppongo, del 25% il prezzo del trasporto (senza ciò a che servirebbe la ferrovia?) il reddito di tutti codesti industriali riuniti si troverà scemato in analoga proporzione, e ciò torna a dire, che un quarto delle persone che vivevano prima con i trasporti, si troverà, malgrado la munificenza dello Stato, letteralmente senza mezzi di sorta. Per far fronte alla loro perdita hanno una sola speranza ed è che la massa dei trasporti effettuati sulla linea aumenti del 25%, ovvero che essi tornino a occuparsi in altre categorie industriali. Il che sembra a tutta prima impossibile, infatti, stando all’ipotesi e ai fatti, le occupazioni sono prese ovunque, da per tutto la debita proporzione è serbata e l’offerta si bilancia con la domanda.
Pure bisogna bene, se si vuole che cresca la massa dei trasporti, imprimere un nuovo eccitamento al lavoro nelle altre industrie. Ora ammettendo che si occupino i lavoratori spostati in questa ulteriore produzione superflua e che il loro riparto nelle varie categorie di lavoro sia così facile da eseguire come la teoria prescrive, si sarà ancora lontani dal saldo. Per cui, essendo le persone addette alla circolazione a quelle applicate alla produzione come 100 è a 1000, per ottenere con una circolazione meno costosa di un quarto, o, in altre parole, più potente di un quarto, lo stesso reddito di prima, bisognerà rinforzare parimenti di un quarto la produzione, ossia aggiungere all’attività agricola e industriale non già 25, cifra che indica la proporzionalità dell’industria dei trasporti, ma 250. Ora per giungere a questo risultato bisognerà creare delle macchine, creare, ciò che è peggio, degli uomini; ed ecco ricondotta la questione al medesimo punto. E così contraddizione su contraddizione. Non è solo il lavoro che, a causa della macchina, manca all’uomo; è anche l’uomo che, per la propria debolezza numerica, e l’insufficienza del proprio consumo, manca alla macchina. Di modo che mentre s’aspetta l’attuazione dell’equilibrio, c’è nello stesso tempo, mancanza di lavoro e mancanza di braccia, mancanza di prodotti e mancanza di sbocchi. E quel che diciamo della ferrovia è vero per tutte le industrie: sempre l’uomo e la macchina si perseguitano, senza che il primo possa trovar riposo, né la seconda soddisfare le voraci canne.
Quali che siano i progressi della meccanica, quando pure s’inventassero macchine cento volte più meravigliose della filatrice meccanica, della macchina da calze, del torchio a cilindro; quando si scoprissero forze cento volte più potenti del vapore, ben lungi dall’affrancare l’umanità, di crearle degli agi, e rendere gratuita la produzione d’ogni cosa, si riuscirebbe soltanto a moltiplicare il lavoro, accrescere la popolazione, aggravare la servitù, rendere la vita sempre più cara e sprofondare nell’abisso che separa la classe che comanda e gode dalla classe che obbedisce e soffre.
Supponiamo ora vinte tutte queste difficoltà. Supponiamo che i lavoratori messi in disponibilità dalla ferrovia, bastino all’accrescimento di servizio richiesto dall’alimentazione della locomotiva: effettuandosi il compenso senza strappi, nessuno ne soffrirà; anzi il benessere di ciascuno aumenterà di una frazione del guadagno realizzato per effetto del più facile carreggio sulla strada ferrata. Chi dunque, mi si chiederà, impedisce che le cose procedano per l’appunto con questa regolarità e precisione? E che c’è di più facile, per un Governo intelligente, dell’esecuzione cosiffatta di tutte le transazioni industriali?
Ho spinto l’ipotesi fino all’estremo limite cui potesse giungere, onde mostrare, da una parte lo scopo al quale tende l’umanità, dall’altra le difficoltà che essa deve vincere per arrivarvi. Sicuramente l’ordine provvidenziale è che il progresso si compia, riguardo alle macchine, nel modo che adesso ho detto. Ma ciò che imbarazza il cammino della società e la fa andare da Scilla a Cariddi, è il non essere organizzata. Siamo soltanto alla seconda fase delle sue evoluzioni e già abbiamo incontrato sulla nostra via due abissi che paiono insuperabili, la divisione del lavoro e le macchine. Come ottenere che l’operaio parcellare, se è uomo intelligente, non si abbrutisca, o, se è abbrutito torni alla vita intellettuale? Come fare nascere tra i lavoratori quella solidarietà d’interessi senza cui il progresso industriale segna a ogni passo una catastrofe, quando questi stessi lavoratori sono divisi profondamente dal lavoro, dal salario, dall’intelligenza e dalla libertà, cioè dall’egoismo? Come infine cambiare ciò che, per effetto del progresso compiuto, fu reso inconciliabile? Fare appello al sentimento di comunione e di fratellanza sarebbe anticipare le date. Non c’è nulla di comune, né può darsi fratellanza tra creature foggiate quali sono dalla divisione del lavoro e dai servizi delle macchine. Non è da questa parte che, almeno ora, dobbiamo cercare una soluzione.
Ebbene! si dirà, giacché il male è più negli intelletti che nel sistema, occupiamoci dell’insegnamento, lavoriamo all’educazione del popolo.
Perché l’istruzione sia utile, anzi perché possa essere ricevuta bisogna che l’animo sia libero, nello stesso modo che prima di seminare un campo, lo si ara con l’aratro nettandolo dalle spine e dalla gramigna. Per altro il migliore sistema di educazione, anche in ciò che concerne la filosofia e la morale, sarebbe quello dell’educazione professionale. Ora, come si fa a conciliare questa educazione con la divisione parcellare e il servizio delle macchine? Come mai l’uomo che per effetto del suo lavoro è divenuto schiavo, cioè un bene mobile, una cosa, tornerà una persona col medesimo lavoro o seguitando il medesimo esercizio? Come mai non si vede che queste idee ripugnano e che se per ipotesi impossibile il proletario potesse arrivare a un certo grado d’intelligenza, se ne servirebbe subito per sconvolgere la società e mutare tutti i rapporti civili e industriali? E quel che dico non è una vana esagerazione. La classe operaia a Parigi e nelle grandi città ha idee molto superiori a quelle che aveva venticinque anni addietro; mi si dica ora che questa classe non è decisamente, energicamente rivoluzionaria! E lo diverrà sempre più a misura che acquisterà le idee di giustizia e d’ordine, a misura soprattutto che comprenderà il meccanismo della proprietà.
Il linguaggio, chiedo scusa di tornare ancora una volta all’etimologia, mi pare che abbia nettamente espresso la condizione morale del lavoratore, dopo che questo fu, se così può dirsi, spersonificato dall’industria. Nel latino l’idea di servitù implica quella della subordinazione dell’uomo alle cose e quando più tardi il diritto feudale dichiarò il servo vincolato alla gleba, non fece altro che tradurre con una perifrasi il senso letterale della parola servus. [Malgrado le autorità più raccomandabili, non posso acconciarmi all’idea che servo, in latino servus, deriva da servare, conservare, perché lo schiavo era il prigioniero di guerra serbato al lavoro. La servitù, o almeno la domesticità, è certo anteriore alla guerra, quantunque abbia avuto da questa un notevole aumento. Perché, del resto, se tale fosse l’origine dell’idea come della cosa, invece di serv-us non si sarebbe detto, conformemente alla deduzione grammaticale, serv-atus? Per me la vera etimologia si scopre nella opposizione tra serv-are e serv-ire, il cui tema primitivo è ser-o, in-ser-o, congiungere, serrare, da dove ser-ier, giuntura, continuità, ser-a, serratura, ser-tire, incastrare, ecc. Tutti questi vocaboli implicano l’idea di una cosa principale cui viene a connettersi un accessorio, come oggetto di particolare utilità. Da lì serv-ire essere un oggetto d’utilità; una cosa secondaria a un’altra; serv-are come sarebbe a dire rinserrare, mettere in serbo, assegnare a una cosa la sua utilità, serv-uo uomo disponibile, una utilità, un bene mobile, una persona di servizio insomma. L’opposto di serv-us è dom-inus (dom-us, dom-anium e dom-are); cioè il capo della famiglia, il padrone di casa, colui che adopera per proprio uso gli uomini, servat, gli animali, domat, e le cose, possidet. Che in seguito i prigionieri di guerra siano stati riservati alla schiavitù, servati ad servitium, si capisce benissimo; essendo nota la loro destinazione non hanno fatto che prenderne il nome]. La ragione spontanea, oracolo della fatalità, aveva dunque condannato l’operaio subalterno prima che la scienza avesse posto in evidenza quanto fosse indegna tale condizione. A che possono servire dopo ciò gli sforzi della filantropia per creature reiette dalla Provvidenza?
Il lavoro è l’educazione della nostra libertà. Gli antichi avevano inteso il senso profondo di questa verità quando distinsero le arti servili dalle arti liberali. Quale è la professione tali sono le idee, e quali sono le idee tali sono i costumi. Nella schiavitù tutto assume il carattere dell’abbassamento. Le abitudini, i gusti, le inclinazioni, i sentimenti, i piaceri: c’è sovvertimento universale.
Occuparsi dell’educazione delle classi povere! Ma ciò è creare nelle anime degenerate il più atroce antagonismo; è ispirare in codeste classi idee che il loro lavoro renderebbe insopportabili, affetti incompatibili con la grossolanità del loro stato, piaceri il cui gusto è in esse ottuso. Se un progetto simile potesse approdare, invece di mutare il lavoratore in un uomo se ne farebbe un demone. Si studino di grazia le fisionomie della gente che popola le prigioni e i bagni e mi si dica se il maggior numero non appartiene ad individui che la rivelazione del bello, dell’eleganza, della ricchezza, del benessere, dell’onore e della scienza, di tutto quanto costituisce la dignità dell’uomo, ha trovato troppo deboli ed ha demoralizzati, uccisi.
“Almeno bisognerebbe fissare i salari, dicono i meno arditi, redigere in tutte le industrie tariffe accettate dai principali e dagli operai”.
È Fix che mette innanzi questa ipotesi di salvezza. E risponde vittoriosamente: “Queste tariffe sono state provate in Inghilterra e altrove e si sa quel che valgano: da per tutto appena ammesse furono violate tanto dai padroni che dagli operai”...
Le cause della violazione delle tariffe si intendono facilmente: sono le macchine, sono i procedimenti e le combinazioni incessanti dell’industria. Si combina una tariffa a un dato momento, ma ecco che sopravviene di un tratto una nuova invenzione che dà al suo autore il mezzo di far ribassare il prezzo della merce. Che faranno gli altri imprenditori? Smetteranno di fabbricare e rimanderanno i loro operai, ovvero proporranno una riduzione. È il solo partito che possono prendere, aspettando che riesca loro di scoprire un procedimento con cui, senza abbassare la misura dei salari, possano produrre a migliore prezzo dei loro emuli, il che equivarrà ancora a una soppressione di operai.
Léon Faucher pare che inclini verso un sistema d’indennità. Egli dice: “Noi intendiamo che in un interesse qualunque, lo Stato, rappresentante del voto generale, comandi il sacrificio di una industria”. – È ammesso che lo fa, dal momento che accorda a ciascuno la libertà di produrre e protegge e difende questa libertà contro qualunque attacco. – “Ma è una misura estrema, un esperimento sempre pericoloso, che deve essere accompagnato da tutte le possibili cautele per gl’individui. Lo Stato non ha il diritto di togliere a una classe di cittadini il lavoro che li fa vivere, innanzi di avere provveduto altrimenti alla loro sussistenza o d’essersi assicurato che essi troveranno in una nuova industria l’impiego della loro intelligenza e delle loro braccia. È massima invalsa nei paesi inciviliti che il Governo non può, anche per scopo d’utilità pubblica, impadronirsi di una proprietà privata se non abbia dato al proprietario una giusta e previa indennità. Ora, il lavoro ci sembra una proprietà tanto legittima e sacra, quanto un campo o una casa e non comprendiamo come lo si possa espropriare senza risarcimento di danni... In quel modo che stimiamo chimeriche le dottrine che rappresentano il Governo come l’universale fornitore di lavoro nella società, così ci sembra giusto e necessario che ogni spostamento di lavoro operato in nome dell’utilità pubblica, debba avvenire mediante un compenso o una transizione e che non s’immolino né individui né classi di sorta alla ragione di Stato. La potestà pubblica, nelle nazioni ben costituite, ha sempre il tempo e il denaro occorrenti per sedare queste sofferenze parziali. E precisamente perché l’industria non emana da lui, ma nasce e si sviluppa sotto l’impulso libero e individuale dei cittadini, il Governo è tenuto, quando ne turba il corso, a offrirle una specie di riparazione o d’indennità”.
Parole d’oro. Léon Faucher chiede, qualsiasi cosa dica, l’organizzazione del lavoro. Fare in modo che ogni spostamento di lavoro si operi mediante un compenso o una transizione e che individui e classi non siano mai immolati alla ragione di Stato, cioè al progresso dell’industria e alla libertà delle imprese, legge suprema dello Stato, senza dubbio un costituirsi, in un modo che l’avvenire si determini, come fornitore del lavoro nella società e custode dei salari. E siccome, lo abbiamo ripetuto molte volte, il progresso industriale e per conseguenza il lavoro di spostamento e di collocamento, è continuo nella società, non si tratta già di trovare una transizione particolare per ogni innovazione, ma bensì un principio generale, una legge organica di transizione applicabile a tutti i casi possibili e che produca da sé il suo effetto.
Léon Faucher si sente in grado di formulare questa legge e conciliare i diversi antagonismi che noi abbiamo descritto? No, giacché si ferma di preferenza all’idea di una indennità. La potestà, pubblica, egli dice, nelle nazioni bene organizzate, ha sempre il tempo e il denaro occorrenti per sedare queste sofferenze parziali. Me ne duole per le intenzioni generose di Faucher, ma mi pare che esse siano radicalmente impraticabili.
La potestà pubblica non ha altro tempo e altro denaro se non quello che toglie ai contribuenti. Indennizzare con l’imposta gl’industriali espropriati, sarebbe colpire d’ostracismo le nuove invenzioni e fare un po’ di comunismo con la punta delle baionette, non è risolvere la difficoltà. È inutile insistere più oltre sull’indennità fornita dallo Stato. L’indennità, applicata secondo le mire di Faucher, o porterebbe al dispotismo industriale, a qualche cosa come il Governo di [Agca] Mehmet Ali, o degenererebbe in una tassa dei poveri, cioè in una vana ipocrisia. Per il bene dell’umanità meglio varrebbe non dare indennità alcuna e lasciare che il lavoro cerchi da se stesso in perpetuo il modo di costituirsi.
Ci sono alcuni che dicono: il Governo dovrebbe mandare i lavoratori nei luoghi ove l’industria privata non s’è stabilita, ove le imprese individuali non farebbero presa. Abbiamo monti da rimboscare, cinque o sei milioni di ettari di terreni da dissodare, canali da scavare, mille cose insomma d’utilità immediata e generale cui mettere mano.
“Ci perdonino i lettori, risponde Fix; ma anche qui siamo obbligati a far intervenire il capitale. Queste superfici, salvo alcune terre comunali, si trovano incolte, perché mettendole a coltura non s’avrebbe alcun utile netto e probabilmente non si ripiglierebbero le spese. Questi terreni sono posseduti da proprietari i quali hanno o non hanno il capitale necessario per coltivarli. Nel primo caso il proprietario si contenterebbe, coltivandoli, di un profitto minimo e rinuncerebbe forse a quella che chiamasi rendita della terra; ma s’è accorto che intraprendendo tale coltura perderebbe il capitale d’impianto e altri calcoli gli hanno dimostrato che la vendita dei prodotti non coprirebbe le spese della coltivazione... Tutto ben ponderato, questa terra resterà quindi incolta, perché il capitale che vi si applicherebbe non darebbe alcun profitto e andrebbe perduto. Se fosse altrimenti, tutti questi terreni sarebbero ben presto coltivati; i risparmi che oggi prendono un’altra direzione si avvierebbero in una certa misura verso la coltivazione delle terre, perché i capitali non hanno affezioni ma interessi e cercano sempre l’impiego più sicuro e lucroso”.
Questo ragionamento, assai bene motivato, torna a dire che il momento di mettere a coltura i terreni incolti non è ancora giunto per la Francia, nello stesso modo che per i Cafri e gli Ottentotti non è venuto il momento di avere strade ferrate. In quanto, come fu detto nel Capitolo II, la società comincia con le intraprese più facili, più sicure, più necessarie e meno dispendiose e solo a poco a poco arriva a utilizzare le cose relativamente meno produttive. Da che il genere umano si tormenta sulla faccia del globo, non ha operato diversamente, per lui ritorna continuamente la stessa fatica: assicurarsi la sussistenza mentre muove alle invenzioni. Perché il dissodamento in questione non diventi una speculazione rovinosa, una causa di miseria, in altri termini, perché sia possibile, bisogna moltiplicare ancora i nostri capitali e le nostre macchine, scoprire nuovi processi, dividere meglio il lavoro. Ora, sollecitare il Governo a prendere una tale iniziativa, è fare come i contadini che, vedendo appressarsi la tempesta, si mettono a pregare Dio e invocare il loro santo. I Governi, non lo si ripeterà mai abbastanza, sono i rappresentanti della divinità, stavo per dire gli esecutori delle vendette celesti; non possono fare nulla per noi. Sa forse il Governo inglese dare lavoro ai miserabili che si rifugiano nelle Workhouses? E quando lo potesse, l’oserebbe? Chi s’aiuta Dio l’aiuta! Quest’atto di sfiducia popolare verso la divinità ci dice quello che possiamo aspettarci dal Governo... nulla.
Giunti alla seconda stazione del nostro calvario, invece di darci in preda a sterili contemplazioni, facciamo maggiore attenzione agli ammaestramenti del destino. Il pegno della nostra libertà è nel progresso del nostro supplizio.
V. Epoca terza. La concorrenza
Fra l’idra a cento gole della divisione del lavoro e l’indomito dragone delle macchine, che ne sarà del genere umano? Lo ha detto un profeta or sono più che duemila anni, Satana guarda la sua vittima e la guerra è accesa. Aspexit et dissolvit gentes. Per preservarci da due flagelli, la peste e la fame, la Provvidenza ci manda la discordia.
La concorrenza rappresenta quella era della filosofia nella quale avendo una mezza intelligenza delle antinomie della ragione generato l’arte del sofista, i caratteri del falso e del vero si confusero, e s’ebbero in luogo di dottrine sode, le ingannevoli giostre dello spirito. Così il movimento industriale riproduce fedelmente il movimento metafisico: la storia dell’economia sociale è tutta negli scritti dei filosofi. Studiamo questa fase interessante, il cui carattere più notevole è di levare il senno tanto a quelli che credono quanto a quelli che protestano.
1. – Necessità della concorrenza
Louis Reybaud, romanziere di professione, economista di circostanza, brevettato dall’Accademia delle Scienze Morali e Politiche per le sue caricature antiriformiste, e divenuto col tempo uno degli scrittori più alieni dalle idee sociali, Louis Reybaud è anch’egli, qualsiasi cosa faccia, profondamente imbevuto di queste stesse idee: l’opposizione ch’egli mette fuori non è né nel suo cuore né nella sua mente; è nei fatti.
Nella prima edizione dei suoi Études sur les Réformateurs [Bruxelles 1843] Reybaud, commosso dallo spettacolo dei dolori sociali del pari che dal coraggio di quei fondatori di scuole, che pensarono di potere riformare il mondo con una esplosione di sentimentalismo, aveva formalmente espresso l’opinione che ciò che mancava a tutti i loro sistemi era l’associazione. Dunoyer, uno dei giudici di Reybaud, gli rendeva questa testimonianza, tanto più lusinghiera per Reybaud, in quanto lo faceva in forma leggermente ironica: “Il signor Reybaud che ha esposto con tanta giustezza e perizia in un libro coronato dall’Accademia francese, i vizi dei tre principali sistemi riformisti, tiene per il principio che ad essi è comune e serve di base – l’associazione. L’associazione è agli occhi suoi, e lo dichiara, il più gran problema dei tempi moderni. Essa è chiamata, egli dice, a risolvere quello della distribuzione dei frutti del lavoro. Se per la soluzione di questo problema l’autorità non può nulla, l’associazione potrebbe fare tutto. Il signor Reybaud qui parla come uno scrittore del falanstero...”.
Reybaud s’era spinto un po’ innanzi, come si vede. Dotato di troppo buon senso e di troppa buona fede per non vedere il precipizio, ben presto egli s’accorse di fuorviare e cominciò a indietreggiare. Non gli faccio colpa di questo voltafaccia: Reybaud è di quegli uomini che non possono senza ingiustizia essere tenuti responsabili delle loro metafore. Aveva parlato prima di riflettere, si ritrattò; cosa naturalissima! Se i socialisti dovessero pigliarsela con qualcuno, questo dovrebbe essere Dunoyer, che provocò l’abiura di Reybaud con quel singolare complimento.
Dunoyer non tardò ad accorgersi che le sue parole non erano cadute in orecchie sorde. Egli narra, a gloria dei buoni princìpi, che “in una seconda edizione degli Études sur les Réformateurs, il signor Reybaud ha da se stesso temperato ciò che poteva esservi di assoluto nelle sue espressioni. Invece di scrivere potrebbe tutto, ha messo potrebbe molto”.
Era una modificazione importante, e Dunoyer non mancò di farlo notare, ma permetteva ancora a Reybaud di scrivere nel tempo stesso: “Questi sintomi sono gravi: possono considerarsi come pronostici di una organizzazione confusa nella quale il lavoro cerchi un equilibrio e una regolarità che gli mancano... In fondo a tutti questi sforzi si cela un principio: l’associazione, che s’avrebbe torto a condannare per l’irregolarità delle sue manifestazioni”.
Finalmente Reybaud s’è dichiarato altamente partigiano della concorrenza, il che vuol dire che ha decisamente abbandonato il principio dell’associazione. Dacché, se per associazione non si deve intendere altro se non le forme di società determinate dal Codice di commercio, delle quali [Raymond] Troplong e [Claude] Delangle ci hanno dato in compendio la filosofia, non vale la pena di distinguere i socialisti dagli economisti, un partito che cerca l’associazione e un partito il quale pretende che l’associazione esista.
Non si pensi, per ciò che a Reybaud è accaduto di rispondere sì e no storditamente sopra una questione di cui pare non avesse ancora una idea netta, che io lo collochi tra quegli speculatori di socialismo, i quali, dopo avere lanciata nel mondo una mistificazione, cominciano subito a battere in ritirata, col pretesto che essendo l’idea entrata nel dominio del pubblico, non c’è altro da fare che lasciarla camminare. Reybaud, secondo me, appartiene piuttosto alla categoria dei merli, che annovera nel suo seno tante persone oneste e tanta gente di spirito. Reybaud rimane agli occhi miei il vir probus dicendi peritus [Catone], lo scrittore coscienzioso e abile che può lasciarsi sorprendere, ma non esprime giammai se non quello che vede e quello che prova. Per altro, Reybaud, posto una volta sul terreno delle idee economiche, poteva tanto meno concordare con se stesso, quanto più lucidità c’era nel suo intelletto e giustezza nel raziocinio. Vado a fare sotto gli occhi del lettore questo curioso esperimento.
Se potessi essere ascoltato da Reybaud gli direi: prendete partito per la concorrenza, avrete torto; prendete partito contro la concorrenza, avrete ancora torto: ciò vuol dire che avrete sempre ragione. Dopo ciò se, convinto di non avere sbagliato né nella prima né nella quarta edizione del vostro libro, riuscite a formulare la vostra opinione in maniera intelligibile, vi terrò per un economista di genio pari a [Robert] Turgot e Adam Smith; ma vi prevengo che allora somiglierete a quest’ultimo, che, senza dubbio, conoscete poco; sarete un livellatore. Ci state?
Per meglio preparare Reybaud a questa specie di riconciliazione con se medesimo, mostriamogli dapprima come la sua versatilità di opinioni, che chiunque altro al mio posto gli rimprovererebbe con un’acrimonia ingiuriosa, sia un tradimento, non dello scrittore, ma dei fatti da lui interpretati.
Nel marzo 1844 Reybaud pubblicò un articolo sui semi oleosi, tema assai interessante per la sua patria, Marsiglia, pronunciandosi caldamente per la libera concorrenza e per l’olio di sesamo. In base alle notizie raccolte dall’autore e che paiono autentiche, il sesamo renderebbe dal 45% al 46% d’olio, mentre i grani di papavero e la colza non danno che dal 25% al 30% e l’oliva solo dal 20% al 22%. Il sesamo per questo motivo, non piace ai fabbricanti del Nord che ne hanno chiesta e ottenuta la proibizione. Intanto gl’Inglesi sono all’erta, pronti a impadronirsi di questo prezioso ramo di commercio. Si proibisca il sesamo, dice Reybaud; ne avremo l’olio nelle misture, nel sapone o in altre maniere, e avremo perduto il guadagno della fabbricazione. Per altro l’interesse della nostra marina esige che questo commercio sia protetto, si tratta di non meno di 40.000 tonnellate di semi, il che suppone un contingente di 300 bastimenti e 3000 marinai.
Questi fatti sono concludenti: 45% d’olio invece di 25%; qualità superiore a tutte quelle della Francia; riduzione di prezzo per una derrata di prima necessità; economia per i consumatori; 300 navi, 3000 marinai: ecco quel che ci darebbe la libertà del commercio. Dunque viva la concorrenza, viva il sesamo!
Poi per meglio assicurare questi splendidi risultati, Reybaud, trascinato dal suo patriottismo, e andando dritto allo scopo, osserva, assai giudiziosamente a parere nostro, che il Governo dovrà d’ora innanzi astenersi dallo stipulare qualsiasi trattato di reciprocità per i trasporti: egli chiede che la marina francese esegua così le importazioni come le esportazioni del commercio francese. “Quella che si chiama reciprocità, egli dice, è una pura finzione, il cui vantaggio tocca a quella delle parti contraenti la cui navigazione costa meno. Ora, siccome in Francia gli elementi della navigazione, quali sono, l’acquisto della nave, il salario degli equipaggi, le spese di armamento e di vettovagliamento s’elevano a un grado eccessivo e superiore a quello delle altre nazioni marittime, segue che ogni trattato di reciprocità equivale per noi a un trattato di abdicazione, e invece di dare il nostro consenso a un affare di mutua convenienza, ci rassegniamo consciamente o involontariamente a un sacrificio”. – Qui Reybaud mette in rilievo le disastrose conseguenze della reciprocità: “La Francia consuma 500.000 balle di cotone e ce lo portano gli Americani; adopera quantità enormi di carbone fossile e gli Inglesi ne eseguono il trasporto; gli Svedesi e i Norvegesi ci recano essi stessi il loro ferro e il loro legname; gli Olandesi il loro formaggio; i Russi la loro canapa e il loro grano; i Genovesi il loro riso; gli Spagnoli i loro oli; i Siciliani i loro zolfi; i Greci e gli Armeni tutte le derrate del Mediterraneo e del Mar Nero”.
Evidentemente un tale stato di cose è intollerabile, perché finirà col rendere inutile la nostra marina mercantile. Affrettiamoci dunque a rientrare nei cantieri da dove il basso prezzo della navigazione straniera tenta di escluderci. Chiudiamo le porte alle navi straniere o almeno colpiamole di forte imposta. Abbasso quindi la concorrenza e le marinerie rivali!
Reybaud comincia a capire che le sue oscillazioni economico-socialiste sono assai più innocenti che egli non avrebbe creduto! Come mi dovrà essere riconoscente per avere tranquillizzata la sua coscienza forse agitata!
La reciprocità della quale si lamenta con tanta amarezza Reybaud non è altro che una forma di libertà commerciale. Rendete liberi i traffici, la nostra bandiera sarà cacciata dalla superficie dei mari, come lo sarebbero i nostri oli dal continente. Dunque noi pagheremo più caro il nostro olio se persistiamo a volercelo fabbricare da noi, pagheremo più care le derrate coloniali se vorremo eseguirne noi stessi il trasporto. Per arrivare al buon mercato bisognerebbe, dopo avere rinunciato ai nostri oli, rinunziare alla nostra marina: tanto varrebbe rinunziare immediatamente alle nostre stoffe, alle nostre tele, alle nostre indiane, al nostro ferro; poi, siccome una industria isolata costa per necessità ancora troppo, rinunziare ai nostri vini, ai nostri grani, ai nostri foraggi! A qualunque partito vi atteniate, al privilegio o alla libertà, siete condotti all’impossibile, all’assurdo...
Esiste, senza dubbio, un principio di contemperamento; ma, se non si vuole cadere nel più rigido dispotismo, questo principio deve essere tratto da una legge superiore alla stessa libertà. Ora questa legge non è stata definita ancora e chiedo agli economisti se veramente la loro è una vera scienza. In quanto non posso tenere per dotto chi con la migliore buona fede e con tutto l’ingegno di questo mondo predica nello stesso tempo, a quindici righe di distanza, la libertà e il monopolio.
Non è evidente, di una evidenza immediata e intuitiva che la concorrenza distrugge la concorrenza? C’è nella geometria un teorema più certo e perentorio di questo? Come dunque, a quale patto e in che senso un principio che è la negazione di se medesimo può entrare nella scienza? Come può divenire una legge organica della società? Se la concorrenza è necessaria, se, come dice la scuola, è un postulato della produzione, com’è che diventa così rovinosa? E se il suo effetto più certo è quello di trarre a perdizione coloro che essa trascina, come diviene utile? Dacché gl’inconvenienti che l’accompagnano, del pari che il bene da essa fatto, non sono accidenti provenienti dal fatto dell’uomo; essi discendono logicamente gli uni e gli altri dal principio medesimo e sussistono al medesimo titolo gli uni in faccia agli altri... Dapprima la concorrenza è tanto essenziale al lavoro quanto la divisione, perché essa è la stessa divisione ricomparsa sotto un’altra forma, o piuttosto elevata alla sua seconda potenza; la divisione dico, non più come nella prima epoca delle evoluzioni economiche, adeguata alla forza collettiva e quindi assorbitrice della personalità del lavoratore nella fabbrica, ma generatrice della libertà e tale che d’ogni suddivisione del lavoro fa come una sovranità in cui l’uomo si colloca nella propria forza e indipendenza. La concorrenza, in una parola, è la libertà nella divisione e in tutte le parti divise; principiando dalle funzioni più comprensive essa tende a realizzarsi fino nelle operazioni inferiori del lavoro parcellare.
Qui i comunisti muovono un’obiezione. Bisogna, essi dicono, distinguere in ogni cosa l’uso dall’abuso. C’è una concorrenza utile, lodevole, morale, una concorrenza che allarga il cuore e la mente, una concorrenza nobile e generosa, l’emulazione; e perché questa emulazione non avrebbe per oggetto il vantaggio di tutti?... Vi è un’altra concorrenza funesta, immorale, asociale; una concorrenza gelosa, che odia e uccide, ed è l’egoismo.
Così dicono i comunisti; così si esprimeva, circa un anno addietro nella sua professione di fede sociale, il giornale “La Riforme”.
Per quanto mi ripugni fare opposizione a uomini le cui idee sono in fondo le mie, non posso accettare una simile dialettica. “La Riforme” credendo di cambiare tutto con una distinzione più grammaticale che reale, s’è, senza accorgersi, collocata nel campo delle timide transazioni, che è poi quello della peggiore diplomazia. La sua argomentazione è precisamente quella di Pellegrino Rossi riguardo alla divisione del lavoro e consiste nell’opporre tra loro la concorrenza e la morale, onde limitare l’una con l’altra, come Rossi pretendeva di fermare e restringere con la morale le induzioni economiche, risecando qua, tagliando là secondo il bisogno e l’occorrenza. Ho confutato Rossi facendogli questa semplice difficoltà: come può essere che la scienza sia in disaccordo con se medesima, che la scienza della ricchezza contrasti con la scienza del dovere? E così io chiederei ai comunisti: come mai un principio visibilmente utile può essere nel tempo stesso funesto?
Si dice: l’emulazione non è la concorrenza. Noto innanzi tutto che questa pretesa distinzione cade soltanto sugli effetti divergenti del principio, e ciò ha fatto credere all’esistenza di due princìpi che si confondessero. L’emulazione non è altro che la stessa concorrenza e, giacché si va nelle astrazioni, ci andrò volentieri anch’io. Non c’è emulazione senza scopo, come non c’è moto di passione senza oggetto; e siccome l’oggetto d’ogni passione è necessariamente analogo alla passione stessa, una donna per l’amante, il potere per un ambizioso, l’oro per un avaro, la corona per il poeta, così l’oggetto della emulazione industriale è necessariamente il profitto.
No, insiste il comunista, l’oggetto dell’emulazione del lavoratore deve essere l’utilità generale, la fratellanza, l’amore.
Ma la stessa società, giacché invece di fermarsi al privato individuo, del quale ora si discorre, si vuol parlare dell’uomo collettivo, la società, dico, lavora per arricchire; il benessere, la felicità è il suo unico intento. Come dunque ciò che è vero per la società, non lo sarebbe per l’individuo, poiché, dopo tutto, la società è l’uomo e l’intera umanità vive in ogni uomo? Come sostituire all’oggetto immediato dell’emulazione che, nell’industria, è il benessere personale, un impulso lontano e quasi metafisico che si chiama il benessere generale, quando soprattutto il secondo non è nulla senza il primo e non può risultare che da questo?
I comunisti, in generale, si fanno una strana illusione: fanatici del potere, essi pretendono fare risultare, per una specie di ricorso, dalla forza centrale e, nel corso particolare qui considerato, dalla ricchezza collettiva il benessere del lavoratore che ha creato questa ricchezza; come se l’individuo esistesse dopo la società e non la società dopo l’individuo. Del resto, non è questo il solo caso in cui noi vedremo i socialisti dominati, a loro insaputa, dalle tradizioni del regime contro il quale protestano.
Ma c’è bisogno d’insistere? Dal momento che il comunista cambia il nome delle cose, vera vocabula rerum [Sallustio], confessa implicitamente la propria impotenza e si mette fuori causa. Perciò, io per tutta risposta gli dirò, negando la concorrenza, voi abbandonate le tesi: ormai non si può tenere conto di voi nella discussione. Un’altra volta noi cercheremo fino a qual punto l’uomo deve sacrificarsi per l’interesse comune; per il momento si tratta di risolvere il problema della concorrenza, cioè di conciliare il maggiore soddisfacimento dell’egoismo con le necessità sociali: risparmiateci le vostre sentenze morali.
La concorrenza è necessaria alla costituzione del valore, cioè al principio stesso della distribuzione e per conseguenza all’attuazione della uguaglianza. Fino a che un prodotto è dato da un solo e unico fabbricante, il valore reale di questo prodotto rimane un mistero, sia dissimulazione dalla parte del produttore, sia incuria, o incapacità di far discendere il prezzo di costo al suo limite estremo. In modo che il privilegio della produzione è una perdita reale per la società e la pubblicità dell’industria, come la concorrenza dei lavoratori, è per essa un bisogno. Tutte le utopie immaginate e immaginabili non possono sottrarsi a questa legge.
Certo, io non intendo negare che il lavoro e il salario possano e debbano essere garantiti: nutro anzi la speranza che l’epoca di questa tutela non sia lontana. Ma ritengo che la tutela del salario è impossibile senza l’esatta conoscenza del valore e che il valore non può essere scoperto se non grazie alla concorrenza e non col mezzo d’istituzioni comuniste o per decreto del popolo. In quanto c’è qualche cosa più potente che non sia la volontà del legislatore e dei cittadini ed è l’impossibilità assoluta per l’individuo di fare il proprio dovere quando trovasi scaricato d’ogni responsabilità verso se medesimo. Ora la responsabilità verso se stesso, in materia di lavoro, implica necessariamente, di fronte agli altri, la concorrenza. Ordinate che a datare dal 1° gennaio 1847 il lavoro e il salario siano garantiti a tutti: ben presto un immenso rilassamento succederà alla tensione ardente dell’industria, il valore reale cadrà rapidamente al disotto del valore nominale; la moneta metallica, malgrado la sua effige e la sua impronta legale, correrà la sorte degli assegnati; il commerciante chiederà più per dar meno e noi scenderemo un girone più giù nell’inferno di miseria di cui la concorrenza è solo il terzo cerchio.
Quando io ammettessi, con alcuni socialisti, che l’attrattiva del lavoro potesse un giorno servire d’impulso all’emulazione senza la riserva mentale del profitto, di che utilità potrebbe essere, nella fase che studiamo, questa utopia? Noi siamo soltanto alla terza epoca dell’evoluzione economica, alla terza età della costituzione del lavoro, cioè in un periodo in cui è impossibile che il lavoro possieda attrattive. In quanto l’attrattiva del lavoro non può risultare che da un alto sviluppo fisico, morale e intellettuale del lavoratore. Ora, questo stesso sviluppo, questa educazione dell’umanità mediante l’industria è precisamente l’oggetto delle nostre ricerche attraverso le contraddizioni dell’economia sociale. Come dunque l’attrattiva del lavoro potrebbe servirci di principio e di leva, quando è ancora per noi scopo e fine?...
Ma, se è indubitabile che il lavoro, come la più alta manifestazione della vita, dell’intelligenza e della libertà, rechi con sé le proprie attrattive, io nego che queste possano mai essere totalmente separate dall’intento di utilità e perciò da una riscossa dell’egoismo; io nego il lavoro per il lavoro, come nego lo stile per lo stile, l’amore per l’amore, l’arte per l’arte. Lo stile per lo stile ha prodotto ai nostri giorni la letteratura spiccia e l’improvvisazione senza idee; l’amore per l’amore conduce alla pederastia, all’onanismo, alla prostituzione; l’arte per l’arte porta ai fantocci, alle caricature, al culto del brutto. Quando l’uomo non cerca nel lavoro altro che il piacere dell’esercizio, ben presto smette di lavorare e gioca. La storia è piena di fatti che attestano questa degradazione. I giochi della Grecia, istmici, olimpici, pitici, nemei, esercizi di una società che produceva tutto col mezzo dei suoi schiavi, la vita degli Spartani e degli antichi Cretesi loro modello; i ginnasi, le palestre, gl’ippodromi e le agitazioni dell’agora presso gli Ateniesi; le occupazioni che Platone assegna ai guerrieri nella sua Repubblica, e che rivelano i gusti del suo secolo; finalmente nella nostra società feudale le giostre e i tornei: – tutte queste invenzioni, come molte altre delle quali taccio, dal gioco degli scacchi inventato, a quanto si dice, durante l’assedio dì Troia, da Palamede, fino alle carte dipinte da [Jacquemin] Gringoneur per Carlo VI, sono esempi di quel che diventa il lavoro quando gli si tolga il serio movente della utilità. Il lavoro, il vero lavoro, quello che produce la ricchezza e dà la scienza, ha troppo bisogno di regola, di perseveranza e di sacrificio per rimanere a lungo amico della passione che è fugace di sua natura, incostante e disordinata; è qualche cosa di troppo elevato, troppo ideale e filosofico per diventare esclusivamente piacere e godimento, cioè misticismo e sentimento. La facoltà di lavorare, che distingue l’uomo dai bruti, ha la propria radice nei più riposti penetrali della ragione; come mai potrebbe divenire in noi una semplice manifestazione della vita, un atto voluttuoso della nostra sensibilità?
Che se ora c’è chi ama sostenere l’ipotesi di una trasformazione della nostra natura, senza precedenti storici e di cui nulla sinora avrebbe data la minima idea: questo è un sogno inintelligibile per coloro stessi che lo difendono, un rovesciamento del progresso, una smentita alle leggi più accertate della scienza economica; e per tutta risposta io la escludo dalla discussione.
Restiamo con i fatti, giacché i soli fatti hanno un significato e possono servirci. La rivoluzione francese è stata fatta per la libertà industriale tanto quanto per la libertà politica; e benché la Francia, nel 1789, non abbia scorto tutte le conseguenze del principio del quale chiedeva l’applicazione, pure, diciamolo apertamente, essa non s’è ingannata né nei suoi voti né nella sua aspettativa. Chiunque tentasse negarlo perderebbe agli occhi miei ogni diritto alla critica; non discuterò giammai con un avversario che ponga come canone l’errore spontaneo di venticinque milioni d’uomini.
Alla fine del secolo decimottavo, la Francia, stanca dei privilegi, volle a ogni costo scuotere il torpore delle sue corporazioni e rialzare la dignità dell’operaio, conferendogli la libertà. Bisognava emancipare il lavoro dovunque, stimolare il genio, rendere responsabile l’industriale, suscitandogli mille competitori e facendo pesare su lui solo le conseguenze della sua mollezza, della sua ignoranza e della sua malafede. Già prima del 1789 la Francia era matura per questa transizione; fu Turgot che ebbe la gloria di eseguire il primo passaggio.
Perché dunque se la concorrenza non fosse un principio della economia sociale, un decreto del destino, una necessità dell’anima umana, perché invece di abolire corporazioni, maestranze e giurande, non si pensò piuttosto a riassettare queste istituzioni? Perché, invece di una rivoluzione, non contentarsi di una riforma? Perché questa negazione se poteva bastare una modificazione? Tanto più che questa via di mezzo era perfettamente nell’ordine delle idee conservatrici accolte dalla borghesia. Che il comunismo, che la democrazia quasi socialista, che di fronte al principio della concorrenza, rappresentano inconsciamente il sistema del giusto mezzo, l’idea controrivoluzionaria, mi spieghino, se possono, questa unanimità della nazione!
Aggiungete che i fatti confermano la teoria. A datare dal ministero di Turgot, un risveglio di attività e di benessere cominciò a manifestarsi nella nazione. Quindi la prova sembrò così decisiva, che ottenne l’assenso di tutte le legislature; la libertà dell’industria e del commercio figura nelle nostre costituzioni al medesimo grado della libertà politica. E a questa libertà che la Francia deve da sessant’anni in qua i progressi della propria ricchezza.
In seguito a questo fatto capitale che stabilisce in maniera così vittoriosa la necessità della concorrenza, chiedo il permesso di citarne tre o quattro altri, i quali essendo di meno grande generalità, metteranno meglio in rilievo l’influenza del principio che difendo.
Perché l’agricoltura è tanto stranamente in ritardo tra noi? Da dove viene che la cieca abitudine e la barbarie pesano ancora, in tanti luoghi, su questo importante ramo del lavoro nazionale? Fra le molteplici cause che potrebbero citarsi, vedo in prima linea, la mancanza di concorrenza. I contadini si contendono i lembi del suolo; si fanno concorrenza presso il notaio, ma in campagna non se ne fanno. Parlate loro d’emulazione, e di pubblico bene, li vedrete rimanere a bocca aperta. – Il re, dicono essi, faccia gli affari suoi (il re per loro, vuol dire lo Stato, il bene pubblico, la società), il re faccia i suoi affari, noi faremo i nostri! – Ecco la loro filosofia, il loro patriottismo. Ah! se il re potesse suscitare in loro dei concorrenti! Sventuratamente è impossibile. Mentre nell’industria la concorrenza deriva dalla libertà e dalla proprietà, nell’agricoltura la libertà e la proprietà sono un ostacolo diretto alla concorrenza. Il contadino, retribuito, non in proporzione del lavoro e dell’intelligenza, ma secondo la qualità della terra e il piacere di Dio, non pensa, coltivando, che a pagare il meno che può di salari e fare meno anticipazioni che può. Sicuro di trovare sempre modo di collocare le sue derrate, quel che cerca è piuttosto la riduzione delle spese che il miglioramento del suolo e della qualità dei prodotti. Egli semina, la Provvidenza fa il resto. La sola specie di concorrenza che conosca la classe agricola è quella degli affitti, e non si può negare che in Francia, per esempio, nella Beauce, dia utili risultati. Ma siccome il principio di questa concorrenza è, per dir così, di seconda mano, non uscendo direttamente dalla libertà e dalla proprietà dei coltivatori, accade che tale concorrenza scompaia con la causa che la produce, di maniera che per determinare la decadenza dell’industria agraria in molti luoghi, o almeno per fermare il progresso, basterebbe forse rendere proprietari i fittavoli.
Un altro ramo del lavoro collettivo, che in questi ultimi anni ha fatto nascere vivissime dispute, è quello relativo alle costruzioni pubbliche. “Per dirigere la costruzione di una via, dice benissimo Dunoyer, valgono forse meglio un pioniere e un postiglione che un ingegnere uscito fresco fresco dalla scuola di ponti e strade”. Non c’è persona che non avrà avuto l’occasione di verificare l’esattezza di quest’asserzione.
Sopra uno dei più belli tra i nostri fiumi, celebre per l’importanza della sua navigazione, si doveva costruire un ponte. Sin da quando si pose mano ai calcoli i battellieri s’accorsero che gli archi sarebbero riusciti troppo bassi e i battelli non avrebbero potuto passare sotto il ponte, in tempo di piena. Ne avvertirono l’ingegnere che dirigeva i lavori. – I ponti, rispose costui, si fanno per quelli che vi passano sopra, non per quelli che passano sotto. La risposta è rimasta proverbiale in paese. Ma essendo impossibile che l’imbecillità abbia ragione fino alla fine, il Governo ha sentito la necessità di correggere l’opera del suo agente, e nel momento in cui scrivo, si stanno rialzando le arcate del ponte. C’è da credere che se i negozianti interessati alla percorrenza della via navigabile fossero stati incaricati dell’impresa a loro rischio e pericolo, si sarebbero fatti due volte i lavori? Ci sarebbe da fare un libro se si volessero annoverare i capolavori del medesimo genere dovuti alla dotta gioventù dei ponti e strade, che, uscita appena dalla scuola, e diventata inamovibile, non è più stimolata dalla concorrenza.
Si cita come prova dell’attitudine industriale dello Stato, e per conseguenza della possibilità di abolire ovunque la concorrenza, l’amministrazione dei tabacchi. – Là, si dice, non sofisticazione, non processi, non fallimenti, non miseria. Gli operai, sufficientemente retribuiti, istruiti, educati con le prediche, moralizzati, assicurati con una pensione formata con i loro risparmi, sono in una condizione incomparabilmente migliore di quella dell’immensa maggioranza degli operai addetti all’industria libera.
Tutto ciò può essere vero: quanto a me lo ignoro. Io non so nulla di quel che accade nell’amministrazione dei tabacchi; non ho preso informazioni né presso i direttori né presso gli operai e non ne ho bisogno. Quanto costa il tabacco venduto dall’amministrazione? Quanto vale? Potete rispondere alla prima domanda, informandovene al primo spaccio al quale capitate. Ma non potete dirmi nulla sulla seconda, perché vi manca il termine di paragone, essendo vietato controllare con prove i prezzi di costo della manifattura per conseguenza è impossibile accertarli. Dunque l’impresa dei tabacchi, eretta in monopolio, costa necessariamente alla società più di quanto le rende; è una industria che invece di mantenersi con i prodotti propri, vive di sovvenzioni e, per conseguenza, lungi dall’offrire un modello, è uno dei primi abusi che la riforma deve colpire.
E quando parlo della riforma da introdurre nella produzione del tabacco, non considero soltanto l’enorme imposta che triplica o quadruplica il valore di questo prodotto, né l’organizzazione gerarchica dei suoi impiegati che fa diventare gli uni, lautamente stipendiati, aristocratici tanto costosi quanto inutili, e gli altri salariati senza speranza, tenuti sempre in una condizione subalterna. Non parlo neanche del privilegio della rivendita e di tutto quel mondo di parassiti che ci vive dentro; ho in vista soprattutto il lavoro utile, il lavoro degli operai. Solo per questo l’operaio dell’amministrazione non ha concorrenza, non è interessato né ai lucri né alle perdite, insomma non è libero, per cui la sua produttività è necessariamente scarsa e il suo servizio troppo caro. Si venga a dire dopo ciò che il Governo tratta bene i suoi salariati, che si prende cura del loro benessere: dove sono questi miracoli? Non si vede che tocca alla libertà di sopportare le spese del privilegio e che se, per ipotesi impossibile, tutte le industrie fossero sottoposte al regime di quella dei tabacchi, venendo a mancare la fonte delle sovvenzioni, la nazione non potrebbe equilibrare le entrate con le spese e lo Stato farebbe bancarotta?
Prodotti forestieri. – Cito la testimonianza di un dotto, estraneo all’economia politica, Liebig. – “Una volta la Francia importava dalla Spagna tutti gli anni per 20 o 30 milioni di franchi di soda, essendo quella della Spagna la migliore. Durante la guerra con l’Inghilterra, il prezzo della soda e per conseguenza quello del sapone e del vetro, aumentarono costantemente. Le manifatture francesi furono danneggiate da un tale stato di cose. Fu allora che [Nicolas] Leblanc scoprì il mezzo di estrarre la soda dal sale comune. Questo ritrovato fu per la Francia una fonte di ricchezza: la fabbricazione della soda prese una estensione straordinaria; ma né Leblanc né Napoleone godettero i benefici dell’invenzione. La Restaurazione che approfittò della collera delle popolazioni contro l’autore del blocco continentale, ricusò di pagare il debito dell’imperatore, le cui promesse avevano eccitato la scoperta di Leblanc... Alcuni anni or sono, essendosi messo il re di Napoli a convertire in monopolio il commercio degli zolfi della Sicilia, l’Inghilterra che consuma una immensa quantità di quegli zolfi, minacciò di far guerra al re di Napoli se il monopolio fosse mantenuto. Mentre i due governi scambiavano note diplomatiche, quindici brevetti d’invenzione furono presi in Inghilterra per l’estrazione dell’acido solforico dal gesso, dalle piriti di ferro e da altre sostanze minerali di cui l’Inghilterra abbonda. Ma essendosi accomodate le cose col re di Napoli, non fu dato alcun seguito a questi ritrovati: rimase soltanto da prove che furono fatte che l’estrazione dell’acido solforico con i nuovi processi sarebbe riuscita benissimo, il che forse avrebbe annientato il commercio che la Sicilia fa di questi zolfi”.
Togliete la guerra con l’Inghilterra, togliete la fantasia di monopolio del re di Napoli, non si sarebbe mai pensato in Francia ad estrarre la soda dal sale marino, né in Inghilterra ad estrarre l’acido solforico dalle masse di gesso e di piriti di ferro che il suolo britannico racchiude. Ora questa appunto è l’azione della concorrenza nell’industria. L’uomo esce dall’ozio solo quando il bisogno lo molesta e il mezzo più sicuro per estinguere in lui il genio, è quello di liberarlo da ogni ansia, di levargli l’allettamento del guadagno e della distinzione sociale che ne risulta, creando intorno a lui la pace dovunque, la pace perpetua, e addossando allo Stato la responsabilità dell’inerzia individuale.
Sì, bisogna dirlo, a dispetto del quietismo moderno: la vita dell’uomo è una lotta continua; lotta col bisogno, lotta con la natura, lotta con i suoi simili, lotta, insomma, con se medesimo. La teoria di una eguaglianza pacifica, fondata sulla fratellanza e l’affezione, è una contraffazione della dottrina cattolica dell’allontanamento dai beni e dai piaceri di questo mondo, il principio della pitoccheria, il panegirico della miseria. L’uomo può amare il suo simile fino a dare la vita per lui, ma non lo ama fino al punto di lavorare per lui.
Alla teoria dell’affezione che noi abbiamo ora confutata in fatto e in diritto, gli avversari ne aggiungono un’altra che è poi l’opposto della prima: è legge dello spirito quella di oscillare fra due contraddizioni, quando sconosce la verità, che è il suo punto d’equilibrio. La nuova teoria del socialismo anticoncorrenziale è quella degli incoraggiamenti.
Che c’è di più sociale e progressivo in apparenza, che l’incoraggiamento al lavoro e all’industria? Non c’è democratico che non ne faccia uno dei più belli attributi del potere, né utopista che non lo metta in prima linea tra i mezzi d’organizzare il benessere. Ora, il Governo è per sua natura così inetto a dirigere il lavoro che ogni ricompensa decretata da lui è un vero furto fatto alla sua cassa comune. Reybaud mi fornisce il testo di questa induzione. “I premi accordati per incoraggiare l’esportazione, dice in un qualche suo scritto Reybaud, equivalgono ai diritti pagati per l’importazione della materia prima: il vantaggio risulta assolutamente effimero e non serve ad altro che ad incoraggiare un vasto sistema di contrabbando”.
È un risultato inevitabile. Sopprimete il dazio all’entrata, l’industria nazionale soffre, come s’è visto dianzi a proposito del sesamo; mantenete la tassa non accordando alcun premio per l’esportazione e il commercio nazionale sarà vinto nei mercati stranieri. Per sfuggire a questo inconveniente, rimettete il premio? Non fate altro che restituire con una mano quello che ricevete con l’altra e provocate alla frode, ultimo risultato, caput mortuum di tutti gl’incoraggiamenti all’industria. Segue da ciò che ogni incoraggiamento al lavoro, ogni ricompensa decretata all’industria, al di fuori del prezzo naturale del prodotto, è un dono gratuito, una mancia prelevata sul consumatore e offerta in nome suo a un favorito del Governo, in cambio di zero, di nulla. Incoraggiare l’industria significa in fin dei conti incoraggiare l’ozio; è una delle forme della truffa.
Nell’interesse della nostra marina da guerra, il Governo aveva creduto di dovere accordare agli imprenditori dei trasporti marittimi un premio per ogni individuo impiegato sui loro bastimenti. Ora io continuo a citare Reybaud: “Ogni bastimento che parte per Terranova imbarca da 60 a 70 uomini. In questo numero ci sono 12 marinai, il resto si compone di contadini tolti dai lavori della campagna, i quali ingaggiati come giornalieri per la preparazione del pesce, rimangono estranei alle manovre di bordo e non hanno della gente di mare altro che i piedi e lo stomaco. Pure questi uomini figurano sui registri d’iscrizione navale e vi perpetuano un inganno. Quando si tratta di difendere l’istituzione dei premi sono messi subito in conto perché fanno numero e contribuiscono al successo”.
È un ignobile imbroglio! esclamerà qualche candido riformatore. Sia. Analizziamo il fatto e tentiamo di mettere in vista l’idea generale che vi si trova.
In principio il solo incoraggiamento al lavoro che la scienza possa ammettere è il profitto. Quando il lavoro non riesce a trovare nel suo prodotto la propria ricompensa, non va per ciò incoraggiato, anzi va smesso al più presto, e se questo lavoro è seguito da un prodotto netto, è assurdo aggiungere a questo prodotto netto un dono gratuito e sovraccaricare così il valore del servizio. Applicando questo principio, io dico: se il servizio della marina mercantile richiede solo 10.000 marinai, non bisogna pregarla di mantenerne 15.000; la più spiccia per lo Stato sarebbe di mettere cinquemila coscritti su un bastimento e mandarli in giro per l’Oceano come tanti prìncipi. Ogni incoraggiamento offerto alla marina mercantile è un invito diretto alla frode – che dico? – una proposta di salario per un servizio impossibile. Oppure la manovra, la disciplina, tutte le condizioni del commercio marittimo si combinano con l’aggiunta di persone inutili? Cosa deve fare l’armatore in faccia a un Governo che gli offre una gratificazione se egli imbarca sui propri battelli gente di cui non ha bisogno? Se il ministro getta via il denaro del tesoro, è una colpa raccoglierlo?...
Dunque, si noti, la teoria degli incoraggiamenti emana in linea retta dalla teoria del sacrificio, e per non volere che l’uomo sia responsabile, gli avversari della concorrenza, per fatale contraddizione delle loro idee, sono costretti a fare dell’uomo ora un dio ora un bruto. E poi si meravigliano che ai loro appelli la società non si muova! Poveri semplicioni! gli uomini saranno sempre quali voi li vedete e furono sempre: né migliori né peggiori. Quando il bene privato li alletta, lasciano in disparte il bene generale; nel che li trovo se non degni d’onore, certo di scusa. È colpa vostra se ora esigete da essi più di quanto vi debbano, ora aguzzate la loro cupidigia con ricompense immeritate. L’uomo nulla pregia più di se stesso e per conseguenza la responsabilità propria sopra ogni altra legge. La teoria dell’amore del prossimo, come quella delle ricompense, è una teoria da bricconi, sovvertitrice della società e della morale e per ciò solo che aspettate sia dal sacrificio sia dal privilegio il mantenimento dell’ordine, voi create nella società un nuovo antagonismo. Invece di fare nascere l’armonia della libera attività delle persone, voi rendete l’individuo e lo Stato estranei l’uno all’altro e raccomandando l’unione, attizzate la discordia.
Insomma, la concorrenza analizzata nel suo principio è una ispirazione della giustizia, eppure noi vedremo adesso che la concorrenza nei suoi risultati è ingiusta.
2. – Effetti sovversivi della concorrenza e come essa distrugga la libertà
Il regno dei cieli si guadagna con la forza, dice il Vangelo, e i violenti solo lo afferrano. In queste parole è l’allegoria della società. Nella società regolata dal lavoro, la dignità, la ricchezza e la gloria sono poste a concorso, esse sono la ricompensa dei forti e la concorrenza stessa può definirsi il regime della forza. Gli antichi economisti non s’erano accorti di questa contraddizione; i moderni hanno dovuto riconoscerla.
“Per innalzare uno Stato dall’infimo grado della barbarie al più alto grado d’opulenza, scriveva Smith, bastano tre cose: la pace, tasse moderate e una tollerabile amministrazione della giustizia. Tutto il resto si ottiene dal naturale andamento delle cose”. Alle quali parole l’ultimo traduttore di Smith, Blanqui, fa questa triste glossa: “Abbiamo veduto il corso naturale delle cose produrre effetti disastrosi e creare l’anarchia nella produzione, la guerra per gli sbocchi e la pirateria nella concorrenza. La divisione del lavoro e il perfezionamento delle macchine, che dovevano procurare alla grande famiglia operaia del genere umano la conquista di un po’ di comodo a profitto della propria dignità, non hanno prodotto altro, in molti casi, che la miseria e l’abbrutimento... Quando Smith scriveva, non era ancora venuta la libertà con i suoi imbarazzi e con i suoi abusi, il professore di Glasgow ne prevedeva soltanto le dolcezze... Ma Smith avrebbe scritto come Sismondi se fosse stato testimone delle tristi condizioni dell’Irlanda e dei distretti manifatturieri dell’Inghilterra ai tempi nei quali viviamo...”.
Orsù, letterati, uomini di Stato, pubblicisti di quotidiani, credenti e semicredenti, voi che vi siete assunta la missione di ammaestrare gli uomini, udite queste parole che si direbbero tolte da Geremia? Ci direte una volta dove intendiate condurre la civiltà? Quale consiglio date alla patria in allarme?
Ma a chi parlo io? A ministri, giornalisti, sacrestani e pedanti! Forse codesta gente si dà pensiero dei problemi dell’economia sociale? Hanno forse sentito mai parlare della concorrenza?
Un lionese, anima indurita alla guerra mercantile, viaggiando in Toscana, vide come in questo paese si fabbricassero da cinque a seicentomila cappelli di paglia che formavano in complesso un valore da quattro a cinque milioni. Questa industria è per il popolo minuto press’a poco il solo modo di guadagnarsi il pane. “Come mai, egli pensò, una coltivazione e una industria così semplici non sono state introdotte nella Provenza e nella Linguadoca, il cui clima è simile a quello della Toscana?”. – Ma, osserva qui un economista, se portate via ai contadini toscani la loro industria, come faranno a vivere?
La fabbricazione delle stoffe di seta nera era divenuta per Firenze una specialità della quale custodiva gelosamente il segreto. “Un abile fabbricante di Lione, scrive con soddisfazione il viaggiatore, è venuto a stabilirsi a Firenze ed è riuscito a sapere il metodo che si tiene nella tintura e nella tessitura. Probabilmente questa scoperta farà scemare l’esportazione fiorentina”. ([Jean-Claude] Fulchiron, [Voyage dans l’Italie meridionale. Pise, Florence, Sienne et Rome, Royaume de Naples en 1838, 5 voll., Paris, 1840-42].
In altri tempi l’allevamento del baco da seta era tutto nelle mani dei contadini toscani che ci vivevano sopra. “Le società di agricoltura si sono fatte avanti; hanno dimostrato che il baco da seta, nella stanza da letto del contadino non aveva né una ventilazione sufficiente, né una temperatura abbastanza uniforme, né quelle cure appropriate che poteva ricevere se gli allevatori si fossero dedicati unicamente a questa faccenda. Per conseguenza alcuni cittadini ricchi, intelligenti, generosi, hanno costituito, con plauso generale del pubblico, le così dette bigattiere”. (Sismondi). Ebbene, voi mi direte, questi allevatori di bachi da seta, questi fabbricanti di stoffe nere e di cappelli, perderanno la loro industria? – Sicuramente, si proverà ad essi, per giunta, che hanno in ciò un interesse, visto che potranno procurarsi i medesimi prodotti con minore spesa di quel che ne costi loro la fabbricazione. Ecco cos’è la concorrenza.
La concorrenza col suo istinto omicida leva il pane a tutta una classe di lavoratori, e trova che questo è un miglioramento, un’economia; – ruba vigliaccamente un segreto, e se ne compiace come di una scoperta; – cambia le zone naturali della produzione a detrimento di tutto un popolo, e pretende di non avere fatto altro che valersi dei vantaggi del clima. La concorrenza sconvolge tutte le nozioni dell’equità e della giustizia, aumenta le spese reali della produzione, moltiplicando senza necessità i capitali fìssi, provoca a vicenda l’aumento dei prodotti e il loro deprezzamento, corrompe la coscienza pubblica, mettendo l’alea al posto del diritto, sparge dovunque il terrore e la diffidenza.
Senza questo atroce carattere la concorrenza perderebbe i suoi più felici risultati; senza l’arbitrio nello scambio e gli sgomenti del mercato, il lavoro non scaglierebbe opificio contro opificio senza tregua e, meno affannosa, la produzione non compirebbe nessuna delle sue meraviglie. Dopo aver fatto nascere il male dalla stessa utilità del suo principio, la concorrenza sa di nuovo trarre il bene dal male; la distruzione genera l’utilità, l’equilibrio si ottiene mediante l’agitazione, e si può dire della concorrenza quel che Sansone diceva del leone che aveva atterrato: De comedente cibus exiit et de forti dulcedo. C’è nelle sfere della scienza umana una scienza più mirabile dell’economia politica?
Guardiamoci tuttavia dal cedere a un moto d’ironia che da parte nostra sarebbe una ingiusta invettiva. È nel carattere della scienza economica di trovare la sua certezza nelle sue contraddizioni e tutto il torto degli economisti sta nel non averlo saputo capire. Non c’è cosa più meschina delle loro critiche, né più miserevole dell’imbroglio dei loro pensieri quando toccano la questione della concorrenza; paiono testimoni costretti dalla tortura a confessare ciò che la loro coscienza vorrebbe tacere. Il lettore mi sarà grato di mettere sotto i suoi occhi gli argomenti del lasciar passare, facendolo, per così dire, assistere a un conciliabolo di economisti. Dunoyer apre la discussione.
Dunoyer è di tutti gli economisti quello che ha con maggiore energia abbracciato il lato positivo della concorrenza e per ciò, come era da aspettarsi, quello tra tutti che ne ha colto peggio il lato negativo. Dunoyer, intrattabile su quelli che egli chiama i princìpi, è lontanissimo dal credere che in economia politica il no e il sì possano essere veri l’uno e l’altro nel medesimo istante e al medesimo grado; diciamo anche a lode sua che un tale concetto tanto più gli ripugna quanto più franchezza e lealtà sono nelle sue dottrine. Che non darei per fare penetrare in un animo così puro, ma così ostinato, questa verità, per me certa come l’esistenza del sole, che tutte le categorie dell’economia politica sono altrettante contraddizioni! Invece di affannarsi inutilmente a conciliare la pratica e la teoria, invece di contentarsi della ridicola scusa che ogni cosa quaggiù ha vantaggi e inconvenienti, Dunoyer cercherebbe l’idea sintetica nella quale tutte le antinomie si risolvono e da quel conservatore paradossale che è oggi, diventerebbe con noi rivoluzionario inesorabile e conseguente.
“Se la concorrenza è un principio falso, dice Dunoyer, segue che da duemila anni l’umanità ha battuto una falsa strada”. No; non segue affatto quel che dite e la vostra osservazione pregiudiziale si confuta con la teoria medesima del progresso. L’umanità stabilisce i suoi princìpi, l’un dopo l’altro e talora a lunghi intervalli; né si lascia sfuggire mai la sostanza di alcuno di essi, benché ne distrugga successivamente l’espressione o la formula. Questa distruzione è chiamata negazione, perché la ragione generale, progredendo sempre, nega di continuo la pienezza e la sufficienza delle sue idee anteriori. È così che mentre la concorrenza è una delle epoche della costituzione del valore e uno degli elementi della sintesi sociale, si può anche dire con verità che essa è indistruttibile nel suo principio, ma che pur nondimeno nella sua forma attuale deve essere abolita, negata. Se dunque c’è qualcuno che qui si trova in opposizione con la storia, questo siete voi.
“Ho molte considerazioni da fare sulle accuse mosse alla concorrenza.
“La prima è che questo regime, buono o cattivo, rovinoso o fecondo, non esiste in realtà ancora; non è stabilito in nessun luogo se non per eccezione nella più incompleta maniera”.
Questa prima accusa non ha senso. La concorrenza uccide la concorrenza, abbiamo detto cominciando; questo aforisma può tenere luogo di una definizione. Come mai la concorrenza può essere completa? – Per altro, quando si ammettesse che la concorrenza non esiste ancora nella sua pienezza, ciò proverebbe semplicemente che la concorrenza non agisce con tutta la potenza d’eliminazione che possiede; ma ciò non muta in nulla la sua indole contraddittoria. Che bisogno abbiamo di aspettare ancora trenta secoli per sapere che la concorrenza più si sviluppa e più tende a ridurre il numero dei concorrenti?
“La seconda è che il quadro ordinariamente delineato è infedele, non tenendosi conto abbastanza dell’estensione che ha preso il benessere generale, incluso quello delle classi lavoratrici”.
Se alcuni socialisti sconoscono il lato utile della concorrenza, voi dal canto vostro non fate menzione alcuna dei suoi effetti perniciosi. La testimonianza dei vostri avversari viene a completare la vostra, sicché la concorrenza è messa in piena luce, e da una doppia menzogna risulta per noi la verità. – Quanto alla gravità del male vedremo cosa c’è dì vero.
“La terza è che il male provato dalle classi lavoratrici non è ricondotto alle sue vere cause”.
Se, oltre la concorrenza, esistono altre cause della miseria, ciò toglie forse che la miseria abbia la sua parte? Anche ad esservi un solo industriale rovinato dalla concorrenza, se si riconosce che il disastro è l’effetto necessario del principio, la concorrenza, come principio, dovrebbe essere rigettata.
“La quarta è che i principali mezzi adatti per ovviarvi sarebbero nulla più che semplici espedienti”.
È possibile; ma ne concludo che l’insufficienza dei rimedi proposti c’impone un nuovo dovere, che è precisamente quello di ricercare i mezzi più acconci a prevenire il male della concorrenza.
“La quinta infine è che i veri rimedi, per quanto è possibile rimediare al male con la legislazione, sarebbero precisamente nel regime che viene accusato di averlo prodotto, cioè in un regime sempre più efficace di libertà e concorrenza”.
Ebbene, sia. Il rimedio alla concorrenza consiste, secondo voi, nel renderla universale, bisogna fornire a tutti i mezzi di concorrere, bisogna distruggere o modificare il predominio del capitale sul lavoro, mutare i rapporti di padrone a operaio, risolvere insomma l’antinomia della divisione e quella delle macchine; bisogna organizzare il lavoro; potete dare questa soluzione?
Dunoyer sviluppa in seguito con un coraggio degno di migliore causa la sua utopia prediletta della concorrenza universale; è un labirinto in cui l’autore inciampa e si contraddice a ogni passo.
“La concorrenza, dice Dunoyer, trova una moltitudine d’ostacoli”. Difatti, ne trova tanti e così potenti che essa stessa è resa impossibile, in quanto come si trova il mezzo di trionfare degli ostacoli inerenti alla costituzione della società e per conseguenza inseparabili dalla concorrenza stessa?
“Oltre ai servizi pubblici, vi sono certe professioni delle quali il Governo ha creduto di riservarsi l’esclusivo esercizio e ce n’è un numero ancora più grande di cui le leggi vigenti accordano il monopolio a una quantità ristretta di persone. Quelle lasciate in balia della concorrenza sono assoggettate a formalità, a restrizioni, a vincoli innumerevoli che impediscono a moltissimi di approssimarvisi, onde in esse la concorrenza è ben lungi dall’essere illimitata. Finalmente, non ce n’è alcuna che non sia sottoposta a tasse svariate, necessarie senza dubbio, ecc.”.
Che significa tutto ciò? Dunoyer non intende certo che la società faccia a meno del Governo, di amministrazione, di polizia, d’imposte, d’università, di tutto ciò insomma che costituisce una società. Dunque poiché la società implica necessariamente delle eccezioni alla concorrenza, l’ipotesi di una concorrenza universale è chimerica ed ecco ricacciati sotto il regime dell’arbitrio, cosa che la definizione della concorrenza ci aveva già fatto capire. C’è nulla di serio in quest’argomentazione di Dunoyer?
In altri tempi i maestri della scienza cominciavano col rigettare ogni idea preconcetta e s’adoperavano a ricondurre i fatti, senza alterarli o dissimularli, sotto leggi generali. Le ricerche di Adam Smith, per il tempo in cui apparvero, sono un prodigio di sagacia e di elevato raziocinio. Il quadro economico di [François] Quesnay, per quanto sembri inintelligibile, è testimonianza di un profondo sentimento della sintesi generale. L’Introduzione al grande trattato di J.-B. Say si tiene esclusivamente sui caratteri scientifici dell’economia politica e si vede a ogni linea come l’autore sentiva il bisogno di nozioni assolute. Gli economisti del secolo scorso non hanno certamente costituito la scienza, ma cercavano con ardore e buona fede di costituirla.
Quanto siamo lontani oggi da questi nobili pensieri! Non è più una scienza che si cerca, sono gl’interessi dinastici e di casta che si difendono. Si rimane ostinatamente nella pedanteria, malgrado la sua impotenza: si fa uso dei nomi più venerati per imprimere a fenomeni anormali un carattere di autenticità che non hanno, si tacciano d’eresia i fatti accusatori, si calunniano le tendenze del secolo e nulla irrita così un economista come il pretendere di ragionare con lui.
“Il carattere particolare del tempo presente, grida in tono di vivo malcontento Dunoyer, è l’agitazione di tutte le classi, è la loro inquietudine, la loro impossibilità di fermarsi davanti a nulla e di contentarsi mai; è il lavoro infernale fatto sulle classi meno agiate perché il loro malcontento cresca senza tregua, a misura che la società aumenta gli sforzi perché esse siano in realtà meno da compiangere”.
Bravo, perché i socialisti punzecchiano gli economisti sono diavoli incarnati! Può darsi una cosa più empia difatti che l’insegnare al proletario com’egli sia leso nel suo lavoro e nel suo salario e che, nell’ambiente in cui vive, la sua miseria è irrimediabile?
Reybaud ripete, rinforzandolo, il lamento del suo maestro Dunoyer; paiono i due serafini d’Isaia che cantino un Sanctus alla concorrenza. Nel Giugno 1844, al momento di pubblicare la quarta edizione degli Études sur les Réformateurs, Reybaud, nell’amarezza dell’anima sua, scriveva: “È dovuto ai socialisti il principio dell’organizzazione del lavoro e del diritto al lavoro; essi sono i promotori del regime di sorveglianza... Le camere legislative di ambo i lati dello stretto subiscono poco a poco la loro influenza... Così l’utopia guadagna terreno...”. Ed ecco Reybaud deplorare la l’influenza segreta del socialismo sui migliori ingegni, stigmatizzare, vedete che odio! il contagio inconscio, da cui si lasciano pigliare coloro stessi che hanno rotto qualche lancia contro il socialismo. Poi annunzia come un ultimo atto dell’alta giustizia contro i malvagi, la pubblicazione prossima, sotto il titolo di Leggi del lavoro, un’opera nella quale proverà (a meno che non avvenga una nuova evoluzione nelle sue idee) che le leggi del lavoro non hanno nulla di comune né col diritto al lavoro né con l’organizzazione del lavoro e che la migliore riforma è il lasciar fare. “La tendenza dell’economia politica, aggiunge Reybaud, ormai non è più verso la teoria ma verso la pratica. Le parti astratte della scienza paiono ormai fissate. La controversia delle definizioni è finita o quasi. I lavori dei grandi economisti sul valore, il capitale, l’offerta, e la domanda, il salario, le imposte, le macchine, il fitto, l’aumento della popolazione, l’ingorgo dei prodotti, gli sbocchi, le banche, i monopoli, ecc., ecc., paiono aver segnato il limite delle ricerche dogmatiche e formano un insieme di dottrine al di là del quale c’è poco da sperare”.
Facilità di parlare, impotenza a ragionare, tale sarebbe stata la conclusione di Montesquieu su questo strano panegirico dei fondatori dell’economia sociale. La scienza è fatta! Reybaud lo giura, e ciò che egli proclama con tanta autorità, lo si ripete all’Accademia, nelle cattedre, nel Consiglio di Stato, nelle Camere; lo si pubblica nei giornali; lo si fa dire al re nei suoi discorsi del Capodanno e con questo criterio i tribunali trattano le cause; la scienza è fatta! Che follia è la nostra, o socialisti, di cercare la luce in pieno meriggio e protestare con la lanterna in mano contro il bagliore di questi soli!
Però, signori miei, con sincero rincrescimento e una profonda diffidenza di me stesso, mi vedo costretto a chiedervi qualche chiarimento. Se non potete rimediare ai nostri mali, dateci almeno qualche buona parola, dateci l’evidenza, dateci la rassegnazione.
“È chiaro, dice Dunoyer, che la ricchezza è infinitamente meglio ripartita ai nostri giorni che non lo sia mai stato”. – “L’equilibrio delle gioie e dei dolori, ripiglia subito Reybaud, tende sempre a ristabilirsi quaggiù”.
E che dunque? Cosa dite? Ricchezza meglio ripartita, equilibrio ristabilito! Spiegatevi, di grazia, su questo migliore riparto. È l’eguaglianza che viene o la diseguaglianza che se ne va? La solidarietà che si cementa o la concorrenza che scema? Non vi lascio se non mi date una risposta, non missura cutem... [Orazio]. Infatti, qualunque sia la causa del ristabilimento dell’equilibrio e del migliore riparto che segnalate, io l’accetto con ardore e la seguirò fino alle ultime conseguenze. Prima del 1830, piglio questa data a caso, la ricchezza era peggio ripartita; com’è ciò? Oggi, secondo voi, lo è meglio: perché? Vedete bene dove voglio andare: non essendo ancora perfettamente equo il riparto, né assolutamente giusto l’equilibrio, domando, da una parte, quale sia l’impedimento che turba l’equilibrio, e dall’altra, in virtù di quale principio l’umanità passi senza tregua dal peggio al meno male e dal bene al meglio. Perché questo principio segreto non può essere né la concorrenza né la macchina né la divisione del lavoro né l’offerta e la domanda: tutti questi princìpi sono altrettante leve che di volta in volta fanno oscillare il valore, com’è stato benissimo inteso dall’Accademia delle Scienze Morali. Qual è dunque la legge sovrana del benessere? Qual è questa regola, questa misura, questo criterio del progresso la cui violazione è causa perpetua della miseria? Parlate, non perorate più. Voi dite che la ricchezza è meglio ripartita. Fuori le prove.
Dunoyer: “Secondo documenti ufficiali esistono non meno di undici milioni di quote fondiarie. Si computa a sei milioni il numero dei proprietari che pagano queste quote, di modo che, a quattro individui per famiglia, non ci sarebbero meno di ventiquattro milioni su trentaquattro, che parteciperebbero alla proprietà del suolo”.
Dunque, secondo i dati più favorevoli, vi sarebbero in Francia dieci milioni di proletari, un terzo quasi della popolazione. Eh! che ne dite? Aggiungete a questi dieci milioni la metà degli altri ventiquattro, per la quale la proprietà, oppressa d’ipoteche, frantumata, impoverita, deplorabile, non vale un mestiere e non avrete ancora la cifra degli individui che menano un’esistenza precaria.
“Il numero di ventiquattro milioni di proprietari tende sempre a crescere”.
Sostengo invece che tende sensibilmente a decrescere. Fra il possessore nominale di un pezzo di terra crivellato da imposte e tasse, vincolato, ipotecato e il creditore che percepisce il reddito, qual è, secondo voi, il vero proprietario? I prestatori ebrei e quelli di Basilea sono oggi i veri proprietari dell’Alsazia; e ciò che prova il finissimo giudizio di questi prestatori è che essi non pensano a comprare: preferiscono collocare i propri capitali.
“Ai proprietari fondiari bisogna aggiungere circa 1.500.000 di patentati, ossia, quattro persone per famiglia, sei milioni d’individui interessati come capi in imprese industriali”.
Però, innanzi tutto, un gran numero di industriali sono proprietari fondiari, e voi ne servite a doppio uso. Poi si può affermare che nella totalità degli industriali e dei commercianti patentati, un quarto al più fa dei guadagni, un altro quarto si mantiene in bilico e, il resto, è costantemente in perdita. Prendiamo dunque la metà dei sei milioni di sedicenti capi d’impresa, e aggiungiamola ai dodici milioni molto problematici di effettivi proprietari; avremo un totale di quindici milioni di Francesi, in stato, per la loro educazione, la loro industria, i loro capitali, il loro credito, le loro proprietà, di farsi concorrenza. Per il resto della nazione, cioè per diciannove milioni di anime, la concorrenza è come il famoso “pollo nella pentola” di Enrico V, un piatto che producono per la classe che può pagarlo, ma di cui non toccano briciola.
Altra difficoltà. Questi diciannove milioni d’uomini ai quali non è dato avvicinarsi alla concorrenza, sono i mercenari dei concorrenti. Così in altri tempi i servi combattevano per i signori, ma non potevano portare bandiera, né armare milizie. Ora, se la concorrenza non può per fatto proprio diventare la condizione comune, perché coloro per i quali essa non ha che pericoli non dovrebbero chiedere delle garanzie dai baroni ai cui servigi sono addetti? E se non si possono ricusare loro queste garanzie cosa potrebbero essere quest’ultime se non delle barriere alla concorrenza, come la tregua di Dio, inventata dai vescovi, fu una barriera alle guerre feudali? Per la costituzione stessa della società, la concorrenza è una cosa d’eccezione, un privilegio; adesso domando come mai, con l’eguaglianza dei diritti, questo privilegio sia ancora possibile.
E pensate voi, quando reclamo garanzie per i consumatori e i salariati contro la concorrenza, che faccia un sogno da socialista? Ascoltate due dei vostri più illustri confratelli che non accuserete certo di compiere un’opera infernale.
Rossi, nella Lezione sedicesima, riconosce allo Stato il diritto di regolare il lavoro, quando i danni fossero troppo gravi e le garanzie insufficienti, il che significa per sempre. Perché il legislatore deve assicurare l’ordine pubblico con princìpi e leggi; non aspetta che si producano fatti imprevisti per respingerli con mano arbitraria. – Altrove (Lezione ventiquattresima), il medesimo professore segnala come effetto di una esagerata concorrenza la formazione continua di un’aristocrazia finanziaria e territoriale, la prossima sconfitta della piccola proprietà e getta un grido di allarme. Da parte sua Blanqui dichiara che l’organizzazione del lavoro è all’ordine del giorno nella scienza economica (poi ha ritrattato); egli affretta la partecipazione degli operai ai profitti e l’avvento dell’operaio collettivo e tuona senza remissione contro i monopoli, le proibizioni e la tirannia del capitale. Qui habet aures audiendi audiat! [Matteo]. Rossi, in qualità di criminalista, statuisce contro i briganti della concorrenza; Blanqui, come giudice istruttore, denuncia i colpevoli; è la controscena del duetto cantato testé da Reybaud e Dunoyer. Quando questi gridano Hosanna, quelli rispondono, come i Padri nei Concili, Anathema.
Ma, si dirà, Blanqui e Rossi intendono colpire soltanto gli abusi della concorrenza, essi non proscrivono il principio, e in ciò sono d’accordo con Dunoyer e Reybaud.
Protesto contro questa distinzione nell’interesse della fama dei due professori.
Nel fatto, l’abuso ha invaso tutto e l’eccezione è divenuta regola. Quando Troplong, difendendo, con tutti gli economisti, la libertà del commercio, riconosceva che la coalizione delle messaggerie era uno di quei fatti contro i quali il legislatore si trova assolutamente incapace di agire, e che paiono smentire le più sane nozioni dell’economia sociale, aveva ancora la consolazione di poter dire che un simile fatto era eccezionale ed esservi motivo di credere che non si sarebbe generalizzato. Ora il fatto si è generalizzato; il giureconsulto più pedante solo che metta il capo alla finestra, può vedere come oggi tutto sia monopolizzato dalla concorrenza, i trasporti (per terra, per ferrovia e per acqua), i grani e le farine, i vini e l’acquavite, il legname, il carbone fossile, il ferro, i tessuti, il sale, i prodotti chimici, ecc. È triste per la giurisprudenza, sorella gemella dell’economia politica, vedere in meno di un lustro smentite le sue gravi previsioni; ma è ancora più triste per una grande nazione essere governata da geni così scadenti e dovere razzolare le poche idee di cui si nutre nella prunaia dei loro scritti.
In teoria abbiamo dimostrato che la concorrenza, per il suo lato utile, deve essere universale e portata alla massima intensità; ma che sotto il suo aspetto negativo deve essere cancellata da per tutto fino all’ultima traccia. Gli economisti sono in grado di operare questa eliminazione? Ne hanno previsto le conseguenze, ne hanno calcolato le difficoltà? In caso affermativo oserei dare loro da risolvere il seguente caso.
Un trattato di coalizione o piuttosto di associazione, perché i tribunali sarebbero molto imbarazzati a definire l’una e l’altra, ha riunito in una sola compagnia tutte le miniere di carbone fossile del bacino della Loira. Mosso dalle doglianze dei municipi di Lione e di Saint-Etienne, il ministro ha nominato una commissione con l’incarico di esaminare il carattere e le tendenze di questa società che fa tanta paura. Ebbene, io domando, cosa può qui l’intervento del Governo, assistito dalla legge civile e dall’economia politica?
Si grida alla coalizione. Ma si può impedire ai proprietari delle miniere di associarsi, di ridurre le loro spese generali e d’esercizio, e di trarre, con un lavoro meglio disposto, miglior partito delle loro miniere? O si darà a essi l’ordine di ricominciare l’antica guerra e di rovinarsi con l’aumento delle spese, lo spreco, l’ingorgo, il disordine, il ribasso? Sono assurdità.
Si vorrà impedire che aumentino i prezzi in modo da ottenere un interesse conveniente dai loro capitali? Allora bisogna difenderli contro le domande di aumento di salario da parte degli operai; si rifaccia la legge sulle società in accomandita, si interdica il traffico delle azioni, e quando tutti questi provvedimenti saranno stati adottati, siccome i capitalisti proprietari del bacino suddetto non possono, senza ingiustizia, essere costretti a perdere i capitali impiegati sotto un regime diverso, bisognerà che li indennizziate.
Li costringerete ad accettare una tariffa? È una legge di maximum. Lo Stato dovrà dunque mettersi al posto degli esercenti, fare come essi i conti del capitale, degli interessi, delle spese di amministrazione; regolare il salario dei minatori, gli stipendi degl’ingegneri e dei direttori, il prezzo del legname adoperato per l’estrazione, la spesa del materiale e finalmente determinare la misura normale e legittima del guadagno. Tutto ciò non può farsi per decreto ministeriale, ci vuole una legge. Oserà il legislatore per una industria speciale cambiare il diritto pubblico dei Francesi e mettere il potere politico al posto della proprietà? Allora, di due cose l’una: o il commercio del carbone fossile cadrà nelle mani dello Stato, o lo Stato dovrà trovare il modo di conciliare, nei riguardi della industria estrattiva, la libertà e l’ordine, e in tal caso i socialisti chiederanno che quanto s’è fatto in un sito si faccia da per tutto.
La coalizione delle miniere della Loira ha posto la questione sociale in termini che non permettono più di sfuggirla. O la concorrenza, cioè il monopolio e ciò che viene dopo, o l’esercizio nelle mani dello Stato, cioè l’aumento del lavoro e l’impoverimento continuo; o, infine, una soluzione conforme al principio d’uguaglianza, in altre parole l’organizzazione del lavoro, il che importa la negazione dell’economia politica e la fine della proprietà.
Ma gli economisti non procedono con questa logica brusca: amano venire a patti con la necessità. [François] Dupin (seduta 10 giugno 1843 dell’Accademia delle Scienze morali e politiche) esprime l’opinione che “se la concorrenza può essere utile all’interno, deve essere impedita tra popolo e popolo”.
Vietare o lasciar fare, ecco l’eterna alternativa degli economisti; il loro genio non va oltre. Invano si grida che qui non si tratta di vietare nulla né di permettere tutto; che ciò che ad essi si chiede e la società aspetta è una conciliazione; quest’idea doppia non entra nei loro cervelli.
“Bisogna, replica al Dupin Dunoyer, distinguere la teoria dalla pratica”. Dio buono! Tutti sanno che Dunoyer, inflessibile nelle sue opere rispetto ai princìpi, è di facile contentatura in fatto di pratica nel Consiglio di Stato. Ma si degni dunque una volta di farsi questa domanda: perché sono costretto di distinguere continuamente la pratica dalla teoria? perché non si accordano l’una con l’altra?
Blanqui, uomo conciliante e pacifico, appoggia il dotto Dunoyer, cioè la teoria. Tuttavia pensa con Dupin, cioè con la pratica, che la concorrenza non è senza peccato. Tanto Blanqui ha paura di calunniare e di attizzare il fuoco!
Dupin si ostina nella sua opinione. Mette a carico della concorrenza la frode, la vendita con frode, l’impiego dei fanciulli nelle officine. E tutto ciò senza dubbio per provare che la concorrenza all’interno può essere utile!
Passy con la sua logica ordinaria fa notare che ci sarà sempre gente disonesta, che, ecc. – Accusate la natura umana, esclama, non la concorrenza.
Sin dalla prima parola la logica di Passy s’allontana dalla questione. Non si rimproverano alla concorrenza le frodi delle quali è occasione o pretesto, bensì gli inconvenienti che risultano dalla sua natura. Un manifattore trova il modo di rimpiazzare un operaio che gli costa tre franchi al giorno, con una donna alla quale dà solamente un franco. Questo espediente è il solo che gli è consentito per far fronte al ribasso e fare andare lo stabilimento. Ben presto alle operaie aggiungerà i fanciulli. Poi, costretto dalla necessità della lotta, a poco a poco ridurrà i salari e aumenterà le ore di lavoro. Dov’è qui il colpevole? Quest’argomento si può rigirare in mille modi, applicandolo a tutte le industrie senza che vi sia motivo di accusare la natura umana.
Passy stesso è costretto a riconoscerlo quando soggiunge: “Riguardo al lavoro forzato dei fanciulli, la colpa è dei genitori”.
– È giusto. E la colpa dei genitori su chi cade?
“In Irlanda, continua questo oratore, non c’è concorrenza, eppure la miseria è estrema”.
Su questo punto la logica ordinaria di Passy è tradita da una straordinaria mancanza di memoria. In Irlanda c’è monopolio completo, universale della terra, e concorrenza illimitata, accanita per i fitti. Concorrenza e monopolio sono due palle legate ai piedi dell’infelice Irlanda.
Quando gli economisti sono stanchi di accusare la natura umana, la cupidigia dei genitori, la turbolenza dei radicali, ci allietano con il quadro della felicità del proletariato. Ma, anche su ciò non riescono ad accordarsi né tra loro né con se stessi: nè c’è cosa che meglio ritragga l’anarchia della concorrenza quanto il disordine delle loro idee.
“Oggi, la moglie dell’artigiano veste abiti eleganti che le dame del secolo scorso non avrebbero per niente sdegnato d’indossare”. (Chevalier, Lezione quarta). Ed è lo stesso Chevalier che in base a un calcolo fatto da lui, stima che la totalità del reddito nazionale darebbe 65 centesimi a testa al giorno. Alcuni economisti fanno scendere questa cifra a 55 centesimi. Ora, siccome bisogna prendere su questa somma quello che occorre per costituire le grosse fortune, si può calcolare, tenendosi al computo di De Morogues, che il reddito della metà dei Francesi non supera i 25 centesimi.
“Ma, riprende con mistica esaltazione Chevalier, la felicità non sta forse nell’armonia dei desideri con i godimenti, nell’equilibrio dei bisogni con i soddisfacimenti? Non sta forse in un certo stato dell’anima le cui condizioni l’economia politica non è competente a stornare, come non è in grado di farle nascere? È l’opera della religione e della filosofia”.
– Economista, direbbe Orazio a Chevalier, se l’arguto poeta vivesse ai nostri tempi, occupati solo dei miei redditi e lascia a me la cura del mio animo: Det vitam, det opes; aequum mi animum ipse parabo.
Dunoyer ha di nuovo la parola: “Si potrebbe facilmente, in molti villaggi, i giorni di festa confondere la classe operaia con la classe borghese (perché, ci sono due classi?), tanto l’abbigliamento della prima è accurato. Né è minore il progresso nel vitto. L’alimentazione è nello stesso tempo più abbondante, più sostanziosa e più variata. Il pane è migliorato da per tutto. La carne, la zuppa, il pane bianco sono divenuti, in molti centri industriali, d’uso infinitamente più comune di una volta. Finalmente la durata della vita media è salita da trentacinque anni a quaranta”.
Più oltre Dunoyer delinea il quadro delle fortune inglesi, secondo [Alfred] Marshall. Risulta da questo quadro che in Inghilterra 2.500.000 famiglie non hanno che un reddito di 1.200 franchi. Ora, in Inghilterra, 1.200 franchi sono come da noi 730 franchi, somma che, divisa tra quattro persone, dà a ciascuna 182,50 franchi, ossia cinquanta centesimi al giorno. La somma si avvicina ai 65 centesimi che Chevalier assegna a ciascun francese: la differenza a favore di quest’ultimo proviene da ciò che essendo in Francia minore il progresso della ricchezza, c’è anche minore la miseria. A che bisogna credere, alle magnifiche descrizioni degli economisti o ai loro calcoli?
“Il pauperismo è cresciuto a tal punto in Inghilterra, confessa Blanqui, che il Governo inglese ha dovuto cercare un rifugio in quelle spaventevoli case di lavoro...”. Difatti, queste pretese case di lavoro, ove il lavoro consiste in occupazioni ridicole e sterili, non sono altro, checché se ne dica, che case di tortura. In quanto non c’è per un essere ragionevole tortura che pareggi quella di girare una macina senza grano e senza farina, col solo scopo di fuggire il riposo, senza per questo sottrarsi all’ozio. “Questa organizzazione (l’organizzazione della concorrenza), continua a dire Blanqui, tende a far passare tutti i profitti del lavoro dalla parte del capitale... È a Reims, a Mulhouse, a Saint Quentin, come a Manchester, a Leeds, a Spitalfield che l’esistenza dell’operaio è più precaria...”. Segue un quadro spaventevole della miseria degli operai. Uomini, donne, fanciulli, ragazze vi passano dinanzi affamati, sparuti, cenciosi, pallidi, torvi. La descrizione termina con queste parole: “Gli operai dell’industria meccanica non possono più fornire soldati al reclutamento dell’esercito”. Pare che a quella gente non facciano bene la zuppa e il pane bianco di Dunoyer.
[Louis] Villermé considera come inevitabile il libertinaggio delle giovani operaie. Il concubinato è il loro stato abituale; sono mantenute dai principali, dai commessi, dagli studenti. Quantunque in generale il matrimonio abbia più attrattive per il popolo che per la borghesia, pure molti proletari, malthusiani senza saperlo, temono di far famiglia e seguono la corrente. E così nello stesso modo che gli operai sono carne da cannone, le operaie sono carne da prostituzione: ecco spiegato il vestito elegante della domenica. In fin dei conti, perché queste giovanette dovrebbero essere virtuose più delle borghesi?
[Eugène] Buret, premiato dall’Accademia: “Io dichiaro che la classe operaia è abbandonata corpo e anima a discrezione dell’industria”. – Il medesimo dice altrove: “I più deboli sforzi della speculazione possono fare crescere il prezzo del pane di cinque centesimi e più per libbra: il che rappresenta la somma di 620.500.000 franchi per 34 milioni d’individui”. Notate che il compianto Buret considerava come un pregiudizio popolare l’esistenza degli accaparratori. Eh! sofista: accaparratore o speculatore, che importa il nome se ammettete la cosa?
Con simili citazioni si riempirebbero dei volumi. Ma lo scopo di questo scritto non è di narrare le contraddizioni degli economisti, o di fare alle persone una guerra senza motivo. Il nostro intento è più elevato e più degno: è quello di esporre il Sistema delle contraddizioni economiche, il che è ben altra cosa. Termineremo qui codesta dolorosa rivista; ma, prima di finire, daremo un’occhiata a vari mezzi proposti per rimediare agli inconvenienti della concorrenza.
3. – Rimedi contro la concorrenza
La concorrenza nel lavoro può essere abolita?
Tanto varrebbe domandare se la personalità, la libertà, la responsabilità individuale possano sopprimersi.
Difatti, la concorrenza è l’espressione dell’attività collettiva, nella stessa maniera che il salario, considerato nelle sue determinazioni più elevate, è l’espressione del merito e del demerito, o, in una parola, della responsabilità del lavoratore. È vano declamare e ribellarsi contro queste due forme essenziali della libertà e della disciplina nel lavoro. Senza una teoria del salario, con c’è ripartizione, non c’è giustizia; senza un’organizzazione della concorrenza, non c’è garanzia sociale e, per ciò, non vi è solidarietà.
I socialisti hanno confuso due cose essenzialmente distinte, quando, opponendo l’unione del focolare domestico alla concorrenza industriale, si sono chiesti se la società non potesse essere costituita precisamente come una grande famiglia, i cui membri fossero legati da fraterno affetto e non come una specie di coalizione, nella quale ciascuno è ritenuto dalla ragione dei propri interessi.
La famiglia non è, se mi è lecito esprimermi così, il tipo, la molecola organica della società. Nella famiglia, lo aveva già notato assai bene [Louis de] Bonald, c’è una sola persona morale, un solo spirito, una sola anima, direi quasi con la Bibbia: una carne sola. La famiglia è tipo e culla della monarchia e del patriziato: in essa risiede e si conserva l’idea di autorità e di sovranità, che nello Stato sempre più va scomparendo. Tutte le società antiche e feudali si erano organizzate sul modello della famiglia ed è precisamente contro questa vecchia costituzione patriarcale che protesta e si ribella la democrazia moderna. L’unità costitutiva della società è la fabbrica.
Ora la fabbrica implica necessariamente un interesse di corpo e degl’interessi privati; una persona collettiva e degli individui. Ne risulta un sistema di rapporti ignoti nella famiglia e nei quali l’opposizione della volontà collettiva, rappresentata dal padrone e delle volontà individuali, rappresentate dai salariati, figura al primo posto. Vengono poi i rapporti tra fabbrica e fabbrica, tra capitale e capitale, in altre parole: la concorrenza e l’associazione. Infatti, la concorrenza e l’associazione s’appoggiano l’una sull’altra; l’una non può esistere senza l’altra e lungi dall’escludersi, non sono neanche divergenti. Chi dice concorrenza suppone già uno scopo comune; dunque concorrenza non è egoismo, e il più deplorevole errore del socialismo è di averla considerata come il rovesciamento della società.
Non si tratta qui perciò di distruggere la concorrenza, cosa impossibile quanto di distruggere la libertà; si tratta di trovarne l’equilibrio, direi volentieri, la pulizia. Dacché ogni forza, ogni spontaneità, sia individuale, sia collettiva, deve ricevere la sua determinazione; è, sotto questo riguardo, la concorrenza, nelle condizioni stesse dell’intelligenza e della libertà. Come dunque si determinerà armonicamente la concorrenza nella società?
Abbiamo udita la risposta di Dunoyer, data in nome dell’economia politica. La concorrenza deve determinarsi da se medesima. In altri termini, secondo Dunoyer e tutti gli economisti, il rimedio agli inconvenienti della concorrenza è nella stessa concorrenza, e poiché l’economia politica è la teoria della proprietà, del diritto assoluto d’usare e di abusare, è evidente che l’economia politica non ha null’altro da rispondere. Ora ciò è come dire che l’educazione della libertà si fa mediante la libertà, l’istruzione dello spirito mediante lo spirito, la determinazione del valore mediante il valore: tutte proposizioni evidentemente tautologiche e assurde.
Infatti, per tenerci nel soggetto che stiamo trattando, salta agli occhi che la concorrenza, praticata per se stessa e senz’altro scopo che quello di mantenere una indipendenza vaga e discorde, non può approdare a nulla e che le sue oscillazioni sono eterne. Nella concorrenza sono in lotta i capitali: le macchine, i metodi tecnici, i talenti e l’esperienza, cioè sempre i capitali; la vittoria è assicurata ai grossi battaglioni, e dunque la concorrenza non s’esercita se non a vantaggio degli interessi privati, e se i suoi effetti sociali non sono né determinati dalla scienza né riservati dallo Stato, vi sarà nella concorrenza, come nella democrazia, una continua tendenza dalla guerra civile alla oligarchia, dalla oligarchia al dispotismo, poi dissoluzione e ritorno alla guerra civile, senza fine né riposo. Ecco perché la concorrenza abbandonata a se stessa, non può mai giungere a costituirsi; al pari del valore, essa ha bisogno di un principio superiore che la socializzi e la definisca. Questi fatti sono ormai così bene accertati, che possono considerarsi come entrati nel dominio della critica e non staremo a tornarci su. L’economia politica, per ciò che concerne la politica della concorrenza, non avendo e non potendo avere altro mezzo che la concorrenza stessa, è dimostrata impotente.
Rimane da sapere, dunque, come il socialismo abbia intesa la soluzione. Un solo esempio ci darà la misura dei suoi mezzi e ci permetterà di prendere a suo riguardo alcune conclusioni generali.
Louis Blanc è forse tra tutti i socialisti moderni quello che per il suo rimarchevole talento ha saputo meglio richiamare l’attenzione del pubblico sui propri scritti. Nella sua Organisation du travail [Paris 1839], dopo avere ricondotto il problema dell’associazione a un sol punto, la concorrenza, egli si pronuncia, senza esitare, per la sua abolizione. Si può giudicare da ciò quanto questo scrittore, ordinariamente così accorto, si sia illuso sul valore dell’economia politica e sull’importanza del socialismo. Da una parte Blanc, ricevendo non so da dove le sue idee bell’e fatte, concedendo tutto al suo secolo e nulla alla storia, rigetta assolutamente, nel contenuto e nella forma, l’economia politica e si priva così dei materiali dell’organizzazione; dall’altra dà a tendenze risorte da tutte le epoche anteriori e da lui credute tendenze nuove, una realtà che non hanno e sconosce la natura del socialismo che è di essere esclusivamente critico. Blanc ci dà quindi spettacolo di una immaginativa vivace e pronta alle prese con una impossibilità; egli ha creduto alla divinazione del genio, ma ha dovuto accorgersi che la scienza non s’improvvisa e che il chiamarsi Adolf Boyer, Louis Blanc o Jean-Jacques Rousseau non conta; se nulla c’è nell’esperienza, nulla può esservi nell’intendimento.
Blanc comincia con questa dichiarazione: “Non riusciamo a comprendere coloro che hanno immaginato non sappiamo quale misterioso accoppiamento dei due opposti princìpi. Appiccicare l’associazione alla concorrenza è una meschina idea: è mettere gli ermafroditi al posto degli eunuchi”.
Queste quattro righe di Blanc sono deplorevolissime. Provano che quando faceva la quarta edizione del suo libro, egli aveva, in fatto di logica, così poco progredito come in economia politica e ragionava dell’una e dell’altra come un cieco che parli dei colori. L’ermafroditismo, in politica, consiste precisamente nell’esclusione, perché l’esclusione riconduce sempre, sotto una qualunque forma e in un medesimo grado, l’idea scartata; e Blanc sarebbe stranamente sorpreso se gli si facesse vedere che col mescolare continuamente, com’egli fa nel suo libro, i princìpi più contrari, l’autorità e il diritto, la proprietà e il comunismo, l’aristocrazia e l’uguaglianza, il lavoro e il capitale, la ricompensa e il disinteresse, la libertà e la dittatura, il libero esame e la fede religiosa, il vero ermafrodito, pubblicista a doppio sesso, è proprio lui. Blanc, collocato ai confini della democrazia e del socialismo, uno scalino più giù della repubblica, due al disotto di [Odilon] Barrot, tre al disotto di Thiers, è pur sempre, qualsiasi cosa dica o faccia, un discendente in quarta generazione di Guizot, un dottrinario.
“Certo, esclama Blanc, non siamo tra coloro che gridano anatema al principio di autorità. Questo principio lo abbiamo difeso mille volte contro attacchi tanto dannosi quanto inetti. Sappiamo che quando in una società non c’è in alcun luogo la forza organizzata, il dispotismo è da per tutto...”.
In tal modo, secondo Blanc, il rimedio alla concorrenza, o piuttosto il mezzo di abolirla, consiste nell’intervento dell’autorità, nella sostituzione dello Stato alla libertà individuale: è l’inverso del sistema degli economisti.
Mi dispiacerebbe che Blanc, le cui tendenze sociali sono note, mi accusasse di fargli, confutandole, una guerra politica. Rendo piena giustizia alle intenzioni generose di Blanc; amo e leggo le sue opere e gli rendo grazie per il servizio che ha reso, mettendo a nudo nella sua [Révolution française: histoire de dix ans, 1830-1840, Paris 1849] l’incurabile indigenza del suo partito. Ma nessuno può adattarsi a fare la figura dello stupido e dell’imbecille; ora, messa da parte qualsiasi questione personale, che vi può essere di comune tra il socialismo, questa protesta universale, e il pasticcio di vecchi pregiudizi che forma la repubblica di Blanc? Blanc non cessa di fare appello all’autorità, mentre il socialismo si dichiara apertamente anarchico; Blanc mette il potere sopra la società e il socialismo tende a far passare il potere sotto la società; Blanc fa scendere la vita sociale dall’alto e il socialismo pretende di farla spuntare e vegetare dal basso; Blanc corre dietro alla politica e il socialismo cerca la scienza. Non più ipocrisia, io dirò a Louis Blanc: voi non volete saperne del cattolicesimo né della monarchia né della nobiltà, ma vi occorre un Dio, una religione, una dittatura, una censura, una gerarchia e distinzioni e classi. E io nego il vostro Dio, la vostra sovranità, il vostro Stato giuridico e tutte le vostre mistificazioni rappresentative; io non voglio né l’incensiere di Robespierre né la bacchetta di Marat, e piuttosto che subire la vostra democrazia androgina, appoggio lo statu quo. Da sedici anni il vostro partito resiste al progresso e trattiene l’opinione; da sedici anni mostra la propria origine dispotica facendo anticamera al potere sui banchi del centro sinistra: è tempo che abdichi o si trasformi. Teorici implacabili dell’autorità, cosa proponete che il Governo al quale fate la guerra non possa effettuare in modo più tollerabile di quello che terreste voi?
Il sistema di Blanc si riassume in questi tre canoni: 1° Dare al potere una grande forza d’iniziativa, cioè, in buon volgare, rendere onnipotente l’arbitrio per realizzare un’utopia; 2° Creare e accomandare fabbriche statali; 3° Estinguere l’industria privata sotto la concorrenza dell’industria nazionale.
È tutto qui.
Ha Blanc affrontato il problema del valore, il quale da solo implica tutti gli altri? Non lo sospetta neanche. – Ha dato una teoria della distribuzione? No. – Ha risolto l’antinomia della divisione del lavoro, causa eterna d’ignoranza, d’immoralità e di miseria per l’operaio? No. – Ha fatto sparire la contraddizione tra le macchine e il salariato e conciliato i diritti dell’associazione con quelli della libertà? Tutt’al contrario, Blanc consacra questa contraddizione. Sotto la protezione dispotica dello Stato, egli ammette in principio l’ineguaglianza delle classi e dei salari, aggiungendovi, a titolo di compenso, il diritto elettorale. Operai che votano il proprio regolamento e nominano i propri capi, non sono forse liberi? Potrà bene accadere che questi operai votanti non ammettono tra loro né comando né differenza di salario; allora, nulla essendosi previsto per dare soddisfazione alle migliori attitudini industriali, pur mantenendo l’eguaglianza politica, la dissoluzione penetrerà nella fabbrica e, a meno che non intervenga la polizia, ciascuno andrà per le sue faccende. Questi timori non paiono né seri, né fondati a Blanc; egli aspetta la prova con calma, perfettamente sicuro che la società non s’incomoderà per dargli una smentita.
E le questioni così complesse e imbrogliate, dell’imposta, del credito, del commercio internazionale, della proprietà, della eredità le ha meditate Blanc? E il problema della popolazione lo ha risolto? No, no, no, mille volte no; quando Blanc non taglia di netto una difficoltà, la elimina. A proposito della popolazione egli dice: “La sola miseria è prolifica; ora, la fabbrica statale farà scomparire la miseria, dunque non occorre occuparsi di ciò”.
Invano Sismondi, sorretto dall’esperienza universale, gli grida: “Non abbiamo fiducia alcuna in coloro che esercitano poteri delegati. Crediamo che qualunque corporazione farà i propri affari peggio di coloro che sono animati da un interesse individuale; che da parte dei direttori vi sarà negligenza, fasto, dilapidazione, favoritismo, timore di compromettersi, tutti i difetti insomma che si osservano nell’amministrazione della fortuna pubblica in opposizione alla fortuna privata. Crediamo inoltre che in un’assemblea di azionisti non si troverà altro che disattenzione, capriccio, negligenza e che una impresa mercantile sarebbe continuamente in pericolo e ben presto andrebbe in rovina se dovesse dipendere da un’assemblea deliberante e da un commerciante”. Blanc non ode: stordisce se stesso con la sonorità delle frasi; sostituisce all’interesse privato l’interessamento per la cosa pubblica; alla concorrenza l’emulazione e le ricompense. Dopo aver posto come principio la gerarchia industriale, conseguenza necessaria della sua fede in Dio, nell’autorità e nel genio, si dà in braccio a mistiche potenze, idoli del suo cuore e della sua fantasia.
Per cui Blanc comincia con un colpo di Stato, o piuttosto, secondo la sua espressione originale, applicando la forza d’iniziativa che egli crea nel potere e colpisce i ricchi con una contribuzione straordinaria per accomandarne il proletariato. La logica di Blanc è semplicissima, è la logica della repubblica. Il potere può ciò che il popolo vuole e quel che il popolo vuole è vero. Modo singolare di riformare la società che consiste nel comprimere le sue più spontanee tendenze, negarne le più autentiche manifestazioni e invece di generalizzare il benessere col normale sviluppo delle tradizioni, mettersi a spostare il lavoro e il reddito! Ma, in verità, a che servono questi travestimenti? perché tanti raggiri? Non valeva meglio adottare senz’altro la legge agraria? Il Governo, in virtù della sua iniziativa, non poteva di un tratto dichiarare che tutti i capitali e gli strumenti del lavoro sono proprietà dello Stato, salvo l’indennità da accordare transitoriamente ai detentori? Col mezzo di questo provvedimento perentorio, ma leale e sincero, il campo economico era allora sgombro, l’utopia non avrebbe dovuto affaticarsi molto per nettarlo e Blanc poteva allora, senza impacci di sorta, mettersi con tutt’agio a organizzare la società.
Ma che dico? Organizzare! Tutta l’opera organica di Blanc consiste in un grande atto di espropriazione o di sostituzione, che dir si voglia; una volta spostata e repubblicanizzata l’industria e costituito il grande monopolio, Blanc ritiene che la produzione debba andare a meraviglia, né comprende come contro ciò, che chiama il suo sistema, possa elevarsi una sola obiezione. E difatti, cosa obiettare a un concetto così radicalmente nullo e impalpabile come quello del Blanc? La parte più curiosa del suo libro è quella ove ha raccolto una scelta di obiezioni proposte da alcuni increduli, ai quali è data risposta, s’intende, trionfale. Codesti critici non s’erano accorti che discutendo sul sistema di Blanc, essi ragionavano sulle dimensioni, sul peso e sulla figura di un punto matematico. Ora, è accaduto che nella controversia sostenuta, Blanc ha imparato più che non avesse dalle sue meditazioni, e si vede che se le obiezioni fossero continuate, egli avrebbe finito con lo scoprire ciò che credeva di avere inventato, l’organizzazione del lavoro.
Ma insomma, lo scopo, così ristretto del resto, cui mirava Blanc, cioè l’abolizione della concorrenza e la garanzia di successo per una impresa patrocinata e accomandata dallo Stato, è stato raggiunto? – Riprodurrò in proposito le riflessioni di un economista di talento, [Joseph] Garnier, alle parole del quale mi permetterò di aggiungere qualche commento. “Il Governo, secondo Blanc, farebbe una scelta di operai timorati e darebbe loro buoni salari”. Ci vogliono dunque per Blanc uomini fatti apposta: egli non si lusinga di agire su tutte le indoli. In quanto ai salari, Blanc li promette buoni; e più comodo che segnarne la misura. Blanc ammette per ipotesi che queste fabbriche darebbero un prodotto netto e farebbero inoltre una così efficace concorrenza all’industria privata, che questa si trasformerebbe tutta in fabbriche nazionali.
Com’è possibile ciò se i prezzi di costo delle fabbriche nazionali sono più alti di quelli delle fabbriche libere? Ho fatto vedere al capitolo I che i 300 operai di una filatura non danno, tra tutti all’industriale, un reddito netto e regolare di 20.000 franchi, e che questi 20.000 franchi ripartiti fra i 300 lavoratori non aumenterebbero le loro entrate se non di 18 centesimi al giorno. Ora questo è vero per tutte le industrie. Come farà la fabbrica nazionale, che deve pagare buone mercedi ai suoi operai, a colmare il deficit? – Con l’emulazione, dice Blanc.
Blanc cita con estrema compiacenza la Casa Leclaire, società d’operai imbianchini che fa benissimo i propri affari e la considera come una dimostrazione vivente del suo sistema. Blanc avrebbe potuto aggiungere a quest’esempio una quantità di società simili, che proverebbero tanto quanto è provato dalla Casa Leclaire, cioè niente di più. La Casa Leclaire è un monopolio collettivo, mantenuto dalla grande società che lo regge. Ora si tratta di sapere se la società tutta intera può diventare un monopolio, nel senso di Blanc, e sul modello della Casa Leclaire; e ciò io nego recisamente. Ma quel che tocca più da vicino la questione nostra e a cui Blanc non ha badato, è che risulta dai conti di riparto fornitigli dalla Casa Leclaire, che i salari di codesta Casa superano in larga misura la media generale, e la prima cosa da fare in una riorganizzazione della società, sarebbe quella di suscitare alla Casa Leclaire una concorrenza, sia mediante i suoi operai, sia col mezzo di estranei.
“I salari sarebbero regolati dal Governo. I membri della fabbrica socializzata ne disporrebbero a loro piacimento e l’incontestabile eccellenza della vita in comune non tarderebbe a far nascere dall’associazione dei lavori la volontaria associazione dei piaceri”.
Blanc è comunista sì o no? Lo dica una buona volta invece di tenersi al largo; e se il comunismo non lo rende più intelligibile, almeno si saprà quel che vuole. Leggendo il supplemento in cui Blanc ha giudicato a proposito di confutare le obiezioni fattegli da alcuni giornali, si vede meglio quanto vi è d’incompleto nel suo concetto, figlio almeno di tre padri, il sansimonismo, il fourierismo e il comunismo; col concorso della politica e di un po’, ma pochissimo, di economia politica. Secondo le sue dichiarazioni lo Stato non sarebbe che il regolatore, il legislatore, il protettore dell’industria e non il fabbricante o produttore universale. Ma siccome protegge esclusivamente le fabbriche nazionali per distruggere l’industria privata, finisce suo malgrado, necessariamente nel monopolio e ricade nella teoria sansimoniana, almeno nei riguardi della produzione.
Blanc non può negarlo; il suo sistema è diretto contro l’industria privata; in esso il potere, con la sua forza d’iniziativa, tende ad estinguere ogni iniziativa individuale, a proscrivere il lavoro libero. L’accoppiamento dei contrari è odioso al Blanc: perciò noi vediamo che dopo aver sacrificato la concorrenza all’associazione, le sacrifica la libertà. L’aspetto all’abolizione della famiglia.
“Ciò nonostante, egli dice, la gerarchia uscirebbe dal principio elettivo, come nel fourierismo, come nella politica costituzionale. Ma poi queste fabbriche socializzate, regolate dalla legge, sarebbero altra cosa che corporazioni? Qual è il vincolo delle corporazioni? la legge. E chi farà la legge? il Governo. Supponete che sarà capace? Ebbene, l’esperienza ha mostrato che il Governo non ha mai avuto competenza e attitudine a regolare gli innumerevoli accidenti dell’industria. Voi ci dite che fisserà la misura dei profitti e quella dei salari; sperate che lo farà in maniera da farci vedere lavoratori e capitali rifugiarsi nella fabbrica socializzata. Ma non ci dite come si stabilirà l’equilibrio tra queste fabbriche che tenderanno alla vita comune, al falanstero, voi non ci dite come queste fabbriche eviteranno la concorrenza interna ed estera; come provvederanno all’eccesso di popolazione in rapporto al capitale; come le fabbriche socializzate manifatturiere differiranno da quelle dei campi e altre cose ancora. So benissimo che risponderete: per la virtù specifica della legge! Ma, se il Governo, lo Stato non sanno farla? Non v’accorgete che scivolate sulla china e siete obbligati ad appigliarvi a qualche cosa di analogo alla legge vigente? Si vede nel leggervi. Vi preoccupate soprattutto d’inventare un potere suscettibile di essere applicato al vostro sistema; ma io dichiaro, dopo avervi letto attentamente, non credo che abbiate una nozione chiara e precisa di quel che v’abbisogna. Ciò che manca a voi, del pari che a noi tutti, è la vera nozione della libertà e dell’eguaglianza che non vorreste sconoscere e che siete costretto a sacrificare, per quante precauzioni prendiate. Non conoscendo la natura e le funzioni del potere, non avete osato fermarvi su una sola spiegazione, non avete prodotto il minimo esempio. Ammettiamo che le fabbriche funzionino per produrre, saranno anche stabilimenti commerciali che faranno circolare i prodotti, faranno degli scambi. E chi regolerà i prezzi? La legge? In verità vi dico ci vorrà una nuova apparizione sul monte Sinai, senza la quale non ve la caverete, né voi, né la vostra Camera dei rappresentanti, né il vostro Consiglio di Stato, né il vostro Areopago di Senatori”.
Sono riflessioni di una giustezza invincibile. Blanc, con la sua organizzazione per opera dello Stato, è sempre costretto a concludere con quello da cui avrebbe dovuto cominciare, e che gli avrebbe risparmiato la fatica di scrivere il suo libro: L’organisation du travail. Dice benissimo il suo critico. “Blanc ha avuto il grave torto di fare della strategia politica con questioni che non si prestano a quest’uso”; ha tentato di mettere in mora il Governo e non è riuscito ad altro se non a dimostrare sempre meglio l’incompatibilità del socialismo con la democrazia retorica e parlamentare. Il suo libretto tutto smagliante di pagine eloquenti fa onore al suo gusto letterario, in quanto al valore filosofico, sarebbe assolutamente lo stesso se l’autore si fosse limitato a scrivere sopra ogni pagina in grossi caratteri questo solo motto: io protesto.
Riassumiamo: la concorrenza, come posizione o fase economica, considerata nella sua origine, è il risultato necessario dell’intervento delle macchine nella costituzione della fabbrica e della teoria di riduzione delle spese generali; considerata nel suo significato proprio e nella sua tendenza è il modo secondo il quale si manifesta ed esercita la spontaneità sociale, l’emblema della democrazia e dell’eguaglianza, lo strumento più energico della costituzione del valore, il sostegno dell’associazione. – Come molla delle forze individuali, è pegno della loro libertà il primo momento della loro armonia, la forma della responsabilità che tutte le unisce e rende solidali. Ma la concorrenza abbandonata a se stessa e privata della direzione di un principio superiore ed efficace non è che un movimento vago, un’oscillazione senza scopo della potenza industriale, eternamente penzolante tra due estremi ugualmente funesti: da una parte le corporazioni e il patronato, che abbiamo visto nascere dalla fabbrica, dall’altra il monopolio, del quale si tratterà nel Capitolo seguente.
Il socialismo, protestando con ragione contro questa concorrenza anarchica, nulla che soddisfi ha proposto ancora per darle regola, e n’è prova il trovare ovunque, in tutte le utopie venute alla luce, la determinazione o socializzazione del valore abbandonata all’arbitrio e tutte le riforme sboccare, quando alla corporazione gerarchica, quando al monopolio dello Stato o al monopolio del comune.
VI. Epoca quarta. Il monopolio
Monopolio: commercio, produzione o godimento esclusivi di una cosa. Il monopolio è l’opposto naturale della concorrenza. Questa semplice osservazione basta, come s’è già detto, per far cadere le utopie il cui proposito è di abolire la concorrenza, come se questa avesse per contrario l’associazione e la fratellanza. La concorrenza è la forza vitale che anima l’essere collettivo: distruggerla, se una simile supposizione potesse farsi, sarebbe uccidere la società.
Ma se la concorrenza è necessaria, essa però implica l’idea del monopolio, poiché il monopolio è come la sede di ogni individualità concorrente. Onde gli economisti hanno dimostrato, e Rossi lo ha formalmente riconosciuto, che il monopolio è la forma di possesso sociale fuori della quale non c’è lavoro, non prodotto, non scambio, non ricchezza. Ogni possesso territoriale è un monopolio; ogni utopia industriale tende a costituirsi in monopolio; lo stesso va detto delle altre funzioni non comprese in queste due categorie.
Il monopolio per se stesso non implica dunque l’idea d’ingiustizia; anzi c’è in esso qualcosa che, appartenendo tanto alla società quanto all’individuo, lo legittima: è qui il lato positivo del principio che prendiamo ad esaminare.
Ma il monopolio, al pari della concorrenza, diviene antisociale e funesto: perché? Per l’abuso, rispondono gli economisti. E i magistrati s’applicano a definire e reprimere gli abusi del monopolio; e la nuova scuola degli economisti ripone ogni sua gloria nell’accusarlo.
Dimostreremo che i cosiddetti abusi del monopolio sono puri e semplici effetti dello sviluppo, in senso negativo, del monopolio legale; che essi non possono essere separati dal loro principio senza procurare la rovina di questo principio, e per conseguenza che sono inaccessibili alla legge, onde ogni repressione per questo rispetto è arbitraria e ingiusta. Di modo che il monopolio, principio costitutivo della società e condizione di ricchezza, è nel tempo stesso e al medesimo grado, principio di rapina e di pauperismo; che più bene gli si fa produrre, più male si raccoglie; che senza lui il progresso si ferma e, con lui, il lavoro s’immobilizza e la civiltà svanisce.
1. – Necessità del monopolio
Dunque il monopolio è il termine fatale della concorrenza, che lo genera con una incessante negazione di se medesima; questa genesi del monopolio è già la sua giustificazione. Dacché essendo la concorrenza inerente alla società, come il moto lo è agli esseri viventi, il monopolio che le viene appresso, che ne è lo scopo e il fine e senza il quale la concorrenza non sarebbe stata ammessa, il monopolio è e resterà legittimo fino a che lo sarà la concorrenza, fino a che dureranno i procedimenti meccanici e le combinazioni industriali, fino a che la divisione del lavoro e la costituzione dei valori saranno necessità e leggi.
Dunque per il solo fatto della sua genesi logica, il monopolio è giustificato. Tuttavia questa giustificazione sembrerebbe poca cosa e arriverebbe a far rigettare più energicamente la concorrenza, se il monopolio non potesse a sua volta affermarsi da se stesso e come principio.
Nei capitoli precedenti abbiamo veduto che la divisione del lavoro è la specificazione dell’operaio, considerato soprattutto come intelligenza; che la creazione delle macchine e l’organizzazione delle fabbriche esprimono la sua libertà e che, mediante la concorrenza, l’uomo, ossia la libertà intelligente entra in azione. Ora il monopolio è l’espressione della libertà vittoriosa, il premio della lotta, la glorificazione del genio, lo stimolo più forte di tutti i progressi compiuti sin dall’origine del mondo: a tal punto che, come dicevamo, la società non sarebbe stata fatta senza di lui, mentre non può sussistere con lui.
Da dove viene al monopolio questa singolare virtù, di cui l’etimologia della parola e l’aspetto volgare della cosa non ci danno la minima idea?
Il monopolio, in fondo, non è altro che l’autocrazia dell’uomo sopra se stesso; è il diritto dittatoriale accordato dalla natura a ciascun produttore d’usare le proprie facoltà come gli aggrada, di dare la via al pensiero in quella direzione che preferisce, di speculare, in quella specialità che gli piace scegliere, con tutta la potenza dei suoi mezzi, di disporre da sovrano degli strumenti che s’è creati e dei capitali accumulati col suo risparmio per volgersi a quell’impresa i cui rischi vuole affrontare e sotto l’espressa condizione di godere, solo, il frutto della scoperta e dei benefici dell’avventura.
Questo diritto è così insito alla libertà, che, a negarlo, si mutila l’uomo nel corpo, nell’anima e nell’esercizio delle sue facoltà, e la società, la quale non progredisce se non per il libero impulso degli individui, mancando gli esploratori, si trova fermata nel proprio cammino.
È tempo di dare, valendoci della testimonianza dei fatti, un corpo a tutte queste idee.
Conosco un comune, ove da tempo immemorabile non c’erano sentieri né per la lavorazione delle terre né per le comunicazioni col di fuori. Per tre quarti dell’anno era interdetta ogni importazione o esportazione di derrate; una barriera di fango e di pantani impediva, nello stesso tempo, qualsiasi invasione dal di fuori e ogni escursione dall’interno della borgata sacrosanta. Sei cavalli, nelle belle giornate bastavano appena a tirare un carico che su una buona strada una rozza al passo avrebbe tirato senza la minima difficoltà. Il sindaco del luogo risolvette, malgrado il consiglio comunale, di aprire una strada sul territorio. Fu per gran tempo deriso, maledetto, esecrato. Si era stati benissimo senza la via fino ad allora: che bisogno c’era di spendere il denaro del comune e fare perdere il tempo ai contadini in prestazioni, carreggi, carrate? Era per soddisfare il suo orgoglio che il sindaco voleva, a spese di poveri affittuari, aprire un così bel viale agli amici di città che venivano a visitarlo!...
Malgrado tutto, la strada fu aperta e i contadini ne furono contenti. Che differenza, dicevano; prima attaccavamo otto cavalli per trasportare una trentina di sacchi al mercato e vi restavamo tre giorni; adesso partiamo la mattina con due cavalli e torniamo la sera. – Ma in tutti questi discorsi il sindaco non c’entra più. Dopo che i fatti gli hanno dato ragione, nessuno parla più di lui; ho saputo anzi che la maggior parte gli tenne il broncio.
Questo sindaco l’ha fatta da Aristide. Supponiamo che, stanco per le assurde vociferazioni, egli avesse sin da principio proposto ai suoi amministrati di far aprire la via a sue spese, a condizione di riscuotere per cinquant’anni un pedaggio, lasciando libero chiunque di andare, come in passato, traverso i campi: cosa ci sarebbe stato di fraudolento in codesta transazione?
Ecco la storia della società e dei monopolizzatori.
Non tutti sono in grado di regalare ai propri concittadini una via o una macchina; ordinariamente è l’inventore, che dopo averci rimesso danari e salute, aspetta una ricompensa. Ricusate dunque ad Arkwright, a Watt, a Jacquard il privilegio della loro scoperta, beffandoli per giunta; essi si chiuderanno a lavorare nel loro gabinetto e forse porteranno nella tomba il proprio segreto. Ricusate al colono il possesso del suolo che egli dissoda e nessuno dissoderà.
Ma, si dice, è questo il vero diritto, il diritto sociale, il diritto fraterno? Ciò che all’uscire dalla primitiva comunità va scusato come un effetto della necessità, non è che un diritto provvisorio, il quale deve sparire davanti a una più completa intelligenza dei diritti e dei doveri dell’uomo e della società.
Io non arretro dinanzi a qualunque ipotesi: vediamo, approfondiamo.
È già un gran punto, che, a confessione degli avversari, nel primo periodo dell’incivilimento le cose non siano potute andare diversamente. Rimane da sapere se le istituzioni di questo periodo abbiano, come si dice, una natura precaria o se siano il risultato di leggi immanenti nella società ed eterne.
Ora la tesi che io sostengo in questo momento è tanto più difficile in quanto è in opposizione diretta con la tendenza generale e io stesso dovrò tra poco rovesciarla mediante la sua intrinseca contraddizione.
Mi si dica, per cortesia, come sia possibile fare appello al principio di socialità, di fratellanza e di solidarietà, quando la società stessa respinge ogni transazione solidale e fraterna. Al sorgere di qualsiasi industria, al primo lampo di una scoperta, l’uomo che inventa è isolato; la società lo abbandona e rimane indietro. A dire meglio, quest’uomo relativamente all’idea che ha concepito e di cui determina l’effettuazione, diviene egli solo la società tutta intera. Egli non ha più associati, non collaboratori, non garanti; ognuno lo fugge; su lui solo pesa la responsabilità, a lui solo quindi tutti i vantaggi della speculazione.
Si insiste: è accecamento da parte della società, è incuria dei suoi diritti e dei suoi più sacri interessi, del benessere delle future generazioni; e lo speculatore meglio informato o più intelligente, non può, senza slealtà, profittare del monopolio che l’ignoranza universale lascia in sua balia.
Io sostengo che questa condotta della società è, in quanto al presente, un atto di grande prudenza; e, in quanto all’avvenire, mostrerò com’essa non ci perda. Ho già dimostrato nel Capitolo II con la soluzione dell’antinomia del valore, che il vantaggio di qualsiasi utile scoperta è per l’inventore, checché egli faccia, sempre minore di quello che ne ritrae la società e ho portata la dimostrazione su questo punto alla precisione matematica. Più innanzi dimostrerò pure che oltre il lucro assicuratole in ogni invenzione, la società esercita sui privilegi che concede, sia temporaneamente, sia a perpetuità, molteplici diritti di ripetizione che coprono largamente l’eccesso di certe fortune private e il cui effetto riconduce prontamente all’equilibrio. Ma non anticipiamo.
Io osservo dunque che la vita sociale si manifesta in doppia maniera: conservazione e sviluppo.
Lo sviluppo s’effettua grazie all’impulso delle energie individuali; la massa è di sua natura infeconda, passiva e refrattaria a qualunque novità. È, se il paragone m’è lecito, la matrice, sterile per se medesima, ma ove sono deposti i germi creati dall’attività privata, la quale, nella società ermafrodita, fa il vero ufficio d’organo maschio.
Ma la conservazione della società dipende dal suo sottrarsi alla solidarietà delle speculazioni private, abbandonando assolutamente ai rischi e pericoli degli individui qualunque innovazione. Si potrebbe in poche pagine tracciare la lista delle invenzioni utili. Le imprese condotte a buon fine si contano; ma nessun numero potrebbe esprimere la moltitudine di idee false e di saggi imprudenti che pullulano tutti i giorni nei cervelli umani. Non c’è un inventore, non un operaio che per un solo concetto sano e giusto non abbia ideato migliaia di chimere, non una intelligenza che per una sola scintilla di ragione non getti turbini di fumo. Se fosse possibile dividere tutti i prodotti della ragione umana, mettendo da un lato i lavori utili, dall’altro tutto quanto andò sprecato in forza, intelligenza, capitali e tempo per errori e fantasticherie, si vedrebbe con sorpresa che l’eccedenza di questo conto sul primo è forse di un miliardo per cento. Che diverrebbe la società se dovesse estinguere questa passività e saldare tutti codesti fallimenti? Che diverrebbero la responsabilità e la dignità del lavoratore, se, coperto dalla garanzia sociale, potesse, senza correre alcun rischio, darsi in preda ai capricci di una immaginazione in delirio e giocare a ogni istante i destini dell’umanità?
Da tutto questo io concludo che, come si è praticato sin dall’origine, così si praticherà fino alla fine, e se su questo punto, come su qualsiasi altro, dovessimo mirare alla conciliazione, è assurdo il pensare che nulla di quanto esiste possa essere abolito. Dacché, essendo il mondo delle idee infinito, al pari della natura, e gli uomini inclini a speculare, cioè ad errare, in quella maniera che sono e furono sempre, segue esservi per gli individui costante eccitazione a speculare e per la società ragione di diffidare e mettersi in guardia e per conseguenza sempre motivo di monopolio.
Per uscire da questo dilemma cosa si propone? Il riscatto? In primo luogo il riscatto è impossibile, essendo monopolizzati tutti i valori; da dove prenderebbe la società l’indennità per i monopolizzatori? quale sarebbe la sua ipoteca? D’altra parte il riscatto sarebbe perfettamente inutile: quando tutti i monopoli fossero riscattati, rimarrebbe da organizzare l’industria. Dov’è il sistema? Su che opinione s’è fissato? Quali problemi sono stati risolti? Se l’organizzazione si fa in modo gerarchico, rientriamo nel regime del monopolio; se le si dà forma democratica, torniamo là da dove siamo partiti; le industrie riscattate cadranno nel dominio del pubblico, cioè nella concorrenza, e a poco a poco ridiverranno monopoli; finalmente se l’organizzazione si fa in modo comunistico, non avremo fatto altro che passare da una impossibilità a un’altra. Come a suo tempo dimostreremo, la comunità, al pari della concorrenza e del monopolio, è antinomica, impossibile.
Al fine di non impegnare la fortuna sociale in una solidarietà illimitata e perciò funesta, si starà contenti di mettere regola allo spirito d’invenzione e d’intrapresa? Si creerà una censura per gli uomini di genio e per i matti? Si deve supporre che la società conosca anticipatamente ciò che precisamente si tratta di scoprire. Sottomettere a un esame preventivo i progetti degli imprenditori è intendere a priori ogni movimento. Ripetiamolo ancora, relativamente allo scopo che si propone, c’è un istante nel quale ogni industriale rappresenta nella sua persona la stessa società; vede meglio e più lontano di tutti gli altri uomini presi insieme e ciò spesso senza che egli possa soltanto spiegarsi o essere compreso.
Quando Copernico, Keplero e Galileo, predecessori di Newton, vennero a dire alla società cristiana, allora rappresentata dalla Chiesa: la Bibbia s’è ingannata; la terra gira e il sole è immobile, essi avevano ragione contro la società, che affidata ai sensi e alle tradizioni, li smentiva. Avrebbe la società potuto accettare la solidarietà del sistema copernicano? – Non lo avrebbe potuto. Infatti, questo sistema contraddiceva apertamente alla sua fede e, aspettando l’accordo della ragione con la rivelazione, Galileo, uno degli inventori responsabili, subì la tortura, facendo testimonianza dell’idea novella.
Noi siamo più tolleranti, lo suppongo; ma questa stessa tolleranza prova che accordando maggiore libertà al genio, non vogliamo avere meno prudenza dei nostri antenati. I brevetti d’invenzione piovono, ma senza garanzia del Governo. I titoli di proprietà sono messi sotto la custodia dei cittadini; ma né il registro né il brevetto ne garantiscono il valore; spetta al lavoro l’effettuazione del valore. In quanto poi alle missioni scientifiche e simili che il Governo si trova talora in vena di confidare a esploratori senza danari, esse sono una rapina e una corruzione di più.
La società non può garantire a chiunque il capitale necessario alla sperimentazione di una idea, essa non può rivendicare il risultato di una intrapresa cui non ha sottoscritto, dunque il monopolio è indistruttibile. Del resto la solidarietà non servirebbe a nulla, perché, potendo ognuno richiedere per le proprie fantasticherie la solidarietà collettiva di tutti e avendo il medesimo diritto d’ottenere il marchio dal Governo, si arriverebbe ben presto all’arbitrio universale, cioè puramente e semplicemente allo statu quo.
Alcuni socialisti, infelicissimamente ispirati, lo dico con tutta la forza della mia coscienza, da astrazioni evangeliche, hanno creduto di sciogliere ogni difficoltà con belle massime di questo genere: – L’ineguaglianza delle attitudini è la prova dell’ineguaglianza dei doveri! – Più riceveste da natura, più dovete dare ai vostri fratelli, – e altre frasi sonore e commoventi che fanno colpo sulle immaginazioni vuote, restando tuttavia la cosa più inutile di questo mondo. La formula pratica che si deduce da questi meravigliosi aforismi è che ogni lavoratore deve tutto il suo tempo alla società e che la società deve dargli in contraccambio, tutto quanto è a lui necessario per l’appagamento dei propri bisogni, nella misura dei mezzi di cui essa dispone.
Mi perdonino i miei amici comunisti. Sarei meno severo con le loro idee se non fossi invincibilmente convinto nella mia ragione e nel mio cuore, che il comunismo, il repubblicanesimo e tutte le utopie sociali, politiche e religiose, che sdegnano i fatti e la critica, sono il maggiore ostacolo che incontri il progresso ai tempi nostri. Come non si vuol capire che la fratellanza non può stabilirsi se non mediante la giustizia; che la sola giustizia, condizione, mezzo e legge della libertà e della fratellanza deve essere l’oggetto del nostro studio e dobbiamo, senza tregua, ricercarne nei minimi particolari la determinazione e la formula? Come mai scrittori, ai quali il linguaggio economico è familiare, dimenticano che la superiorità dei talenti è sinonimo di superiorità di bisogni e che lungi dal ripromettersi che individualità vigorose le diano qualcosa più del volgo, la società deve vigilare costantemente affinché esse non ricevano più di quel che rendano, mentre la massa pena tanto a restituire tutto quanto riceve? Si giri e rigiri a piacere, bisognerà sempre venire al libro di cassa, al conto dell’entrata e della spesa, sola garanzia contro i grandi consumatori, del pari che contro i piccoli produttori. L’operaio è sempre in avanzo sulla sua produzione; tende sempre a prendere a credito, a contrarre debiti, a fare fallimento; ha continuamente bisogno che gli si rammenti la massima di Say: i prodotti si comprano con i prodotti. Supporre che un lavoratore di talenti elevati possa contentarsi di metà del suo salario per favorire i mediocri, fornire gratuitamente i propri servigi e produrre, come dice il popolo, per amor del prossimo, cioè per quell’astrazione che si chiama società, sovrano, cittadinanza, è fondare la società sopra un sentimento, non dico inaccessibile all’uomo, ma che eretto sistematicamente a principio, non è che falsa virtù e pericolosa ipocrisia. La carità ci è comandata per riparare le infermità che accidentalmente affliggono i nostri simili e capisco che sotto questo punto di vista la carità possa essere organizzata; capisco che, procedendo dalla stessa solidarietà, essa ridivenga semplice giustizia. Ma, la carità, presa come strumento d’eguaglianza e legge di equilibrio, condurrebbe la società alla dissoluzione. L’eguaglianza si effettua tra gli uomini grazie alla legge inflessibile e rigorosa del lavoro, la proporzionalità dei valori, la sincerità degli scambi e l’equivalenza delle funzioni; in una parola, grazie alla soluzione matematica di tutti gli antagonismi.
Ecco perché la carità, prima virtù del cristiano, legittima speranza del socialista, meta di tutti gli sforzi dell’economista, diventa un vizio sociale, quando se ne fa un principio organico e una legge; ecco perché certi economisti hanno potuto dire che la carità legale ha fatto più male alla società che l’usurpazione proprietaria. L’uomo, e così anche la società di cui è parte, ha con se stesso un conto corrente perpetuo; deve produrre tutto quanto consuma. Questa è la regola generale cui nessuno può sottrarsi senza essere ipso facto colpito di disonore o sospettato di frode. È davvero una idea ben singolare quella di decretare, sotto pretesto di fratellanza, l’inferiorità relativa della maggior parte degli uomini! Dopo una così bella dichiarazione, non rimarrà che trarne le conseguenze e ben presto, grazie alla fratellanza, si tornerà all’aristocrazia.
Raddoppiate il salario normale dell’operaio, voi lo invitate all’ozio, voi umiliate la sua dignità e demoralizzate la sua coscienza; – toglietegli il premio legittimo dei suoi sforzi, voi incitate la sua collera o esaltate il suo orgoglio. Nell’un caso e nell’altro, alterate i suoi sentimenti fraterni. Al contrario, ponete al godimento la condizione del lavoro, solo modo previsto dalla natura per associare gli uomini, rendendoli buoni e felici e voi rientrate nella legge del riparto economico, i prodotti si comprano con i prodotti. Il comunismo, io l’ho deplorato sovente, è la negazione della società nella sua stessa base, che è la progressiva equivalenza delle funzioni e delle attitudini. I comunisti verso i quali inclina tutto il socialismo, non credono all’eguaglianza derivante dalla natura e dall’educazione; essi vi suppliscono con decreti sovrani, ma, per quanto facciano, ineseguibili. Invece di cercare la giustizia nel rapporto dei fatti, la pigliano nella loro sensibilità, chiamando giustizia tutto ciò che a loro pare amore del prossimo e confondendo continuamente le cose della ragione con quelle del sentimento.
Perché dunque fare sempre intervenire nelle questioni di economia la fratellanza, la carità, l’abnegazione e Dio? Non sarebbe forse perché gli utopisti trovano più facili le ciarle su queste grandi parole che gli studi seri sulle manifestazioni sociali?
Fratellanza! Fratelli, fin che volete, purché io sia il fratello grande e voi il piccolo; purché la società, nostra madre comune, onori la mia primogenitura e i miei servizi raddoppiando la mia porzione. – Voi, dite, provvederete ai miei bisogni nella misura dei vostri mezzi. Io intendo, al contrario, che vi si provveda nella misura del mio lavoro, se no, smetto di lavorare.
Carità! Nego la carità; è misticismo. Invano mi parlate di fratellanza e di amore; sono convinto che non mi amate e sento benissimo che non vi amo. La vostra amicizia è una finzione e se mi amate, è per interesse. Io chiedo tutto quel che mi spetta, niente più di quanto mi spetta; perché me lo negate?
Abnegazione! Nego l’abnegazione; è misticismo. Parlatemi di dare e di avere, solo criterio agli occhi miei del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male nella società. A ciascuno secondo le sue opere, prima; e se, al caso, io sono disposto a soccorrervi, lo farò di buona grazia, ma non voglio essere costretto. Costringermi all’abnegazione è assassinarmi!
Dio! Io non conosco Dio; è un misticismo. Cominciate dal cancellare questo nome dai vostri discorsi, se volete che v’ascolti; perché tremila anni d’esperienza m’hanno insegnato che chiunque mi parla di Dio attenta alla mia libertà o alla mia borsa. Quanto mi dovete? quanto vi devo? ecco la mia religione e il mio Dio.
Il monopolio esiste per fatto della natura e per fatto dell’uomo; ha la sorgente nello stesso tempo nel più profondo della nostra coscienza e nel fatto esteriore del nostro essere individui. Come nel corpo e nell’intelligenza tutto è specialità e proprietà, così il lavoro si produce con un carattere proprio e specifico che ne costituisce la qualità e il valore. E non potendo il lavoro manifestarsi senza materia o oggetto d’esercizio, perché la persona richiama necessariamente la cosa, il monopolio si stab’lisce dal soggetto all’oggetto così infallibilmente come la durata si costituisce dal passato all’avvenire. Le api, le formiche e altri animali viventi in società, non sembrano dotati individualmente che di automatismo; l’anima e l’istinto in essi sono quasi esclusivamente collettivi. Ecco perché tra codesti animali non può esservi luogo a privilegio e a monopolio; perché nelle loro operazioni, anche le più riflesse, non si consultano, né deliberano. Ma essendo l’umanità individualizzata nella sua pluralità, l’uomo diviene fatalmente monopolizzatore, perché non essendo monopolizzatore non sarebbe nulla, e il problema sociale consiste nel sapere non come si aboliranno i monopoli, ma come si potrà conciliarli tutti.
Gli effetti più rimarchevoli e immediati del monopolio sono:
1° Nell’ordine politico, la classificazione dell’umanità in famiglie, tribù, città, nazioni, Stati: è la divisione elementare dell’umanità in gruppi e sottogruppi di lavoratori distinti secondo le razze, le lingue, i costumi, i climi. È con il monopolio che la specie umana ha preso possesso del globo, come sarà con l’associazione che essa ne diverrà interamente sovrana.
Il diritto politico e civile, come lo hanno concepito tutti i legislatori senza eccezione e l’hanno formulato i giureconsulti, nato da codesta organizzazione patriottica e nazionale della società, forma nella serie delle contraddizioni sociali una prima e vasta diramazione, il cui studio esigerebbe esso soltanto un tempo quattro volte maggiore di quello che ci è dato per lo studio della questione industriale proposta dall’Accademia.
2° Nell’ordine economico, il monopolio contribuisce all’accrescimento del benessere, prima aumentando la ricchezza generale col perfezionamento dei mezzi; poi capitalizzando, cioè consolidando le conquiste del lavoro, ottenute mediante la divisione, le macchine e la concorrenza. Da questo risultato del monopolio è uscita la finzione economica per la quale il capitalista è considerato come produttore e il capitale come agente di produzione; poi, come conseguenza di questa finzione, la teoria del prodotto netto e del prodotto lordo.
Dobbiamo, a tale riguardo, presentare alcune considerazioni.
Citiamo dapprima J.-B. Say: “Il valore del prodotto è il prodotto lordo: questo valore, dedotte le spese di produzione, è il prodotto netto. Una nazione, considerata in massa, non ha prodotto netto, perché avendo i prodotti un valore eguale alle spese di produzione, quando si sottraggono queste spese, si sottrae tutto il valore dei prodotti. La produzione nazionale, la produzione annua, devono dunque intendersi sempre come produzione lorda. Il reddito annuo è il reddito lordo. Non si può discorrere di produzione netta se non quando trattasi degli interessi di un produttore in opposizione a quelli degli altri produttori. Il profitto di un imprenditore consiste nel valore prodotto, deduzione fatta del valore consumato. Ma ciò che è per lui consumato, come ad esempio la compera di un servizio produttivo, è per l’autore del servizio una parte di reddito”. (Trattato di economia Politica, Quadro analitico, [tr. it., Torino 1854]).
Su queste definizioni non c’è da ridire. Sventuratamente J.-B. Say non ne sentiva tutta l’importanza e non aveva potuto prevedere che un giorno il suo successore immediato al Collegio di Francia le avrebbe attaccate. Rossi ha preteso confutare la proposizione nella quale Say sostiene essere il prodotto netto di una nazione la cosa stessa del prodotto lordo, in quanto le nazioni, al pari degli imprenditori, nulla producono senza anticipazioni, e che se la formula di Say fosse vera, seguirebbe che l’assioma ex nihilo nihil fit non è più un assioma.
Ora è precisamente questo che accade. L’umanità, a somiglianza di Dio, produce tutto dal nulla, de nihilo hilum, così è essa medesima un prodotto uscito dal nulla e come il suo pensiero procede dal nulla: e Rossi non avrebbe commesso una così grave svista se non avesse confuso con i fisiocrati i prodotti del regno industriale con quelli dei regni animale, vegetale e minerale. L’economia politica incomincia col lavoro, si sviluppa col lavoro, e tutto quanto non viene dal lavoro, ricadendo nell’utilità pura, cioè nella categoria delle cose sottoposte all’azione dell’uomo, ma non ancora rese permutabili dal lavoro, rimane radicalmente estraneo all’economia politica. Lo stesso monopolio, per quanto sia stabilito con un atto puro della volontà collettiva, non muta in niente queste relazioni, perché così in base alla storia, come secondo la legge scritta e la teoria economica, il monopolio non esiste o non è reputato esistente se non dopo il lavoro.
La dottrina di Say è dunque incensurabile. Relativamente all’imprenditore la cui specialità suppone sempre altri industriali che collaborano con lui, il profitto è ciò che resta del valore prodotto, deduzione fatta dei valori consumati, fra i quali bisogna comprendere il salario dell’imprenditore, ossia, in altre parole, la sua provvigione. Relativamente alla società, che comprende tutte le specialità possibili, il prodotto netto è identico al prodotto lordo.
Ma c’è un altro punto la cui spiegazione ho invano cercata nel Say, e negli altri economisti, cioè come si stabilisce la realtà e la legittimità del prodotto netto. È chiaro che per far sparire il prodotto netto, basterebbe aumentare il salario degli operai e il saggio dei valori consumati, rimanendo immutato il prezzo di vendita. In modo che, nulla, a quanto pare, distinguendo il prodotto netto da una ritenuta sui salari, o, ciò che torna lo stesso, da un prelevamento esercitato sul consumatore, il prodotto netto ha tutta l’aria di una estorsione operata con la forza e senza la minima apparenza di diritto.
Questa difficoltà è stata risolta anticipatamente nella nostra teoria della proporzionalità dei valori.
Secondo codesta teoria, chiunque metta a profitto una macchina, un’idea o un fondo, deve essere considerato come un uomo che viene ad accrescere, a spese pari, la somma di una certa specie di prodotti e per conseguenza ad aumentare la ricchezza sociale, facendo economia di tempo. Il principio della legittimità del prodotto netto sta dunque nei procedimenti anteriormente in uso: se la nuova combinazione riesce, vi sarà un soprappiù di valori e per conseguenza un guadagno, che è il prodotto netto; se l’impresa è poggiata su una base falsa, vi sarà deficit sul prodotto lordo e a lungo andare, fallimento e bancarotta. Nello stesso caso, ed è il più frequente, in cui non esista alcuna innovazione da parte dell’imprenditore, siccome il successo di una industria dipende dall’esecuzione, la regola del prodotto netto rimane applicabile. Ora, siccome per effetto della natura del monopolio ogni impresa deve svolgersi a rischio e pericolo dell’imprenditore, segue che il prodotto netto gli appartiene al titolo più sacro che sia tra gli uomini, il lavoro e l’intelligenza.
È inutile ricordare che il prodotto netto è spesso esagerato, sia con riduzioni fraudolente sui salari, sia in altro modo. Sono abusi che derivano non dal principio, ma dalla cupidigia umana e rimangono fuori del dominio della teoria. Del resto, ho fatto vedere, trattando della costituzione del valore, Capitolo II § 2: 1° come il prodotto netto non possa mai eccedere la differenza che risulta dall’ineguaglianza dei mezzi di produzione; 2° come il guadagno che trae la società da ogni invenzione sia incomparabilmente superiore a quello dell’imprenditore. Non tornerò su simili questioni, ormai esaurite: noterò soltanto che per effetto del progresso industriale, il prodotto netto tende costantemente a scemare per l’industriale, mentre d’altra parte il benessere aumenta, come gli strati concentrici che compongono il tronco di un albero si assottigliano a misura che l’albero ingrossa e più essi si allontanano dal centro.
Accanto al prodotto netto, naturale ricompensa del lavoratore, ho segnalato come uno dei più felici effetti del monopolio la capitalizzazione dei valori dalla quale nasce un’altra specie di profitto, cioè l’interesse o affitto dei capitali. – In quanto alla rendita, benché spesso si confonda con l’interesse, benché nel linguaggio consueto si riassuma, al pari del profitto e dell’interesse, nella espressione comune di reddito, essa è tutt’altra cosa dall’interesse: essa non deriva dal monopolio, ma dalla proprietà: si riconnette a una teoria speciale e ne parleremo a suo luogo.
Qual è dunque questa realtà conosciuta da tutti i popoli eppure ancora così mal definita che chiamasi interesse o prezzo del prestito e che dà luogo alla finzione della produttività del capitale?
Tutti sanno che un imprenditore, quando fa il conto delle spese di produzione, le divide ordinariamente in tre categorie: 1° i valori consumati e i servizi pagati; 2° le sue competenze personali; 3° l’ammortamento e l’interesse dei suoi capitali. Da quest’ultima categoria di spese è nata la distinzione dell’imprenditore e del capitalista, quantunque queste due denominazioni esprimano in fondo la medesima facoltà, il monopolio. Così, una impresa industriale, la quale dia solo l’interesse del capitale e nessun prodotto netto, è una impresa insignificante che non riesce se non a trasformare i suoi valori, senza aggiungere nulla alla ricchezza; una impresa insomma che non ha più ragione alcuna d’esistere ed è abbandonata ben presto. Da dove viene che questo interesse del capitale non è considerato come un supplemento del prodotto netto? Come mai non è esso stesso il prodotto netto?
Qui ancora la filosofia degli economisti è in difetto. Per difendere l’usura, hanno preteso che il capitale sia produttivo e hanno cambiato una metafora in una realtà. I socialisti antiproprietari non hanno fatto gran fatica a rovesciare i loro sofismi; e da questa polemica è risultato un tale sfavore per la teoria del capitale, che oggi nell’animo del popolo capitalista e ozioso sono sinonimi. Certo non vengo a ritrattare qui ciò che io stesso ho, dopo tanti altri, sostenuto, né a riabilitare una classe di cittadini che sconosce in così strano modo i propri doveri; ma l’interesse della scienza e del proletariato medesimo mi obbligano a completare le mie prime asserzioni e affermare i veri princìpi.
1° Ogni produzione è effettuata in vista di un consumo, cioè di un godimento. Nella società le parole correlative di produzione e di consumo così come quelle di prodotto netto e prodotto lordo indicano una cosa perfettamente identica. Se dunque, dopo che il lavoratore ha realizzato un prodotto netto, invece di servirsene per aumentare il suo benessere, si limitasse al suo salario, e applicasse sempre l’eccedenza che ottiene in una nuova produzione, come fanno tanti, i quali non guadagnano che per comprare, la produzione crescerebbe indefinitamente mentre il benessere e, ragionando dal punto di vista della società, la popolazione rimarrebbe nello statu quo.
Ora, l’interesse del capitale impegnato in una impresa industriale è formato a poco a poco grazie l’accumulazione del prodotto netto; questo interesse è come una transazione tra la necessità di aumentare da una parte la produzione e dall’altra il benessere, è un modo di riprodurre e consumare nel tempo stesso il prodotto netto. Ecco, perché certe società industriali pagano ai loro azionisti un dividendo prima ancora che l’impresa abbia potuto rendere. La vita è breve, il successo viene a passi misurati; da un lato il lavoro comanda, dall’altro l’uomo vuol godere. Per accordare tutte queste esigenze, il prodotto netto sarà reso alla produzione; ma nel frattempo (inter-ea, inter-esse), cioè in attesa del nuovo prodotto, il capitalista godrà.
In modo che, siccome la cifra del prodotto netto segna il progresso della ricchezza, l’interesse del capitale, senza cui il prodotto netto sarebbe inutile e anche non esisterebbe, segna il progresso del benessere. Qualunque sia la forma di governo che si stabilisca tra gli uomini, vivano in dittatura o in comunità, abbia un lavoratore il suo conto aperto in dare e avere, o il comune gli distribuisca lavoro e piacere, la legge che abbiamo esposta si adempirà. I nostri conti degli interessi non fanno altro che rendere testimonianza della medesima.
2° I valori creati dal prodotto netto entrano nel risparmio e vi si capitalizzano sotto la forma più eminentemente permutabile, meno suscettibile di svalutazione e più libera, sotto la forma insomma di numerario, solo valore costituito. Ora, che questo capitale da libero che è, venga a impegnarsi, cioè a prendere forma di macchine, di costruzioni, ecc., esso sarà pur sempre suscettibile di scambio, ma assai più di prima esposto alle oscillazioni dell’offerta e della domanda. Una volta impegnato, difficilmente riuscirà a trarsene fuori e al titolare non rimane che aspettarsene un profitto con l’esercizio dell’impresa. Solo l’impresa è atta a conservare al capitale impegnato il suo valore nominale; è possibile che l’aumenti, possibile che lo attenui. Un capitale così trasformato è come se si fosse avventurato in una impresa marittima; l’interesse è il premio di assicurazione del capitale. E questo premio sarà più o meno forte secondo l’abbondanza o scarsezza dei capitali.
Più tardi si distinguerà ancora il premio di assicurazione del capitale, e nuovi fatti risulteranno da questo sdoppiamento e così la storia dell’umanità non è altro che una perpetua distinzione dei concetti dell’intelligenza.
3° Non solo l’interesse dei capitali fa godere dell’opera propria il lavoratore e dà sicurezza al suo risparmio; ma, e questo è l’effetto più meraviglioso di questo interesse, pur ricompensando la produzione, l’obbliga a lavorare senza posa e non fermarsi mai.
Se un imprenditore è egli stesso il proprio capitalista, può accadere che si contenti, per tutto guadagno, dell’interesse dei suoi capitali; ma è certo allora che la sua industria non è più in progresso e per conseguenza soffre. Lo si scorge benissimo quando altri è il capitalista, altri l’imprenditore. Siccome allora, a causa dell’interesse, il guadagno è assolutamente nullo per il fabbricante, la sua industria diventa un continuo pericolo da cui si deve liberare. Per cui, dovendo il benessere svilupparsi per la società in progresso indefinito, così è anche per il produttore che realizzi continuamente un’eccedenza: senza ciò l’esistenza sua è precaria, monotona, penosa. L’interesse dovuto dal produttore al capitalista è come la frusta del colono che schiocca sul capo dello schiavo addormentato; è la voce del progresso che grida: cammina, cammina! lavora, lavora! Il destino dell’uomo lo spinge alla felicità; perciò gli vieta il riposo.
4° Finalmente l’interesse del denaro è la condizione necessaria del giro dei capitali e il principale agente della solidarietà industriale. Questo aspetto è stato colto da tutti gli economisti e noi ne tratteremo in modo speciale quando ci occuperemo del credito.
Ho dimostrato, credo, meglio che non si fosse fatto sinora: Che il monopolio è necessario, perché è l’antagonismo della concorrenza;
Che è essenziale alla società, perché senza di esso, questa non sarebbe mai uscita dalle foreste primitive e quando le mancasse il monopolio retrocederebbe rapidamente.
Infine, che esso è la corona del produttore, quando, sia per il prodotto netto, sia per l’interesse dei capitali impiegati nella produzione, procura al monopolizzatore l’aumento di benessere che meritano la sua previdenza e i suoi sforzi.
Glorifichiamo dunque con gli economisti il monopolio e lo consacriamo a vantaggio dei cauti conservatori? Volentieri, purché gli economisti ai quali ho reso ragione nelle pagine precedenti, me la rendano alla loro volta nelle pagine seguenti.
2. – Disastri nel lavoro e pervertimenti d’idee causati dal monopolio
Al pari della concorrenza, il monopolio implica contraddizione nei termini e nella definizione. Difatti, essendo il consumo e la produzione due cose identiche nella società e vendere è sinonimo di comprare, chi dice privilegio di vendita o di industria, dice necessariamente privilegio di consumo e di acquisto; il che porta alla negazione dell’uno e dell’altro. Di là l’interdizione di consumare, così come di produrre, pronunciata dal monopolio contro il salariato. La concorrenza era la guerra civile, il monopolio è il massacro dei prigionieri.
Queste diverse proposizioni riuniscono in sé tutte le forme dell’evidenza: fisica, metafisica, algebrica. Quel che aggiungerò non è che l’esposizione amplificata; col solo enunciarle si dimostrano.
Ogni società, considerata nei suoi rapporti economici, si divide naturalmente in capitalisti e lavoratori, imprenditori e salariati, distribuiti su una scala i cui gradi implicano il reddito di ciascuno, comunque si componga, di salari, di profitti, d’interessi, di pigioni o di rendite.
Da questa distribuzione gerarchica delle persone e dei redditi, risulta che il principio di Say, dianzi ricordato: In una nazione il prodotto netto è uguale al prodotto lordo, non è più vero, perché per effetto del monopolio, la cifra dei prezzi di vendita è molto superiore alla cifra dei prezzi di costo. Ora, essendo il prezzo di costo quello che deve pagare il prezzo di vendita, non avendo in realtà una nazione altro sbocco che se medesima, segue che lo scambio, e quindi la circolazione e la vita sono impossibili.
“In Francia 20 milioni di lavoratori, diffusi in tutti i rami della scienza, dell’arte, dell’industria producono tutto quanto è utile alla vita dell’uomo. La somma dei loro salari riuniti è uguale, per ipotesi a 20 miliardi; ma, a cagione del guadagno (prodotto e interesse) preso dai monopolizzatori, la somma dei prodotti deve essere pagata 25 miliardi. Ora, siccome la nazione non ha altri compratori che i suoi salariati e i suoi salarianti, che costoro non pagano per gli altri e che il prezzo di vendita delle merci è lo stesso per tutti, è chiaro che per rendere possibile la circolazione, il lavoratore dovrebbe pagar cinque ciò per cui non ha avuto più di quattro”. (Che cos’è la proprietà?, Cap. IV).
Ecco in che maniera ricchezza e povertà sono correlative, inseparabili, non solo nell’idea, ma nel fatto; ecco ciò che le fa esistere in concorrenza l’una dell’altra e dà diritto al salariato di pretendere che il ricco non possieda più del povero se non perché fu tolto a questo. Dopo che il monopolio ha fatto il suo conto di spese, guadagni e interesse, il salariato-consumatore fa il proprio e si trova che promettendogli un salario rappresentato nel contratto di lavoro per cento, in realtà gli viene dato solo settantacinque. Il monopolio dunque spinge il salariato al fallimento ed è rigorosamente vero che vive delle sue spoglie.
Da sei anni ho sollevato questa contraddizione spaventevole; perché la mia voce non ha avuto un’eco nella stampa? perché i padroni della fama non hanno avvertita l’opinione pubblica? perché coloro che reclamano i diritti politici per l’operaio non hanno detto che lo si deruba? perché gli economisti hanno taciuto? perché?
La nostra democrazia rivoluzionaria fa tanto strepito perché ha paura delle rivoluzioni; ma, dissimulando il pericolo, che non osa guardare in faccia, coopera ad accrescerlo. “Noi somigliamo, dice Blanqui, a fuochisti che aumentino la dose di vapore mentre chiudono le valvole”. Vittime del monopolio, consolatevi! Se i vostri carnefici non vogliono ascoltare, la Provvidenza ha deciso di colpirli: Non audierunt vocem patris sui quia voluit Dominus occidere eos.
Se la rendita non può adempiere le condizioni del monopolio c’è ingombro di merci; il lavoro ha prodotto in un anno ciò che il salario non gli permette di consumare che in quindici mesi, dunque starà a spasso una quarta parte dell’anno. Ma, stando a spasso non guadagna nulla e come farà a comprare? E se il monopolizzatore non può disfarsi dei suoi prodotti, come può mantenere la sua impresa? L’impossibilità logica si moltiplica intorno alla fabbrica, i fatti che la traducono sono dovunque.
“I berrettai d’Inghilterra, dice Eugène Buret, s’erano ridotti a mangiare un giorno sì e l’altro no. E durarono otto mesi in tale stato”. Egli cita una moltitudine di simili casi.
Ma quel che accora, nello spettacolo degli effetti del monopolio, è di vedere gli sventurati operai accusarsi reciprocamente della loro miseria e immaginarsi che coalizzandosi e sostenendosi gli uni con gli altri impediranno la riduzione dei salari. “Gli Irlandesi, dice un osservatore, hanno dato una funesta lezione alle classi lavoratrici della Gran Bretagna... Hanno insegnato ai nostri lavoratori il fatale segreto di limitare i propri bisogni al mantenimento della sola vita animale e di contentarsi, come i selvaggi, del minimum dei mezzi di sussistenza che bastano a prolungare la vita... Ammaestrate da questo fatale esempio, cedendo in parte alla necessità, le classi lavoratrici hanno perduto il lodevole orgoglio che le induceva ad arredare decentemente le loro case e moltiplicare a proprio vantaggio i comodi decenti che contribuiscono alla felicità”.
Nulla di più desolante e stupido ho mai letto. E cosa volevate che facessero codesti operai? Gli Irlandesi sono venuti; dovevano massacrarli? Il salario è stato ridotto: si doveva ricusarlo e morire? La necessità dominava, lo riconoscete voi stessi. Poi vennero le giornate di lavoro allungate, la malattia, la deformità, la degenerazione, l’abbrutimento e tutti i segni della schiavitù industriale; tutte queste calamità sono nate dal monopolio e dai suoi tristi antecedenti, la concorrenza, le macchine, la divisione del lavoro: e voi accusate gli Irlandesi!
Altre volte gli operai accusano la cattiva fortuna e si esortano alla pazienza; è la controparte dei ringraziamenti che indirizzano alla Provvidenza quando il lavoro abbonda e i salari sono sufficienti.
Trovo in un articolo pubblicato da Léon Faucher nel “Journal des Economistes” (settembre 1845), che da qualche tempo gli operai inglesi hanno persa l’abitudine delle coalizioni, il che è certamente un progresso di cui è da felicitarsi con essi; ma che questo miglioramento nel costume degli operai dipende soprattutto dalla loro cultura economica: “Non è dagli industriali, esclamava al meeting di Boston un operaio filatore, che il salario dipende. Nelle epoche di depressione, i padroni sono, per dir così, la frusta di cui si arma la necessità e, vogliano o no, bisogna che ci colpiscano. Il principio regolatore è il rapporto dell’offerta con la domanda e i padroni non hanno questo potere... Agiamo dunque con prudenza; sappiamo rassegnarci alla cattiva fortuna e trarre partito dalla buona: assecondando i progressi della nostra industria, riusciremo utili non solo a noi medesimi, ma a tutto l’intero paese”. (Applausi).
Alla buonora! Ecco operai ben pensanti, operai modello. Che uomini sono questi filatori che subiscono senza lamenti la frusta della necessità, perché il principio regolatore del salario è l’offerta e la domanda!
Léon Faucher aggiunge con una ingenuità meravigliosa: “Gli operai inglesi sono ragionatori intrepidi. Date loro un principio falso e lo spingeranno matematicamente fino all’assurdo, senza fermarsi né spaventarsi, come se marciassero al trionfo della verità”. Per me, spero che malgrado tutti gli sforzi della propaganda economista gli operai francesi non saranno mai ragionatori di questa forza. L’offerta e la domanda, al pari della frusta della necessità, non fanno più presa sull’animo loro. Mancava questa miseria all’Inghilterra, ma non passerà lo stretto.
Per l’effetto combinato della divisione, delle macchine, del prodotto netto e dell’interesse, il monopolio estende le sue conquiste con una progressione crescente; il suo sviluppo abbraccia l’agricoltura del pari che il commercio e l’industria e tutte le specie di prodotti. Tutti conoscono il motto di Plinio [Secondo] sul monopolio terriero che determinò la caduta dell’Italia, latifundia perdidere Italiam. È questo stesso monopolio che impoverisce e rende inabitabile la campagna romana e forma il circolo vizioso in cui s’agita convulsamente l’Inghilterra. Costituito violentemente in seguito a una guerra di razza, produce tutti i mali dell’Irlanda e cagiona tante angustie a O’Connell, impotente, con tutta la sua facondia, a condurre i suoi uditori traverso questo labirinto. I grandi sentimenti e la retorica sono il peggiore rimedio ai mali della società: sarebbe più facile a [Daniel] O’Connell di trasportare l’Irlanda e gli Irlandesi dal Mare del Nord nell’Oceano Australe col soffio delle sue arringhe che fare cadere il monopolio che li costringe. Le comunioni generali e le prediche non servono meglio. Se il sentimento religioso sostiene ancora, solo, il morale degli Irlandesi, è tempo ormai che un po’ di quella scienza profana che la Chiesa sdegna tanto, venga in aiuto alle pecorelle cui il pastore non è più buona tutela.
L’invasione del monopolio nel commercio e nell’industria è troppo nota perché io stia qui a raccoglierne le testimonianze: del resto a che giova il tanto argomentare se i risultati parlano così chiaro? Le descrizioni della miseria delle classi operaie fatta da E. Buret, ha qualcosa di fantastico che v’opprime e vi spaventa. Sono scene alle quali l’immaginazione rifiuta di prestare fede, malgrado i documenti e i processi verbali. Sposi affatto nudi, nascosti nel fondo di un’alcova senza mobili, con i loro figli nudi anche essi; intere popolazioni che non vanno la domenica alla chiesa, perché sono nude; cadaveri rimasti otto giorni senza sepoltura perché il defunto non aveva lasciato né un lenzuolo per avvolgere il suo cadavere né di che pagare la bara e il becchino (e il vescovo piglia da 4 a 500.000 franchi di rendita); – famiglie ammassate nelle fogne, viventi con i maiali e divorate vive dalla putredine o abitanti in buche come gli Albinos; ottuagenari coricati ignudi su tavole nude; la vergine e la prostituta spiranti nella stessa nudità; da per tutto la disperazione, la consunzione, la fame, la fame...! E questo popolo che espia i delitti dei suoi padroni non si ribella! No, per le fiamme di Nemesi!... Quando il popolo non sa vendicarsi, non c’è più Provvidenza.
Gli eccidi in massa del monopolio non hanno ancora trovato poeti. I nostri rimatori, estranei agli affari di questo mondo, senza viscere per il proletario, continuano a sospirare alla l’una le loro melanconiche voluttà. Eppure quale soggetto di meditazioni sarebbero le miserie generate dal monopolio!
Parla Walter Scott: “Una volta, molti anni fa, ogni contadino aveva la sua vacca e il suo maiale e l’orticello attorno alla casa. Dove oggi lavora un solo fittavolo, vivevano un tempo trenta piccoli coloni; in modo che per un solo individuo più ricco, dei trenta coloni del tempo antico, vi sono ora ventinove giornalieri miserabili, senza impiego per le loro intelligenze e le loro braccia e più della metà dei quali è di troppo. La sola funzione utile che compiono è di pagare, quando possono, una rendita di 60 scellini all’anno per le capanne ove abitano”.
Dei domestici lari è ito il culto.
Su poco fumo il vecchio nonno stende
Le sue pallide mani; è desolato
Il voto focolar come il suo cuore.
Le relazioni presentate al Parlamento rivaleggiano col romanziere e col poeta. “Gli abitanti di Glensheil, nei dintorni della valle di Dundee, si distinguevano una volta da tutti i loro vicini per la superiorità delle qualità fisiche. Gli uomini erano di alta statura, robusti, attivi, coraggiosi; le donne avvenenti e graziose. I due sessi possedevano un gusto straordinario per la poesia e la musica. Ora, le prove diuturne della miseria, la prolungata privazione di nutrimento adeguato e di vestiti convenienti, hanno profondamente deteriorato questa razza che era notevolmente bella”.
Ecco la degradazione fatale menzionata da noi nei due capitoli della divisione del lavoro e delle macchine. I nostri letterati intanto si occupano di gentilezze retrospettive come se l’attualità fosse impari al loro genio! Il primo di essi che si è avventurato in queste vie infernali ha fatto scandalo nella cricca. Codardi parassiti, vili trafficanti di prosa e di versi, degni tutti del salario di Marsia! Se il vostro supplizio potesse durare tanto quanto il mio disprezzo, sareste costretti a credere alla eternità dell’inferno.
Il monopolio che dianzi ci era parso così ben fondato in giustizia è tanto più ingiusto, in quanto non solo rende il salario illusorio, ma inganna l’operaio nella valutazione di questo salario, prendendo di fronte a lui un falso titolo, una falsa qualità.
Sismondi, nei suoi Études sur l’économie politique, [Paris 1837-1838], osserva che quando un banchiere rimette a un negoziante dei biglietti di banca in cambio dei valori forniti da costui, ben lungi dal fare credito al negoziante, lo riceve, al contrario, da lui. “Questo credito, soggiunge Sismondi, è, in verità, a così corta scadenza, che il negoziante pensa appena ad esaminare se il banchiere ne sia degno, tanto più che è lui a ricorrere al credito invece di accordarne”.
Di modo che, secondo il parere di Sismondi, nell’emissione della carta bancaria, i compiti del negoziante e del banchiere sono invertiti; il primo è il creditore e il secondo è il debitore.
Qualche cosa di simile avviene tra il monopolista e il salariato.
Infatti, sono gli operai, che, come il negoziante alla banca, chiedono di scontare il loro lavoro: in diritto toccherebbe all’imprenditore di dare ad essi cauzione e garanzia.
Mi spiego. In ogni industria, qualunque natura abbia, l’imprenditore non può rivendicare legittimamente, in più del suo lavoro personale, altra cosa che l’idea; in quanto all’esecuzione, risultato del concorso di numerosi lavoratori, è un effetto di potenza collettiva, gli autori della quale, liberi nella loro azione al pari del capo, non possono produrre nulla che vada gratuitamente a lui. Ora, si tratta di sapere se la somma dei salari individuali pagati dall’imprenditore equivale all’effetto collettivo del quale io parlo, perché se fosse altrimenti, l’assioma di Say, ogni prodotto vale ciò che costa, sarebbe violato.
“Il capitalista, si diceva, ha pagato le giornate degli operai a prezzo convenuto; per conseguenza non è verso di loro debitore di nulla. Per essere esatti, bisognerebbe dire che egli ha pagato tante volte una giornata quanti operai ha occupato, il che non è la stessa cosa. Perché la forza immensa risultante da unione dei lavoratori, dalla convergenza, e dall’armonia dei loro sforzi; l’economia di spese ottenuta grazie al loro raccogliersi in maestranza; la moltiplicazione del prodotto, prevista, è vero, dall’imprenditore, ma realizzata da forze libere, egli non le ha punto pagate. Duecento granatieri che manovrano sotto la direzione di un ingegnere, hanno, in poche ore, eretto l’obelisco sulla sua base; si può credere forse che un sol uomo in duecento giorni ne sarebbe venuto a capo? Intanto per conto dell’imprenditore la somma dei salari è la medesima nei due casi, perché egli si aggiudica il beneficio della forza collettiva. Ora, di due cose l’una: c’è usurpazione da parte sua, o c’è errore”. (Che cos’è la proprietà?, Cap. III).
Per trarre conveniente profitto dalla mula Jenny ci sono voluti meccanici, costruttori, commessi, squadre d’operai d’ogni specie. In nome della loro libertà, della loro sicurezza, del loro avvenire, dell’avvenire dei loro figli, questi operai, arruolandosi nella filatura, dovevano fare delle riserve: dove sono le lettere di credito che hanno rilasciate agli imprenditori? Dove le garanzie che hanno avuto da costoro? E che! milioni di uomini hanno venduto le proprie braccia e alienato la propria libertà senza conoscere la portata del contratto; si sono impegnati sulla fede di un lavoro costante e di una retribuzione conveniente; hanno eseguito con le loro mani ciò che la mente dei padroni aveva concepito; sono diventati, con questa collaborazione, soci nell’impresa: e quando il monopolio, non potendo o non volendo più fare scambi, sospende la fabbricazione e lascia questi milioni di operai senza pane, si raccomanda a questi di rassegnarsi. A causa dei nuovi processi industriali, questa gente ha perduto nove giornate di lavoro sopra dieci; e per compenso si mostra la frusta della necessità alzata sulle loro teste! Allora, se rifiutano di lavorare per un salario più scarso, si prova loro che puniscono se stessi. Se accettano il prezzo offerto, perdono quel nobile orgoglio, quel gusto degli agi decenti che formano la felicità e la dignità dell’operaio. Se si concertano per far aumentare il salario, sono gettati in prigione! E mentre toccherebbe a loro di tradurre innanzi ai tribunali quelli che li sfruttano, è sopra di essi che i tribunali vendicheranno gli attentati alla libertà del commercio! Vittime del monopolio, sconteranno la pena dovuta ai monopolizzatori! O giustizia degli uomini, stupida cortigiana, fino a quando sotto i tuoi orpelli di dea, berrai il sangue del proletario sgozzato?
Il monopolio ha invaso tutto, terra, lavoro, strumenti del lavoro, prodotti, distribuzione dei prodotti. La stessa economia politica ha dovuto riconoscerlo: “Voi trovate sempre sulla vostra via, dice Rossi, un monopolio. Non c’è prodotto che si possa considerare come il puro e semplice risultato del lavoro: per cui la legge economica che proporziona il prezzo al costo di produzione non si realizza mai completamente. È una formula modificata profondamente dall’intervento dell’uno o dell’altro dei monopoli ai quali si trovano sottomessi gli strumenti di produzione”. (Corso di economia politica, Lezione Sesta).
Rossi è collocato troppo in alto per dare al proprio linguaggio la precisione e l’esattezza che la scienza esige quando trattasi del monopolio. Ciò che egli chiama con tanta benevolenza una modificazione delle formule economiche, non è altro che una lunga e odiosa violazione delle leggi fondamentali del lavoro e dello scambio. È per effetto del monopolio che nella società il prodotto netto si conta in sovrappiù del prodotto lordo e il lavoratore collettivo deve perciò riscattare il proprio prodotto a un prezzo superiore a quello che questo prodotto costa: il che è contraddittorio e impossibile; – che la bilancia naturale della produzione e del consumo si trova distrutta; che il lavoratore è ingannato tanto sull’ammontare del suo salario, quanto sui suoi regolamenti; che il progresso nel benessere si cangia per lui in progresso continuo nella miseria; è a causa del monopolio, infine, che tutte le nozioni di giustizia commutativa sono pervertite e l’economia sociale, da scienza positiva diventa una vera utopia.
Questa trasfigurazione dell’economia politica sotto l’influenza del monopolio è un fatto così rimarchevole nella storia delle idee sociali, che non possiamo esimerci dal produrne qui alcuni esempi.
Così, dal punto di vista del monopolio, il valore non è più quel concetto sintetico, che serve ad esprimere il rapporto di un oggetto particolare di utilità verso il complesso della ricchezza, valutandosi dal monopolio le cose non in relazione alla società, ma in relazione a sé, il valore perde il suo carattere sociale e non è più che un rapporto vago, arbitrario, egoista, essenzialmente mobile. Partendo da questo principio, il monopolizzatore estende la qualifica di prodotto a tutte le specie di servitù e applica l’idea di capitale a tutte le industrie frivole e vergognose che alimentano i suoi vizi e le sue passioni. Le lusinghe di una cortigiana, dice Say, sono un fondo il cui prodotto segue la legge generale dei valori, cioè quella dell’offerta e della domanda. La maggior parte delle opere di economia politica sono piene di applicazioni di questa fatta. Ma siccome la prostituzione e la domesticità da cui essa proviene sono riprovate dalla morale, Rossi, ci farà notare che l’economia politica, dopo avere modificata la sua formula, in seguito all’intervento del monopolio, dovrà farle subire una nuova correzione, quantunque le sue conclusioni siano inappuntabili. L’economia politica, egli dice, non ha nulla di comune con la morale; tocca a noi accettarne, modificarne o correggerne le formule secondo il nostro bene, quello della società e gl’interessi della morale. Quante cose intercorrono tra l’economia politica e la verità!
Similmente, la teoria del prodotto netto, così eminentemente sociale, progressiva e conservatrice è stata, mi si consenta l’espressione, individualizzata a sua volta dal monopolio, e il principio che dovrebbe procurare il benessere della società ne cagiona la rovina. Il monopolizzatore, ricercando sempre il maggior prodotto netto possibile, non opera più come membro della società e nell’interesse della società: egli opera in vista del suo esclusivo interesse, sia o no contrario all’interesse sociale. Questo mutamento di prospettiva è la causa che Sismondi assegna allo spopolamento della campagna romana. Secondo indagini comparative eseguite circa il prodotto dell’agro romano, secondo che questo fosse messo a coltura o lasciato a pascolo, egli ha trovato che il prodotto lordo sarebbe dodici volte più considerevole nel primo caso che nel secondo; ma siccome la coltivazione esige relativamente un maggior numero di braccia, egli ha visto altresì che in questo medesimo caso il prodotto netto sarebbe minore. Questo calcolo che non era sfuggito ai proprietari è bastato per confermarli nell’abitudine di lasciare incolte le loro terre e la campagna romana è disabitata.
Tutte le parti degli Stati romani, aggiunge Sismondi, presentano il medesimo contrasto tra i ricordi della loro prosperità nel Medioevo e la loro attuale desolazione. La città di Ceri, resa celebre da Renzo di Ceri, che difese Marsiglia contro Carlo V e Ginevra contro il duca di Savoia, è una desolazione. In tutti i feudi degli Orsini e dei Colonna, non c’è più gente. Nelle foreste che circondano il bel lago di Vico, la razza umana è scomparsa; e i soldati con i quali il temuto prefetto di Vico fece così spesso tremare Roma nel secolo decimoquarto, non hanno lasciato discendenti. Castro e Romigliano sono desolati... (Études sur l’économie politique).
Difatti, la società vuole il massimo prodotto lordo e per conseguenza la maggiore popolazione possibile, perché per essa prodotto lordo e prodotto netto sono identici. Il monopolio al contrario mira costantemente al massimo prodotto netto, dovesse anche ottenerlo a costo dello sterminio del genere umano.
Sotto questa influenza del monopolio, l’interesse del capitale, pervertito nella sua nozione, è divenuto a sua volta, per la società, un principio di morte.
Come abbiamo già spiegato, l’interesse del capitale è, da una parte, la forma sotto cui il lavoratore gode del suo prodotto netto, pur facendolo servire a nuove creazioni; d’altra parte questo interesse è il vincolo materiale di solidarietà tra i produttori, dal punto di vista dell’accrescimento delle ricchezze. Sotto il primo aspetto, la somma degli interessi non può mai eccedere l’ammontare stesso del capitale, sotto il secondo punto di vista, l’interesse comporta, di più del rimborso, un premio come ricompensa del servizio reso. In nessun caso implica perpetuità.
Ma il monopolio, confondendo la nozione del capitale, la quale non può attribuirsi se non alle creazioni dell’industria umana, con quella del fondo usufruibile che la natura ci ha dato e che appartiene a tutti, favorito per altro nella sua usurpazione dallo stato anarchico di una società ove il possesso non può esistere se non a condizione d’essere esclusivo, sovrano, perpetuo; – il monopolio si è immaginato, ha messo per principio che il capitale, al pari che la terra, gli animali e le piante, avesse in sé un’attività propria, che dispensasse il capitalista dal recare altro allo scambio, e dal prendere alcuna parte ai lavori della fabbrica. Da questa idea falsa del monopolio è venuto il nome greco dell’usura, tokos, come a dire il parto, o l’accrescimento del capitale, il che ha dato motivo ad Aristotele di fare questo gioco di parole: gli scudi non fanno figlioli. Ma la metafora degli usurai ha prevalso contro il motteggio dello Stagirita; l’usura, come la rendita, di cui è una imitazione, è stata dichiarata, di diritto, perpetua; e solo molto tardi per un semiritorno al principio, ha riprodotto l’idea di ammortamento...
Tale è il significato di questo enigma che ha sollevato tanti scandali fra i teologi e i legislatori e sul quale la Chiesa cristiana ha errato due volte: la prima condannando ogni specie d’interesse, la seconda accostandosi al parere degli economisti e smentendo così le sue antiche massime. L’usura, o diritto d’inatteso guadagno è nello stesso tempo l’espressione e la condanna del monopolio; è lo spostamento organizzato e localizzato del lavoro da parte del capitale; è di tutti i sovvertimenti economici quello che più alto accusa l’antica società e la cui scandalosa persistenza, giustificherebbe una espropriazione brusca e senza indennità di tutta la classe capitalista. Finalmente, il monopolio, per una specie d’istinto di conservazione ha pervertito persino l’idea di associazione che poteva fargli contrasto, o per dire meglio, non le ha permesso di nascere.
Chi potrebbe oggi lusingarsi di definire quel che deve essere la società tra gli uomini? La legge distingue due specie e quattro varietà civili e altrettante società di commercio, dal semplice fare a metà fino all’anonima. Ho letto i commentari più rispettabili che si siano scritti su tutte queste forme di associazione e dichiaro di non aver trovato altro che un’applicazione delle abitudini cieche del monopolio tra due o più coalizzati che uniscono i loro capitali e i loro sforzi contro chiunque produce e consuma, inventa e scambia, vive e muore. La condizione sine qua non di tutte le società è il capitale, la cui sola presenza le costituisce e dà loro una base; il loro oggetto è il monopolio, cioè l’esclusione di tutti gli altri lavoratori e capitalisti, da cui la negazione dell’universalità sociale, in quanto alle persone.
Per cui, stando alla definizione del Codice, una società di commercio che ponesse come principio la facoltà per ogni straniero di farne parte su semplice domanda, e di godere subito dei diritti e delle prerogative dei soci, anche amministratori, non sarebbe più una società; i tribunali ne pronuncerebbero d’ufficio la dissoluzione, la non esistenza. Così ancora, un atto di società nel quale i contraenti non stipulassero nessun conferimento e che, riservando a ciascuno il diritto espresso di fare concorrenza a tutti, si limitasse a garentire reciprocamente il lavoro e il salario, senza parlare né della specialità dell’industria né dei capitali né degli interessi né di profitti e perdite; un atto simile parrebbe contraddittorio nel suo tenore, sfornito d’oggetto come di ragione e sarebbe, ad istanza del primo associato refrattario, annullato dal giudice. Convenzioni redatte in modo che non potrebbero dare luogo ad azione giudiziaria; persone che si dichiarassero soci di tutti sarebbero considerate soci di nessuno; scritti nei quali si parlasse nello stesso tempo di garanzia e di concorrenza tra i soci, senza alcuna menzione di fondo sociale e senza designazione di oggetto, passerebbero per un’opera di ciarlatanismo trascendentale, il cui autore potrebbe essere mandato a Bicêtre, supponendo che i magistrati consentano a considerarlo solo come pazzo.
Eppure è accertato da tutto quanto la storia e l’economia politica offrono di più autentico, che l’umanità fu posta nuda e senza capitale sulla terra che usufruisce; conseguentemente che essa ha creato quotidianamente ogni ricchezza; che il monopolio nel suo seno è soltanto una nozione relativa che serve a designare il grado del lavoratore, con certe condizioni di godimento e che tutto il progresso consiste nel determinare la proporzionalità dei prodotti indefinitamente moltiplicati, cioè nell’organizzare il lavoro e il benessere mediante la divisione, le macchine, la fabbrica, l’educazione, la concorrenza. Lo studio più accurato dei fenomeni non scorge altro al di là di questo. D’altra parte è evidente che tutte le tendenze dell’umanità e nella sua politica e nelle sue leggi civili sono alla universalizzazione, cioè a una completa trasformazione dell’idea di società quale i nostri codici la determinano.
Per cui concludo che un atto di società, il quale regolasse, non più la quota di concorso dei soci, perché ogni socio, secondo la teoria economica, è reputato non possedere nulla al suo ingresso nella società, ma le condizioni del lavoro e dello scambio e desse libero accesso a quanti si presentassero, io concludo, dico, che un tale atto di società sarebbe razionale e scientifico, perché sarebbe l’espressione medesima del progresso, la formula organica del lavoro, perché rivelerebbe, per così dire, l’umanità a se stessa dandole i rudimenti della propria costituzione.
Ora chi mai tra i giureconsulti e gli economisti s’è appressato, soltanto alla distanza di mille leghe, a quest’idea magnifica eppure tanto semplice? “Io non credo, dice Troplong, che lo spirito di associazione sia chiamato a destini maggiori di quelli che ha avuto in passato fino a oggi...; e confesso che non ho tentato nulla per realizzare codeste speranze che reputo esagerate... Esistono dei giusti limiti che l’associazione non deve oltrepassare. No! l’associazione non è chiamata in Francia a governare tutto. Lo slancio spontaneo dello spirito individuale è anche esso una forza viva della nostra nazione e una causa della sua originalità... L’idea di associazione non è nuova... Già noi vediamo presso i Romani la società di commercio comparire con tutta la sua attrezzatura di monopoli, accaparramenti, collusioni, coalizioni, pirateria, venalità... L’accomandita riempie il diritto civile, commerciale e marittimo del Medioevo: essa è in codesta epoca il più attivo strumento del lavoro organizzato in società... Sin dalla metà del secolo decimoquarto, vediamo formarsi le società per azioni e fino al rovescio di [John] Law si vedono divenire una moda. Come! noi ci meravigliamo perché si mettono in azioni miniere, fabbriche, brevetti, giornali! Ma, due secoli fa, si mettevano in azioni isole, reami, quasi tutto un emisfero. Noi gridiamo al miracolo perché centinaia di accomandatari verranno ad aggrupparsi intorno a una impresa; ma già nel secolo decimoquarto la città di Firenze era tutta accomandita di pochi mercanti che spinsero il più lontano possibile il genio delle imprese. – Poi, se le nostre speculazioni sono cattive, se siamo stati temerari, imprevidenti o creduli tormentiamo il legislatore con turbolenti reclami: chiediamo divieti e annullamenti. Nella mania di fare regolamenti per tutto, anche per quanto è già codificato; d’incatenare tutto a testi riveduti, corretti e aumentati; di amministrare tutto, anche i rischi e i rovesci del commercio, gridiamo, in mezzo a tante leggi esistenti: c’è qualche cosa da fare?...”.
Troplong crede alla Provvidenza, ma di certo non è favorito. Non è lui che troverà la formula reclamata oggi dagli animi, disgustati ormai di tutti i protocolli di coalizioni e di rapina dei quali Troplong sciorina il quadro nel suo commentario. Troplong s’inquieta e con ragione contro coloro che vogliono incatenare tutto ai testi di legge: e poi pretende incatenare l’avvenire in una cinquantina di articoli, ove la ragione la più sagace non segnerebbe una scintilla di scienza economica né un’ombra di filosofia. Nella nostra mania, egli grida, di fare regolamenti per tutto, anche per quanto è già codificato!... Non conosco nulla così esilarante come questo tratto, che dipinge nello stesso tempo il giureconsulto e l’economista. Dopo il Codice Napoleone, tirate su la scala!...
“Fortunatamente – seguita Troplong – tutti i progetti di mutamenti venuti in luce nel 1837 e 1838 con tanto fracasso, sono oggi dimenticati. I conflitti delle proposte e l’anarchia delle opinioni riformiste hanno dato risultati negativi. Mentre si operava la reazione contro gli agitatori; il buon senso faceva giustizia di tanti piani ufficiali d’organizzazione assai meno in armonia con le usanze del commercio, meno liberali, dopo il 1830, dei divisamenti del Consiglio di Stato imperiale! Ora tutto è tornato in ordine e il Codice di commercio ha conservato la sua integrità, la sua eccellente integrità. Quando il commercio ne ha bisogno, esso vi trova accanto alla società in nome collettivo, alla società in partecipazione, alla società anonima, l’accomandita libera, temperata solo dalla prudenza degli accomandatari e dagli articoli del Codice penale sulla truffa”. ([Raymond-Théodore Troplong, Du contract des société civile et commerciale, Prefazione, [Paris 1843]).
Che razza di filosofia è codesta che gode vedendo abortire i tentativi di riforma e conta i propri trionfi con i risultati negativi dello spirito d’indagine!... Noi non possiamo in questo istante addentrarci nella critica delle società civili e commerciali, che hanno fornito a Troplong il materiale per due volumi. Riserviamo questo soggetto per il momento in cui, compiuta la teoria delle contraddizioni economiche, avremo trovato nella loro equazione generale il programma dell’associazione, che noi pubblicheremo allora, riguardo alla pratica e ai divisamenti dei nostri antichi.
Una parola sola sull’accomandita.
A primo aspetto si crederebbe che l’accomandita per la sua potenza espansiva e per la facilità di mutazione che presenta, possa generalizzarsi in modo di abbracciare una intera nazione, in tutti i suoi rapporti commerciali e industriali. Ma il superficiale esame della costituzione di questa società fa scorgere ben presto che la specie di allargamento di cui essa è suscettibile, quanto al numero degli azionisti, nulla ha di comune con l’estensione del vincolo sociale.
In primo luogo, l’accomandita, come tutte le altre società di commercio, è necessariamente limitata a una impresa unica: sotto questo rapporto, esclude tutte le industrie estranee alla sua propria. Se fosse altrimenti, l’accomandita avrebbe cangiato natura; sarebbe una forma novella di società i cui statuti si occuperebbero, non più specialmente dei lucri, ma della distribuzione del lavoro e delle condizioni dello scambio; sarebbe per l’appunto quella forma di associazione che Troplong nega e la giurisprudenza del monopolio esclude.
In quanto poi alle persone che compongono l’accomandita, esse si dividono in due categorie: gli amministratori e gli azionisti. Gli amministratori, pochissimi in numero, sono scelti tra i promotori, gli organizzatori e i padroni dell’impresa: a dire il vero sono i soli soci. Gli azionisti, paragonati al piccolo governo che amministra con pieni poteri la società, sono tutta una massa di contribuenti, estranei gli uni agli altri, senza influenza e senza responsabilità, non sono legati all’affare se non per le quote. Sono prestatori a premio, non sono soci.
S’intende, dopo ciò, come tutte le industrie del regno possano essere esercitate da accomandite e come ogni altro cittadino, grazie alla facilità di moltiplicare le sue azioni, possa interessarsi nella totalità o nella maggior parte di codeste accomandite, senza per ciò migliorare per nulla la propria condizione; potrebbe darsi anzi che essa venga sempre più compromessa. Per cui, lo ripetiamo, l’azionista è la bestia da soma, la materia greggia dell’accomandita; dannoso è per lui che codesta società s’è formata. Perché l’associazione sia reale, occorre che colui il quale vi entra, vi appartenga in qualità non di scommettitore, ma d’imprenditore; che abbia voto deliberativo nel Consiglio; che il suo nome sia espresso o sottinteso nella ditta sociale, che tutto, infine, quanto lo riguarda sia regolato sulla base dell’uguaglianza. Ma queste condizioni sono precisamente quelle dell’organizzazione del lavoro che non è punto entrata nelle previsioni del Codice; esse formano il tema ulteriore dell’economia politica, e per conseguenza non sono da supporre, ma da creare, e come tali, radicalmente incompatibili col monopolio.
Il socialismo, malgrado il fatto del suo nome, non ha avuto finora migliore fortuna del monopolio nella definizione della società; si può anche dire che in tutti i suoi piani d’organizzazione, si è sotto questo rapporto, mostrato sempre plagiario dell’economia politica. Blanc, che ho già citato a proposito della concorrenza, e che abbiamo visto a vicenda farsi partigiano del principio gerarchico, difensore ufficioso dell’uguaglianza, banditore del comunismo, negare con un tratto di penna la legge di contraddizione perché non la capisce, e soprattutto aspirare al potere, come ragione ultima del suo sistema, Blanc offre di nuovo il curioso esempio di un socialista che copia, senz’accorgersene, l’economia politica e s’aggira di continuo nel circolo vizioso del regime solito della proprietà. Nel fondo, Blanc nega la preponderanza del capitale; nega pure che il capitale sia uguale al lavoro nella produzione; nel che è d’accordo con le sane teorie economiche. Ma non può o non sa fare a meno del capitale, prende per punto di partenza il capitale, fa appello all’accomandita dello Stato, cioè si mette in ginocchio dinanzi ai capitalisti e riconosce la sovranità del monopolio. Da ciò le contorsioni singolari della sua dialettica. Prego il lettore di perdonarmi queste eterne personalità; ma poiché il socialismo, al pari della economia politica si è personificato in un certo numero di scrittori, non posso dispensarmi dal citare gli autori.
“Il capitale, diceva il ‘Falansterio’, in quanto è una facoltà che concorre alla produzione, ha o non ha la legittimità delle altre facoltà produttive? Se è illegittimo, pretende illegittimamente una parte qualsiasi nella produzione, bisogna escluderlo, non gli si può dare alcun interesse; se, al contrario, è legittimo, non può essere legittimamente escluso dalla partecipazione ai guadagni, all’aumento dei quali ha contribuito”.
La questione non poteva essere messa con maggiore chiarezza. Blanc trova, al contrario, che essa è posta in modo confusissimo, il che vuol dire che se ne sente imbarazzato e si tormenta a non dire, per trovarne il significato. Dapprima suppone che gli si domandi: “se sia equo di accordare al capitalista, nei lucri della produzione, una parte uguale a quella del lavoratore”. A che Blanc risponde senza esitare che ciò sarebbe ingiusto. Segue uno squarcio d’eloquenza per dimostrare questa ingiustizia.
Ora il falansterista non chiede se la parte del capitalista debba essere pari o non a quella del lavoratore; egli vuole soltanto sapere se al capitale tocca una parte. A questo Blanc non risponde.
Si vuol dire, continua Blanc, che il capitale è indispensabile, come lo è il lavoro alla produzione? – Qui Blanc distingue: ammette che il capitale è indispensabile come il lavoro, ma non tanto quanto il lavoro.
Ancora una volta, il falansterista non disputa sulla quantità, ma sul diritto. Si vuol dire, è sempre Blanc che interroga, che non tutti i capitalisti sono degli oziosi? Blanc, generoso per i capitalisti che lavorano, chiede perché si debba dare una così grossa parte a quelli che non lavorano. Tirata d’eloquenza sui servizi impersonali del capitalista e i servizi personali del lavoratore, terminata con un appello alla Provvidenza.
Per la terza volta vi si domanda, se la partecipazione del capitale ai benefici sia legittima, così come ammettete che sia indispensabile nella produzione.
Finalmente, Blanc, che pure aveva capito, si decide a rispondere che, se accorda un interesse al capitale, è per misura transitoria e per addolcire ai capitalisti la china che devono discendere. Del resto, siccome il suo progetto rende inevitabile l’assorbimento dei capitali privati nell’associazione, sarebbe commettere una follia e abbandonare i princìpi se si facesse di più. Se Blanc avesse studiato la materia, poteva rispondere con una sola parola: nego il capitale.
Così Blanc, e sotto questo nome comprendo tutto il socialismo, dopo avere con una prima contraddizione nel titolo del suo libro – Dell’organizzazione del lavoro – dichiarato che il capitale è indispensabile nella produzione, e per conseguenza che deve essere organizzato e partecipare ai benefici come il lavoro, respinge, con una seconda contraddizione, il capitale dall’organizzazione e rifiutata di riconoscerlo; – con una terza contraddizione, egli che si fa beffe delle decorazioni e dei titoli di nobiltà, distribuisce le corone civiche, le ricompense e le distinzioni ai letterati, inventori e artisti che avranno bene meritato dalla patria; assegna ad essi stipendi, secondo i gradi e le dignità loro: cose tutte che importano la restaurazione del capitale, con tanta realtà, ma tuttavia non con tanta precisione matematica, come se s’accogliessero l’interesse e il prodotto netto; – con una quarta contraddizione Blanc costituisce questa nuova aristocrazia sul principio d’uguaglianza, cioè pretende di fare votare delle compagnie di arte da soci uguali e liberi, dei privilegi d’ozio dalla gente che lavora; lo spossessamento, insomma, dagli spossessati; – con una quinta contraddizione fonda questa aristocrazia d’uguaglianza sulla base di un potere dotato di gran forza, cioè sul dispotismo, altra forma del monopolio; – con una sesta contraddizione, dopo avere, con i suoi incoraggiamenti alle arti e al lavoro, tentato di proporzionare la ricompensa al servizio, come fa il monopolio, il salario all’attitudine, come fa il monopolio, si mette a cantare le lodi della vita in comune, del lavoro e del consumo in comune; il che non gli impedisce di voler sottrarre agli effetti della comune indifferenza, tramite incoraggiamenti nazionali prelevati sul fondo comune, gli scrittori seri e gravi, dei quali la comune dei lettori non si cura” – con una settima contraddizione... Ma fermiamoci a sette perché ci sarebbe da arrivare a settantasette senza finire.
Si dice che Blanc, il quale prepara adesso una Storia della rivoluzione francese, s’è posto a studiare seriamente l’economia politica. Il primo frutto di questo studio sarà quello, non ne dubito, di fargli disdire il suo libercolo sull’organizzazione del lavoro e poi di riformare tutte le sue idee sull’autorità e il Governo. A questo titolo la Storia della rivoluzione francese di L. Blanc sarà un lavoro veramente utile e originale.
Tutte le sette socialiste, senza eccezione, sono invase dal medesimo pregiudizio; tutte a loro insaputa, ispirate dalla contraddizione economica, vengono a confessare la propria impotenza dinanzi alla necessità del capitale, tutte aspettano per realizzare le loro idee, di avere in mano il potere e il denaro. Le utopie del socialismo, in ciò che concerne l’associazione, fanno più che mai emergere la verità di ciò che abbiamo detto sin da principio; nulla c’è nel socialismo che non si trovi nell’economia politica e questo plagio perpetuo è la condanna irrevocabile di entrambi. Da nessuna parte si vede spuntare l’idea-madre che sprizza così luminosa dalla generazione delle categorie economiche: che cioè la formula superiore dell’associazione non deve affatto occuparsi del capitale, oggetto dei conteggi privati, ma deve riferirsi unicamente all’equilibrio della produzione, alle condizioni dello scambio, alla progressiva riduzione del prezzo di costo, sola e unica fonte del progresso della ricchezza. Invece di determinare i rapporti d’industria a industria, di lavoratore a lavoratore, di provincia a provincia e di popolo a popolo, i socialisti non pensano che a provvedersi di capitali, intendendo sempre il problema della solidarietà dei lavoratori come se si trattasse di fondare una nuova ditta di monopolio.
Il mondo, l’umanità, i capitalisti, l’industria, la pratica degli affari esistono; non si tratta più se non di ricercarne la filosofia; in altre parole di organizzarsi; e i socialisti vanno in cerca di capitali! Vivendo sempre fuori della realtà, che meraviglia c’è se la realtà vien meno ad essi?
Così Blanc vuole l’accomandita dello Stato e la creazione di fabbriche nazionali; così Fourier chiedeva sei milioni e la sua scuola si occupa anche oggi di mettere insieme questa somma; così i comunisti sperano in una rivoluzione che dia loro l’autorità e il tesoro e si perdono raccogliendo inutili sottoscrizioni. Il capitale e il potere, organi secondari nella società, sono sempre gli dèi che il socialismo adora: se il capitale e il potere non esistessero li inventerebbe. Con le preoccupazioni continue del potere e del capitale il socialismo ha completamente disconosciuto il senso delle sue stesse proteste; e di più non s’è accorto che impegnandosi, come faceva, nel fuoco economico, toglieva a sé persino il diritto di protestare. Esso accusa di antagonismo la società e vuole giungere alla riforma a mezzo di questo stesso antagonismo. Chiede dei capitali per i poveri lavoratori, come se la miseria dei lavoratori non derivasse dalla mutua concorrenza dei capitali, al pari che dalla fattiva opposizione tra lavoro e capitale; come se la questione non fosse oggi precisamente quale sarebbe stata prima della creazione dei capitali, cioè ancora e sempre una questione d’equilibrio; come, infine, se, ripetiamolo senza tregua, ripetiamolo a sazietà, si trattasse ormai d’altra cosa che di una sintesi di tutti i princìpi emessi dalla civiltà, e che se questa sintesi, se l’idea che porta avanti il mondo, fosse conosciuta, occorrerebbe l’intervento del capitale e dello Stato per metterla in evidenza.
Il socialismo, disertando la critica per abbandonarsi alla declamazione e all’utopia, mescolandosi agli intrighi politici e religiosi, ha tradito la sua missione e sconosciuto il carattere del secolo. La rivoluzione del 1830 ci aveva demoralizzato, il socialismo ci infiacchisce. Come l’economia politica, della quale non fa che ripassare le contraddizioni, il socialismo è impotente a soddisfare il moto degli intelletti; non è più altro, se non un nuovo pregiudizio da distruggere in coloro che piegano il collo al suo giogo e in quelli che lo propagano come una ciarlataneria da smascherare, tanto più pericolosa in quanto è ordinariamente in buona fede.
VII. Epoca quinta. La polizia o l’imposta
Nello stabilire i suoi princìpi, l’umanità, come se obbedisse a un precetto sovrano, non indietreggia mai. Simile al viaggiatore che per andirivieni obliqui s’innalza dalla vallata profonda al sommo della montagna, segue intrepidamente la sua via sinuosa e cammina verso la meta con passo sicuro, senza pentimenti, senza fermate. Giunto all’angolo del monopolio, il genio sociale volge indietro uno sguardo melanconico e immerso in profonda riflessione, dice:
“Il monopolio ha tolto ogni cosa al povero salariato: pane, vesti, focolare, educazione, libertà, sicurezza. Io sottoporrò a contribuzione il monopolio: solo a tal prezzo manterrò il suo privilegio.
“La terra e le miniere, le foreste e le acque, primo dominio dell’uomo, sono interdette al proletario. Interverrò nella loro coltivazione, avrò la mia parte dei prodotti e il monopolio territoriale sarà rispettato. L’industria è caduta nel feudalesimo; ma l’alto signore sono io. I vassalli mi pagheranno un tributo e conserveranno il guadagno dei loro capitali. Il commercio preleva sul consumatore lucri usurai. Seminerò di pedaggi la sua vita, bollerò i suoi mandati, visiterò le sue spedizioni e lo lascerò passare. Il capitale ha vinto il lavoro con l’intelligenza. Aprirò delle scuole; e il lavoratore, reso intelligente anch’egli, potrà divenire a sua volta capitalista. Ai prodotti manca la circolazione e la vita sociale è compromessa. Costruirò vie, ponti, canali, mercati, teatri, chiese, e ciò sarà, nello stesso tempo, un lavoro, una ricchezza e uno sbocco. Il ricco vive nell’abbondanza mentre l’operaio soffre la fame. Metterò tasse sul pane, sul vino, sulla carne, sul sale e sul miele, sui generi di prima necessità e sulle cose di valore, e questa sarà un’elemosina per i poveri. Metterò guardiani sulle acque, le vie, le foreste, i campi, le miniere; manderò esattori per le imposte e maestri per l’infanzia; avrò un esercito per i refrattari, tribunali per giudicarli, prigioni per punirli e preti che li maledicano. Tutti questi uffici saranno affidati al proletariato e pagati dagli uomini del monopolio. Questa è la mia volontà certa ed efficace”.
Noi dobbiamo provare che la società non poteva né pensare meglio, né agire peggio: sarà il tema di una rassegna che, lo spero, getterà nuova luce sul problema sociale.
Ogni provvedimento di polizia generale, ogni regolamento di amministrazione e di commercio, al pari di ogni legge d’imposta, non è altro, in fondo, che uno degli innumerevoli articoli di questa antica transazione, sempre violata e sempre ripresa, tra il patriziato e il proletariato. Poco ci importa che le parti o i loro rappresentanti non abbiano saputo nulla; che esse stesse abbiano frequentemente considerate le loro costituzioni politiche sotto tutt’altro punto di vista; non chiediamo all’uomo, legislatore o principe, il senso dei suoi atti, lo chiediamo agli atti medesimi.
1. – Idea sintetica dell’imposta. Punto di partenza e sviluppo di quest’idea
Al fine di rendere più intelligibile quel che verrà in seguito, esporrò rovesciando il metodo che abbiamo tenuto sinora, la teoria superiore dell’imposta; ne darò poi la genesi, e finalmente ne esporrò la contraddizione e i risultati. L’idea sintetica dell’imposta, del pari che il suo concetto originario, fornirebbe materia a più ampi sviluppi. Mi limiterò ad enunciare semplicemente la proposizione, indicando sommariamente le prove.
L’imposta nella sua essenza e nella sua destinazione positiva è la forma di distribuzione tra quella specie di funzionari che Adam Smith indicò col nome di improduttivi, quantunque fosse, al pari di ogni altro, convinto della utilità e necessità del loro lavoro nella società. Con la designazione di improduttivi Adam Smith, il cui genio ha tutto intravisto e ci ha lasciato tutto da fare, intendeva che il prodotto di questi lavoratori è negativo, il che è diverso da nullo e per conseguenza il riparto segue, rispetto a loro, un modo diverso dallo scambio.
Consideriamo ciò che, dal punto di vista del riparto, avviene nelle quattro grandi divisioni del lavoro collettivo: istruzione, industria, commercio, agricoltura. Ogni produttore reca sul mercato un prodotto reale la cui quantità può misurarsi, la qualità valutarsi, dibattersi il prezzo e finalmente scontarsi il valore, sia con altri servizi, o merci, sia in numerario. Per tutte queste industrie il riparto non è altra cosa che lo scambio mutuo dei prodotti, secondo la legge di proporzionalità dei valori.
Nulla di simile per i funzionari pubblici.
Costoro ottengono il diritto alla sussistenza, non con la produzione di utilità reali, ma con l’improduttività stessa nella quale, senza loro colpa, sono ritenuti. Per essi la legge di proporzionalità è inversa; mentre la ricchezza sociale si forma e accresce in ragione diretta della quantità, della varietà e della proporzione dei prodotti effettivi forniti dalle quattro grandi categorie industriali; lo sviluppo di questa medesima ricchezza, il perfezionamento sociale, suppongono al contrario, in ciò che riguarda il personale della polizia, una riduzione progressiva e indefinita. I funzionari dello Stato sono dunque veramente improduttivi. A questo riguardo J.-B. Say pensava come A. Smith, e tutto quanto egli ha scritto su questo tema per correggere il suo maestro, e s’è avuto il torto di annoverare tra i suoi titoli di gloria, proviene unicamente, com’è facile vedere, da un malinteso. In una parola, il salario degli impiegati del Governo costituisce per la società un deficit; esso deve essere portato al conto delle perdite, che l’organizzazione industriale deve mirare a diminuire senza tregua: quale altra qualificazione dare quindi agli uomini del potere se non quella di A. Smith?
Ecco dunque una categoria di servizi che, non dando prodotti reali, non possono per nulla essere saldati nella forma consueta; servizi che non cadono sotto la legge dello scambio, che non possono diventare oggetto di speculazione privata, di concorrenza, di accomandita o di alcuna specie di commercio; servizi che, sebbene tutti li reputino prestati gratuitamente, devono essere pagati, perché confidati, in virtù della legge di divisione del lavoro, a un ristretto numero d’individui speciali che vi attendono esclusivamente.
La storia conferma questo concetto generale. Lo spirito umano, il quale per ogni problema tenta tutte le soluzioni, ha tentato altresì di sottoporre allo scambio le funzioni pubbliche; per lungo tempo i magistrati in Francia, come i notai, hanno vissuto con le loro prebende. Ma l’esperienza ha provato che questa maniera di riparto adoperato per gente improduttiva era troppo costoso, andava soggetto a troppi inconvenienti e vi si è dovuto rinunziare.
L’organizzazione dei servizi improduttivi contribuisce in molte maniere al benessere generale: dapprima esonerando i produttori dalle cure della cosa pubblica, cui tutti devono partecipare e di cui per conseguenza sono più o meno schiavi; in secondo luogo creando nella società un accentramento artificiale, immagine e preludio della futura solidarietà delle industrie; finalmente dando il primo saggio di ponderazione e di disciplina.
Così noi riconosciamo con J.-B. Say l’utilità dei magistrati e altri agenti dell’autorità pubblica; ma sosteniamo che questa utilità è affatto negativa e manteniamo per conseguenza il titolo di improduttivi dato loro da A. Smith, non per sentimento qualsiasi di sfavore, ma perché effettivamente non possono essere classificati nella categoria dei produttori. “L’imposta – dice benissimo un economista della scuola di Say, Garnier – è una privazione che bisogna adoperarsi a scemare più che sia possibile, fino alla occorrenza dei bisogni della società”. Se lo scrittore che cito ha riflettuto sul significato delle sue parole, ha visto certo che la parola privazione della quale si serve, è sinonimo di non-produzione, e in conseguenza coloro al cui vantaggio si raccoglie l’imposta sono veramente improduttivi.
Insisto su questa definizione, che mi sembra tanto meno contestabile, in quanto che se si disputa ancora sul vocabolo, tutti però sono d’accordo sulla cosa, perché contiene il germe della più grande rivoluzione che debba compiersi nel mondo, la subordinazione delle funzioni improduttive alle funzioni produttive, in una parola la sottomissione effettiva, sempre chiesta, mai ottenuta, dell’autorità ai cittadini.
È una conseguenza dello sviluppo delle contraddizioni economiche, che l’ordine nella società si mostri dapprima come a rovescio; che ciò che deve essere in alto sia posto in basso; ciò che deve essere in rilievo paia inciso e ciò che deve essere in luce sia rigettato nell’ombra. Così il potere che è, per essenza, come il capitale, ausiliare e subordinato del lavoro, diventa, per l’antagonismo della società, la spia, il giudice e il tiranno delle funzioni produttive; il potere, cui la sua inferiorità originaria impone l’obbedienza, è principe e sovrano.
In tutti i tempi le classi lavoratrici si sono affaticate contro la casta ufficiale, alla soluzione di questa antinomia di cui la scienza economica può sola dare la chiave. Le oscillazioni, cioè le agitazioni politiche che risultano da questa lotta del lavoro contro il potere, ora determinano una depressione della forza centrale, che giunge a porre a rischio l’esistenza della società, ora esagerando fuor di misura codesta forza, generano il dispotismo. Poi i privilegi del comando, le gioie infinite che procura all’ambizione e all’orgoglio, rendendo le funzioni improduttive oggetto dell’universale cupidigia; un nuovo fermento di discordia penetra nella società, che già divisa, da una parte in capitalisti e salariati, dall’altra in produttori e improduttivi, si divide di nuovo, per il potere, in monarchici e democratici. I conflitti tra la monarchia e la repubblica ci fornirebbero materia per il più meraviglioso e interessante episodio.
I limiti di quest’opera non ci consentono una così lunga escursione, e dopo aver additato questa nuova branca dell’ampia folla delle umane aberrazioni, ci rinserreremo, parlando dell’imposta, nella pura questione economica.
Tale è dunque, nella più succinta esposizione, la teoria sintetica dell’imposta, cioè, se oso permettermi il paragone volgare, di questa quinta ruota del carro dell’umanità, che fa tanto strepito, e si chiama in stile governativo, lo Stato. Lo Stato, la polizia, o il loro mezzo ufficiale di esistenza, l’imposta, è, lo ripeto, il nome ufficiale della classe che si indica in economia politica col nome di improduttiva, ossia in una parola, il servitorame sociale.
Ma la ragione pubblica non coglie subito questa idea semplice rimasta, per tanti secoli, allo stato di concetto trascendentale. Perché la civiltà giunga a tale altezza, bisogna che attraversi burrasche spaventevoli e rivoluzioni innumerevoli, in ciascuna delle quali si direbbe che rinnovelli le proprie forze con un bagno di sangue. E quando finalmente la produzione, rappresentata dal capitale, pare che stia per mettere in una posizione subalterna l’organo improduttivo, Io Stato, allora la società si solleva indignata; il lavoro geme a vedersi a momenti libero, la democrazia freme per l’avvilimento del potere; la giustizia grida allo scandalo e tutti gli oracoli degli dèi che se ne vanno esclamano con terrore che l’abominio della desolazione è nel santuario e la fine dei tempi è venuta. Tanto è vero che l’umanità non vuol mai quel che cerca, e il minimo progresso non può realizzarsi senza gettare il panico nelle popolazioni!
Qual è dunque in questa evoluzione il punto di partenza della società e per qual giro essa giunge alla riforma politica, cioè all’economia nelle spese, all’eguaglianza di riparto dell’imposta e alla subordinazione del potere all’industria?
Lo diremo in poche parole, riservando a più tardi gli sviluppi.
L’idea originaria dell’imposta è quella di un riscatto.
Nel modo in cui, nella legge mosaica, ogni primogenito era considerato appartenere a Jehova, e doveva essere riscattato con una offerta, così l’imposta si presenta ovunque sotto la forma di una decima o di un diritto di regalia con la quale il proprietario riscatta ogni anno dal sovrano il guadagno industriale che ritiene ottenere da lui. Questa teoria dell’imposta non è altro che uno degli articoli speciali di quel che si chiama il contratto sociale. Gli antichi e i moderni si accordano tutti in termini più o meno espliciti a presentare lo stato giuridico della società come una reazione della debolezza contro la forza. Quest’idea domina in tutte le opere di Platone, segnatamente nel Gorgia, ove egli sostiene, con maggiore sottigliezza che logica, la causa delle leggi contro la violenza, cioè l’arbitrio legislativo contro l’arbitrio aristocratico e guerriero. In codesta disputa scabrosa, in cui l’evidenza delle ragioni è eguale da entrambe le parti, Platone esprime il pensiero di tutta l’antichità. Assai prima di lui Mosè, facendo un riparto delle terre, dichiarando il patrimonio inalienabile e ordinando un’estinzione generale e senza rimborso di tutte le ipoteche, ogni cinquantesimo anno, aveva opposto una barriera all’invasione della forza. Solone, iniziando la sua missione legislativa con l’abolizione generale dei debiti, e creando diritti e riserve, cioè barriere che ne impedissero il ritorno, non fu meno reazionario. Licurgo andò più in là: proibì la proprietà individuale e si sforzò di assorbire l’individuo nello Stato, annullando ogni libertà per meglio conservare l’equilibrio. Hobbes, facendo, e con ragione, derivare la legislazione dallo stato di guerra, giunse, per altra via a costituire l’uguaglianza sopra una eccezione, il dispotismo. Il suo libro, tanto calunniato, è uno sviluppo di questa famosa antitesi. La Carta del 1830, consacrando l’insurrezione operata nel 1789 dalla classe popolare contro la nobiltà e decretando l’eguaglianza astratta delle persone innanzi alla legge, malgrado l’ineguaglianza reale delle forze e degli ingegni che forma il vero fondo del vigente sistema sociale, non è altro anche essa se non una protesta della società in favore del povero contro il ricco, del piccolo contro il grande. Tutte le leggi del genere umano sulla vendita, la compra, la locazione, la proprietà, il prestito, l’ipoteca, la prescrizione, le successioni, le donazioni, i testamenti, la dote delle femmine, la minorità, la tutela, ecc., sono altrettante barriere innalzate dall’arbitrio giuridico contro l’arbitrio della forza. Il rispetto dei contratti, la fedeltà alla parola data, la religione del giuramento, sono le finzioni, gli aliossi, come diceva il famoso Lisandro, con i quali la società inganna i forti e li mette sotto il giogo.
L’imposta appartiene a questa grande famiglia d’istituzioni preventive, coercitive, repressive e vendicative che A. Smith indicava col nome generico di polizia e che nel suo concetto originario è, come ho detto, la reazione della debolezza contro la forza.
Ciò risulta, indipendentemente dalle testimonianze storiche, che abbondano, ma che lasceremo in disparte per tenerci esclusivamente alla prova economica, dalla distinzione naturale che s’è fatta delle imposte.
Tutte le imposte si dividono in due grandi categorie: 1) imposte di ripartizione o di privilegio: sono quelle stabilite dal tempo più antico; 2) imposte di consumo o di qualità, la cui tendenza, assimilandosi le prime, è di rendere uguali i carichi pubblici.
La prima specie d’imposta – che comprende, presso di noi, l’imposta fondiaria, quella sulle porte e finestre, il contributo personale, mobiliare e locativo, le autorizzazioni e le licenze, i diritti di mutazione, centesimi e decimi, prestazioni in natura e patenti – è la ritenuta che il sovrano si riserva su tutti i monopoli che concede o tollera, è come abbiamo detto, l’indennità del povero, il passaporto accordato alla proprietà. Tale è stata la forma e lo spirito dell’imposta in tutte le monarchie antiche, la feudalità ne rappresenta il tipo ideale. Sotto quel regime l’imposta non è che un tributo pagato dal detentore al proprietario o accomandatario universale, il re.
Quando più tardi, con lo sviluppo del diritto pubblico, il potere regio, forma patriarcale della sovranità, comincia a impregnarsi di spirito democratico, l’imposta diventa una quota che ogni censito deve alla cosa pubblica e che, invece di andare nelle mani del principe, è ricevuta nel tesoro dello Stato. In questa evoluzione il principio dell’imposta rimane intatto; non è ancora l’istituzione che si trasforma, è il sovrano reale che succede al sovrano figurativo. Che l’imposta entri nel peculio del principe, o serva a pagare un debito comune, è pur sempre una rivendicazione della società contro il privilegio: senza ciò riesce impossibile dire perché l’imposta sia stabilita in ragione proporzionale alle fortune.
“Tutti contribuiscono alle spese pubbliche; nulla di meglio, ma perché il ricco deve pagare più del povero? – È giusto, si dice, perché possiede di più. – Confesso che non capisco questa giustizia. Una delle due, o l’imposta proporzionale garantisce un privilegio a favore dei forti contribuenti, o è, a sua volta, una iniquità. Infatti, se la proprietà è di diritto naturale, come vuole la Dichiarazione del ’93, tutto quanto mi appartiene in virtù di questo diritto è tanto sacro quanto la mia persona: è il mio sangue, è la mia vita, è me stesso; chiunque vi metta mano offende la pupilla degli occhi miei. I miei centomila franchi di reddito sono così inviolabili come la giornata di 75 centesimi della sartina, i miei appartamenti come la sua soffitta. La tassa non è ripartita in ragione della forza fisica, della statura o dell’ingegno; non lo può essere neanche in ragione della proprietà”. (Che cos’è la proprietà?, cap. II).
Queste osservazioni sono tanto più giuste in quanto il principio da loro opposto a quello del riparto proporzionale ha già avuto il suo periodo di applicazione. L’imposta proporzionale è assai posteriore nella storia all’omaggio-regio, che consisteva in una semplice dimostrazione ufficiosa, senza concretezza reale.
La seconda specie d’imposta comprende, in generale, tutte quelle designate, per una specie di antifrasi, col nome di contribuzioni indirette, bevande, sali, tabacchi, dogane, tutte le tasse insomma che colpiscono direttamente la sola cosa che debba essere tassata, il prodotto. Il principio di questa imposta, il cui nome è un vero controsenso, è incontestabilmente meglio fondato in teoria e di più equa tendenza che non il precedente; perciò malgrado l’opinione della massa, sempre ingannata tanto su ciò che le giova quanto su ciò che le nuoce, non esito a dire, che questa imposta è la sola normale, salvo il riparto e l’esazione, di cui qui non devo occuparmi.
Infatti, se è vero, come fu dianzi spiegato, che la natura dell’imposta stia nel compensare, con una forma speciale di salario, certi servizi che si sottraggono alla forma consueta dello scambio, segue che tutti i produttori, godendo ugualmente di codesti servizi, in quanto all’uso personale, devono contribuire al saldo in parti uguali. La quota di ciascuno sarà dunque una frazione del suo prodotto permutabile, o, in altre parole, una ritenuta sui lavori conferiti da lui al consumo. Ma sotto il regime del monopolio e con la percezione della fondiaria, il fisco colpisce la ricchezza prima che entri nello scambio, anzi prima che sia prodotta: la quale circostanza ha per effetto di rigettare l’equivalente della tassa tra le spese di produzione e per conseguenza di farlo sopportare dal consumatore, liberandone il monopolio.
Quale che sia il significato dell’imposta di ripartizione e di quella di quotità, una cosa è positiva ed è quella che soprattutto ci interessa di sapere, stabilendo la proporzionalità dell’imposta, il sovrano ha avuto l’intenzione di fare contribuire i cittadini ai carichi pubblici non più secondo il vecchio principio feudale, mediante una capitazione, il che implicherebbe l’idea di una rateazione calcolata in ragione del numero dei contribuenti, non in ragione dei loro beni; ma al pro-rata dei capitali, ciò che suppone dipendere i capitali da un’autorità superiore ai capitalisti.
Tutti, spontaneamente e di unanime accordo trovano giusto un riparto simile. Tutti, dunque, concordi e unanimi giudicano che l’imposta è una rivalsa della società, una specie di riscatto del monopolio. Ciò si scorge specialmente in Inghilterra ove, per una legge speciale, i proprietari del suolo e i manifattori pagano sulla base di una pro-rata dei loro redditi una imposta di duecento milioni che si chiama la tassa dei poveri. In due parole, lo scopo pratico e aperto dell’imposta è d’esercitare sui ricchi, a profitto del popolo, una rivalsa proporzionale al capitale.
Ora, l’analisi e i fatti mostrano:
che l’imposta di ripartizione, l’imposta del monopolio, invece di essere pagata da coloro che possiedono, lo è quasi per intero da quelli che non possiedono;
che l’imposta di quotità, separando il produttore dal consumatore, colpisce unicamente quest’ultimo, sicché al capitalista rimane la parte che egli pagherebbe se tutte le fortune fossero assolutamente uguali;
finalmente, che l’esercito, i tribunali, la polizia, le scuole, gli ospedali, gli ospizi, le case di ricovero e di correzione, gli uffici pubblici, la religione stessa, tutto quanto la società ha creato per la difesa, l’emancipazione e il sollievo del proletario, pagato dapprima e mantenuto dal proletario, è poi diretto contro il proletario, o perduto per lui; di modo che il proletariato, che a principio lavorava soltanto per la casta che lo divora, quella dei capitalisti, deve lavorare anche per la casta che lo flagella, quella degli improduttivi.
Questi fatti sono ormai così notori e gli economisti, devo render loro questa giustizia, li hanno esposti con tanta evidenza, che mi astengo dal rifare le loro dimostrazioni che, del resto, non trovano più contraddittori. Ciò che propongo di mettere in luce e che mi pare gli economisti non abbiano sufficientemente compreso, è che la condizione creata al lavoratore da questa nuova fase dell’economia sociale non è suscettibile di alcun miglioramento; che, salvo il caso in cui l’organizzazione industriale e per conseguenza la riforma politica conducessero all’eguaglianza delle fortune, il male è inerente alle istituzioni poliziesche come il pensiero caritatevole che le ha generate; finalmente che lo Stato, qualunque forma prenda, aristocratica o repubblicana, fino a quando non sarà divenuto l’organo obbediente e sottomesso di una società d’eguali, sarà per il popolo un inferno inevitabile, stavo per dire una dannazione legittima.
2. – Antinomia dell’imposta
Sento dire qualche volta dai partigiani dello statu quo che, in quanto al presente, godiamo sufficiente libertà e che anche a dispetto delle declamazioni contro l’ordine attuale delle cose, siamo più arretrati delle nostre istituzioni. Io sono, almeno in ciò che concerne l’imposta, precisamente dello stesso avviso di questi ottimisti.
Secondo la teoria dianzi esposta, l’imposta è la reazione della società contro il monopolio. Le opinioni a questo riguardo sono unanimi: popolo e legislatore, economisti, giornalisti e scrittori di farse (vaudevillistes), traducendo ciascuno nel proprio linguaggio il pensiero sociale, stampano a gara che l’imposta deve cadere sui ricchi, colpire il superfluo e gli oggetti di lusso, e lasciare intatti quelli di prima necessità. Insomma si è fatto dell’imposta una sorta di privilegio per i privilegiati; pensiero cattivo, perché significava nel fatto riconoscere la legittimità del privilegio, che in qualsiasi caso e sotto qualunque forma si mostri, non vale nulla. Il popolo doveva essere punito di questa inconseguenza egoistica: la Provvidenza non è venuta meno alla sua missione.
Dal momento dunque che l’imposta fu concepita come una rivendicazione, dovette stabilirsi proporzionatamente agli averi, sia che colpisse il capitale, sia che cadesse più specialmente sul reddito. Ora, io farò notare che essendo il riparto dell’imposta pro-rata, precisamente quello che si adotterebbe in un paese in cui tutte le fortune fossero uguali, salvo le differenze di ordinamento e di riscossione, il fisco è ciò che c’è di più liberale nella nostra società e su questo proposito i nostri costumi sono effettivamente più addietro delle nostre istituzioni. Ma siccome in mano ai cattivi le cose migliori diventano detestabili, vedremo che l’imposta dell’uguaglianza schiaccia il popolo, precisamente perché il popolo non è al livello di essa.
Io suppongo che il reddito lordo della Francia, per ogni famiglia composta di quattro persone, sia di 1000 franchi; è un po’ più della cifra di Chevalier, che assegna 63 centesimi al giorno per testa, cioè 919 franchi e 80 centesimi per famiglia. Essendo ora l’imposta al di là di un miliardo, cioè circa l’ottavo del reddito totale, ogni famiglia guadagnando 1000 franchi all’anno, paga d’imposta 125 franchi.
In base a ciò, un reddito di 2000 fr. paga 250 fr., un reddito di 3000 fr., 375; un reddito di 4000 fr., 500, ecc.
La proporzione è rigorosa e matematicamente inappuntabile; il fisco è sicuro di non perdere, l’aritmetica lo garantisce.
Ma, dalla parte dei contribuenti la cosa cambia totalmente di aspetto. L’imposta che nella mente del legislatore doveva proporzionarsi alla fortuna, è, al contrario, progressiva nel senso della miseria. Sicché più il cittadino è povero, più paga. Lo proverò sensibilmente con alcune cifre.
Per l’imposta proporzionale è dovuta al fisco:
per un reddito di 1000 2000 3000 4000 5000 6000 fr., ecc.
una contribuzione di 125 250 375 500 625 750 fr., ecc.
Pare dunque, stando a questa serie, che l’imposta cresca proporzionalmente al reddito.
Ma, se si riflette che ogni somma di reddito si compone di 365 unità, ciascuna delle quali rappresenta il reddito giornaliero del contribuente, non si troverà più che l’imposta sia proporzionale, si troverà che è uguale. Difatti, se per un reddito di 1000 franchi lo Stato preleva 125 franchi d’imposta, è come se togliesse alla famiglia colpita 45 giornate di sussistenza; e parimenti le quote tributarie di 250, 375, 500, 625, 750, corrispondendo a redditi di 2000, 3000, 4000, 5000, 6000 franchi, fanno sempre per ognuno dei beneficiari una imposta di 45 giornate.
Dico che questa eguaglianza dell’imposta è una mostruosa disuguaglianza, ed è stata una illusione immaginarsi che, essendo più considerevole un reddito giornaliero, debba essere maggiore la contribuzione di cui esso è base. Trasportiamo il nostro punto di vista dal reddito personale al reddito collettivo.
Per effetto del monopolio, abbandonando la ricchezza sociale la classe lavoratrice per volgersi sulla classe capitalista, lo scopo dell’imposta è stato quello di moderare questo spostamento e di reagire contro l’usurpazione, esercitando sopra ogni privilegiato una rivalsa proporzionale. Ma proporzionale a che? a ciò che il privilegio ha preso di troppo, senza dubbio, e non alla frazione del capitale sociale che il suo reddito rappresenta. Ora, lo scopo dell’imposta non è raggiunto e la legge è volta in derisione, quando il fisco invece di prendere la sua ottava parte dove questa si trova, la chiede precisamente a coloro ai quali egli dovrebbe restituirla. Un’ultima dimostrazione renderà ciò palpabile.
Supponiamo il reddito della Francia di 68 centesimi al giorno e a testa; il padre di famiglia che, sia a titolo di salario, sia come reddito dei suoi capitali, guadagna mille franchi l’anno, riceve quattro parti del reddito nazionale; chi prende 2000 franchi ha otto parti; cho riscuote 4000 franchi ne ha sedici, ecc. Segue di là che l’operaio, il quale per un reddito di mille franchi paga 125 franchi al fisco, rende all’ordine pubblico una mezza parte, cioè un ottavo del suo reddito e della sussistenza della propria famiglia; mentre chi vive di rendita, pagando sopra una entrata di 6000 franchi 750 franchi, realizza un beneficio di 17 parti sul reddito collettivo, ossia, in altri termini, guadagna con l’imposta il 4,25%.
Riproduciamo la stessa verità sotto un’altra forma.
In Francia vi sono circa 200 mila elettori. Non so quale sia la somma delle contribuzioni pagate da questi 200 mila elettori; ma non credo allontanarmi molto dalla verità supponendo una media di 300 franchi per ciascuno, che fa in complesso, per 200 mila censiti, 60 milioni, ai quali aggiungendo un altro quarto per la loro quota di contribuzioni indirette, avremo 75 milioni, ossia 75 franchi a testa (supponendo la famiglia d’ogni elettore composta di cinque persone) che paga allo Stato la classe elettorale. Il bilancio, secondo l’“Annuario economico” del 1845, segna all’entrata 1106 milioni, rimanenza: un miliardo 31 milioni, che fa 31 fr. e 30 cent, per ogni cittadino non elettore, due quinti della contribuzione pagata dalla classe ricca. Ora, perché questa proporzione fosse equa, bisognerebbe che la media di benessere della classe non elettorale fosse i due quinti della media di benessere della classe degli elettori, e ciò non è punto vero per più che tre quarti.
Ma questa sproporzione apparirà ancora più rilevante se si riflette che il calcolo fatto sulla classe elettorale è del tutto erroneo, a favore dei censiti.
Difatti, le sole imposte calcolate per il godimento del diritto elettorale sono: 1) la tassa prediale; 2) la personale e mobiliare; 3) quella sulle porte e finestre; 4) la patente. Ora, ad eccezione della personale e della mobiliare che variano poco, le tre altre imposte ricadono sui consumatori ed è lo stesso di tutte le imposte indirette, che i detentori di capitali si fanno rimborsare dai consumatori, eccettuati tuttavia i diritti di trasmissione che colpiscono direttamente il proprietario e salgono in complesso a 150 milioni. Ora, se noi computiamo che la proprietà elettorale figuri in quest’ultima cifra per un sesto, il che è dir molto, essendo la quota delle contribuzioni dirette (409 milioni) ragguagliata a 12 fr. per testa e a 16 fr. quella delle indirette (547 milioni), la media d’imposta pagata da ogni elettore che abbia una famiglia di cinque persone, sarà in tutto di 265 franchi, mentre la parte dell’operaio, il quale non ha che le sue braccia per nutrire sé, la moglie e due figli, sarà di 112 fr. In termini più generali, la media della contribuzione per testa sarà nella classe superiore 53 franchi; nell’inferiore 28. E io ripropongo la questione. Il benessere è, al di qua del censo elettorale, la metà di ciò che è al di là?
È dell’imposta come delle pubblicazioni periodiche che in realtà costano tanto più care quanto più di rado vengono fuori. Un giornale quotidiano costa 40 franchi, un ebdomadario 10, un mensile 4. Supponendo tutte le altre cose uguali, i prezzi di abbonamento di questi giornali stanno tra loro come i numeri 40, 70 e 120, crescendo il prezzo con la rarità delle pubblicazioni. Ora, così precisamente fa l’imposta; è un abbonamento pagato da ciascun cittadino in cambio del diritto di lavorare e di vivere. Chi usa di questo diritto nella proporzione minima, paga di più; chi ne usa molto, paga poco.
Gli economisti sono generalmente d’accordo su ciò. Essi hanno combattuto l’imposta proporzionale, non solo nel suo principio, ma nella sua applicazione; ne hanno rilevato le anomalie, che quasi tutte, provengono dal fatto che il rapporto del capitale al reddito, o della superficie coltivata alla rendita, non è mai fisso.
“Supponiamo una contribuzione di un decimo sul reddito delle terre, e delle terre di qualità differente che producano, la prima 8 franchi di frumento, la seconda 6 franchi, la terza 5; l’imposta prenderà un ottavo del reddito dalla terra più feconda, un sesto da quella che lo è un po’ meno e finalmente un quinto da quella che lo è ancora meno. Non sarà così l’imposta stabilita in senso inverso a quel che dovrebbe essere? – Invece delle terre si possono far entrare nel calcolo gli altri strumenti di produzione e paragonare capitali di uguale valore o quantità di lavoro del medesimo grado, applicate a rami d’industria di varia produttività; la conclusione sarà la stessa. È ingiusto chiedere una capitazione uguale di dieci franchi all’operaio che guadagna mille franchi o all’artista o al medico che mette insieme sessantamila franchi d’entrata”. (G. Garnier, Éléments d’économie politique, [Paris 1845]).
Queste considerazioni sono giustissime, benché non riguardino che la percezione o l’assetto e non tocchino per niente, il principio sostanziale dell’imposta. Supponendo eseguito il riparto sul reddito, anziché sul capitale, rimane sempre questo, che l’imposta, la quale dovrebbe essere in proporzione degli averi, è a carico del consumatore.
Gli economisti hanno saltato il fosso: hanno apertamente dimostrata l’iniquità dell’imposta proporzionale.
“L’imposta – dice Say – non può mai colpire il necessario”. Vero è che questo autore non definisce ciò che si debba intendere per necessario. Ma noi possiamo supplire alla sua omissione. Il necessario è ciò che del prodotto totale rimane all’individuo, deduzione fatta di quanto deve essere prelevato per l’imposta. Così, per fare il conto in cifre rotonde, essendo in Francia la produzione di otto miliardi e l’imposta di un miliardo, il necessario quotidiano per ogni individuo è di 56 centesimi e mezzo. Tutto ciò che sorpassa questo reddito è, secondo J.-B. Say, solamente suscettibile di essere tassato; tutto quanto è al disotto deve essere sacrosanto per il fisco.
È ciò che il medesimo autore esprime in altre parole, quanto dice: “l’imposta proporzionale non è equa”. Adam Smith aveva già detto prima di lui: “Non è affatto irragionevole che il ricco contribuisca alle pubbliche spese, non solo in proporzione del proprio reddito, ma anche qualcosa di più”. “Io andrò più lungi – aggiunge Say –; non temerò di dire che l’imposta progressiva è la sola equa”. E G. Garnier, ultimo compendiatore degli economisti: “Le riforme devono tendere a stabilire un’eguaglianza progressiva, per così dire, assai più giusta, assai più equa che non sia la pretesa eguaglianza dell’imposta, la quale non è altro che una mostruosa disuguaglianza”.
Dunque, stando all’opinione generale e alla testimonianza degli economisti, due cose sono accertate: l’una che nel suo principio l’imposta è una reazione contro il monopolio e diretta contro il ricco, l’altra che, in pratica, quest’imposta è infedele al suo compito; che colpendo di preferenza il povero, commette una ingiustizia e il legislatore deve tendere costantemente a ripartirla in maniera più equa.
Avevo bisogno di stabilire fermamente questo duplice fatto prima di procedere ad altre considerazioni. Ora comincia la mia critica.
Gli economisti con quella bonomia di brava gente che hanno ereditata dai loro antichi e che forma ancora ogni loro vanto, non si sono accorti che la teoria dell’imposta progressiva da essi additata ai governi come il non plus ultra di una savia e liberale amministrazione, è contraddittoria nei termini e piena d’impossibilità. Hanno imputato le oppressioni del fisco ora alla barbarie dei tempi, ora all’ignoranza dei princìpi, ai pregiudizi di casta, all’avidità dei contratti, a tutto quanto insomma, a detta loro, faceva ostacolo alla pratica sincera dell’uguaglianza innanzi al bilancio; non hanno avuto il dubbio che ciò che essi chiamavano imposta progressiva era il rovescio di tutte le nozioni economiche.
Così, per esempio, non hanno badato che l’imposta era progressiva per il solo fatto d’essere proporzionale, ma che la proporzione si trovava presa a rovescio, muovendosi, come abbiamo detto, non nel senso delle più grandi fortune, ma in quello delle minori. Se gli economisti avessero avuta l’idea netta di questo rovesciamento, invariabile in tutti i paesi che hanno tasse, un così singolare fenomeno avrebbe certo fermata la loro attenzione, ne avrebbero cercate le cause e avrebbero finito per scoprire come ciò che essi prendevano per un accidente della civiltà, per un effetto delle inestricabili difficoltà del governo umano, fosse il prodotto della contraddizione inerente a tutta l’economia politica.
L’imposta progressiva, applicata sia al capitale, sia al reddito, è la negazione stessa del monopolio, di quel monopolio che s’incontra dovunque, dice Rossi, sulla via dell’economia sociale; che è il vero stimolo dell’industria, la speranza del risparmio, il conservatore e padre d’ogni ricchezza; del quale insomma abbiamo potuto dire che la società non può esistere con lui, ma non esisterebbe senza di lui. Supponiamo che l’imposta diventi di un tratto ciò che indubbiamente essa deve essere, cioè, la contribuzione proporzionale (o progressiva, è la stessa cosa) di ciascun produttore ai carichi pubblici, ecco che subito la rendita e il profitto sono confiscati da per tutto a vantaggio dello Stato; il lavoro è spogliato del frutto delle sue opere; ridotto ogni individuo alla quota congrua di cinquantasei centesimi e mezzo, la miseria diventa generale, il patto formato tra il lavoro e il capitale è sciolto e la società, priva del timone, indietreggia fino alla sua origine.
Si dirà forse che è facile impedire l’annichilimento assoluto dei profitti del capitale, arrestando a un dato momento l’effetto della progressione. Eclettismo, giusto mezzo, accomodamento col cielo e con la morale: sempre la stessa filosofia! La vera scienza rifugge da simili transazioni. Ogni capitale investito nell’industria deve tornare al produttore sotto forma di interessi; ogni lavoro deve lasciare un’eccedenza, ogni salario deve essere uguale al prodotto. Sotto l’egida di queste leggi la società realizza senza tregua, con la massima varietà delle produzioni, la massima somma possibile di benessere. Queste leggi sono assolute: violarle, significa danneggiare, mutilare il corpo sociale. Quindi il capitale, che, dopo tutto, non è altro se non lavoro accumulato, è inviolabile. Ma, d’altra parte, la tendenza all’uguaglianza non è meno imperiosa: essa si manifesta a ogni fase economica con una energia crescente e un’autorità invincibile. Voi dovete quindi soddisfare nello stesso tempo il lavoro e la giustizia; dovete dare al primo delle garanzie sempre più solide e procurare l’effettuazione della seconda senza concessioni né ambiguità.
Invece di questo voi sostituite continuamente alle vostre teorie il talento del principe, fermate il corso delle leggi economiche con un potere arbitrario e, sotto pretesto di equità, mentite del pari al salario e al monopolio! La vostra libertà non è che una libertà a metà, la vostra giustizia una giustizia a metà e tutta la vostra sapienza consiste in quei mezzi termini, la cui iniquità è sempre doppia, perché non fanno ragione alle pretese né dell’una né dell’altra parte! No, questa non può essere la scienza che ci avete promessa e che svelandoci i segreti della produzione e del consumo delle ricchezze, deve risolvere senza equivoci le antinomie sociali. La dottrina semi-liberale è il codice del dispotismo e mostra l’impotenza ad avanzare pari alla vergogna di rinculare.
Se la società, impegnata dai suoi precedenti economici, non può giammai rifare la strada, se fino a che non venga l’equazione universale, il monopolio deve essere mantenuto nel suo possesso, nessun cambiamento è possibile nell’assetto dell’imposta; solo vi è una contraddizione, che come ogni altra, deve essere spinta fino all’esaurimento. Abbiate dunque il coraggio delle vostre opinioni; rispetto all’opulenza e niente misericordia per il povero che il Dio del monopolio ha condannato. Meno il salariato ha di che vivere, più bisogna che paghi: qui minus habet, etiam quod habet auferetur ab eo. Ciò è necessario, fatale; ci va di mezzo la salute della società.
Tentiamo tuttavia di ritorcere la progressione dell’imposta e di fare che invece del lavoratore, sia il capitalista quello che dia di più.
Osservo intanto che col modo abituale di esazione questo rovesciamento è impraticabile.
Difatti, se l’imposta colpisce il capitale impiegabile, la totalità di questa imposta è contata tra le spese di produzione e allora, una delle due: o il prodotto, malgrado l’aumento del valore di scambio, sarà comprato dal consumatore e per conseguenza il produttore si sottrarrà all’imposta, o questo medesimo prodotto sarà trovato troppo caro, e in tal caso l’imposta, come ha detto benissimo J.-B. Say, agisce come una decima che fosse posta sulle sementi, inceppa la produzione. È così che un diritto troppo elevato sul trasferimento della proprietà, ferma la circolazione degli immobili e rende i fondi meno produttivi, opponendosi a che essi mutino padrone.
Se, al contrario, l’imposta cade sul prodotto, è una imposta di quotità, che ognuno paga secondo l’importanza del proprio consumo, mentre il capitalista che si voleva colpire, è esonerato.
Per altro, la supposizione di una imposta progressiva che abbia per base sia il prodotto, sia il capitale, è affatto assurda. Come concepire che lo stesso prodotto sia colpito da un diritto del 10% presso un venditore e solo del 5% presso un altro? Come mai fondi già gravati d’ipoteca e che tutti i giorni cambiano padrone, come mai un capitale formato per accomandita o per la sola fortuna di un individuo, saranno distinti nel catasto e tassati non in ragione del loro valore o della loro rendita, ma in ragione della fortuna o dei lucri presunti del proprietario?...
Rimane dunque un’ultima soluzione ed è di tassare il reddito netto, in qualunque modo si formi, di ogni contribuente. Per esempio, un reddito di 1000 fr. pagherebbe 10%; un reddito di 2000 fr., 20%; un reddito di 3000 fr., 30%, ecc. Lasciamo da parte le mille difficoltà e vessazioni del censo e supponiamo facile l’operazione. Ebbene! ecco precisamente il sistema che io taccio d’ipocrisia, di contraddizione e di ingiustizia.
Dico, in primo luogo, che questo sistema è ipocrita, perché, a meno di togliere al ricco l’intera porzione del reddito che eccede la media del prodotto nazionale per famiglia, il che è inammissibile, non riconduce, come si crede, la progressione dell’imposta dal lato della ricchezza; tutt’al più ne muta la ragione proporzionale. Così la progressione attuale dell’imposta per le fortune dà mille franchi di reddito in più, essendo come quella della serie 10, 11, 12, 13, ecc.; e per le fortune da mille franchi di reddito in su come quella della serie 10, 9, 8, 7, 6, ecc., aumentando sempre l’imposta con la miseria e scemando con la ricchezza; se soltanto si alleggerisse l’imposta indiretta che colpisce soprattutto la classe povera, e di altrettanto si aggravasse il reddito della classe ricca, la progressione risulterebbe, è vero, per la prima come la serie 10, 10.25, 10.50, 10.75, 11, 11.25, ecc.; e per la seconda come 10, 9.75, 9.50, 9.25, 9, 8.75, ecc. Ma, questa progressione, sebbene meno rapida in ambedue le forme, procederebbe pur sempre nel medesimo senso, sempre cioè a ritroso della giustizia; e questo fa sì che l’imposta progressiva, capace tutt’al più di alimentare le ciance dei filantropi, non ha valore scientifico. Nulla è da essa mutato nella giurisprudenza fiscale; è sempre, come dice il proverbio: al povero la bisaccia, e tutte le sollecitudini del Governo per i ricchi.
Aggiungo che questo sistema è contraddittorio.
Difatti, donare e tenere non vale, dicono i giureconsulti. Perché dunque, invece di consacrare monopoli il cui solo vantaggio per i titolari sarebbe di perderne col reddito il godimento, non decretare immediatamente la legge agraria? Perché mettere nella costituzione che ciascuno gode liberamente i frutti del proprio lavoro e della propria industria, quando a causa dell’imposta o per la tendenza di essa, questo permesso è accordato fino al limite di un dividendo di 56 centesimi e mezzo al giorno, cosa, è vero, che la legge non avrebbe prevista, ma che risulterebbe necessariamente dalla progressione? Il legislatore confermandoci nei nostri monopoli, ha voluto favorire la produzione, alimentare il fuoco sacro dell’industria; ora che interesse avremo noi di produrre, se, non essendo ancora associati, non produciamo solo per noi? Come, dopo averci dichiarati liberi, si può imporci delle condizioni di vendita, di locazione, di scambio che annullano la nostra libertà?
Un individuo possiede in cartelle dello Stato 20 mila franchi di rendita. L’imposta, mediante la nuova progressione, gli porterà via il 50%. A questa condizione gli converrà ritirare il capitale e mangiarsi questo, invece del frutto. Lo si rimborsi dunque. Ma che! rimborsare? Lo Stato non può essere costretto al rimborso e se consente a riscattare, lo fa al tanto per cento del reddito netto. Dunque, una cartella di rendita di 20.000 fr. non ne varrà più che 10.000 per il possessore, a causa dell’imposta, se egli volesse farsela rimborsare dallo Stato; a meno che non la divida in venti lotti, nel qual caso gli renderebbe il doppio. Nel modo stesso un podere che renda 50.000 fr. di fitto perderà due terzi del suo valore, perché l’imposta assorbe appunto i due terzi del reddito. Ma, se il proprietario divide questo fondo in cento lotti e lo mette all’incanto, siccome il terrore del fisco non terrà più indietro i compratori, potrà ripigliare tutto il capitale. Di modo che, con l’imposta progressiva, gl’immobili non seguono più la legge dell’offerta e della domanda, non sono stimati più sulla base del reddito effettivo, ma secondo la qualità del titolare. La conseguenza sarà che i grandi capitali rinviliranno e la mediocrità sarà in auge; i proprietari realizzeranno in fretta e furia, perché tornerà loro più utile mangiarsi le proprietà che averne redditi insufficienti; i capitalisti ritireranno i loro fondi o non li presteranno che con interessi usurai; ogni grande iniziativa sarà interdetta, ogni fortuna appariscente processata, ogni capitale, che superi il limite del necessario prescritto. La ricchezza calpestata si raccoglierà in sé e non uscirà più che di contrabbando: e il lavoro, come un uomo legato a un cadavere, abbraccerà la miseria in un amplesso che non avrà fine. Gli economisti che concepiscono simili riforme, hanno poi ragione di burlarsi dei riformisti?
Dopo avere dimostrato la contraddizione e la menzogna dell’imposta progressiva, devo ancora provarne l’iniquità? L’imposta progressiva, come l’intendono gli economisti, e al loro seguito certi radicali, è impraticabile, se colpisce i capitali e i prodotti; ho per conseguenza supposto che colpisca i redditi. Ma, chi non vede che questa distinzione, puramente teorica, di capitali, prodotti e redditi svanisce innanzi al fisco e ricompaiono le medesime impossibilità che abbiamo già segnalate, col loro carattere fatale?
Un industriale scopre un procedimento, mediante il quale, economizzando il 20% sulle spese di produzione, si procura 25 mila franchi di entrata. Il fisco gliene chiede quindici. L’imprenditore è quindi obbligato ad elevare i prezzi perché, a cagione dell’imposta, il suo ritrovato invece del 20%, economizza soltanto l’8%. Non è come se il fisco impedisse il buon mercato? Così credendo di colpire il ricco, l’imposta progressiva colpisce sempre il consumatore; ed è impossibile che non lo colpisca, a meno che non si sopprima del tutto la produzione. Che disdetta!
È legge di economia sociale che ogni capitale impiegato deve tornare continuamente all’imprenditore sotto forma d’interessi. Con l’imposta progressiva questa legge è radicalmente violata, poiché, per effetto della progressione, l’interesse del capitale si attenua al punto da fare perdere all’industria in tutto o in parte il detto capitale. Perché fosse altrimenti, bisognerebbe che l’interesse dei capitali crescesse progressivamente, come fa l’imposta, il che è assurdo. Dunque l’imposta progressiva arresta la formazione dei capitali; e c’è di più, si oppone alla loro circolazione. Chiunque, infatti, vorrà acquistare un materiale industriale o un podere, dovrà, sotto il regime della progressione contributiva, considerare non più il valore effettivo di questo materiale, o di questo podere, ma bensì l’imposta che lo graverà; in modo che se il reddito reale è del 4% e, per effetto dell’imposta, o per la condizione del compratore, questo reddito debba ridursi al 3%, l’acquisto non potrà più avere luogo. Dopo avere leso tutti gl’interessi e portata la perturbazione nel mercato, con le sue categorie, l’imposta progressiva ferma lo sviluppo della ricchezza e riduce il valore di scambio al disotto del valore reale; rimpicciolisce, pietrifica la società.
Che tirannia! Che derisione!
L’imposta progressiva dunque, in ogni caso, si risolve in negazione di giustizia, divieto di produrre, confisca. È l’arbitrio senza limiti e senza freno dato al Governo su tutto ciò che col lavoro, col risparmio, col perfezionamento dei mezzi contribuisce a costituire la pubblica ricchezza.
Ma a che serve perderci nelle ipotesi chimeriche quando abbiamo la realtà sotto le mani? Non è per colpa del principio proporzionale che l’imposta colpisce con una disuguaglianza così manifesta le diverse classi della società; la colpa è dei nostri pregiudizi, dei nostri costumi. L’imposta, per quanto ciò è dato alle operazioni degli uomini, procede con equità e precisione. L’economia sociale le comanda di rivolgersi al prodotto, ed essa al prodotto si rivolge. Se il prodotto si nasconde, colpisce il capitale, cosa c’è di più naturale? L’imposta precorrendo la civiltà, suppone l’uguaglianza dei lavoratori e dei capitalisti: espressione inflessibile della necessità, sembra invitarci a diventare uguali con l’educazione e il lavoro e, mediante l’equilibrio delle funzioni nostre e l’associazione dei nostri interessi, metterci d’accordo con lei. L’imposta ricusa di fare distinzioni tra uomo e uomo e noi accusiamo il suo rigore matematico della discordanza delle nostre fortune! Chiediamo alla stessa uguaglianza di piegarsi all’ingiustizia!... Non avevo ragione di dire, nel cominciare, che relativamente all’imposta eravamo più indietro delle nostre istituzioni?
Così, vediamo sempre il legislatore fermarsi, nelle leggi fiscali, innanzi alle conseguenze sovvertitrici dell’imposta progressiva e consacrare la necessità, l’immutabilità dell’imposta proporzionale. L’uguaglianza del benessere non può uscire dalla violazione del capitale, l’antinomia deve essere metodicamente risolta, sotto minaccia, per la società, di ricadere nel caos. L’eterna giustizia non s’adatta a tutte le fantasie degli uomini, come una donna che si può violare, ma non si può sposare senza una solenne rinunzia di se stesso, essa esige da parte nostra, con l’abbandono del nostro egoismo, il riconoscimento di tutti i suoi diritti, che sono i diritti della scienza.
L’imposta il cui scopo ultimo, come abbiamo dimostrato, è la retribuzione degli improduttivi, ma il cui pensiero d’origine fu la restaurazione del lavoratore, l’imposta, sotto il regime del monopolio, si riduce dunque a una pura e semplice protesta, a una specie di atto stragiudiziale, che ha per effetto di aggravare la posizione del salariato e turbare il monopolista nel suo possesso. Quanto all’idea di cambiare l’imposta proporzionale in imposta progressiva, o per dir meglio di ritorcere la progressione dell’imposta, è una svista la cui responsabilità tutt’intera appartiene agli economisti.
Ma, d’ora in poi, pende sul privilegio la minaccia. Con la facoltà di modificare la proporzionalità dell’imposta, il Governo ha in mano un mezzo spiccio e sicuro di spossessare, quando lo voglia, i detentori dei capitali; e fa sgomento il vedere ovunque questa grande istituzione, base della società, oggetto di tante controversie, di tante leggi, di tante moine e di tanti delitti, la proprietà, sospesa a un filo sulla gola spalancata del proletariato.
3. – Conseguenze disastrose e inevitabili dell’imposta (sussistenze, leggi suntuarie, polizia rurale e industriale, brevetti d’invenzione, marchi di fabbrica, ecc.)
Chevalier si proponeva nel luglio 1843, riguardo all’imposta, le seguenti questioni: “1) Si chiede a tutti, o di preferenza a una parte della nazione? – 2) L’imposta somiglia a una capitazione, o è proporzionata esattamente alla fortuna dei contribuenti? – 3) L’agricoltura è colpita più o meno dell’industria manifatturiera e della commerciale? – 4) La proprietà fondiaria è trattata meglio o peggio della proprietà mobiliare? – 5) Colui che produce è più favorito di colui che consuma? – 6) Le nostre leggi d’imposta hanno il carattere di leggi suntuarie?”.
A queste diverse questioni Chevalier dà le risposte che riferisco qui appresso e nelle quali è riassunto quanto di più filosofico ho ritrovato su codesta materia. “a) L’imposta colpisce l’universalità, si indirizza alla massa, prende la nazione in blocco; tuttavia, siccome il povero è in maggior numero, essa lo tassa volentieri, certa di ricavarne di più. – b) Per la natura stessa delle cose, l’imposta piglia qualche volta la forma di capitazione, esempio, l’imposta del sale. – c, d, e) Il fisco s’indirizza al lavoro così come al consumo, perché in Francia tutti lavorano; alla proprietà fondiaria più che alla mobiliare e all’agricoltura più che all’industria. – f) Per la stessa ragione le nostre leggi hanno poco il carattere di leggi suntuarie”.
Come! professore, questo è tutto quel che la scienza vi ha mostrato! L’imposta, voi dite, si rivolge alla massa; essa prende la nazione in blocco. Ahimè, lo sappiamo purtroppo, ma qui è appunto l’iniquità e vi si chiede spiegazione. Il Governo, quando si occupò della sistemazione e del riparto dell’imposta, non ha potuto credere, non ha creduto che tutti i patrimoni siano uguali; e per conseguenza non ha potuto volere, non ha voluto che lo siano le quote di contribuzione. Perché dunque la pratica del Governo procede sempre a rovescio della sua teoria? Date, se vi piace, il vostro parere su questo caso difficile. Spiegatevi, giustificate o condannate il fisco; prendete il partito che volete, purché ne prendiate uno o diciate qualche cosa. Ricordatevi che quelli che vi leggono sono uomini e non potrebbero passare per buone a un dottore che parla ex cathedra, proposizioni come questa: I poveri sono in maggior numero, perciò l’imposta li colpisce volentieri, certa di ricavarne di più. No, signore, non è il numero che regola l’imposta; l’imposta sa benissimo che milioni di poveri aggiunti a milioni di poveri non fanno un elettore. Voi rendete il fisco odioso facendolo assurdo: e io sostengo che esso non è né l’uno né l’altro. Il povero paga più del ricco, perché la Provvidenza, alla quale la miseria è odiosa come il vizio, ha disposto le cose in modo che il miserabile debba essere sempre il più spremuto! L’iniquità dell’imposta è il flagello celeste che ci caccia verso l’uguaglianza. Dio buono! se un professore di economia politica che fu in altri tempi un apostolo potesse comprendere questa rivelazione!
Per la natura delle cose, dice Chevalier, l’imposta prende qualche volta la forma di capitazione. Ebbene, in qual caso prende la forma di capitazione? Sempre o mai? Qual è il principio dell’imposta? Qual è lo scopo? Parlate, rispondete.
E quale insegnamento possiamo trarre da questo rimarco così poco degno d’essere preso in considerazione, che cioè il fisco si rivolge al lavoro tanto quanto al consumo, alla proprietà fondiaria più che alla mobiliare, all’agricoltura più che all’industria?
Che importano alla scienza queste interminabili litanie di puri fatti se con l’analisi non riuscite a fare uscire un’idea?
Tutti i prelevamenti che l’imposta, la rendita, l’interesse dei capitali, ecc., operano sul consumo, entrano nel conto delle spese generali e fanno parte del prezzo di vendita: di modo che è sempre, o quasi, il consumatore che paga l’imposta. E siccome le derrate che più si consumano sono anche quelle che rendono di più, accade necessariamente che i più poveri sono i più aggravati; questa conseguenza è, come la prima, inevitabile. Cosa c’importa dunque delle vostre distinzioni fiscali?
Qualunque sia la classificazione della materia imponibile, essendo impossibile tassare il capitale al di là del reddito, il capitalista sarà sempre favorito, mentre il proletario soffrirà l’iniquità, l’oppressione. Non è il riparto dell’imposta che sia cattivo, è il riparto dei beni. Chevalier non può ignorarlo; perché dunque egli, la cui parola avrebbe più autorità di quella d’uno scrittore sospetto di non amare l’ordine attuale di cose, non lo dice?
Dal 1806 al 1811 (questa osservazione, al pari delle seguenti, è di Chevalier), il consumo annuo del vino a Parigi era di 160 litri a persona; ora è solo di 95. Sopprimete l’imposta, che è da 30 a 35 centesimi al litro nella vendita al minuto e il consumo del vino risalirà ben tosto da 95 litri a 200 e l’industria vinicola, che è ingolfata dei suoi prodotti, avrà uno spaccio. – Grazie ai diritti messi sull’importazione del bestiame, la carne è diminuita per il popolo in proporzione analoga a quella del vino; e gli economisti hanno riconosciuto con spavento che l’operaio francese fa meno lavoro dell’operaio inglese, perché è meno nutrito.
Per simpatia verso le classi lavoratrici Chevalier vorrebbe che le nostre manifatture sentissero un po’ lo stimolo della concorrenza straniera. Una riduzione dei dazi sulle lane di un franco per pantalone lascerebbe nella saccoccia dei consumatori una trentina di milioni, la metà della somma necessaria per il pagamento dell’imposta sul sale. Venti centesimi meno sul prezzo di una camicia produrrebbero un’economia probabilmente uguale a quella che occorre per tenere sotto le armi un esercito di ventimila uomini.
Da quindici anni il consumo dello zucchero è salito da 53 milioni di chilogrammi a 118; il che dà attualmente una media di 3 chilogrammi e mezzo a testa. Questo progresso dimostra che lo zucchero deve essere ormai messo col pane, il vino, la carne, la lana, il cotone, la legna e il carbone fossile tra le cose di prima necessità. Lo zucchero è tutta la farmacia del povero; sarebbe forse troppo elevare da 3 chili e mezzo a sette il consumo individuale di questo prodotto? Sopprimete l’imposta che è di franchi 49,50 per ogni cento chilogrammi e il consumo raddoppierà.
L’imposta sui generi di sussistenza molesta e tortura in mille modi il povero proletario: il costo del sale nuoce alla produzione del bestiame; i dazi sulla carne assottigliano ancora di più la razione dell’operaio. Per soddisfare nello stesso tempo all’imposta e al bisogno di bevande fermentate che prova la classe lavoratrice, gli si forniscono miscele sconosciute al chimico del pari che al birraio e al vignaiolo. Che bisogno c’è più delle prescrizioni dietetiche della Chiesa? In grazia dell’imposta, tutto l’anno è quaresima per il lavoratore; e il suo desinare di Pasqua non vale la colazione che Monsignore fa il Venerdì santo. Urge abolire l’imposta di consumo che estenua il popolo e lo affama; è la conclusione concorde degli economisti e dei radicali.
Ma, se il proletario non digiuna per mantenere Cesare, che mangerà Cesare? E se il povero non dà un ritaglio del suo mantello per coprire la nudità di Cesare, di che si vestirà Cesare?
Ecco la questione, questione inevitabile, che si tratta di risolvere.
Chiestosi Chevalier, al n. 6, se le leggi d’imposta abbiano il carattere di leggi suntuarie, risponde: no; le leggi non hanno il carattere di leggi suntuarie. Chevalier avrebbe potuto aggiungere sarebbe stata cosa nuova e vera, che questo è precisamente quanto c’è di nuovo e di meglio nelle leggi d’imposta. Ma Chevalier, che conserva sempre, comunque, un vecchio lievito di radicalismo, ha preferito declamare contro il lusso, cosa che non poteva comprometterlo in faccia a nessun partito. “Se a Parigi – egli esclama – si traesse dalle vetture private, dai cavalli da sella o da carrozza, dai domestici e dai cani l’imposta che si percepisce sulla carne, si farebbe un’opera di pura equità”.
Chevalier siede forse sulla cattedra del Collegio di Francia per commentare la politica di Masaniello? Ho veduto a Basilea cani con la placca del fisco al collo, segno della loro capitazione, e ho creduto che in un paese ove l’imposta è minima, la tassa dei cani fosse più una lezione di morale e una precauzione igienica, che un elemento di reddito. Nel 1844 l’imposta sui cani ha fruttato in tutta la provincia del Brabante (667 mila abitanti), a franchi 2,115 a testa, 63 mila franchi. Da ciò si può congetturare che la stessa imposta, producendo per tutta la Francia 3 milioni recherebbe un alleviamento di otto centesimi annuali a testa nell’imposta di quotità. Certo sono ben lontano dal pretendere che tre milioni siano da sprezzare, specialmente con un ministero prodigo e deploro che la Camera abbia respinto la tassa sui cani che sarebbe pur sempre servita a dotare una mezza dozzina di principesse. Ma ricordo che una imposta di questa fatta ha per base piuttosto un motivo d’ordine che un interesse fiscale; che per conseguenza bisogna considerarla come priva d’importanza nei riguardi fiscali e deve essere abolita come vessatoria, quando il grosso della popolazione, fattosi di costumi più umani, prenda gioia della compagnia delle bestie. Otto centesimi all’anno, che sollievo alla miseria!
Ma Chevalier ha in serbo altri cespiti: cavalli, vetture, domestici, oggetti di lusso, il lusso insomma! Quante cose con questa sola parola: il lusso!
Tagliamo corto a questa fantasmagoria con un semplice calcolo; i commenti verranno dopo. Nel 1842 il complesso dei dazi sull’importazione ascese a 129 milioni. Su questa somma di 129 milioni, 6l articoli, quelli di consumo usuale, figurano per 124 milioni e 177, quelli di gran lusso, per cinquanta mila franchi. Fra i primi lo zucchero ha dato 43 milioni, il caffè 12 milioni, il cotone 11 milioni, le lane 10 milioni, gli oli 8 milioni, il carbone fossile 4 milioni, il lino e la canapa 3 milioni; totale: 91 milioni per sette articoli. La cifra del reddito ribassa a misura che la merce è di uso più ristretto, di più scarso consumo, di più raffinato lusso. Eppure gli articoli di lusso sono i più tassati. Quando dunque per ottenere uno sgravio di qualche rilievo sugli oggetti di prima necessità, si centuplicassero i dazi su quelli di lusso, tutto ciò che si guadagnerebbe sarebbe di sopprimere un ramo di commercio con una tassa proibitiva. Ora, gli economisti sono tutti per l’abolizione delle dogane; è forse per rimpiazzarle con dazi di consumo? Generalizziamo l’esempio: il sale rende al fisco 57 milioni, il tabacco 84 milioni. Mi si dimostri con cifre alla mano, con quali imposte sui generi di lusso, dopo aver soppressa l’imposta sul sale e sul tabacco, si colmerebbe il vuoto.
Volete colpire i generi di lusso: prendete la civiltà a rovescio. In quanto a me, sostengo che i generi di lusso devono essere esenti da dazio. Quali sono nel linguaggio economico i prodotti di lusso? Quelli la cui proporzione nella ricchezza totale è la più debole, quelli che vengono ultimi nella serie industriale e la cui creazione suppone la preesistenza di tutti gli altri. Da questo punto di vista tutti i prodotti del lavoro umano sono stati e via via hanno cessato di essere oggetti di lusso, perché, per lusso noi non intendiamo altro se non un rapporto di posteriorità, sia cronologico, sia commerciale, negli elementi della ricchezza. Lusso, insomma, è sinonimo di progresso; è, a ogni istante della vita sociale, l’espressione del maximum di benessere realizzato col lavoro e al quale è nel diritto, come nel destino comune, di pervenire. Ora, come l’imposta rispetta per un certo tempo la casa costruita di fresco e il campo dissodato di recente, così deve ammettere in franchigia i prodotti nuovi e gli oggetti preziosi, questi perché la loro rarità deve essere combattuta senza tregua, quelli perché ogni invenzione merita incoraggiamento. E che dunque? vorreste stabilire, sotto pretesto del lusso, nuove categorie di cittadini? O prendete sul serio la città di Salento e la prosopopea di Fabrizio?
Giacché il tema lo esige, parliamo pure di morale. Non negherete certo questa verità tanto ripetuta dai Seneca di tutti i secoli che il lusso corrompe e rammollisce i costumi; il che significa che rende umane, eleva e nobilita le abitudini; che la prima e più efficace educazione per il popolo, lo stimolo dell’ideale, presso la maggior parte degli uomini è il lusso. Le Grazie erano nude, secondo gli antichi; dove s’è mai visto che fossero indigenti? Il gusto del lusso ai giorni nostri, in mancanza di princìpi religiosi, mantiene il movimento sociale e rivela alle classi inferiori la loro dignità. L’Accademia delle Scienze morali e politiche l’ha compreso assai bene, quando ha preso il lusso per tema di uno dei suoi discorsi e io applaudo con tutto il cuore alla sua sapienza. Il lusso difatti è già più che un diritto nella nostra società, è un bisogno ed è da compiangere chi non si procura mai un po’ di lusso. E quando gli sforzi universali tendono a popolarizzare sempre più le cose di lusso, voi volete restringere i godimenti del popolo agli oggetti che vi piace di qualificare come oggetti di prima necessità! Quando per la comunità del lusso i gradi si ravvicinano e si confondono, voi scavate più profondamente il fossato e rialzate i vostri scalini. L’operaio suda e fa privazioni e si tortura per comprare un vezzo alla sua fidanzata, un monile alla figlia, un orologio al figlio e voi lo private di questa felicità, a meno che non paghi l’imposta, cioè l’ammenda!
Ma avete riflettuto che tassare gli oggetti di lusso significa interdire le arti di lusso? Trovate che gli operai in seta, il cui salario giornaliero non arriva in media a due franchi, le modiste che pigliano cinquanta centesimi, i gioiellieri, gli orefici, gli orologiai con le interminabili giornate senz’affari, i domestici con la mercede di quaranta franchi, guadagnino troppo?
Siete sicuri che l’imposta del lusso non sia pagata dall’operaio del lusso, come l’imposta delle bevande è pagata dal consumatore di bevande? Sapete voi se un più forte rincaro degli oggetti di lusso non sarebbe un ostacolo al più buon mercato delle cose necessarie e, se credendo di favorire la classe più numerosa non peggiorate la condizione generale? bella speculazione in verità!
Si restituiranno 20 franchi all’operaio sul vino e lo zucchero e se ne porteranno via 40 sugli svaghi. Guadagnerà 75 centesimi sul cuoio delle sue scarpe e per condurre la famiglia quattro volte l’anno in campagna, pagherà 6 franchi di più per la vettura! Un piccolo borghese spende 600 franchi per la donna di casa, la lavandaia, la provveditrice di biancheria e per le compere; se per un’economia meglio intesa e che non scomoda nessuno, prende una domestica, il fisco nell’interesse della sussistenza, punirà questo provvedimento di risparmio! Come è assurda, guardata da vicino, la filantropia degli economisti!
Tuttavia voglio accontentare la vostra fantasia e giacché volete assolutamente delle leggi suntuarie, pretendo darvene la ricetta. E v’assicuro che nel mio sistema la riscossione sarà facile; non controllori, ripartitori, degustatori, viaggiatori, verificatori, ricevitori; non sorveglianza né spese d’ufficio; non la minima vessazione o la più leggera indiscrezione, non una coazione di sorta. Sia decretato per legge che nessuno in avvenire potrà cumulare due stipendi, e che le più grosse paghe non potranno eccedere a Parigi i seimila franchi e nei dipartimenti i quattro mila. Come! abbassate gli occhi!... Confessate dunque che le vostre leggi suntuarie sono una ipocrisia. Per dare sollievo al popolo alcuni applicano all’imposta la regola commerciale. Se, per esempio, dicono, il prezzo del sale fosse ridotto a metà, se l’affrancatura delle lettere fosse diminuita nella stessa proporzione, il consumo crescerebbe senza dubbio, l’entrata sarebbe più che duplicata, il fisco ci guadagnerebbe e il consumatore anche.
Suppongo che i fatti confermino la previsione e dico: se il porto delle lettere fosse diminuito di tre quarti e se il sale si desse per nulla, il fisco ci guadagnerebbe qualche cosa? No, di certo. Qual è dunque il significato di quella che si chiama la riforma postale? È che per ogni specie di prodotto esiste un livello naturale al di sopra del quale il guadagno diventa usuraio e tende a fare decrescere il consumo, ma al disotto del quale c’è perdita per il produttore. Questo somiglia esattamente alla determinazione del valore che gli economisti rigettano e a proposito della quale dicevamo: c’è una forza segreta che fissa i limiti estremi tra cui oscilla il valore e un termine medio che esprime il giusto valore.
Nessuno vorrà che il servizio delle poste si faccia in perdita; l’opinione generale è che questo servizio sia fatto al prezzo di costo. È una cosa tanto semplice che si rimane stupiti come vi sia stato bisogno di una inchiesta laboriosa sui risultati dell’alleviamento della tassa postale in Inghilterra; accumulare cifre innumerevoli e calcoli di probabilità senza fine, torturarsi il cervello per sapere se un abbassamento analogo in Francia darebbe per risultato un guadagno o un ammanco e finire poi per non potersi mettere d’accordo su nulla. Come mai non s’è trovato un uomo di buon senso per dire alla Camera non occorre né il rapporto di un ambasciatore né l’esempio dell’Inghilterra, bisogna ridurre gradatamente la tariffa postale fino al punto in cui l’entrata pareggi la spesa! Dove se n’è andato il vecchio talento francese? [Grazie al cielo, il ministro ha troncato la questione e gliene faccio i più sinceri complimenti. Secondo la tariffa proposta la tassa delle lettere sarebbe ridotta a 10 cent. per le distanze da 1 a 20 km.; – 20 cent., da 20 a 40 km.; – 30 cent., da 40 a 120; – 40 cent., da 120 ai 360; – 50 per le distanze superiori].
Ma, si dirà, se l’imposta desse a prezzo di costo il sale, il tabacco, il trasporto delle lettere, lo zucchero, i vini, la carne, ecc., il consumo aumenterebbe senza dubbio e la riscossione sarebbe enorme. E allora con che cosa lo Stato coprirebbe le spese? La somma complessiva delle contribuzioni indirette è di circa 600 milioni; su che volete voi che lo Stato percepisca quest’imposta?
Se il fisco non guadagna nulla sulle poste, bisognerà aumentare il sale, se si scema il prezzo del sale, bisognerà aumentare la tassa delle bevande; la litania non finirebbe mai. La vendita, a prezzo di costo, dei prodotti, sia dello Stato, sia dell’industria privata è impossibile.
Dunque, replicherò a mia volta, non è possibile che lo Stato dia alcun sollievo alle classi infelici, come non è possibile la legge suntuaria, come non è possibile l’imposta progressiva, e tutte le vostre divagazioni sull’imposta sono sproloqui da avvocato. Voi non avete neanche la speranza che l’accrescimento della popolazione, dividendo i carichi, alleggerisca il fardello per ciascuno, perché con la popolazione cresce la miseria e con la miseria, il da fare e gli impiegati dello Stato aumentano.
Le diverse leggi fiscali votate dalla Camera dei Deputati durante la sessione 1845-1846 sono altrettanti esempi dell’assoluta incapacità del potere, qualunque esso sia e in qualsiasi modo vi si metta, a procurare il benessere del popolo. Per ciò solo che esso è il Governo, cioè il rappresentante del diritto divino e della proprietà, l’arcano della forza è necessariamente sterile, e tutti i suoi atti sono destinati a un fatale disinganno.
Ho citato la riforma della tariffa postale che riduce di un terzo circa il prezzo delle lettere. Certamente, se non si tratta che dei motivi, io non ho nulla a rimproverare al Governo che ha fatto passare quest’utile riduzione; molto meno ancora cercherò di attenuarne il merito con meschine critiche sui particolari, pasto vile della stampa quotidiana. Una imposta assai onerosa è ridotta del 30%; è ripartita più equamente e regolarmente, vedo il fatto e applaudo al ministro che lo ha compiuto. La questione non è là.
Dapprima il vantaggio che il Governo ci procura sulla tassa delle lettere lascia a codesta imposta tutto il suo carattere di proporzionalità, cioè d’ingiustizia, il che non ha quasi più bisogno d’essere dimostrato. L’ineguaglianza dei carichi, in ciò che riflette la tassa postale sussiste come prima, essendo il beneficio della riduzione goduto non dai più poveri, ma dai più ricchi. La ditta commerciale che prima pagava 3.000 franchi di tassa postale, ne pagherà solo 2.000; sono mille franchi di profitto netto che esso aggiungerà ai 50.000 che trae dal suo commercio e che dovrà alla munificenza del fisco. Da parte sua il contadino, l’operaio che scrive due volte l’anno al figlio soldato e riceverà un pari numero di risposte, avrà risparmiato 50 centesimi. Non è vero che la riforma postale è in senso inverso all’equo riparto delle imposte? Che se, secondo la proposta di Chevalier, il Governo avesse voluto colpire il ricco e sollevare il povero, l’imposta delle lettere doveva essere l’ultima a ridurre? Non pare che il fisco, infedele allo spirito della sua istituzione, abbia aspettato il pretesto di uno sgravio minimo sull’indigenza per aver l’occasione di fare un regalo alle grosse borse?
Ecco ciò che i censori del progetto di legge avrebbero dovuto dire e invece nessuno di essi lo ha osservato. Vero è che allora la critica, invece di indirizzarsi al ministro, andava a colpire il potere pubblico nella sua essenza e col potere la proprietà; il che importava agli oppositori. La verità oggi ha contro di sé tutte le opinioni.
E poteva forse essere altrimenti? No, perché se si conservava l’antica tassa, si recava nocumento a tutti senza favorire nessuno e se la si scemava non si poteva dividere la tariffa per categorie di cittadini senza violare l’articolo 1° della Carta costituzionale che dice: “Tutti i francesi sono uguali dinanzi alla legge”, cioè dinanzi all’imposta. Ora, la tassa postale è necessariamente personale, dunque questa imposta è una capitazione; dunque ciò che è equità sotto questo rapporto è iniquità da un altro punto di vista e l’equilibrio dei carichi è impossibile.
Alla stessa epoca un’altra riforma fu operata a cura del Governo, quella della tariffa del bestiame. Prima il dazio sul bestiame, tanto per l’importazione dall’estero, quanto all’entrata nelle città, si riscuoteva per testa; da ora innanzi la si percepirà a peso. Questa utile riforma, reclamata da lungo tempo, è dovuta in parte all’influenza degli economisti, che in questa occasione, come in molte altre, che non starò a ricordare, hanno mostrato lo zelo più onorevole e si sono lasciati dietro di gran lunga le oziose declamazioni del socialismo. Ma qui ancora, il bene che risulta dalla legge in favore delle classi povere è illusorio. Si è resa uguale e regolare la percezione sulle bestie, non la si è ripartita equamente fra gli uomini. Il ricco che consuma 600 chilogrammi di carne all’anno potrà sentire vantaggio dalle nuove condizioni fatte alla macelleria, l’immensa maggioranza del popolo, che non mangia mai carne, non se ne accorgerà. E io rinnovo la domanda. Potevano il Governo e la Camera fare diversamente? No, ancora una volta; perché voi non potete dire al beccaio: tu venderai la carne al ricco per due franchi al chilogrammo e al povero per dieci soldi. Otterreste da lui più facilmente il contrario.
Lo stesso per il sale. Il Governo ha scemato quattro quinti sul sale adoperato nell’agricoltura e sotto condizione di snaturamento. Qualche giornalista, non avendo nulla di meglio da obiettare, ha fatto su ciò una lamentazione, nella quale compiange la sorte dei poveri contadini che sono dalla legge trattati peggio del loro bestiame. E io domando per la terza volta: poteva il Governo fare altrimenti? Una delle due: o la diminuzione sarà assoluta e allora bisognerà rimpiazzare l’imposta del sale con un’altra; ora, io sfido tutto il giornalismo francese a trovare una imposta che regga a un esame di due minuti; – o la riduzione sarà parziale, sia che cadendo sulla totalità delle materie, essa riservi una parte della tassa, sia che abolisca la totalità della tassa, ma solo su una parte delle materie. Nel primo caso la riduzione è insufficiente per l’agricoltura e per la classe povera; nel secondo la capitazione sussiste con la sua enorme sproporzione. In ogni caso, è il povero, sempre il povero colpito, poiché, malgrado tutte le teorie, l’imposta non può mai essere determinata se non in ragione del capitale posseduto o consumato e se il fisco volesse procedere diversamente, fermerebbe il progresso, interdirebbe la ricchezza, ucciderebbe il capitale.
I democratici che ci rimproverano di sacrificare l’interesse rivoluzionario (cos’è l’interesse rivoluzionario?) all’interesse socialista, dovrebbero dirci come mai senza rendere lo Stato unico proprietario e senza decretare la comunità dei beni e dei guadagni, intendano con un qualunque sistema d’imposta sollevare il popolo e restituire al lavoro quanto dal capitale gli è tolto. Ho un bel martellarmi il capo, ma in tutte le questioni vedo il potere pubblico nella più falsa situazione e l’opinione dei giornalisti divagare in un’assurdità senza confini.
Nel 1842 [François] Arago era partigiano della gestione delle ferrovie da parte delle società e ditte private e la maggioranza della Francia la pensava come lui.
Nel 1846, è venuto a dirci di avere mutato parere e, a parte gli speculatori in costruzioni ferroviarie, si può dire che la maggioranza dei cittadini ha cambiato come Arago. Cosa credere e cosa fare in questo va e vieni dei dotti e della Francia?
L’esecuzione affidata allo Stato pareva dovesse garantire meglio gli interessi del paese; ma è lunga, dispendiosa, non intelligente. Venticinque anni di errori, di sviste, d’imprevidenza, i milioni sprecati a centinaia nella grande opera di canalizzazione del paese l’hanno provato ai più increduli. Si sono visti anche degli ingegneri, dei membri dell’amministrazione proclamare altamente l’incapacità dello Stato in materia di lavori pubblici, al pari dell’industria.
L’esecuzione eseguita da compagnie è irreprensibile, è vero, dal punto di vista dell’interesse degli azionisti; ma le società ferroviarie portano con loro il sacrificio dell’interesse generale, aprono la porta all’aggiotaggio e al monopolio organizzato che sfrutta il pubblico a piacere suo.
L’ideale sarebbe un sistema che riunisse i vantaggi dei due modi senza presentare nessuno dei loro inconvenienti. Dov’è il mezzo per conciliare questi caratteri contraddittori? Il mezzo per ispirare lo zelo, l’armonia, la penetrazione in codesti impiegati inamovibili, che non hanno nulla da guadagnare né da perdere? Il mezzo di fare che gli interessi del pubblico stiano a una società industriale tanto a cuore quanto i suoi, di fare che questi interessi siano veramente suoi senza per questo che essa cessi d’essere distinta dallo Stato e di avere per conseguenza interessi propri? Chi è che nel mondo ufficiale concepisce la necessità e per conseguenza la possibilità di una tale conciliazione? E, a più forte ragione, chi è che ne possiede il segreto?
In tale emergenza il Governo ha fatto, come sempre, un po’ di eclettismo: ha preso per sé una parte dell’esecuzione, lasciando l’altra alle società, cioè, invece di conciliare i contrari, li ha messi in conflitto. E i giornali che in nulla e per nulla hanno più o meno talento del Governo, i giornali, dico, dividendosi in tre frazioni, hanno preso a sostenere chi la transazione ministeriale, chi l’esclusione dello Stato, chi l’esclusione delle società. In modo che oggi né il pubblico né il signor Arago sanno più di ieri, quel che vogliono malgrado il loro voltafaccia.
Che gregge è la nazione francese nel secolo decimonono con i suoi tre poteri, la sua stampa, i suoi corpi scientifici, la sua letteratura, il suo insegnamento! Centomila uomini nel nostro paese hanno gli occhi sempre aperti su tutto ciò che interessa il progresso nazionale e l’onore della patria. Ora, proponete a questi centomila uomini la più semplice questione d’ordine pubblico e potete essere sicuri che tutti andranno a dar di naso nella medesima sciocchezza.
È meglio che la promozione dei funzionari si faccia per merito o per anzianità?
Certo non c’è persona che non auguri di vedere questa duplice maniera di valutazione delle attitudini fusa in una sola. Che bella società quella nella quale i diritti dell’ingegno fossero sempre d’accordo con quelli dell’età! Ma, si dice, una perfezione simile è utopica, essendo contraddittoria nel suo enunciato. E invece di vedere che appunto la contraddizione rende possibile la cosa, si fanno dispute sul valore rispettivo dei due opposti sistemi, che, conducendo ciascuno all’assurdo, danno adito ugualmente ad abusi intollerabili,
Chi sarà giudice del merito? Uno dice: il Governo. Ora, il Governo non trova meriti in altri che nelle sue creature. Dunque non promozioni a scelta; via questo sistema immorale che distrugge l’indipendenza e la dignità dell’impiegato.
Ma, dice l’altro, l’anzianità è rispettabilissima, non c’è che dire. È un guaio che abbia l’inconveniente di immobilizzare ciò che è essenzialmente volontario e libero, il lavoro e il pensiero; di creare ostacoli al potere pubblico persino tra i suoi agenti e di concedere all’azzardo e spesso all’impotenza il premio del genio e dell’audacia.
Finalmente si transige: si accorda al Governo la facoltà di nominare arbitrariamente a un certo numero d’impieghi uomini supposti di merito e stimati non bisognosi di esperienza, mentre il rimanente, reputato apparentemente incapace, avanza come prevedono i quadri. E la stampa, questa vecchia rozza di tutte le mediocrità presuntuose, che il più spesso vive con le composizioni gratuite di giovanotti privi di talento e senza studi, la stampa ricomincia i suoi attacchi al Governo, accusandolo, non senza ragione, del resto, ora di favoritismo, ora di pedanteria.
Chi può lusingarsi di fare cosa che vada bene alla stampa? Dopo aver declamato e gesticolato contro l’enormità del bilancio, eccola reclamare aumenti di stipendi per un esercito di funzionari, che in verità, non ha di che vivere. Ora è l’insegnamento alto e basso che fa udire i suoi lamenti per mezzo di essa; ora il clero delle campagne, così mediocremente retribuito, che è stato costretto a conservare i proventi casuali, fonte di scandali e di abusi. Poi è tutto il popolo degli impiegati che non ha modo di alloggiare, di vestirsi, di cibarsi, di riscaldarsi; è un milione di uomini con le loro famiglie, quasi l’ottava parte della popolazione, la cui miseria fa vergogna alla Francia e per i quali bisognerebbe d’un tratto aumentare di 500 milioni il bilancio. Notate che in questo immenso personale non c’è un uomo che sia di troppo; anzi se la popolazione cresce il numero crescerà in proporzione. Siete in grado di spremere dalla nazione due miliardi d’imposte? Potete prendere sopra una media di 920 franchi di reddito per quattro persone, 236 franchi, più del quarto, al fine di pagare, con le altre spese dello Stato, gli stipendi della classe improduttiva? E se non potete farlo, se non potete né saldare, né ridurre le vostre spese cosa cercate? Di che vi lamentate? Lo sappia una volta per sempre il popolo: tutte le speranze di riduzione e di equità nell’imposta, nelle quali lo cullano a vicenda le arringhe del potere e le diatribe degli uomini di partito sono tante mistificazioni; né l’imposta si può ridurre né il riparto può essere equo sotto il regime del monopolio. Al contrario, più la condizione del cittadino s’abbassa, più s’aggrava sulle sue spalle la contribuzione; ciò è fatale, irresistibile, malgrado gli intenti manifesti del legislatore e gli sforzi reiterati del fisco. Chiunque non possa diventare o serbarsi opulento, chiunque sia entrato nella caverna della sventura, deve rassegnarsi a pagare in proporzione della propria miseria: Lasciate ogni speranza voi ch’entrate [Dante].
L’imposta dunque, la polizia – d’ora innanzi non separeremo più le due idee – è una fonte novella di pauperismo; l’imposta aggrava gli effetti sovversivi delle antinomie precedenti, la divisione del lavoro, le macchine, la concorrenza, il monopolio. Colpisce il lavoratore nella libertà e nella coscienza, nel corpo e nell’anima, col parassitismo, le vessazioni, le frodi che suggerisce e la pena che viene dopo.
Sotto Luigi XIV il solo contrabbando del sale produceva 3700 sequestri domiciliari, 2000 arresti d’uomini, 1800 di donne, 6000 di fanciulli, 1100 sequestri di cavalli, 50 confische di vetture, 300 condanne alla galera. E questo era, osserva lo storico, il prodotto di una sola imposta, dell’imposta del sale. Quale era dunque il numero totale degli infelici imprigionati, torturati, espropriati a causa d’imposte?
In Inghilterra su quattro famiglie ce n’è una improduttiva ed è quella che vive nell’abbondanza. Che vantaggi per la classe operaia se questa lebbra del parassitismo fosse tolta! Indubbiamente, in teoria avete ragione, in pratica la soppressione del parassitismo sarebbe una calamità. Se un quarto della popolazione inglese è improduttivo, c’è un altro quarto di codesta popolazione che lavora per lui: cosa farebbe questa frazione di lavoratori se di un tratto perdesse il collocamento dei propri prodotti? Supposizione assurda, dite voi. Sì, supposizione assurda, ma realissima e che dovete ammettere appunto perché assurda. In Francia un esercito permanente di 500 mila uomini, 40 mila preti, 20 mila medici, 80 mila legulei, 26 mila doganieri e non so quante altre centinaia di migliaia di gente improduttiva di ogni specie formano un immenso sbocco per la nostra agricoltura e le nostre fabbriche. Che questo sbocco si chiuda di un tratto ed ecco arrestarsi l’industria, il commercio deporre il suo bilancio e l’agricoltura soffocare sotto le proprie ricchezze.
Ma, come concepire che una nazione si trovi impacciata nel suo cammino per essersi sbarazzata delle bocche inutili? – Chiedete piuttosto come mai una macchina il cui consumo fu previsto di 300 chilogrammi di carbone all’ora, perde la sua forza se gliene danno 150. Ma non c’è modo di fare diventare produttori questi esseri improduttivi, giacché non è possibile liberarsene? – E come farete a stare senza polizia, senza il monopolio, la concorrenza e tutte le altre contraddizioni di cui è composto il vostro ordine di cose? Ascoltate. Nel 1844, in occasione dei torbidi di Rive-de-Gier, il signor Anselme Petetin pubblicò nella “Revue Independante” due articoli pieni di ragione e di franchezza sull’anarchia delle miniere carbonifere nel bacino della Loira. Petetin insisteva sulla necessità di riunire le miniere e centralizzare l’esercizio. I fatti ch’egli recò a notizia del pubblico non erano ignorati dal Governo. Ebbene, il potere pubblico si è occupato della riunione delle miniere e dell’organizzazione di questa industria? Niente affatto, il Governo ha seguito il canone della libera concorrenza: ha lasciato fare e visto passare.
Poi gli esercenti delle miniere si sono associati non senza ispirare una certa inquietudine ai consumatori, i quali in codesta associazione hanno veduto il segreto progetto di far rialzare il prezzo del combustibile. Il Governo ha ricevuto numerose doglianze in proposito, interverrà per restaurare la concorrenza e impedire il monopolio? Non lo può: il diritto di coalizione è, nella legge, identico al diritto di associazione; il monopolio è la base della nostra società, come la concorrenza è la conquista, e purché non ci siano sommosse, il potere lascerà fare e starà a guardare. Che altra condotta potrebbe tenere? Può interdire una società di commercio legalmente costituita? Può costringere i vicini a distruggersi tra loro? Può proibire che riducano le spese? Può stabilire un maximum? Se il potere facesse una sola di queste cose, rovescerebbe l’ordine stabilito. Il Governo dunque non può prendere iniziative di sorta; esso è istituito per difendere e proteggere nello stesso tempo il monopolio e la concorrenza, sotto la riserva di patenti, licenze, contribuzioni fondiarie e altre servitù messe da lui sulla proprietà. A parte queste riserve, il Governo non ha nessuna specie di diritto da far valere in nome della società. Il diritto sociale non è definito; per altro esso sarebbe la negazione del monopolio e della concorrenza. Come mai il Governo potrebbe prendere le difese di ciò che la legge non ha previsto né definito, di ciò che è contrario ai diritti riconosciuti dal legislatore?
Quando il minatore, che noi dobbiamo considerare nel caso di Rive-de-Gier come il vero rappresentante della società di fronte agli esercenti, tentò di resistere al rialzo dei monopolizzatori, difendendo il proprio salario, e d’opporre coalizione a coalizione, il Governo fece fucilare il minatore. Ed ecco gli schiamazzatori politici accusare l’autorità, chiamandola parziale, feroce, veduta al monopolio, ecc. Quanto a me dichiaro che questo modo di giudicare gli atti dell’autorità mi sembra poco filosofico e lo respingo con tutte le mie forze. Può darsi che fosse possibile ammazzare meno gente, può darsi che ne siano rimaste più del necessario sul terreno; il fatto notevole qui non è il numero dei morti e dei feriti, è la repressione degli operai. Quelli che hanno biasimato l’autorità avrebbero fatto lo stesso, salvo forse l’impazienza delle loro baionette e la giustezza del tiro; avrebbero insomma represso e non avrebbero potuto fare altrimenti. E il motivo, che invano si vorrebbe disconoscere, è che la concorrenza è cosa legale; la società in accomandita è cosa legale; l’offerta e la domanda sono cose legali e tutte le conseguenze che risultano direttamente dalla concorrenza, dall’accomandita e dal libero commercio, sono cose legali, mentre lo sciopero degli operai è illegale. E non è solamente il Codice penale che lo dice, è il sistema economico, è la necessità dell’ordine stabilito. Fino a che il lavoro non sarà sovrano, deve essere schiavo: la società non sussiste se non a questa condizione. Che ogni operaio individualmente abbia la libera disposizione della propria persona e delle proprie braccia, si può tollerare; ma che gli operai si mettano, con le coalizioni, a fare violenza al monopolio, è quanto la società non può permettere. [La nuova legge sui libretti (di lavoro) ha ristretto dentro limiti più angusti l’indipendenza degli operai. La stampa democratica ha fatto divampare di nuovo, in questa circostanza, la sua indignazione contro gli uomini del potere, come se questi avessero fatto altro che applicare i princìpi di autorità e proprietà che sono quelli della democrazia. Ciò che le Camere hanno fatto riguardo i libretti era inevitabile e bisognava aspettarselo. È così impossibile a una società fondata sul principio di proprietà non andare incontro alla distinzione delle caste, come a una democrazia non arrivare al dispotismo, a una religione non essere irragionevole, al fanatismo non mostrarsi intollerante. È la legge di contraddizione; quanto tempo ci vorrà per capirlo?]. Schiacciate il monopolio e avrete abolita la concorrenza, disorganizzata la fabbrica, seminata la dissoluzione. L’autorità, fucilando i minatori, s’è trovata come Bruto posto tra l’amore di padre e i doveri di console: bisognava o perdere i figli o salvare la Repubblica. L’alternativa era orribile, è vero; ma tale è nello spirito e nella lettera il patto sociale, questo è il senso della Casta, questo è l’ordine della Provvidenza.
Dunque la polizia istituita per la difesa del proletariato è tutta contro il proletariato. Il proletariato è cacciato dalle foreste, dai fiumi, dalle montagne; gli sono contese persino le scorciatoie; presto non conoscerà altra via che quella della prigione.
I progressi dell’agricoltura hanno fatto sentire generalmente il vantaggio dei prati artificiali e la necessità di abolire il vago pascolo. Da per tutto si dissoda, si affitta, si assiepano le terre comunali: nuovi progressi, nuova ricchezza. Ma il povero giornaliero che non aveva altro patrimonio che il comunale, e l’estate nutriva una vacca e pochi montoni facendoli pascolare lungo le vie, traverso i cespugli e nei campi sfruttati, perderà la sua sola e unica provvidenza. Il proprietario fondiario, il compratore o l’affittuario dei beni comunali saranno soli ormai a vendere col frumento i legumi, il latte e il formaggio. Invece d’indebolire il monopolio antico se n’è creato uno nuovo. Perfino i cantonieri si riservano i cigli delle vie come un prato di loro pertinenza e ne scacciano il bestiame che non sia dell’amministrazione. Cosa deriva da ciò? Che il bracciante, prima di rinunciare alla sua vacca, la fa pascolare in contravvenzione, si mette a fare il predone, commette mille guasti, si fa condannare all’ammenda e alla prigione; a che gli servono la polizia e i progressi agrari? – L’anno scorso il sindaco di Mulhouse, per impedire i furti d’uva, proibì a ogni individuo non proprietario di vigneti, di girare di giorno e di notte nelle vie lungo o traverso i vigneti; precauzione caritatevole, perché preveniva persino i desideri e le voglie. Ma se una via pubblica non è più che un annesso della proprietà; se le terre comunali sono convertite in proprietà; se il demanio pubblico, insomma, è custodito, fissato, venduto come una proprietà, cosa rimane al proletario? A che gli serve che la società sia uscita dallo stato di guerra, per entrare nel regime della polizia?
Come la terra, così l’industria ha i suoi privilegi; privilegi consacrati dalla legge, come sempre sotto condizione e riserva; ma, del pari, come sempre, a gran pregiudizio del consumatore. La questione è interessante e giova dire qualche parola.
Cito da [Augustin] Renouard: “I privilegi furono un correttivo ai regolamenti...”.
Chiedo a Renouard il permesso di tradurre il suo pensiero, rovesciando la frase: – Il regolamento fa un correttivo del privilegio. Dacché chi dice regolamento dice limitazione: ora, come immaginare che si sia limitato il privilegio prima che esso esistesse? Concepisco che il sovrano abbia sottoposto ai regolamenti i privilegi; ma non comprendo ch’egli abbia creato dei privilegi espressamente per attenuare l’effetto dei regolamenti. Una simile concessione non avrebbe avuto alcun motivo; sarebbe stata un effetto senza causa. Nella logica ugualmente che nella storia tutto è appropriato e monopolizzato quando vengono le leggi e i regolamenti; a questo riguardo nella legislazione civile accade come nella legislazione penale. La prima è provocata dal possesso e dall’appropriazione; la seconda dalla comparsa dei crimini e dei delitti. Renouard, preoccupato dall’idea di servitù inerente a ogni regolamento, ha considerato il privilegio come un compenso per questa servitù e ciò gli ha fatto dire che i privilegi sono un correttivo dei regolamenti. Ma quel che Renouard aggiunge prova che voleva dire proprio il contrario: “Il principio fondamentale della nostra legislazione, quello di una concessione di temporaneo monopolio come prezzo di un contratto tra la società e il lavoratore, ha sempre prevalso”, ecc. Cos’è dunque in fondo questa concessione di monopolio? Una semplice ricognizione, una dichiarazione. La società, volendo favorire una industria nuova a godere dei vantaggi che essa promette, transige con l’inventore, come ha transatto col colono: gli garantisce il monopolio della sua industria per un certo tempo: ma non crea il monopolio. Il monopolio esiste per il fatto stesso dell’invenzione; ed è appunto la ricognizione del monopolio che costituisce la società.
Dissipato questo equivoco, passo alle contraddizioni della legge.
“Tutte le nazioni industriali hanno adottato la costituzione di un monopolio temporaneo, come prezzo di un contratto tra la società e l’inventore... Non posso indurmi a credere che i legislatori di tutti i popoli abbiano commesso una rapina”.
Se Renouard legge questo libro, riconoscerà che, citandolo, non censuro il suo pensiero; egli stesso ha avvertito le contraddizioni della legge sui brevetti. Tutto quanto pretendo è ricondurre questa contraddizione al sistema generale.
E innanzi tutto, perché un monopolio temporaneo nell’industria, mentre il monopolio territoriale è perpetuo! Gli Egiziani erano più conseguenti: tra loro questi due monopoli erano del pari ereditari, perpetui, inviolabili. So quali considerazioni si sono fatte valere contro la perpetuità della proprietà letteraria, le ammetto tutte; ma tali considerazioni si applicano ugualmente alla proprietà fondiaria, in più esse lasciano sussistere nella loro integrità gli argomenti che vi si oppongono. Qual è dunque il segreto di tutte queste variazioni del legislatore? – Del resto, io non ho più bisogno di dire che rivelando questa incoerenza, non voglio calunniare né satireggiare: riconosco che il legislatore s’è determinato a fare così, non volontariamente, ma per necessità.
Tuttavia la contraddizione più flagrante è quella che risulta dalle disposizioni esplicite della legge. Nel Tit. IV, art. 30, § 3, è detto: “Se il brevetto si riferisce a princìpi, metodi, sistemi, scoperte, idee teoriche o puramente scientifiche, dei quali non s’indicarono le applicazioni industriali, il brevetto è nullo”.
Ora, cosa è un principio, un metodo, una idea teorica, un sistema? È il frutto del genio, è l’invenzione nella sua purezza, è l’idea, è tutto. L’applicazione è il fatto rozzo, nulla. La legge esclude dal beneficio del brevetto ciò che lo ha veramente meritato, ossia l’idea; invece essa li accorda all’applicazione, cioè al fatto materiale, a un esemplare dell’idea, come direbbe Platone. A torto dunque si dice brevetto di invenzione; si dovrebbe dire brevetto di prima occupazione.
Un individuo che ai giorni nostri avesse inventata l’aritmetica, l’algebra, il sistema decimale, non avrebbe ottenuto alcun brevetto: lo avrebbe avuto Barême per i suoi Conti fatti. Pascal per la sua Teoria della gravità dell’aria non sarebbe stato brevettato; ma un vetraio avrebbe avuto invece il privilegio del barometro. “Dopo due millenni, cito le parole di Arago, uno dei nostri compatrioti s’accorge che la vite di Archimede, che serve a innalzare l’acqua, potrebbe essere adoperata a far discendere dei gas: basta, senza cangiarvi nulla, farla girare da destra a sinistra, invece di girarla, come si usa per fare salire l’acqua, da sinistra a destra. Grossi volumi di gas, saturi di sostanze estranee sono in questo modo portati al fondo di uno spesso strato di acqua; il gas si purifica risalendo. Io sostengo che là c’è una invenzione; che l’individuo il quale ha trovato il mezzo di fare della vite di archimede una soffiatrice aveva diritto a un brevetto”. Ciò che è più straordinario è che lo stesso Archimede sarebbe obbligato a ricomprare il diritto di servirsi della sua vite e il signor Arago trova che sia giusto.
È inutile moltiplicare gli esempi: quel che la legge ha voluto monopolizzare non è, come dicevo, l’idea, ma il fatto; non l’invenzione, ma l’occupazione. Come se l’idea non fosse la categoria che abbraccia tutti i fatti nei quali è tradotta; come se un metodo, un sistema non fosse una generalizzazione d’esperienze, e quindi ciò che costituisce propriamente il frutto del genio, l’invenzione! Qui la legislazione è più che antieconomica, confina con la scempiaggine. Io ho dunque il diritto di domandare al legislatore, perché, malgrado la libera concorrenza, la quale non è altro che il diritto di applicare una teoria, un principio, un metodo, un sistema non appropriabile, esso interdice in taluni casi questa stessa concorrenza, questo diritto di applicare un principio. “Non potendo più, dice con molta ragione Renouard, soffocare i propri concorrenti coalizzandoli in corporazioni e giurande, si trova un compenso nei brevetti”. Perché il legislatore ha tenuto mano a questa congiura di monopoli, a questa interdizione delle teorie che appartengono a tutti?
Ma, a che serve interpellare sempre chi non può dire nulla? Il legislatore non ha capito in che senso agiva quando faceva questa strana applicazione del diritto di proprietà, che si dovrebbe, per essere esatti, chiamare diritto di priorità. Si spieghi almeno sulle clausole del contratto che esso ha concluso in nome nostro con i monopolizzatori.
Passo sotto silenzio la parte relativa alle date e alle altre formalità amministrative e fiscali e vengo all’articolo che dice: “Il brevetto non garantisce l’invenzione”.
Senza dubbio, la società o il sovrano che la rappresenta, non può né deve garantire l’invenzione, perché concedendo un monopolio di quattordici anni, la società diviene compratrice del privilegio e per conseguenza spetta al brevettato di dare garanzia. Come dunque i legislatori possono, con aria di soddisfazione, venire ai loro committenti e dire: Abbiamo trattato in nome vostro con un inventore; esso si obbliga a farvi godere la sua scoperta sotto riserva di poterla fare valere esclusivamente per lo spazio di quattordici anni. Però, noi non garantiamo l’invenzione! – e a che vi siete impegnati, o legislatori? Come non avete visto che senza una garanzia d’invenzione, voi concedevate un privilegio, non già per una scoperta reale, ma per una scoperta possibile e in modo che il campo dell’industria era da voi alienato prima che si trovasse l’aratro? Certo, il dovere vostro era di essere prudenti; chi v’ha conferito il mandato di farvi ingannare?
Il brevetto d’invenzione non è neanche una determinazione di priorità, è una alienazione anticipata. È come se la legge dicesse: garantisco la terra, al primo occupante, ma senza garantirne la qualità, la situazione e neanche l’esistenza; senza che io sappia se devo alienarla, se possa essere oggetto di appropriazione! Che curioso uso della potestà legislativa!
So bene che la legge aveva ottime ragioni per astenersi; ma sostengo che ne aveva altrettanto ottime per intervenire.
Ecco la prova: “Non è possibile dissimularselo, dice Renouard, né lo si può impedire. I brevetti sono e saranno uno strumento da ciarlatani, e nello stesso tempo la legittima ricompensa per il lavoro e per il genio... Tocca al buon senso del pubblico di fare giustizia delle truffe”.
Tanto varrebbe dire: tocca al buon senso del pubblico distinguere i veri dai falsi medicinali, il vino buono dal vino adulterato; tocca al buon senso del pubblico distinguere su una bottoniera la decorazione data al merito da quella prostituita alla mediocrità e all’intrigo. Perché, vi chiamate Stato, Potere, Autorità, Polizia, se la Polizia deve farla il buon senso del pubblico? “Come si dice: chi ha terra ha guerra, così chi ha privilegi ha processi”.
Come punireste la contraffazione se non aveste garanzia? Invano vi si allegherà, in diritto, la prima occupazione, in fatto, la somiglianza. Là, dove la realtà stessa di una cosa è costituita dalla qualità di essa, non esigere garanzia significa non concedere di diritto nulla, significa privarsi del mezzo di paragonare i procedimenti e verificare la contraffazione. In materia di procedimenti industriali, il successo dipende da così poco! Ora, questo così poco è tutto!
Concludo da tutto ciò che la legge sui brevetti d’invenzione, indispensabile nei suoi motivi, è impossibile, cioè illogica, arbitraria, funesta, nella sua economia. Sotto l’impero di certe necessità, il legislatore ha creduto, nell’interesse generale, di accordare un privilegio per una cosa determinata; e invece si trova che ha dato carta bianca al monopolio, che ha abbandonato le probabilità che aveva il pubblico di fare quella scoperta o altra analoga, che ha sacrificato senza compensi i diritti dei concorrenti e lasciato senza difesa in balia della cupidigia dei ciarlatani la buona fede dei consumatori. Poi, affinché nulla mancasse all’assurdità del contratto, ha detto a coloro che doveva garantire: Garantitevi da voi!
Non credo, come non lo crede Renouard, che i legislatori di ogni tempo e in ogni paese abbiano commesso a loro insaputa una rapina, consacrando i vari monopoli sui quali poggia l’economia politica. Ma, Renouard potrebbe convenire con me che i legislatori d’ogni tempo e paese non hanno mai capito nulla dei decreti che mettevano fuori. Un uomo sordo e cieco aveva imparato a suonare le campane e a caricare l’orologio della sua parrocchia. Ciò che c’era di comodo per lui nelle sue funzioni di campanaro era questo, che né il rumore delle campane, né l’altezza del campanile lo stordivano. I legislatori di tutti i tempi e di tutti i siti, per i quali Renouard professa il più profondo rispetto somigliano a quel sordo-cieco, sono i battagli di tutte le pazzie umane.
Che gloria per me se riuscissi a fare riflettere questi automi! se potessi fare loro comprendere che la loro opera è una tela di Penelope, che sono condannati a disfare da una parte, mentre seguitano a tessere dall’altra!
Così, mentre s’applaude alla creazione dei brevetti, sopra altri punti si chiede l’abolizione dei privilegi e sempre con lo stesso orgoglio, con lo stesso contenuto. Horace [Émile] Say vuole che il commercio della carne sia libero. Fra le altre ragioni fa valere questa, tutta matematica: “Il macellaio che vuole ritirarsi dagli affari e cerca un rilevatario, mette in conto gli utensili, la merce, il suo credito e la sua clientela; ma, nel regime attuale, vi aggiunge il valore del nudo titolo, cioè del diritto di godere un monopolio. Ora, il capitale supplementare che il beccaio rilevatario dà per il titolo, porta interesse; non è una creazione nuova; egli deve far entrare questo interesse nel prezzo della carne. Dunque la limitazione nel numero delle botteghe da macellaio anzi che tenere basso il prezzo della carne, lo fa aumentare. Non temo di asserire che quanto dico riguardo alla cessione di una macelleria si applica a tutti gli uffici che hanno un titolo vendibile”.
Le ragioni di Say per l’abolizione del privilegio delle macellerie sono irrefutabili; si applicano agli stampatori, notai, procuratori, uscieri, cancellieri, tabaccai, sensali, agenti di cambio, farmacisti e altri così bene come ai beccai. Ma non distruggono le ragioni che hanno fatto adottare questi monopoli e che si traggono generalmente dal bisogno di sicurezza, autenticità, regolarità per le transazioni, e dagli interessi del commercio, e dall’igiene pubblica. – Lo scopo, voi dite, non si ottiene. – Dio buono! lo so: lasciate le macellerie in balia della concorrenza, mangerete carogne lo stesso. Ecco l’unico frutto che potete sperare dalla vostra legislazione di monopolio e di brevetti.
Abusi! gridano gli economisti ufficiali. Create per il commercio una polizia di sorveglianza, rendete obbligatori i marchi di fabbrica, punite la falsificazione dei prodotti, ecc.
Nella via in cui la civiltà è entrata, da qualunque parte uno si volti, arriva sempre o al dispotismo del monopolio e quindi all’oppressione dei consumatori, o all’annullamento del privilegio per l’azione della polizia, il che vale indietreggiare nell’economia e sciogliere la società distruggendo la libertà. Cosa mirabile! in questo sistema di libera industria, gli abusi, come un bulicame di vermi, rinascono dagli stessi rimedi e se il legislatore volesse reprimere tutti i delitti, impedire tutte le frodi, assicurare contro qualunque attentato le persone, i beni e la cosa pubblica, da riforma in riforma arriverebbe a moltiplicare a tal punto gli impieghi improduttivi che la nazione intera v’entrerebbe dentro e non ci resterebbe infine nessuno per produrre. Tutti sarebbero gente di polizia: la classe industriale diverrebbe un mito. Allora, forse, l’ordine regnerebbe nel monopolio.
“Il principio della legge da fare sui marchi di fabbrica, dice Renouard, è che questi marchi non possono né devono essere trasformati in garanzia della qualità”. È una conseguenza della legge dei brevetti, la quale, come s’è visto, non garantisce l’invenzione. Adottato il principio di Renouard, a che serviranno i marchi? Cosa m’importa di leggere sull’etichetta di una bottiglia, invece di vino a dodici o vino a quindici; società enologica o che altra ditta si voglia? Ciò di cui mi preoccupo è non già il nome del mercante, ma la qualità e il giusto prezzo della merce.
Si suppone, è vero, che il nome del fabbricante sia come un segno di buona o cattiva fabbricazione, di qualità eccellente o scadente. Perché dunque non mettersi apertamente con coloro che vogliono aggiunto al marchio di origine un marchio significativo? Questo riserbo non si capisce. Le due specie di marchi hanno il medesimo scopo; la seconda non è altro che una dichiarazione o parafrasi della prima, un riassunto della distinta del negoziante; perché, lo ripetiamo, se l’origine significa qualche cosa, il marchio non farebbe che determinare questo significato.
[Louis] Wolowski ha sviluppato questa tesi assai bene nella sua prolusione del 1843-1844, la cui sostanza è tutta in questa analogia: “nello stesso modo, dice, che il Governo ha potuto determinare un criterio di quantità, esso può, deve fissare anche un criterio di qualità, essendo l’uno compimento dell’altro. L’unità monetaria, il sistema di pesi e misure non ha recato nessuna offesa alla libertà industriale; il regime dei marchi non la offenderebbe neppur esso”. Wolowski si fa forte dell’autorità dei princìpi della scienza, di A. Smith e J.-B. Say, precauzione utile sempre con uditori più inclini all’autorità che alla ragione.
In quanto a me, dichiaro di trovarmi interamente d’accordo con Wolowski e ciò perché trovo profondamente rivoluzionaria la sua idea. Il marchio, secondo l’espressione di Wolowski, non è altro che un criterio della qualità, il che per me equivale a una tariffa generale. Trattasi di una regia speciale che segni in nome dello Stato e garantisca la qualità delle merci, come accade per le materie d’oro e d’argento, o si lasci al fabbricante la cura del marchio, dal momento che il marchio deve esprimere la composizione intrinseca della merce (sono le precise parole di Wolowski) e garantire da qualsiasi sorpresa il consumatore, esso si risolve per forza in un prezzo fisso. Certo, non è la cosa stessa del prezzo; due prodotti simili, ma d’origine e qualità differenti possono avere uguale valore; un fusto di vino di Borgogna può valere quanto uno di Bordeaux; – ma il marchio significativo conduce alla notizia esatta del prezzo, perché ne dà l’analisi. Calcolare il prezzo di una merce è come decomporla nelle sue parti costitutive; ora, precisamente questo deve fare il marchio di fabbrica, se deve significare qualche cosa. Noi dunque andiamo, come ho già detto, verso una tariffa generale.
Ma una tariffa generale non è altro se non una determinazione di tutti i valori, ed ecco di nuovo l’economia politica in contraddizione nei suoi princìpi e nelle sue tendenze. Sventuratamente, per realizzare la riforma di Wolowski, bisogna cominciare col risolvere tutte le contraddizioni anteriori e collocarsi in una sfera di associazione più elevata; questo difetto di soluzione ha sollevato contro il sistema di Wolowski la riprovazione della maggior parte degli economisti suoi colleghi.
Difatti, il regime dei marchi è inapplicabile nell’ordine attuale, perché questo regime, contrario all’interesse dei fabbricanti, ripugnante alle loro abitudini non potrebbe sussistere altrimenti che per la energica volontà del Governo. Supponiamo per un momento che la regia abbia l’incarico di porre i marchi: bisognerà che i suoi agenti intervengano a ogni istante nella lavorazione, come intervengono nello spaccio delle bevande e nella fabbricazione della birra. Pure questi ultimi, già così molesti, si occupano unicamente delle quantità soggette a imposta, non delle qualità permutabili. Bisognerà che questi controllori e verificatori fiscali portino le loro investigazioni su tutti i particolari, onde reprimere e prevenire la frode; e quale frode? Il legislatore non l’avrà o l’avrà male definita e qui la faccenda diviene davvero imbrogliata.
Non c’è frode a vendere vino di ultima qualità, ma c’è frode a dare una qualità per un’altra; eccoci dunque obbligati a diversificare le qualità dei vini e per conseguenza garantirle. – E fare miscele è lo stesso che frodare? [Jean] Chaptal nel suo trattato dell’arte di fare il vino le consiglia come utilissime; d’altra parte l’esperienza prova che certi vini, in qualche maniera antipatici l’uno all’altro e non associabili, mescolati, danno una bevanda sgradevole e malsana. Eccoci costretti a dire quali vini possano essere utilmente mescolati, quali no. È frode aromatizzare, alcolizzare, annacquare il vino? Chaptal lo raccomanda e tutti sanno che l’uso di certe droghe produce talora buoni risultati, talora effetti perniciosi e detestabili. Quali sostanze proscriverete? in quali casi? in quale proporzione? Proibirete di mescolare la cicoria col caffè, di mettere il glucosio nella birra, l’acqua, il sidro, la concia nel vino?
La Camera dei deputati, nell’informe progetto di legge che le è piaciuto di fare quest’anno sulla falsificazione dei vini, s’è fermata nel bel mezzo dell’opera, vinta dalle inestricabili difficoltà della questione. Ha potuto ben dichiarare che l’introduzione dell’acqua nel vino e quella dell’alcool al di là di una proporzione del 18% è frode e mettere poi codesta frode tra i delitti. Era sul terreno dell’ideologia, ove non si urta mai in intoppi. Ma tutti hanno visto in questo raddoppiamento di severità l’interesse del fisco più che quello dei consumatori; ma la Camera non ha osato creare per sorvegliare e arrestare le frodi un esercito di assaggiatori, verificatori, ecc., e aggravare di un po’ di milioni il bilancio; ma proibendo annacquare e alcolizzate, solo mezzo che rimane ai mercanti vinai per mettere il vino a portata di tutti e mettere insieme qualche guadagno, non ha potuto estendere lo sbocco, alleggerendo i carichi della produzione. La Camera insomma, processando la falsificazione del vino non ha fatto altro che segnare più lontano i confini della frode. Perché l’opera sua raggiungesse l’intento, bisognava prima dire come sia possibile commerciare in vini senza falsificazioni, come il popolo possa comperare vino non adulterato e ciò esce dalle competenze della Camera e sfugge alle sue attitudini.
Se volete che il consumatore sia garantito per il valore e per la salubrità, è indispensabile conoscere e determinare tutto quanto costituisce la buona e sincera produzione, essere sempre ai fianchi del fabbricante, guidarne ogni passo. Non è più lui che fabbrica; il vero fabbricante è lo Stato, siete voi.
Eccoci dunque caduti nella trappola. O impacciate la libertà del commercio mescolandovi in mille modi nella produzione o vi dichiarate unico produttore e spacciatore.
Nel primo caso, vessando tutti, finirete col sollevare tutti contro di voi e presto o tardi lo Stato vi farà cacciare via e i marchi di fabbrica saranno aboliti. Nel secondo, sostituite l’azione del Governo all’iniziativa individuale: il che è contrario ai princìpi dell’economia politica e alla costituzione della società. Prendete una via di mezzo? è il favore, il nepotismo, l’ipocrisia, il peggiore dei sistemi.
Supponiamo ora che il marchio di fabbrica sia lasciato alle cure del fabbricante. Dico che allora i marchi, anche se si rendessero obbligatori, perderebbero poco a poco il loro significato e finirebbero con l’essere nulla più che prove d’origine. Significa conoscere poco il commercio credere che un negoziante, un capo fabbrica, facendo uso di procedimenti non suscettibili di brevetto, possa tradire il segreto della sua industria, dei suoi guadagni, della sua esistenza. Il significato sarà dunque menzognero: non è in facoltà della polizia fare che sia altrimenti. Gli imperatori romani, per scoprire i cristiani che dissimulavano la propria religione, obbligarono tutti a sacrificare agli idoli. Essi fecero degli apostati e dei martiri, e il numero dei cristiani aumentò sempre. Così accadrebbe con i marchi significativi; utili a poche ditte, genererebbero frodi e repressioni innumerevoli; bisognerebbe aspettarselo necessariamente. Perché il fabbricante indichi lealmente la composizione intrinseca, cioè il valore industriale e commerciale della propria merce, bisogna togliergli i pericoli della concorrenza e appagare i suoi istinti di monopolio: potete farlo? Bisogna inoltre interessare il consumatore nella repressione della frode e ciò, fino a che il produttore non sia affatto disinteressato, è cosa impossibile e contraddittoria.
Impossibile: mettete da una parte un consumatore depravato, la Cina; dall’altra un venditore alle strette, l’Inghilterra; tra i due una droga velenosa che esalta e ubriaca, e malgrado tutte le polizie del mondo, avrete il commercio dell’oppio.
Contraddittoria: nella società, il consumatore e il produttore si identificano, ciò vuol dire che entrambi sono interessati a produrre ciò il cui consumo è ad essi nocivo, e siccome per ciascuno il consumo segue la produzione e la vendita, tutti verranno a patti per tutelare il primo interesse, salvo a mettersi rispettivamente in guardia sul secondo.
Il pensiero che ha suggerito i marchi di fabbrica esce dalla stessa fonte, dalla quale, in altri tempi, uscirono le leggi del maximum. È anche questo uno dei tanti andirivieni dell’economia politica.
È provato che le leggi del calmiere, fatte espressamente e ben motivate dai loro autori in vista di rimediare alla carestia, hanno avuto per invariabile risultato di aggravare la penuria. Onde gli economisti non accusano codeste leggi aborrite d’ingiustizia o di malvolere, bensì d’essere maldestre e impolitiche.
Ma quale contraddizione nella teoria che vi contrappongono!
Per rimediare alla carestia, è necessario ricorrere alle sussistenze, o, per meglio dire, farle conoscere; fin là niente da censurare. Affinché si producano le sussistenze, bisogna attirare i possessori col benefizio, eccitare la loro concorrenza e assicurare libertà completa sopra il mercato; questo modo di procedere non vi pare un’assurda omeopatia? Come concepire che più facilmente mi si potrà taglieggiare, più sarò ricco? Lasciate fare, si dice, lasciate passare; lasciate agire la concorrenza e il monopolio, soprattutto nei tempi di carestia, è allora appunto che la carestia è l’effetto della concorrenza e del monopolio. Che logica! ma soprattutto che morale!
Ma, dunque, perché non si farà una tariffa per i fittavoli, come ne esiste una per i panettieri? Perché non un controllo per la semina, per la messe, per la vendemmia, per il foraggio e per il bestiame come c’è un bollo per i giornali, le autorizzazioni e i mandati, come c’è un controllo amministrativo per i fabbricanti di birra e i mercanti di vino...? Nel sistema del monopolio, sarebbe ciò, ne convengo, un aumento di crucci; ma con le nostre tendenze del commercio sleale e la disposizione del potere ad aumentare senza fine il proprio personale e il proprio bilancio, diviene ogni giorno più indispensabile una legge d’investigazione sopra i raccolti.
Del resto, sarebbe difficile dire quale tra il libero commercio e il calmiere produce il male maggiore in tempo di carestia.
Ma qualunque partito voi scegliate, non potete fuggire l’alternativa, la frode è certa e il disastro immenso. Col calmiere le derrate si nascondono; il terrore ingrossando per effetto stesso della legge, il prezzo delle sussistenze aumenta, aumenta; subito la circolazione s’arresta, segue la catastrofe pronta e crudele come una razzia. Con la concorrenza il cammino del flagello è più lento, ma non meno funesto; quanta gente rifinita o morta di fame prima che l’aumento abbia attirato i commestibili! Quanti altri malanni sono venuti! È la storia di quel re al quale Dio, in punizione del suo orgoglio, offerse l’alternativa di tre giorni di peste, tre mesi di carestia o tre anni di guerra. Davide scelse il più corto; gli economisti preferiscono il più lungo. L’uomo è così miserabile che ama meglio finire per tisi che per apoplessia; gli sembra di non morire lo stesso. Ecco la ragione che ha fatto esagerare tanto gli inconvenienti del calmiere e i benefici del libero commercio.
Del resto, se la Francia, dopo venticinque anni, non ha risentito della generale carestia, la causa non è la libertà del commercio, che sa benissimo, quando vuole, produrre nel pieno il vuoto e nel seno dell’abbondanza fare regnare la carestia; la causa è dovuta al perfezionamento delle vie di comunicazione che, abbreviando le distanze, conducono ben tosto l’equilibrio scosso un momento dalla penuria locale. Splendido esempio di questa triste verità, che nella società il bene generale non è mai l’effetto di una cospirazione di particolari volontà!
Più si approfondisce questo sistema di transazioni illusorie tra il monopolio e la società, cioè, come l’abbiamo spiegato al § 1° di questo capitolo, tra il capitale e il lavoro, tra il patriziato e il proletariato; più si scopre che tutto vi è previsto, regolato, eseguito con questa massima infernale, che Hobbes e Machiavelli, teorici del dispotismo, non conobbero: Tutto con il popolo e contro il popolo. Nel mentre che il lavoro produce, il capitale, sotto la maschera di una falsa fecondità, fruisce e abusa; il legislatore, offrendo la sua mediazione, ha voluto richiamare il privilegio ai sentimenti fraterni e circondare il lavoratore di garanzia; e ora si trova, per la contraddizione fatale degli interessi, che ciascuna di queste garanzie è uno strumento di supplizio. Sarebbero necessari cento volumi, la vita di dieci uomini, e un petto di ferro, per raccontare sotto questo riguardo i crimini dello Stato verso il povero, e l’infinita varietà delle sue torture. Un colpo d’occhio sommario sopra le principali categorie della politica, basterà per farcene apprezzare lo spirito e l’economia.
Dopo avere, con un caos di leggi civili, commerciali, amministrative, gettato la discordia negli spiriti, resa più insicura la nozione del giusto moltiplicandone la contraddizione, e resa necessaria per spiegare questo sistema tutta una casta d’interpreti, bisognò organizzare ancora la repressione dei delitti e provvedere al loro castigo. La giustizia criminale, questo ordine così ricco della grande famiglia degli improduttivi e il cui mantenimento costa ogni anno più di 30 milioni alla Francia, è divenuta per la società un principio d’esistenza necessario come il pane alla vita dell’uomo; ma con questa differenza, che l’uomo vive del prodotto delle sue mani, mentre la società divora le proprie membra e si nutre della propria carne.
Si conta, seguendo alcuni economisti:
A Londra 1 delinquente su 89 abitanti. A Liverpool 1 delinquente su 45 abitanti. A Newcastle 1 delinquente su 27 abitanti. Ma queste cifre mancano d’esattezza, e quantunque sembrino spaventevoli, non esprimono il grado reale della perversione sociale per la politica. Qui non si tratta solo di determinare il numero dei colpevoli conosciuti, ma il numero dei delitti. Il lavoro dei tribunali criminali non è che un meccanismo particolare che serve a mettere in rilievo la distruzione morale dell’umanità sotto il regime del monopolio; ma questa esposizione ufficiale è lontana dall’abbracciare il male in tutta l’estensione. Ecco altre cifre che potranno condurci a una più certa approssimazione.
I tribunali correzionali di Parigi hanno giudicato:
Nel 1835 106.467 cause
Nel 1836 128.489 cause
Nel 1837 140.247 cause
Supponiamo che la progressione abbia continuato fino al 1846, e che si aggiungano a questo totale di cause correzionali, quelle della Corte di assise, di semplice polizia, e tutti i delitti non conosciuti o lasciati impuniti, delitti la cui quantità oltrepassa, a dire dei magistrati, di molto il numero di quelli che la giustizia pone sotto accusa, si arriverà a questa conclusione che in un anno, nella città di Parigi, si commettono più infrazioni alla legge che non vi siano abitanti. E come, tra gli autori presunti di queste infrazioni bisogna dedurre necessariamente i fanciulli di sette anni e quelli al disotto, che sono fuori dei limiti della colpevolezza, si dovrà calcolare che ogni cittadino adulto, in un anno, è tre o quattro volte colpevole verso l’ordine stabilito.
Così il sistema proprietario non si mantiene, a Parigi, che con un’annuale perpetrazione di uno o due milioni di delitti! Dunque, quando tutti questi delitti fossero il fatto di un uomo solo, l’argomento sussisterebbe sempre; quest’uomo sarebbe il capro espiatorio carico dei peccati d’Israele; che importa il numero dei colpevoli, allorché la giustizia ha il suo contingente?
La violenza, lo spergiuro, il furto, la truffa, il disprezzo delle persone e della società sono talmente nella natura del monopolio, ne derivano in modo così naturale, con una regolarità così perfetta, e secondo leggi così certe, che si è potuto sottomettere la perpetrazione al calcolo e che, date le cifre di una popolazione, lo stato delle sue industrie e delle sue risorse, se ne deduce rigorosamente la statistica della morale. Gli economisti non sanno ancora qual è il principio del valore; ma conoscono, con la differenza di qualche decimale, la proporzionalità del delitto. Tante migliaia di anime, tanti malfattori, tante condanne; ciò non pone in inganno. È una delle più belle applicazioni del calcolo delle probabilità, e la parte più progredita della scienza economica. Se il socialismo avesse inventato questa teoria accusatrice, tutto il mondo avrebbe gridato alla calunnia.
Che c’è, del resto, che ci debba sorprendere? Come la miseria è un risultato necessario delle contraddizioni della società, risultato che è possibile determinare matematicamente in base alla cifra dei salari, ai prezzi del commercio e al saggio dell’interesse; così i crimini e i delitti sono un altro effetto di questo medesimo antagonismo, suscettibile, come la sua causa, di essere apprezzato col calcolo. I materialisti tirarono le più sciocche conseguenze da questa subordinazione della libertà alle leggi dei numeri; come se l’uomo non fosse sotto l’influenza di tutto ciò che lo circonda, e che essendo ciò che lo circonda retto da leggi fatali, non dovesse provare, nelle sue più libere manifestazioni, il contraccolpo di queste leggi!
Il medesimo carattere di necessità che noi abbiamo segnalato nel fondamento e nell’alimentazione della giustizia criminale, s’incontra, ma sotto un aspetto più metafisico, nella sua moralità.
Secondo il parere di tutti i moralisti, la pena deve essere tale da procurare l’emendamento del colpevole, e conseguentemente tale da allontanarsi da tutto ciò che potrebbe cagionare la sua degradazione. Lungi da me il pensiero di combattere questa felice tendenza degli intelletti e di denigrare delle prove che avrebbero fatta la gloria dei più grandi uomini dell’antichità. La filantropia, malgrado il ridicolo che alcune volte s’attacca al suo nome, rimarrà, agli occhi della posterità, come l’atto più onorevole della nostra epoca; l’abolizione della pena di morte solo rimandata, quella del marchio, gli studi fatti sul regime cellulare, lo stabilimento di opifici nelle prigioni, una quantità di altre riforme, che non posso qui citare, attestano un progresso reale nelle nostre idee e nei nostri costumi. Ciò che l’autore del cristianesimo, in uno slancio di amore sublime, raccontava del suo mistico regno, dove il peccatore pentito deve essere glorificato più del giusto innocente, questa utopia della carità è diventata il desiderio della nostra società incredula; e quando si pensa all’unanimità dei sentimenti che regna a questo riguardo, ci si domanda che mai impedisce che questo voto sia compiuto?
Purtroppo la ragione è ancora più forte dell’amore, e la logica più tenace del delitto; qui, come dappertutto, regna una contraddizione insolubile nella nostra civiltà. Non ci smarriamo in mondi fantastici; afferriamo il reale nella sua nudità spaventevole.
“Fa vergogna il delitto, non il palco”, dice il proverbio. Per il solo fatto che l’uomo è punito, purché abbia meritato d’esserlo, è avvilito, la pena lo rende infame, non in virtù della definizione del codice, ma in ragione dell’errore che ha motivato la punizione. Che importa dunque la materialità del supplizio? che importano tutti i vostri sistemi penitenziari? L’uso che ne fate è per soddisfare la vostra sensibilità, ma è impotente a riabilitare il disgraziato colpito dalla vostra giustizia! Il colpevole una volta avvilito dal castigo, è incapace di riconciliazione; la sua macchia è indelebile, e la sua dannazione eterna. Se si potesse fare altrimenti, la pena cesserebbe d’essere proporzionata al delitto; non sarebbe che una finzione, cioè sarebbe nulla. Colui che la miseria ha condotto al ladrocinio, se si lascia cogliere dalla giustizia, rimane per sempre nemico di Dio e degli uomini; meglio sarebbe stato per lui non venire al mondo; è Gesù Cristo che lo ha detto: Bonum erat ei, si natus non fuisset homo ille [Matteo]. E ciò che pronunciò Gesù Cristo, cristiani e miscredenti non lo considerano un errore; l’irrevocabilità della vergogna, di tutte le rivelazioni del Vangelo, è la sola che il mondo proprietario abbia intesa. Così, separato dalla natura a causa del monopolio, ricercato dall’umanità per la miseria, madre del delitto e della pena, qual rifugio rimane al plebeo, che il lavoro non può nutrire, e che non è abbastanza forte per assalire?
Per condurre questa guerra offensiva e difensiva contro il proletariato, era indispensabile una forza pubblica; il potere esecutivo uscì dalle necessità della legislazione civile, dell’amministrazione e della giustizia. E là ancora le più belle speranze si sono cambiate in amari disinganni.
Come il legislatore, come il borgomastro e come il giudice, il principe si disse rappresentante dell’autorità divina. Difensore del povero, della vedova e dell’orfano, ha promesso di fare regnare intorno al trono la libertà e l’uguaglianza, di venire in aiuto al lavoro e di ascoltare la voce del popolo. E il popolo s’è gettato con amore nelle braccia del potere, e quando l’esperienza gli fece conoscere che il potere era contro di lui, invece d’incolpare l’istituzione, si mise ad accusare il principe, senza mai voler comprendere che, il principe, per natura e destinazione, essendo il capo degli improduttivi e il maggiore dei monopolisti, era impossibile, anche se lo avesse voluto, che prendesse la difesa del popolo.
Ogni critica, sia della forma, sia degli atti del Governo, arriva a questa essenziale contraddizione. E allorché sedicenti teorici della sovranità del popolo pretendono che il rimedio alla tirannia del potere consista nel farlo emanare dal suffragio popolare, come lo scoiattolo, non fanno che girare attorno alla gabbia. Perché dal momento che le condizioni costitutive del potere, cioè l’autorità, la proprietà, la gerarchia, sono conservate, il suffragio del popolo non è più che il consentimento del popolo alla propria oppressione; ciò che è il più sciocco ciarlatanismo.
Nel sistema dell’autorità, qualunque sia per altro la sua origine, monarchica o democratica, il potere è l’organo nobile della società; è per esso che la società vive e si muove: ne emana ogni iniziativa; ogni ordine, ogni perfezione sono il suo lavoro. Secondo le definizioni della scienza economica, al contrario, definizioni conformi alla realtà delle cose, il potere è la serie degli improduttivi che l’organizzazione sociale deve tendere indefinitamente a restringere. Come dunque, col principio di autorità così caro ai democratici, il desiderio dell’economia politica, desiderio che è anche quello del popolo, potrà realizzarsi? Come mai il Governo, che in quest’ipotesi è tutto, diventerà un servo obbediente, un organo subalterno? Come mai il principe avrebbe ricevuto il potere solo per affievolirlo, e lavorerebbe, in vista dell’ordine, alla propria eliminazione? Come mai non si occuperà piuttosto a fortificarsi, ad aumentare il suo personale, a ottenere senza fine dei nuovi sussidi e finalmente a sottrarsi alla dipendenza del popolo, termine fatale di ogni potere uscito dal popolo?
Si dice che il popolo, eleggendo i propri legislatori, e per mezzo loro notificando la propria volontà al potere, avrà sempre mezzo di arrestare le sue invasioni; che così il popolo prenderà in una volta il posto di principe e quello di sovrano. Ecco in due parole l’utopia dei democratici, l’eterna mistificazione con la quale ingannano il proletariato.
Ma il popolo farà leggi contro il potere, contro il principio di autorità e di gerarchia, che è il principio della società essa stessa, contro la libertà e la proprietà? Nell’ipotesi in cui siamo, è più che impossibile, è contraddittorio. Dunque la proprietà, il monopolio, la concorrenza, i privilegi industriali, la disuguaglianza delle fortune, la preponderanza del capitale, la centralizzazione gerarchica schiacciante, l’oppressione amministrativa, l’arbitrio legale, saranno conservati; e come non è possibile che un Governo non agisca nel senso del suo principe, il capitale resterà, come in avanti, il dio della società, e il popolo, sempre taglieggiato, sempre avvilito, non avrà guadagnato alla prova della sovranità che la dimostrazione della sua impotenza.
Invano i partigiani del potere, tutti questi dottrinari dinastico-repubblicani che non differiscono tra loro che nella tattica, si lusingano, una volta al potere, di portare dappertutto la riforma. Che cosa riformare?
Riformare la Costituzione? – È impossibile. Quando la nazione in massa entrasse nell’Assemblea costituente, non uscirebbe che dopo aver votato sotto un’altra forma la propria servitù, o decretato la propria dispersione.
Rifare il codice, opera dell’Imperatore, sostanza pura del diritto romano e del costume? – È impossibile. Che avete da porre al posto della vostra perizia proprietaria, fuori della quale vedete e intendete niente, e al posto delle leggi di monopolio di cui la vostra immaginazione è impotente a romperne il cerchio? Da più di un mezzo secolo che la monarchia e la democrazia, queste due sibille che il mondo antico ci ha lasciate, hanno intrapreso, con una transazione costituzionale, ad accordare i loro oracoli; dopo che la saggezza del principe s’è messa all’unisono con la voce del popolo, quale rivelazione ne uscì? Quale principio d’ordine fu scoperto? Quale uscita fu indicata al labirinto del privilegio? Prima che principe e popolo avessero segnato questo strano compromesso, in che cosa non si rassomigliavano le loro idee? E dopo che ciascuno di essi si sforza di rompere i patti, in che cosa differiscono?
Diminuire i carichi pubblici, ripartire l’imposta su di una base più equa? – È impossibile; all’imposta come all’esercito, l’uomo del popolo darà sempre più della sua quota.
Regolare il monopolio, porre un freno alla concorrenza? – È impossibile, voi uccidereste la produzione.
Aprire nuovi sbocchi? – Impossibile. [Cfr. cap. IX].
Organizzare il credito? – Impossibile. [Cfr. cap. X].
Attaccare l’eredità? – Impossibile. [Cfr. cap. XI].
Creare fabbriche nazionali, assicurare, in mancanza di lavoro, un minimum agli operai; assegnare loro una parte nei benefici? – Impossibile. È nella natura del Governo di non potere occuparsi del lavoro che per incatenare gli operai, come non si occupa dei prodotti se non per riscuotere la propria decima.
Riparare, con un sistema d’indennità, i disastrosi effetti delle macchine? – Impossibile.
Combattere con regolamenti la brutale influenza della divisione parcellare? – Impossibile.
Fare godere al popolo i benefici dell’insegnamento? – Impossibile.
Stabilire una tariffa di merci e di salari, e fissare per mezzo dell’autorità sovrana il valore delle cose? – Impossibile, impossibile.
Di tutte le riforme che la società sollecita con ansietà, nessuna è di competenza del potere, nessuna può essere da esso realizzata, perché la natura del potere vi ripugna, e non è dato all’uomo di unire ciò che Dio ha diviso.
Almeno, diranno i partigiani dell’iniziativa governativa, riconoscerete che per compiere la rivoluzione promessa dallo sviluppo delle antinomie, il potere sarebbe un potente ausiliario. Perché dunque opporvi a una riforma che, dando il potere nelle mani del popolo, aiuterebbe così bene le vostre vedute? La riforma sociale è lo scopo; la riforma politica è lo strumento; perché se volete il fine, respingete il mezzo?
Tale è oggi il ragionamento di tutta la stampa democratica, alla quale rendo grazie di tutto cuore di avere finalmente con questa professione di fede quasi socialista, proclamato la nullità delle sue teorie. Dunque è nel nome della scienza che la democrazia reclama una riforma politica come preliminare della riforma sociale. Ma la scienza protesta contro questo sotterfugio per essa ingiurioso; la scienza ripudia ogni alleanza con la politica, è ben lontana dall’attenderne il minimo soccorso, è dalla politica che essa deve cominciare l’opera delle sue esclusioni.
Come lo spirito dell’uomo ha poca affinità col vero! Quando vedo la democrazia, socialista della vigilia, domandare senza posa, per combattere l’influenza del capitale, il capitale; per rimediare alla miseria, la ricchezza; per organizzare la libertà, l’abbandono della libertà; per riformare la società, la riforma del Governo; quando la vedo, dico, incaricarsi della società, purché le questioni sociali siano messe da parte o risolte; mi sembra di udire un astrologo che, prima di rispondere alle domande dei suoi consultatori, comincia ad informarsi della loro età, del loro stato, della loro famiglia, di tutti i casi della loro vita. Eh! miserabile strega, se tu conosci l’avvenire, sai chi io sono e ciò che voglio; perché lo domandi a me?
Risponderò dunque ai democratici; se conoscete l’uso che dovete fare del potere e se sapete in qual modo il potere debba essere organizzato, possedete la scienza economica. Ora, se possedete la scienza economica, se avete la chiave delle sue contraddizioni, se siete in grado d’organizzare il lavoro, se avete studiato le leggi del cambio, non avete bisogno dei capitali della nazione né della forza pubblica. Siete, da oggi, più potenti del denaro, più forti del potere. Perché, se i lavoratori sono con voi, siete per ciò solo padroni della produzione; tenete incatenato il commercio, l’industria e l’agricoltura; disponete di tutto il capitale sociale; siete gli arbitri dell’imposta; bloccate il potere e vi mettete sotto i piedi il monopolio. Quale altra iniziativa, quale autorità maggiore domandate? Chi vi impedisce di applicare le vostre teorie?
Senza dubbio, non è l’economia politica, quantunque generalmente seguita e accreditata; poiché tutto, nell’economia politica, avendo un lato vero e un lato falso, il problema si riduce a combinare gli elementi economici in modo tale che il loro insieme non presenti più contraddizione.
Non è la legge civile; poiché questa legge, consacrando la perizia economica unicamente per i suoi vantaggi e malgrado i suoi inconvenienti, è suscettibile, come l’economia politica stessa, di piegarsi a tutte le esigenze di una sintesi esatta, e per conseguenza non può essere per voi più favorevole.
Infine, non è il potere, che, ultima espressione dell’antagonismo, è creato solo per difendere la legge, non potrebbe farvi ostacolo se non abiurandosi.
Dunque, ancora una volta, chi vi trattiene?
Se possedete la scienza sociale, sapete che il problema dell’associazione consiste nell’organizzare, non solo gli improduttivi – rimane, grazie al cielo, poco da fare da quella parte – ma anche i produttori e, con questa organizzazione a sottomettere il capitale e rendere subalterno il potere. Tale è la guerra che dovete sostenere; guerra del lavoro contro il capitale; guerra della libertà contro l’autorità; guerra del produttore contro l’improduttivo; guerra dell’uguaglianza contro il privilegio. Ciò che voi domandate, per condurre la guerra a buon fine, è precisamente ciò contro cui dovete combattere. Ora, per combattere e ridurre il potere, per metterlo al posto che gli conviene nella società, serve a nulla cambiare i depositari del potere, né apportare qualche variante nelle loro manovre; bisogna trovare una combinazione agricola e industriale con la quale il potere, oggi dominatore della società, ne diventi lo schiavo. Avete il segreto di questa combinazione?
Ma che dico? Ecco precisamente ciò cui non acconsentite. Siccome non potete concepire la società senza gerarchia, vi siete fatti gli apostoli dell’autorità; adoratori del potere, non pensate che a fortificare il potere e porre la museruola alla libertà; è vostra massima favorita che bisogna procurare il bene del popolo malgrado il popolo, invece di procedere alla riforma sociale con lo sterminio del potere e della politica; è una ricostituzione del potere e della politica quella che fate. Allora, per una serie di contraddizioni che dimostrano la vostra buona fede, ma della quale i veri amici del potere, gli aristocratici e i monarchici, vostri competitori, conoscono bene l’illusione, ci promettete, da parte del potere, l’economia nelle spese, l’equa ripartizione dell’imposta, la protezione del lavoro, l’insegnamento gratuito, il suffragio universale, e tutte le utopie antipatiche all’autorità e alla proprietà. Anche nelle vostre mani, il potere non ha fatto che pericolare ed è per ciò che non avete mai potuto ritenerlo, perciò il 18 brumaio bastarono quattro uomini per togliervelo, e oggi la borghesia, che ama come voi il potere, e vuole un potere forte, non ve lo renderà.
Così il potere, strumento della potenza collettiva, creato nella società per servire da mediatore tra il lavoro e il privilegio, si trova fatalmente incatenato al capitale e diretto contro il proletariato. Nessuna riforma politica può fare scomparire questa contraddizione, poiché, secondo la confessione degli stessi politici, una simile riforma non riuscirebbe che a dare più energia ed estensione al potere, e che a meno di abbattere la gerarchia e disciogliere la società, il potere non può toccare le prerogative del monopolio. Dunque il problema consiste, per la classe lavoratrice, non nell’acquistare, ma nel vincere in una volta il potere e il monopolio, ciò che vuol dire fare sorgere dalle viscere del popolo, dalle latebre del lavoro, un’autorità più grande, un fatto potente che avviluppi il capitale e lo Stato e lo soggioghi. Ogni proposizione di riforma che non soddisfi a questa condizione non è che un flagello di più, una frusta di sorvegliante, virgam vigilantem, diceva un profeta, che minaccia il proletariato.
Il coronamento di questo sistema è la religione. Non debbo qui occuparmi del valore filosofico delle opinioni religiose, raccontare la loro storia, né ricercarne l’interpretazione. Mi limito a considerare l’origine economica della religione, il legame segreto che l’unisce alla politica, il posto che occupa nella serie delle manifestazioni sociali.
L’uomo, disperando di trovare l’equilibrio delle sue potenze, si slancia per così dire fuori di sé e cerca nell’infinito questa sovrana armonia, la cui realizzazione è per lui il più alto grado della ragione, della forza e della felicità. Non potendo accordarsi con se medesimo, s’inginocchia davanti a Dio, e prega. Prega e la sua preghiera, inno cantato a Dio, è una bestemmia contro la società.
È da Dio, pensa l’uomo, che mi viene l’autorità e il potere; dunque obbediamo a Dio e al principe. Obbedite Deo et prìncipibus. – È da Dio che mi viene la legge e la giustizia. Per me reges regnant et potentes decernunt iustitiam [Proverbi]; rispettiamo ciò che ha detto il legislatore e il magistrato. È Dio che fa prosperare il lavoro, che innalza e rovescia le fortune; sia fatta la sua volontà! Dominus dedit, Dominus abstulit, sit nomen Domini benedictum. È Dio che mi castiga quando la miseria mi divora e che soffro persecuzione per la giustizia; accettiamo con rispetto i flagelli di cui la misericordia si serve per purificarci: Humiliamini igitur sub potenti manu Dei. Questa vita, che Dio mi ha donato, non è che una prova che mi conduce alla salvezza; fuggiamo i piaceri; amiamo, cerchiamo i dolori, facciamo della penitenza la nostra delizia. La tristezza che viene dall’ingiustizia lassù è una grazia; felici quelli che piangono! Beati qui lugent... Haec est enim grafia, si quis sustinet tristitias, patiens injuste.
È un secolo che un missionario, predicando davanti a un uditorio composto di finanzieri e di grandi signori, faceva giustizia di questa odiosa morale. “Che ho mai fatto? – esclamava in lagrime. – Ho contristato i poveri, i migliori amici del mio Dio! Ho predicato i rigori della penitenza davanti ad infelici che mancano del pane! È qui, dove i miei sguardi non cadono che sopra potenti e ricchi, sopra oppressori dell’umanità sofferente, è qui che io dovevo far risplendere la parola di Dio con tutta la forza del suo fulmine!...”.
Riconosciamo tuttavia che la teoria della rassegnazione servì alla società impedendone la rivolta. La religione consacrando col diritto divino l’inviolabilità del potere e del privilegio diede all’umanità la forza di continuare la sua via e di esaurire le sue contraddizioni. Senza questa benda sugli occhi del popolo, la società si sarebbe mille volte disciolta. Era necessario che qualcuno soffrisse perché essa fosse guarita; e la religione, consolatrice degli afflitti, ha convinto il povero a soffrire. È questa sofferenza che ci ha condotti dove siamo: la civiltà, che deve al lavoratore tutte le sue meraviglie, deve ancora al suo volontario sacrificio il suo avvenire e la sua esistenza. Oblatus est quia ipse voluit, et livore eius sanati sumus. [Isaia].
O popolo dei lavoratori! popolo diseredato, vessato, proscritto! popolo che s’imprigiona, che si giudica e che si uccide! popolo maltrattato, diffamato! Non sai che vi è un termine, anche alla pazienza, anche alla devozione? Non cesserai di prestare orecchio a questi oratori del misticismo che ti dicono di pregare e di attendere, predicando la salvezza ora con la religione, ora col potere, e la cui veemente e sonora parola ti seduce? Il tuo destino è un enigma che né la forza fisica né il coraggio dell’anima né gli splendori dell’entusiasmo né l’esaltazione di alcun sentimento possono sciogliere. Quelli che ti dicono il contrario t’ingannano e tutti i loro discorsi non servono che a ritardare l’ora della libertà, vicina a suonare. Che cosa è l’entusiasmo e il sentimento, che cosa è una vana poesia, alle prese con la necessità? Per vincere la necessità non vi è che la necessità stessa, ultima ragione della natura, pura essenza della materia e dello spirito.
Così, la contraddizione del valore, nata dalla necessità del libero arbitrio, doveva essere vinta dalla proporzionalità del valore, altra necessità che è prodotta da unione della libertà con l’intelligenza. Ma, perché questa vittoria del lavoro intelligente e libero producesse tutte le sue conseguenze, era necessario che la società traversasse una lunga peripezia di tormenti.
Era dunque necessario che il lavoro, per aumentare la sua potenza si dividesse; e per effetto di questa divisione, necessità di degradazione e impoverimento del lavoratore.
Era necessario che questa primordiale divisione si ricostituisse in strumenti e combinazioni sapienti; e necessario, per effetto di questa ricostruzione, che il lavorante divenuto subalterno perdesse, col salario legittimo, anche l’esercizio dell’industria che lo nutriva.
Era necessario che la concorrenza venisse allora ad emancipare la libertà vicina a perire; e necessario che questa liberazione arrivasse a un’ampia eliminazione dei lavoratori.
Era necessario che il produttore, nobilitato dalla sua arte, come altra volta il guerriero lo era dalle sue armi, portasse alta la sua bandiera, affinché il valore dell’uomo fosse onorato nel lavoro come nella guerra; e necessario che nascesse tosto dal privilegio il proletariato.
Era necessario che la società prendesse sotto la sua protezione il vinto plebeo, mendicante e senza asilo; e necessario che questa protezione si convertisse in una nuova serie di supplizi.
Incontreremo ancora altre necessità, che spariranno, come le prime, di fronte a necessità maggiori, finché verrà il pareggiamento generale, la necessità suprema, il fatto trionfatore, che deve stabilire per sempre il regno del lavoro.
Ma questa soluzione non può uscire né da un colpo di mano né da una vana transazione. È tanto impossibile associare il lavoro e il capitale, quanto produrre senza lavoro e senza capitale – tanto impossibile creare l’uguaglianza col potere, quanto sopprimere il potere e l’uguaglianza, e fare una società senza popolo e senza politica.
Lo ripeto, bisogna che una forza maggiore sconvolga le forme attuali della società; che questa sia il lavoro del popolo, non la sua bravura né i suoi suffragi, quello che per una combinazione sapiente, legale, immortale, ineluttabile, sottometta al popolo il capitale, e gli dia nelle mani il potere.
VIII. Della responsabilità dell’uomo e di Dio sotto la legge di contraddizione o soluzione del problema della provvidenza
Gli antichi imputavano alla natura umana la presenza del male nel mondo. La teologia cristiana non ha fatto che ricamare alla sua maniera su questo tema; e come questa teologia riassume tutto il periodo religioso che si estende dall’origine della società fino a noi, così si può dire che il dogma della prevaricazione originale, avendo con sé l’acconsentimento del genere umano, acquista per ciò stesso il più alto grado di probabilità.
Così, dopo le attestazioni dell’antica saggezza, ogni popolo difendendo come eccellenti le proprie istituzioni e glorificandole, non si deve fare rimontare la causa del male né alle religioni né ai governi né ai costumi tradizionali accolti dal rispetto delle generazioni, ma a una primitiva perversione, a una specie di malizia della volontà dell’uomo. Quanto a sapere come un essere abbia potuto pervertirsi e corrompersi dall’origine, si cavavano da quest’impiccio con degli apologhi; il pomo d’Eva e il vaso di Pandora sono rimasti celebri fra le loro simboliche soluzioni.
Dunque, non solo l’antichità aveva posto la questione dell’origine del male fra i suoi miti; ma l’aveva risolta con un altro mito, affermando, senza esitare, la criminalità ab ovo della nostra specie.
I filosofi moderni hanno contrapposto al dogma cristiano un dogma non meno oscuro, quello della depravazione della società. L’uomo è nato buono, esclama Rousseau col suo fare decisivo; ma la società, cioè le forme e le istituzioni della società, lo corrompono. È in questi termini che è formulato il paradosso o, per meglio dire, la protesta del filosofo di Ginevra.
Ora, è evidente che quest’idea non è che il capovolgimento dell’antica ipotesi. Gli antichi accusavano l’uomo individuale; Rousseau accusa l’uomo collettivo; in fondo, è sempre la medesima proposizione, una proposizione assurda.
Tuttavia, malgrado l’identità fondamentale del principio, la formula di Rousseau, precisamente perché essa era un’opposizione, era un progresso, perciò essa fu accolta con entusiasmo e divenne il segnale di una reazione piena di contraddizioni e d’inconseguenze. Cosa singolare! Il socialismo moderno rimonta all’anatema scagliato contro la società dall’autore dell’Émile.
Dopo settanta o ottanta anni, il principio del pervertimento sociale fu sfruttato e popolarizzato da alcuni settari, i quali, copiando Rousseau, respingono con tutte le loro forze la filosofia anti-sociale di questo scrittore, senza vedere che per il fatto che aspirano a riformare la società, sono anche essi asociali quanto lui. È uno spettacolo curioso vedere questi pseudo-innovatori, condannare al modo di Jean-Jacques monarchia, democrazia, proprietà, comunità, tuo e mio, monopolio, salariato, politica, imposta, lusso, commercio, denaro, in una parola tutto ciò che forma la società, e senza di che la società non può concepirsi; poi accusare il medesimo Jean-Jacques di misantropia e di paralogismo, perché, dopo avere scorto la nullità di tutte le utopie, nel medesimo tempo che segnalava l’antagonismo della civiltà, aveva rigorosamente conchiuso contro la società, quantunque riconoscesse che fuori della società non vi fosse ombra di umanità.
Consiglio di rileggere l’Émile e il Contrat social a quelli che, sulla fede di calunniatori e di plagiari, s’immaginano che Rousseau abbia abbracciato la sua tesi per un vano desiderio di singolarità. Questo ammirabile dialettico è stato condotto a negare la società dal punto di vista della giustizia, quantunque fosse costretto ad ammetterla come necessaria; allo stesso nostro modo, che crediamo a un progresso indefinito, ma non cessiamo di negare come normale e definitiva, la condizione attuale della società. Solo che, mentre Rousseau, per una combinazione politica e un sistema d’educazione suo proprio, si sforzava di avvicinare l’uomo a ciò che egli chiamava la natura, e che era per lui l’ideale della società; noi, istruiti a una scuola più profonda, diciamo che la pecca della società è di dichiarare senza interruzione le sue antinomie, cosa di cui Rousseau non poteva avere idea. Così, a parte il sistema, ora abbandonato, del Contratto sociale, e per ciò che riguarda soltanto la critica, il socialismo è ancora nella stessa condizione di Rousseau, costretto a riformare senza posa la società, cioè a negare continuamente.
Rousseau, in una parola, non ha fatto che manifestare in modo sommario e definitivo ciò che i socialisti ridicono pateticamente, e a ogni stadio del progresso, che l’ordine sociale è imperfetto, e che qualche cosa vi manca sempre. L’errore di Rousseau non è, né può essere, nella negazione della società; esso consiste, come ci accingiamo a dimostrare, nel non continuare fino alla fine la sua argomentazione, e negare in una volta la società, l’uomo e Dio.
La teoria dell’innocenza dell’uomo, correlativa a quella della depravazione della società, ha finito per prevalere. L’immensa maggioranza del socialismo, [Henri de] Saint-Simon, [Robert] Owen, Fourier e i loro discepoli; i comunisti, i democratici, i progressisti di tutte le specie, hanno ripudiato solennemente il mito cristiano del peccato per sostituirvi il sistema di una aberrazione della società. E siccome la maggior parte di questi settari, malgrado la loro evidente empietà, erano ancora troppo religiosi, troppo devoti per compiere l’opera di Jean-Jacques e fare rimontare fino a Dio la responsabilità del male, trovarono il mezzo di dedurre dall’ipotesi di Dio il dogma della bontà nativa dell’uomo, e si misero a fulminare del loro meglio la società.
Le conseguenze teoriche e pratiche di questa reazione furono che, il male, cioè l’effetto della lotta interna ed esterna, essendo cosa per se stessa anormale e transitoria, anche le istituzioni penitenziarie e repressive sono transitorie; che nell’uomo non vi è vizio dalla nascita, ma che l’ambiente in cui vive l’uomo ha depravato le sue inclinazioni; che la civiltà s’è ingannata sulle proprie tendenze; che la limitazione è immorale, che le nostre passioni sono sante; che il godimento è santo, e deve essere ricercato come la virtù stessa, perché Dio che ce lo fa desiderare è santo. E, venendo le donne in aiuto alla facondia dei filosofi, cadde un diluvio di proteste anti-restrittive sul pubblico attonito, quasi de vulva erumpens, per servirmi di un paragone della Santa Scrittura.
Gli scritti di questa scuola si riconoscono dal loro stile evangelico, dal loro teismo sofistico, soprattutto dalla loro dialettica in rebus. “Si imputano – dice Louis Blanc – alla natura umana quasi tutti i nostri mali, bisognerebbe imputarli al vizio delle istituzioni sociali. Guardatevi attorno: quante abilità fuor di luogo, e per conseguenza corrotte? Quante attività diventate turbolente, per non avere trovato il loro fine legittimo e naturale! Si costringono le nostre passioni ad attraversare un ambiente impuro; esse si alterano; che c’è di curioso in ciò? Si metta un uomo sano in un’atmosfera pestifera, egli respira la morte... La civiltà ha percorso una strada falsa...; e dire che non potrebbe essere altrimenti, è perdere il diritto di parlare di equità, di morale, di progresso; è perdere il diritto di parlare di Dio. La Provvidenza si apre per fare posto al più grossolano fanatismo”. Il nome di Dio si presenta quaranta volte e sempre per dire niente, nell’Organisation du travail di Blanc che di preferenza cito, perché, a mio vedere, rappresenta meglio di ogni altro l’opinione democratica avanzata e credo col confutarlo di fargli onore.
Così, mentre il socialismo, aiutato dall’estrema democrazia, divinizza l’uomo negando il dogma del peccato, e per conseguenza detronizza Dio, inutile alla perfezione della sua creatura, lo stesso socialismo, per debolezza di spirito, ricade nell’affermazione della Provvidenza, e ciò nel momento medesimo in cui nega l’autorità provvidenziale della storia.
E siccome niente c’è tra gli uomini che abbia tanta fortuna quanto la contraddizione, l’idea di una religione di piacere, rinnovata da Epicuro durante un oscuramento della ragione pubblica, presa per l’ispirazione del genio nazionale; è per ciò che i nuovi teisti si distinguono dai cattolici, contro i quali i primi da due anni non hanno gridato che per rivalità di fanatismo. È di moda oggi parlare a ogni momento di Dio, e declamare contro il Papa; invocare la Provvidenza e dileggiare la Chiesa. Grazie a Dio noi non siamo atei, diceva un giorno “La réforme”; e poteva aggiungere, per maggiore inconseguenza, non siamo cristiani. Chiunque sa tenere la penna in mano s’è dato la parola d’ingannare il popolo; e il primo artìcolo della nuova fede è che Dio infinitamente buono ha creato l’uomo buono come se medesimo; ciò che non impedisce all’uomo, sotto lo sguardo di Dio, di rendersi perverso in una detestabile società.
Tuttavia è certo, malgrado queste apparenze, e diciamo pure queste velleità di religione, che la contesa impugnata tra il socialismo e la tradizione cristiana, tra l’uomo e la società, deve finire con la negazione della divinità. Secondo noi la ragione sociale non si differenzia dalla ragione assoluta, che non è altro che Dio stesso, e negare la società nelle sue fasi anteriori, è negare la Provvidenza, è negare Dio.
Così siamo posti tra due negazioni, due affermazioni contraddittorie: l’una che con la voce di tutta intera l’antichità, ponendo fuori causa la società e Dio che essa rappresenta, attribuisce all’uomo solo il principio del male; l’altra che, protestando nel nome dell’uomo libero, intelligente e progressivo, rigetta sull’infermità sociale e, per necessaria conseguenza, sul genio creatore e ispiratore della società, tutte le perturbazioni dell’universo.
Ora, siccome le anomalie dell’ordine sociale e le oppressioni delle libertà individuali provengono soprattutto dal gioco delle contraddizioni economiche, noi dobbiamo ricercare, valendoci dei dati che abbiamo messi in luce: 1) Se la fatalità, il cui cerchio ci circonda, sia talmente imperiosa, per la nostra libertà, che le infrazioni alla legge, commesse sotto l’impero delle antinomie, cessino d’esserci imputabili. E, in caso di negativa, da dove provenga questa colpabilità particolare dell’uomo. 2) Se l’essere ipotetico, tanto buono, tanto potente, tanto saggio, al quale la fede attribuisce l’alta direzione delle agitazioni umane, non abbia mancato egli stesso verso la società nel momento del pericolo. E, in caso di affermativa, spiegare questa insufficienza della divinità.
In due parole, noi ci accingiamo ad esaminare se l’uomo è Dio, se Dio è Dio, o se, per arrivare alla pienezza delle intelligenze e della libertà, dobbiamo cercare un soggetto superiore.
1. – Colpevolezza dell’uomo. Esposizione del mito del peccato
Finché l’uomo vive sotto la legge d’egoismo, accusa se stesso; quando si eleva al concepimento di una legge sociale, accusa la società. Nell’uno e nell’altro caso, è sempre l’umanità che accusa l’umanità; e fino a ora ciò che risulta di più evidente da questa doppia accusa, è la facoltà strana, che non abbiamo ancora segnalata, e che la religione attribuisce a Dio come all’uomo, del pentimento.
Di che cosa si pente l’umanità? Per che cosa ci vuol punire Iddio, che si pente così di noi? Poenituit Deum quod hominem fecisset in terra; et tactus dolore cordis intrisecus, delebo, inquit, hominem...
Se dimostro che i delitti, dei quali si accusa l’umanità, non sono la conseguenza dei suoi disturbi economici, quantunque questi risultino dalla costituzione delle sue idee; che l’uomo compie il male gratuitamente e senza violenza, nello stesso modo in cui si onora degli atti d’eroismo che la giustizia non esige; ne seguirà che l’uomo, al tribunale della coscienza, può benissimo fare valere alcune circostanze attenuanti; ma non può mai essere liberato interamente dal delitto; che la lotta è nel suo cuore come nella sua ragione, che ora è degno di lode e ora di biasimo, ciò che sempre è una prova della sua condizione non armonica; infine, che la natura dell’animo è un perpetuo compromesso tra opposte attrazioni, la morale un sistema ad altalena, in una parola, e questa parola dice tutto, un eclettismo.
La prova sarà presto fornita.
Esiste una legge, anteriore alla nostra libertà, promulgata dal principio del mondo, completata da Gesù Cristo, predicata, affermata dagli apostoli, dai martiri, dai confessori e dalle vergini, impressa nell’interno dell’uomo, superiore a tutta la metafisica: è l’Amore. Ama il prossimo come te stesso, ci disse Gesù Cristo dopo Mosè. Tutto sta qui. Ama il tuo prossimo come te stesso, e la società sarà perfetta; ama il tuo prossimo come te stesso, e tutte le differenze tra il principe e il pastore, tra il ricco e il povero, tra il sapiente e l’ignorante, svaniranno; svaniranno tutte le contrarietà degli interessi umani. Ama il tuo prossimo come te stesso e la fortuna col lavoro faranno passare i tuoi giorni senza alcun affanno per l’avvenire. Per compiere questa legge e rendersi felice, l’uomo non ha bisogno che di seguire la propensione del suo cuore e di ascoltare la voce delle sue simpatie; egli resiste! Anzi fa di più: non contento di preferirsi al prossimo, lavora costantemente a distruggerlo; dopo aver tradito l’amore con l’egoismo, lo abbatte con l’ingiustizia.
L’uomo, dico, infedele alla legge della carità, s’è fatto senza alcuna necessità, con le contraddizioni della società altrettanti mezzi per nuocere, per il suo egoismo, la civiltà è divenuta una guerra di sorprese e di tradimenti; mente, ruba, assassina, senza provocazione e senza scusa, eccetto nel caso di forza maggiore. In una parola, compie il male con tutti i caratteri di una natura deliberatamente trista, e altrettanto scellerata in quanto sa, quando vuole, compiere il bene anche gratuitamente e sacrificarsi; ciò che di lui fece dire, con tanta ragione e profondità: Homo homini lupus, vel deus.
Per non estendermi troppo, e per non concludere in questioni sulle quali dovrò ritornare, mi restringo ai fatti economici precedentemente analizzati.
Che la divisione del lavoro sia di sua natura, fino al giorno di una organizzazione sintetica, una causa irresistibile di disuguaglianza fisica, morale e intellettuale fra gli uomini, né la società né la coscienza ne hanno colpa alcuna. È questo un fatto di necessità, di cui il ricco è innocente quanto l’operaio parcellare, sacrificato dalla sua condizione a tutte le indigenze.
Ma da dove proviene che questa disuguaglianza fatale s’è cambiata per gli uni in titolo di nobiltà, per gli altri in titolo di abiezione? Da dove proviene, se l’uomo è buono, il non aver saputo con la sua bontà vincere quest’ostacolo tutto metafisico, e che invece di stringere un legame fraterno fra gli uomini, con crudele necessità lo rompe?
Qui l’uomo non può scusarsi con la sua imperizia economica, con la sua imprevidenza legislativa; gli basterebbe avere cuore. Perché, mentre i martiri della divisione del lavoro avrebbero dovuto essere aiutati, onorati dai ricchi, sono stati respinti come immondi? Come mai non si è visto ancora i padroni alternarsi qualche volta con gli schiavi; i prìncipi, i magistrati e i preti fare dei giri di ricambio con gli operai, i nobili rimpiazzare i contadini della gleba? Da dove venne ai potenti quest’orgoglio brutale? E notate che una tale condotta per loro parte sarebbe non solo caritatevole e fraterna; ma non sarebbe altro che la più rigorosa giustizia. In virtù del principio della forza collettiva, i lavoratori sono uguali e associati con i loro capi; di modo che nel sistema dello stesso monopolio, la comunità di azione riconducendo l’equilibrio che l’individualismo parcellare ha scosso, la giustizia e la carità si confondono. Dunque, come spiegare, con l’ipotesi della bontà naturale dell’uomo, il mostruoso tentativo di cambiare l’autorità degli uni in nobiltà e l’obbedienza degli altri in ignobilità? Il lavoro, tra il servo e l’uomo libero, come il colore tra il nero e il bianco, ha sempre tracciato una linea insuperabile; e noi stessi che tanto ci gloriamo della nostra filantropia, in fondo all’animo pensiamo come i nostri predecessori. La simpatia che proviamo per il proletario è come quella che ci ispirano gli animali; delicatezza d’organi, spavento della miseria, alterigia di allontanare da noi tutto ciò che soffre, ecco per quali rigiri d’egoismo si produce la nostra carità. Perché, infine, e mi basta questo solo per convincere, non è forse vero che la beneficenza spontanea, così pura nella sua nozione primitiva (eleemosyna, simpatia, amore), l’elemosina infine, è divenuta per gli infelici un segno di perdita di diritto, una pubblica ignominia? E i socialisti, correggendo il cristianesimo, osano parlarci di amore! Il pensiero cristiano, la coscienza dell’umanità, aveva ben pensato, quando provocava tante istituzioni per il sollievo della sventura. Per afferrare nella sua profondità il precetto evangelico e rendere la carità legale e onorevole tanto per coloro che ne fossero stati l’oggetto quanto per coloro che l’avessero esercitata, che cosa era necessario? meno orgoglio, meno cupidigia, meno egoismo. Si potrebbe dirmi, se l’uomo è buono, in qual modo il diritto all’elemosina è divenuto il primo anello della lunga catena delle contravvenzioni, dei delitti e dei crimini? Si oserà ancora imputare i misfatti dell’uomo all’antagonismo dell’economia sociale, allorché quest’antagonismo gli offriva sì bella occasione di manifestare la carità del suo cuore, non dico per l’ossequio, ma per il semplice adempimento della giustizia?
So, e quest’obiezione è la sola che possa essermi fatta, che la carità offre vergogna e disonore, poiché l’individuo che la domanda è troppo spesso sospetto di cattiva condotta, e che raramente lo raccomanda la dignità dei costumi e del lavoro. E la statistica prova con le sue cifre che vi sono dieci volte più poveri per codardia e incuria, che per caso o cattiva fortuna.
Non nego quest’osservazione, della quale molti fatti dimostrano la verità, e che da molto tempo ha ricevuto la sanzione del popolo. Il popolo è il primo ad accusare i poveri d’infingardaggine; e niente vi è di più ordinario che trovare nelle classi inferiori uomini che si vantano, come di un titolo di nobiltà, di non essere mai stati all’ospedale, e nelle loro maggiori sventure di non aver ricevuto soccorsi dalla carità pubblica. Così, mentre l’opulenza confessa le sue rapine, la miseria confessa la sua indegnità. L’uomo è tiranno e schiavo della volontà, prima di esserlo della fortuna; il cuore del proletario è come quello del ricco: una fogna della bollente sensualità, un focolare della crapula e dell’impostura.
A quest’inattesa rivelazione, domando come, se l’uomo è buono e caritatevole, accada che il ricco calunni la carità, mentre il povero la deturpa? – Gli uni dicono: è perversione del giudizio del ricco; gli altri: è degradazione delle facoltà del povero. – Ma da dove proviene che il giudizio si perverta, da un lato, e dall’altro che le facoltà si degradino? Da dove proviene che una vera e cordiale fratellanza non ha arrestato da una parte e dall’altra gli effetti dell’orgoglio e del lavoro? Mi si risponda con ragioni e non con frasi.
Il lavoro, inventando procedimenti e macchine che moltiplicano la sua potenza all’infinito, stimolando il genio industriale con la rivalità, e assicurando le sue conquiste con i profitti del capitale e dei privilegi dello sfruttamento, ha reso più profonda e più inevitabile la costituzione gerarchica della società; ancora una volta, non è necessario imputare ciò ad alcuno. Ma, ne chiamo di nuovo testimonio la legge del Vangelo, dipendeva da noi, da questa subordinazione dell’uomo all’uomo, o, per meglio dire, del lavoratore al lavoratore, il trarne conseguenze ben diverse.
Le tradizioni della vita feudale e quelle dei patriarchi avevano dato l’esempio agli operai. La divisione del lavoro e gli accidenti della produzione non erano che richiami alla vita di famiglia, indizi del sistema preparatorio, seguendo il quale, doveva tradursi e svilupparsi la fratellanza. Giurande, maestranze, corporazioni e diritti di primogenitura furono concepiti con quest’idea; a molti stessi comunisti non ripugna questa forma di associazione; è forse sorprendente che l’ideale ne sia così vivo tra coloro che, vinti ma non convertiti, si presentano ancora oggi come suoi rappresentanti? Chi dunque impediva alla carità, all’unione, all’ossequio di mantenersi nella gerarchia allorché la gerarchia non fosse stata altro che una condizione del lavoro? Bastava che gli uomini, padroni di macchine, valorosi combattenti ad armi uguali, non facessero mistero o riserva dei loro segreti; che i baroni non si dedicassero alla campagna che per rendere migliore il mercato dei prodotti, non per loro monopolio; e che i vassalli, certi che la guerra non avrebbe per risultato che aumentare le loro ricchezze, si mostrassero sempre intraprendenti, laboriosi e fedeli. Il capo-fabbrica allora non era più che un capitano il quale faceva manovrare i suoi uomini armati nel loro interesse come nel suo, e li manteneva, non con i suoi denari, ma con i loro propri servizi.
In luogo di queste relazioni fraterne, noi abbiamo visto l’orgoglio, la gelosia e lo spergiuro; il padrone che trae il maggior vantaggio possibile, come il vampiro della favola, il salariato avvilito, e il salariato cospirante contro il padrone; l’ozioso che divora la sostanza del lavoratore e il servo, accoccolato nella bruttura, non ha energia che per l’odio.
“Chiamati a fornire la loro opera nella produzione, questi strumenti del lavoro, quelli lavoro; i capitalisti e i lavoratori sono oggigiorno in lotta, e perché? Perché l’arbitrio presiede in tutti i loro rapporti; perché il capitalista specula sul bisogno che il lavoratore prova di procurarsi strumenti, mentre il lavoratore cerca di trarre partito dal bisogno che prova il capitalista di far fruttare il capitale”. (L. Blanc, Organisation du travail).
E perché quest’arbitrio nei rapporti del capitalista e del lavoratore? Perché questa ostilità d’interessi? Perché questa rabbia reciproca? Invece di spiegare sempre il fatto col fatto stesso, andate al fondo, e troverete dovunque, per prima causa, un desiderio intenso di godimento che né legge né giustizia né carità trattengono; vedrete l’egoismo aggredire senza posa l’avvenire, e sacrificare ai suoi capricci mostruosi lavoro, capitale, la vita e la sicurezza di tutti.
I teologi chiamarono concupiscenza o appetito concupiscibile la brama appassionata delle cose sensuali, effetto, secondo essi, del peccato d’origine. Mi inquieto poco per il momento, di sapere che cosa sia il peccato originale; osservo solo che l’appetito concupiscibile non è altro che il bisogno di lusso, segnalato dall’Accademia delle Scienze morali, come il motore dominante della nostra epoca. Ora, la teoria della proporzionalità dei valori dimostra che il lusso ha per misura naturale la produzione; che ogni consumo anticipato si ricopre con una privazione ulteriore equivalente, e che l’esagerazione del lusso in una società ha per correlativo d’obbligo un aumento di miseria. Ora, se l’uomo sacrificasse il suo benessere personale ai godimenti lussuriosi e anticipati, forse non l’accuserei che d’imprudenza; ma quando prende il benessere del prossimo, benessere che gli deve essere inviolabile, per carità e per giustizia, allora è perverso, perverso senza scusa.
“Allorché Dio – secondo [Jacques] Bossuet – formò l’interno dell’uomo, vi mise prima di tutto la bontà”. Così l’amore è la nostra prima legge; i precetti della ragione pura, come le istigazioni della sensibilità, non vengono che in secondo o terzo ordine. Tale è la gerarchia delle nostre facoltà: un principio di amore, che forma il fondo della nostra coscienza, servito dall’intelligenza e dagli organi. Dunque, delle due cose una: o l’uomo che viola la carità per obbedire alla sua cupidigia è colpevole; oppure se questa psicologia è falsa e nell’uomo il bisogno del lusso deve camminare di pari passo con la carità e con la ragione, l’uomo è un animale disordinato, internamente perverso, il più esecrabile degli esseri.
Così le contraddizioni organiche della società non possono coprire la responsabilità dell’uomo; viste in se stesse, queste contraddizioni non sono che la teoria del regime gerarchico, forma prima, per conseguenza forma integra della società. Per l’antinomia del loro sviluppo, il lavoro e il capitale erano condotti senza posa nello stesso tempo all’eguaglianza e alla subordinazione, alla solidarietà come alla dipendenza; l’uno era l’agente, l’altro il provocatore e il guardiano della ricchezza comune. Questa indicazione era stata confusamente scoperta dai teorici del sistema feudale; il cristianesimo s’era trovato a proposito per cementare il patto; ed è ancora il sentimento di questa organizzazione non conosciuta e falsata, ma per se stessa innocente e legittima, che cagiona rammarichi e sostiene la speranza di un partito. Siccome questo sistema era nelle previsioni del destino, non si può dire che fosse in sé cattivo, nello stesso modo che non si può dire cattivo lo stato d’embrione, perché nello sviluppo fisiologico precede l’età adulta.
Insisto dunque sulla mia accusa.
Sotto il regime abolito da Lutero e dalla rivoluzione francese, l’uomo, per quanto lo comportava il progresso della sua industria, poteva essere felice; non l’ha voluto; al contrario, se ne guardò.
Il lavoro fu stimato un disonore; il prete e il nobile si sono fatti i divoratori del povero; per contentare le loro passioni animali, hanno spento la carità nel cuore; hanno oppresso, rovinato, assassinato il lavoratore. Ed è ancora così che vediamo il capitale dare la caccia al proletariato. Il capitalista invece di temperare con l’associazione e con la reciprocità la tendenza sovversiva dei princìpi economici, l’esagera senza alcuna necessità e con malevola intenzione; abusa dei sentimenti e della coscienza dell’operaio; ne fa il servo dei suoi intrighi, il provveditore dei suoi bagordi, il complice delle sue rapine; lo rende in tutto simile a se stesso, ed è allora che può sfidare la giustizia delle rivoluzioni con l’attenderle. Cosa mostruosa! l’uomo che vive nella miseria, la cui anima per conseguenza sembra più vicina alla carità e all’onore, quest’uomo divide la corruzione del suo padrone; come lui, dà tutto all’orgoglio e alla lussuria, e se alcune volte si duole della disuguaglianza che soffre, è più per rivalità di concupiscenza che per zelo di giustizia. Il più grande ostacolo che l’eguaglianza deve vincere non è l’orgoglio aristocratico del ricco, ma l’egoismo indisciplinato del povero. E voi fate conto sopra la sua bontà nativa per riformare in una volta la spontaneità e la premeditazione della sua malizia!
“Siccome l’educazione falsa e anti-sociale data all’attuale generazione – dice Louis Blanc – non permette di cercare altrove che nell’aumento della retribuzione un motivo d’emulazione e d’incoraggiamento, così la differenza dei salari sarà graduata sulla gerarchia delle funzioni, dovendo un’educazione affatto nuova cambiare su questo punto le idee e i costumi”.
Lasciamo pure per quel che vale la gerarchia delle funzioni e per ciò che vale l’ineguaglianza dei salari; qui non consideriamo che il motivo dato dall’autore. Non è forse strano vedere Blanc affermare la bontà della natura, e nello stesso tempo rivolgersi alla più ignobile delle inclinazioni, l’avarizia? In verità, bisogna che il male vi sembri ben grave, perché giudichiate necessario cominciare la restaurazione della carità con una infrazione alla carità. Gesù Cristo diceva male dell’orgoglio e della cupidigia; però, verosimilmente i libertini che catechizzava erano santi personaggi accanto alle pecore appestate del socialismo. Ma infine diteci in che modo le nostre idee sono state falsate, in che modo la nostra educazione è anti-sociale, poiché è dimostrato che la società ha seguito la via tracciata dal destino, e che non le si possono imputare i crimini dell’uomo?
In effetti la logica del socialismo è meravigliosa.
L’uomo è buono, dicono essi; ma bisogna disinteressarlo dal male perché se ne astenga. L’uomo è buono; ma bisogna interessarlo al bene, perché lo possa praticare. Perché se l’interesse delle sue passioni lo porta al male, farà il male; e se questo interesse lo lascia indifferente al bene, non farà il bene. E la società non avrà diritto di rimproverargli di avere dato ascolto alle sue passioni, perché toccava alla società accompagnarlo nelle sue passioni. Quanto più ricca e più preziosa natura quella di Nerone, che uccise sua madre perché questa donna l’annoiava, e che fece incendiare Roma per avere una immagine del sacco di Troia! Che anima di artista ebbe Eliogabalo che organizzò la prostituzione! che carattere potente Tiberio! che abominevole società fu mai quella che pervertì queste anime divine, e che tuttavia produsse Tacito e Marco Aurelio!...
Ecco dunque ciò che si chiama innocenza dell’uomo, santità delle passioni! Una vecchia Saffo, abbandonata dai suoi amanti, rientra nella vita coniugale; disinteressata verso l’amore, ritorna all’imeneo, ed è santa! Che peccato che questa parola santa non abbia in francese il doppio senso che ha nella lingua ebraica! Tutto il mondo sarebbe d’accordo intorno alla santità di Saffo.
Lessi in un resoconto delle strade ferrate del Belgio, che, l’amministrazione belga avendo approvato un premio di 35 centesimi per ettolitro di coke che si sarebbe economizzato su di una consumazione in media di 95 chilogrammi per lega percorsa, questo premio aveva recato tali frutti che la consumazione era diminuita da 95 chilogrammi a 48. Ciò, ripeto, forma la filosofia socialista; rendere avvezzo l’operaio alla giustizia, incoraggiarlo al lavoro, elevarlo fino alla sublimità della devozione, con l’aumento del salario, con la compartecipazione, con le distinzioni e le ricompense. Certo, non intendo biasimare questo metodo vecchio come il mondo; in qualunque modo addomesticate e rendete utili i serpenti e le tigri io applaudirei. Ma non dite che le vostre bestie sono colombi; perché, per tutta risposta, vi farei vedere le unghie e i denti. Prima che i meccanici del Belgio fossero interessati nell’economia del combustibile, ne bruciavano la metà di più. Dunque vi era per parte loro incuria, negligenza, prodigalità, spreco, può darsi anche ruberia, quantunque obbligati verso l’amministrazione da un contratto che li costringeva a mettere in pratica tutte le virtù contrarie.
È bene, voi dite, interessare l’operaio. Dico di più: ciò è giusto. Ma sostengo che questo interesse, più potente sull’uomo dell’obbligazione accettata, in una parola, più potente del dovere, accusa l’uomo. Il socialismo torna indietro nella morale e fa peggio del cristianesimo. Non comprende più la carità, che, a volergli credere, avrebbe inventata.
Guardate tuttavia, osservano i socialisti, che buoni frutti ha già portato il perfezionamento del nostro ordine sociale. Certamente, la presente generazione vale più di quelle che l’hanno preceduta; abbiamo forse torto concludendo che una perfetta società produrrà perfetti cittadini? – Dite piuttosto, replicano i conservatori partigiani del dogma del peccato, che, la religione avendo purificati i cuori, non è da meravigliarsi se le istituzioni ne abbiano risentito. Ora lasciate che la religione compia la sua opera, e non v’inquietate della società.
Così i teorici delle due opinioni parlano e si vanno aggirando in divagazioni senza fine. Gli uni e gli altri non comprendono che l’umanità, per servirmi di una espressione della Bibbia, è una e costante nelle sue generazioni, cioè che tutto in essa, a ogni epoca del suo sviluppo, nell’individuo come nella massa, procede col medesimo principio, che è, non l’essere, ma il divenire. Da una parte, non vedono che il progresso nella morale è una conquista incessante dello spirito sopra l’animalità, nello stesso modo che il progresso nella ricchezza è il frutto della guerra che fa il lavoro alla parsimonia della natura; per conseguenza l’idea di una bontà nativa perduta a causa della società è tanto assurda quanto l’idea di una ricchezza nativa perduta a causa del lavoro, e deve farsi una transazione con le passioni come col riposo. D’altra parte, non vogliono comprendere che se vi è progresso nell’umanità, sia esso per il fatto della religione, sia per qualunque altra causa, l’ipotesi di una corruzione organica è un controsenso, una contraddizione.
Ma io anticipo le conclusioni che dovrò fare; occupiamoci solo di constatare che il perfezionamento morale dell’umanità, nello stesso modo che il benessere materiale, si realizza per merito di una serie di oscillazioni tra il vizio e la virtù, il merito e il demerito.
Sì, vi è progresso dell’umanità nella giustizia, ma questo progresso della nostra libertà, dovuto del tutto al progresso della nostra intelligenza, non prova certamente la bontà della nostra natura; e ben lungi dall’autorizzarci a glorificare le nostre passioni, ne distrugge in forma autentica la preponderanza. La nostra malignità cambia, col tempo, di moda e di stile; i feudatari del Medioevo derubavano il viaggiatore sulla via principale, poi gli offrivano ospitalità nel loro castello; la feudalità mercantile, meno brutale, trae il più possibile dal proletario, e gli edifica degli ospedali; chi oserà dire quale dei due abbia meritata la palma della virtù?
Di tutte le contraddizioni economiche, il valore è quello che, dominando le altre e riassumendole, in qualche modo tiene lo scettro della società, e quasi del mondo morale. Anche il valore da lungo tempo, oscillando tra i suoi due estremi, valore d’uso, valore di scambio, non è arrivato alla sua costituzione; il mio e il tuo sono fissati ad arbitrio; le condizioni della fortuna sono effetto del caso; la proprietà è fondata su di un titolo precario, tutto è provvisorio nell’economia sociale. Gli esseri socievoli, intelligenti e liberi quale conseguenza dovevano dedurre da quest’incertezza del valore? quella di fare regolamenti amichevoli, che proteggessero il lavoro, garantisserolo scambio e il buon mercato. Che felice occasione per tutti, di supplire con la lealtà, il disinteresse, l’affetto del cuore, all’ignoranza delle leggi obiettive del giusto e dell’ingiusto! Invece, il commercio diventò dovunque, per sforzo spontaneo e consentimento unanime, un’operazione aleatoria, un contratto all’ingrosso, una lotteria, spesso una speculazione di sorpresa e di dolo.
Chi è che obbliga colui che tiene le sussistenze, colui che ha cura del magazzino della società, a simulare la carestia, a dare l’allarme e provocare l’aumento?
L’imprevidenza pubblica abbandona il consumatore alla sua misericordia; qualche cambiamento di temperatura gli fornisce un pretesto; la prospettiva certa di un guadagno finisce per corromperlo, e la paura, abilmente diffusa, getta la popolazione nelle sue mani. Senza dubbio il motore che fa agire il truffatore, il ladro, l’assassino, queste nature falsate, si dice, dall’ordine sociale, è lo stesso che incoraggia l’incettatore fuor di bisogno. Come dunque questa passione del guadagno, lasciata a se stessa, torna a pregiudizio della società? Come mai una legge preventiva, repressiva e coercitiva, ha dovuto porre senza interruzione un limite alla libertà? Perché sta qui il fatto accusatore che non si può negare; dappertutto la legge è uscita dnll’abuso; dappertutto il legislatore fu costretto a mettere l’uomo nell’impossibilità di nuocere, ciò che è sinonimo di mettere la museruola a un leone, e legare un verro. E il socialismo, sempre imitando il passato, non pretende altra cosa; non è forse vero, in effetti, che l’organizzazione che domanda non è che una più forte garanzia della giustizia, una più completa limitazione della libertà?
Il segno caratteristico del commerciante è di fare di ogni cosa o un oggetto o uno strumento di traffico. Fuori di società con i suoi simili, non solidale verso tutti, egli è favorevole e contrario a tutti i fatti, tutte le opinioni, tutti i partiti. Una scoperta, una scienza, è ai suoi occhi una macchina da guerra dalla quale si guarda, e che vorrebbe annientare, a meno che possa servirsene per annichilire i concorrenti. Un artista, un dotto, è un artigliere che sa manovrare il pezzo, e che egli si sforza di corrompere se non lo può ottenere. Il commerciante è convinto che la logica è l’arte di provare a volontà il vero e il falso; è lui che ha inventato la venalità politica, il traffico delle coscienze, la prostituzione degli ingegni, la corruzione della stampa. Sa trovare argomenti e avvocati per tutte le menzogne, per tutte le iniquità. Egli solo non s’è mai fatto illusione intorno al valore dei partiti politici; li giudica tutti ugualmente usufruibili, cioè ugualmente assurdi.
Senza rispetto per le opinioni già confessate, che abbandona e riprende a vicenda; perseguitando acerbamente presso gli altri le infedeltà di cui si rende colpevole, mente nei suoi reclami, mente nei suoi indizi, nei suoi inventari; esagera, attenua, domanda esageratamente; si stima come il centro del mondo, e tutto, eccetto lui, non ha che una esistenza, un valore, una verità relativa. Sottile e scaltro nelle transazioni, stipula, si riserva, temendo sempre di dir troppo e di non dire abbastanza; abusando delle parole cogli ingenui, generalizzando per non compromettersi, specificando per accordare nulla, ritorna tre volte su se stesso, e pensa sette volte sotto il mento prima di dire l’ultima parola. Ha concluso finalmente? Si rilegge, interpreta, si commenta; si dà alla tortura per trovare in ogni particolare del suo atto un senso profondo, e nelle frasi le più chiare l’opposto di ciò che dicono.
Che arte infinita, quanta ipocrisia nei suoi rapporti con gli operai! Dal semplice agricoltore al grosso appaltatore come s’intendono nel trarre partito dalle braccia! Come sanno fare gareggiare il lavoro per ottenerlo a prezzo vile! A prima vista è una speranza per la quale il padrone richiede un giro, poi è una promessa che sconta con una fatica; poi un tentativo, una prova, un sacrificio, perché non ha bisogno di alcuno, che il disgraziato dovrà riconoscere contentandosi di un salario più piccolo: sono esigenze e aggravi senza fine, compensati dai regolamenti di conto i più espropriatori e i più falsi. E bisogna che l’operaio taccia e s’inchini, che stringa i pugni sotto la giubba; perché il padrone gestisce il negozio, e troppo felice colui che può ottenere il favore delle sue frodi. E questa pressione odiosa, così spontanea, così franca, così libera da ogni spinta superiore, perché la società non ha ancora trovato il mezzo d’impedirla, di reprimerla, di punirla, la si attribuisce alla violenza sociale! Che sragionevolezza!
Il commissionario è il tipo, l’espressione più alta del monopolio, il riassunto del commercio, cioè della civilizzazione. Ogni funzione dipende dalla sua, vi partecipa o vi si assimila; poiché, dal punto di vista della distribuzione delle ricchezze, i rapporti degli uomini tra di loro si riducono tutti a degli scambi, cioè a dei trasporti di valori, si può dire che la civilizzazione s’è personificata nel commissionario.
Ora, interrogate i commissionari sulla moralità del loro mestiere; saranno in buona fede; tutti vi diranno che la commissione è un ladrocinio. Si dolgono delle frodi e delle falsificazioni che disonorano l’industria, il commercio, soprattutto intendo la commissione, che non è che una gigantesca e permanente cospirazione di coloro che esercitano il monopolio, a vicenda concorrenti o coalizzati; non è più una funzione esercitata in vista di un profitto legittimo, è una vasta organizzazione di aggiotaggio su tutti gli oggetti della consumazione, come pure sulla circolazione delle persone e dei prodotti. Già la frode in questa professione è tollerata; quante lettere di trasporto aggravate, cassate, falsificate! Quanti bolli fabbricati! Quante avarie dissimulate o fraudolentemente transatte! Quante bugie sulle qualità! Quante parole date, ritratte! Quanti documenti soppressi! Quanti intrighi e coalizioni! E infine, quanti tradimenti!
Il commissionario, cioè il commerciante, cioè l’uomo, è giocatore, calunniatore, ciarlatano, venale, ladro, falsario...
È l’effetto della nostra società antagonista, osservano i neo-mistici. Altrettanto ne dicono gli agenti di commercio, i primi in ogni circostanza ad accusare la corruzione del secolo. Ciò che fanno, se si vuol credere loro, è per semplice rappresaglia e del tutto contro la loro volontà; seguono la necessità, sono nel caso di legittima difesa.
È forse necessario uno sforzo di mente per vedere che queste scambievoli recriminazioni raggiungono la stessa natura dell’uomo, che il preteso pervertimento della società non è altro che quello dell’uomo, e che l’opposizione dei princìpi e degli interessi non è che un accidente per così dire esterno, che mette in rilievo, ma senza necessaria influenza, l’enormità del nostro egoismo e le rare virtù delle quali la nostra specie si onora?
Comprendo la concorrenza disarmonica e i suoi irresistibili effetti d’eliminazione; là vi è fatalità. La concorrenza, nella sua più larga espressione, è l’ingranaggio del quale gli operai si servono reciprocamente per eccitarsi e sostenersi. Ma finché non sia realizzata l’organizzazione che deve innalzare la concorrenza alla sua vera natura, essa rimane una guerra civile nella quale i produttori, invece di aiutarsi tra loro col lavoro, si sminuzzano e si schiacciano col lavoro gli uni cogli altri. Il pericolo qui era imminente; l’uomo, per scongiurarlo, aveva la legge suprema dell’amore; e niente di più facile, spingendo, con l’interesse della produzione, la concorrenza fino ai suoi limiti estremi, che in seguito riparare i suoi effetti micidiali con un’equa ripartizione.
Invece, codesta concorrenza anarchica diventò l’anima e lo spirito dell’operaio. L’economia politica aveva dato all’uomo quest’arma di morte ed egli ha colpito: s’è servito della concorrenza come il leone si serve dei suoi artigli e delle sue mascelle per uccidere e divorare. Come dunque, lo ripeto, un accidente affatto esterno ha cambiata la natura dell’uomo, che si suppone buona, dolce e socievole?
Il mercante di vino chiama in suo aiuto il ghiaccio, l’acqua e i veleni; aumenta con combinazioni di sua testa gli effetti distruttori della concorrenza. Da dove viene questa rabbia? Da ciò: secondo voi, che il suo concorrente gliene dà l’esempio! E chi eccita questo concorrente? Un altro concorrente. Così noi faremo il giro della società, e poi troveremo che è la massa, e nella massa i singoli individui in particolare, che, per un accordo tacito delle loro passioni: orgoglio, pigrizia, cupidigia, diffidenza, gelosia, hanno organizzato questa guerra detestabile.
L’imprenditore, dopo avere raggruppato intorno a sé gli strumenti del lavoro, la materia di fabbricazione e gli operai, deve trovare nel prodotto, con le spese che avrà fatte, prima l’interesse dei suoi capitali, poi un beneficio. È in conseguenza di questo principio che il prestito a interesse ha finito per stabilirsi, e che il guadagno, considerato in se stesso, fu sempre creduto legittimo. In questo sistema, la politica delle nazioni non avendo a prima vista scorto l’intima contraddizione del prestito a interesse, il salariato invece di sorgere da se stesso, doveva dipendere dal padrone, come l’uomo di armi apparteneva al conte, come la tribù al patriarca. Questa costituzione era necessaria, e fino al momento in cui si sarebbe stabilita la completa eguaglianza, poteva bastare al benessere generale. Ma, allorché il padrone, nel suo egoismo disordinato, disse al servo: non avrai alcuna parte con me, ed ha rubato con un sol colpo lavoro e salario, dov’è la fatalità, dove la scusa? Sarà ancora necessario, per giustificare l’appetito della concupiscenza, servirci dell’appetito irascibile? State attenti, tornando indietro, per giustificare l’essere umano nella serie delle sue cupidigie, invece di salvare la moralità, voi la condannate. – Quanto a me, preferisco l’uomo colpevole all’uomo bestia feroce.
La natura ha fatto l’uomo socievole; lo sviluppo spontaneo dei suoi istinti ora fa di lui un angelo di carità, ora lo innalza fino al sentimento della fratellanza e all’idea della devozione. Si vide forse mai un capitalista, stanco del guadagno, aspirare al bene generale, e della emancipazione del proletariato fare l’ultima sua speculazione? Vi è forse gente, favorita dalla fortuna, cui non manca che la corona della beneficenza; eppure qual droghiere, divenuto ricco, vende a prezzo di costo? Qual panettiere, lasciando gli affari, dà la clientela e la bottega ai servitori? Qual farmacista, in procinto di ritirarsi dal commercio, dà i suoi rimedi per quel che valgono? Poiché la carità ha i suoi martiri, perché non ha i suoi amatori? Se si formasse a un tratto un congresso di capitalisti, di uomini di reddito, d’imprenditori per la riforma, ma buoni ancora al servizio, per esercitare gratuitamente un certo numero d’industrie, la società in poco tempo si riformerebbe interamente. Ma lavorare per niente?... è la proprietà di San Vincenzo da Paola, di [François de Salignac] Fénelon, di tutti quelli la cui anima sempre fu disinteressata e il cuore povero. L’uomo arricchito dal guadagno sarà consigliere municipale, membro del comitato di beneficenza, ufficiale delle sale di asilo; adempirà ogni funzione onorifica, eccetto precisamente quella che sarebbe efficace, ma che ripugna alle sue abitudini. Lavorare senza speranza di guadagno! ciò non è possibile, perché sarebbe distruggere se stesso. Lo vorrebbe forse; non ne ha il coraggio. Video meliora proboque, deteriora sequor. [Ovidio] Il proprietario in ritiro è veramente il gufo della favola che raccoglie i fagioli per i suoi sorci mutilati, aspettando di mangiarli. È ancora necessario imputare alla società questi effetti di una passione così da lungo tempo liberamente e pienamente sazia?
Chi spiegherà questo mistero di un essere multiplo e discorde, capace in una volta delle più grandi virtù e dei più spaventevoli delitti? Il cane lecca il padrone che lo percuote; perché la natura del cane è la fedeltà, e questa natura non l’abbandona mai. L’agnello si rifugia nelle braccia del pastore, che lo scortica e lo mangia; perché il carattere inseparabile della pecora è la dolcezza e la pace. Il cavallo si slancia attraverso la fiamma e la mitraglia senza toccare con i suoi piedi veloci i feriti e i morti giacenti sul suo passaggio; perché l’animo del cavallo è inalterabile nella sua generosità. Questi animali sono martiri secondo noi della loro natura costante e devota. Il servitore che difende il padrone con pericolo della propria vita, per poco oro lo tradisce e l’assassina; la casta sposa è adultera per un disgusto o un’assenza, e in Lucrezia troviamo Messalina; il proprietario, a vicenda padre e tiranno, rimette in sesto il suo fittavolo rovinato, e ne scaccia dalle sue terre la famiglia troppo numerosa, cresciuta sotto l’accordo del contratto feudale; l’uomo di guerra, specchio e modello di cavalleria, si fa dei cadaveri dei suoi compagni sgabello all’avanzamento. Epaminonda e Regolo negoziano il sangue dei loro soldati; quante prove di ciò mi sono passate sotto gli occhi! e per un orribile contrasto, la professione del sacrificio è la più feconda in viltà. L’umanità ha i suoi martiri e i suoi apostati; ancora una volta, a che cosa debbo attribuire questa scissione?
All’antagonismo della società, dite sempre voi; allo stato di separazione, d’isolamento, d’ostilità con i suoi simili, nel quale l’uomo ha vissuto fino a oggi; in una parola, a questa alienazione del cuore suo che gli fece prendere il godimento per l’amore, la proprietà per il possesso, la pena per il lavoro, l’ebbrezza per la gioia; infine a questa falsa coscienza, il cui rimorso non ha cessato di perseguitarlo sotto il nome di peccato originale. E quando l’uomo, riconciliato con se stesso, cesserà di riguardare il suo prossimo e la natura quali potenze ostili, è allora che amerà e produrrà con la sola spontaneità della sua energia; che la sua passione sarà di donare, come oggi è di acquistare; e cercherà nel lavoro e nella devozione, sua unica felicità, la voluttà suprema. Allora, l’amore diventando realmente e senza contrasto la legge dell’uomo, la giustizia non sarà più che un nome vano, importuno ricordo di un periodo di violenza e di lagrime.
Certo non disconosco i fatti dell’antagonismo, o come vi piacerà di chiamarli, dell’alienazione religiosa, più di quanto non disconosca la necessità di riconciliare l’uomo con se stesso: tutta la mia filosofia è una perpetuità di riconciliazioni. Voi riconoscete che la divergenza della nostra natura è il preliminare della società, diciamo meglio, il materiale della civilizzazione. È appunto il fatto, ma osservate bene, il fatto indistruttibile di cui cerco il significato. Certo, saremmo ben vicini ad intenderci se, invece di considerare la dissidenza e l’armonia delle facoltà umane come due periodi distinti, dichiarati e consecutivi nella storia, consentiste con me a non vederci che le due facce della nostra natura, sempre contrarie, sempre in opera di riconciliazione, giammai riconciliate interamente. In una parola, come l’individualismo è il fatto primordiale dell’umanità, l’associazione è il termine complementare; ma ambedue sono in continua manifestazione, e sulla terra la giustizia è eternamente la condizione dell’amore.
Così il dogma del peccato non è solo l’espressione d’uno stato particolare e transitorio della ragione e della moralità umana; è la spontanea confessione, in stile simbolico, di questo fatto tanto meraviglioso quanto indistruttibile, la colpevolezza, l’inclinazione al male della nostra specie. Disgrazia a me peccatrice, esclama in ogni parte e in ogni lingua la coscienza del genere umano: Væ nobis quia peccavimus! [Lamentazioni] La religione concretizzando e drammatizzando quest’idea, ha potuto portare fuori del mondo e dietro la storia ciò che è intimo e costante nella nostra anima; ciò per sua parte non era che un miraggio intellettuale; essa non s’è ingannata sull’essenza e sulla perennità del fatto. Ora, è sempre di questo fatto, del quale vogliamo renderci ragione, ed è da questo punto di vista che ci accingiamo ad interpretare il dogma del peccato originale.
Tutti i popoli ebbero costumi espiatori, sacrifici di pentimento, istituzioni repressive e penali, nate dall’orrore e dal rammarico del peccato. Il cattolicesimo, che costruisce una teoria dovunque la spontaneità sociale aveva espressa una idea o posta una speranza, convertì in sacramento la cerimonia nello stesso tempo simbolica ed effettiva, con la quale il peccatore esprimeva il suo pentimento, domandava a Dio e agli uomini perdono del suo errore, e si preparava a una vita migliore. Così, non esito a dire che la riforma, respingendo la contrizione, questionando sulla parola metanoia, attribuendo alla sola fede la virtù giustificativa, infine sconsacrando la penitenza, fece un passo indietro e disconobbe completamente la legge del progresso. Negare non era rispondere. Gli abusi della Chiesa richiedevano in questo punto come in tanti altri una riforma; le teorie della penitenza, della dannazione, della remissione dei peccati e della grazia, contenevano, se così oso dire, allo stato latente, il sistema dell’educazione dell’umanità, bisognava sviluppare queste teorie, spingerle al razionalismo: Lutero non seppe che distruggere.
La confessione auricolare era una degradazione della penitenza, una equivoca dimostrazione sostituita a un grande atto di umiltà; Lutero superò l’ipocrisia dei Papi riducendo la primitiva confessione davanti a Dio e davanti agli uomini a un soliloquio. Così il senso cristiano fu perduto; e non fu stabilito che tre secoli più tardi dalla filosofia.
Dunque, poiché il cristianesimo, cioè l’umanità religiosa, non ha potuto ingannarsi sulla realtà di un fatto essenziale alla natura umana, fatto che essa ha indicato con le parole prevaricazione originale, interroghiamo ancora il cristianesimo, l’umanità sul significato di questo fatto. Né lasciamoci impaurire dalla metafora né dall’allegoria; la verità è indipendente dalle figure. E allora per noi che cos’è la verità, se non il progresso incessante del nostro spirito dalla poesia alla prosa?
E dapprima cerchiamo se quest’idea almeno singolare di una prevaricazione originale non avesse qualche parte correlativa nella teologia cristiana. Perché l’idea vera, l’idea generica, non può risultare da un concetto isolato; ma è una serie.
Il cristianesimo, dopo aver posto come primo termine il dogma del peccato, seguì il suo pensiero assicurando, per tutti quelli che morirebbero in questo stato di bruttura, una condanna irrevocabile di Dio, un’eternità di supplizi. Poi completò la sua teoria conciliando queste due opposizioni col dogma della riabilitazione e della grazia, secondo il quale ogni creatura nata in odio a Dio, è riconciliata per i meriti di Gesù Cristo, che la fede e la penitenza rendono efficaci. Così, corruzione essenziale della nostra natura e perpetuità della pena, salvo il riscatto con la partecipazione volontaria al sacrificio di Cristo; tale è in sostanza l’evoluzione dell’idea teologica. La seconda affermazione è una conseguenza della prima; la terza è una negazione e una trasformazione delle due altre; in effetti, un vizio di costituzione essendo necessariamente indistruttibile, l’espiazione che trae seco è eterna, a meno che una potenza superiore venga, per una rinnovazione integrale, a interrompere il fato e fare cessare l’anatema.
Lo spirito umano non ha che un metodo, nelle sue fantasie religiose, come nelle sue teorie positive; la stessa metafisica ha prodotto i misteri cristiani e le contraddizioni dell’economia politica; la fede, senza che lo sappia, esce dalla ragione; e noi, esploratori delle manifestazioni divine e umane, abbiamo diritto, in nome della ragione, di verificare le ipotesi della teologia.
Dunque la ragione universale, formulata nei dogmi religiosi, che cosa ha veduto nella natura umana, allorché, per una costruzione metafisica, così regolare, ha affermato a vicenda l’ingenuità del delitto, l’eternità della pena, la necessità della grazia? I veli della teologia cominciano a diventare così trasparenti che essa somiglia a una storia naturale.
Se noi concepiamo l’operazione con la quale l’essere supremo si suppone abbia prodotto tutti gli esseri, non come una emanazione, un prodotto della forza creatrice e della sostanza infinita; ma come una divisione o differenza di questa forza sostanziale, ogni essere organizzato o non organizzato ci apparirà come il rappresentante speciale di una delle innumerevoli virtualità dell’essere infinito, come una scissione dell’assoluto; e la collezione di tutte queste individualità (fluidi, minerali, piante, insetti, pesci, uccelli e quadrupedi) sarà la creazione, sarà l’universo.
L’uomo, compendio dell’universo, riassume e sintetizza nella sua persona tutte le virtualità dell’essere, tutte le scissioni dall’assoluto; è la sommità dove queste virtualità, non esistenti che per la loro divergenza, si riuniscono in fasci, ma senza penetrarsi né confondersi. L’uomo, per questa aggregazione è spirito e materia, spontaneità e riflessione, meccanismo e vita, angelo e bruto. Esso è calunniatore come la vipera, sanguinario come la tigre, ghiotto come il porco, osceno come la scimmia e devoto come il cane, generoso come il cavallo, laborioso come l’ape, monogamo come la colomba, socievole come il castoro e la pecora. È per di più uomo, cioè ragionevole e libero, suscettibile di educazione e di perfezionamento.
L’uomo ha tanti nomi quanti ne ha Giove; tutti questi nomi li porta scritti sul viso; e nello specchio variato della natura, il suo istinto infallibile li sa riconoscere. Un serpente è bello secondo la ragione; ma è la coscienza che lo trova odioso e sozzo. Gli antichi, come i moderni, avevano preso la costituzione dell’uomo quale agglomerazione di tutte le virtù terrestri; le opere di [Franz] Gall e di [Johann] Lavater non furono, se così oso dire, che prove del disgregamento del sincretismo umano, e la classificazione che fecero delle nostre facoltà, un quadro in riassunto della natura. L’uomo infine, come il profeta nella fossa dei leoni, è veramente dato in balia delle bestie; e se qualche cosa deve segnalare alla posterità l’ipocrisia infame della nostra epoca, è che scienziati, bigotti spiritualisti, abbiano creduto di servire alla religione e alla morale snaturando la nostra specie e facendo mentire l’anatomia.
Dunque non si tratta che di sapere se dipenda da uomo, nonostante le contraddizioni che l’emissione progressiva delle sue idee moltiplica intorno a lui, il lasciare più o meno libero varco alle virtualità poste sotto il suo potere, o, come dicono i moralisti, alle sue passioni; in altri termini se, come l’Ercole antico, può vincere l’animalità che lo assedia, la legione infernale che pare sempre pronta a divorarlo.
Ora, l’universale consentimento dei popoli afferma, e noi abbiamo constatato ai capitoli III e IV, che l’uomo, astrazione fatta di tutti i suoi istinti animali, si riassume in intelligenza e libertà, cioè prima in una facoltà di valutazione e di scelta, poi in una potenza di azione applicabile indifferentemente al bene e al male. Inoltre, abbiamo constatato che queste due facoltà, che esercitano una influenza necessaria l’una sull’altra, sono suscettibili d’uno sviluppo, di una perfezione indefinita.
Il destino sociale, il segno dell’enigma umano, dunque si trova in queste parole: Educazione, Progresso.
L’educazione della libertà, l’addomesticamento degli istinti, l’affrancamento o la redenzione dell’anima nostra, ecco, come l’ha dimostrato Lessing, il significato del mistero cristiano. Questa educazione sarà quella della nostra vita, e di tutta la vita dell’umanità; le contraddizioni dell’economia politica possono essere risolte; la contraddizione intima del nostro essere non lo sarà giammai. Ecco perché i grandi istitutori della umanità, Mosè, Budda, Gesù Cristo, Zarathustra, furono tutti apostoli dell’espiazione, simboli viventi della penitenza. L’uomo è peccatore per sua natura, cioè non essenzialmente malfattore, ma piuttosto malfatto e il suo destino è di confortare perpetuamente in se stesso il suo ideale.
È ciò che sentiva profondamente il più grande dei pittori, Raffaello, allorché diceva che l’arte consiste nel rendere le cose, non come le ha fatte la natura, ma com’essa avrebbe dovuto farle.
Dunque, d’ora innanzi, a noi devono rivolgersi i teologi, perché solo noi continuiamo la tradizione della Chiesa, solo noi possediamo il significato della Scrittura, dei Concili e dei Padri. La nostra interpretazione si fonda su ciò che c’è di più certo e di più autentico, sulla più grande autorità che possa invocarsi tra gli uomini, la costruzione metafisica delle idee e i fatti.
Sì, l’essere umano è vizioso perché non è logico, perché la sua costituzione non è che un eclettismo che tiene in lotta senza fine le virtualità dell’essere, indipendentemente dalle contraddizioni della società. La vita dell’uomo non è che una transazione continua tra il lavoro e la pena, l’amore e il godimento, la giustizia e l’egoismo; e il sacrificio volontario che fa l’uomo all’ordine delle sue attrazioni inferiori è il battesimo che prepara la sua riconciliazione con Dio, che lo rende degno dell’unione beatifica e della felicità eterna.
Lo scopo dell’economia sociale, col procurare incessantemente l’ordine nel lavoro e col favorire l’educazione della specie, è di rendere possibile, con l’uguaglianza, la carità spontanea, quella carità che non sa comandare ai suoi schiavi; o per dire meglio, di fare sbocciare, come un fiore dal suo gambo, la carità dalla giustizia.
Eh! se la carità avesse il potere di creare la felicità tra gli uomini, da lungo tempo si sarebbe messa alla prova; e il socialismo, invece di cercare l’organizzazione del lavoro, avrebbe detto soltanto: Guardate, voi venite meno alla carità.
Ma, la carità nell’uomo è di poco pregio, vergognosa, molle e debole; per agire, ha bisogno di elisir e di aromi. È il motivo per il quale mi sono attenuto al triplice dogma della prevaricazione, della dannazione e della redenzione, cioè della perfezione con la giustizia. La libertà in questo mondo ha sempre bisogno di assistenza, e la teoria cattolica dei favori celesti completa questa dimostrazione troppo reale delle misure della nostra natura.
La grazia, dicono i teologi, è, quanto alla salvezza, ogni soccorso o mezzo che può condurci alla vita eterna. – Cioè che l’uomo non si perfeziona, non si civilizza, non si rende umano che con l’incessante soccorso dell’esperienza, con l’industria, la scienza e l’arte, col piacere e la pena, in una parola, con tutti gli esercizi del corpo e dello spirito. Vi è una grazia abituale, chiamata anche giustificante e santificante, che si concepisce come una qualità che risiede nell’anima, che racchiude le virtù infuse e i doni dello Spirito Santo, e che è inseparabile dalla carità. – In altri termini, la grazia abituale è il simbolo delle attrazioni in preminenza del bene, che conducono l’uomo all’ordine e all’amore, e al mezzo col quale giunge a domare le cattive tendenze, e a rimanere padrone nel suo possesso. Quanto alla grazia attuale, indica i mezzi esterni che favoriscono lo sfogo delle passioni d’ordine, e servono a combattere le passioni sovversive.
La grazia, secondo Sant’Agostino, è essenzialmente gratuita, e nell’uomo precede il peccato. Bossuet ha espresso il medesimo pensiero nel suo stile pieno di poesia e di affetto: Allorché Dio fece l’interno dell’uomo vi mise prima di tutto la bontà. – Realmente, la prima determinazione del libero arbitrio è in questa bontà naturale, dalla quale l’uomo è spinto incessantemente all’ordine, al lavoro, allo studio, alla modestia, alla carità e al sacrificio. San Paolo ha dunque potuto dire, senza attaccare il libero arbitrio, che, per tutto ciò che riguarda il compimento del bene, Dio mette in opera in noi la volontà e l’azione. Perché tutte le aspirazioni sante dell’uomo sono in lui prima che pensi e senta; e lo stringimento di cuore ch’egli prova quando le viola, il piacere che prova quando loro obbedisce, infine tutti gli inviti che gli provengono dalla società e dalla sua educazione, gli appartengono.
Quando la grazia è tale che la volontà con allegrezza e amore senza esitazione e irrevocabilmente si porta al bene, essa si dice efficace. – Tutto il mondo ha veduto di questi trasporti dell’anima che decidono in un attimo una vocazione, un atto d’eroismo. La libertà non vi perisce; ma, per le sue predeterminazioni, si può dire che era inevitabile che essa si decidesse in questo modo. E i seguaci di Pelagio, di Lutero e altri hanno avuto torto dicendo che la grazia comprometteva il libero arbitrio e uccideva la forza creatrice della volontà; poiché tutte le determinazioni della volontà necessariamente provengono, o dalla società che la sostiene, o dalla natura che le apre lo sviluppo e gli addita il destino.
Ma, d’altra parte, gli agostiniani, i tomisti, i congruisti [molinisti], Giansenio, il padre Thomasin, Molina, ecc., si sono stranamente sviati allorché, sostenendo in una volta il libero arbitrio e la grazia, non hanno veduto che tra questi due termini vi è la stessa relazione che c’è tra la sostanza e il modo, e hanno confessato un’opposizione che non esiste. È necessità che la libertà come l’intelligenza, come ogni sostanza e ogni forza, sia determinata, cioè abbia i suoi modi e i suoi attributi. Ora, dacché nella materia il modo e l’attributo sono inerenti alla sostanza, contemporanei della sostanza; nella libertà il modo è dato da tre agenti per così dire esterni: l’essenza umana, le leggi del pensiero, l’esercizio o l’educazione. La grazia, finalmente, come il suo contrapposto, la tentazione, indica il fatto stesso della determinazione della libertà.
In breve, tutte le idee moderne sull’educazione dell’umanità non sono che una interpretazione, una filosofia della dottrina cattolica della grazia, dottrina che non parve oscura ai suoi autori se non in seguito alle loro idee sul libero arbitrio, che essi credevano minacciato dopo che si parlava della grazia o dell’origine delle sue determinazioni. Noi, al contrario, crediamo che la libertà, indifferente per se stessa a ogni modalità, ma destinata ad agire e comportarsi secondo un ordine stabilito, riceva il suo primo impulso dal Creatore che le ispira l’amore, l’intelligenza, il coraggio, la risoluzione e tutti i doni dello Spirito Santo, poi l’abbandona al lavoro dell’esperienza. Di qui ne segue che necessariamente la grazia è premovente, che senza di essa l’uomo non è capace di alcun bene, e che nondimeno il libero arbitrio spontaneamente compie con riflessione e scelta il proprio destino. In tutto ciò non esiste alcun mistero né alcuna contraddizione. – L’uomo, in quanto è buono, è buono; ma, come il tiranno descritto da Platone, che fu anch’egli un dottore della grazia, l’uomo porta in seno mille mostri, che il culto della giustizia e della scienza, la musica e la ginnastica, tutte le grazie d’occasione e di stato, devono vincere. Correggete una definizione in Sant’Agostino, e tutta questa dottrina della grazia, famosa per le dispute che suscitò e che causarono la Riforma, vi apparirà splendente di chiarezza e di armonia. E ora l’uomo è forse Dio?
Dio, nell’ipotesi teologica, è l’essere sovrano, assoluto, altamente sintetico, l’io infinitamente saggio e libero, per conseguenza infallibile e santo; è certo che l’uomo, sincretismo della creazione, punto d’unione di tutte le virtualità fisiche, organiche, intellettuali e morali manifestate dalla creazione; l’uomo perfezionabile e fallibile, non soddisfa per nulla le condizioni di Divinità che è della natura del suo spirito esprimere. Né egli è Dio né lo saprebbe divenire, vivendo.
A più forte ragione il cane, il leone, il sole, l’universo stesso, divisioni dell’assoluto, non sono Dio. Col medesimo colpo, l’antropolatria e la fisiolatria sono distrutte.
Si tratta ora di fare la contro-prova di questa teoria.
Abbiamo esaminata la moralità dell’uomo dal punto di vista delle contraddizioni sociali. Ci accingiamo ora ad apprezzare dal medesimo punto di vista, la moralità della Provvidenza. In altri termini, Dio, quale la speculazione e la fede lo danno all’adorazione dei mortali, è possibile?
2. – Esposizione del mito della Provvidenza. Retrogradazione di Dio
I teologi e i filosofi, tra le prove, in numero di tre, che sogliono portare intorno all’esistenza di Dio, pongono in prima linea il consenso universale.
Ho tenuto conto di quest’argomento allorché, senza rigettarlo o ammetterlo, mi sono domandato: che cosa afferma il consenso universale affermando un Dio?
E a questo proposito debbo ricordare che la differenza delle religioni non è una attestazione dell’errore nel quale sarebbe caduto il genere umano affermando fuori di sé un Io supremo, non più di quello che la diversità delle lingue sia un’attestazione della non realtà della ragione. L’ipotesi dì Dio, lungi dall’affievolirsi, si rafforza e si stabilisce con la divergenza stessa e con l’opposizione dei culti.
Un argomento di altro genere è quello che si trae dall’ordine del mondo. Ho osservato a questo riguardo che la natura spontaneamente affermando, con la voce dell’uomo, la propria divisione in spirito e materia, lasciava il dubbio se uno spirito infinito, un’anima del mondo, governasse e agitasse l’universo, come la coscienza, nella sua oscura istituzione, ci dice che uno spirito anima l’uomo. Se l’ordine fosse un indice infallibile della presenza dello spirito, non si potrebbe disconoscere nell’universo la presenza di un Dio.
Disgraziatamente, ciò non è dimostrato e non potrebbe esserlo.
Perché, da una parte, lo spirito puro, concepito come opposizione alla materia, è un’entità contraddittoria, di cui per conseguenza niente può attestare la realtà. D’altra parte certi esseri ordinati in se stessi quali i cristalli, le piante, il sistema planetario che nelle sensazioni che ci fanno provare, non rendono a noi, come agli animali, sentimento per sentimento, apparendoci del tutto sprovvisti di coscienza, non vi è più ragione di supporre uno spirito al centro del mondo se non mettendolo su di un bastone di zolfo; e si può fare in modo che se lo spirito, la coscienza, esiste in qualche posto, ciò sia unicamente nell’uomo.
Nondimeno, se l’ordine del mondo non può apprendere niente sull’esistenza di Dio, rivela che una cosa può darsi non meno preziosa e che ci servirà di guida nelle nostre ricerche; cioè che tutti gli esseri, tutte le essenze, tutti i fenomeni sono incatenati gli uni agli altri da un insieme di leggi risultanti dalle loro proprietà, insieme che io ho chiamato (Cap. III) fatalità o necessità.
Dunque che esista una intelligenza infinita, che abbraccia tutto il sistema di queste leggi, tutto il campo della fatalità; che a questa intelligenza infinita si unisca in una penetrazione intima una volontà suprema, eternamente determinata dall’insieme delle leggi cosmiche e per conseguenza infinitamente potente e libera; che infine queste tre cose, fatalità, intelligenza, volontà siano nell’universo contemporanee, l’una all’altra adeguate e identiche; è chiaro che qui non troviamo cosa che ci ripugni; ma è appunto qui l’ipotesi, è questo antropomorfismo che rimane da dimostrare.
Così, poiché l’attestazione del genere umano ci rivela un Dio, senza dirci ciò che possa essere questo Dio; l’ordine del mondo ci rivela una fatalità, cioè un insieme assoluto e perentorio di cause e di effetti, in una parola, un sistema di leggi, che sarebbe, se esistesse Dio, come la vista e la scienza di questo Dio.
La terza e ultima prova dell’esistenza di Dio proposta dai teisti, e da essi chiamata prova metafisica, non è altro che una costruzione tautologica delle categorie, che prova assolutamente niente.
Qualche cosa esiste, dunque esiste una cosa.
Qualche cosa è multiplo, dunque qualche cosa è uno.
Qualche cosa viene dopo qualche cosa, dunque qualche cosa è anteriore a qualche cosa.
Qualche cosa è più piccola o più grande di qualche cosa, dunque qualche cosa è più grande di ogni altra cosa.
Qualche cosa è mobile, dunque qualche cosa è motrice, ecc., all’infinito.
Ecco ciò che si chiama ancora oggi nelle facoltà e nei seminari, dal ministro della pubblica istruzione e dai signori vescovi, dare la prova metafisica dell’esistenza di Dio. Ecco ciò che il fiore della gioventù francese è condannato a belare a somiglianza dei professori, durante un anno, sotto pena di non ricevere i diplomi e di non potere studiare il diritto, la medicina, la tecnica e le scienze. Certamente, se vi è qualche cosa che possa sorprendere, è che con tale filosofia l’Europa non sia ancora atea. La persistenza dell’idea teista a lato del linguaggio delle scuole è il più grande dei miracoli; essa forma la sentenza più forte che si possa allegare in favore della Divinità. Ignoro ciò che l’umanità intenda per Dio.
Non posso affermare se è l’uomo, l’universo, o qualche altra realtà invisibile che si possa intendere sotto questo nome; o se questo nome non esprima che un ideale, un essere di ragione.
Nondimeno, per dare corpo alla mia ipotesi e forza alle mie ricerche, considererò Dio, seguendo l’opinione volgare, come un essere a parte, presente dovunque, separato dalla creazione, dotato di una vita che non finisce come di una scienza e di un’attività infinite; ma, soprattutto previdente, giusto punitore del vizio e compensatore della virtù. Metto da parte l’ipotesi panteistica, come una ipocrisia o come mancante di cuore. Dio è personale o non lo è; questa alternativa è l’assioma da dove dedurrò tutta la mia teodicea.
Per me si tratta, ora, senza preoccuparmi delle questioni che l’idea di Dio potrà sollevare più tardi, di sapere, in vista dei fatti di cui ho constatato l’evoluzione nella società, ciò che debbo pensare della condotta di Dio, quale si propone alla mia fede, e relativamente all’umanità. In una parola, è dal punto di vista dell’esistenza dimostrata del male che voglio, in aiuto della nuova dialettica, scandagliare l’Essere supremo.
Il male esiste; su questo punto ormai tutto il mondo pare d’accordo.
Ora, hanno domandato gli stoici, gli epicurei, i manichei, gli atei, come accordare la presenza del male con l’idea di un Dio eccezionalmente buono, saggio e potente? Come, dopo ciò, Dio, sia per impotenza, sia per intelligenza, sia per malevolenza, avendo lasciato introdursi il male nel mondo, ha potuto rendere responsabili dei loro atti creature che egli stesso aveva creato imperfette, e che abbandonava così a tutti i pericoli delle attrazioni?
Infine, poiché promette ai giusti dopo la morte una beatitudine inalterabile, o, in altri termini, poiché ci dà l’idea e il desiderio della felicità, perché non ce ne fa godere in questa vita togliendoci alla tentazione del male, invece di esporci a un’eternità di supplizi?
Tale è, nel suo vecchio tenore, la protesta degli atei.
Oggi non la si disputa molto; i teisti non s’inquietano più delle logiche impossibilità del loro sistema. Si vuole un Dio, una Provvidenza soprattutto; vi è concorrenza per questa cosa tra i radicali e i gesuiti. I socialisti predicano in nome di Dio la felicità e la virtù; nelle scuole, quelli che parlano più forte contro la Chiesa sono i primi dei mistici.
Gli antichi teisti erano più preoccupati della loro fede. Si sforzavano, se non di dimostrare, almeno di renderla ragionevole, ben sentendo, al contrario dei loro successori, che fuori della certezza non vi è dignità né riposo per il credente.
I Padri della Chiesa risposero dunque agli increduli che il male non è che la privazione di un più grande bene, e che ragionando sempre del meglio, si manca di un punto di appoggio dove potersi fissare, ciò che conduce diritto all’assurdo. In effetti ogni creatura essendo per necessità limitata e imperfetta, Dio, con la sua potenza infinita, può senza fine aumentare la sua perfezione; a questo riguardo c’è sempre, a qualunque grado, privazione del bene nella creatura. Reciprocamente, per quanto imperfetta e limitata si supponga, dal momento che la creatura esiste, essa gode di un certo grado di bene, migliore per essa del nulla. Dunque! se è di regola che l’uomo non è creduto buono che fino a tanto che compie tutto il bene che può fare, non è lo stesso di Dio, poiché l’obbligazione di fare del bene all’infinito è contraddittoria alla facoltà stessa del creare; perfezione e creatura essendo due termini che necessariamente si escludono. Dio dunque sarà solo giudice del grado di perfezione che converrà dare a ogni creatura; intentare sotto questo riguardo un’accusa contro di lui, è calunniare la sua giustizia.
Quanto al peccato, cioè al male morale, i Padri avevano, per rispondere alle obiezioni degli atei, le teorie del libero arbitrio, della redenzione, della giustificazione e della grazia, sulle quali non dobbiamo più ritornare.
Non so se gli atei abbiano replicato in modo categorico a questa teoria dell’imperfezione naturale della creatura, teoria riprodotta con successo da [Félicité] De Lamennais nel suo Esquisse [d’une philosophie, Paris 1840]. Infatti, era impossibile che così rispondessero; perché, ragionando con un falso concetto del male e del libero arbitrio, e con l’ignoranza profonda delle leggi dell’umanità, mancavano ugualmente loro le ragioni, sia per trionfare del dubbio, sia per confutare i credenti.
Usciamo dalla sfera del finito e dell’infinito, e portiamoci nel concetto dell’ordine.
Dio può fare un circolo rotondo, un quadrato ad angoli retti? – Certamente.
Dio sarebbe colpevole se, dopo aver creato il mondo secondo le leggi della geometria, ci avesse messo nello spirito, o soltanto lasciato credere, senza che vi fosse nostro errore, che un circolo può essere quadrato, o un quadrato circolare, allorché da questa falsa opinione dovesse risultare per noi una serie incalcolabile di mali? – Senza dubbio.
Ebbene! Ecco precisamente ciò che Dio, il Dio della Provvidenza ha fatto nel Governo dell’umanità; ecco ciò di cui l’accuso. Egli lo sapeva da tutta l’eternità, poiché, noi, mortali, l’abbiamo scoperto dopo seimila anni di dolorosa esperienza, che l’ordine nella società, cioè la libertà, la ricchezza, la scienza, si realizzano con la conciliazione di idee contrarie che, prese ciascuna in particolare come assolute, dovevano precipitare in un abisso di miseria; perché non ci ha avvertito? perché fin da principio non ha raddrizzato il nostro giudizio? perché ci ha abbandonato alla nostra logica imperfetta, allorché soprattutto il nostro egoismo doveva avvertirlo con le sue ingiustizie e con le sue perfidie? Egli sapeva, questo Dio geloso, che lasciandoci agli accidenti dell’esperienza, non avremmo trovato che tardi questa sicurezza della vita che forma tutta la nostra felicità; perché, con una rivelazione delle nostre leggi, non abbreviò questa lunga scuola? perché, invece di affascinarci con opinioni contraddittorie, non abbreviò l’esperienza, facendoci passare per via di analisi dalle idee sintetiche alle antinomie, invece di lasciarci arrampi-care penosamente per l’erta cima dall’antinomia alla sintesi?
Se, come si pensava altre volte, il male che soffre l’umanità proveniva solo dall’imperfezione inevitabile in ogni creatura; diciamo meglio, se questo male non aveva per causa che l’antagonismo delle virtualità e inclinazioni che costituiscono il nostro essere, e che la ragione deve apprenderci a padroneggiare e condurre, non avremmo diritto di sollevare lamenti. La nostra condizione essendo quella che poteva essere, Dio sarebbe giustificabile.
Ma, davanti a questa illusione volontaria dell’intelletto, illusione che era così facile dissipare, e i cui effetti dovevano essere così terribili, dove è la scusa della Provvidenza? Non è forse vero che qui la grazia mancò all’uomo? Dio, che la fede presenta come un padre tenero e un padrone prudente, ci abbandona alla fatalità dei concetti incompleti; scava la fossa sotto i nostri piedi; ci fa andare alla cieca; e poi, a ogni caduta, ci punisce come perversi. Che dico? Pare che sia contro la sua volontà che finalmente, tutti indolenziti dal viaggio, riconosciamo la nostra via; come fosse offendere la sua gloria col diventare, per le prove che ci impone, più intelligenti e liberi. Dunque, che cosa abbiamo bisogno di domandare senza posa alla Divinità, e che cosa vogliono questi satelliti di una Provvidenza, che, dopo sessanta secoli, con l’aiuto di mille religioni, ci inganna e ci svia?
Dio con i suoi facitori di nuove leggi e con la legge che ha posto nei nostri cuori, ci comanda di amare il prossimo come noi stessi, di fare agli altri ciò che desideriamo che sia fatto a noi, di rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto; di non fare frode alcuna sul salario dell’operaio, di non dare a prestito con usura; sa inoltre che la carità in noi è debole, la coscienza vacillante, e che il minimo pretesto ci appare sempre una ragione sufficiente per sottrarci alla legge; ed è con tali disposizioni che ci impegna nelle contraddizioni del commercio e delle proprietà, là dove, per la fatalità delle teorie, devono cessare assolutamente la carità e la giustizia? Invece di rischiarare la ragione sull’importanza dei princìpi che ad essa s’impongono con tutto il peso della necessità, ma le cui conseguenze, adottate dall’egoismo, sono indispensabili all’umana fratellanza, pone questa ragione ingannata al servizio delle passioni; distrugge, con la seduzione dello spirito, l’equilibrio della coscienza; giustifica ai nostri occhi le usurpazioni e l’avarizia; rende inevitabile, legittima la separazione dell’uomo dal suo simile; crea tra di noi la divisione e l’invidia, rendendo l’eguaglianza col lavoro e col diritto impossibile; ci fa credere che questa uguaglianza, legge del mondo, è ingiusta tra gli uomini; e poi ci proscrive in massa per non avere saputo praticare i suoi precetti incomprensibili! Certo, credo di aver provato che l’abbandono della Provvidenza non ci giustifica; ma qualunque sia il nostro delitto non siamo colpevoli davanti ad essa; e se vi è un essere che, prima di noi e più di noi, si sia meritato l’inferno, bisogna che lo nomini: è Dio.
Allorché i teisti, per stabilire il loro dogma della Provvidenza, indicano come prova l’ordine della natura, quantunque quest’argomento non sia che una petizione di principio, tuttavia non si può dire che implichi contraddizione, e che il fatto indicato sia contro l’ipotesi. Nulla, per esempio, nel sistema del mondo, scopre la più piccola anomalia, la più leggera imprevidenza, di dove si possa dedurre un pregiudizio qualunque contro l’idea di un motore supremo, intelligente, personale. In una parola, se l’ordine della natura non prova la realtà di una Provvidenza, neanche la contraddice.
È tutt’altra cosa nel governo dell’umanità. Qui l’ordine non appare nello stesso tempo che la materia; non è stato creato, come nel sistema del mondo, una volta e per l’eternità. Si sviluppa gradatamente, secondo una serie fatale di princìpi e di conseguenze che l’essere umano stesso, l’essere che si trattava di regolare, deve spontaneamente scoprire, con la propria energia, con la sollecitazione dell’esperienza. Nessuna rivelazione a questo riguardo gli è fatta. L’uomo è sottomesso, dalla sua origine, a una necessità prestabilita, a un ordine assoluto e irresistibile.
Ma quest’ordine, bisogna pure che si realizzi, che l’uomo lo scopra; questa necessità bisogna che esista, che l’indovini. Questo lavoro d’invenzione potrebbe essere abbreviato; niente, né dal cielo né sulla terra, verrà in soccorso all’uomo; nulla lo istruirà. L’umanità, durante centinaia di secoli, divorerà le sue generazioni; si esaurirà nel sangue e nel fango senza che il Dio che adora venga una sola volta ad illuminare la sua ragione e abbreviare la sua prova. Dov’è qui l’azione divina? Dov’è la Provvidenza?
Se Dio non esistesse – è Voltaire, il nemico delle religioni, che parla, bisognerebbe inventarlo. Per qual ragione? “Perché – aggiunge lo stesso Voltaire, se avessi da trattare con un principe ateo che avesse interesse a farmi pestare in un mortaio, sono certo che io sarei pestato”. Strana aberrazione di un grande spirito! E se voi dovete trattare con un principe devoto, al quale comandasse il suo confessore, da parte di Dio, di bruciarvi vivo, non sareste ben certi d’essere bruciati? Dimenticate dunque, voi anticristo, l’inquisizione, la strage di san Bartolomeo, e i roghi di Vanini e di Bruno, le torture di Galileo e il martirio di tanti liberi pensatori?... Non distinguete tra uso e abuso; perché, replicherò, che le conseguenze di un principio mistico e soprannaturale, di un principio che tutto abbraccia, che spiega tutto, che giustifica tutto, come l’idea di Dio, sono tutte legittime, e che lo zelo del credente è il solo giudice in merito.
“Altre volte ho creduto – dice Rousseau – che si potesse essere onesto senza necessità di Dio; ma da questo errore mi sono ricreduto”. Lo stesso ragionamento, in fondo, di Voltaire, la stessa giustificazione dell’intolleranza; l’uomo fa il bene e non s’astiene dal male che con la considerazione di una Provvidenza che lo sorveglia; anatema a coloro che la negano! E, per colmo di derisione, lo stesso uomo che domanda così per la nostra virtù la sanzione di una Divinità remuneratrice e vendicatrice, è pure colui che insegna come dogma di fede la bontà nativa dell’uomo.
E io dico: il primo dovere dell’uomo intelligente e libero è di scacciare incessantemente dal suo spirito e dalla sua coscienza l’idea di Dio. Perché Dio, se esiste, è essenzialmente nemico della nostra natura, e non guadagniamo alcuna cosa dalla sua autorità. Suo malgrado arriviamo alla scienza, suo malgrado arriviamo al benessere, alla società; ciascuno dei nostri progressi è una vittoria nella quale schiacciamo la Divinità.
Non si dica più: le vie di Dio sono impenetrabili! Noi siamo penetrati in queste vie, abbiamo letto in caratteri di sangue le prove dell’impotenza, se non del cattivo volere di Dio. La mia ragione, da lungo tempo umiliata, a poco a poco si innalza al livello dell’infinito; col tempo essa scoprirà tutto ciò che la sua inesperienza le sottrae; col tempo sarò di meno in meno artefice di sventura, e per i lumi che avrò acquistato, per il perfezionamento della mia libertà, mi purificherò, idealizzerò il mio essere, e diventerò il capo della creazione, eguale a Dio.
Un solo istante di disordine, che l’Onnipossente avrebbe potuto impedire e che non ha impedito, accusa la sua Provvidenza e pone in rilievo il difetto della sua saggezza; il minimo progresso che l’uomo, ignorante, abbandonato e tradito, compie verso il bene, lo onora senza misura. Con qual diritto Iddio mi dirà ancora: sii santo, perché io lo sono? Spirito mentitore, gli dirò, Dio imbecille, il tuo regno è finito; cerca altre vittime tra le bestie. So che non sono santo e che mai lo potrò diventare; in qual modo lo saresti tu, se ti assomiglio? Padre eterno, Giove o Jehova, abbiamo imparato a conoscerti; tu sei, fosti, e sarai per sempre il geloso di adamo, il tiranno di Prometeo.
Così, non cado nel sofisma confutato da san Paolo allorché difendendo il vaso, dice al vasaio: perché mi hai fatto in questa maniera? Non rimprovero all’autore delle cose di avermi fatto creatura disarmonica, insieme incoerente: non potrei esistere che a questa condizione. Mi contento di dirgli: perché m’inganni? Perché col tuo silenzio hai scatenato in me l’egoismo? Perché mi hai sottomesso alla tortura del dubbio universale, con l’amara illusione delle idee antagoniste che avevi messo nel mio intelletto? Dubbio della verità, dubbio della giustizia, dubbio della coscienza e della libertà, dubbio di te stesso, o Dio! E come conseguenza di questo dubbio, necessità della guerra con me stesso e col mio prossimo! Ecco, Padre supremo, ciò che hai fatto per nostra felicità e per tua gloria; ecco quali furono, fin da principio, la tua volontà e il tuo governo; ecco il pane, impastato di sangue e di lacrime, di cui tu ci hai nutriti. Gli errori di cui ti domandiamo la remissione, sei tu che ce li fai commettere; gli agguati da cui ti scongiuriamo di liberarci, sei tu che li hai tesi; e il Satana che ci assedia, questo Satana sei tu.
Tu trionfavi, e nessuno osava contraddirti, quando, dopo aver tormentato il giusto Giobbe nel corpo e nell’anima, figura dell’umanità nostra, insultavi la sua candida pietà, la sua discreta e rispettosa ignoranza. Noi eravamo esseri nulli davanti alla maestà invisibile, cui davamo il cielo per baldacchino e la terra per sgabello. E ora eccoti detronizzato e infranto. Il tuo nome, da sì lungo tempo l’ultima parola del sapiente, la sanzione del giudice, la forza del principe, la speranza del povero, il rifugio del colpevole pentito; questo nome non comunicabile, d’ora innanzi dedicato al disprezzo e all’anatema, sarà fischiato dagli uomini. Poiché Dio è sciocchezza e viltà; Dio è ipocrisia e menzogna; Dio è tirannia e miseria; Dio è male. Fino a quando l’umanità si inchinerà davanti a un altare, l’umanità, schiava dei re e dei preti, sarà riprovata; fino a quando un uomo, in nome di Dio, riceverà giuramento da un altro uomo, la società sarà fondata sullo spergiuro; la pace e l’amore saranno banditi dai mortali. Dio, ritirati! poiché d’ora innanzi, io, guarito dalla paura, e divenuto saggio, giuro, con la mano stesa verso il cielo, che tu non sei che il carnefice della mia ragione, lo spettro della mia coscienza.
Nego la supremazia di Dio sull’umanità; respingo il suo governo provvidenziale, la cui non esistenza è insufficientemente provata con le allucinazioni metafisiche ed economiche dell’umanità, in una parola, col martirio della specie; nego la giurisdizione dell’Essere supremo sull’uomo; gli tolgo i titoli di padre, di re, di giudice buono, clemente, misericordioso, soccorritore, remuneratore e vendicatore.
Tutti questi attributi, di cui si compone l’idea di Provvidenza, sono una caricatura dell’umanità, inconciliabile con l’autonomia della civiltà e inoltre smentita dalla storia delle sue aberrazioni e delle sue catastrofi. Ne segue forse che Dio non può più essere compreso come Provvidenza, perché gli togliamo questo attributo così importante per l’uomo, da non avere esitato a farne il sinonimo di Dio, che Dio non esista, e che la falsità del dogma teologico sia, quanto alla realtà del contenuto, oggi dimostrata?
Ahimè! no. È stato distrutto un pregiudizio relativo all’essenza divina; con lo stesso colpo, è stata constatata l’indipendenza dell’uomo; ecco tutto. La realtà dell’Essere divino è stata pregiudicata, e la nostra ipotesi sussiste sempre. Dimostrando, a proposito della Provvidenza, che era impossibile che Dio fosse, abbiamo fatto un primo passo nella determinazione dell’idea di Dio; ora si tratta di sapere se questo primo passo va d’accordo con ciò che rimane dell’ipotesi, per conseguenza si tratta di determinare, dal medesimo punto di vista dell’intelligenza, ciò che Dio è, se egli esiste.
Poiché, nello stesso modo che dopo aver constatata la colpevolezza dell’uomo sotto l’influenza delle contraddizioni economiche, abbiamo dovuto dare ragione di questa colpevolezza, sotto pena di lasciare l’uomo mutilato, e di avere fatto di lui una satira disprezzabile; nello stesso modo, dopo aver riconosciuta la chimera di una Provvidenza in Dio, dobbiamo cercare in qual modo questo difetto della Provvidenza si concili con l’idea di una intelligenza e di una libertà sovrane, sotto pena di mancare all’ipotesi proposta, e che nulla ancora prova essere falsa.
Dunque, affermo che Dio, se un Dio c’è, non assomiglia punto all’effige che ne hanno fatto i filosofi e i preti; che non pensa e non agisce secondo la legge di analisi, di previdenza e di progresso, che è il segno distintivo dell’uomo; che, al contrario, pare piuttosto seguire una marcia inversa e retrograda; che l’intelligenza, la libertà, la personalità in Dio sono costituite diversamente che in noi; e che questa originalità di natura, perfettamente motivata, fa di Dio un essere essenzialmente anti-civilizzatore, anti-liberale, anti-umano.
Provo la mia proposizione andando dal negativo al positivo, cioè deducendo dalle obiezioni la verità della mia tesi del progresso.
1° – Dio, dicono i credenti, non può essere concepito che come infinitamente buono, infinitamente saggio, infinitamente potente, ecc., tutta la litania degli infiniti.
Ora, l’infinita perfezione non si può conciliare col dato di una volontà indifferente o reazionaria al progresso; dunque, o Dio non esiste, o l’obiezione dedotta dallo sviluppo delle antinomie, è prova dell’ignoranza in cui noi siamo dei misteri dell’infinito.
Rispondo a questi ragionatori che se, per legittimare un’opinione del tutto arbitraria, basta basarsi sulla profondità dei misteri, io amo tanto il mistero di un Dio senza Provvidenza, quanto quello di una Provvidenza senza efficacia. Ma, alla presenza dei fatti, non vi è mezzo d’invocare un simile probabilismo; bisogna attenersi alla positiva dichiarazione dell’esperienza. Ora, l’esperienza e i fatti provano che l’umanità, nel suo sviluppo, obbedisce a una inflessibile necessità, le cui leggi si svolgono, e il cui sistema si realizza a misura che la ragione collettiva lo scopre, senza che nulla, nella società attesti un’esterna istigazione, né un provvidenziale comandamento, né alcun sovrumano pensiero. Ciò che fece credere alla Provvidenza, è questa necessità stessa, che è come il fondo e l’essenza dell’umanità collettiva. Ma, questa necessità per sistematica e progressiva che essa appaia, non costituisce per ciò, né nell’umanità né in Dio, una Provvidenza; basta, per convincersene, ricordarsi le infinite oscillazioni, e i dolorosi tentativi con i quali si manifesta l’ordine sociale.
2° – Altri argomentatori in contrasto dicono: con qual scopo queste ricerche astruse? Non vi è più intelligenza che Provvidenza; non vi è né io, né volontà nell’universo, eccetto l’uomo. Tutto ciò che accade, di male come di bene, accade necessariamente. Un insieme irresistibile di cause e di effetti stringe l’uomo e la natura nella stessa fatalità; e ciò che chiamiamo in noi stessi coscienza, volontà, giudizio, ecc., non sono che particolari accidenti di un tutto eterno, immutabile, fatale.
Questo argomento è il rovescio del precedente. Consiste nel sostituire all’idea di un autore onnipossente e saggio quella di un coordinamento necessario ed eterno, ma incosciente e cieco. Questa opposizione ci fa presentire che la dialettica dei materialisti non è più solida di quella dei credenti.
Chi dice necessità o fatalità, dice ordine assoluto e inviolabile; chi al contrario dice perturbazione e disordine, afferma tutto ciò che vi è di più ripugnante alla fatalità. Ora, vi è disordine nel mondo, disordine prodotto dalla fuga di forze spontanee che non incatena potenza alcuna; come può darsi ciò, se tutto è fatale?
Ma chi non scorge che questa antica polemica del teismo e del materialismo proviene da una falsa nozione della libertà e della fatalità, due termini che furono considerati come contraddittori, mentre in realtà non lo sono? Se l’uomo è libero, si dice da alcuni, Dio, a più forte ragione, è anche libero, e la fatalità non è che una parola; – se tutto è incatenato nella natura, soggiungono altri, non vi è né libertà né Provvidenza; e ognuno s’accinge ad argomentare a perdita d’occhio, secondo la direzione presa, senza mai comprendere che questa opposizione della libertà e della fatalità non era che la distinzione naturale, ma non antitetica, dei fatti dell’attività da quelli dell’intelligenza.
La fatalità è l’ordine assoluto, la legge, il codice, il fatum, della costituzione dell’universo. Ma lungi dal fatto che questo codice escluda per se stesso l’idea di un legislatore sovrano, la suppone così naturalmente, che tutta l’antichità non ha esitato ad ammetterlo; e tutta la questione oggi consiste nel sapere se, come l’hanno creduto i fondatori delle religioni, nell’universo il legislatore abbia preceduto la legge, cioè se l’intelligenza sia anteriore alla fatalità, o se, come vogliono i moderni, sia la legge che abbia preceduto il legislatore, in altri termini, se Io spirito sia nato dalla natura. Prima o dopo, questa alternativa riassume tutta la filosofia. È minore male che si disputi sulla posteriorità o anteriorità dello spirito; ma che lo si neghi in nome della fatalità, è una esclusione per nulla giustificata. Basta, per confutarla, ricordare il fatto stesso sul quale si fonda, l’esistenza del male.
Essendo date la materia e l’attrazione, il sistema del mondo ne è il prodotto; ecco quel ch’è fatale. Essendo date due idee correlative e contraddittorie, deve seguire una composizione; ecco ancora che cosa è fatale. Ciò che ripugna alla fatalità non è la libertà, la cui destinazione al contrario è di procurare, in una certa sfera, il compimento della fatalità; è il disordine, è tutto ciò che impedisce l’esecuzione della legge. Esiste, sì o no, disordine nel mondo? I fatalisti non lo negano, poiché, per il più strano errore, è la presenza del male che li ha resi fatalisti. Ora, dico che la presenza del male, lontano dall’affermare la fatalità, rompe la fatalità, fa violenza al destino, e suppone una causa il cui effetto erroneo, ma volontario, è discorde dalla legge.
Questa causa, la chiamo libertà; e ho provato (Cap. IV) che la libertà, nello stesso modo che la ragione, che all’uomo serve da fiaccola, è altrettanto grande e perfetta quanto meglio s’armonizza con l’ordine della natura, che è la fatalità.
Dunque, opporre la fatalità all’attestazione della coscienza che si sente libera, e viceversa, è provare che si prendono le idee al contrario e che non si ha la minima conoscenza della questione. Il progresso dell’umanità si può definire l’educazione della ragione e della libertà umana con la fatalità; è assurdo riguardare questi tre termini come escludendosi l’un l’altro e inconciliabili, quando in realtà si sostengono, la fatalità servendo di base, la ragione venendo dopo, e la libertà coronando l’edificio. La ragione umana tende a conoscere e a penetrare la fatalità; la libertà aspira a conformarsi; e la critica, alla quale ci diamo in questo momento, dello sviluppo spontaneo e delle credenze istintive del genere umano, in fondo non è che uno studio della fatalità. Spieghiamo ciò.
L’uomo, dotato di attività e d’intelligenza, può smuovere l’ordine del mondo, del quale fa parte. Ma tutti i suoi traviamenti sono stati previsti, e si compiono in certi limiti che, dopo un certo numero di andate e ritorni, riconducono l’uomo all’ordine.
È da queste oscillazioni della libertà che si può determinare il giro dell’umanità nel mondo; e poiché il destino del mondo è legato a quello delle creature, è possibile risalire alla legge suprema delle cose, e fino alle fonti dell’essere.
Così non domanderò più: come mai l’uomo ha il potere di violare l’ordine provvidenziale, e come mai la Provvidenza lo lascia fare? Pongo la questione in altri termini: come mai l’uomo, parte integrante dell’universo, prodotto della fatalità, può rompere la fatalità? Come mai un’organizzazione fatale, l’organizzazione dell’umanità, è avventizia, illogica, piena di tumulti e di catastrofi?
La fatalità non dipende da un’ora, da un secolo, da mille anni: perché la scienza e la libertà, se è deciso che debbano arrivare, non giungono più presto? Per ciò che soffriamo per l’attesa, la fatalità è in contraddizione con se stessa; col male, non vi è né fatalità né Provvidenza.
In una parola, perché a ogni istante una fatalità è smentita dai fatti che succedono nel suo seno? Ecco ciò che i fatalisti debbono spiegare, come i teisti debbono spiegare ciò che può essere una intelligenza infinita, che non sa né prevedere né prevenire la miseria delle sue creature.
Ma ciò non è tutto. Libertà, intelligenza, fatalità, in fondo sono tre espressioni adeguate, che servono a designare tre facce differenti dell’essere. Nell’uomo, la ragione non è che una libertà determinata, che sente il suo limite. Ma questa libertà è, nel cerchio delle sue determinazioni, fatalità, una fatalità viva e personale. Dunque, quando la coscienza del genere umano proclama che la fatalità dell’universo, cioè la più grande, la suprema fatalità, è adeguata a una ragione come a una libertà infinita, essa non fa che emettere una ipotesi in ogni modo legittima, la cui verificazione si impone a tutti i partiti.
3° – Attualmente gli umanisti, i nuovi atei, si presentano e dicono: l’umanità, nel suo insieme, è la realtà perseguitata dal genio sociale sotto il nome mistico di Dio. Questo fenomeno della ragione collettiva, specie di miraggio nel quale l’umanità, contemplando se stessa, si crede un essere esteriore e trascendente che lo guarda e presiede ai suoi destini, questa illusione della coscienza, diciamo, è stata analizzata e spiegata: e d’ora innanzi è meglio ritornare indietro nella scienza che riprodurre l’ipotesi teologica. Bisogna attaccarsi unicamente alla società, all’uomo. Dio in religione, lo Stato in politica, la proprietà in economia, tale è la triplice forma sotto la quale l’umanità, divenuta straniera a se stessa, non ha cessato di lacerarsi con le proprie mani, e che deve oggi rigettare.
Ammetto che l’affermazione o l’ipotesi della Divinità proviene da un antropomorfismo, e che Dio non è dapprima che l’ideale, o, per meglio dire, lo spettro dell’uomo. Ammetto di più che l’idea di Dio è il tipo e il fondamento del principio di autorità e di arbitrio, che il nostro compito è di distruggere o almeno di limitare dovunque si manifesti, nella scienza, nel lavoro, nella città. Così non contraddico l’umanismo, ma lo prolungo. Impadronendomi della sua critica dell’essere divino, e applicandola all’uomo, osservo:
– Che l’uomo, adorandosi come Dio, ha posto da se stesso un ideale contrario alla propria essenza, e si è dichiarato antagonista dell’essere creduto sovranamente perfetto, in una parola, dell’infinito.
– Che l’uomo non è di conseguenza, a suo giudizio, che una falsa divinità, poiché affermando Dio, nega se stesso; e che l’umanismo è una religione tanto detestabile quanto tutti i teismi di antica origine.
– Che questo fenomeno dell’umanità che si prende per Dio non si spiega con i termini dell’umanismo, e reclama un’ulteriore interpretazione.
Dio, secondo il concetto teologico, non è solo l’arbitro sovrano dell’universo, il re infallibile e irresponsabile delle creature, il tipo intelligibile dell’uomo; è l’essere eterno, immutabile, presente dovunque, infinitamente saggio, infinitamente libero. Ora, questi attributi di Dio contengono più che un ideale, più che un’elevazione a potenza degli attributi corrispondenti dell’umanità; dico che ne sono la contraddizione.
Dio è contraddittorio all’uomo; nello stesso modo che la carità lo è alla giustizia: la santità, ideale della perfezione, alla perfettibilità; la dignità regia, ideale della potenza legislativa, alla legge, ecc. Di maniera che l’ipotesi divina rinasce dalla sua risoluzione nella realtà umana e il problema di un’esistenza completa, armonica e assoluta, sempre allontanato, ritorna sempre.
Per dimostrare questa antinomia radicale, basta mettere i fatti in paragone delle definizioni.
Di tutti i fatti, il più certo, il più costante, il più indubitabile, è certamente che nell’uomo la conoscenza è progressiva, metodica, riflessiva, in una parola, sperimentale; a tal segno che tutta la teoria privata della sanzione dell’esperienza, cioè della costanza e della serie delle sue rappresentazioni, manca per ciò stesso di carattere scientifico. A questo riguardo, non si saprebbe sollevare il minimo dubbio. I matematici stessi, qualificati puri, ma assoggettati alla serie delle proposizioni, per ciò stesso rivelano l’esperienza, e riconoscono la loro legge.
La scienza dell’uomo, partendo dall’osservazione acquistata, progredisce e avanza in una sfera senza limiti. Il termine al quale mira, l’ideale che tenta di realizzare, ma senza mai poterlo raggiungere e anzi tornando indietro senza posa, è l’infinito, l’assoluto.
Ora, che cosa sarebbe una scienza infinita, una scienza assoluta, determinando una libertà pure infinita, come la speculazione la suppone in Dio? Sarebbe una conoscenza non solo universale, ma intuitiva, spontanea, pura da ogni esitazione come da ogni obiettività, quantunque abbracci in una volta il reale e il possibile; una scienza certa, ma non dimostrativa; completa, non dedotta; una scienza che, essendo eterna nella formazione, sarebbe spoglia d’ogni carattere di progresso nel rapporto delle sue parti.
La psicologia ha raccolto numerosi esempi di questo modo di conoscere: le facoltà istintive e divinatorie degli animali; l’intelletto spontaneo di certi uomini nati calcolatori e artisti, indipendentemente da ogni educazione; infine, la maggior parte delle istituzioni umane e dei monumenti primitivi, prodotti di un genio incosciente e indipendente dalle teorie. E i movimenti così regolari, così complicati dei corpi celesti; le meravigliose combinazioni delle materie; non si dirà che tutto ciò è effetto di un istinto particolare, inerente agli elementi?...
Dunque, se Dio esiste, qualche cosa di lui ci appare nell’universo e in noi stessi; ma questo qualche cosa è in opposizione flagrante con le nostre tendenze più autentiche, col nostro più certo destino; questo qualche cosa si cancella continuamente dall’anima con l’educazione, e ogni nostra cura è di farlo sparire.
Dio e uomo sono due nature che si sfuggono, da quando si conoscono; non si riconcilieranno a meno di una trasformazione dell’uno o dell’altro o di tutti e due? Come mai, se il progresso della ragione ha per scopo di allontanarci sempre dalla Divinità, Dio e l’uomo, nella ragione, sarebbero così identici? Come mai, in conseguenza, l’umanità con l’educazione potrebbe diventare Dio?
Prendiamo un altro esempio.
Il carattere essenziale della religione è il sentimento. Con la religione, l’uomo attribuisce a Dio il sentimento, come gli attribuisce la ragione; di più afferma, seguendo il cammino ordinario delle sue idee, che il sentimento in Dio, nello stesso modo che la scienza, è infinito.
Ora, solo ciò basta per cambiare in Dio la qualità del sentimento, e farne un attributo totalmente distinto da quello dell’uomo. Nell’uomo, il sentimento deriva da diverse sorgenti; si contraddice, si turba, si tormenta da se stesso; senza di ciò non si avvertirebbe. In Dio, al contrario, il sentimento è infinito, cioè pieno, fisso, limpido, al disopra delle tempeste, e non avente alcun bisogno d’inasprirsi col contrasto per arrivare alla felicità. Facciamo noi stessi l’esperienza di questo modo divino di sentire, allorché un unico sentimento, togliendoci tutte le facoltà, come nell’estasi, impone silenzio momentaneamente a tutti gli altri affetti. Ma questo rapimento non esiste che per mezzo del contrasto e con una specie di provocazione avvenuta altrove; non è mai perfetto, dove arriva alla pienezza, è come l’astro che raggiunge il suo apogeo in un istante indivisibile.
Così, viviamo, sentiamo, pensiamo, per una serie d’opposizioni e di scosse, per una guerra intestina; il nostro ideale non è un infinito, ma un equilibrio; l’infinito esprime una cosa diversa.
Si dice: Dio non ha attributi che gli siano propri; i suoi attributi sono quelli dell’uomo; dunque, l’uomo e Dio, fanno una sola e medesima cosa.
Tutto al contrario, gli attributi dell’uomo, essendo infiniti in Dio, sono per ciò stesso propri e specifici; è il carattere dell’infinito di diventare specialità, essenza, perciò esiste il finito.
Dunque si neghi la realtà di Dio, come si nega la realtà di una idea opposta; si respinga dalla scienza e dalla morale questo fantasma incomprensibile e insanguinato, che più si allontana, più sembra perseguitarci; ciò può, fino a un certo punto, giustificarsi, e in ogni caso non può nuocere, Ma non si faccia di Dio l’umanità, poiché sarebbe calunniare l’uno e l’altra.
Si dirà che l’opposizione tra l’uomo e l’essere divino è illusoria, e che proviene dall’opposizione che esiste tra l’uomo individuale e la natura dell’umanità intera? Allora è necessario sostenere che l’umanità, poiché si deifica, è infinita in tutto; ciò che è smentito non solo dalla storia, ma dalla psicologia.
Non è così che bisogna intenderla, esclamano gli umanisti. Per avere l’ideale dell’umanità, bisogna considerarla non nel suo sviluppo storico, ma nell’insieme delle sue manifestazioni, come se tutte le umane generazioni, riunite in un medesimo istante, formassero un solo uomo, un uomo infinito e immortale.
Vuol dire che si abbandona la realtà per cogliere una proiezione, che l’uomo vero non è l’uomo reale; che per trovare il vero uomo, l’ideale umano, bisogna uscire dal tempo ed entrare nell’eterno, che dico? abbandonare il finito per l’infinito, l’uomo per Dio! L’umanità, quale la conosciamo, quale si sviluppa, quale in una parola può esistere, è diritta; ci si fa vedere l’immagine al rovescio come in un cristallo, e poi ci si dice: Ecco l’uomo! E io rispondo: Non è più l’uomo, è Dio. L’umanismo è il più perfetto teismo.
Cosa dunque è questa provvidenza, che suppongono in Dio i teisti? Una facoltà essenzialmente umana, un attributo antropomorfico, col quale Dio è creduto guardare nell’avvenire secondo il progresso degli avvenimenti, nello stesso modo che noi uomini guardiamo al passato, seguendo la prospettiva della cronologia e della storia.
Ora è manifesto che come l’infinito, cioè l’intuizione spontanea e universale nella scienza ripugna all’umanità, così la provvidenza ripugna all’ipotesi di un essere divino. Dio, per cui tutte le idee sono eguali e simultanee; Dio, la cui ragione non separa la sintesi dall’antinomia; Dio, cui l’eternità rende tutte le cose presenti e contemporanee, non ha potuto, creandoci, rivelarci il mistero delle nostre contraddizioni; e ciò perché non vede la contraddizione, perché la sua intelligenza non va soggetta alla categoria del tempo e alla legge del progresso, che la sua ragione è intuitiva, e la sua scienza infinita.
La provvidenza in Dio è una contraddizione in un’altra contraddizione; è per la provvidenza che Dio fu veramente fatto ad immagine dell’uomo; togliete questa provvidenza, Dio cessa d’essere uomo, e l’uomo a sua volta deve abbandonare tutte le pretese alla divinità.
Forse si domanderà che cosa serve a Dio avere la scienza infinita, se ignora ciò che accade nell’umanità.
Distinguiamo. Dio ha la percezione dell’ordine, il sentimento del bene. Ma quest’ordine, questo bene, lo vede come eterno e assoluto; non lo vede in ciò che offre di successivo e d’imperfetto; non ne comprende i difetti. Noi soli siamo capaci di vedere, di sentire e di apprezzare il male, come di misurare la durata; poiché siamo capaci di produrre il male e la nostra vita è temporanea. Dio non vede, non sente che l’ordine; Dio non comprende ciò che accade, perché ciò che accade è al disotto di lui, al disotto del suo orizzonte. Noi, al contrario, vediamo in una volta il bene e il male; il temporaneo e l’eterno, l’ordine e il disordine, il finito e l’infinito; vediamo in noi e fuori di noi; e la nostra ragione, finita, oltrepassa il nostro orizzonte.
Così, con la creazione dell’uomo e lo sviluppo della società, una ragione finita e provvidenziale, la nostra, è stata messa in opposizione alla ragione intuitiva e infinita, Dio; di modo che, Dio, senza perdere nulla della sua infinità in ogni senso, pare, per il solo fatto dell’esistenza dell’umanità, diminuito. La ragione progressiva risultando dalla proiezione delle idee eterne sul piano mobile e inclinato del tempo, l’uomo può intendere il linguaggio di Dio, perché egli viene da Dio, e la sua ragione è simile nel principio a quella di Dio; ma Dio non ci può intendere, né venire fino a noi, perché è infinito, e non può rivestire gli attributi del finito, senza cessare di essere Dio, senza distruggersi. Il dogma della provvidenza in Dio è dimostrato falso in fatto e in diritto.
È facile ora vedere in che modo la stessa argomentazione si rivolge contro il sistema della deificazione dell’uomo.
Affermandosi da uomo fatalmente Dio come assoluto e infinito nei suoi attributi, in quanto egli stesso si sviluppa in senso inverso a questo ideale, vi è disaccordo tra il progresso dell’uomo e ciò che l’uomo accetta come Dio. Da una parte, è manifesto che l’uomo, col sincretismo della sua costituzione e con la perfettibilità della sua natura, non è Dio né lo potrebbe diventare; dall’altra, è certo che Dio, l’Essere supremo, è agli antipodi dell’umanità, la sommità ontologica da cui essa si allontana indefinitamente.
Dio e l’uomo essendosi distribuite, per così dire, le facoltà antagoniste dell’essere, paiono giocare una partita della quale il prezzo è il comando dell’universo: all’uno la spontaneità, l’immanenza, l’infallibilità, l’eternità; all’altro la previdenza, la deduzione, la mobilità, il tempo. Dio e l’uomo si tengono a bada continuamente e si sfuggono senza posa, mentre che questo cammina, senza mai riposarsi, con la riflessione e con la teoria, il primo, per la sua provvidenziale incapacità, pare trarsi indietro con la spontaneità della sua natura. Vi è contraddizione tra l’umanità e il suo ideale, opposizione tra l’uomo e Dio, opposizione che la teologia cristiana aveva posto in allegoria e personificata col nome di Diavolo o Satana, cioè contraddittore, nemico di Dio e dell’uomo.
Tale è l’antinomia fondamentale della quale trovo che i critici moderni non hanno tenuto conto, e che, se la si trascura, dovendo arrivare alla negazione dell’uomo-Dio, per conseguenza alla negazione di tutta questa esposizione filosofica, riapre la porta alla religione e al fanatismo.
Dio, secondo gli umanisti, non è altro che l’umanità stessa, l’io collettivo al quale si sottomette, come a un padrone invisibile, l’io individuale. Ma perché questa singolare visione, se il ritratto è calcato fedelmente sull’originale?
Perché l’uomo, che dalla nascita conosce direttamente e senza telescopio il corpo, l’anima, il capo, il prete, la patria, lo Stato, ha dovuto vedersi come in uno specchio, e senza conoscersi, sotto l’immagine fantastica di Dio? Dov’è la necessità di questa allucinazione? Cos’è mai questa coscienza torbida e losca, che, dopo un certo tempo, si purifica, si riordina, e invece di prendersi per un’altra, si prende definitivamente come tale? Perché per parte dell’uomo questa confessione trascendentale della società, allorché la società stessa era là, presente, visibile, palpabile, volente e agente; allorché infine era conosciuta come società e chiamata per nome.
Si dice: no, la società non esisteva; gli uomini erano agglomerati, ma non associati; la costituzione arbitraria della proprietà e dello Stato, come il dogmatismo intollerante della religione, lo provano.
Pura retorica: la società esiste dal giorno in cui gl’individui, comunicando col lavoro e con la parola, hanno acconsentito a obbligazioni reciproche e dato luogo a leggi e costumi.
Senza dubbio la società si perfeziona a misura del progresso della scienza e dell’economia; ma in nessuna epoca della civiltà il progresso implica metamorfosi come quelle che hanno sognate i facitori d’utopie; e per quanto debba essere eccellente la futura condizione dell’umanità, essa non sarà che la continuazione naturale, la necessaria conseguenza delle sue anteriori posizioni.
Del resto, nessun sistema di associazione escludendo per se stesso, come feci vedere, la fratellanza e la giustizia, l’ideale politico giammai ha potuto essere confuso con Dio, e si vede in effetti che presso tutti i popoli, la società s’è distinta dalla religione. La prima era presa per fine, la seconda solo considerata come mezzo; il principe fu il ministro della volontà collettiva, mentre Dio regnava sulle coscienze, attendendo al di là della tomba i colpevoli sfuggiti alla giustizia degli uomini. L’idea stessa di progresso e di riforma non ha fatto difetto in alcuna parte; infine nulla di ciò che costituisce la vita sociale è stato presso alcuna nazione religiosa interamente ignorato e disconosciuto. Perché, ancora una volta, questa tautologia della società-Divinità, se è vero, come lo si pretende, che l’ipotesi teologica non contiene che l’ideale della società umana, il tipo preconosciuto dell’umanità trasfigurata da uguaglianza, solidarietà, lavoro e amore?...
Certamente, se è un pregiudizio, un misticismo il cui inganno mi pare oggi temibile, non è già più il cattolicesimo che se ne va, sarà piuttosto questa filosofia umanitaria, che fa dell’uomo, sulla fede di una speculazione troppo sapiente per non essere mista all’arbitrio, un essere santo e sacro; proclamandolo Dio, cioè essenzialmente buono e ordinato in tutte le sue potenze, malgrado le testimonianze disperate ch’egli non cessa di dare della sua moralità incerta; attribuendo i suoi vizi alla violenza nella quale ha vissuto, e promettendosi da se stesso, con una libertà completa, gli atti della più pura devozione, poiché nei miti in cui l’umanità, seguendo questa filosofia, s’è dipinta essa stessa, si trovano rappresentati e opposti l’uno all’altro, sotto il nome d’inferno e di paradiso, un tempo di violenza e di pena e un’era di felicità e d’indipendenza! Con una simile dottrina, basterà, cosa inevitabile, che l’uomo riconosca che non è né Dio né buono né santo né saggio perché si abbandoni subito nelle braccia della religione; così che in ultima analisi, tutto ciò che il mondo avrà guadagnato con la negazione di Dio, sarà la risurrezione di Dio.
Secondo me, non è questo il senso delle favole religiose. L’umanità, riconoscendo Dio quale suo autore, suo padrone, suo alter ego, non ha fatto che determinare con un’antitesi la propria natura; natura eclettica e piena di contrasti, emanata dall’infinito e opposta all’infinito, sviluppata nel tempo e aspirante all’eternità, per tutte queste ragioni, fallibile, quantunque guidata dal sentimento del bello e dell’ordine. L’umanità è figlia di Dio, come ogni opposizione è figlia di una posizione anteriore; è per ciò che l’umanità ha scoperto Dio simile a sé, che gli ha prestato i propri attributi, ma dando sempre loro una immagine di carattere specifico, cioè definendo Dio contrariamente a se stessa. L’umanità è uno spettro per Dio, come egli è uno spettro per l’umanità; ciascuno dei due è per l’altro causa, ragione e fine d’esistenza.
Non era sufficiente avere dimostrato, con la critica delle idee religiose, che il concetto dell’io divino si riconduce alla percezione dell’io uomo; era necessario controllare questa deduzione con una critica dell’umanità stessa, e vedere se questa umanità soddisfaceva alle condizioni che la sua apparente deità supponeva. Ora, questo è il lavoro che abbiamo solennemente inaugurato, allorché, partendo in una volta dalla realtà umana e dall’ipotesi divina, abbiamo cominciato a svolgere la storia della società nei suoi stabilimenti economici e nei suoi pensieri speculativi.
Abbiamo constatato, da una parte, che l’uomo, quantunque provocato dall’antagonismo delle sue idee, quantunque fino a un certo punto scusabile, compie il male gratuitamente e con lo sfogo bestiale delle sue passioni, ciò che ripugna al carattere di un essere libero, intelligente e santo. Abbiamo fatto vedere, dall’altra parte, che la natura dell’uomo non è costituita armonicamente e sinteticamente, ma formata da agglomerazioni di virtualità specializzate in ogni creatura, circostanza che, rivelandoci il principio dei disordini commessi dalla libertà umana, ha finito di dimostrarci la non-Divinità della nostra specie. Infine, dopo aver provato che in Dio la provvidenza non solo non esiste, ma è impossibile; dopo avere, in altri termini, separato nell’Essere infinito gli attributi divini dagli attributi antropomorfici, abbiamo concluso, contrariamente alle affermazioni della vecchia teodicea, che relativamente al destino dell’uomo, destino essenzialmente progressivo, l’intelligenza e la libertà in Dio soffrivano un contrasto, una specie di limitazione e di diminuzione risultante dal loro carattere d’eternità, d’immutabilità e d’infinità; di modo che l’uomo invece di adorare in Dio il suo sovrano e la sua guida, non poteva e non doveva vedere in lui che il suo antagonista. E quest’ultima considerazione sarà sufficiente a farci rigettare anche l’umanismo, come tendente invincibilmente, con la deificazione dell’umanità, a una restaurazione religiosa. Il vero rimedio al fanatismo, secondo noi, non è identificare l’umanità con Dio, ciò che viene ad affermare, in economia sociale, la comunità, in filosofia il misticismo e lo statu quo; ma di provare all’umanità che Dio, nel caso che vi sia un Dio, è suo nemico.
Quale soluzione più tardi uscirà da questi dati? Dio alla fine si troverà forse ad essere qualche cosa?
Non lo so. Se è vero, da un lato, che io non abbia oggi più ragione di affermare la realtà dell’uomo, essere illogico e contraddittorio, che la realtà di Dio, essere inconcepibile e non manifesto, so almeno, per la radicale opposizione di queste due nature, che non ho nulla da sperare né da temere dall’autore misterioso che involontariamente suppone la mia coscienza; so che le mie tendenze le più autentiche mi allontanano ogni giorno dalla contemplazione di questa idea; che l’ateismo pratico deve essere in avvenire la legge del mio cuore e della mia ragione; che è osservabile fatalità che debba apprendere incessantemente la regola della mia condotta; che ogni comandamento mistico, ogni diritto divino che mi sarà proposto, deve essere respinto e combattuto; che il ritorno a Dio con la religione, la pigrizia, l’ignoranza o la sottomissione, è un attentato contro me stesso; e che se un giorno dovessi riconciliarmi con Dio, questa riconciliazione, impossibile finché vivo, e nella quale avrei tutto da perdere, niente da guadagnare, non si può compiere che con la mia distruzione.
Concludiamo, e scriviamo sulla colonna che deve servire alle nostre ulteriori ricerche per punto di riferimento:
Il legislatore non si fida dell’uomo, compendio della natura e sincretismo di tutti gli esseri. – Non fa assegnamento sulla Provvidenza, facoltà inammissibile nello spirito infinito.
Ma, attento alla successione dei fenomeni, docile alle lezioni del destino, cerca nella fatalità la legge dell’umanità, la perpetua profezia dell’avvenire.
Si ricorda anche, qualche volta, che se il sentimento della Divinità affievolisce tra gli uomini; se l’ispirazione dall’alto si ritira progressivamente per fare posto alle deduzioni dell’esperienza; se vi è scissione di più in più flagrante tra l’uomo e Dio; se questo progresso, forma e condizione della vita, sfugge alle percezioni di una intelligenza infinita e per conseguenza antistorica; se, per dire tutto, il richiamo alla Provvidenza da parte di un Governo è nello stesso tempo una codarda ipocrisia e una minaccia alla libertà; nondimeno il consenso universale dei popoli, manifestato con lo stabilimento di tanti diversi culti, e la contraddizione per sempre insolubile che tocca l’umanità nelle sue idee, le sue manifestazioni e le sue tendenze, indicano un rapporto segreto dell’anima, e per essa dell’intera natura, con l’infinito, rapporto la cui determinazione esprimerebbe nello stesso tempo il senso dell’universo e la ragione della nostra esistenza.
IX. Epoca sesta. La bilancia del commercio
1. – Necessità del libero commercio
Ingannato sull’efficacia delle misure regolamentari, e disperando di trovare nel suo interno un compenso al proletariato, la società cerca delle garanzie al di fuori. Tale è il movimento dialettico che, nell’evoluzione sociale, conduce alla fase del commercio estero, la quale si formula subito in due teorie contraddittorie, la libertà assoluta e l’interdizione, e si riassume nella celebre formula della bilancia del commercio. Esamineremo successivamente ciascuno di questi punti di vista.
Nulla di più legittimo che il pensiero del commercio estero, il quale, aumentando lo smercio e per conseguenza il lavoro, e così pure il salario, deve assegnare al popolo una sovrimposta, così senza profitto e disgraziatamente immaginata per lui. Quello che il lavoro non ha potuto ottenere dal monopolio come cespite di tasse, lo trarrà di più dal commercio; e lo scambio dei prodotti, organizzato fra popolo e popolo, procurerà un sollievo alla miseria.
Ma il monopolio, come se avesse a farsi risarcire dei pesi che deve sopportare, e che in realtà non sopporta, il monopolio si oppone, a nome e nell’interesse dello stesso lavoro, al libero scambio, e reclama il privilegio del mercato nazionale. Da una parte dunque la società tende a dominare il monopolio con l’imposta, l’ordine e la libertà del commercio: dall’altra il monopolio reagisce contro la tendenza suddetta, e perviene quasi sempre a soffocarla, con l’analogia delle contribuzioni, con la libera determinazione del salario e con la dogana.
Di tutte le questioni economiche nessuna è stata più vivamente dibattuta di quella del principio protettore; nessuna ha fatto meglio emergere lo spirito sempre esclusivo della scuola economista, che, derogando su questo punto alle sue abitudini conservatrici, e facendo di tratto in tratto un voltafaccia, si è risolutamente pronunciata contro la bilancia del commercio. Mentre gli economisti si mostrano sempre guardiani vigilanti di tutti i monopoli e della proprietà, si tengono sulla difensiva e si limitano a mettere da parte, come utopie, le opinioni dei novatori; circa la questione proibitiva essi stessi hanno cominciato l’attacco; hanno gettato la croce addosso al monopolio, come se il monopolio fosse apparso loro per la prima volta; e hanno rotto la faccia alla tradizione, agli interessi locali, ai princìpi conservatori, alla politica loro sovrana e, per tutto dire, al senso comune. È bensì vero che nonostante i loro anatemi e le loro dimostrazioni pretenziose, il sistema proibitivo è oggi così in vigore, malgrado l’agitazione anglo-francese, com’era ai tristi aborriti tempi di [Jean-Baptiste] Colbert e di Filippo II. A questo riguardo si può dire che le declamazioni della setta, come si nominò la scuola economista un secolo fa, provano a ogni parola il contrario di ciò che asseriscono e sono accolte con la stessa diffidenza delle prediche comuniste.
Dunque devo provare, in conformità al metodo adottato in questa opera, in primo luogo, contro i seguaci del sistema proibitivo, che la libertà del commercio è di necessità economica nello stesso modo che è necessità naturale; in secondo luogo, contro gli economisti anti-protettori, che questa medesima libertà, che essi guardano come la distruzione del monopolio, è al contrario l’ultimo colpo dato per l’edificazione di tutti i monopoli, la consolidazione della feudalità mercantile, la solidarietà di tutte le tirannie, come pure di tutte le miserie. Terminerò con la soluzione teorica di questa contraddizione apparente, soluzione conosciuta, in tutti i secoli, sotto il nome di bilancia del commercio.
Gli argomenti che si fanno valere in favore dell’assoluta libertà di commercio sono conosciuti: li accetto in tutta la loro estensione; mi basterà solo richiamarli in qualche pagina. Lasciamo parlare gli economisti stessi: “Supponete le dogane trascurate, cosa succederà? Dapprima si avranno infinite guerre di meno; i diritti di frode e di contrabbando non esisteranno più, e cesseranno d’esistere le leggi penali per la loro repressione, le rivalità nazionali nate da interessi rivali di commercio e d’industria saranno sconosciute; non più frontiere politiche; i prodotti circoleranno di territorio in territorio senza ostacoli, con grandissimo profitto dei produttori; gli scambi si estenderanno sopra una vasta scala; le crisi commerciali, l’impaccio, la penuria diventeranno fatti eccezionali; gli scambi si faranno nella più ampia estensione della parola, e ciascun produttore avrà per mercato il mondo...”.
Qui abbrevio questa descrizione, degenerata in una fantasmagoria, il cui autore, [William] Fox, in altro luogo non si è ingannato. La fortuna dell’umanità non bada a quella meschina cosa che è il gabelliere; e quando la dogana non fosse mai esistita, sarebbe bastata l’influenza della divisione del lavoro, delle macchine, della concorrenza, del monopolio e della polizia per creare dappertutto l’oppressione e il dispotismo.
Quello che segue non merita alcun rimprovero. “Supponiamo che un funzionario di ciascun Governo si presenti a dire: Ho trovato un mezzo per affrettare e aumentare la prosperità dei miei concittadini; e siccome sono convinto dell’eccellenza dei risultati della combinazione, il mio governo sta per applicarlo in tutta la sua estensione. Per l’avvenire non avrete più alcuni nostri prodotti, noi non avremo più che qualcuno dei vostri; le nostre frontiere saranno accerchiate da un’armata che farà la guerra alle merci, che respingerà totalmente le une, e ammetterà le altre mediante una formidabile esazione; che farà pagare tutto ciò che oserà entrare e uscire; visiterà i convogli, i carri, le balle, le casse e persino i pacchi microscopici; fermerà per giorni e ore i mercanti alla frontiera; li svestirà per trovargli fra la camicia e la pelle qualche cosa che non deve entrare né uscire. A quest’esercito, munito di fucili e di sciabole, corrisponderà un altro esercito munito di penne, più formidabile ancora del primo. Regolerà o farà regolare continuamente; getterà il mercante di perplessità in perplessità con ordini, circolari e istruzioni d’ogni genere; egli non sarà mai sicuro di salvare la sua merce dalla confisca o dall’ammenda; e abbisognerà un’attenzione particolare per non avere contese con l’uno o con l’altro dei due eserciti. E tutto questo lo troverete presso di noi come agli antipodi; e più andrete innanzi, più incontrerete ostacoli e danni; più farete sacrifici e meno avrete profitti. Ma, per mezzo di tale combinazione sarete sicuri di vendere ai vostri concittadini, ai quali è vietato di acquistare fuori. Baratterete con un piccolo monopolio un grande mercato, per non avere più concorrenza, e sarete i padroni del consumo interno. Quanto al consumatore non se ne occuperà. Pagherà più caro e godrà meno; sarà un sacrificio che farà alla cosa pubblica, cioè all’industria e al commercio, che il Governo intende proteggere in modo nuovo ed efficace”.
Io ho riportato per esteso questo argomento negativo, e forse troppo poetico, per soddisfare tutte le intelligenze. Davanti al pubblico non si difende meglio la libertà che schierandogli dinanzi agli occhi le statistiche della miseria e della schiavitù. Nondimeno, siccome questo argomento in se stesso non prova né spiega cosa alcuna, bisogna dimostrare teoricamente la necessità del libero commercio.
La libertà del commercio è necessaria allo sviluppo economico, alla creazione del benessere umano, sia che si consideri ciascuna società nella sua unità nazionale e come una parte di tutta la specie, sia che non si scorga in essa che un’agglomerazione di individui liberi, padroni dei loro beni e delle loro persone.
E in primo luogo, le nazioni sono le une rispetto alle altre, come delle grandi individualità fra le quali venne un tempo divisa la coltivazione del globo. Questa idea è tanto vecchia quanto il mondo; la leggenda di Noè che divide la terra fra i suoi figli, non ha altra spiegazione. È possibile che la terra sia stata divisa in una miriade di parti, in ognuna delle quali abbia vissuto una piccola società senza uscire e senza comunicare con i suoi vicini? Per convincersi dell’assoluta impossibilità di una simile ipotesi, basta gettare uno sguardo sulla varietà degli oggetti che servono ai bisogni non solo del ricco, ma del più modesto operaio, e domandarsi se tale varietà fu possibile acquistarla con l’isolamento. Andiamo fino alla fine: l’umanità è progressiva; è quello il suo tratto distintivo, il suo carattere essenziale. Dunque il regime parcellare è inapplicabile all’umanità, e il commercio internazionale è la prima condizione, il sine qua non della nostra perfezione.
Come il semplice operaio, ciascuna nazione ha bisogno di scambio: è per mezzo di esso che cresce in ricchezza, intelligenza e dignità. Tutto quello che abbiamo detto circa la costituzione e il valore fra i membri di una stessa società, è vero per le società fra loro; e nello stesso modo che ciascun corpo politico raggiunge il suo stato normale mediante lo scioglimento progressivo delle antinomie che si sviluppano in esso, è pure mediante un’analoga equazione fra le nazioni che l’umanità cammina verso la sua costituzione unitaria. Il commercio fra nazione e nazione deve dunque essere il più libero possibile, così che nessuna nazione venga scomunicata dal genere umano, per favorire l’unione di tutte le attività e specialità collettive, e accelerare l’epoca, prevista dagli economisti, nella quale tutte le razze non formeranno più che una sola famiglia, e il globo un laboratorio.
Una prova non meno concludente circa la necessità del commercio libero si deduce dalla libertà individuale e dalla costituzione della società in monopoli, costituzione che, come già abbiamo dimostrato nel corso dei capitoli antecedenti, è essa stessa una necessità della natura e della condizione dei lavoratori.
Secondo il principio dell’appropriazione individuale e dell’uguaglianza civile, non riconoscendo la legge alcuna solidarietà da produttore a produttore, e ancora meno da imprenditore a salariato, nessuno, lavorando, ha il diritto di reclamare nell’interesse del suo monopolio particolare, la dipendenza o la soggezione degli altri monopoli. La conseguenza è che ciascun membro della società ha l’illimitato diritto di provvedersi, come più gli conviene, degli oggetti necessari al consumo, e di vendere i suoi prodotti al tale produttore e per quel prezzo che può ottenere. Ogni cittadino ha dunque autorità di dire al suo Governo: o mi consegnate il sale, il ferro, il tabacco, la carne, lo zucchero al prezzo ch’io vi offro, o lasciatemi fare le provviste in un altro luogo. Perché devo sostenere, una volta che mi obbligate a pagare, industrie che mi rovinano, fornitori che mi rubano? Ciascuno nel suo monopolio, ciascuno per il suo monopolio; e la libertà di commercio per tutto il mondo.
In un sistema democratico, la dogana, istituzione d’origine signorile e regale, è una cosa odiosa e contraddittoria. O la libertà, l’uguaglianza, la proprietà sono null’altro che parole, e la Carta un foglio inutile; o la dogana è una continua violazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Perciò, alla notizia dell’agitazione inglese, i fogli democratici francesi hanno generalmente partecipato al principio abolizionista. Libertà! a questa parola la democrazia si riscalda, come il toro davanti al quale si agita un drappo rosso.
Ma la migliore ragione economica della libertà del commercio è quella che si deduce dal crescere della ricchezza collettiva, e dall’aumento del benessere di ciascun proprietario, per il solo fatto dello scambio fra nazione e nazione.
Che la società, che l’operaio collettivo abbia utilità a scambiare i propri prodotti, non lo si può mettere in dubbio, perché mediante questo scambio il consumo è più svariato, e per conseguenza migliore. E, d’altra parte, grazie alla costituzione del lavoro e al patto politico, i cittadini, resi indipendenti e non solidali, hanno tutti individualmente il diritto di approfittare delle offerte dell’industria straniera, e cercarvi garanzia contro i loro rispettivi monopoli; ciò è certo. Ma fin qui non si scorge che uno scambio di valori, non si vede ancora dov’è l’aumento. Per scoprirlo bisogna considerare la cosa sotto un altro aspetto.
Si può definire lo scambio: un’applicazione della legge della divisione al consumo dei prodotti. Siccome la divisione del lavoro è il gran mezzo della produzione e della moltiplicazione dei valori, così pure la divisione del consumo, per mezzo dello scambio, è lo strumento più energico di attrazione di questi medesimi valori. In una parola, dividere il consumo per mezzo della varietà dei prodotti e dello scambio, è aumentare la potenza di consumare: nello stesso modo che, dividendo il lavoro nelle sue operazioni parcellari, si aumenta la sua potenza produttrice. Supponiamo due società sconosciute l’una all’altra, le quali consumino annualmente circa cento milioni di valori ciascuna. Se queste due società, dove supponiamo pure che i prodotti differiscano gli uni dagli altri, vengono a scambiare le loro ricchezze, dopo qualche tempo la somma del consumo, restando inalterata la cifra della popolazione, non sarà più solamente di duecento milioni, ma bensì di duecentocinquanta. In breve, gli abitanti delle due nazioni, una volta fra di loro in rapporto, non si limiteranno solo a un semplice scambio dei loro prodotti, che sarebbe una sostituzione, la varietà inviterà gli uni e gli altri a usufruire dei prodotti stranieri, senza abbandonare quelli indigeni, il che aumenterà nello stesso tempo, e da una parte e dall’altra, il lavoro e il benessere.
Allo stesso modo in cui la libertà del commercio è necessaria all’armonia e al progresso delle nazioni, così è necessaria alla certezza del monopolio e alla pienezza dei diritti politici, è ancora una causa di accrescimento della ricchezza e del benessere per i privati e per lo Stato. Queste considerazioni generali contengono tutte le ragioni che si possono addurre in favore del libero commercio, ragioni tutte che accetto anticipatamente, e sulle quali credo inutile insistere maggiormente; nessuno per altro, ch’io sappia, ne contesta l’evidenza.
Riassumendo, la teoria del commercio internazionale non è altro che un prolungamento della teoria della concorrenza fra i privati. Come la concorrenza è la garanzia naturale, non solamente del buon prezzo dei prodotti, ma anche del miglioramento del buon prezzo; così il commercio internazionale, indipendentemente dall’aumento del lavoro e dal benessere che esso crea, è la garanzia naturale di ciascuna nazione contro i propri monopoli, garanzia la quale, nelle mani di un Governo abile, può divenire uno strumento di alta politica industriale, più potente di tutte le leggi regolamentari e i calmieri.
Fatti innumerevoli, vessazioni mostruose o ridicole, vengono quindi a giustificare questa teoria. A misura che la protezione consegna al monopolio il consumatore senza difesa, si vedono i disordini più strani, le crisi più furiose agitare la società, e mettere in pericolo il lavoro e il capitale.
“Il rincaro fittizio del carbone, del ferro, delle lane, del bestiame – dice Blanqui – non è altro che una imposta prelevata sulla comunità, a profitto di qualcuno. Per quanti sforzi si facciano, la questione sarà sempre di sapere fino a quando la nazione imporrà tali pesi, in vista dei miglioramenti che sempre promette e che mai giungono, perché non possono arrivare per questa via. Il regime protezionista fra noi, come nel resto dell’Europa, tende solo a dare un impulso fittizio e dannoso ad alcune industrie, organizzate secondo il metodo inglese, a profitto quasi esclusivo del capitale. Esso esagera la produzione e restringe l’importazione straniera ed è sempre seguito da rappresaglie. Sostituisce le lotte violente della concorrenza interna all’emulazione della concorrenza esterna. Distrugge i benefici effetti della divisione del lavoro fra le nazioni. Conserva fra loro le vecchie inimicizie... Mantiene le profonde divisioni che separano troppo sovente il lavoro e il capitale, e genera il pauperismo con lo spostamento brusco degli operai”. (“Journal des Économistes”, febbraio 1842).
Tutti questi effetti del sistema protettore, illustrati da Blanqui, sono veri e sono una prova contro le pastoie arrecate alla libertà del commercio. Disgraziatamente li vediamo sorgere a ogni passo, con una intensità non meno grande, dalla libertà stessa: talché se, per guarire il male, si deve concludere con Blanqui per l’estirpazione assoluta della causa morbosa, bisognerà concludere nello stesso tempo contro lo Stato, contro la proprietà, contro l’industria, contro l’economia politica. Ma non siamo ancora arrivati alle antinomie; continuiamo le citazioni. “Il privilegio, il monopolio, la protezione, che dagli uni ricade sugli altri, salvo che sul disgraziato operaio, hanno prodotto nella distribuzione dei beni, scopo di ogni lavoro, delle vere mostruosità. Mai la libertà ha beneficamente livellata la potenza di agire; le pastoie hanno prodotto la frode; il furto, la menzogna, la violenza, sono gli ausiliari del lavoro. L’avarizia oggi reclama, senza vergogna, e come un diritto, i mezzi di accumulare a spese di tutti: la lotta è in ogni luogo, l’armonia in nessuna parte. E frattanto è verso un risultato così disastroso che noi stessi corriamo. In un paese dove il popolo è ancora nulla, si capisce questa perseveranza di sistema; ma in un paese dove il popolo è tutto, perché la sua voce resta muta? Perché, nelle discussioni economiche, il nome del popolo non è giammai pronunciato? La ragione, si grida, deve governare il mondo! Ed è dunque in nome della ragione che la nazione francese è oggi condannata a una dieta pressoché tutta vegetale? Che essa rimane senza abiti, senza camicie, senza calzari, senza mezzi di scambio, in mezzo alle meraviglie dell’intelligenza? Che la patata sostituisce già il frumento nella sua igiene; che il lavoro dà di meno in meno, come oggi in Inghilterra, un soprappiù di produzione sul consumo? È forse la ragione che abbandona il mercato, come una preda, ora agli uni, ora agli altri, senza giammai inquietarsi del prezzo dei prodotti relativamente al salario!... Da più di diciotto anni, la nazione francese è priva di carne; ogni giorno diminuisce la parte relativa a ciascun individuo; e a ogni lagnanza, noi diciamo freddamente che il prezzo di 55 franchi è necessario al produttore! Necessario! La privazione degli alimenti necessaria alla fortuna di qualcuno”. (H. Dussard, “Journal des Économistes”, aprile 1842).
Certamente, il quadro non è esagerato; e spetta agli economisti dire la verità, tutta la verità intorno alle miserie sociali, allorquando essi si trovano impegnati nell’interesse delle loro utopie. Ma, se il tanto accusato principio di protezione non è altro che il principio costitutivo dell’economia politica, il monopolio, che s’incontra in ogni dove sul sentiero, dice Rossi; se questo principio è la proprietà stessa, la proprietà, questa religione del monopolio, non ho il diritto d’essere adirato dell’inconseguenza, per non dire dell’ipocrisia degli economisti? Se il monopolio è una cosa così odiosa, perché non si attacca alla sua base? Perché lodarlo da una parte e dall’altra screditarlo? Perché questa rivolta? Ogni godimento esclusivo, qualunque appropriazione sia della terra, sia dei capitali industriali, sia di un metodo di fabbricazione, costituisce un monopolio: perché questo monopolio non diviene odioso che il giorno nel quale un monopolio straniero, suo rivale, si presenta per fargli concorrenza? Perché il monopolio è meno rispettabile fra compatriota e compatriota, che fra indigeno e straniero? Perché in Francia il Governo non osa attaccare direttamente la coalizione della cava del carbone della Loira, e invoca le armi di una santa alleanza contro le nazionali? Perché questo intervento del nemico esterno contro il nemico interno? Tutta l’Inghilterra oggi è fanatica della libertà degli scambi; sembra un appello fatto ai Russi, agli Egiziani, agli Americani dai monopolisti dell’industria in quel paese, contro i monopolisti del terreno. Perché questo tradimento, se si attacca veramente il monopolio? Milioni di braccia nude in Inghilterra non sono abbastanza forti contro qualche migliaio di aristocratici?
“Quando si dirà – esclama [Nassau] Senior, uno dei membri più influenti della lega – quando si dirà, e con tutta ragione, agli operai che il Governo ha preso l’iniziativa dell’indirizzo da darsi alle manifatture e al commercio; che esso si è servito di tale mostruosa usurpazione per il profitto (reale o supposto) di qualcuno; quando scopriranno che di tutti i monopoli che esso ha conferito, quello che difende con più accanimento è il monopolio della sussistenza; quando vedranno che è quello il monopolio che loro procura le più dure privazioni, e che rende alla classe che governa il più grande e il più immediato profitto; domandiamo, sopporteranno questi mali come una calamità provvidenziale, ovvero li guarderanno come la triste conseguenza di una ingiustizia? Se la ragione li conduce a quest’ultimo giudizio, come si manifesterà il loro disappunto? Si sottometteranno o cercheranno nella loro forza la riparazione a questa lunga ingiuria? E la loro forza è abbastanza grande per essere formidabile? A tutte queste questioni è facile rispondere. La popolazione inglese è composta di milioni di persone agglomerate nelle città, accostumate alle discussioni politiche. Esse hanno un proprio capo e una propria stampa. Sono organizzate in corpi, che chiamano unioni, e che hanno ciascuno i loro ufficiali, il loro potere esecutivo, il potere deliberativo: hanno fondi per i bisogni di ciascuna società, e fondi per i bisogni generali di tutte le società riunite. Sono use, grazie a una lunga pratica, ad eludere le leggi contro le coalizioni, a combattere e a diffidare dell’autorità dello Stato. Una tale popolazione è formidabile, anche nella prosperità; diventerà mille volte più formidabile nella disgrazia, anche quando la disgrazia non possa venire attribuita ai Governi. Ma se questa miseria può essere attribuita alla legislatura, se gli operai possono accusare la classe che governa, non più di errore, ma di furto e di oppressione; se si vedono sacrificati alla rendita del proprietario, ai benefici del piantatore, o a quelli del forestale del Canada; quali limiti si potranno assegnare agli effetti della loro collera? Siamo sicuri che la nostra ricchezza, la nostra grandezza politica, o la stessa nostra costituzione, usciranno immuni da un simile conflitto?”.
Non una parola di questa diceria che non ricada sopra gli abolizionisti.
Quando si dirà agli operai che il monopolio, dal quale si finge di volerli liberare con l’abolizione delle dogane, dinisce per ricevere nuova energia da questa abolizione; che questo monopolio, ben più profondo che non si voglia confessare, consiste, non solamente nel rifornimento esclusivo del mercato, ma bensì, ma soprattutto nell’usufrutto esclusivo del suolo e delle macchine, nell’appropriazione invadente dei capitali, nell’accaparramento dei prodotti, nell’arbitrio degli scambi; quando loro si dimostrerà che essi furono sacrificati alle speculazioni dell’aggiotaggio, abbandonati, piedi e mani legati, alla rendita del capitale; che da là sono nati gli effetti del lavoro parcellare, l’oppressione delle macchine, gli sbalzi disastrosi della concorrenza e quella iniqua derisione dell’imposta; quando loro si dimostrerà in seguito che l’abolizione dei diritti protetti non ha fatto altro che estendere le reti del privilegio, moltiplicare la spoliazione e coalizzare i monopoli di tutti i paesi contro il proletariato; quando si racconterà loro che la borghesia elettorale e dinastica, sotto colore di libertà, ha fatto i più grandi sforzi per mantenere, consolidare e preparare questo regime di menzogna e di rapina; che sono state date cattedre, proposte e decretate ricompense, salariati sofisti, stipendiati giornali, corrotta la giustizia, invocata la religione per difenderlo; che non mancarono alla tirannia del capitale né la premeditazione né l’ipocrisia né la violenza, crederete che alla fine essi non si drizzeranno nella loro collera, e che una volta padroni della vendetta si riposeranno nell’amnistia?
“Ci rincresce – soggiunge Senior – di gettare così l’allarme. Deploriamo la necessità, e la parte che rappresentiamo non ci piace molto. Ma crediamo fermamente che ci minaccino i danni che abbiamo supposti, e il nostro dovere è di fare conoscere al pubblico le basi della nostra convinzione”.
A me pure duole suonare l’allarme: e questo mestiere di accusatore che faccio è l’ultimo che si convenga alla mia natura. Ma è necessario che venga detta la verità e che si faccia giustizia; e se credo che la borghesia si sia meritata tutti i mali di cui la si minaccia, è mio dovere stabilire la sua colpevolezza.
E, in verità, cos’è questo monopolio ch’io perseguito nella sua forma più generale, mentre gli economisti non lo vedono e non lo perseguitano se non sotto l’abito del doganiere? Per l’uomo che non possiede né capitali né proprietà è l’interdizione del lavoro e del movimento, l’interdizione dell’aria, della luce e della sussistenza; è la privazione assoluta, la morte eterna. La Francia, senza abiti, senza calzature, senza camicie, senza pane e senza carne; privata di vino, di ferro, di zucchero e di combustibile; l’Inghilterra desolata da una perpetua carestia, e abbandonata agli orrori di una miseria indescrivibile; le razze impoverite, degenerate, ridiventate selvagge e truci; tali sono i segni spaventevoli con i quali si manifesta la libertà, quando essa è colpita dal privilegio, qualunque sia, e impedita nel suo sviluppo. Si crede di udire la voce di quel gran colpevole che Virgilio colloca nell’inferno, incatenato sopra un trono di marmo:
Infelix Theseus, [Phlegyasque miserrimus omnes Admonet],
et magna testatur voce per umbras,
Discite justitiam moniti, et non temnere divos! [Virgilio, Eneide]
Oggi, la nazione più commerciante del mondo, la più divorata da tutti i monopoli, che protegge, consacra e professa l’economia politica, si sollevò tutta come un sol uomo contro la protezione; il Governo ha decretato, plaudente tutto il popolo, l’abolizione delle tariffe; la Francia che fermenta grazie alla propaganda economica, è alla vigilia di seguire l’impulso dell’Inghilterra e di spingere tutta l’Europa ad imitarla. Si tratta di studiare le conseguenze di questa grande innovazione, la cui origine non è abbastanza chiara ai nostri occhi, né il principio abbastanza profondo, per non ispirarci qualche diffidenza.
2. – Necessità della protezione
Se non avessi da opporre alla teoria del libero commercio che ragioni nuove, fatti che io solo per primo avessi osservato, si potrebbe credere che la contraddizione che faccio sorgere da questa teoria, altro non sia che un divertimento del mio amor proprio; una smoderata voglia di segnalarmi col paradosso; e questo pregiudizio basterebbe per screditare le mie parole.
Ma io difendo la tradizione universale, la più costante e autentica credenza; ho dalla mia parte i dubbi degli stessi economisti, e l’antagonismo dei fatti che essi riferiscono: è questo antagonismo, questo dubbio, questa tradizione ch’io voglio spiegare e che mi giustificano.
Fix, che ho citato parlando della libertà, scrittore riservato, circospetto e moderato, uno degli economisti più dotti della scuola di Say, esso stesso, con le seguenti parole, ha sostenuto il contrario della sua prima proposizione: “Gli economisti avanzati, che non ammettono alcuna eccezione, vogliono procedere con tutta l’energia e la rapidità che ispirano le profonde convinzioni: vogliono abbattere con un solo colpo le dogane, i monopoli e il personale che li sorregge. Quali sarebbero le conseguenze di una simile riforma? Se si lasciassero entrare con esenzione i tessuti stranieri, i ferri e i metalli lavorati, per un certo tempo almeno i consumatori ne risentirebbero un benessere, e alcune industrie vi troverebbero un grande profitto. Ma è certo che un mutamento così istantaneo e inatteso cagionerebbe immensi disastri nell’industria; ingenti capitali diverrebbero improduttivi; centinaia di migliaia d’operai si troverebbero di un tratto senza lavoro e senza pane. L’Inghilterra e il Belgio potrebbero, per esempio, provvedere facilmente la Francia della metà di ciò che consuma; ciò ridurrebbe alquanto la fabbricazione interna, ma causerebbe anche perdite considerevoli agli industriali capaci di proseguire la loro produzione. Si vedrebbe lo stesso risultato per l’industria dei tessuti; l’Inghilterra, il Belgio, la Germania, inonderebbero la Francia dei loro prodotti; e dinanzi a queste insolite importazioni, la maggior parte dei nostri industriali non tarderebbe a soccombere. Nessun paese osò mai fare una simile esperienza, nemmeno per un solo ramo d’industria. Gli uomini di Stato che furono e che sono ancora maggiormente attaccati alle teorie di Adam Smith, hanno retrocesso dinanzi a una simile impresa; e io stesso dichiaro che la trovo piena di pericoli e di minacce”.
Sono queste parole abbastanza energiche e abbastanza chiare? È spiacevole che l’autore, invece di arrestarsi dinanzi al fatto materiale, non abbia dedotto teoricamente le ragioni dei suoi terrori. La sua critica avrebbe goduto di un’autorità che non otterrà la mia, e può darsi che il problema della bilancia del commercio, risolto da un economista di prim’ordine, discepolo e amico di Say, avrebbe dato una regola all’opinione e preparate le basi di una vera associazione fra i popoli.
Ma Fix, imbevuto delle teorie economiche, e persuaso della loro bontà, non può spingersi al di là del presentimento delle loro contraddizioni. Chi mai crederebbe che, dopo lo spaventevole programma esposto, Fix abbia avuto il coraggio di finire con questo strano pensiero: Ciò non distrugge per nulla l’eccellenza della teoria e la possibilità della sua applicazione!...
Dal canto mio, non posso trattenermi dal ripeterlo: più vivo, più mi approfondisco nelle opinioni degli uomini, e più trovo che noi siamo quasi profeti, ispirati da un soffio soprannaturale, e che parliamo nella pienezza del Dio che ci fa vivere. Ma, in noi non c’è solo Dio, c’è pure il bruto, i cui suggerimenti furiosi o stupidi ci turbano la ragione senza posa, e fanno deviare il nostro entusiasmo. Non solo il genio fatidico dell’umanità mi sforza a supporre un Dio, bisogna ancora ch’io ammetta, a complemento dell’ipotesi, che nell’uomo vive e respira tutto il regno animale: il teismo ha per corollario la metempsicosi.
Ecco una teoria contraddetta da fatti costanti e universali, risultati spontanei dell’energia umana, i quali non possono non prodursi; e questa teoria, la quale deve cominciare col darci la filosofia di questi medesimi fatti, e invece li respinge senza comprenderli, la si dichiara indubitabile, eccellente! – Ecco una teoria i cui fautori dichiarano essere inapplicabile alla Francia, all’Inghilterra, al Belgio, alla Germania, all’intera Europa e a tutte le cinque parti del mondo; perché è inapplicabile davvero se non può essere applicata senza cagionare immensi disastri, senza rendere improduttivi immensi capitali, senza togliere il pane e il lavoro a centinaia di migliaia d’operai, senza distruggere la metà della produzione di un paese; una teoria, la quale, nonostante il desiderio dei Governi, non è applicabile né al secolo decimonono né al decimottavo né al decimosettimo né a tutti i secoli precedenti; una teoria che sarà inapplicabile domani, dopodomani, e nei secoli venturi, perché sempre in ciascun punto del globo, per effetto delle attitudini nazionali e individuali, per la costituzione dei monopoli e per la varietà dei climi, si produrranno delle disparità d’interessi e di rivalità, e per conseguenza, sotto pena di morte o di schiavitù, coalizioni ed esclusioni; e ciò nonostante si persiste, per l’onore della scuola, ad assicurare l’applicabilità di tale teoria!
Abbiate pazienza, essi esclamano: il male cagionato dalla libertà degli scambi sarà passeggero, mentre il bene che ne risulterà sarà durevole e incalcolabile. Che mi importano queste promesse di fortuna all’indirizzo della posterità, di cui nulla assicura l’effettuazione, e che senza dubbio, se per caso si realizzassero, sarebbero sostituite da altri disastri? Che m’importa sapere che l’Inghilterra ci avrà procurato a 150 franchi i 100 chilogrammi degli stessi binari ferroviari che paghiamo 350 franchi e 50 centesimi ai nostri fabbricanti, e che lo Stato avrà guadagnato in questo contratto 200 milioni; che il rifiuto di ammettere i bestiami stranieri alle nostre fiere ha fatto ribassare presso di noi del 25% il consumo della carne per ogni individuo, e che la salute pubblica ne è pregiudicata; che l’introduzione delle lane straniere, apportando in media una riduzione di 1 lira per ogni calzone, lascerà 30 milioni nelle tasche dei contribuenti; che i diritti sugli zuccheri in realtà non giovano che ai produttori; che è assurdo che due paesi, i cui abitanti si vedono dalle finestre, si trovino più separati gli uni dagli altri, che non dalla muraglia cinese; che m’importano tutte queste diatribe, quando dopo avermi commosso con lo spettacolo delle miserie proibizioniste, si viene a raffreddare il mio zelo con la considerazione dei mali incalcolabili che apporterà la non proibizione? Se noi prendiamo il ferro inglese, noi guadagniamo 200 milioni; ma le nostre fabbriche soccombono, la nostra industria metallurgica è rovinata, e cinquantamila operai si trovano senza lavoro e senza pane! Si dice che dopo questo sacrificio avremo per sempre il ferro a buon prezzo. Mi pare d’udire: “Si prepara un po’ d’ombra ai pronipoti”.
In quanto a me, preferisco lavorare di più, ma non morire; la cura dei miei figli non può spingermi al punto di gettarmi nella voragine, perché essi abbiano il piacere di annoverare fra i loro antenati un novello Curzio. Se il mio stato mutasse; se io potessi accettare queste offerte vantaggiose senza compromettere la mia libertà e la mia esistenza; se almeno fossi sicuro del beneficio promesso ai miei discendenti, credereste che rifiuterei?...
Una questione d’opportunità, cioè, come lo si vedrà ben presto, una questione di eternità, domina tutta la controversia, e separa i partigiani protezionisti dai liberi scambisti. Gli economisti che tanto sprezzano gli utopisti, in questo caso agiscono come gli utopisti stessi; domandano un grande sacrificio, una immensa rovina, miserie inaudite, in cambio di un incerto benessere, le quali cose, per loro stessa confessione, sono irrealizzabili immediatamente, il che, per la società, è come dire eternamente. E si sdegnano perché non si presta fede alcuna ai loro calcoli! Ma perché non affrontano più risolutamente la difficoltà? Perché non tentano di scoprire il male che deriverà dall’abolizione di certi monopoli (come hanno fatto, e con qual successo!, per la divisione del lavoro, le macchine, la concorrenza e l’imposta), se non rimedi, per lo meno, palliativi? Suvvia, signori, entrate in materia, perché finora vi siete tenuti nell’indeterminatezza dell’annuncio; dimostrateci come la teoria del libero commercio si possa applicare, cioè sia benefica e razionale, nonostante la ripugnanza dei governi e dei popoli, nonostante gli inconvenienti generali e permanenti. Che cosa era necessario, secondo voi, perché potesse venire attuata in ogni luogo questa teoria, senza che l’effettuazione cagionasse quegli immensi disastri di cui parlate continuamente, senza che aggravasse il giogo del monopolio sul proletariato, senza che compromettesse la libertà, l’uguaglianza, l’individualità delle nazioni? Quale sarà il nuovo diritto fra i popoli? Qual rapporto creerà fra il capitalista e l’operaio? Quale intervento del Governo nel lavoro? Codeste ricerche vi appartengono; ci dovete tutti questi chiarimenti. Potrebbe essere, per la tendenza stessa della vostra teoria, che senza accorgervene, siate voi stessi una setta socialista; non temete i rimproveri. Il pubblico è troppo sicuro delle vostre intenzioni, e in quanto ai socialisti, sono troppo contenti di vedevi fra le loro fila per sollevare questo cavillo.
Ma che faccio io? È poco generoso il provocare chiacchieroni così innocenti come gli economisti. Facciamo piuttosto toccare con mano che essi imbroccano il vero, solo quando si contraddicono, la qual cosa, per la maggior parte riuscirà nuova, e che la teoria del libero commercio non ha merito se non perché è la teoria del libero monopolio.
Né vi è cosa evidente di per se stessa, chiara come la luce del giorno, aforistica come la rotondità del circolo, quanto la libertà del commercio, che, sopprimendo tutti gli impacci alle comunicazioni e agli scambi, rende per questo stesso il campo più libero a tutti gli antagonismi, estende il dominio del capitale, generalizza la concorrenza, fa della miseria di ogni nazione, nello stesso modo della sua aristocrazia finanziaria, una cosa cosmopolita, la vasta rete della quale, d’ora innanzi tranquilla e continua, abbraccia nelle sue solide maglie l’avvenire di tutta la specie?
Perché, infine, se i lavoratori, come i Germani descritti da Tacito, come i nomadi Tartari, i pastori Arabi e tutti i popoli semi-barbari, avendo ciascuno ricevuto la loro parte di terra, e prima di produrre da se stessi tutti gli oggetti che consumano, non comunicassero fra loro con lo scambio, non vi sarebbero mai né ricchi né poveri; nessuno guadagnerebbe, e così pure nessuno si rovinerebbe. E se le nazioni, nello stesso modo delle famiglie di cui si compongono, producessero a loro volta tutto presso sé, tutto per sé, non mantenessero alcuna relazione commerciale; è ancora evidente che il lusso e la miseria non potrebbero passare da una all’altra per mezzo dello scambio, che possiamo benissimo chiamare in questo caso, il contagio economico. Sì, è il commercio che crea nello stesso tempo la ricchezza e la diseguaglianza delle fortune; è in grazia del commercio che aumentano continuamente l’opulenza e il pauperismo. Dunque, dove si arresta il commercio, qui cessa contemporaneamente l’azione economica, e regna una immobile e comune mediocrità. Tutto ciò è così semplice, è di un buon senso così volgare, di una evidenza così perentoria, che l’economista deve schivarlo; perché è proprio dell’economista il non ammettere mai la necessità dei contrari, il suo destino è quello d’essere sempre in rotta col senso comune.
Abbiamo dimostrato la necessità del libero commercio; completeremo questa teoria dimostrando come la libertà, più s’allarga, più diventa una nuova causa d’oppressione e d’estorsione per le nazioni commercianti. E se le parole rispondono alla convinzione, avremo svelato il senso della riforma iniziato con tanto rumore dai nostri vicini d’oltre Manica; avremo messo a nudo la più grande di tutte le mistificazioni economiche.
L’argomento principale di Say, che nella crociata organizzata contro il regime protezionista fa la figura di Pietro l’Eremita, consiste in questo sillogismo: “Maggiore. – I prodotti non si pagano che con prodotti, le merci non si comprano che con merci. Minore. – L’oro, l’argento, il platino e tutti i valori metallici, sono prodotti del lavoro, merci come il carbone, il ferro, la seta, i tessuti, i filati, i cristalli, ecc. Conseguenza. – Qualunque importazione di merci essendo pagata mediante un’equivalente esportazione, è assurdo credere che vi possa essere vantaggio da taluna parte, in quanto una partita di merci consegnata in cambio consiste, o non, in moneta effettiva. – Tutto all’opposto, l’oro e l’argento essendo una merce la cui unica utilità si riduce a servire di strumento di circolazione e di scambio per le altre, il vantaggio, se esistesse da qualche parte, è per la nazione che prende all’estero più prodotti di quello che non ne rende; e ben lungi, come si afferma, dal cercare di livellare le condizioni del lavoro con tariffe di dogana, è necessario livellarle con la libertà più assoluta”.
Conseguentemente, J.-B. Say aggiunge come corollario del suo famoso principio: i prodotti non si pagano che con prodotti, le proposizioni seguenti: 1° Una nazione guadagna tanto più quanto la somma dei prodotti che importa sorpassa la somma dei prodotti che esporta; 2° I negozianti di questa nazione guadagnano tanto più quanto più il valore degli ordini che ricevono sorpassa il valore delle merci che hanno esportato all’estero.
Quest’argomentazione che è l’inverso di quella dei partigiani del sistema mercantile, è sembrata così chiara, così decisiva, gli effetti sovversivi della protezione l’hanno così avvalorata, che tutti gli uomini di Stato, i quali si piccano d’indipendenza e di progresso, tutti gli economisti di qualche valore l’hanno adottata. Secondo costoro, torna inutile ragionare con quelli che difendono l’opinione contraria; si preferisce metterli in ridicolo.
“Si dimentica dai più che i prodotti si pagano con prodotti... Gli Inglesi possono darci senza loro danno certi prodotti a buon prezzo; io non credo che essi consentano a darceli per nulla. Non si traffica con persone che nulla abbiano da darci in cambio... Se la Francia vittoriosa della sua perfida vicina la obbligasse a lavorare per essa; se l’Inghilterra per pagare il suo tributo, ciascun anno ci spedisse gratuitamente ciò che essa, secondo noi, ci fa pagare ancora troppo caro, i proibizionisti, per essere conseguenti, dovrebbero gridare al tradimento. Vi sono, lo confessiamo, delle ragioni troppo forti per noi; i nostri avversari usano un’arma a doppio taglio. Che l’Inghilterra prenda da noi come nel 1815, essi gridano alla rovina; che essa a noi dia, come noi ne facciamo l’ipotesi, essi gridano maggiormente”. (“Journal des Économistes”, agosto 1842).
E nei numeri dello stesso periodico, novembre 1844, aprile, giugno, luglio 1845, un economista di vaglia, filantropo generosissimo, ispirato! ciò che parrà sorprendente, dalle idee più egualitarie, un uomo che elogerei di più, se non poggiasse la sua repentina celebrità su di una tesi inammissibile, si sforza di provare, plaudente tutto il pubblico economista:
Che livellare le condizioni del lavoro, è attaccare lo scambio nel suo principio;
Che non è vero che il lavoro di un paese possa essere distrutto dalla concorrenza delle contrade più favorite;
Che anche se ciò fosse giusto, i diritti protezionisti non eguagliano le condizioni della produzione;
Che la libertà eguaglia queste condizioni per quanto possibile;
Che i paesi meno favoriti guadagnano maggiormente negli scambi;
Che la Lega e Robert Peel hanno diritto alla gratitudine dell’umanità per l’esempio che essi hanno dato alle altre nazioni;
E infine che coloro i quali pretendono e sostengono il contrario sono seguaci di Sisifo.
Certamente, il signor Bastiat [deputato] delle Landes, grazie all’audacia e conseguenza della sua polemica, può lusingarsi di avere stupito gli stessi economisti, e deciso coloro le cui opinioni sul libero commercio erano ancora dubbie. Per mio riguardo, confesso di non avere mai trovato in alcun libro sofismi più sottili, più stringenti, più coscienziosi, e che arieggino la verità più sincera, quanto i Sophismes économiques di Bastiat.
Pertanto, oso affermare che se gli economisti d’oggi inventassero meno e d’altra parte fossero più logici, avrebbero facilmente scorto il vizio degli argomenti del Cobden dei Pirenei; e che invece di sforzarsi a spingere la Francia industriale sulla via dell’Inghilterra per una totale abolizione delle barriere, avrebbero detto: Guardiamocene!
I prodotti si comprano con prodotti! Ecco, senza dubbio, uno stupendo, un incontestabile principio, per il quale vorrei venisse innalzata una statua a J.-B. Say. Dal canto mio ho dimostrata la verità di questo principio dando la teoria del valore; e ho provato inoltre che questo principio è la base dell’eguaglianza dei beni, e così pure dell’equilibrio nella produzione e nello scambio.
Ma, quando si aggiunge, quale secondo termine del sillogismo, che l’oro e l’argento coniati sono una merce come un’altra, si afferma un fatto che non è vero che in potenza; si fa conseguentemente una inesatta generalizzazione, smentita dalle nozioni elementari che ci dà la stessa economia politica sulla moneta.
Il denaro è la merce che serve di strumento agli scambi, cioè, come l’abbiamo dimostrato, la merce principale, la merce per eccellenza, quella la cui domanda è maggiore dell’offerta, quella che precede tutte le altre, che si accetta in tutti i pagamenti e, per conseguenza, rappresenta tutti i valori, tutti i prodotti, tutti i capitali possibili. Insomma chi ha merce, non ha per questo ricchezza; bisogna ancora compiere la condizione dello scambio, condizione pericolosa, come si sa, e soggetta a mille oscillazioni e a mille pericoli... Ma chi ha denaro ha ricchezza; perché possiede il valore sia nel modo ideale, che nel modo reale; ha ciò che tutto il mondo vuole avere; può acquistare con quest’unica merce tutte le altre, quando lo voglia, con le condizioni più vantaggiose, e nel tempo più favorevole; in una parola, col denaro si è padroni del mercato. Chi ha denaro si può paragonare a colui il quale nel gioco delle ombre tiene i trionfi. Si può affermare con sicurezza che tutte le carte hanno fra loro un valore di posizione e un valore relativo; si può analogamente aggiungere che il gioco non si può effettuare che con lo scambio di tutte le carte le une contro le altre; ciò non impedisce che il trionfo prenda gli altri colori e, fra i trionfi, i primi precedono gli altri.
Se tutti i valori fossero determinati e fissi come la moneta, se ciascuna merce potesse essere accettata immediatamente e senza perdita in scambio di un’altra, sarebbe del tutto indifferente, nel commercio internazionale, conoscere se l’importazione sorpassi o meno l’esportazione. Questa stessa questione non dovrebbe più sussistere, a meno che la somma dei valori dell’una sorpassi la somma dei valori dell’altra. In questo caso, ciò sarebbe come se la Francia scambiasse un pezzo da 20 franchi contro una sterlina, ovvero un bue di 40 quintali contro uno di 30. Nel primo baratto, essa avrebbe guadagnato il 20%, nel secondo avrebbe perduto il 25%. In questo senso, J.-B. Say avrebbe avuto ragione di dire che una nazione guadagna tanto quanto il valore delle merci che importa sorpassa il valore delle merci che esporta. Ma così non succede nella condizione attuale del commercio; la differenza dell’importazione sull’esportazione s’intende unicamente delle merci per le quali si dovette dare una certa quantità di numerario in acconto; ora questa differenza non è del tutto indifferente.
Ciò compresero perfettamente i seguaci del sistema mercantile, i quali altro non sono che seguaci della priorità del denaro. Si disse, si ripetè, si stampò, che essi non consideravano come ricchezza che il solo metallo. Pretta calunnia. I mercantilisti sapevano bene quanto noi che l’oro e l’argento non sono ricchezza, ma lo strumento potentissimo degli scambi, e conseguentemente rappresentante di tutti i valori che compongono il benessere, un talismano che produce fortuna. E la logica non mancò loro, non più che ai popoli, quando, per sineddoche, hanno chiamato ricchezza quella sorta di prodotti la quale, meglio di ogni altra, condensa e realizza qualunque ricchezza.
Del resto poi gli economisti hanno ravvisato il vantaggio che offre il possesso del denaro. Ma, come si può scorgere in tutti i loro scritti, essi non seppero mai rendersi teoricamente ragione di questo, riguardo alla merce oro e argento; non hanno scorto altro che un pregiudizio popolare; insomma, ai loro occhi, le materie coniate non sono altro che una merce ordinaria, adottata quale strumento di scambio perché più comoda a portarsi, più rara e meno soggetta ad essere alterata; perciò gli economisti dalla loro teoria, o, per dirla schietta, dalla loro ignoranza monetaria, furono trascinati a disconoscerne il vero ufficio del commercio; e la loro guerra contro le dogane, altro non è, infine, che una guerra contro il denaro.
Ho dimostrato nel capitolo sul valore che il privilegio del denaro deriva dal fatto che esso fin dall’origine e ancora oggi è il solo valore determinato che circola nelle mani dei produttori. Credo inutile ricominciare qui questa questione già esaurita; ma è facile comprendere, dopo quanto si disse, e ciò sarà specialmente oggetto del capitolo che segue, che colui che possiede denaro, che si occupa di prestare o vendere la moneta, ottenga perciò solo una vera superiorità su tutti i produttori; perché, infine, la banca sia la regina dell’industria e nello stesso tempo del traffico.
Queste considerazioni fondate sui dati semplici e innegabili dell’economia politica, appena introdotte nel sillogismo di J.-B. Say, fanno apparire la sua teoria del libero commercio e degli sbocchi così inconsideratamente abbracciata dai suoi discepoli, come nulla più che una estensione indeterminata della cosa stessa contro la quale essi gridano, la spoliazione dei consumatori, il monopolio.
Proseguiamo subito nela dimostrazione teorica di questa antitesi: verremo in seguito all’applicazione e ai fatti.
Say afferma che la moneta fra le nazioni non produce gli stessi effetti che fra i privati. Nego decisamente questa proposizione che Say emise solo perché non conosceva a fondo la vera natura della moneta. Gli effetti della moneta quantunque si producano fra le nazioni in modo meno evidente, e sopratutto meno immediato, sono del tutto gli stessi che fra semplici privati.
Supponiamo il caso di una nazione che comperasse continuamente ogni sorta di merci, dando sempre in cambio moneta. Ho il diritto di fare questa ipotesi estrema, dal momento che l’economista, di cui più sopra ho riferito le parole, si arrogava il diritto di dire che se l’Inghilterra ci avesse dati i suoi prodotti per nulla, i proibizionisti, per essere conseguenti, avrebbero dovuto gridare al tradimento. Seguo lo stesso procedimento, e per mettere in rilievo l’impossibilità del regime contrario, comincio col supporre una nazione che tutto compra e nulla vende. A dispetto delle teorie economiche, tutti sanno ciò che questo significa. Che accadrà mai?
Che quella parte del capitale di questa nazione, che consiste in metalli preziosi, essendo emigrata, le nazioni venditrici la ritorneranno alla nazione acquirente mediante ipoteca; cioè che questa nazione, come il proletario romano privo di patrimonio, si venderà per vivere.
A ciò che si può rispondere?
Si risponde col fatto stesso che tutti temono e che è la condanna del libero commercio. Si dice che il denaro diventando da una parte raro, e dall’altra abbondante, si avrà un riflusso di capitali metallici da parte delle nazioni che vendono alla nazione che compra; che questa approfitterà del ribasso della moneta, e che l’alternativa di rialzo e di ribasso ricondurrà all’equilibrio.
Ma questa spiegazione è derisoria: il denaro si darà via per nulla, per amor di Dio? Tutto sta qui. Per scarso, per variabile che sia l’interesse delle somme prese a prestito, purché tale interesse sia qualcosa, segnerà la decadenza lenta o rapida, continua o intermittente del popolo che sempre acquistando e mai vendendo, credesse avere prestiti continuamente dai suoi acquirenti.
Fra poco vedremo ciò che diventa un paese quando si aliena con l’ipoteca.
Così, la mancanza del capitale nazionale, che Say con molta acutezza designò come la sola cosa da temere da un’eccessiva importazione, è inevitabile: essa si effettua, e ciò è vero, non già col trasporto materiale del capitale, ma col trasporto della rendita, grazie alla perdita della proprietà; il che è del tutto la stessa cosa.
Ma gli economisti non ammettono il caso estremo che noi adesso supponevamo, e che troppo evidentemente darebbe loro torto. Essi, a ragione, osservano che nessuna nazione tratta esclusivamente col denaro; che bisogno c’è dunque di limitarsi a ragionare sul reale, non già sull’ipotetico; dopo aver trovato conveniente, per confutare i loro avversari, spingere i princìpi fino alle ultime conseguenze, non tollerano che si faccia egualmente verso di loro; ciò implica la confessione da parte loro che essi non credono più ai propri princìpi, quando si tenta di spingere questi princìpi fino alla fine. Ora, mettiamoci con gli economisti sul terreno della realtà, e cerchiamo se per lo meno la loro teoria sia vera prendendola per il suo giusto mezzo.
Orbene, sostengo che lo stesso movimento di diserzione si paleserà, benché con minore intensità, quando invece di pagare tutti gli acquisti in moneta, il paese importatore ne salderà una parte con i suoi prodotti. Com’è possibile fraintendere una proposizione di una evidenza così matematica? Se la Francia ogni anno importa per 100 milioni di prodotti inglesi, e ne esporta dei suoi in Inghilterra per 90 milioni: 90 milioni di merci francesi servendo a coprire 90 milioni inglesi, il sopravvanzo di queste ultime sarà pagato in moneta, salvo il caso in cui il saldo si faccia in lettere di cambio tirate su altri paesi, il che esce dall’ipotesi. Questo, dunque, è come dire che la Francia aliena 10 milioni del suo capitale, e per sovrappiù a poco prezzo: perché, quando verrà il prestito, è evidente che verrà dato poco denaro contro una grossa ipoteca.
Altro errore degli economisti.
Dopo avere erroneamente paragonato la moneta alle altre merci, gli avversari della protezione commettono una confusione non meno grave, paragonando gli effetti del rialzo e del ribasso della moneta, agli effetti del rialzo e del ribasso sopra gli altri generi di prodotti. Siccome è su questa confusione che s’aggira specialmente la loro teoria del libero commercio, è necessario, per chiarire la discussione, che risaliamo ai princìpi.
Abbiamo detto al capitolo II che la moneta è un valore incostante, ma costituito; gli altri prodotti, almeno la maggior parte di essi, non solo sono variabili nel loro valore, ma mutabili a volontà. Ciò dimostra che la moneta può bensì variare in quantità sopra un dato mercato, cosicché con la stessa somma, si avrà subito più o meno di una data merce; ma essa rimane invariabile nella sua qualità – domando scusa ai lettori se così spesso uso dei vocaboli propri della metafisica, – cioè che nonostante le variazioni della proporzionalità nella merce monetaria, codesta merce rimane la sola accettabile in tutti i pagamenti, la dispotica padrona di tutte le altre, quella il cui valore, se si vuole per un privilegio temporaneo, ma reale, è socialmente e regolarmente determinato nelle sue oscillazioni, e per conseguenza ne è invincibilmente stabilita la preponderanza.
Supponete che a un tratto il grano salga e si mantenga a un prezzo straordinario, e che in questo frattempo la moneta discenda a un terzo o a un quarto del suo valore: ne seguirà che il grano sostituirà la moneta, misurerà la moneta, potrà servire a pagare l’imposta, gli effetti commerciali, le rendite sullo Stato, e a liquidare tutti gli affari? Certamente, no. Finché, con una riforma radicale nell’organizzazione industriale, non sono stati stabiliti e determinati come moneta (se fosse possibile il determinare ciò definitivamente), la moneta conserva la sua sovranità, ed è di essa sola che si può dire che accumulare ricchezza, è accumulare potere.
Quando gli economisti, confondendo tutte queste nozioni, dicono che se la moneta è rara in un paese, vi ritorna col rialzo, rispondo che ciò è precisamente la prova che questo paese si aliena, ed è in questo che consiste la diminuzione del suo capitale.
E quando essi aggiungono che i capitali metallici, accumulati in un paese da una grande esportazione, sono necessitati ad espatriare subito e ritornare nei paesi ove mancano per cercarvi impiego, ripeto che il ritorno è non dubbio segno della decadenza dei popoli importatori, e il presagio della dominazione finanziaria che essi hanno attirato sopra dì sé.
Del resto il fenomeno così importante della subordinazione dei popoli mediante il commercio ha ingannato gli economisti solo perché si sono fermati alla superficie del fatto, non ne hanno scrutato le leggi e le cause. Hanno scorto la materialità del fatto, ma presero un abbaglio sul senso e sulle conseguenze. Su questo punto, come pure su tutti gli altri, si trovano nei loro scritti riunite tutte le prove che li schiacciano.
Leggo nei “Debats” del 27 luglio 1845, che il valore delle esportazioni della Francia nel 1844 fu inferiore di 40 milioni a quello delle importazioni, e che nel 1843 tale differenza fu di 160 milioni. Non parliamo degli altri anni; domando all’autore dell’articolo, il quale non mancò di dare una staffilata al sistema mercantile, ove finirono questi 200 milioni in moneta, che cosa servirono a pagare, e che cosa la Francia ha pagato? – Il rialzo dei capitali nel nostro paese avrebbe dovuto farli rientrare: ecco ciò che egli deve rispondere, secondo J.-B. Say. – Sembrava infatti, che essi fossero ritornati; tutta la stampa politica e industriale ci assicurò che un terzo dei capitali impiegati nelle nostre ferrovie, fermandoci solo a questo ramo di speculazione, erano capitali svizzeri, inglesi, tedeschi; che i consigli di amministrazione di codeste ferrovie erano, composti in parte di stranieri, presieduti da stranieri, e che molte strade, tra le quali la più produttiva, quella del Nord, erano state aggiudicate a stranieri. Ciò è chiaro? Fatti analoghi in tutte le località; quasi tutto il debito ipotecario dell’Alsazia è a favore di capitalisti svizzeri, per mezzo dei quali ritorna il capitale nazionale, sotto l’impronta estera, a sottomettere quelli che una volta ne erano i proprietari.
Dunque, i capitali nazionali sono tornati, ma non sono tornati per nulla; ciò si riconosce. Orbene, contro quale cosa furono scambiati al loro ritorno, cioè furono prestati? Forse contro merci? No, poiché si è visto che la nostra esportazione è inferiore alla nostra importazione: poiché per sostenere questa esportazione qual è attualmente, siamo costretti a privarci ancora dell’importazione. E quindi contro rendite, contro denaro, poiché, per poco che il denaro renda, questo impiego dei loro capitali offre agli stranieri maggior vantaggio che non l’acquisto delle nostre merci di cui non hanno bisogno, e che essi in ultimo avranno pure, come già hanno i nostri capitali. Dunque, alieniamo il nostro patrimonio, e noi stessi diveniamo gli appaltatori dell’estero: come ci possiamo convincere, dopo questi fatti, che più importiamo più siamo ricchi?
Qui sta la difficoltà, e il lettore se ne persuaderà. Così, nonostante l’attrattiva che possono avere i fatti in una simile polemica, essi non devono avere la precedenza sull’analisi, perciò mi sia concessa la facoltà di intrattenermi ancora intorno alla pura teoria.
Bastiat, questo Achille del libero commercio, la cui repentina comparsa abbagliò i suoi confratelli, travisando l’ufficio sovrano della moneta nello scambio, e confondendo con tutti gli economisti il valore regolarmente oscillante della moneta con le fluttuazioni arbitrarie delle merci, seguì Say in un labirinto di arguzie capaci forse di mettere nell’imbarazzo un uomo profano di rubriche commerciali, ma che si districa facilissimamente alla luce della vera teoria sul valore e sullo scambio, e mette subito in evidenza la miseria delle dottrine economiche.
“Supponiamo – dice Bastiat – due paesi, A e B. A possiede su B ogni specie di vantaggi. Concluderete che il lavoro si concentra in A e che B è nell’impossibilità di fare qualcosa”.
Chi parla di concentrazione e d’impotenza? Addentriamoci coraggiosamente nella questione. Supponiamo che due paesi i quali, liberi di sviluppare le loro proprie facoltà, producono oggetti simili o per lo meno analoghi, l’uno però in gran quantità e a prezzo meschino, l’altro in poca quantità e a prezzo elevato. Questi due paesi, secondo l’ipotesi non ebbero mai fra loro un rapporto di sorta: quindi in questo caso non c’è ragione di parlare di concentrazione di lavoro in un paese, né d’impotenza nell’altro. È chiaro che la loro popolazione e la loro industria stanno in ragione diretta delle rispettive facoltà. Ora trattasi di sapere cosa succederà quando questi due paesi si saranno messi in rapporto commerciale fra loro. Tale è l’ipotesi; l’accettate o no?
“A vende più di quello che acquista; B acquista più che non vende. Potrei fare qualche obiezione, ma mi schiero dalla vostra parte”.
Contestate, di grazia! Nessuna concessione: questa falsa generosità è perfida e lascia dubbi.
“Secondo l’ipotesi, il lavoro è ricercatissimo in A, e per conseguenza rincara. – Il ferro, la carne, le terre, gli alimenti, i capitali, sono ricercatissimi in A, e subito rincarano. In questo frattempo, lavoro, ferro, carne, terre, alimenti, capitali, tutto è quanto mai abbandonato in B, e presto tutto diminuisce. A vendendo continuamente, B acquistando continuamente, il denaro passa da B in A, in B diventa raro”.
Ecco il nodo. Che succederà, nel tempo che B, approfittando continuamente del basso prezzo di A, ha dato via tutto il suo denaro?
“Ma, abbondanza di denaro, significa che ne bisogna maggiormente per comprare tutt’altra cosa. Dunque, in A, alla carezza reale che deriva da una incessante domanda, si deve aggiungere una carezza nominale dovuta alla sproporzione dei metalli preziosi. Rarità di denaro, significa che ce ne bisogno poco per ciascuna compra. Dunque, in B, si aggiunge a un buon prezzo nominale un buon prezzo reale”.
Fermiamoci un poco, prima di giungere alla conclusione di Bastiat. Questo scrittore, nonostante la chiarezza del suo stile, bisognerebbe di un commentario che lo spiegasse. Il buon prezzo, sia nominale che reale, che si manifesta in B, in seguito alle sue relazioni con A, è l’effetto diretto della superiorità produttiva di A, effetto che non potrà mai crescere in potenza più della sua causa. In altri termini, quali che siano le oscillazioni dei valori scambiabili rispettivamente fra i due paesi; che i salari, la carne, il ferro, ecc., vengano ad aumentare in A, mentre ribasseranno in B, è evidente che il cosiddetto buon prezzo che regna in B, non può mai fare concorrenza al preteso rincaro che si manifesta in A, poiché il primo è il risultato del secondo, e gli industriali di A restano sempre padroni del mercato.
Effettivamente i salari, cioè i prodotti tutti, qualunque siano, non possono mai in A costringere la domanda degli imprenditori che fanno l’esportazione per il paese, domanda che a sua volta si regola sulla condizione del mercato in B. Per altro, il ribasso causato in B non potrà mai essere per gli industriali di questo paese un mezzo per lottare contro i loro concorrenti in A, poiché questo ribasso è il risultato dell’importazione, non già delle risorse naturali della terra. Sotto questo aspetto il paese importatore può paragonarsi a un orologio i cui contrappesi siano scesi in basso e abbia bisogno di una forza estranea che lo ricarichi per poter continuare. Bastiat, assimilando il denaro alle altre specie di merci, pensò di di aver scoperto il moto perpetuo: e siccome tale identità è falsa, altro non trovò che l’inerzia.
“In queste circostanze – continua il nostro autore – l’industria avrà ogni sorta di impulsi; impulsi, se mi fosse possibile dirlo, portati alla quarta potenza, per abbandonare A e venirsi a stabilire in B. Qui, per rientrare nel campo della verità, diciamo che essa non avrà atteso questo istante; che i repentini cambiamenti ripugnano alla natura, e fino dall’origine, sotto un regime libero, essa si sarà progressivamente divisa e distribuita fra A e B, secondo le leggi dell’offerta e della domanda, cioè secondo le leggi della giustizia e dell’utilità”.
Questa conclusione non ammetterebbe replica se non sussistesse l’osservazione che abbiamo insinuata tra il rincaro nominale di A e il buon prezzo reale di B. Bastiat avendo perduto di vista il rapporto che rende i prezzi di questo subordinati ai prezzi dell’altro, si è immaginato che i metalli preziosi passano da A in B, e da B in A, come l’acqua in una livella, senz’altro scopo, senz’altra conseguenza che ristabilire l’equilibrio e colmare i vuoti. Perché non ha detto ciò che sarebbe stato più chiaro e più vero: quando gli operai di B vedranno diminuire il loro salario e il loro lavoro a causa dell’importazione delle merci di A, essi abbandoneranno il loro paese, andranno a lavorare in A, nello stesso modo che gli Irlandesi emigrano in Inghilterra; e per la concorrenza che faranno agli operai di A, contribuiranno maggiormente a rovinare la loro antica patria, nello stesso tempo che aumenteranno la miseria generale nella patria adottiva. Allora la grande proprietà e la grande miseria regnando dappertutto, l’equilibrio sarà ristabilito?... Strano potere il fascino esercitato con le parole! Bastiat ha constatato lui stesso la decadenza del paese di B; e, smarrito il senso di rialzo e di ribasso, di compensazione, d’equilibrio, di livello, di giustizia, di algebra, scambia il nero col bianco, l’opera di Arimanno con quella di Orsmund, e non scorge, in tale manifesta decadenza, che una restaurazione!
Quando gli industriali di A, arricchiti dal loro commercio con B, non sapranno più come impiegare i capitali, li porteranno, secondo voi, in B. È verissimo. Ma ciò significa che essi andranno in B a comprare case, terre, boschi, riviere e pascoli; che vi formeranno dei possedimenti, si sceglieranno fittavoli e servi, e diverranno signori e prìncipi con l’oro, che è l’autorità che gli uomini rispettano maggiormente. Con questi grandi feudatari la ricchezza nazionale espatriata, rientrerà nel paese, apportando la dominazione straniera e il pauperismo,
Poco importa del resto, che questa rivoluzione si compia lentamente o repentinamente. Le repentine transizioni, come replica spesso Bastiat, ripugnano alla natura: le conquiste commerciali hanno per misura la differenza del prezzo di costo fra le nazioni usurpanti e le nazioni usurpate. Parimenti, poco importa che la nuova aristocrazia venga da fuori, o si componga di indigeni, arricchiti con l’usura e con la banca quando erano intermediari fra i compatrioti e gli stranieri. La rivoluzione di cui parlo non bisogna essenzialmente di una immigrazione, e ancora meno di un’esportazione di denaro. La divisione del popolo in due caste sotto l’influenza del commercio esterno e l’innalzamento di una feudalità mercantile in un paese altre volte libero, e le cui abitudini potevano, tralasciando le altre cause di subordinazione, rimanere eguali, ecco l’essenza di tale rivoluzione, il frutto inevitabile del libero commercio esercitato in condizioni favorevoli. Come! finché non avremo visto il denaro francese attraversare la Manica e perdersi nel Tamigi; finché nulla sarà modificato nel nostro Governo, nelle nostre leggi e nei nostri costumi; finché una colonia mandata da tutte quelle nazioni con le quali commerciamo, non verrà a sostituire i nostri 35 milioni di abitanti, nulla sarà mutato secondo voi? I prodotti del paese, ritornati sotto forma di crediti ipotecari, avranno diviso la nazione in nobili e servi, e nulla avremo perduto! L’effetto del libero commercio sarà stato di rinforzare e ampliare l’azione delle macchine, della concorrenza, del monopolio e dell’imposta; e quando la massa dei lavoratori vinti, grazie all’invasione straniera, sarà abbandonata in balia del capitale, essa dovrà stare zitta; quanto allo Stato altra uscita non avrà che vendere e prostituire la patria, bisognerà che esso si umili dinanzi al genio sublime degli economisti!
Mi si dirà forse che esagero? Non si sa che il Portogallo, paese libero politicamente, che ha il suo re, il suo culto, la sua costituzione, la sua lingua, divenne col trattato di [John] Methuen e il libero commercio un possedimento inglese? L’economista inglese ci avrebbe già fatto perdere il senso della storia; e sarà vero, per valersi dello stile figurato di un difensore del lavoro nazionale, che il cittadino di Bordeaux voglia aprire nuovamente la Francia agli Inglesi, come già fece sotto Eleonora? sarà vero che esiste una cospirazione nel nostro paese per venderci all’aristocrazia bancaria dell’Europa, come i mercanti del Texas hanno venduto, non è molto, il loro paese agli Stati Uniti?
“La questione Texas”, questo è estratto da un nostro giornale accreditatissimo e il meno sospettato di pregiudizi proibizionisti, “fu alla fin fine una questione di denaro. Il Texas aveva un debito considerevolissimo per un paese senza risorse. Lo Stato aveva per creditori quasi tutti i suoi più influenti cittadini; e lo scopo principale di costoro era di farsi rimborsare i crediti, poco importando poi da chi. Essi hanno contrattato l’indipendenza del paese, non avendo altra cosa da vendere. Parve che gli Stati Uniti fossero in grado di pagare meglio del Messico; e se questi avessero accondisceso subito ad accollarsi i debiti del Texas, già da lungo tempo l’annessione sarebbe stato un fatto compiuto”. (“Costitutionel”, 2 agosto 1845).
Ecco ciò che avrebbe voluto impedire il signor Guizot, e ciò che non seppe spiegare alla tribuna quando l’opposizione lo interpellò intorno ai suoi negoziati relativamente al Texas. Che terrore avrebbe potuto gettare questo ministro nella sua maggioranza bottegaia, se avesse cercato di sviluppare questa tesi, magnifica, degna del suo ingegno oratorio. Le influenze mercantili sono la morte della nazionalità, delle quali non lasciano sussistere che lo scheletro!
Bastiat, mi permetta di esternargli qui tutta la mia riconoscenza, è penetrato del socialismo più puro; ama soprattutto il suo paese; professa altamente la dottrina dell’eguaglianza. Se ha sposato la causa del libero commercio con tanto attaccamento; se si fece missionario delle idee della Ligue [pour la Liberté des Échanges], ciò accadde perché fu sedotto, come molti altri, da questa gran parola libertà, la quale per se stessa, non significando che una spontaneità vaga e indefinita, si confà meravigliosamente a tutti i fanatismi, eterni nemici della verità e della giustizia. Senza dubbio la libertà implica eguaglianza per gli individui, come per le nazioni; ciò solamente però quando è definita, quando ha ricevuto dalla legge la sua forma e la sua potenza, e non resti del tutto abbandonata a se stessa, sfornita di ogni sorta di determinazione, come sussiste presso il selvaggio. La libertà così intesa, non è altro, come la concorrenza degli economisti, che un principio contraddittorio, un funesto equivoco: ora ne acquisteremo novella prova.
“Infine, – osserva Bastiat – non è già il dono gratuito della natura che noi paghiamo nello scambio, ma bensì il lavoro umano. Mi prendo un operaio, che arriva con una sega. Pago la sua giornata 2 lire; mi fa 25 assi. Se la sega non fosse stata inventata, probabilmente non avrebbe potuto farne uno solo, e io non di meno gli avrei pagata la sua giornata. Dunque, l’utilità prodotta dalla sega è per me un dono gratuito della natura, o piuttosto è una parte dell’eredità ricevuta in comune, con tutti i miei simili, dall’intelligenza dei miei antenati... Dunque, la retribuzione non si proporziona già alle utilità che il produttore porta sul mercato, sebbene al suo lavoro... Dunque, per concludere, il libero commercio, avendo per oggetto di far godere a tutti i popoli certe utilità gratuite della natura, non può mai dare pregiudizio ad alcuno”.
Ignoro quello che Rossi, Chevalier, Blanqui, Dunoyer, Fix, e altri difensori delle pure teorie economiche, hanno pensato di questa dottrina di Bastiat, il quale, rimuovendo di un sol colpo e annientando i monopoli, fa del lavoro l’unico e sovrano arbitro del valore. Non sarò io, è facile supporlo, che attaccherà la proposizione di Bastiat, perché ai miei occhi essa è l’aforisma dell’eguaglianza stessa, e che in conseguenza la condanna del libero commercio, nel significato che l’intendono gli economisti, c’è dentro tutta.
Non è l’utilità gratuita della natura che io debbo pagare, ma solo il lavoro! Tale è la legge dell’economia sociale, legge ancora poco conosciuta, rimasta fino a oggi ravvolta in una specie di mito e che scopriamo a poco a poco: divisione del lavoro, macchine, concorrenza, ecc. Bastiat, vero discepolo di Smith, ha molto bene riconosciuto e fatto conoscere ciò che deve essere, e conseguentemente ciò che è. Perché la legge del lavoro, l’uguaglianza negli scambi si compia sinceramente, è necessario che le contraddizioni economiche siano tutte risolte; ciò significa, relativamente alla questione che ci occupa, che all’infuori dell’associazione, la libertà del commercio è sempre tirannia della forza.
Così Bastiat spiega molto bene come l’uso della sega divenne per tutti un dono gratuito. Ma è indubitabile che oggi con le nostre leggi di monopolio, se la sega fosse sconosciuta, l’inventore, ottenendo subito un brevetto, s’approprierebbe, durante la sua vita, del beneficio dello strumento. Ora, tale è precisamente la condizione della terra, delle macchine, dei capitali e di tutti gli strumenti del lavoro; e Bastiat parte da una proposizione del tutto erronea, o, per dire meglio, anticipa illegittimamente sull’avvenire, quando opponendo la concorrenza al monopolio e le regioni tropicali alle zone temperate, ci dice: “Se per un avventuroso miracolo la fertilità di tutte le terre arabili venisse ad accrescersi, non sarebbe già l’agricoltore, ma bensì il consumatore che usufruirebbe il vantaggio di tale fenomeno, perché si determinerebbe in abbondanza, in buon prezzo. Ci sarebbe meno lavoro incorporato in ciascun ettolitro di frumento; e l’agricoltore non potrebbe scambiarlo che contro un minor lavoro, incorporato in tutt’altro prodotto”.
E più avanti:
“A è un paese favorito, B è un paese maltrattato dalla natura. Io dico che lo scambio è vantaggioso ad ambedue, ma soprattutto a B, perché lo scambio non consiste già in utilità contro utilità, ma in valori contro valori. Ora, A mette più d’utilità nello stesso valore, in quanto l’utilità del prodotto abbraccia ciò che ha fatto la natura e ciò che ha fatto il lavoro, mentre il valore non corrisponde che a ciò che vi ha messo il lavoro. Dunque, B fa un mercato tutto a suo vantaggio. Acquistando appena dal produttore di A il suo lavoro, esso riceve in sovrappiù maggiori utilità naturali di quello che ne dà”.
Sì, ancora una volta, griderò con tutta la forza della mia voce, è il lavoro che fa il valore, non l’offerta e la domanda come affermate tutti i momenti, e come lo insegnano tutti i vostri fratelli che applaudono senza comprendervi. È il lavoro che si deve pagare e scambiare, non già l’utilità gratuita del suolo; e non potevate dire nulla che dimostrasse meglio la buona fede e l’incoerenza delle vostre idee. In tali condizioni, la più assoluta libertà negli scambi è sempre vantaggiosa e non può giammai diventare nociva. Ma i monopoli, ma i privilegi dell’industria e del capitalista, ma i diritti signorili della proprietà, li avete aboliti? Avete un mezzo per abolirli? Credete alla possibilità, alla necessità della loro abolizione? Vi intimo di spiegarvi, perché ci va di mezzo la salute e la libertà delle nazioni; in simile materia l’equivoco diviene parricidio. Fin quando il privilegio del territorio nazionale e la proprietà individuale saranno per voi sottintesi, la legge dello scambio nella vostra bocca sarà una menzogna; fin quando non vi sarà associazione e solidarietà approvata fra i produttori di tutti i paesi, cioè comunità di doni naturali e scambio solamente dei prodotti del lavoro, il commercio estero non farà che riprodurre fra le razze il fenomeno di servaggio e di dipendenza che la divisione del lavoro, il salariato, la concorrenza e tutti gli agenti economici operano fra gli individui; il vostro libero commercio sarà una truffa, se non preferite ch’io dica una rapina esercitata a viva forza.
La natura, per attrarre i popoli favoriti all’associazione generale, li ha separati dagli altri con barriere naturali che mettono un inciampo alle invasioni e alle conquiste. E voi senza premunirvi con garanzie, togliete tali barriere! Giudicate inutili le precauzioni della natura! Giocate l’indipendenza di un popolo, per soddisfare l’egoismo di un consumatore che non vuole essere del suo paese! Al monopolio interno non sapete contrapporre altro che il monopolio esterno, sempre il monopolio, girando così nel cerchio fatale delle contraddizioni! Ci promettete che il lavoro si scambierà col lavoro; e invece è il monopolio che è scambiato col monopolio, e che Brenno, il nemico del lavoro, ha gettato furtivamente la spada nella bilancia!
La confusione del vero e del reale, del diritto e del fatto: l’imbarazzo perpetuo nel quale l’antagonismo della tradizione e del progresso getta i migliori ingegni, sembrano avere rapito al signor Bastiat persino l’intelligenza delle cose più volgarmente pratiche. Ecco un fatto che egli apporta in prova della sua tesi:
“Una volta, diceva un industriale alla Camera di commercio di Manchester, esportavamo stoffe; poi questa esportazione fu sostituita da quella dei filati, che sono la materia prima delle stoffe: in seguito venne quella delle macchine, che sono gli strumenti che servono a fabbricare il filo; più tardi quella dei capitali, con i quali fabbrichiamo le nostre macchine, e infine quella dei nostri operai e del nostro genio industriale, che sono la sorgente dei nostri capitali. Tutti questi elementi del lavoro andarono, gli uni dopo gli altri, ad esercitarsi là dove essi trovavano lavoro con più vantaggio, là dove il vitto è meno costoso, la vita più facile; e si possono vedere oggi in Prussia, in Sassonia, in Svizzera, in Italia, immense manifatture fondate con capitali inglesi, servite da operai inglesi, e dirette da ingegneri inglesi”.
Ecco una stupenda giustificazione del libero commercio! La Prussia, l’Austria, la Sassonia, l’Italia, impediti dalle dogane e limitate nelle compere dalla scarsità della ricchezza metallica, non ammettevano i prodotti inglesi che con beneficio di sconto, non prendevano che ciò che potevano pagare. I capitali inglesi, impediti e impazienti, escono dal loro paese, vanno a naturalizzarsi in queste contrade inaccessibili, diventano austriaci, prussiani, sassoni, correggendo, con l’emigrazione, l’ingiustizia della fortuna. Colà, sotto la protezione delle stesse dogane che prima li tenevano lontani, e che ora li proteggono, assecondati dal lavoro degli indigeni dai quali più non differiscono, signoreggiano il mercato, fanno concorrenza alla madre patria, rincarano tutti i prodotti, dapprima le stoffe, poi i filati, poi le macchine, poi, ciò che soprattutto è dannoso, i prestiti a usura; e in questa operazione di livellamento delle condizioni del lavoro, in questo fatto che accusa sì altamente la necessità per ogni popolo di non accettare i prodotti dei vicini che sotto condizione di uguaglianza nello scambio, e i loro capitali che a titolo di investimento e non di prestito, si trova un argomento a favore della libertà di commercio! O io stesso nulla arrivo a