Pierre-Joseph Proudhon

Sistema delle contraddizioni economiche. Filosofia della miseria

Seconda edizione
Introduzione di Alfredo M. Bonanno

    Introduzione alla seconda edizione

    Introduzione alla prima edizione

    Prologo

    I. La scienza economica

      1. – Opposizione del fatto e del diritto nell’economia della società

      2. – Insufficienza delle teorie e delle critiche

    II. Il valore

      1. – Opposizione tra il valore d’utilità e il valore di scambio

      2. – Costituzione del valore – definizione della ricchezza

      3. – Applicazione della legge di proporzionalità dei valori

    III. Evoluzioni economiche: epoca prima. La divisione del lavoro

      1. – Effetti antagonisti del principio di divisione

      2. – Impotenza dei palliativi. Blanqui, Chevalier, Dunoyer, Rossi e Passy

    IV. Epoca seconda. Le macchine

      1. – Ufficio delle macchine nel loro rapporto con la libertà

      2. – Contraddizione delle macchine. Origine del capitale e del salariato

      3. – Rimedio contro l’influenza disastrosa delle macchine

    V. Epoca terza. La concorrenza

      1. – Necessità della concorrenza

      2. – Effetti sovversivi della concorrenza e come essa distrugga la libertà

      3. – Rimedi contro la concorrenza

    VI. Epoca quarta. Il monopolio

      1. – Necessità del monopolio

      2. – Disastri nel lavoro e pervertimenti d’idee causati dal monopolio

    VII. Epoca quinta. La polizia o l’imposta

      1. – Idea sintetica dell’imposta. Punto di partenza e sviluppo di quest’idea

      2. – Antinomia dell’imposta

      3. – Conseguenze disastrose e inevitabili dell’imposta (sussistenze, leggi suntuarie, polizia rurale e industriale, brevetti d’invenzione, marchi di fabbrica, ecc.)

    VIII. Della responsabilità dell’uomo e di Dio sotto la legge di contraddizione o soluzione del problema della provvidenza

      1. – Colpevolezza dell’uomo. Esposizione del mito del peccato

      2. – Esposizione del mito della Provvidenza. Retrogradazione di Dio

    IX. Epoca sesta. La bilancia del commercio

      1. – Necessità del libero commercio

      2. – Necessità della protezione

      3. – Teoria della bilancia del commercio

    X. Settima epoca. Il credito

      1. – Origine e filiazione dell’idea di credito. Pregiudizi contraddittori relativi a questa idea

      2. – Sviluppo delle istituzioni di credito

      3. – Menzogna e contraddizione del credito. Suoi effetti sovversivi. Suo potere depauperante

    XI. Ottava epoca. La proprietà

      1. – La proprietà è inesplicabile fuori della serie economica. Dell’organizzazione del senso comune, o problema della certezza

      2. – Cause dello stabilimento della proprietà

      3. – Come la proprietà si depravi

      4. – Dimostrazione dell’ipotesi di Dio per mezzo della proprietà

    XII. Nona epoca. La comunione

      1. – La comunione deriva dall’economia politica

      2. – Definizione di ciò che è proprio e di ciò che è comune

      3. – Posizione del problema comunista

      4. – La comunione prende il suo fine per il suo principio

      5. – La comunione è incompatibile con la famiglia, immagine e prototipo della comunione

      6. – La comunione è impossibile senza una legge di riparto, ed essa perisce mediante il riparto

      7. – La comunità è impossibile senza una legge d’organizzazione e perisce mediante l’organizzazione.

      8. – La comunità è impossibile senza la giustizia, e perisce per la giustizia

      9. – La comunità eclettica, non intelligente e inintelligibile

      10. – La comunità è la religione della miseria

    XIII. Decima epoca. La popolazione

      1. – Distruzione della società mercé la generazione e il lavoro

      2. – La miseria è opera dell’economia politica

      3. – Principio d’equilibrio della popolazione

    XIV. Riassunto e conclusione

    Appendice I. Di un certo Proudhon, di alcuni imbecilli e di altre cose

    Appendice II. Che cos’è l’economia?

Introduzione alla seconda edizione

Sento spesso, parlando con molti compagni, un desiderio diffuso di accostarsi ai problemi dell’economia. E mi rendo conto che questo desiderio è, per molti aspetti, destinato a rimanere tale. Non perché si tratti di problemi difficili, che richiedono necessariamente una preparazione di fondo per essere compresi. Ma per altri motivi che fanno da ostacolo. Vediamo di chiarire alcuni di questi ostacoli, prima di azzardarci a dare qualche indicazione di lettura riguardo Proudhon.

Tutti parliamo di cose che conosciamo solo in parte, a volte in minima parte, e questo è normale, direi che oggi, allo stato di elevatissima parcellizzazione della ricerca scientifica, è quasi inevitabile. Nessuno può dire veramente di sapere fino in fondo quello su cui insiste nel farci conoscere le sue opinioni. Che poi di queste opinioni non abbiamo effettivamente bisogno, andando a ingrossare il gran mare delle idiozie che ci circonda, questo è tanto vero quanto inutile sottolinearlo. Ci sarebbe bisogno di idee, ma chi può dirsi veramente in grado di avere delle idee? Pochi. Quando qualche idea bussa al nostro cuore e lo mette in subbuglio, gettandoci nelle braccia dell’azione, subito mille preoccupazioni dettate dal senso comune, incrollabile roccaforte del quieto vivere, intervengono per circondarla di distinguo, di prese di distanza, di bambagia protettiva. Non facciamoci troppo male con le idee, meglio avvolgerle in un involucro ideologico che ci fa bellamente sembrare quello che non siamo, anche se qualche volta la coda esce da sotto il basto che malamente ci accomodiamo sulla schiena.

Per carità, che c’entrano le idee con l’economia? Quando mai gli economisti hanno avuto delle idee? A volte i compagni mi sollecitano a una tenue spiegazione di qualche problema tecnico – oggi quasi sempre avvolto in neologismi inglesi per darsi un tono e non sembrare troppo volgare – e, non sempre, ma qualche volta, mi azzardo a dire un tocco di scienza in più. Di scienza!, si fa per dire, di quell’arte bastarda che mette in mano ai massacratori strumenti più o meno rozzi per continuare nel loro orribile progetto. Tale è l’economia.

Ovvio, mi sembra, che per capire dove sta per arrivare il colpo bisogna conoscere e le intenzioni dell’energumeno che ci aggredisce e le forme e strutture dell’arma che impiega, ma questa ovvietà indiscutibile, è spesso messa da parte. Diomio! Mettersi a studiare economia, un anarchico! Meglio rammaricarsi della mancata conoscenza e lasciare che altri lo facciano, altri che della manna conoscitiva piovuta sul capo fanno tesoro per guadagni in termini personali e di classe.

Dicevo dell’azzardo al quale qualche volta mi abbandono. Nessuna risposta. Non dico chiara, nel senso che un singolo, piccolissimo accenno ad un problema tecnico – economico, ché di questo stiamo parlando – sia stato recepito e quindi si voglia provvedere a un semplice approfondimento, no, non dico questo, dico: nessun segno di ricezione, come se stessi parlando una straordinaria lingua incognita. Che diavolo succede se aumenta la quantità di denaro in circolazione? Se si decide l’utilizzo di una moneta diversa da quella oggi adottata? Se diminuisce la produzione di beni di consumo durevoli (che cosa sono mai questi beni che vengono consumati e durano più a lungo di un cono gelato? Forse sono più duri da masticare?). E se l’occupazione lavorativa diminuisce? E come si stabilisce effettivamente il valore di un bene? (Che cosa sia il valore, ovviamente, nessun economista lo sa con certezza, ma tutti ne parlano – e ne parliamo – come di qualcosa di veramente esistente, abbastanza simile a quando si discute della Trinità o dell’anima dei defunti). E i debiti dello Stato? E le tasse? E le imposte? (Ma non sono la stessa cosa? No, non sono la stessa cosa). E così via.

Silenzio. Eppure i giornali – sì, proprio i giornalacci che strillano come aquile tutti i giorni – parlano continuamente di questi problemi. E perfino i fogli anarchici, da me religiosamente archiviati nei miei due archivi, quello grande e quello piccolo, insistono a parlare di questi problemi (economici?). E allora. Semplice, tutti parliamo di cose che non sappiamo. Normale, non vi pare?

Non sto suggerendo di impadronirsi di un Que sais je?, come ce n’erano a profusione in Francia una volta, scegliendo quello specializzato in economia. Da noi esistevano anticamente i bignamini. Non hanno mai risolto nessun problema di conoscenza. Dico che si potrebbero affrontare alcuni problemi, magari scegliendo letture non difficili, eliminando le inutili superfetazioni matematiche che hanno alimentato le illusioni del capitale quarant’anni fa, e discuterne con altri compagni, seriamente. Seguendo questa strada si vedrebbe che mettendo da parte le vuote chiacchiere che spesso facciamo fra anarchici in nome, ognuno, delle proprie certezze, sulle quali è disposto a giurare eterna fedeltà, e legandosi alla necessità di parlare di cose concrete (che cos’è il denaro? perché il denaro non è il capitale? che cos’è una banca? che cos’è la Borsa? che cos’è un’azione di una società per azioni? perché un’azione di questo genere è diversa da un’obbligazione? che cos’è la sottoscrizione di un prestito statale? e non molti altri) si eviterebbero molte malcomprensioni, parecchie polemiche e quasi la totalità delle tempeste all’interno di un bicchiere d’acqua.

Non sto suggerendo di prendersi una laurea in economia, chi ce l’ha se la tenga visto che oggi anche con quella non riuscirà lo stesso a trovare un lavoro, sto parlando di piccoli passi su di un terreno minato, dove il nostro nemico continua a seminare i suoi trabocchetti e dove continuamente perpetua il suo dominio.

Eccoci al nostro Proudhon.

Non è una lettura facile. E detto questo potrei chiuderla qui. Con quale ardire mi permetto di ripubblicare questo libro che fece venire tanti dolori di pancia al povero Marx? Non sarebbe stato meglio mettere a dormire Proudhon come qualcun altro ha messo a dormire Marx? No, non sono d’accordo. L’anarchico propone una lettura straordinariamente efficace dell’economia, dei suoi meccanismi più intimi, delle sue trasformazioni, e scopre la sua intrinseca contraddittorietà. Il grande risultato di Proudhon, che quarant’anni di studio mi hanno reso sempre più chiaro, è che queste contraddizioni non sono risolvibili, non c’è nella realtà nessun superamento hegeliano, ma solo oltrepassamenti, che di volta in volta possono sfociare in una nuova sistemazione del processo produttivo (di sfruttamento, questo è ovvio), con la nascita di una società diversa da quella che oggi ci opprime e che il sogno di tutti noi ci fa sperare migliore. Solo sperare, nessuna certezza. Battersi per una certezza, come insegnava Marx, ha prodotto quel socialismo reale che ci ha allietati tutti nel secolo scorso. Proudhon fa vedere bene che non ci sono meccanismi automatici nello stesso processo economico, non ci sono scontri di forze sotterranee, non ci sono talpe, tutto è in lotta con tutto, costantemente, perché l’uomo è questa cosa miserevole. L’ironia che impiega per rispondere alle tristi favole di Rousseau è sempre pungente.

Osservando alcune serie statistiche fornite da Proudhon ci si accorge che sono vecchie di più di un secolo e mezzo, eppure i processi sono sempre identici, nulla è cambiato, e nulla cambierà fin quando le lacrime e il sangue saranno versati dalla parte dei lavoratori e i guadagni affluiranno nelle casseforti degli sfruttatori. Vedersi accompagnati per mano nello svolgimento di questi processi, senza l’apparato ostico e pretenzioso dei moderni lodatori del capitale, è impressionante. Questo è Proudhon, un operaio che sa cosa vuol dire lavorare quattordici ore al giorno e di questo parla, certo con la disponibilità di conoscenza di chi è riuscito, con i denti, a strappare la cultura dalle grinfie dei padroni e per questo motivo sa quanto questa cultura sia povera cosa se viene ereditata come il dono grazioso di un beneficio di classe o come una sinecura ereditaria.

E, alla fine, ci si accorge che l’economia è un triste imbroglio, un gioco delle tre carte, una truffa maldestra e continuamente bisognosa di essere supportata da altri imbrogli e altre truffe. E, alla fine, quando non dovesse più funzionare il meccanismo dell’accumulo truffaldino (negli ultimi tre anni il debito degli Stati europei è raddoppiato), c’è sempre il ricorso alla guerra, dapprima convenzionale, guerra contro altri popoli, piccole guerre qua e là per il mondo, e se anche questi sbocchi non dovessero funzionare, la guerra radicale, quella dell’ultima trincea, la guerra civile. Nessun ostacolo ferma i padroni se non la loro completa distruzione. Non dimentichiamolo.


Trieste, 19 giugno 2014


Alfredo M. Bonanno

Introduzione alla prima edizione

Un’“operazione” Proudhon, oggi [1975], presenta non poche difficoltà teoriche e pratiche, sia per chi si accinge, come noi, alla stesura di una guida per il lettore, sia per chi si assume l’onere della lettura.

Le difficoltà teoriche restano affidate alla ricchezza di un testo che, proponendosi come indagine economica, costantemente è diretto alla visione della realtà sociale nel suo insieme, visione per forza di cose molto più ricca e complicata di quanto non sia l’astrazione economica nelle sue coagulazioni teoriche.

Le difficoltà pratiche si individuano nella strategia diffamatoria e tipicamente chiesastica di una lettura che tende a fare di Proudhon il “banale” supporto di un’analisi accettata dalla chiesa rivoluzionaria in auge e, quindi, anche solo per questo, indiscutibile e veritiera.

Ma i due tipi di difficoltà vanno affrontati separatamente, non dimenticando di fare cenno a difficoltà marginali che si innestano in questi due filoni centrali.

Ad accrescere le dimensioni delle difficoltà teoriche contribuisce lo stesso Proudhon. «Io sono – egli scrive – un rivoluzionario, non sono un voltagabbana». (Lettera del 4 marzo 1842). Scrittore focoso, esuberante, ricchissimo, produttivo come pochi, spesso indulgente nella polemica, a volte noioso per le continue ripetizioni, a volte dilettevole per lampi di ottima prosa e arguta verve nella migliore tradizione dei moralisti francesi, autore di qualcosa come 38 grosse opere, 14 volumi di lettere, 3 raccolte di articoli, 6 volumi di appunti. Lui stesso si rese conto della necessità di fare chiarezza in questo grande mare tumultuoso dove non pochi vecchi filibustieri pescarono e pescano pesci di ogni sorta. In una lettera a Bergmann (14 maggio 1862), pochi anni prima di morire scriveva: «Penso che sarebbe opportuno che riassumessi in poche pagine, con chiarezza e semplicità, ciò che voglio, ciò in cui credo, ciò che sono». In un’altra lettera: «Si predicano in questo momento non so quanti Vangeli nuovi. E non ho voglia di aumentare il numero di questi pazzi». (Lettera del 27 luglio 1844).

Alla base di questa grande costruzione si identifica una logica ordinatrice spietata, ma di tipo diverso della solita che regge la visione del mondo dettata dalla prospettiva statalista. «Sistema non ne possiedo, respingo formalmente la supposizione di averne uno. Il sistema dell’umanità non sarà conosciuto che alla fine dell’umanità. Quello che mi interessa, è di riconoscere la sua strada, e se posso, di contribuire a tracciarla». (“Le Pleuple”, 21 marzo 1849). Alla base del lavoro di Proudhon si colloca il pluralismo sociale, centro di tutte le contraddizioni, “pluralismo e contraddizioni che garantiscono la vita e il movimento dell’intero universo”.

Il filo conduttore della sua critica sociologica della realtà apparentemente contraddittoria, è proprio questo pluralismo di dottrine, di istituzioni, di mentalità, di strutture, che costituisce l’essenza della società. All’interno di questa scelta di campo si inserisce il processo critico nei confronti dei punti di riferimento costanti del potere.

Le difficoltà teoriche sono quindi eliminabili con un’attenta lettura diretta a cogliere i momenti critici del passaggio dall’individuale al collettivo, momenti in cui vengono individuati i punti di contatto tra i diversi livelli di contraddizioni e le istituzioni “costanti” che pretendono condizionare l’uomo in nome di valori cosiddetti “superiori”: la proprietà capitalista, l’assolutismo dello Stato, lo spiritualismo idealistico. Spiegando le sue scelte di metodo, eccolo scrivere a Williaumé: «Trovai che la società, in apparenza comprensibile, regolare, sicura di se stessa, era abbandonata al disordine e all’antagonismo; che era anche sprovvista di scienza economica e di morale; lo stesso per i partiti, le scuole, le utopie e i sistemi. Cominciai allora, o meglio ricominciai, su nuove basi, un lavoro di riconoscimento generale dei fatti, delle idee e delle istituzioni, senza partito preso, e senza altra regola d’apprezzamento che la stessa logica». (Lettera del 29 gennaio 1856).

Restano le difficoltà pratiche. I testi di Proudhon in lingua italiana, a parte il tanto noto Che cos’è la proprietà? sono di difficile reperimento. Qualche antologia come quella curata da Mario Bonfantini nel 1957 e le edizioni della Utet. Le critiche sono improntate a due correnti ben precise: la marxista e la liberale. Un modello della critica del primo genere sono le brevi parole che Gian Mario Bravo fa precedere alla parte dedicata a Proudhon nell’antologia Il socialismo prima di Marx (Roma, II ed. 1970). Vi si ripetono i giudizi di Marx. La condanna suona in questo modo assoluta e senza ricorso. Proudhon appare come un confusionario, mezzo economista e mezzo filosofo, in sostanza né economista né filosofo. Troppo poco sistematico per essere economista, troppo poco rispettoso dei padri della chiesa filosofica tedesca per essere filosofo. In questo modo si costruisce l’alibi che chiude una lettura produttiva dei testi di Proudhon e, in particolare, una lettura diretta a scontrarsi con la concezione deterministica di un certo marxismo, funzionale soltanto alla visione precostituita del partito.

Da canto suo il morente liberalismo ha ravvisato, specie in Italia e in questi ultimi anni [1975], un filone non trascurabile nel pensiero anarchico (Proudhon e Merlino sono i due pensatori di cui ci risulta con certezza questo tipo di operazione), filone sfruttabile per alimentare una prospettiva teorica che, contraddetta dalla realtà e dall’accentuarsi delle contraddizioni produttive, trova il proprio campo d’attività nell’ambiente rarefatto delle elucubrazioni universitarie. È in questo senso che va letta l’Introduzione di Vittorio Frosini al volume curato da Aldo Venturini Il socialismo senza Marx (Bologna 1974), che è una ricca antologia di scritti di Francesco Saverio Merlino.

Questa brava gente non si preoccupa per nulla di chiarire la base essenziale del pensiero di Proudhon. Essi prendono il lettore per mano conducendolo con più o meno maestria filistea attraverso un labirinto di luoghi comuni e di citazioni erudite, per dimostrare come la posizione di Proudhon sia importante dal punto di vista scientifico (sociologico) e come ciò non abbia nulla a che vedere col piano delle lotte reali (tesi avanzata dai liberali), oppure come Proudhon sia importante quale confuso ripetitore di teorie molto diffuse all’epoca, eminentemente esposte e cristallizzate dalla grande opera marxiana (tesi avanzata dai marxisti, neo dominatori delle nostre aule universitarie).

È logico che il povero Proudhon finisce per sopportare il supplizio di Damiens. Tirato da tutte le parti le sue membra stentano a staccarsi e deve intervenire il caritatevole carnefice per tagliare i tendini con un grosso coltello. In pratica sia l’operazione mistificatoria marxista, sia la patetica operazione dei liberali non riescono a smembrare il robusto corpo teorico proudhoniano e si accaniscono senza risultati evidenti. La conclusione più logica è il colpo di coltello: evitare di mettere in circolazione le opere nella loro totalità, tagliando le parti pubblicate in tutto quello che potrebbero avere di controproducente per il sostegno della tesi avanzata.

Il capostipite di questo modo di ragionare è proprio Engels. Nella sua Introduzione del 1884 alla Miseria della filosofia di Marx, non si prende per niente cura di dare indicazioni e chiarificazioni sull’opera di Proudhon, contro cui il lavoro di Marx era diretto, ma sposta il problema su Johann Rodbertus. Lo stesso Marx non centra il problema della ricerca di Proudhon e, nella sua intenzione essenzialmente polemica, non rende giustizia a una visione rivoluzionaria della realtà che, in ultima analisi, fatte le dovute proporzioni riguardo la concezione autoritaria della lotta, non era molto diversa dalla sua e verso cui aveva contratto non pochi debiti. Da parte sua Proudhon aveva precisato in una lettera a A. Gauthier: «Tu mi chiedi spiegazioni sul modo di ricostruire la società. In due parole: abolire progressivamente e fino alla sua estinzione l’eredità, ecco il passaggio. L’organizzazione risulterà dal principio di divisione del lavoro e della forza collettiva, combinato con il mantenimento della personalità nell’uomo e nel cittadino». (Lettera del 2 maggio 1841).

Sgombrato il terreno dalle vere o pretese difficoltà ci resta il problema di spiegare, in breve e chiaramente, il nocciolo del pensiero proudhoniano, condizione essenziale per comprendere le “contraddizioni” che si pongono quale momento di una ricerca complessiva considerata come unità indissolubile. Che cosa occorre per la rivoluzione? Proudhon ha le sue ricette, che cambierà via via nel corso della loro preparazione: «Un saggio che sappia fondare la scienza economica, una scienza con i suoi assiomi, le sue determinazioni, il suo metodo, la sua propria certezza, una scienza né matematica, né giuridica. Non occorre meno di questo per produrre la rivoluzione. Dopo la scienza economica, una filosofia della storia che cammini verso l’avvenire e poi una filosofia generale». (Lettera a Charles Edmond del 10 gennaio 1852).

Il pluralismo sociologico costituisce la base della sua critica sulla proprietà capitalista, come critica di un individualismo atomistico che contrasta con l’essere collettivo, con la pluralità delle persone e dei gruppi sociali. Per Proudhon l’individualismo capitalista negando l’esistenza degli organismi collettivi autonomi intende impadronirsi in proprio del surplus produttivo. Allo stesso modo, il pluralismo sociologico consente la critica dell’assolutismo dello Stato, visto sia sotto l’aspetto fascista che sotto quello di un totalitarismo di sinistra. Per Proudhon lo Stato non risulta da un insieme di gruppi sociali, ma dal dominio esercitato da un gruppo sugli altri tramite l’appropriazione dei poteri appartenenti a tutta la collettività. Alla base stessa del pluralismo sociologico sta una critica filosofica dello spiritualismo dogmatico, che poi sarebbe una forma di idealismo integrale non dissimile dal materialismo visto attraverso la lente determinista tipicamente hegeliana. Proudhon indica il pericolo di un integralismo dogmatico che diventi il mezzo ideologico di un principio dominatore agente nel campo sociale.

Il tema centrale del pensiero di Proudhon è quindi la critica del potere, considerato assolutista anche quando ama darsi l’atteggiamento democratico, anche quando pretende dare la libertà. La lotta contro l’assolutismo è condotta in nome di una realtà pluralista che si oppone a ogni sistema semplificante che cerca di mummificare la realtà sociale nelle sue libere manifestazioni.

Una possibile conclusione sarebbe stata il conservatorismo eterodosso alla Victor Cousin diretto a un eclettico stato di disorganizzazione, copertura pretestuosa della spontaneità e della volontà. Secondo il modo di lavorare di Proudhon: «Io dimentico i miei vecchi libri e non li leggo più. Con questa abitudine, deve frequentemente succedere nei miei scritti che ci siano cose difficilmente conciliabili». (Lettera a Clerc del 4 marzo 1863). È proprio nelle Contraddizioni economiche, in questo difficile e complesso compendio della problematica sociale a carattere contraddittorio, che Proudhon cerca di studiare la realtà nella ricca varietà che la contraddistingue, senza nulla perdere e senza nulla sacrificare a un preteso altare della semplicità o dell’efficienza. Eppure il suo discorso non scade mai nel pluralismo individuato e quindi ineliminabile, simile a una condanna, ma si mantiene costantemente nel pluralismo visto come metodo d’indagine e quindi come mezzo efficiente di conoscenza. In questa vasta opera Proudhon studia le lotte del lavoro, della produzione, della circolazione delle ricchezze. Ma la lotta del lavoro, derivante dalla divisione parcellare, e la sua contrapposizione al capitale, così come emerge dal sistema di sfruttamento realizzato storicamente dalla classe dominante, non trova la sua mummificazione nel quadro di una indagine esclusivamente economica, essa al contrario viene continuamente rinviata al problema della divisione e dell’alienazione generale della società sottoposta alla gestione del potere a forma capitalista. Per Proudhon non esiste una divisione netta tra analisi economica e analisi sociologica, quindi morale. La sua riflessione si svolge nel campo delle istituzioni economiche ma anche in quello dei rapporti sociali che vengono da quelle istituzioni caratterizzati e che contribuiscono a caratterizzare, via via, nello svolgimento delle modificazioni storiche, le istituzioni stesse.

La struttura esteriore delle Contraddizioni economiche lascia a desiderare. Ed è proprio in questo senso che si diresse per prima cosa la critica distruttiva di Marx. Le contraddizioni sono individuate a due livelli: tra i termini economici che vengono anche chiamati “epoche” e all’interno di ogni singolo termine. Le epoche individuate sono dieci: divisione del lavoro, macchine, concorrenza, monopolio, imposta, bilancia di commercio, credito, proprietà, comunità, popolazione. Da un punto di vista generale ogni termine è in contrasto con quello precedente.

Certo, il metodo è piuttosto approssimativo. In una lettera a Clerc Proudhon scrive: «Vi sarebbe senza dubbio più di una espressione scorretta da rimpiazzare se facessi una edizione completa delle mie opere e se tenessi che tutto fosse in armonia. Eppure sono dell’idea che tutto vi si sostenga segua e si giustifichi». (Lettera del 14 marzo 1863). Malgrado questa limitazione Proudhon riesce a scoprire in modo efficace le contraddizioni, denunciandole violentemente, mettendo in risalto l’interessato contributo degli economisti ufficiali a una gestione di potere fondata sullo sfruttamento. Ogni termine assume l’aspetto della necessità, il monopolio è altrettanto necessario della libera concorrenza, per cui i difensori dell’uno e dell’altra, accanitamente in contrasto, finiscono per dimostrare l’inutilità della scienza economica e la sostanziale brutalità del potere che perpetua lo sfruttamento, accontentandosi, tramite i suoi giullari prezzolati, di darsi una patina superficiale di scientifico perbenismo.

Se la rivoluzione francese del 1789 determinò la liberazione dagli ostacoli feudali riguardo la produzione e il commercio, dette vita a una serie di conflitti che resero indispensabile l’emersione del monopolio, termine contrario della liberalizzazione. Il sistema capitalista viene costretto a una lotta costante che finisce per renderlo contraddittorio e logico nello stesso tempo. A proposito della proprietà, ecco le famose parole: «Se dovessi rispondere alla domanda seguente: Che cos’è la schiavitù? E se in una parola io rispondessi: è l’assassinio, il mio pensiero sarebbe subito compreso. Non avrei bisogno di un lungo discorso per dimostrare che togliere a un uomo il pensiero, la volontà, la personalità, è un potere di vita e di morte, per cui fare di un uomo uno schiavo, è assassinarlo. Per quale motivo dunque a quest’altra domanda: Che cos’è la proprietà? Non potrei rispondere allo stesso modo: è il furto! Senza avere la certezza di essere frainteso, per quanto questa seconda proposizione non sia altro che la prima trasformata». (Qu’est-ce que la Propriété? Ou Recherches sur le principe du Droit et du Gouvernement. Premier Mémoire, ns. tr., Paris 1840, p. 5).

Ogni “livello” corrisponde a un principio economico, ogni principio genera conseguenze di due tipi: positive e negative. A esempio, la divisione del lavoro determina l’aumento della produzione, lo sviluppo delle capacità professionali e forse la creatività, ma al contrario la stessa divisione del lavoro causa un regresso nelle capacità professionali e trasforma l’uomo in un automa. L’artigiano padrone della propria arte creativa si trasforma nell’operaio generico. La macchina determina una riduzione degli sforzi lavorativi umani, esprime l’intelligenza creatrice e il dominio che esercita sulle cose ma, nello stesso tempo, degrada il lavoratore trasformandolo in semplice manovratore, diminuisce per lunghi periodi le possibilità stesse di lavoro, aumenta la subordinazione del lavoratore alle forze che lo sfruttano.

Non bisogna dimenticare che la lotta di Proudhon è, almeno sul piano teorico, diretta contro quella specie di filosofia del “migliore dei mondi possibili” che fu il liberalismo francese dell’epoca di Frédéric Bastiat. Le sue critiche in questa direzione sono fortissime. Gli strali densi di una sottile ironia non si contano in tutto il libro. In effetti, specie nelle ultime pagine, si vede come il suo lavoro è diretto a provare che, in contrapposizione alle “armonie” di certi servi del potere, si può ricostruire un’analisi sociale che indichi con esattezza le disarmonie e le contraddizioni che costituiscono la vera essenza della società, disarmonie e contraddizioni che non possono essere superate con accorgimenti e con panacee, con riforme e con lotte “democratiche”, in quanto a ogni mossa, per quanto diretta dai migliori intendimenti, corrispondono effetti in eguale misura positivi e negativi. Quindi, a ogni tentativo di spingere in un certo senso la costruzione sociale si mettono in moto forze che hanno una sola possibilità reale: quella di inserire nel già molto complesso e contraddittorio tessuto economico e sociale altri elementi altrettanto contraddittori e subitamente pronti a generare ancora infiniti altri elementi non differentemente contraddittori. L’alternativa evidente resta la rivoluzione, cioè la radicale eliminazione del gioco delle parti, il salto qualitativo che fa cessare il computo aritmetico delle quantità, computo nientificato dall’algebra delle contraddizioni.

Scrive a questo riguardo Pierre Ansart: «La divisione della società in due classi antagoniste corrispondenti al Capitale e al Lavoro non cessa di costituire sia il quadro sociale delle antinomie come le loro conseguenze. In pratica, i princìpi economici, si sviluppano in una società in cui il principio generale è quello del furto e dello sfruttamento del lavoro, i quali incessantemente hanno come conseguenza il rafforzamento dell’antagonismo sociale. In ogni epoca del sistema economico viene confermata la distinzione della società in due classi antagoniste e lo sfruttamento sociale ed economico del proletariato. Socialmente, i meccanismi dell’economia costringono irrimediabilmente il proletariato in una situazione di subordinazione: la degradazione, l’abbrutimento, la sottomissione alle gerarchie strappano all’operaio la partecipazione che in epoche passate aveva nella produzione artigianale. Economicamente, l’estorsione operata sui salari dal furto capitalista impedisce radicalmente alla classe lavoratrice di consumare ciò che produce». (Sociologie de Proudhon, ns. tr., Paris 1967, pp. 43-44). Il punto finale dell’indagine proudhoniana non è quindi il tentativo di una soluzione, punto significativo per coloro che intendono vedere nel futuro la strutturata condizione di una prospettiva in corso di formazione oggi ma in aderenza a canoni precisi e precisi interessi. Ogni visione autoritaria è assente dal progetto di ricerca di Proudhon. Questo ha spinto molti studiosi – come lo stesso Ansart – anche favorevoli in linea di massima alla tesi di Proudhon, a chiedersi perché accanto alla costante analisi sulle contraddizioni non si trovi un’analisi o, almeno, qualche indicazione, riguardo la probabile evoluzione dell’economia capitalista. Leggendo in questo modo il testo di Proudhon si deve concludere che esso è parziale, manchevole, incapace di darci una chiave per comprendere il senso delle crisi del capitale. Se ogni parte del sistema è contraddittoria, se tutto il sistema nel suo insieme è sconvolto da un doppio movimento contraddittorio (positivo e negativo), che cosa cambia nel corso degli avvenimenti? Aumentando il numero delle contraddizioni, proliferando gli intrecci e gli imbrogli, non si ha altro risultato che quello di mettere al lavoro le teste vuote degli economisti e dei filosofi per dare una sistemazione più o meno logica a tanto materiale.

Gli schemi classici del marxismo devono qui essere messi da parte. Ma non bisogna dimenticare che Proudhon è materialista, sebbene il suo modo particolare di scrivere e la terminologia del tempo rendano questa scoperta non sempre agevole. Il suo materialismo emerge chiaramente quando parla del problema della miseria e ci dice che il progresso della miseria è e resta adeguato e parallelo al progresso della ricchezza. Egli non dice che l’impoverimento sarà crescente man mano che crescerà l’accumulazione del capitale, ma al contrario che si avrà un arricchimento “relativo” delle classi più povere e che la miseria resterà sempre come punto di riferimento relativo nei confronti del capitale.

Chi avrà la bontà di soffermarsi un attimo su questo pensiero comprenderà non solo la profondità dell’analisi di Proudhon, ma i motivi teorici che la differenziano – anche dal punto di vista formale – dall’analisi marxista.

Il povero resta povero finché vi sarà una differenza di classe, anche se non esisterà un impoverimento crescente commisurabile al tasso di accrescimento dell’accumulazione capitalista. E questa sua povertà sarà fenomeno non soltanto salariale, sarà fenomeno non soltanto aritmetico, ma ben più profondamente sarà fenomeno sociale nel senso più ampio del termine. Il persistere della contraddizione tra ricchezza e miseria svilupperà l’allargarsi delle contraddizioni nei diversi livelli. Il salario verrà sempre più nominalizzato mentre lo sfruttamento si scatenerà a livelli del tutto sconosciuti prima.

Per chi è a conoscenza delle moderne problematiche rivoluzionarie relative ai processi di liberazione e ai corrispettivi processi di sfruttamento, la profondità dell’intuizione di Proudhon è chiarissima. Il consumismo oggi ci insegna con grande evidenza che la miseria del lavoratore non deve necessariamente assumere l’aspetto tradizionale del passato, ma può presentarsi come “forma” relativa, come riappropriazione dei margini salariali concessi, attraverso un processo di inserimento in zone di consumo fasulle e artificiali. Non solo, lo stesso discorso deve potersi fare anche a livello di equilibri contraddittori mondiali tra zone sviluppate e zone non sviluppate. Gli scompensi tra miseria e ricchezza sono individuabili solo a condizione di chiarire il concetto di sviluppo “relativo”, sia in senso positivo che in senso negativo. Allo sviluppo relativo dei popoli sottosviluppati sono infatti molto interessati i paesi sviluppati, questo determina un notevole aumento nel consumo dei prodotti di questi ultimi e la contemporanea possibilità di ottenere a prezzi vantaggiosi (perché si sono attuate migliori condizioni di produzione) le materie prime che vengono prodotte dai primi. In altri termini, almeno ci pare, la pregiudiziale di un aumento costante della miseria in relazione all’aumento della ricchezza (accumulazione capitalista) non è un dato indispensabile per impostare il discorso rivoluzionario. E questa conclusione può anche venirci attraverso l’analisi fatta da Proudhon.

In una cosa Marx aveva ragione: lo schema dialettico è estraneo a Proudhon. La sua utilizzazione è spesso superficiale e quasi mai funzionale alla dimostrazione della vera realtà del suo pensiero. Il fatto non è, a nostro avviso, accidentale. La ricchezza del pensiero di Proudhon – a prescindere dall’uomo e dalle sue esperienze – è, nello stesso tempo, causa ed effetto della sua formulazione teorica, dello scopo analitico perseguito durante tutta la sua vita. Il campo indagato appare a Proudhon troppo ricco e troppo eterogeneo per poterlo racchiudere dentro la scatola di un meccanismo logico condizionante lo svolgimento stesso della realtà. Chi ha presente la Fenomenologia dello Spirito [1807] hegeliana si ricorderà di come la realtà venga costretta ad adeguarsi al ritmo del metodo logico, fino a essere snaturata, fino a trasformare l’alterna vicenda dell’uomo alla ricerca di se stesso in un itinerario romanzesco di gradevole lettura ma di scarsa validità per un’azione liberatoria. Proudhon ci appare quindi contraddittorio non solo come giudice di una situazione contraddittoria, ma anche come indagatore utilizzante un metodo contraddittorio, nella piena coscienza dei limiti del metodo stesso. La verità è che quel metodo gli serve come supporto per un ragionamento più ampio e non ha alcuna pretesa di servire per cose alle quali non può prestare aiuto alcuno. Al contrario, per Hegel, per Marx, il metodo dialettico non è un metodo, è la realtà nella sua essenza più intima. In Proudhon questa tesi, pur nella grande confusione di elementi, non è mai rintracciabile. La contraddizione regna sovrana, il metodo fornisce una strada, anche un poco pesante e tortuosa, ma sempre una strada. In altre situazioni, altri potranno utilizzare altre strade, altri metodi. Ma la realtà resta là, davanti al ricercatore, estranea al metodo, ricca delle proprie contraddizioni, incapace di prestare una logica perché priva di logica valida per tutti i tempi e per tutti i luoghi. La chiave interpretativa delle contraddizioni sarà individuata, di volta in volta, nella situazione storica, perché in quella prospettiva le singole “figure” avranno un certo grado contraddittorio, perché certe scelte (e non altre) sono state fatte e perché certe contraddizioni (e non altre) sono state messe in moto. In una nota poco conosciuta Proudhon scrive a questo proposito: «Rinnovo qui l’osservazione fatta su Hegel – nel Programme de Philosophie populaire – sull’esempio del quale avevo adottato l’idea che l’antinomia dovesse risolversi in un termine superiore, la sintesi, distinta dai due primi, la tesi e l’antitesi: errore di logica quanto di esperienza, dal quale mi sono oggi corretto. L’antinomia non si risolve; in ciò è il vizio fondamentale di tutta la filosofia hegeliana. I due termini di cui essa si compone si bilanciano, sia fra di loro, sia con altri termini antinomici; ciò conduce al risultato cercato. Una bilancia non è affatto una sintesi come l’intendeva Hegel e come io avevo supposto dopo di lui: fatta questa riserva, per puro interesse logico, mantengo tutto ciò che ho detto nelle mie Contraddizioni». (La giustizia nella rivoluzione e nella chiesa [1858], tr. it., Torino 1968, pp. 446-447).

Non vogliamo parlare della famosa polemica e del libello marxiano, tanto se ne è parlato con tutti i condimenti che le cucine marxiste hanno saputo preparare. Oggi, la critica marxiana del testo di Proudhon non ha molto valore per servire da guida, sia pure limitativa, alla lettura di Proudhon. Al contrario, il notissimo libro di Marx è indispensabile per servire da guida allo svolgimento del pensiero maturo di Marx, maturo almeno in senso filosofico se non economico. Si è ripetuto, con la Miseria della filosofia, lo stesso fenomeno de L’ideologia tedesca [1845-1846], in particolare della critica a Stirner. Scarsamente valida per comprendere Stirner oggi, quell’analisi è di grande importanza per comprendere Marx. Non è un caso, a nostro avviso, che i due testi che servirono a Marx per situare la propria posizione teorica nei confronti del materialismo storico siano due libelli contro due teorici anarchici. La cortina fumogena dei partiti marxisti non potrà mai nascondere del tutto i debiti e i crediti di queste operazioni.

Il fondo vero del problema è sempre lo stesso. Se il processo dialettico così com’è visto da Marx non è accidentale ma è precisamente diretto a costruire il sostegno teorico del “partito guida del proletariato”, della “dittatura del proletariato”, dello “Stato proletario” e simili aberrazioni, l’utilizzazione chiaramente marginale in Proudhon del metodo dialettico è altrettanto precisamente diretta a dimostrare che la realtà è troppo ricca per qualsiasi metodo che non sia il “pluralismo sociologico” e che, pertanto, solo una corrispondente ricchezza di esperienze e di solidarietà, di collettività agenti in modo molteplice, di esseri sociali capaci di trasformarsi anche in forma contraddittoria ma di emergere dalla contraddittorietà proprio per il riconoscimento della validità delle esperienze, può validamente interpretarla senza che tutto ciò abbia nulla a che vedere con la costrizione mentale e fisica dell’uomo, sia pure con scopi rivoluzionari.

Volendo mettere da parte il confronto polemico, e in questo senso si possono leggere con profitto le Note di Proudhon alla sua copia della Miseria della filosofia, dove si riscontrerà la sorpresa e la calma con cui Proudhon lesse il libello di Marx, si deve ammettere che Proudhon e Marx seguono un ragionamento in un certo senso parallelo, almeno riguardo gli obiettivi della lotta. Denunciano l’individualismo nell’economia che causa la separazione tra produzione e società. Denunciano il fondamento repressivo delle dottrine idealiste, della confusione tra organismo e società, tra scienza e verità. Denunciano il ruolo di sostegno della religione a favore della repressione e dello sfruttamento. Eppure, nonostante tutto (e il discorso si potrebbe ancora una volta identificare in quello riguardante Stirner), i marxisti (a cominciare dallo stesso Marx) hanno sempre insistito nel considerare Proudhon come un teorico piccolo-borghese. La realtà non può smentirsi. Chi progetta la conquista del potere deve necessariamente darsi un programma ben preciso, delimitato, apparentemente logico (non ha importanza se sostanzialmente assurdo), deve dare, a coloro che intende utilizzare, sia come agenti attivi che come soggetti passivi della propria azione, l’impressione che tutto sia risolto e, non potendo ovviamente fare questa paradossale affermazione, deve utilizzare l’espediente di dire che tutto è risolvibile in quanto le eventuali cose non risolte trovano risoluzione nella logica stessa della realtà che, prima o poi, finisce per costringere alla razionalità anche le cose apparentemente contraddittorie. In questo modo agisce il processo oggettivante della Chiesa cattolica, che impone il carisma della parola per garantire se stessa, i propri agenti, e i soggetti passivi che ricevono l’azione, contro eventuali critiche. Chi si confessa con un prete cattolico non s’interessa se il soggetto che riceve la confessione sia una “degna persona”, se moralmente sia all’altezza del compito affidatogli dai suoi superiori o se, al contrario, sia un volgare ladro o un assassino. Quello che conta è che vesta quell’abito, che abbia ricevuto quell’investitura, che pronunci quelle precise parole. Il mistero è grande garanzia di forza per il potere. Più le cose sono oscure, più è facile oggettivarle, più in questo modo vengono strappate alla corrosiva critica di coloro che si domandano: perché?

Non diversamente il metodo dialettico consente al partito autoritario di garantire una validità costante all’azione dei suoi agenti e una logica costante all’aspettativa delle masse. Non è importante che queste si dispongano criticamente verso la realtà, anzi ciò sarebbe un male notevole, quello che conta è che la visione della realtà sia esattamente quella fornita dall’organizzazione, tanto ci saranno sempre quei centri di potere che elaboreranno interpretazioni della realtà da fornire in pasto alle masse, come pure, garantendo la persistenza dello sfruttamento, ci saranno sempre le masse disposte ad accettare questa elaborazione come cosa “sacra” perché proveniente dall’autorità carismatica.

Uscendo da quest’atmosfera asfissiante, respirando l’aria movimentata e spesso tempestosa della realtà, si ha l’impressione di trovarsi nel caos e nell’impossibilità di comprendere qualcosa. La realtà, dapprima ordinata e sistematica, appare priva di significato. Quanto più agevole il dolce tepore del grembo materno, quanto più gradevole il mormorio delle parole del prete che ci assolve dei nostri peccati mettendoci nella condizione di ricominciare di nuovo a cuor leggero sicuri di trovare sempre nuova protezione e comprensione, quanto più sicuro il partito politico rivoluzionario che ci protegge e ci illumina, ci dice quello che è giusto e quello che è sbagliato, che è depositario delle chiavi del meccanismo intrinseco della realtà e come tale sa quando occorre scendere in piazza per farsi ammazzare e quando, invece, occorre andare a recitare la farsa elettorale. Fuori di tutto ciò: pericoli e confusione.

Un senso di smarrimento si prova leggendo Proudhon, specie per il lettore contemporaneo abituato alle “tranquillità” marxiste. Ancora una volta, più che per altri scrittori anarchici, la lettura di Proudhon è per uomini di buona volontà.


Catania, 12 settembre 1975

Alfredo M. Bonanno


[Introduzione al Sistema delle contraddizioni economiche. Filosofia della Miseria, tr. it., Catania 1975, pp. 7-15, pubblicato su Alfredo M. Bonanno, Potere e contropotere, seconda ed., Trieste 2012, pp. 222-250].

Prologo

Prima di entrare nella materia che è l’oggetto di queste nuove Memorie, debbo rendere conto di una ipotesi, che, senza dubbio, parrà strana, ma senza la quale è impossibile andare avanti ed essere inteso; voglio parlare dell’ipotesi di Dio.

Si dirà: supporre Dio è come negarlo. Perché non lo affermate? È colpa mia se la fede nella Divinità è diventata un’opinione sospetta? Se la semplice congettura di un Essere supremo è notata come indizio d’uno spirito debole e se di tutte le utopie filosofiche è la sola che il mondo non tollera più? È colpa mia se l’ipocrisia e la stupidità si celano ovunque sotto codesta santa etichetta? Che un dottore supponga nell’universo una forza sconosciuta che attrae i soli e gli atomi e fa muovere tutta la macchina; per lui codesta supposizione, interamente gratuita, è affatto naturale. È accolta, incoraggiata: esempio, l’attrazione, ipotesi che non si riuscirà mai a verificare e che pure copre di gloria il suo inventore. Ma quando, per spiegare il corso delle faccende umane, suppongo, con tutta la riserva immaginabile, l’intervento di un Dio, sono sicuro di mettere sottosopra la gravità scientifica e di offendere le orecchie severe: tanto la nostra pietà ha meravigliosamente screditato la Provvidenza, tanti imbrogli opera col mezzo di questo dogma o di questa finzione il ciarlatanesimo d’ogni foggia.

Ho veduto i deisti dei miei tempi e la bestemmia è salita alle mie labbra; ho considerato la fede del popolo, di quel popolo che [Jacques] Brydaine chiamava il migliore amico di Dio e la negazione che stava per sfuggirmi mi ha fatto fremere. Tormentato da contrari sentimenti, ho fatto appello alla ragione, e la ragione per l’appunto, fra tante opposizioni dogmatiche mi impone ora l’ipotesi. Il dogmatismo a priori, applicato a Dio, è rimasto sterile; chi sa dove, a sua volta ci condurrà l’ipotesi?....

Dirò dunque in qual modo studiando nel silenzio del mio cuore, e lungi da qualsiasi rispetto umano, il mistero delle rivoluzioni sociali, Dio, il grande ignoto, sia divenuto per me una ipotesi, cioè un necessario strumento dialettico.

Se seguo, attraverso le sue trasformazioni successive l’idea di Dio, trovo che codesta idea è innanzi tutto sociale; intendo dire che è piuttosto un atto di fede del pensiero collettivo, che un concetto individuale. Ora, come e in quale occasione un tale atto di fede si produce? Importa determinarlo.

Dal punto di vista morale e intellettuale, la società, ovvero l’uomo collettivo, si distingue essenzialmente dall’individuo per la spontaneità di azione, altrimenti detta istinto. Mentre l’individuo non obbedisce, o si immagina di non obbedire se non a motivi di cui ha piena conoscenza e ai quali è padrone di ricusare o accordare la propria adesione; mentre, in una parola, si giudica libero e tanto più libero quanto si stima meglio atto a ragionare e più istruito, la società è soggetta a moti in cui, a primo aspetto, non si scorge né deliberazione né progetto, ma poi, via via sembrano diretti da una mente superiore, che esiste fuori della società e spinge questa con una forza irresistibile verso uno scopo ignoto. La fondazione delle monarchie e delle repubbliche, la distinzione delle caste, le istituzioni giudiziarie, ecc., sono altrettante manifestazioni di questa spontaneità sociale, della quale è più facile notare gli effetti, che indicare il principio o rendersi ragione. Tutti gli sforzi, anche di coloro che dietro le orme di [Jacques] Bossuet, Vico, Herder, Hegel, si sono applicati alla filosofia della storia, hanno mirato sinora ad accertare la presenza del destino provvidenziale che governa tutti i movimenti dell’uomo. E io osservo a questo riguardo, che la società non manca mai, prima di agire, d’evocare il suo genio; come se volesse farsi ordinare dall’alto quanto già la sua spontaneità ha risolto. Le sorti, gli oracoli, i sacrifici, le acclamazioni popolari, le pubbliche preci sono la forma più consueta di codeste spontanee deliberazioni della società.

Questa misteriosa facoltà, del tutto intuitiva, e per così dire soprasociale, poco o punto sensibile nelle persone, ma che aleggia sull’umanità come un genio ispiratore, è il fatto primordiale di ogni psicologia.

Ora, diversamente dalle altre specie animali, soggette, come lui, del pari ad appetiti individuali e ad impulsi collettivi, l’uomo ha il privilegio di percepire e indicare al proprio pensiero l’istinto o il fatum che lo guida; vedremo più tardi che ha anche la facoltà di penetrarne e anche influenzarne i decreti. E il primo moto dell’uomo, rapito e pieno d’entusiasmo (del soffio divino) è di adorare la Provvidenza invisibile da cui sente di dipendere e che egli chiama Dio, cioè vita, essere, spirito, o più semplicemente ancora, Io; dacché tutti codesti vocaboli, nelle lingue antiche, sono sinonimi e omofoni.

Io sono Io, dice Dio ad Abramo, e tratto con Te... E a Mosè: Io sono l’Essere. Tu parlerai ai figli d’Israele: l’Essere mi manda ai tuoi. Queste due parole, Essere e Io, hanno nella lingua originale, la più religiosa che gli uomini abbiano mai parlato, la medesima impronta caratteristica. [Je-hovah e nei composti Jah, l’essere; Jao, iou-piter, uguale significato; ha-jah, ebraico egli fa; ei, greco egli è, ei-nai, essere; an-i, ebraico e in coniugazione th-i, me; e-go, io, ich, i, m-i, m-e, t-ibi, t-e e tutti i pronomi personali nei quali le vocali i e, , , raffigurano la personalità in genere e le consonanti m o n, s o t servono a indicare il numero d’ordine delle persone. Del resto, si disputi pure sull’analogia; non mi oppongo, a questa profondità, la scienza del filologo non è più che nube e mistero. Ciò che importa, ribadisco, è che il rapporto fonetico dei nomi sembra tradurre il rapporto metafisico delle idee]. Altrove, quando Jehova, facendosi legislatore per mezzo di Mosè, attesta la propria eternità e giura per la propria essenza, egli usa questa formula di giuramento: Io, ovvero con un raddoppiamento d’energia: Io, l’Essere. In modo che il Dio degli Ebrei è il più personale e il più volontario di tutti gli dèi, e nessuno meglio di lui esprime l’intuizione dell’umanità.

Dio appare dunque all’uomo come un me, come un’essenza pura e permanente, che si pone dinanzi a lui come un monarca dinanzi al suo servo e che si afferma, ora per la bocca dei poeti, dei legislatori, degl’indovini, musa, nomos, numeri; ora con l’acclamazione popolare: Vox populi, vox Dei. Ciò può servire anche a spiegare come vi siano oracoli veri e oracoli falsi; perché gl’individui isolati sin dalla nascita non giungono da soli all’idea di Dio, mentre la ricevono avidamente non appena è ad essi presentata dall’anima collettiva; in che modo infine le razze stazionarie, come i Cinesi, finiscano per smarrirlo. [I Cinesi hanno conservato nelle loro tradizioni il ricordo di una religione che avrebbe cessato d’esistere fra loro verso il V o il VI secolo innanzi l’era volgare (V. Pauthier, Chine, Paris, Didot, 1843). Una cosa più sorprendente ancora è che questo popolo singolare, perdendo il suo culto primitivo, pare abbia compreso che la divinità non è altro che il me collettivo del genere umano; in modo che da più di duemila anni, la Cina, nella sua credenza volgare, sarebbe giunta agli ultimi risultati della filosofia dell’Occidente. “Ciò che il cielo vede e intende”, è detto nello Sciù-Ching, “non è altro che quel che vede e intende il popolo. Ciò che il popolo giudica degno di ricompensa e di pena, è ciò che il cielo vuol punire e ricompensare. Vi è una comunicazione intima tra il cielo e il popolo: coloro che governano il popolo siano dunque attenti e riservati”. Confucio ha espresso il medesimo pensiero in altra maniera: “Acquistati l’affetto del popolo e acquisterai l’impero – Perdi l’affetto del popolo, e perderai l’impero”. Ecco dunque la ragione generale, l’opinione dichiarata regina del mondo, come è avvenuto altrove per la rivelazione. Il Tao-te-ching è più decisivo ancora. In questo libro, abbozzo di una critica della ragion pura, il filosofo Lao-Tse identifica sempre, sotto il nome di Tao, la ragione universale e l’essere infinito; ed è, a mio avviso, in questa costante identificazione di princìpi che le nostre abitudini religiose e metafisiche hanno profondamente differenziato, la causa della oscurità del libro di Lao-Tse]. Primo, in quanto agli oracoli, è chiaro che tutta la loro certezza viene dalla coscienza universale che li ispira; e in quanto all’idea di Dio, si comprende facilmente perché l’isolamento e lo statu quo gli sono ugualmente rovinosi. Da una parte la mancanza di comunicazione tiene l’anima assorta nell’egoismo animale; dall’altra, l’assenza del moto, cangiando poco a poco la vita sociale in routine e meccanismo, elimina alla fine l’idea di volontà e di provvidenza. Cosa strana! la religione, che perisce a causa del progresso, perisce anche per l’immobilità.

Notiamo per soprappiù che, riportando alla coscienza, vaga e per così dire obiettivata, di una ragione universale, la prima rivelazione della divinità, noi non ipotizziamo alcun giudizio preventivo sulla realtà o non-realtà di Dio. Ammettiamo difatti che Dio non sia altra cosa che l’istinto collettivo o la ragione universale: resta da sapere ciò che codesta ragione è in se stessa. Dacché, come mostreremo in seguito, la ragione lavora in una sfera a parte e come una realtà distinta dalla ragione universale non è accolta nella ragione individuale, o, in altri termini, la conoscenza delle leggi sociali, o le teorie delle idee collettive, quantunque dedotta dai concetti fondamentali della ragione pura, è tuttavia empirica e non sarebbe stata mai scoperta a priori, per via d’induzione o di sintesi. Da dove segue che la ragione universale con cui riferiamo codeste leggi come opera sua; la ragione universale, che esiste, ragiona, lavora in una sfera a parte e come una realtà distinta dalla ragione pura, in modo che il sistema del mondo quantunque creato secondo le leggi delle matematiche, è una realtà distinta dalle matematiche, dalla quale non si sarebbe potuta dedurre l’esistenza delle sole matematiche segue, concludo, che la ragione universale è precisamente nel linguaggio moderno, ciò che gli antichi chiamavano Dio. La parola è mutata; che sappiamo noi della cosa?

Consideriamo le evoluzioni dell’idea divina.

Una volta affermato con un primo giudizio mistico l’Essere supremo, l’uomo generalizza immediatamente questo tema con un altro misticismo – l’analogia. Dio non è, per dire così, che un punto; a momenti riempirà il mondo.

In quel modo che sentendo il proprio me sociale, l’uomo aveva salutato il suo Autore; così scoprendo indizi di consiglio e d’intenzione negli animali, nelle piante, nelle fonti, nelle meteore e in tutto l’universo, egli attribuisce a ogni oggetto particolare e poscia al tutto, un’anima, uno spirito o genio che vi presiede: svolgendo questa induzione deificatrice dalla più elevata sommità della natura, che è la società, alle più umili esistenze, alle cose inanimate e inorganiche. Dal suo me collettivo, preso come polo superiore della creazione, fino all’ultimo atomo di materia, l’uomo distende dunque l’idea di Dio, cioè l’idea di personalità e d’intelligenza, come il Genesi ci racconta che Dio stesso distese il cielo, cioè creò lo spazio e il tempo, nei quali tutte le cose si comprendono.

Onde che senza un Dio, sovrano fabbro, non esisterebbero l’universo né l’uomo; questo è l’atto di fede sociale. Ma anche senza l’uomo Dio non sarebbe pensato – facciamo addirittura questo passo – Dio non sarebbe nulla. Se l’umanità ha bisogno di un autore, Dio, gli dèi, hanno pur essi bisogno altrettanto di un rivelatore; la teogonia, le storie del cielo, dell’inferno e dei loro abitanti, sogni del pensiero umano, sono la controparte dell’universo, che da certi filosofi fu detta il sogno di Dio. E che magnificenza in questa creazione teologica, opera della società! La creazione del demiurgo fu annientata, colui che noi chiamiamo l’Onnipotente fu vinto e, per secoli, l’immaginativa incantata dei mortali fu stornata dallo spettacolo della natura a causa della contemplazione delle meraviglie dell’Olimpo.

Scendiamo da codesta regione fantastica, la ragione spietata batte all’uscio e bisogna rispondere alle sue gravi questioni.

Che è Dio? essa dice: dov’è? com’è? cosa vuole? cosa può? cosa promette? – ed ecco, alla luce dell’analisi, tutte le divinità del cielo, della terra e dell’inferno si riducono a un non so che d’incorporeo, impassibile, immobile, incomprensibile, indefinibile; in breve, a una negazione di tutti gli attributi dell’esistenza. Difatti, sia che l’uomo attribuisca a ogni oggetto uno spirito o genio speciale, sia che concepisca l’universo come governato da una potenza unica, egli non fa che supporre sempre una entità incondizionata, cioè impossibile, per dedurne una qualsiasi spiegazione di fenomeni giudicati altrimenti inconcepibili. Mistero di Dio e della ragione! Al fine di rendere l’oggetto della sua idolatria sempre più razionale, il credente lo spoglia via via di quanto potrebbe farlo reale, e a forza di miracoli di logica e di genio, gli attributi dell’Ente per eccellenza si trovano a essere gli stessi di quelli del nulla. È una evoluzione inevitabile e fatale: l’ateismo giace in fondo a ogni teodicea.

Tentiamo di far comprendere questo progresso.

Dio, creatore di tutte le cose, è appena egli medesimo creato dalla coscienza, in altre parole, non appena noi abbiamo elevato Dio dall’idea di me sociale, all’idea di me cosmico, ecco che la nostra riflessione si mette a demolirlo, sotto pretesto di perfezionamento. Perfezionare l’idea di Dio! purificare il dogma teologico! Questa fu la seconda allucinazione del genere umano.

Lo spirito di analisi, Satana infaticabile che interroga e contraddice senza tregua, doveva, tosto o tardi, cercare la prova del dogmatismo religioso. Ora, sia che il filosofo determini l’idea di Dio, o la dichiari indeterminabile; sia che l’avvicini alla sua ragione, sia che l’allontani, io dico che questa idea riceve una scossa, e siccome è impossibile che la speculazione si fermi, così è necessario che a lungo andare, l’idea di Dio, scompaia. Dunque il movimento ateistico è il secondo atto del dramma teologico, e questo secondo atto è dato dal primo, come l’effetto dalla causa. I cieli narrano la gloria dell’Eterno, dice il salmista. Aggiungiamoci: e la loro testimonianza lo abbatte.

Infatti, a misura che l’uomo osserva i fenomeni, crede scorgere alcuni intermediari tra la natura e Dio: come rapporti di numero, di figura, di successione, leggi organiche, evoluzioni, analogie. Un certo concatenamento in cui le manifestazioni si producono o si richiamano reciprocamente. Egli osserva ancora che nello sviluppo della società alla quale appartiene, le volontà private e le deliberazioni prese in comune esercitano pure una qualche influenza, e dichiara a se stesso che il grande Spirito non agisce sul mondo direttamente e da sé solo, né arbitrariamente e a capriccio ma mediatamente attraverso congegni e organi sensibili e secondo alcune norme. E risalendo col pensiero la catena degli effetti e delle cause, pone all’estremo, come a un bilanciere, Dio.

“Par delà tous les cieux, le Dieu des cieux réside” ha detto un poeta [Voltaire]. In modo che, al primo apparire della teoria, l’Essere Supremo è ridotto alla funzione di forza motrice, di chiavarda o chiave di volta, o, se mi si consente un paragone ancora più triviale, di sovrano costituzionale, che regna ma non governa, giura di conformarsi alla legge e ne nomina i ministri che l’eseguono. Ma sotto l’impressione del miraggio che lo affascina, il deista non vede altro in questo ridicolo sistema, che una prova novella della sublimità del suo idolo, il quale, secondo lui, adopera le sue creature come strumenti della sua potenza e volge a gloria propria la sapienza umana.

Ben presto, non contento di limitare l’impero dell’Eterno, l’uomo, divenendo, sotto un certo rispetto, sempre più deicida, vuole avervi parte.

Se io sono uno spirito, un Io sensibile che emette idee, seguita il deista, io partecipo all’esistenza assoluta; sono libero, creatore, immortale, pari a Dio. Cogito, ergo sum; penso, dunque sono immortale. Ecco il corollario, la traduzione dell’Ego sum qui sum: la filosofia è d’accordo con la Bibbia. L’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima sono affermati dalla coscienza nel medesimo giudizio; là l’uomo parla in nome dell’universo, nel cui seno trasporta il suo Me; qui parla in nome proprio, senza accorgersi che in questo andirivieni, si ripete e nulla più.

L’immortalità dell’anima, vera scissura della divinità, che quando, dopo lungo trascorrere di tempo, fu promulgata, parve un’eresia ai fedeli dell’antico dogma, fu nondimeno considerata come completamento della maestà divina, e necessario postulato della eterna bontà e giustizia. Senza l’immortalità dell’anima non si comprende Dio, dicono i deisti, simili in ciò ai politici teorici, per i quali una rappresentanza sovrana e funzionari, ovunque inamovibili, sono le essenziali condizioni della monarchia. Pure, se è esatta la parità delle dottrine, è altrettanto flagrante la contraddizione delle idee; onde il dogma dell’immortalità dell’anima divenne di un tratto la pietra d’inciampo dei teologi filosofi, i quali dai tempi di Pitagora e di Orfeo si sono sforzati inutilmente di porre in accordo gli attributi divini con la libertà umana, e la ragione con la fede. Bel trionfo per gli empi!... Ma l’illusione non poteva dileguarsi così presto; il dogma dell’immortalità dell’anima, appunto perché era una limitazione dell’Ente increato, era un progresso. Ora, se lo spirito umano s’inganna, a causa del parziale acquisto del vero, non indietreggia però giammai, e questa perseveranza nel suo cammino è la prova della sua infallibilità. Ed ecco una nuova dimostrazione. Facendosi simile a Dio, l’uomo faceva Dio simile a sé: questa correlazione che, durante molti secoli sarebbe stata dichiarata esecranda, fu la molla invisibile da cui scattò il nuovo mito. Al tempo dei patriarchi, Dio stringeva alleanza con l’uomo; ora, per cementare il patto, Dio si farà uomo. Prenderà la nostra carne, il nostro aspetto, le nostre passioni, le nostre gioie e le nostre pene, nascerà da donna e morrà come noi. Poi, dopo questa grande umiliazione dell’infinito, l’uomo pretenderà ancora di avere ingrandito l’ideale del suo Dio, facendo, con un giro di logica, un conservatore, un redentore di colui che fino allora aveva chiamato creatore. L’umanità non dice ancora: sono io Iddio. Questa usurpazione metterebbe orrore alla sua pietà. Essa dice: Dio è in me, Emmanuel, nobiscum Deus. E nel momento in cui la filosofia con orgoglio e la coscienza universale con spavento, gridano a voce unanime: gli dèi se ne vanno, excedere deos, s’inaugura, un periodo di diciotto secoli di adorazione fervida e di pace sovrumana.

Ma il termine fatale s’approssima. La potestà regia, che si lascia circoscrivere, finirà con la demagogia, la divinità che si definisce, si risolve in un pandemonio. La cristolatria è il termine ultimo di questa lunga evoluzione del pensiero umano. Gli angeli, i santi, le vergini regnano in cielo con Dio, dice il Catechismo; i demoni e i reprobi vivono nell’inferno tra i supplizi eterni. La società ultramondana ha la sua destra e la sua sinistra; è tempo che l’espiazione “si compia, che questa mistica gerarchia scenda sulla terra e si mostri nella sua realtà”.

Quando [John] Milton raffigura la prima donna in atto di specchiarsi in una fonte e tendere amorosamente le braccia verso la propria immagine, come per abbracciarla, egli dipinge nel modo più preciso il genere umano. – Questo Dio che tu adori, o uomo! questo Dio che facesti buono, onnipossente, giusto, sapientissimo, immortale, santo, sei tu stesso: questo ideale di perfezione è la tua immagine, purificata nello specchio ardente della tua coscienza. Dio, la Natura e l’Uomo sono il triplice aspetto dell’ente uno e identico; l’uomo è Dio stesso giunto, attraverso mille evoluzioni, alla coscienza di sé; in Gesù Cristo l’uomo s’è sentito Dio e il cristianesimo è davvero la religione dell’Uomo-Dio. Non c’è altro Dio fuor di colui che dalle origini ha detto: io; non c’è altro Dio che Te. Ecco le ultime conclusioni della filosofia che muore svelando il mistero della religione e il proprio.

* * *

Pare allora che tutto sia finito; che l’umanità cessando di adorarsi e di mistificarsi da sé, il problema teologico sia rimosso per sempre. Gli dèi sono partiti; all’uomo non resta che annoiarsi e morire nel suo egoismo. Che solitudine spaventosa si distende intorno a me e s’inabissa nel fondo dell’anima mia! La mia esaltazione somiglia all’annullamento e da che mi sono fatto Dio, non mi vedo se non come un’ombra. Può darsi che io sia sempre un Me, eppure mi è difficile credermi assoluto, e se io non sono l’assoluto, sono nulla più che la metà di una idea.

Poca filosofia allontana dalla religione, ha detto non so quale ironico pensatore, e molta filosofia vi riconduce. L’osservazione è di una verità umiliante.

Ogni scienza si sviluppa in tre epoche successive, che possono chiamarsi paragonandole alle grandi epoche della civiltà: epoca religiosa, epoca sofistica, epoca scientifica. [Vedi, fra gli altri, A. Comte, Cours de Philosophie positive, Paris 1830 e P. J. Proudhon, De la création de l’ordre dans l’humanité, Besançon 1843]. Così, l’alchimia rappresenta il periodo religioso della scienza che più tardi si chiamò chimica e il cui assetto definitivo non s’è trovato ancora! L’astrologia forma il periodo religioso di un’altra costruzione scientifica, l’astronomia.

Ora, ecco che dopo essersi burlati per sessant’anni della pietra filosofale, i chimici, guidati dall’esperienza, non osano più negare la trasmutabilità dei corpi; mentre gli astronomi sono indotti dalla meccanica del mondo a sospettare un organismo del mondo, cioè alcunché di simile all’astrologia. Non è forse il caso di dire, come il filosofo dianzi citato, che se poca chimica distoglie dalla pietra filosofale, molta chimica riconduce alla pietra filosofale, e del pari che se poca astronomia fa deridere gli astrologi, molta astronomia farebbe credere agli astrologi? [Non intendo qui affermare in maniera positiva la trasmutabilità dei corpi, né proporla come scopo alle investigazioni, e molto meno ho la pretesa di dire quale debba essere su questo punto l’opinione dei dotti. Voglio soltanto notare la specie di scetticismo che fanno nascere in qualsiasi mente non prevenuta le più generali conclusioni della filosofia chimica, o per meglio dire, le ipotesi inconciliabili che servono di sostegno alla sue teorie. La chimica è veramente la disperazione della ragione; essa tocca al fantastico per ogni parte, e quanto più l’esperienza ce lo fa conoscere, tanto più essa ci sembra circondata da misteri impenetrabili. Questa considerazione mi era testé suggerita dalla lettura delle Lettres sur la chimie di (Justus von) Liebig. Infatti, Liebig dopo avere eliminate dalla scienza le cause ipotetiche e tutte le entità ammesse dagli antichi, come la forza creatrice della materia, l’orrore del vuoto, lo spirito reggitore, ecc., ammette come condizione della intelligibilità dei fenomeni chimici una serie di entità non meno oscure: la forza vitale, la forza chimica, la forza elettrica, la forza di attrazione, ecc. La si direbbe una realizzazione delle proprietà dei corpi, a simiglianza di quel che hanno fatto delle facoltà dell’anima gli psicologi con i nomi di libertà, immaginazione, memoria, ecc. Perché non tenersi agli elementi? Perché se gli atomi hanno peso per se stessi, come pare che creda il Liebig, non sarebbero ancora per se stessi elettrici e viventi? Cosa curiosa! I fenomeni della materia, come quelli dello spirito, non diventano intelligibili se non supponendoli prodotti da forze inintelligibili e governati da leggi contraddittorie; ciò risulta da ogni pagina del libro di Liebig. La materia, secondo Liebig, è essenzialmente inerte e sprovveduta di qualunque attività spontanea; e allora com’è che gli atomi sono pesanti? Il peso inerte agli atomi non è il moto proprio, eterno, spontaneo della materia? E ciò che noi crediamo quiete, non sarebbe piuttosto un equilibrio? Perché dunque supporre ora una inerzia smentita dalle definizioni, ora una virtualità esteriore da nulla attestata? Da ciò che gli atomi sono pesanti, Liebig conclude che sono indivisibili. Che ragionamento! Il peso non è altro che la forza, cioè una cosa che non può cadere sotto i sensi e non lascia scorgere di sé altro che i propri fenomeni; una cosa perciò a cui non si può applicare il concetto di divisione e quello di non divisione; e dalla presenza di questa forza, dalla ipotesi di un’entità indeterminata e materiale si conclude in favore di una materialità indivisibile! Del resto Liebig confessa che non è possibile alla nostra intelligenza figurarsi particelle assolutamente indivisibili, riconosce di più che il fatto di questa indivisibilità non è provato; ma soggiunge che la scienza non può fare a meno di questa ipotesi, in modo che, per confessione dei maestri, la chimica ha per punto di partenza una finzione che ripugna all’intelletto, tanto quanto è affatto estranea all’esperienza. Che ironia! I pesi degli atomi, dice Liebig, sono disuguali, perché i loro volumi sono disuguali. Tuttavia è impossibile dimostrare che gli equivalenti chimici esprimono il peso relativo degli atomi, ossia, in altre parole, che ciò che noi, secondo il calcolo delle equivalenze atomiche, riguardiamo come atomo non sia composto di più atomi. Come dire che una quantità maggiore di materia pesi più di una quantità minore, e poiché il peso è l’essenza della materialità, si concluderà, a rigore, che la differenza dei corpi semplici deriva unicamente sia dai diversi modi di associazione degli atomi, sia dai diversi gradi di condensazione, e che insomma gli atomi sono trasmutabili, il che Liebig non ammette. “Non abbiamo, egli dice, alcun motivo di credere che un elemento si converta in un altro”. Cosa ne sapete voi? I motivi di credere a questa conversione possono benissimo esistere senza che voi li scorgiate e non è provato che, su questo proposito, la vostra intelligenza non pareggi la vostra esperienza. Pure ammettendo l’argomento negativo di Liebig, cosa ne segue? Che, salvo cinquantacinque eccezioni, rimaste sinora irriducibili, tutta la materia è in metamorfosi perpetua. Ora, è una legge della nostra ragione di supporre nella natura unità di sostanza del pari che unità di forza e unità di sistemi; per altro la serie dei composti chimici e dei medesimi corpi semplici vi ci conduce irresistibilmente. Come dunque rifiutare di battere fino alla meta la via aperta dalla scienza e di ammettere una ipotesi che è la fatale conclusione della stessa esperienza? Come nega Liebig la trasmutabilità degli elementi, così respinge la formazione spontanea dei germi. Ora, se si rigetta la formazione spontanea dei germi, è forza ammettere la loro eternità, ed essendo, d’altra parte, provato dalla geologia che il globo non fu sin dall’eternità abitato, si è costretti ad ammettere ancora che a un dato momento i germi eterni degli animali e delle piante siano sbocciati, senz’opera di padre o di madre, sulla faccia del globo. E così la negazione della generazione spontanea riconduce l’ipotesi di codesta spontaneità. Cosa offre di più contraddittorio la metafisica tanto sprezzata? Non si creda per ciò che io neghi il valore e la certezza delle teorie chimiche, né che l’atomismo mi paia cosa assurda, né che io accolga l’opinione degli epicurei sulla generazione spontanea. Quel che m’importa di porre in rilievo una volta ancora è che, dal punto di vista dei princìpi, la chimica ha bisogno di un’estrema tolleranza, essa non è possibile se non a patto di un certo numero di finzioni che ripugnano alla ragione e all’esperienza e si distruggono fra loro].

Io sono certamente, meno di molti atei, proclive al meraviglioso, ma non posso impedirmi di pensare che le storie dei miracoli, delle predizioni, degli incantesimi, ecc., non sono altro se non narrazioni alterate di effetti straordinari prodotti da certe forze latenti, o, come si diceva una volta, da potenze occulte. La nostra scienza è ancora così brutale e piena di malafede e nei nostri dottori trovi così poca scienza insieme a tanta burbanza, negando essi i fatti che li impacciano onde proteggere le opinioni di cui si giovano, che io diffido di questi spiriti forti non meno che dei superstiziosi. Sì, ne sono convinto; il nostro razionalismo grossolano inaugura un periodo che, a forza di scienza, diverrà veramente prodigioso; l’universo agli occhi miei è un laboratorio di magia nel quale c’è da aspettarsi di tutto... Ciò detto torno al mio tema.

Si cadrebbe in inganno dunque se si pensasse, dopo la rapida esposizione da me fatta delle evoluzioni religiose, che la metafisica abbia detto ormai l’ultima parola sul doppio enigma espresso da queste parole: esistenza di Dio, immortalità dell’anima. Qui, come altrove, le conclusioni più ardite e meglio fondate della ragione, quelle che sembrano aver troncata per sempre la questione teologica, ci riconducono al misticismo primordiale e implicano i dati novelli di una filosofia inevitabile. La critica delle opinioni religiose ci fa oggi sorridere di noi e delle religioni, eppure il riassunto di questa critica è semplicemente la riproduzione del problema. Il genere umano, nel momento in cui scrivo, è alla vigilia di riconoscere e di affermare qualcosa che equivarrà per lui all’antica nozione della divinità; e questo non più, come un tempo, con un moto spontaneo, ma per riflessione e in virtù di una dialettica invincibile.

Cercherò di spiegarmi in poche parole.

Se vi è un punto sul quale i filosofi abbiano, loro malgrado, finito per mettersi d’accordo, è senza dubbio la distinzione tra l’intelligenza e la necessità, tra il soggetto del pensiero e il suo oggetto, tra il me e il non-me; o, come volgarmente si dice, tra lo spirito e la materia. So benissimo che tutte queste parole non esprimono nulla di reale e di vero, che ciascuna di esse indica una scissione dell’assoluto che, solo, è vero e reale, e che prese separatamente, implicano tutte al pari una contraddizione. Ma non è meno certo altresì che l’assoluto ci è completamente inaccessibile, che noi non lo conosciamo altrimenti che per i suoi termini opposti, i soli che cadano sotto il nostro empirismo e che se l’unità sola può ottenere la nostra fede, la dualità è la prima condizione della scienza.

Così, chi pensa e chi è pensato? Cos’è un’anima? Cos’è un corpo? Sfido a sfuggire questo dualismo. È delle essenze come delle idee; le prime si mostrano separate nella natura, come le seconde nell’intelletto. – È nello stesso modo che le idee di Dio e dell’immortalità dell’anima, malgrado la loro identità, si sono collocate successivamente e contraddittoriamente nella filosofia; così appunto, malgrado la loro fusione nell’assoluto, il me e il non-me si offrono separatamente e contraddittoriamente nella natura e noi abbiamo esseri che pensano e, nello stesso tempo, esseri che non pensano.

Ora, chiunque si sia data la pena di rifletterci sopra, sa ormai che una distinzione simile, per quanto sussista in realtà, è ciò che la ragione può incontrare di più inintelligibile, contraddittorio e assurdo. Non si può concepire un essere qualsiasi senza le proprietà dello spirito o senza le proprietà della materia. Di maniera che, se voi negate lo spirito, perché, non trovando posto in nessuna delle categorie di tempo, spazio, moto, solidità, ecc., vi sembra privo di tutti gli attributi che costituiscono il reale, io negherò alla mia volta la materia, la quale, non offrendomi di notevole altro che la sua passività e d’intelligibile altro che le sue forme, in nessuna parte si manifesta come causa (volontaria e libera) e si nasconde del tutto come sostanza. Così si giunge all’idealismo puro, cioè al nulla. Ma il nulla ripugna a quei non so che i quali vivono e ragionano, riunendo in se medesimi, in uno stato (non saprei dire quale) di sintesi incominciata o di scissione imminente, tutti gli attributi antagonisti dell’essere. Siamo obbligati dunque a iniziare con un dualismo i cui termini sappiamo perfettamente che sono falsi. Ma esso è per noi la condizione del vero e ci s’impone invincibilmente. In breve dobbiamo, come Descartes, come il genere umano cominciare dal me, cioè dallo spirito.

Ma dopo che le religioni e le filosofie, disciolte dall’analisi, sono venute a fondersi nella teoria dell’assoluto, non siamo riusciti meglio a sapere cosa sia lo spirito e differiamo dagli antichi non per altro che per la ricchezza del linguaggio di cui ammantiamo l’oscurità che ci circonda. Solamente, mentre per gli uomini dei tempi andati l’ordine attestava una intelligenza fuori del mondo, per i moderni sembra piuttosto attestarla nel mondo. Ora, si metta dentro o fuori, dal momento che la si afferma in grazia dell’ordine, bisogna o ammetterla ovunque l’ordine si manifesta, o non ritrovarla in nessuna parte. Non c’è più ragione di attribuire l’intelligenza alla testa che produsse l’Iliade che a una massa di materia cristallizzata in ottaedri. E reciprocamente è tanto assurdo riferire il sistema del mondo alle leggi fisiche, senza tenere conto del me ordinatore, quanto l’attribuire la vittoria di Marengo a combinazioni strategiche, senza pensare al Primo Console. Tutta la differenza che si può fare è che in quest’ultimo caso il me pensante è circoscritto nel cervello di Bonaparte, mentre, riguardo all’universo, il me non ha sito speciale e si diffonde ovunque.

I materialisti hanno creduto di trionfare dell’opinione contraria, dicendo che l’uomo, avendo paragonato l’universo al proprio corpo, completò il paragone accordando a questo universo un’anima simile a quella che egli supponeva essere il principio della propria vita e del proprio pensiero. In tal modo tutti gli argomenti in favore dell’esistenza di Dio si riducevano a un’analogia tanto più falsa in quanto il termine di confronto era esso medesimo ipotetico.

Certo non vengo qui a difendere il vecchio sillogismo. Ogni combinazione supera una intelligenza ordinatrice; ma nel mondo esiste un ordine ammirabile; dunque il mondo è opera di una intelligenza. Questo sillogismo tanto ripetuto da Giobbe e Mosè in poi, lungi dall’offrire uno scioglimento, è soltanto la formula dell’enigma che si vuol decifrare. Noi conosciamo perfettamente cosa è l’ordine, ma ignoriamo nel modo più completo cosa intendiamo dire con la parola Anima, Spirito, Intelligenza; come dunque logicamente dalla presenza dell’uno concludere in favore della esistenza dell’altro? Io pertanto rigetterò la pretesa prova dell’esistenza di Dio tratta dall’ordine del mondo, fino a che si abbiano più ampie informazioni, né ci vedrò altro, se non tutt’al più, una equazione proposta alla filosofia. Dal concetto dell’ordine all’affermazione dello spirito c’è tutto un abisso di metafisica da colmare e mi guardo bene, lo ripeto, dal prendere il problema per una dimostrazione.

Ma non si tratta di ciò ora. Ho voluto mettere in chiaro che la ragione umana era fatalmente e invincibilmente condotta a distinguere l’essere in me e non-me. Spirito e materia, anima e corpo. Chi non vede come l’obiezione dei materialisti provi proprio quel che essa cerca di negare? L’uomo che distingue in se stesso un principio spirituale e un principio materiale, cos’altro è se non la natura medesima che proclama via via la sua doppia essenza e rende testimonianza alle proprie leggi? E notiamo l’inconseguenza del materialismo; esso nega ed è costretto a negare che l’uomo sia libero: ora meno libertà ha l’uomo, più importanza mostrano i suoi detti e devono considerarsi come espressioni della verità. Quando odo questa macchina che mi dice: io sono anima, io sono corpo, sebbene una rivelazione simile mi stupisca e mi confonda, pure essa agli occhi miei riveste un’autorità incomparabilmente più grande di quella del materialista, il quale correggendo la coscienza e la natura pretende che dicano: io sono materia e null’altro che materia; l’intelligenza è semplicemente la facoltà materiale di conoscere.

Cosa avverrebbe se, prendendo alla mia volta l’offensiva, dimostrassi come sia insostenibile l’esistenza dei corpi, o, in altri termini, la realtà di una natura puramente corporea? – La materia, si dice, è impenetrabile. – Impenetrabile a che? domando io. Senza dubbio a se medesima, perché nessuno oserebbe dire che è tale per lo spirito; sarebbe ammettere ciò che si vuole rigettare. A tal riguardo io propongo una doppia questione. Cosa ne sapete voi? che significa ciò?

1° L’impenetrabilità, grazie la quale si pretende di definire la materia è una pura ipotesi di fisici disattenti, una conclusione grossolana dedotta da un giudizio superficiale. L’esperienza mostra nella materia una divisibilità all’infinito, una dilatabilità all’infinito, una porosità senza limiti immaginabili, una permeabilità al calore, all’elettricità, al magnetismo, del pari che una proprietà di ritenerle tutte indefinite. E poi affinità, influenze reciproche e trasformazioni innumerevoli; cose tutte poco compatibili col concetto di un aliquid impenetrabile. L’elasticità che meglio di qualsiasi altra proprietà della materia poteva condurre, mediante l’idea di molla o di resistenza, a quella di impenetrabilità, varia secondo mille circostanze e dipende interamente dall’attrazione molecolare. Ora, cosa c’è che meno di quest’attrazione si concili con l’impenetrabilità? Del resto c’è una scienza che a rigore si potrebbe definire scienza della penetrabilità della materia: essa è la chimica. Difatti, in che differisce dalla penetrazione quella che chiamano composizione chimica? [I chimici distinguono la miscela dalla composizione, nello stesso modo che i logici distinguono l’associazione delle idee dalla sintesi. Vero è nondimeno che, secondo i chimici, la composizione sarebbe anche essa una miscela, o piuttosto una aggregazione non più fortuita, ma sistematica degli atomi, i quali in tanto danno composti diversi in quanto varia la loro combinazione. Ma questa è una ipotesi affatto gratuita, una ipotesi che non spiega nulla e non ha neanche il merito di essere logica. Com’è che una differenza puramente numerica e geometrica nella composizione e nella forma dell’atomo genera proprietà fisiologiche così diverse? e se gli atomi sono indivisibili e impenetrabili, com’è che la loro associazione, limitata agli effetti meccanici, non li lascia inalterabili, in quanto alla loro essenza? Dov’è qui il rapporto tra la causa supposta e l’effetto ottenuto? Diffidiamo della nostra ottica intellettuale. Accade alle teorie chimiche quel che accade ai sistemi di psicologia. L’intendimento, per rendersi conto dei fenomeni, opera sugli atomi che non vede né vedrà mai, come sul me che non scorge meglio, e a tutto applica le sue categorie, cioè distingue, individua, concreta, enumera, contrappone ciò che, immateriale, è profondamente identico e indiscernibile. La materia, del pari che lo spirito fa, agli occhi nostri; tutte le parti, e siccome le sue metamorfosi nulla hanno di arbitrario, noi ce ne serviamo come testo per foggiare tutte le teorie psicologiche o atomiche, vere in quanto con un linguaggio convenzionale ci rappresentano fedelmente la serie dei fenomeni, ma radicalmente false quando pretendono realizzare le loro astrazioni e su questa base porre le conclusioni]. – Insomma, noi conosciamo le forme della materia, in quanto alla sostanza, niente. Come dunque è possibile affermare la realtà di un essere invisibile, impalpabile, incoercibile, che cangia sempre, sempre sfugge, ed è penetrabile solamente col pensiero, al quale non lascia vedere di sé altro che i travestimenti? Materialisti! io vi prometto di attestare la realtà delle nostre sensazioni; in quanto a ciò che dà loro occasione d’essere, tutto quel che voi ne potete dire implica questa reciprocità: qualche cosa (che voi chiamate materia) dà occasione alle sensazioni che si manifestano in una qualche altra cosa (che io chiamo spirito).

2° Ma da dove viene questa supposizione, che nulla giustifica nell’osservazione esteriore e non è punto vera, dell’impenetrabilità della materia e quale ne è il senso?

Qui appare il trionfo del dualismo. La materia è dichiarata impenetrabile, non come i materialisti e il volgo si figurano, non dalla testimonianza dei sensi, ma dalla coscienza. È il me, natura incomprensibile, che sentendosi libero e incontrando fuori di se stesso un’altra natura ugualmente incomprensibile, ma distinta anche e permanente, malgrado le sue metamorfosi, pronuncia, per virtù delle sensazioni e delle idee, da questa essenza suggerite, che il non-me è esteso e impenetrabile. L’impenetrabilità è una parola metaforica, una immagine sotto la quale il pensiero, scissione dell’assoluto, ci rappresenta la realtà materiale, altra scissione dell’assoluto. Ma codesta impenetrabilità, senza cui la materia svanisce, è, in ultima analisi, un giudizio spontaneo del senso intimo, un a priori metafisico, una ipotesi non accertata... dello spirito.

Di modo che, sia che la filosofia, dopo aver rovesciato il dogmatismo teologico, spiritualizzi la materia, o materializzi il pensiero, idealizzi l’essere o realizzi l’idea; sia che, identificando la sostanza e la causa, sostituisca ovunque la forza, frasi tutte che non spiegano e non significano nulla: essa ci riconduce sempre all’eterno dualismo e imponendoci di credere in noi stessi, ci obbliga di credere in Dio, se non addirittura negli spiriti. Vero è che facendo rientrare lo spirito nella natura, a differenza degli antichi, i quali la separavano, la filosofia è condotta a questa conclusione famosa che riassume press’a poco tutto il frutto delle sue ricerche. Nell’uomo lo spirito ha coscienza di sé, mentre in ogni altro essere sembra che questa coscienza manchi. – “Ciò che veglia nell’uomo, sogna nell’animale e dorme nella pietra...”, ha detto un filosofo.

La filosofia, infine, non ne sa più di quanto ne sapeva nascendo: come se non fosse venuta al mondo se non per giustificare il motto di Socrate, essa ci dice, coprendosi del funereo lenzuolo: so che non so nulla. Che dico? la filosofia sa oggi che tutti i suoi giudizi poggiano su due ipotesi del pari false e impossibili, eppure entrambe necessarie e fatali, la materia e lo spirito. In modo che, mentre in altri tempi l’intolleranza religiosa e le discordie filosofiche, diffondendo ovunque le tenebre, scusavano il dubbio e allettavano a una noncuranza libidinosa, il trionfo della negazione su tutti i punti non consente neanche il dubbio; il pensiero, libero d’ogni impaccio, ma vinto dai propri successi, è costretto ad affermare ciò che gli sembra apertamente contraddittorio e assurdo. I selvaggi dicono che il mondo è un gran feticcio guardato da un gran manitù. Per trenta secoli i poeti, i legislatori, i savi della civiltà, trasmettendosi d’età in età la lampada filosofica, non hanno scritto nulla che superi la sublimità di questa professione di fede. Ed ecco che alla fine della lunga cospirazione contro Dio, la quale pose a se stessa il nome di filosofia, la ragione emancipata conclude come la ragione selvatica: l’universo è un non-me obiettivato da un me.

L’umanità suppone dunque fatalmente l’esistenza di Dio: e se durante il lungo periodo chiuso ai nostri tempi, essa ha creduto alla realtà della propria ipotesi; se ne ha venerato l’inconcepibile oggetto; se, dopo essersi colta in questo atto di fede, persiste scientemente, ma non più liberamente nella nozione di un essere sovrano che essa sa essere una semplice personificazione del proprio pensiero; se è in procinto di ricominciare le sue invocazioni magiche, bisogna credere che in una così meravigliosa allucinazione si nasconda un qualche mistero, che merita essere profondamente studiato.

Dico allucinazione e mistero, senza però pretendere di negare il contenuto soprumano dell’idea di Dio, e senza ammettere la necessità di un nuovo simbolismo, cioè di una nuova religione. E se non c’è dubbio che l’umanità affermando Dio, o quel che si voglia sotto il nome di me o di spirito, non fa che affermare se stessa, è altresì innegabile che in tal caso essa s’afferma altrimenti da quella che si conosce; ciò risulta da tutte le mitologie e da tutte le teodicee. Essendo poi questa affermazione irresistibile, si connette a rapporti segreti che importa, se è possibile, determinare scientificamente.

In altre parole, l’ateismo, detto anche umanismo, vero in tutta la sua parte critica e negativa, se si fermasse all’uomo considerato come figlio della natura e mettesse in disparte quella prima affermazione dell’umanità che essa è figlia, immagine, emanazione, riflesso o verbo di Dio, sarebbe, rinnegando così il proprio passato, una contraddizione di più. Dobbiamo dunque criticare l’umanismo, verificare se l’umanità, presa nel suo complesso e in tutti i periodi del suo sviluppo, soddisfi alla idea divina, fatta anche deduzione degli attributi iperbolici e fantastici di Dio; se soddisfi alla pienezza dell’essere, se soddisfi a se medesima. Dobbiamo, in una parola, ricercare se l’umanità tende a Dio secondo l’antico dogma, ovvero se essa stessa diventa Dio, come dicono i moderni. Forse troveremo infine che i due sistemi, malgrado la loro apparente opposizione, sono entrambi veri e, nel fondo, identici: in tal caso l’infallibilità della ragione umana, nelle sue manifestazioni collettive, così come nelle altre speculazioni riflesse sarebbe espressamente confermata. – Insomma fino a che non avremo verificata sull’uomo l’ipotesi di Dio, la negazione atea non può essere definitiva.

Dovremo dare dunque una dimostrazione scientifica, o piuttosto empirica dell’idea di Dio: ora codesta dimostrazione non è stata mai tentata. Mentre la teologia dogmatizzava sull’autorità dei suoi miti e la filosofia speculava con l’aiuto delle sue teorie, Dio è rimasto allo stato di concetto trascendentale, cioè inaccessibile alla ragione, e l’ipotesi dura sempre.

Dura, io dico, codesta ipotesi più vivace e spietata che mai. Noi siamo venuti a una di quelle epoche fatali, in cui la società, sdegnosa del passato e tormentata dall’avvenire, ora abbraccia con frenesia il presente, lasciando a qualche solitario pensatore la cura di preparare la novella fede; ora grida a Dio dall’abisso dei suoi godimenti e invoca un segno di salute, o cerca nello spettacolo delle sue risoluzioni, come nelle viscere di una vittima, il segreto dei propri destini.

Che bisogno ho d’insistere su ciò? L’ipotesi di Dio è legittima, infatti s’impone a ogni uomo, malgrado lui; nessuno dunque può rimproverarmene. Chi crede mi consentirà la supposizione che Dio esiste; chi non crede deve accordarmela del pari, avendola egli stesso fatta prima di me, in quanto ogni negazione implica una previa affermazione, e chi dubita fa presto a capire che il suo dubbio suppone un non so che al quale prima o poi s’applicherà il nome di Dio.

Ma se, per ciò solo che penso, ho il diritto di supporre Dio, devo conquistare il diritto di affermarlo. In altri termini, se la mia ipotesi s’impone invincibilmente, essa è al momento tutto quanto io posso pretendere. Infatti affermare significa determinare; ora ogni determinazione, per esser vera, deve essere esposta empiricamente; chi dice determinazione, dice rapporto, condizionalità, esperienza. E dovendo la determinazione del concetto di Dio uscire da una dimostrazione empirica, noi dobbiamo astenerci da tutto quanto, perché la ricerca di quest’altra incognita, non essendo fornito dall’esperienza, oltrepasserebbe l’ipotesi, sotto pena di ricadere nelle contraddizioni della teologia e di sollevare per conseguenza nuove proteste dell’ateismo.

* * *

Mi resta da dire perché, in un libro di Economia Politica, ho dovuto muovere dall’ipotesi fondamentale di ogni filosofia.

Innanzi tutto, ho bisogno dell’ipotesi di Dio per fondare l’autorità della scienza sociale. – Quando l’astronomo, per spiegare il sistema del mondo, appoggiandosi esclusivamente all’apparenza, suppone, come fa il volgo, che il cielo è a volta, la terra piana, il sole grosso come una palla che descrive una curva in aria dall’Oriente all’Occidente, immagina infallibili i sensi, salvo a rettificare più tardi, come procede nell’osservazione, l’asserto da dove fu obbligato a prendere le mosse. In realtà la filosofia astronomica non poteva ammettere a priori che i sensi ci ingannano e che noi non vediamo quel che vediamo; cosa diverrebbe allora la certezza dell’astronomia? Ma, potendo in certi casi ciò che i sensi inferiscono modificarsi e completarsi da sé, l’autorità dei sensi rimane incrollabile e l’astronomia è possibile.

Del pari, la filosofia sociale non ammette a priori che l’umanità nei suoi atti non possa ingannare nè ingannarsi? Senza ciò cosa diverrebbe l’autorità del genere umano, cioè l’autorità della ragione, che è poi tutt’uno con la sovranità del popolo? Ma essa pensa che i giudizi umani, veri sempre in ciò che hanno di attuale e d’immediato, possono completarsi e rischiararsi successivamente gli uni con gli altri a misura che s’acquistino nuove idee, in modo da mettere sempre d’accordo la ragione generale con la speculazione individuale ed estendere indefinitamente la sfera della certezza, il che è sempre affermare l’autorità dei giudizi umani.

Ora il primo giudizio della ragione, il preambolo d’ogni Costituzione politica che cerchi una sanzione e un principio, è questo: c’è un Dio; il che vuol dire: la società è governata con senno, previdenza, intelligenza. Questo giudizio che esclude l’azzardo è pur quello che stabilisce la possibilità di una scienza sociale; ogni studio storico e positivo dei fatti sociali, intrapreso con uno scopo di miglioramento e di progresso, deve supporre col popolo l’esistenza di Dio, salvo a rendere conto più tardi di questo giudizio. Così la storia della società non è altro, a veder nostro, se non una lunga determinazione dell’idea di Dio, una rivelazione progressiva del destino dell’uomo. E mentre l’antica sapienza faceva dipendere tutto da una nozione arbitraria e fantastica della divinità, nozione che opprimeva la ragione e la coscienza e ogni moto arrestava col terrore di un padrone invisibile; – la nuova filosofia, invertendo il metodo, spezzando così l’autorità di Dio come quella dell’uomo, e non accettando altro giogo che quello del fatto e dell’evidenza, fa convergere tutto verso l’ipotesi teologica, segnata quale ultimo dei suoi problemi.

L’ateismo umanitario è dunque l’ultimo termine dell’affrancamento morale e intellettuale dell’uomo e per conseguenza l’ultima fase della filosofia, che serve di passaggio alla ricostruzione o verificazione scientifica di tutti i dogmi abbattuti.

Mi occorre l’ipotesi di Dio, non solo, come ho detto, per dare un significato alla storia, ma ancora per legittimare le riforme che in nome della scienza devono operarsi nello Stato.

Sia che noi consideriamo la Divinità come estranea alla società, di cui modera dall’alto i movimenti (opinione affatto gratuita e probabilmente illusoria); sia che la giudichiamo immanente nella società e identica alla ragione impersonale e inconscia, la quale, come un istinto fa camminare la civiltà (quantunque l’impersonalità e l’ignoranza di sé ripugnino all’idea d’intelligenza); sia infine che tutto quanto accade nella società risulti dal rapporto dei suoi elementi (sistema il cui merito consiste tutto nel mutare un attivo in passivo, nel fare necessità l’intelligenza, o, ciò che torna lo stesso, prendere la legge per la causa); segue sempre che apparendoci necessariamente le manifestazioni dell’attività sociale o come indizi della volontà dell’Essere Supremo, ovvero come una specie di linguaggio tipico della ragione generale e impersonale, o finalmente come segnali della necessità, codeste manifestazioni avranno per noi un’autorità assoluta. Essendo la loro serie legata, tanto nel tempo che nello spirito, i fatti compiuti determinano e legittimano i fatti da compiere, la scienza e il destino s’accordano, in quanto tutto ciò che accade procede dalla ragione e reciprocamente, siccome la ragione giudica solo grazie all’esperienza di quanto accade, segue che la scienza ha diritto a partecipare al Governo e quel che stabilisce la sua competenza come consiglio, giustifica il suo intervento come sovrano.

La scienza, espressa, riconosciuta e accolta dal suffragio universale come divina, è la regina del mondo. Quindi, grazie all’ipotesi di Dio, è perentoriamente e irrevocabilmente messa da parte qualsiasi opposizione stazionaria o retrograda, qualsiasi rifiuto opposto dalla teologia, dalla tradizione e dall’egoismo.

Mi occorre l’ipotesi di Dio per mostrare il legame che unisce la civiltà alla natura.

Difatti, questa ipotesi meravigliosa, in forza della quale l’uomo si assimila all’assoluto, presumendo l’identità delle leggi della natura e delle leggi della ragione, ci permette di vedere nell’industria umana il complemento dell’atto creativo, rende solidale l’uomo e il globo da lui abitato, e nei lavori che fa per trarre profitto dal campo assegnatoci dalla Provvidenza e che diviene così in parte opera nostra, ci fa concepire il principio e la fine di tutte le cose. Se dunque l’umanità non è Dio, essa però continua Dio, o, se si preferisce un altro modo d’esprimersi, ciò che l’umanità esegue oggi con riflessione è la stessa operazione che essa cominciò istintivamente e che la natura sembra compiere per necessità. In ogni caso, e qualunque opinione si preferisca, una cosa rimane certa, l’unità di azione e di legge. – Esseri intelligenti, attori di una commedia diretta con intelligenza, possiamo difficilmente trarre da noi illazioni che si riferiscano all’universo e all’eterno e, quando fossimo giunti a organizzare definitivamente il lavoro tra noi, dire con orgoglio: la creazione è spiegata. Si trova così determinato il campo d’esplorazione della filosofia; la tradizione è il punto di partenza d’ogni speculazione sull’avvenire; l’utopia è messa in disparte per sempre; lo studio del me, trasferito dalla coscienza individuale alle manifestazioni della volontà sociale, acquista il carattere di obiettività che dianzi gli mancava e divenendo psicologia la storia, la teologia antropologia e le scienze naturali metafisica, la teorica della ragione si deduce non più dalla vacuità dell’intelletto, ma dalle forme innumerevoli di una natura nella quale può largamente e direttamente esercitarsi l’osservazione.

A me occorre l’ipotesi di Dio per fare testimonianza del mio buon volere verso una moltitudine di sette, alle cui opinioni non partecipo, mentre ne temo i rancori: – deisti; so di un tale che per la causa di Dio sarebbe pronto a trar fuori la spada e a far lavorare la ghigliottina, come Robespierre, fino alla distruzione dell’ultimo ateo, non riflettendo che questo ateo sarebbe lui; – mistici, il cui partito, composto in gran parte di studenti e di donne, sotto la bandiera dei signori [Félicité de] Lamennais, [Edgar] Quinet, [Pierre] Leroux e altri, ha preso per motto: Tale il padrone tale il servo; tale è Dio tale è il popolo; e per regolare il salario di un operaio comincia dal restaurare la religione; – spiritualisti, i quali, se io non tenessi conto dei diritti dello spirito, m’accuserebbero di fondare il culto della materia, contro il quale io protesto con tutte le forze dell’anima mia; – sensisti e materialisti, per i quali il dogma divino è il simbolo della coazione e il principio dell’assoggettamento delle passioni, mentre senza queste, essi dicono, non c’è per l’uomo né piacere né virtù né genio; – eclettici e scettici, librai-editori di tutte le vecchie filosofie, non filosofi essi, ma coalizzati in vasta confraternita con approvazione e privilegio, contro chiunque pensi, creda o affermi senza loro licenza; – conservatori infine, retrogradi, egoisti, e ipocriti che predicano l’amor di Dio per odio del prossimo, accusano eternamente la libertà dei malanni del mondo e calunniano la ragione, consci come sono della propria imbecillità.

È possibile che si muova accusa a una ipotesi che, lungi dal bestemmiare i venerati fantasmi della fede, aspira soltanto a metterli in piena luce; che, invece di rigettare i dogmi tradizionali e i pregiudizi della coscienza, chiede soltanto di verificarli; che pur rifuggendo da idee esclusive, prende per assioma l’infallibilità della ragione, e grazie a questo fecondo principio, non verrà mai ad alcuna conclusione contraria alle sette antagoniste? È possibile che i conservatori religiosi e politici mi rimproverino di turbare l’ordine della società, quando io muovo dall’ipotesi di una intelligenza sovrana, forte d’ogni pensiero d’ordine; che i democratici semi-cristiani mi maledicano come nemico di Dio, e perciò traditore verso la repubblica, quando io ricerco il senso e il contenuto dell’idea di Dio; e che i mercanti universitari mi taccino d’empietà perché io dimostro non avere alcun valore i loro prodotti filosofici, quando io sostengo che la filosofia si deve studiare nel suo oggetto, cioè nelle manifestazioni della società e della natura?...

A me occorre l’ipotesi di Dio per giustificare il mio stile.

Nell’ignoranza in cui mi trovo di tutto quanto riguarda Dio, il mondo, l’anima, il destino; costretto a procedere come il materialista, cioè mediante l’osservazione e l’esperienza, ad esporre le mie conclusioni col linguaggio del credente, perché non ce n’è altro; non sapendo se le mie formule, mio malgrado teologiche, debbano essere prese in senso proprio o figurato; obbligato, in codesta perpetua contemplazione di Dio, dell’uomo e delle cose, a subire la sinonimia di tutti i vocaboli che entrano nelle tre categorie del pensiero, della parola e dell’azione, senza voler affermare per un verso nulla più che per l’altro; il rigore della dialettica esigeva che io supponessi addirittura questa incognita che si chiama Dio. Noi siamo ripieni della Divinità, Jovis omnia plena [Virgilio]; i nostri monumenti, le nostre tradizioni, le nostre leggi, le nostre idee, le nostre lingue, le nostre scienze tutto è infetto di questa indelebile superstizione, fuori la quale noi non possiamo né parlare né agire, e senza la quale neanche pensiamo.

Finalmente, a me occorre l’idea di Dio per spiegare la pubblicazione di queste nuove Memorie.

La nostra società si sente gravida di avvenimenti e guarda inquieta l’avvenire: come rendere ragione di questi vaghi presentimenti col solo soccorso di una ragione universale, immanente se si vuole, e permanente, ma impersonale e per conseguenza muta; – o anche con l’idea di necessità, se ciò implica che la necessità conosca se stessa e quindi abbia presentimenti? Rimane dunque ancora una volta l’ipotesi di un agente o incubo che incalza la società e le accorda le visioni.

Ora, quando la società profetizza, essa s’interroga con la bocca degli uni e si risponde con la bocca degli altri. Fa mostra di saviezza chi sa ascoltare e comprendere, perché Dio stesso ha parlato, – semel locutus est Deus [Ambrogio].

L’Accademia delle Scienze morali e politiche ha proposto la seguente questione:

“Determinare i fatti generali che regolano i rapporti dei profitti con i salari e spiegarne le rispettive oscillazioni”.

Alcuni anni fa la medesima Accademia domandava: “Quali sono le cause della miseria?”. Il fatto è che il secolo decimonono ha un solo pensiero: uguaglianza e riforma. Ma lo spirito soffia dove vuole; molti si posero a ruminare la questione, nessuno rispose. Il collegio degli indovini ha dunque rinnovata la domanda, ma in termini più comprensivi. Esso vuol sapere se l’ordine regna nella fabbrica; se le mercedi sono eque, se la libertà e il privilegio si compensano con giustizia; se la nozione del valore, che domina tutti i fatti dello scambio, è, nella forma assegnatale dagli economisti, sufficientemente esatta, se il credito protegge il lavoro; se la circolazione è regolare, se i carichi sociali pesano ugualmente su tutti, ecc.

E difatti, avendo la miseria per causa immediata l’insufficienza del reddito è necessario conoscere com’è che, salvo i casi di disgrazia o di mala volontà, il reddito dell’operaio era insufficiente. È sempre la stessa questione della disuguaglianza degli averi che levò tanto rumore nel secolo scorso e che, per una strana fatalità, si riproduce continuamente nei programmi accademici, come se là fosse il nodo gordiano dei tempi moderni.

L’uguaglianza dunque, il suo principio, i suoi mezzi, i suoi ostacoli, la sua teoria, i motivi del suo aggiornamento, la causa delle iniquità sociali e provvidenziali: ecco quel che bisogna insegnare al mondo, a dispetto dei sarcasmi dell’incredulità.

So bene che le vedute dell’Accademia non sono così profonde e che, come fosse un concilio, ha in orrore le novità, ma più essa si rivolge al passato, più riflette l’avvenire e per conseguenza più dobbiamo credere alla sua ispirazione, infatti i veri profeti sono quelli che non comprendono ciò che annunziano. Ascoltate:

“Quali sono, dice l’Accademia, le applicazioni più utili che si possono fare del principio dell’associazione volontaria e privata a sollievo della miseria?”.

E ancora:

“Esporre la teoria e i princìpi del contratto di assicurazione, farne la storia e dedurre dalla dottrina e dai fatti gli svolgimenti che questo contratto può ricevere e le varie applicazioni utili che se ne potrebbero fare nello stato di progresso in cui si trova attualmente il nostro commercio e la nostra industria”.

I pubblicisti ammettono concordi che l’assicurazione, forma rudimentale della società commerciale, è un’associazione nelle cose, societas in re, cioè una società le cui condizioni, fondate sopra rapporti puramente economici, sfuggono al capriccio dell’uomo. In modo che una filosofia dell’assicurazione o della mutua garanzia degli interessi, che fosse dedotta dalla teoria generale delle società reali, in re, conterrebbe la formula dell’associazione universale, alla quale l’Accademia non crede. E quando, riunendo nel medesimo punto di vista il soggetto e l’oggetto, l’Accademia chiede, accanto a una teoria dell’associazione degli interessi, una teoria dell’associazione volontaria, essa ci rivela quel che debba essere la società più perfetta, e nella stessa maniera afferma quanto v’ha di più contrario alle sue convinzioni. Libertà, uguaglianza, solidarietà, associazione! – Per quale sbaglio inconcepibile un corpo così eminentemente conservatore ha proposto ai cittadini questo nuovo programma dei diritti dell’uomo? Così Caifa profetava la redenzione mentre rinnegava Gesù Cristo.

Sulla prima di codeste questioni quarantacinque memorie giunsero in due anni all’Accademia; segno che il soggetto corrispondeva mirabilmente allo stato degli animi. Ma tra tanti concorrenti, non essendo alcuno stato ritenuto degno di premio, l’Accademia ha ritirato il quesito adducendo a pretesto l’insufficienza dei concorrenti, ma in realtà perché l’insuccesso del concorso era il solo scopo che l’Accademia s’era proposto; a lei premeva di poter dichiarare, senza aspettare altro, che le speranze dei partigiani dell’associazione non avevano alcun fondamento.

Così dunque i signori dell’Accademia sconfessano nella sala delle sedute, ciò che annunziarono sul tripode! Una tale contraddizione non mi sorprende e Dio mi guardi dal farne accusa agli accademici. Gli antichi credevano che le rivoluzioni si annunziassero con segni spaventevoli e che, fra gli altri prodigi, parlassero gli animali. Era certo un simbolo per indicare quelle idee subitanee e quelle parole strane che circolano a un tratto nelle masse nei momenti di crisi e paiono prive di ogni umano precedente, tanto sono fuori della cerchia del comune giudizio. Nell’epoca in cui viviamo non poteva non prodursi un simile fenomeno.

Dopo avere, con grande stento e spontaneità macchinale, pecudesque locutae [Virgilio], proclamato l’associazione, i signori dell’Accademia delle Scienze morali e politiche sono rientrati nella loro ordinaria prudenza e la routine è venuta a smentire l’ispirazione. Sappiamo discernere gli avvisi che vengono dall’alto dai giudizi interessati degli uomini, e teniamo per certo che nei discorsi dei savi, è soprattutto indubitabile ciò a cui la loro riflessione ha preso la minor parte.

Tuttavia l’Accademia, rompendola bruscamente con le sue intenzioni, pare che abbia provato qualche rimorso. Invece di una teoria dell’associazione, alla quale dopo averci pensato, essa non crede più, chiede un Esame critico del sistema d’istruzione e d’educazione di [Johann] Pestalozzi, considerato principalmente nei suoi rapporti col benessere e la moralità delle classi povere. Chi sa? può darsi che il rapporto dei profitti e dei salari, l’associazione, l’organizzazione del lavoro insomma, si trovino in fondo a un sistema d’insegnamento. La vita dell’uomo non è un perpetuo tirocinio? La filosofia e la religione non sono l’educazione dell’umanità? Organizzare l’istruzione significherebbe dunque organizzare l’industria e fare la teoria della società: l’Accademia, nei momenti di lucido intervallo, torna sempre a quel punto.

Quale influenza, è ancora l’Accademia che parla, esercitano il progresso e il gusto del benessere materiale sulla moralità di un popolo?

Preso nel senso più apparente, questo nuovo quesito dell’Accademia è banale e buono tutt’al più a servir d’esercizio a un retore. Ma l’Accademia che deve fino alla fine ignorare il senso rivoluzionario dei suoi oracoli, ha alzato il sipario sulla sua glossa. Cos’ha visto dunque di così profondo in codesta tesi epicurea?

“È, essa ci dice, che il gusto del lusso e dei godimenti, l’amore singolare che sente per essi il maggior numero, la tendenza degli animi e delle intelligenze a occuparsene esclusivamente, l’accordo dei privati e dello Stato per farne la causa e lo scopo di tutti i loro progetti, di tutti i loro sforzi, di tutti i loro sacrifici, generano sentimenti generali o individuali, che benefici o nocivi, divengono princìpi di azione più potenti forse di quelli che in altri tempi hanno dominato gli uomini”.

Giammai più bella occasione s’era offerta a filosofi moralisti di accusare il sensualismo del secolo, la venalità della coscienza e la corruzione eretta a mezzo di governo; in luogo di ciò che fa l’Accademia delle Scienze morali? Con la calma più automatica, essa istituisce una serie ove il lusso, per tanto tempo proscritto dagli stoici e dagli asceti – questi maestri in santità – deve comparire alla sua volta come una norma di condotta così legittima, pura e grande come tutte quelle suggerite già dalla religione e dalla filosofia. Determinate, essa ci dice, i princìpi di azione (senza dubbio ora vecchi e logori) ai quali succede provvidenzialmente nella storia la voluttà e, in base ai risultati di quelli, calcolate gli effetti di questa. – Dimostrate, in una parola, che Aristippo non ha fatto che andare innanzi al secolo suo e che la sua morale, al pari di quella di Zenone e di [Tommaso da] Kempis, doveva avere il suo giorno di trionfo.

Dunque noi abbiamo a che fare con una società che non vuole più essere povera, che si burla di quanto in altri tempi le fu caro e sacro, la libertà, la religione, la gloria, ove non abbia la ricchezza; per ottenere la quale subisce qualunque insulto, si fa complice di qualunque vigliaccheria. E questa sete ardente di piacere, questa brama irresistibile del lusso, sintomi di un nuovo periodo nella civiltà, sono i precetti supremi in virtù dei quali noi dobbiamo lavorare all’espulsione della miseria. Così dice l’Accademia. Che diviene dopo ciò il precetto dell’espiazione e dell’astinenza, la morale del sacrificio, della rassegnazione e dell’aurea mediocrità? Quale diffidenza verso i compensi promessi nell’altra vita e quale smentita al Vangelo! Ma soprattutto quale giustificazione per un Governo che ha presa la chiave d’oro per sistema! E come! uomini religiosi, cristiani, altrettanti Seneca hanno potuto di un tratto profferire tante massime immorali!

L’Accademia, completando il suo pensiero, ci risponde:

Dimostrate come il progresso della giustizia criminale, nel processare e punire gli attentati contro le persone e la proprietà, segua e segni le epoche della civiltà dallo stato selvatico, fino a quello dei popoli meglio ordinati a civile reggimento.

Sembra che i criminalisti dell’Accademia delle scienze morali abbiano previsto la conclusione delle loro premesse? Il fatto che devesi studiare e che l’Accademia indica con le parole progresso della giustizia criminale, non è altro se non il progressivo addolcimento che si manifesta sia nelle forme della procedura criminale, sia nella penalità a misura che nella civiltà crescono la libertà, la cultura, la ricchezza. In modo che, essendo il principio delle istituzioni repressive l’inverso di tutti quelli che costituiscono il benessere della società, vi è eliminazione costante di tutte le parti del sistema penale, come di tutto l’apparato giudiziario e che la conclusione ultima di questo movimento è questa: la sanzione dell’ordine non è né il terrore né il supplizio, e per conseguenza né l’inferno né la religione.

Che capovolgimento delle idee ammesse! Che negazione di tutto ciò di cui all’Accademia delle Scienze morali è commessa la difesa! Ma se la sanzione dell’ordine non è più nel timore di un castigo da subire in questa vita o nell’altra, dove trovare più le garanzie protettrici delle persone e delle proprietà? O piuttosto senza istituzioni repressive, cosa diventa la proprietà? E senza la proprietà, cosa diventa la famiglia?

L’Accademia che nulla sa di tutte queste cose, risponde, senza turbarsi: Esponete le varie fasi dell’organizzazione della famiglia sul suolo francese dai tempi antichi fino ai giorni nostri.

Il che è come dire: determinate, studiando i progressi anteriori della organizzazione familiare, le condizioni d’esistenza della famiglia in uno stato d’uguaglianza di fortune, di associazione volontaria e libera, di solidarietà universale, di benessere materiale e di lusso, d’ordine pubblico senza prigioni, corti di assise, polizia, né carnefice.

Riuscirà meraviglioso forse che dopo avere, a somiglianza dei più audaci novatori, messo in questione tutti i princìpi dell’ordine sociale, la religione, la famiglia, la proprietà e la giustizia, l’Accademia delle Scienze morali e politiche non abbia proposto quest’altro quesito: Qual è la miglior forma di governo? Difatti, il Governo è per la società la fonte da cui esce ogni iniziativa, ogni guarentigia, ogni riforma. Era importante dunque sapere se il Governo, così come si trova stabilito nella Costituzione, si accomodi alla soluzione pratica delle questioni accademiche. Ma mostrerebbe di conoscere assai male gli oracoli chi credesse che essi procedano per induzione e analisi; e precisamente perché il problema politico era una condizione o corollario delle dimostrazioni richieste, l’Accademia non poteva presentarlo al concorso. Una conclusione di codesta fatta le avrebbe aperto gli occhi e senza aspettare le memorie dei concorrenti, si sarebbe affrettata a sopprimere l’intero suo programma. L’Accademia ha ripreso la questione dall’alto: le opere di Dio essenzialmente belle, justificata in semetipsa [S. Tommaso], sono vere insomma perché procedono da lui. I pensieri dell’uomo somigliano ai densi vapori nei quali guizzano lunghe e sottili strisce luminose. Cos’è dunque la verità rispetto a noi e quale il carattere della certezza?

Il che sarebbe come se l’Accademia dicesse: Voi verificherete l’ipotesi della vostra esistenza, l’ipotesi dell’Accademia che v’interroga, l’ipotesi del tempo, dello spazio, del moto, del pensiero e delle leggi del pensiero. Poi verificherete l’ipotesi del pauperismo, l’ipotesi della disuguaglianza delle condizioni, l’ipotesi dell’associazione universale, l’ipotesi della felicità, l’ipotesi della monarchia e della repubblica, l’ipotesi di una provvidenza!...

È addirittura la critica di Dio e del genere umano.

Io mi richiamo al programma dell’onorevole compagnia; ma le condizioni del mio lavoro non furono determinate da me, bensì dall’Accademia delle Scienze morali e politiche. Ora, come posso io adempiere a queste condizioni, se non sono dotato io stesso dell’infallibilità, in una parola se non sono Dio o indovino? L’Accademia ammette così che la divinità e l’umanità sono identiche o almeno correlate; ma qui si tratta di sapere in che codesta correlazione consista; tale è il significato del problema della certezza, tale è lo scopo della filosofia sociale.

Dunque, in nome della società ispirata da Dio, un’Accademia interroga. In nome della medesima società, io sono uno dei veggenti che tentano di rispondere. Il compito è immenso e non prendo l’impegno di adempierlo; andrò sin dove Dio vorrà. Ma, qualunque sia il mio discorso, esso non viene da me; il pensiero che fa scorrere la mia penna non è personale mio e nulla di quanto scrivo mi si può imputare. Riferirò i fatti tali e quali li avrò visti; li giudicherò secondo quel che ne avrò detto, chiamerò ogni cosa col suo nome più energico e nessuno potrà scorgere in ciò un’offesa. Cercherò liberamente e secondo le regole della divinazione da me appresa, quel che vuole da noi il consiglio divino che in questo momento trova la sua espressione sulla bocca eloquente dei savi e nei vagiti inarticolati del popolo. E quando negherò tutte le prerogative consacrate dalla nostra Costituzione, non sarò un fazioso. Mostrerò a dito ove ci spinga l’invisibile pungolo; né i miei atti né i detti saranno irritanti, eppure provocherò la nube, e quando farò cadere la folgore sarò innocente. Nella inchiesta solenne alla quale m’invita l’Accademia, ho più che il diritto di dire la verità; ho il diritto di parlare come penso; possano il mio pensiero, il modo d’esprimerlo e la verità essere sempre una sola e medesima cosa!

E tu, lettore, dacché senza lettore non vi è scrittore; entra a metà dell’opera mia. Senza di te non sarei altro che un bronzo sonoro; favorito dalla tua attenzione, dirò meraviglie. Vedi quel turbine che passa e che si chiama società, dal quale scoppiano con terribile bagliore, lampi, tuoni e faville? Voglio farti toccar col dito le molle nascoste che la mettono in movimento, ma occorre che tu ti riduca sotto il mio comando, allo stato di pura intelligenza. Gli occhi dell’amore e del piacere sono impotenti a riconoscere la beltà in uno scheletro, l’armonia nelle viscere messe a nudo, la vita nel sangue nero e rappreso. Del pari i segreti dell’organismo sociale sono un enigma indecifrabile per l’uomo che ha l’intelletto offuscato dalle passioni e dai pregiudizi. Codeste sommità sublimi non si raggiungono se non nella silenziosa e fredda contemplazione. Permetti dunque che, prima di svolgere sotto i tuoi occhi le pagine del libro della vita, io prepari l’anima tua con la purificazione scettica che vollero in tutti i tempi nei loro discepoli i grandi maestri dei popoli: Socrate, Gesù Cristo, San Paolo, San Remigio, Bacone, Descartes, Galileo, Kant, ecc.

Chiunque tu sia, coperto dei cenci della miseria o rivestito di abiti sontuosi e di lusso, io ti riporto a quella nudità luminosa che non è offuscata né dai fumi dell’opulenza né dai veleni dell’invidiosa povertà. Come persuadere il ricco che la differenza delle condizioni deriva da un errore di conteggio e come mai il povero, sotto il peso della sua miseria, può immaginare che il proprietario possieda in buona fede? Prendere notizia delle sofferenze del lavoratore è per l’ozioso la più insopportabile distrazione e similmente il rendere giustizia a chi è felice è per il miserabile il più amaro calice.

Ti sei innalzato in dignità; io ti destituisco ed eccoti libero. C’è troppo ottimismo sotto codesta divisa d’ordinanza, troppa subordinazione, troppa lentezza. La scienza esige l’insurrezione del pensiero; ora il pensiero di un uomo in carica è il suo stipendio.

La tua amante, bella, appassionata, artista non è, voglio credere, posseduta da altri che da te. Cioè la tua anima, il tuo spirito, la tua coscienza passarono nel più incantevole oggetto di lusso che la natura e l’arte abbiano prodotto per eterno martirio degli uomini affascinati. Io ti separo da codesta divina metà di te stesso; volere la giustizia e amare una donna è troppo oggi. Per avere pensieri grandi e netti bisogna che l’uomo sdoppi la sua natura e rimanga sotto la sua ipostasi mascolina. Sicché nello stato in cui io ti metto, la tua amante non ti riconoscerà più: ricordati della moglie di Giobbe.

Che religione hai?... Dimentica la tua fede e diventa ateo per saggezza. – Come? dici, ateo malgrado la nostra ipotesi? – No, anzi a causa della nostra ipotesi. Bisogna da gran tempo avere sollevato il proprio pensiero al di sopra delle cose divine per avere il diritto di supporre una personalità fuori della famiglia umana, una vita al di là di questa vita. Del resto non temere per la tua salvezza. Dio non si turba contro chi lo sconosce razionalmente più di quel che si curi di chi lo adora sulla sua parola; ora nello stato in cui è la tua coscienza, la migliore cosa per te è di non pensare nulla di lui. Non accorgerti di cosa avviene della religione, come dei governi, il più perfetto dei quali sarebbe la negazione di ogni Governo. – Nessuna fantasia religiosa o politica impacci e leghi l’anima tua; è ormai l’unico mezzo per non essere né un minchione né un rinnegato.

Dicevo al tempo della mia entusiastica giovinezza: non udrò suonare i secondi vespri della repubblica e i nostri poeti in bianche tuniche cantare sul tono dorico l’inno del ritorno: Cangia, o Dio, la servitù nostra, come il vento del deserto in un’aura refrigerante?... Ma ho disperato dei repubblicani e non voglio più sapere di religione né di preti.

Vorrei ancora per rendere sicuro il tuo giudizio, caro lettore, rendere la tua anima insensibile alla pietà, superiore alla virtù, indifferente alla felicità. Ma sarebbe esigere troppo da un neofita. Ricordati solo e non lo dimenticare giammai, che la pietà, la felicità e la virtù, come la patria, la religione e l’amore sono maschere...

I. La scienza economica

1. – Opposizione del fatto e del diritto nell’economia della società

Affermo la realtà di una scienza economica.

Questa proposizione sulla quale pochi economisti oggi ammettono dubbi, è forse la più ardita che un filosofo abbia mai sostenuto; e il seguito di queste ricerche proverà, spero, che il più grande sforzo dello spirito umano sarà un giorno quello di farne la dimostrazione.

Affermo d’altra parte la certezza assoluta e nello stesso tempo il carattere progressivo della scienza economica, la più comprensiva, a mio avviso, di tutte le scienze, la più pura, la meglio tradotta nei fatti; novella proposizione che fa di codesta scienza una logica o una metafisica in concreto e muta radicalmente le basi dell’antica filosofia. In altri termini, la scienza economica è per me la forma obiettiva e la realizzazione della metafisica; è la metafisica in azione, la metafisica proiettata sul piano inclinato del tempo; e chiunque si occupa delle leggi del lavoro e dello scambio è veramente e specialmente metafisico.

Dopo quanto ho detto nel prologo non c’è qui nulla che debba sorprendere. Il lavoro dell’uomo continua l’opera di Dio, il quale, creando tutti gli esseri, non fa altro che realizzare dal di fuori le leggi eterne della ragione. La scienza economica è quindi necessariamente una teoria delle idee, una teologia naturale e una psicologia. Questo accenno generale sarebbe stato sufficiente per spiegare come, dovendo trattare di materie economiche, io dovessi supporre previamente l’esistenza di Dio e a qual titolo io, semplice economista, aspiri a risolvere il problema della certezza.

Mi affretto però a dire che non considero come scienza l’insieme incoerente di teorie al quale s’è dato da quasi cent’anni il nome ufficiale di economia politica, e che, malgrado l’etimologia del nome, non è ancora altro che il codice o la routine immemorabile della proprietà. Queste teorie non ci danno che i rudimenti o la prima sezione della scienza economica, ed è per ciò che, nello stesso modo della proprietà, esse sono tra loro in contraddizione, e cinquanta volte su cento inapplicabili. La prova di codesta asserzione che è, in un certo senso, la negazione dell’economia politica, quale ci fu trasmessa da A[dam] Smith, [David] Ricardo, [Thomas] Malthus, [Jean-Baptiste] Say e la vediamo durare da mezzo secolo, risulterà particolarmente da questo scritto.

L’insufficienza dell’economia politica ha in ogni tempo fatto impressione sugli spiriti contemplativi, i quali troppo innamorati dei propri sogni per addentrarsi nelle difficoltà della pratica, e limitandosi a giudicarla dai suoi risultati apparenti, hanno formato, sin dall’origine, un partito d’opposizione allo statu quo e si sono lasciati andare a una satira perseverante e sistematica della civiltà e delle sue costumanze. Di rimando, alla proprietà, base di tutte le istituzioni sociali, non mancarono mai difensori zelanti, che, orgogliosi del titolo d’uomini pratici, resero guerra per guerra ai detrattori della economia politica e lavorarono con mano coraggiosa e spesso abile a consolidare l’edificio innalzato di concerto dai pregiudizi generali e dalla libertà individuale. La controversia pendente ancora tra i conservatori e i riformisti, ha per riscontro, nella storia della filosofia, la disputa tra i realisti e i nominalisti, ed è quasi inutile soggiungere che da una parte e dall’altra l’errore e la ragione sono pari e che la rivalità, la meschinità e la intolleranza delle opinioni furono la sola causa del malinteso.

Per cui le due potenze si disputano il governo del mondo e si anatematizzano col fervore di due culti ostili: l’economia politica, o la tradizione, e il socialismo o l’utopia.

Cos’è dunque, in parole più esplicite, l’economia politica? Cos’è il socialismo?

L’economia politica è la raccolta delle osservazioni fatte sinora sui fenomeni della produzione e della distribuzione delle ricchezze, cioè sulle forme più generali, più spontanee e per conseguenza più autentiche del lavoro e dello scambio.

Gli economisti hanno classificato meglio che hanno potuto queste osservazioni, hanno descritto i fenomeni, accertato i loro accidenti e rapporti; hanno rimarcato, in molte circostanze, un carattere di necessità che li ha indotti a chiamarli leggi; e questo complesso di conoscenze, raccolto, per così dire, dalle manifestazioni più ingenue della società, costituisce l’economia politica.

L’economia politica è dunque la storia naturale delle costumanze, tradizioni, pratiche e consuetudini (routines) più appariscenti e più universalmente accreditate dell’umanità, in ciò che concerne la produzione e la distribuzione della ricchezza. A questo titolo, l’economia politica si considera come legittima in fatto e in diritto; in fatto, perché i fenomeni che studia sono costanti, spontanei e universali; in diritto, perché codesti fenomeni hanno per sé l’autorità del genere umano, che è l’autorità massima. L’economia politica quindi si dà il nome di scienza, cioè conoscenza ragionata e sistematica di fatti regolari e necessari.

Il socialismo, che, simile al dio Visnù, sempre morente e redivivo sempre, ha fatto da una ventina d’anni in qua la sua decimillesima incarnazione nella persona di cinque o sei rivelatori, il socialismo afferma l’anomalia della costituzione attuale della società e pertanto di tutte le istituzioni anteriori. Esso pretende e prova che l’ordine civile è fittizio, contraddittorio, inefficace, generatore d’oppressione, di miseria e di delitti. Esso accusa, per non dire calunnia, tutto il passato della vita sociale e spinge con tutte le sue forze al rifacimento dei costumi e delle istituzioni.

Il socialismo conclude, dichiarando l’economia politica una ipotesi falsa, una sofistica inventata per giustificare lo sfruttamento dei più da parte dei meno e facendo l’applicazione dell’adagio: a fructibus [eorum] cognoscetis [Matteo], compie la dimostrazione dell’impotenza e della nullità della economia politica, grazie al quadro delle calamità umane di cui le addossa la responsabilità.

Ma, se l’economia politica è falsa, la giurisprudenza, che in ogni dove è la scienza del diritto e della consuetudine, è falsa anch’essa, in quanto fondata sulla distinzione del tuo e del mio suppone la legittimità dei fatti descritti e classificati dall’economia politica. Le teorie di diritto pubblico e internazionale, con tutte le varietà di governo rappresentativo sono anch’esse false, perché poggiano sul principio dell’appropriazione individuale e dell’assoluta sovranità della volontà.

Il socialismo accetta tutte queste conseguenze. Per lui l’economia politica, considerata da molti come la fisiologia della ricchezza, non è altro che la pratica organizzata del furto e della miseria; come la giurisprudenza, decorata dai legislatori del nome di ragione scritta, non è altro, ai suoi occhi, che la compilazione delle rubriche del brigantaggio legale e ufficiale, – e per dirlo con una sola parola, della proprietà. – Considerate nei loro rapporti queste due pretese scienze, l’economia politica e il diritto formano, a detta del socialismo, la teoria completa dell’iniquità e della discordia. Passando poscia dalla negazione all’affermazione, il socialismo oppone al principio di proprietà quello di associazione e si vanta di restaurare da cima a fondo l’economia sociale, ossia di costituire un nuovo diritto, una novella politica, istituzioni e costituzioni diametralmente opposte alle forme antiche.

Come si vede, la linea di separazione tra il socialismo e l’economia politica è netta e l’ostilità flagrante.

L’economia politica inclina alla consacrazione dell’egoismo, il socialismo pencola verso l’apoteosi della comunità.

Gli economisti, salvo qualche infrazione ai loro princìpi, di cui credono dovere accusare i governi, sono ottimisti, quanto ai fatti compiuti; i socialisti per i fatti da compiere.

I primi affermano che ciò che deve essere è; i secondi che ciò che deve essere non è. Per conseguenza, mentre i primi si atteggiano a difensori della religione, dell’autorità e di altri princìpi contemporanei e conservatori della proprietà, benché la loro critica, appoggiandosi unicamente alla ragione, rechi frequenti scosse ai loro pregiudizi; i secondi rigettano l’autorità e la fede, e fanno appello solo alla scienza, sebbene una certa irreligiosità, affatto illiberale, e un poco di scientifico disdegno dei fatti siano sempre il carattere più appariscente delle loro dottrine.

Del resto, gli uni e gli altri non cessano di accusarsi reciprocamente d’imperizia e di sterilità.

I socialisti chiedono conto ai loro avversari dell’ineguaglianza delle condizioni, delle iniquità commerciali ove il monopolio e la concorrenza, in mostruosa unione, generano eternamente il lusso e la miseria; rimproverano alle teorie economiche, foggiate sempre sul passato, di lasciare l’avvenire senza speranza; in breve, additano il regime della proprietà come un’allucinazione orribile, contro la quale l’umanità protesta e si dibatte da quattromila anni.

Gli economisti, dal canto loro, sfidano i socialisti a produrre un sistema in cui possa farsi a meno della proprietà, della concorrenza, degli ordinamenti governativi; provano, con i documenti alla mano, che tutti i progetti di riforma non furono mai altro che rapsodie di frammenti tolti a prestito dal regime che il socialismo denigra, plagi insomma dell’economia politica, fuori della quale il socialismo è incapace di concepire e formulare un’idea.

Ogni giorno si ingrossa il materiale di questo grave processo e la questione si complica.

Mentre la società cammina e inciampa, soffre e arricchisce, seguendo la consuetudine economica, i socialisti sin dai tempi di Pitagora, di Orfeo e dell’impenetrabile Hermes, lavorano a stabilire il loro dogma contraddittoriamente all’economia politica. Alcuni saggi di associazione furono qua e là tentati secondo le loro teorie; ma sinora questi rari tentativi, perduti nell’oceano del sistema di proprietà, sono rimasti senza risultato e come se il destino avesse deciso di esaurire l’ipotesi economica prima di attaccare l’utopia socialista, il partito riformatore è costretto a mandar giù i sarcasmi degli avversari, aspettando che venga il suo turno.

Ecco a che punto è la causa: il socialismo denuncia senza requie i mali della civiltà, accerta giorno per giorno l’impotenza dell’economia a soddisfare le attrazioni armoniche dell’uomo e snocciola requisitoria su requisitoria; l’economia politica accresce la mole degli “atti”, con i sistemi socialisti che tutti, gli uni dopo gli altri, passano e muoiono spregiati dal senso comune. La pertinacia del male alimenta le querimonie degli uni, mentre i costanti insuccessi dei riformatori danno da mordere all’ironia maligna degli altri. Quando verrà la sentenza? Il tribunale è deserto; intanto l’economia politica fa uso dei propri vantaggi e, senza prestare cauzione, seguita a spadroneggiare nel mondo: possideo quia possideo.

Se dalla sfera delle idee scendiamo alla realtà del mondo, l’antagonismo diventa più grave e più minaccioso.

Quando, in questi ultimi anni, il socialismo, provocato da lunghe tempeste, fece la sua fantastica apparizione tra noi, uomini rimasti fino allora indifferenti e tiepidi in ogni controversia, si rifugiarono spaventati in seno alle idee monarchiche e religiose; la democrazia, accusata di trascinare alle estreme conseguenze, fu maledetta e respinta. Questa accusa lanciata dai conservatori ai democratici era una calunnia. La democrazia è per natura così antitetica al pensiero socialista com’è inetta a sostituire il principato contro il quale è destinata a cospirare sempre senza mai riuscire nell’intento. Si vide ben presto ciò, e ne siamo testimoni, nelle proteste di fede cristiana e proprietaria fatte dai democratici, i quali, da quel momento, cominciarono a vedersi abbandonati dal popolo.

D’altra parte la filosofia non si mostrò meno della politica e della religione estranea e ostile al socialismo.

Nel modo stesso che nell’ordine politico la democrazia ha per principio la sovranità del numero e la monarchia la sovranità del principe; e nelle cose della coscienza la religione non è altro che la sottomissione a un essere mistico chiamato Dio, e al prete che lo rappresenta; e nell’ordine economico la proprietà, cioè l’esclusivo dominio dell’individuo sugli strumenti del lavoro, è il punto di partenza delle teorie; così la filosofia prendendo per base i pretesi a priori della ragione, è condotta fatalmente ad attribuire al solo me la generazione e l’autocrazia delle idee e a negare il valore metafisico dell’esperienza, cioè a mettere da per tutto, al posto della legge obiettiva, l’arbitrio, il dispotismo.

Ora, una dottrina la quale, nata di un tratto nel cuore della società, senza precedenti e senza antenati, respingeva da tutte le regioni della coscienza e della società il principio dell’arbitrio, per sostituirvi come unica verità il rapporto dei fatti; che rompeva con la tradizione e non accettava di servirsi del passato se non come un punto da dove si lanciarsi nell’avvenire; una tale dottrina doveva fatalmente sollevare contro di sé le autorità costituite; e oggi si può vedere come, malgrado le loro discordie intestine, le dette autorità, che poi si contemperano in una, si accordino per combattere il mostro che sta per inghiottirle.

Agli operai che si lamentano dell’insufficienza del salario e dell’incertezza del lavoro, l’economia politica oppone la libertà del commercio. Ai cittadini che cercano le condizioni della libertà e dell’ordine, gl’ideologi rispondono con i sistemi rappresentativi. Alle anime tenere che, perduta la fede antica, chiedono la ragione e lo scopo dell’esistenza, la religione parla dei profondi segreti della Provvidenza, e la filosofia tiene in serbo il dubbio. Sotterfugi sempre! idee sode nelle quali il cuore e lo spirito si riposino, mai! Il socialismo grida che è tempo di far vela verso la terra ferma e di entrare nel porto; ma, non c’è porto, dicono gli anti-sociali, l’umanità cammina custodita da Dio, condotta dai preti, dai filosofi, dagli oratori e dagli economisti e la nostra circumnavigazione è eterna.

La società dunque si trova, sin dall’origine, divisa in due grandi partiti: uno tradizionale, essenzialmente gerarchico, il quale, secondo l’oggetto che considera, si chiama via via principato o democrazia, filosofia o religione, in una parola, proprietà; – l’altro, che risuscitando a ogni crisi della civiltà si proclama innanzi tutto anarchico e ateo, cioè refrattario a ogni autorità divina e umana: è il socialismo.

Ora la critica moderna ha dimostrato che in un conflitto di questa specie, la verità si ritrova non già escludendo uno dei contrari, ma bensì e solamente conciliandoli entrambi; è, dico, ormai risaputo nella scienza che ogni antagonismo, sia nella natura, sia nelle idee, si risolve in un fatto più generale o in una formula complessa, che mette d’accordo i termini opposti, assorbendoli, per così dire, l’uno e l’altro. Non potremmo quindi noi, uomini di senso comune, aspettando la soluzione che sarà indubbiamente recata dall’avvenire, prepararci a questa grande transizione con l’analisi delle potenze combattenti, nonché delle loro qualità positive e negative? Un lavoro significante, fatto con esattezza e coscienza, quando anche non ci conducesse di un tratto alla soluzione, avrebbe almeno l’inestimabile vantaggio di rivelarci le condizioni del problema e tenerci così in guardia contro ogni utopia.

Cosa c’è dunque di necessario e di vero nell’economia politica? dove va? che può fare? cosa vuole da noi? Ecco quanto mi propongo di determinare nella presente opera. – Cosa vuole il socialismo? La medesima investigazione ce lo farà sapere.

Dacché, in fin dei conti, se lo scopo al quale tendono il socialismo e l’economia politica è lo stesso, cioè la libertà, l’ordine e il benessere nella famiglia umana, è evidente che le condizioni da adempiere, o, in altre parole, le difficoltà da vincere per conseguire la meta, sono le medesime per l’uno e per l’altra, e non rimane a far altro che pesare i mezzi tentati o proposti tanto da una parte quanto dall’altra. Ma siccome solo all’economia politica fu sinora concesso di tradurre in atti le proprie idee, mentre il socialismo s’è contentato di satirizzare continuamente, è chiaro che facendo giusta stima dei lavori economici, avremo con ciò stesso ridotto al loro giusto valore le declamazioni socialiste; di modo che la nostra critica, speciale in apparenza, potrà riuscire a conclusioni assolute e definitive. E ciò è bene spiegare con alcuni esempi prima di entrare nell’esame particolareggiato dell’economia politica.

2. – Insufficienza delle teorie e delle critiche

Notiamo subito una importante osservazione: i litiganti sono d’accordo nel riferirsi a una autorità comune che ciascuno di essi fa conto di avere con sé: la scienza.

Platone, utopista, organizzava la sua repubblica ideale in nome della scienza, che, per modestia ed eufemismo, egli chiamava filosofia. Aristotele, uomo pratico, in nome della medesima filosofia, confutava l’utopia platonica. E così va la guerra sociale dai tempi di Platone e di Aristotele. I socialisti moderni fanno tutti richiamo alla scienza una e indivisibile, senza però potersi mettere d’accordo né sul contenuto né sui limiti né sul metodo di codesta scienza; gli economisti, da canto loro, affermano che la scienza sociale non è altro che l’economia politica.

Bisogna dunque innanzi tutto riconoscere ciò che possa essere una scienza della società.

La scienza in genere è la cognizione ragionata e sistematica di ciò che è.

Applicando questa nozione fondamentale alla società, diciamo: la scienza sociale è la cognizione ragionata e sistematica non di quel che la società è stata, né di quel che essa sarà, ma di quel che essa è in tutta la sua vita, cioè nel complesso delle sue manifestazioni successive; perché lì soltanto vi può essere ragione e sistema. La scienza sociale deve abbracciare l’ordine umanitario, non solo in questo o quel periodo della sua durata, né in alcuni dei suoi elementi; ma in tutti i suoi princìpi e nella integrità della sua esistenza; come se l’evoluzione sociale, distesa nel tempo e nello spazio, fosse d’un tratto raccolta e fermata su un quadro, che, mostrando la serie delle epoche, ne seguisse il concatenamento e l’unità. Tale deve essere la scienza di qualsiasi realtà vivente e progressiva; tale è incontestabilmente la scienza sociale.

Potrebbe darsi quindi che l’economia politica, malgrado la sua tendenza individualista e le sue affermazioni esclusive, fosse parte costituente della scienza sociale, nella quale i fenomeni che essa descrive sarebbero come i livelli primi di una vasta triangolazione e gli elementi di un tutto organico e complesso. Da questo punto di vista il progresso dell’umanità, andando dal semplice al composto, sarebbe interamente conforme al cammino della scienza, e i fatti discordi e sovente perturbatori, che formano oggi il fondo e l’oggetto dell’economia politica, dovrebbero essere considerati da noi come altrettante ipotesi particolari, successivamente realizzate dalla umanità, mirando a una ipotesi suprema, la cui realizzazione risolverebbe tutte le difficoltà e, senza abrogare l’economia politica, darebbe soddisfazione al socialismo. – Per cui come ho detto nel Prologo, non possiamo in qualunque caso ammettere che l’umanità s’inganni in qualsivoglia modo si esprima. Chiariamo ora ciò con i fatti.

Il problema più agitato oggi è quello dell’organizzazione del lavoro. – Come San Giovanni Battista predicava nel deserto: fate penitenza, i socialisti vanno gridando da per tutto questa novità vecchia come il mondo: organizzate il lavoro, senza mai poter dire quel che debba essere, secondo la loro mente, questa organizzazione. Come che sia, gli economisti hanno veduto in questo clamore socialista una ingiuria alle loro teorie; come se avessero ricevuto il rimprovero d’ignorare la prima cosa che dovrebbero avere imparato a conoscere, il lavoro. Hanno dunque replicato alle provocazioni degli avversari, prima sostenendo che il lavoro è organizzato, che altra organizzazione possibile del lavoro non c’è fuori della libertà di produrre e di scambiare, così per conto proprio, come in società con altri, nel quale ultimo caso la via da tenere è tracciata dai codici civile e commerciale. Poi, siccome questa argomentazione non serviva se non ad eccitare le risa degli avversari, hanno preso l’offensiva e facendo vedere che i socialisti non capivano nulla di questa organizzazione che agitavano come uno spauracchio, hanno finito col dire che questa era una nuova chimera del socialismo, una parola vuota di senso, un’assurdità. Gli scritti più recenti degli economisti sono pieni di questi spietati giudizi.

Intanto è certo che le parole organizzazione del lavoro offrono un senso chiaro e razionale al pari di queste altre: organizzazione della fabbrica, organizzazione dell’amministrazione civile, organizzazione della carità, organizzazione dell’esercito, organizzazione della guerra. Sotto questo riguardo, la polemica degli economisti appare improntata a una deplorevole irragionevolezza. – Certo l’organizzazione del lavoro non può essere un’utopia e una chimera, perché dal momento che il lavoro, condizione suprema della civiltà esiste, segue che è già sottomesso a un’organizzazione che è permesso agli economisti di trovare buona, ma è giudicata detestabile dai socialisti.

Rimarrebbe dunque, rispetto alla proposizione d’organizzare il lavoro, formulata dal socialismo, codesta obiezione pregiudiziale, che il lavoro è organizzato. Ora ciò non può in alcun modo sostenersi, essendo notorio che nel lavoro, né l’offerta né la domanda né la divisione né la quantità né le proporzioni né il prezzo né la garanzia, nulla, assolutamente nulla, è tenuto in regola; ma ogni cosa è in balia dei capricci del libero arbitrio, cioè del caso.

In quanto a noi, guidati dall’idea che ci siamo fatta della scienza sociale, affermeremo, contro i socialisti e contro gli economisti, non già che bisogna organizzare il lavoro né che esso è organizzato, ma che si organizza.

Il lavoro, diciamo, si organizza; è in via d’organizzarsi sin dal principio del mondo e si organizzerà fino alla fine. L’economia politica c’insegna i primi rudimenti di questa organizzazione; ma il socialismo ha ragione di pretendere che, nella sua forma attuale, l’organizzazione è insufficiente e transitoria, e tutto il compito della scienza è di cercare senza posa, tenuto conto dei risultati conseguiti e dei fenomeni che si vanno compiendo, quali siano le innovazioni immediatamente realizzabili.

Il socialismo e l’economia politica, facendosi una guerra burlesca, vanno dietro a una stessa idea, l’organizzazione del lavoro.

Ma l’uno e l’altra sono colpevoli d’infedeltà alla scienza e di calunnia reciproca, quando da una parte, l’economia politica, prendendo per scienza i suoi brandelli di teoria, respinge ogni progresso ulteriore e quando il socialismo, abdicando la tradizione, tende a ricostituire la società sopra basi introvabili.

Il socialismo a nulla vale senza una critica profonda e uno sviluppo incessante dell’economia politica; e, per applicare qui il celebre aforisma della scuola: nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, nulla c’è nelle ipotesi socialiste che non si trovi nelle pratiche economiche. Di rimando, l’economia politica diviene una impertinente rapsodia dal momento che attribuisce un valore assoluto ai fatti raccolti da Adam Smith e J.-B. Say.

Un’altra questione non meno controversa della precedente è quella dell’usura o del mutuo ad interesse.

L’usura, cioè il prezzo dell’uso, è l’emolumento di qualsivoglia natura che il proprietario trae dal prestito della cosa propria. Quidquid sorti accrescit usura est, dicono i teologi. L’usura, fondamento del credito, occupa il primo posto tra le molle che la spontaneità sociale mette in movimento nella sua opera di organizzazione e la cui analisi scopre le leggi profonde della civiltà. I filosofi antichi e i padri della Chiesa, che bisogna considerare come i rappresentanti del socialismo nei primi secoli dell’era cristiana, per una singolare inconseguenza, ma derivante dalla povertà delle cognizioni economiche di quei tempi, ammettevano l’affitto, e condannavano il mutuo a interesse perché, secondo loro, il denaro è improduttivo. Distinguevano quindi il prestito delle cose che si consumano con l’uso, e tra queste mettevano il denaro, e il prestito delle cose che, senza consumarsi, riescono col loro prodotto profittevoli a chi ne fa uso.

Gli economisti durarono poca fatica a dimostrare, generalizzando il concetto dell’affitto, che, nell’economia della società, l’azione del capitale o la sua produttività era la stessa, sia che si consumasse in salari, sia che conservasse l’ufficio di strumenti; che per conseguenza bisognava o proscrivere l’affitto della terra o ammettere l’interesse del denaro, poiché l’uno e l’altro erano al medesimo titolo, la ricompensa del privilegio, l’indennità del prestito. Ci vollero più di quindici secoli per far passare quest’idea e rassicurare le coscienze spaventate dagli amatori del cattolicesimo contro l’usura. Ma l’evidenza e il voto generale stavano per gli usurai, essi guadagnarono la battaglia contro il socialismo e vantaggi immensi, incontestabili, trasse la società dalla legittimazione dell’usura. In questa circostanza il socialismo che aveva tentato di generalizzare la legge fatta da Mosè per i soli israeliti: Non fœnerabis proximo tuo, se alieno, fu sconfitto per una idea che esso aveva accettata dalla pratica economica, cioè il fitto, innalzato fino alla teoria della produttività del capitale.

Ma gli economisti a loro volta furono meno fortunati quando più tardi si sentirono chiamati a giustificare il terratico in sé e a stabilire la teoria del reddito dei capitali. Si può dire che su questo punto abbiamo perduto tutto il vantaggio che avevano prima contro il socialismo.

Senza dubbio, e sono il primo a riconoscerlo, il prezzo di locazione della terra, così come quello del denaro e d’ogni altro valore mobile e immobile, è un fatto spontaneo, universale, che ha la sua base nelle parti più profonde della nostra natura e che diviene ben presto, grazie al suo normale sviluppo, uno dei più potenti congegni dell’organizzazione. Dimostrerò anche come l’interesse del capitale sia la semplice materializzazione dell’aforisma: ogni lavoro deve lasciare un’eccedenza. Ma, di fronte a questa teoria, o, per dir meglio, di fronte a questa finzione della produttività del capitale, si drizza un’altra tesi non meno certa, e che in questi ultimi tempi ha fatto colpo sui più abili economisti. Secondo codesta tesi, ogni valore nasce dal lavoro e si compone essenzialmente di salari, ovvero, in altre parole: nessuna ricchezza procede originariamente dal privilegio, né ha valore se non per l’opera dell’uomo e per conseguenza il solo lavoro, nell’umana società, è fonte d’ogni reddito. Come dunque conciliare la questione del terratico o della produttività del capitale, teoria confermata dalla pratica universale e che l’economia politica, schiava, com’è, della consuetudine, è costretta a subire senza poterla giustificare, con quell’altra teoria che ci dice comporsi normalmente il valore di salari e giunge fatalmente, come dimostreremo, all’eguaglianza del prodotto netto e del prodotto lordo nella società?

I socialisti non si sono lasciati sfuggire l’occasione. Impadronendosi del principio che fa sorgente d’ogni reddito il lavoro, si sono messi a chiedere conto ai capitalisti, del terratico e dei profitti. E siccome gli economisti avevano riportato la prima vittoria, generalizzando sotto un comune denominatore il terratico e l’usura, così i socialisti hanno preso la rivincita facendo sparire sotto il principio, ancora più generale, del lavoro, i diritti padronali del capitale. La proprietà è stata demolita da cima a fondo, gli economisti non hanno saputo far altro che tacere; ma il socialismo, impotente a fermarsi su questa novella china è trascorso fino agli ultimi confini dell’utopia comunista e, priva di una soluzione pratica, la società è ridotta a non potere giustificare la sua tradizione, né abbandonarsi ad esperimenti il cui minimo difetto sarebbe quello di farla indietreggiare di qualche migliaio di anni. In una situazione somigliante cosa prescrive la scienza?

Certo non di fermarsi in un mezzo termine arbitrario, impalpabile, impossibile, ma di generalizzare ancora e di scoprire un terzo principio, un fatto, una legge superiore che spieghi la finzione del capitale e il mito della proprietà, conciliandoli con la dottrina che attribuisce al lavoro l’origine d’ogni ricchezza. – Ecco ciò che il socialismo avrebbe dovuto fare se avesse voluto procedere a rigore di logica. Difatti, la teoria della reale produttività del lavoro e quella della produttività fittizia del capitale sono l’una e l’altra essenzialmente economiche; il socialismo non s’è data altra pena che quella di mostrarne la contraddizione, senza trarre fuori nulla né dalla propria esperienza né dalla propria dottrina, dacché sembra così sprovvisto dell’una come dell’altra. Ora, in buona procedura, il litigante che accetta l’autorità di un titolo per una parte, deve accettarla per il tutto; non è permesso scindere i documenti e le testimonianze. Il socialismo aveva il diritto di negare l’autorità dell’economia politica relativamente all’usura, mentre si faceva puntello di codesta autorità nei riguardi della decomposizione del valore? No davvero. Tutto ciò che il socialismo poteva esigere in questo caso era, o che l’economia politica fosse costretta a conciliare le proprie teorie, o che a lui stesso fosse data questa spinosa incombenza. Più si va in fondo a questi solenni dibattiti, più si vede che tutto il processo è venuto dal fatto che l’una delle parti non vuol vedere, mentre l’altra non vuol camminare.

È un canone del nostro diritto pubblico che nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e mediante una giusta e previa indennità.

Questo principio è sommamente economico, perché, da una parte suppone il dominio eminente del cittadino che viene espropriato e la cui adesione, secondo lo spirito democratico del patto sociale, è necessariamente pregiudicata; dall’altra parte l’indennità o prezzo dell’immobile espropriato si regola non sul valore intrinseco dell’oggetto, ma secondo la regola generale del commercio, che è l’offerta e la domanda, ossia, in una parola, secondo l’opinione pubblica. L’espropriazione eseguita in nome della società può essere assimilata a un affare di convenienza, consentito da ciascuno verso tutti; deve pagarsi non solo il prezzo, ma la convenienza e così in pratica si valuta l’indennità. Se i giureconsulti romani avessero colta questa analogia, si sarebbero mostrati meno esitanti sull’espropriazione per causa di pubblica utilità.

L’indennità, ecco la sanzione del diritto sociale d’espropriazione. Ora, in pratica, non solo il principio d’indennità non si applica tutte le volte che si dovrebbe, ma è addirittura impossibile che ciò avvenga. Così la legge che ha creato le ferrovie ha ammesso l’indennità per il terreno occupato dalle rotaie; ma nulla ha fatto per quella folla d’industrie che era alimentata dal traffico stradale e le cui perdite saranno di gran lunga superiori al valore dei terreni rimborsato ai proprietari. Parimenti, quando si trattò d’indennizzare i fabbricanti di zucchero di barbabietola, a nessuno venne in mente che lo Stato dovesse anche indennizzare quella moltitudine d’operai e d’impiegati che vivevano sull’industria della fabbricazione dello zucchero di barbabietola e che forse stavano per cadere nella miseria. Non pertanto è certo, data la nozione del capitale e la teoria della produzione, che come il proprietario di terre, al quale la ferrovia toglie il suo strumento di lavoro, ha diritto di essere indennizzato, nello stesso modo l’industriale il cui capitale è isterilito dalla medesima strada ferrata ha diritto anch’egli all’indennità. Perché dunque non gliela danno? Ahimè! in questo caso non è possibile indennizzare. Con un sistema di rigida giustizia e imparzialità la società si troverebbe spessissimo nell’impossibilità di agire e tornerebbe all’immobilità del diritto romano. Bisogna che delle vittime ci siano... Il principio d’indennità è per conseguenza lasciato in disparte; vi è inevitabile bancarotta dello Stato verso una o più classi di cittadini.

Ed ecco farsi innanzi i socialisti a rimproverare all’economia politica di sacrificare l’interesse del popolo e creare privilegi – poi, additando nella legge d’espropriazione il rudimento di una legge agraria, concludono bruscamente in favore dell’espropriazione universale, cioè della produzione e del consumo in comune.

Ma qui il socialismo ricade dalla critica nell’utopia e nelle sue contraddizioni appare di nuovo l’impotenza. Se il principio dell’espropriazione per causa d’utilità pubblica, recato alle ultime conseguenze conduce a una completa riorganizzazione della società, prima di mettere mano all’opera, è necessario determinare questa novella organizzazione; ora, lo ripeto, tutta la scienza del socialismo consiste in brandelli di fisiologia e di economia politica. Poi bisogna, stando al principio dell’indennità, se non rimborsare, almeno garantire ai cittadini i valori da essi erogati; bisogna insomma assicurarli contro qualsiasi eventualità di mutamento. Ora, come farà il socialismo a prendere la cauzione del patrimonio pubblico del quale pretende la gestione, fuori di questo patrimonio?

Non si esce, a voler stare nella buona e sincera logica, da questo cerchio. Ond’è che i socialisti, più franchi nei loro procedimenti di certi altri settari dalle idee ondeggianti e pacifiche, troncano ogni difficoltà e si ripromettono, giunti al potere, di espropriare tutti e non indennizzare o garantire chicchessia. In fin dei conti ciò potrebbe essere né ingiusto né sleale; sventuratamente bruciare non è rispondere, come diceva a Robespierre l’interessante Desmoulins; e in codeste dispute si vedono sempre luccicare il fuoco e la ghigliottina. Qui, come ovunque, due diritti ugualmente vani si trovano di fronte, il diritto del cittadino e il diritto dello Stato: è dir molto che c’è una formula superiore alle utopie del socialismo e alle teorie stroncate dell’economia politica e che si tratta di scoprirla? Che fanno in questo senso le parti contendenti? Nulla. Si direbbe piuttosto che non sollevano le questioni se non per avere l’opportunità d’ingiuriarsi scambievolmente. Cosa dico? Non intendono le questioni e mentre il pubblico si occupa dei sublimi problemi della società e del destino umano, gl’impresari della scienza sociale, ortodossi e scismatici, non s’accordano sui princìpi. Ne sia prova la questione che ha fornito occasione a queste ricerche e che certo non è intesa meglio dai suoi autori che dai suoi detrattori: il rapporto dei profitti e dei salari.

Economisti, un’Accademia avrebbe messo a concorso un tema del quale non capisce essa stessa i termini! Come può esser venuta una tale idea?...

Ebbene, sì, ciò è incredibile, fenomenale; ma è così. Nello stesso modo dei teologi, i quali non rispondono ai problemi della metafisica che con miti e allegorie che riproducono sempre i problemi senza mai risolverli, così gli economisti alle questioni che si propongono rispondono raccontando in che maniera sono stati condotti a proporsele. Se intendessero che si può andare oltre, cesserebbero d’essere economisti.

Cos’è per esempio, il profitto? Ciò che rimane all’imprenditore dopo aver coperte tutte le spese. Ora le spese si compongono di giornate di lavoro e di valori consumati, o, in ultima analisi, di salari. Quale dunque il salario di un operaio? il meno che gli si possa dare, cioè non si sa. Quale deve essere il prezzo della merce trasportata al mercato dall’imprenditore? il più che potrà avere, cioè ancora non si sa. È anche proibito in economia politica immaginare un calmiere per la merce e per la giornata di lavoro, mentre s’ammette la valutazione dell’una e dell’altra; e ciò perché, dicono gli economisti, la valutazione è un’operazione essenzialmente arbitraria che non può giammai arrivare a una conclusione certa e sicura. Come trovare dunque il rapporto tra due incognite, che, stando all’economia politica, non possono in nessun caso separarsi?

Dunque l’economia politica propone problemi insolubili, eppure, vedremo adesso che codesta proposta è inevitabile, com’è del pari da parte del nostro secolo inevitabile la soluzione. Ecco perché ho detto che l’Accademia delle Scienze morali e politiche, ponendo a concorso il rapporto dei profitti e dei salari, aveva parlato senza consapevolezza, ma profeticamente.

Si dirà: non è forse vero che se il lavoro è molto ricercato e scarseggiano gli operai, il salario potrà andar su, mentre, d’altra parte ribasserà il profitto? e che se a cagione della concorrenza la produzione sovrabbonda vi sarà ingombro e vendita in perdita e per ciò mancanza di profitto per l’imprenditore e minaccia di mancanza di lavoro per l’operaio? e che allora costui offrirà al ribasso l’opera sua? che se è inventata una macchina, dapprima essa spegnerà i fuochi delle sue rivali, poi, stabilito una volta il monopolio, e posto l’operaio alla dipendenza dell’imprenditore, il profitto e il salario andranno ciascuno in senso inverso dell’altro? Tutte codeste cause e altre ancora non possono studiarsi, valutarsi, compensarsi, ecc., ecc..

Monografie, storie! Ne abbiamo a ufo da Adam Smith e J.-B. Say in qua; e ormai non si odono che variazioni sui loro testi. Ma non così deve essere intesa la questione, quantunque l’Accademia non le abbia dato altro senso. Il rapporto del profitto e del salario deve essere preso in senso assoluto e non dal punto di vista inconcludente degli accidenti del commercio o della divisione degli interessi: due cose che devono ricevere ulteriormente la loro interpretazione. Mi spiego.

Considerando il produttore e il consumatore come una persona sola la cui retribuzione è naturalmente uguale al suo prodotto: poi distinguendo in questo prodotto due parti, l’una delle quali restituisce al produttore le spese anticipate, mentre l’altra costituisce il suo guadagno, in virtù dell’assioma che ogni lavoro deve lasciare un’eccedenza, noi dobbiamo determinare il rapporto di una di queste due parti con l’altra. Ciò fatto, sarà facile dedurne i rapporti di fortuna di queste due classi di persone: gl’imprenditori e i salariati, come ancora di rendersi conto di tutte le oscillazioni commerciali. Il che sarà una serie di corollari da aggiungere alla dimostrazione.

Ora, perché un tale rapporto esista e possa valutarsi, bisogna necessariamente che una legge, interna o esterna, presieda alla costituzione del salario e del prezzo di vendita; e siccome nello stato attuale delle cose il salario e il prezzo variano e oscillano senza tregua, si domanda quali siano i fatti generali, le cause, che fanno variare e oscillare il valore e in quali limiti si compie codesta oscillazione.

Ma questo stesso quesito è contrario ai princìpi. Chi dice oscillazione, suppone necessariamente una direzione media verso la quale il centro di gravità del valore la riconduce sempre, e quando l’Accademia chiede che si determinino le oscillazioni del profitto e del salario, per ciò stesso essa chiede che si determini il valore. Ora ciò appunto rigettano i signori accademici; essi non vogliono intendere che se il valore è variabile, è per ciò stesso determinabile, che la variabilità è indizio e condizione di determinabilità. Essi pretendono che il valore, variando sempre, non possa mai essere determinato. Come se si sostenesse che, dato il numero delle oscillazioni di un pendolo per ogni minuto secondo, la distesa delle oscillazioni, la latitudine e l’elevazione del luogo ove si fa l’esperienza, non possa essere determinata la lunghezza del pendolo, perché il pendolo è in moto. Tale è il primo articolo di fede dell’economia politica.

Quanto al socialismo, non pare che abbia compreso meglio la questione e che se ne curi. Dei molteplici suoi organi gli uni mettono addirittura da parte il problema, sostituendo alla specificazione il ragionamento, cioè bandendo dall’organismo sociale il numero e la misura; gli altri si tolgono d’imbarazzo applicando al salario il suffragio universale. Va da sé che tali scempiaggini trovano gonzi a migliaia e centinaia di migliaia che le pigliano sul serio.

La condanna dell’economia politica è stata espressa da Malthus nel famoso brano:

“Un uomo che nasce in un mondo già occupato, se la sua famiglia non ha mezzo di nutrirlo o se la società non ha bisogno del suo lavoro, non ha il minimo diritto di reclamare una qualsiasi porzione di vitto; egli, in realtà, è di troppo sulla terra. Al gran banchetto della natura non c’è posto per lui. La natura gli intima di andarsene e non tarderà essa stessa ad eseguire l’intimazione”.

Ecco dunque qual è la conclusione necessaria, fatale, dell’economia politica, conclusione che io dimostrerò con un’evidenza ignota sinora in questo ordine di ricerche: morte a chi non possiede.

Allo scopo di cogliere più efficacemente il concetto di Malthus, traduciamolo in proposizioni filosofiche, spogliandolo della vernice oratoria.

“La libertà individuale e la proprietà che ne è l’espressione, sono ammesse nell’economia politica: l’uguaglianza e la solidarietà non lo sono. Sotto questo regime, ognuno da sé, ognuno per sé, il lavoro, al pari di ogni altra merce, è soggetto all’alto e al basso e da ciò derivano i rischi del proletariato. Chiunque non abbia rendita, né salario non ha diritto di esigere nulla dagli altri, la sua sventura ricade su lui solo. Al gioco della fortuna ha avuto disdetta”.

Dal punto di vista dell’economia politica, queste proposizioni sono irrefutabili, e Malthus, che le ha formulate con una precisione così allarmante, non merita alcun rimprovero. Dal punto di vista delle condizioni della scienza sociale queste stesse proposizioni sono radicalmente false e anche contraddittorie.

L’errore di Malthus, o, per dire meglio, dell’economia politica, non consiste già nel dire che un uomo, il quale non ha di che mangiare, debba perire, né a pretendere che sotto il regime dell’appropriazione individuale, colui che non ha da lavorare né ha rendite proprie non possa fare altro che uscire dalla vita col suicidio, se non preferisce vedersene cacciato dalla fame; tale è, da una parte, la legge della nostra esistenza; tale è, dall’altra, la conseguenza della proprietà. E [Pellegrino] Rossi s’è data soverchia pena per giustificare su questo punto il buon senso di Malthus. Sospetto però che Rossi, facendo così distesamente e con tanto amore l’apologia di Malthus, abbia voluto raccomandare l’economia politica nel modo stesso in cui il suo compatriota Machiavelli, nel libro del Prìncipe, raccomandava il dispotismo all’ammirazione del mondo. Facendo vedere nella miseria la condizione sine qua non dell’arbitrio industriale e commerciale, sembra che Rossi voglia dirci: ecco il vostro diritto, la vostra giustizia, la vostra economia politica, ecco la proprietà.

Ma l’ingenuità gallica non capisce queste finezze e meglio sarebbe stato dire alla Francia nella sua lingua immacolata: l’errore di Malthus, il vizio radicale dell’economia politica, consiste, in tesi generale, nell’affermare come definitiva una condizione transitoria, – la distinzione della società in patriziato e proletariato; e segnatamente nel dire che in una società organizzata e per conseguenza solidale, possa consentirsi che gli uni possiedano, lavorino e consumino, mentre gli altri né possedimento avrebbero né lavoro né pane. Finalmente Malthus, ossia l’economia politica, si sbaglia nelle sue conclusioni quando nella facoltà di riproduzione indefinita di cui gode la specie umana né più né meno di tutte le specie animali e vegetali, vede una permanente minaccia di carestia, mentre bisognava dedurne soltanto la necessità e perciò l’esistenza di una legge d’equilibrio, tra la popolazione e la produzione. In due parole, la teoria di Malthus, e qui è il gran merito di questo scrittore, merito del quale nessuno dei suoi colleghi s’è curato di tenergli conto, è una riduzione all’assurdo di tutta l’economia politica.

In quanto al socialismo, è stato giudicato molto tempo fa da [Jeremy] Bentham e da Thomas More con una sola parola: utopia, cioè non-luogo, chimera.

Tuttavia, bisogna dirlo a onore dello spirito umano e perché giustizia sia resa a tutti, né la scienza economica e legislativa poteva essere, nei suoi cominciamenti, diversa da quella che noi abbiamo veduta, né può la società fermarsi a questa prima determinazione.

Ogni scienza deve dapprima circoscrivere il proprio campo, produrre e raccogliere i suoi materiali; prima del sistema i fatti; innanzi al secolo dell’arte il secolo dell’erudizione. Sottomessa, come ogni altra disciplina, alla legge del tempo e alle condizioni dell’esperienza, la scienza economica, prima di ricercare come le cose debbano andare nella società, doveva dirci come vanno, e tutti questi procedimenti consuetudinari, che gli autori chiamano pomposamente nei loro libri leggi, princìpi, teorie, malgrado la loro incoerenza e la loro contraddittorietà, dovevano essere raccolti con scrupolosa diligenza e descritti con severa imparzialità. – Per adempiere a questo compito ci voleva forse più genio e soprattutto più zelo che non sarà richiesto dal progresso ulteriore della scienza.

Se dunque l’economia sociale è ancora oggi piuttosto un’aspirazione verso l’avvenire che una conoscenza della realtà, bisogna riconoscere altresì che gli elementi di questo studio ci sono tutti nell’economia politica; e credo di esprimere il sentimento generale, dicendo che questa opinione è ormai quella dell’immensa maggioranza delle intelligenze. Vi sono, è vero, pochi difensori del presente; ma il disgusto dell’utopia è generale e tutti intendono la verità in una formula che concili questi due termini: conservazione e movimento.

In tal modo, e grazie a Smith, a Say, a Ricardo e a Malthus, come ai loro temerari contraddittori, i misteri della fortuna, atria Ditis, sono messi allo scoperto: la preponderanza del capitale, l’oppressione del lavoratore, le macchinazioni del monopolio, folgorate su tutti i punti, indietreggiano innanzi agli sguardi dell’opinione. Sui fatti osservati e descritti dagli economisti si ragiona e si congettura; spirano sotto la generale riprovazione, appena tratti alla luce, diritti abusivi e costumanze inique rispettati per tutto il tempo che durò l’oscurità nella quale trovavano alimento. Si comincia a sospettare che il governo della società debba essere appreso non più in una ideologia fantastica del genere del Contratto Sociale; ma, come aveva intravisto Montesquieu, nel rapporto delle cose; e già una sinistra, con tendenze eminentemente sociali, formata di dotti, di magistrati, di giureconsulti, di professori, e anche di capitalisti e grandi industriali, tutti rappresentanti nati e difensori del privilegio, si colloca, nella nazione, sopra e fuori le opinioni parlamentari e cerca di sorprendere nell’analisi dei fatti economici i segreti della vita della società.

Figuriamoci dunque l’economia politica come una immensa pianura, ingombra di materiali preparati per la costruzione di un edificio. Gli operai aspettano il segnale, pieni di ardore e impazienti di mettersi al lavoro; ma l’architetto è scomparso senza lasciare alcuna pianta. Gli economisti hanno serbato memoria di una quantità di cose; sfortunatamente non hanno neanche l’ombra di un piano complessivo. Sanno l’origine e la storia di ogni pezzo d’opera; ciò che è costata la lavorazione, quale legname dia le migliori travi e quale argilla i migliori mattoni; quanto si è speso in utensili e in trasporto; quanto guadagnavano i carpentieri e quanto gli scalpellini; ma di nessuna cosa sanno la destinazione e il posto. Gli economisti non possono dissimulare di avere sotto gli occhi i frammenti di un capolavoro gettati là alla rinfusa, disiecti membra poetae [Orazio]; ma non sono riusciti finora a ritrovare il disegno generale e tutte le volte che hanno tentato qualche accozzamento, hanno dato luogo a strane incoerenze. Disperati alla fine di andare dietro a combinazioni senza risultato, hanno finito con l’erigere in dogma l’inconvenienza architettonica della scienza, ossia, come dicono, gli inconvenienti, dei suoi princìpi, insomma hanno negato la scienza. [“Il principio che presiede alla vita delle nazioni non è la scienza pura, ma è costituito dai dati complessi che risultano dallo stato della cultura, dei bisogni e degli interessi”. Così si esprimeva, nel dicembre 1844, una delle menti più lucide che ci siano in Francia, Léon Faucher. Che si spieghi, se è possibile, come un uomo della sua tempra sia stato indotto dalle proprie convinzioni economiche a dichiarare che i dati complessi della società sono in opposizione con la scienza pura].

Così la divisione del lavoro, senza cui la produzione sarebbe press’a poco nulla, è soggetta a mille inconvenienti, il peggiore dei quali è la demoralizzazione dell’operaio; le macchine producono, col buon mercato, l’ingombro e la mancanza di lavoro; la concorrenza sbocca nell’oppressione; l’imposta, vincolo materiale della società, non è spesso che un flagello temuto come l’incendio e la grandine; il credito ha per correlativo obbligato la bancarotta; la proprietà è un brulichio di abusi; il commercio degenera in giochi d’azzardo dove è permesso talora di truffare; in breve, il disordine trovandosi da per tutto in proporzione uguale con l’ordine, senza che si sappia come questo giungerà ad eliminare quello, taxis ataxian diokein, gli economisti hanno preso il partito di concludere che tutto va per il meglio e considerano ogni proposta di modificazione come ostile all’economia politica.

All’edificio sociale dunque non s’è più pensato, la folla ha fatto irruzione nel recìnto: colonne, capitelli e zoccoli, legname, pietre, metalli, tutto è stato distribuito in lotti e sorteggiato, con codesti materiali raccolti per erigere un magnifico tempio, la proprietà ignorante e barbara ha costruito capanne. Trattasi perciò non solo di ritrovare il piano dell’edificio, ma di mandare via quelli che l’occupano, i quali sostengono che la loro città è superba, e al solo parlare di restauro si ordinano in battaglia sulle loro porte. Uguale confusione non fu veduta a Babele; ma per fortuna noi parliamo francese e siamo più arditi dei compagni di Nimrod. Lasciamo l’allegoria: il metodo storico e descrittivo, adoperato con tanto successo fino a che s’è trattato soltanto di fare delle ricognizioni, è ormai inutile: dopo migliaia di monografie e di tavole non siamo più innanzi di quel che si fosse ai tempi di Senofonte e di Esiodo. I Fenici, i Greci, gl’Italiani lavoravano un tempo come noi facciamo oggi; collocavano il loro denaro, salariavano i loro operai, estendevano i loro possedimenti, facevano spedizioni e riscossioni, tenevano i conti, speculavano, facevano aggiotaggio, si rovinavano secondo tutte le regole dell’arte economica, sapevano non meno bene di noi arrogarsi monopoli, scorticare il consumatore e l’operaio. Di tutto ciò abbondano i ragguagli e quando noi ripassassimo eternamente le nostre statistiche e le nostre cifre, ci troveremmo pur sempre dinanzi agli occhi il caos – il caos immobile e uniforme.

Si crede, è vero, che dai tempi mitologici fino all’attuale anno 57° della nostra grande rivoluzione, il benessere generale sia cresciuto; il cristianesimo è stato creduto per lungo tempo la causa principale di questo miglioramento, del quale gli economisti vogliono dare adesso ogni merito ai loro princìpi. Dacché, in fin dei conti, essi dicono, quale influenza ha esercitato il cristianesimo sulla società? Profondamente utopistico alla sua origine, esso non ha potuto mantenersi ed estendersi, se non adottando poco a poco tutte le categorie economiche: il lavoro, il capitale, la rendita territoriale, l’usura, il traffico, la proprietà, consacrando insomma la legge romana, che è la più alta espressione dell’economia politica.

Il cristianesimo estraneo, per la sua parte teologica, alle teorie sulla produzione e il consumo, è stato per la civiltà europea quel che non è molto erano per gli operai girovaghi, le società artigiane e la massoneria, una specie di contratto di assicurazione e di mutuo soccorso. Sotto questo aspetto nulla esso deve all’economia politica e il bene che ha fatto non può essere da questa addotto a testimonianza della propria certezza. Gli effetti della carità e dell’abnegazione sono fuori del campo dell’economia politica, la quale deve procurare il benessere della società con l’organizzazione del lavoro e con la giustizia. Per soprappiù io sono disposto a riconoscere i felici risultati del meccanismo della proprietà; ma noto che questi risultati sono coperti interamente dalle miserie che un tale meccanismo naturalmente produce; di modo che, come dichiarava, non è molto, innanzi al Parlamento inglese un illustre ministro, e come noi stessi dimostreremo, nella società presente il progresso della miseria è parallelo e adeguato al progresso della ricchezza, e ciò annulla completamente i meriti dell’economia politica. Di modo che l’economia politica non è giustificata né dalle sue massime né dalle sue opere; e in quanto al socialismo, tutto il merito suo sta nell’avere posto in chiaro questa circostanza. Siamo dunque costretti a riprendere l’esame dell’economia politica, perché essa sola contiene, almeno in parte, i materiali della scienza sociale, e a verificare se le sue teorie non nascondano un qualche errore il cui raddrizzamento concilierebbe il fatto col diritto, rivelando la legge organica della società e fornendo il concetto politico dell’ordine.

II. Il valore

1. – Opposizione tra il valore d’utilità e il valore di scambio

Il valore è la pietra angolare dell’edificio economico. L’artefice divino che ci ha commessa la continuazione dell’opera sua non s’è spiegato, ma da alcuni indizi si possono trarre opportune congetture. Il valore difatti presenta due facce: l’una che gli economisti chiamano valore d’uso o valore in sé; l’altra valore di scambio o d’opinione. Gli effetti che sotto questo duplice aspetto produce il valore e che sono assai irregolari fino a che esso non sia stabilito, o per esprimerci più filosoficamente, fino a che non sia costituito, mutano del tutto.

Ora, ricercare in che consiste la correlazione tra valore utile e valore di scambio, cosa debba intendersi per valore costituito e con quali peripezie si operi la costituzione di cui parliamo, è l’oggetto e lo scopo dell’economia politica. Io prego il lettore di volgere tutta la sua attenzione a ciò che segue, essendo questo capitolo il solo di tutta l’opera nel quale occorra un po’ di buona volontà da parte sua. Per mia parte mi sforzerò di essere sempre più semplice e chiaro.

Tutto ciò che può in qualche maniera servirmi ha per me valore e tanto più io sono ricco quanto più la cosa utile è abbondante; su questo non c’è difficoltà di sorta. Il latte e la carne, la frutta e i cereali, la lana, lo zucchero, il cotone, il vino, i metalli, il marmo, la terra insomma, l’acqua, l’aria, il fuoco e il sole sono relativamente a me valori d’uso, valori per natura e per destinazione. Se tutte le cose che servono alla mia sussistenza fossero così abbondanti come sono alcune di esse, per esempio la luce; o, in altre parole, se la quantità di ciascuna specie di valori fosse inesauribile, il mio benessere sarebbe per sempre assicurato, io non avrei bisogno di lavorare e non ci penserei neanche. In tale stato ci sarebbe sempre utilità nelle cose, ma non si potrebbe più con verità dire che valgono, perché il valore, come vedremo, indica un rapporto essenzialmente sociale. E ancora è solo per mezzo dello scambio che noi, facendo una specie di riconversione dalla società alla natura, abbiamo acquistato la nozione d’utilità. Tutto lo sviluppo della civiltà dipende dunque dalla necessità in cui si trova la razza umana di provocare senza tregua la creazione di nuovi valori; e similmente i mali della società hanno la loro prima radice nella lotta perpetua contro la nostra inerzia. Togliete all’uomo il bisogno che incita il suo pensiero e lo dispone alla vita contemplativa e il migliore prodotto della creazione non sarà altro che il primo dei quadrupedi.

Ma come il valore d’uso diventa valore di scambio? Dacché bisogna notare che le due specie di valore, sebbene contemporanee nel pensiero (non scorgendosi il primo se non per occasione del secondo), ammettono nondimeno un rapporto di successione: il valore permutabile è dato da una specie di riflesso del valore utile, come i teologi insegnano che nella Trinità, il Padre, contemplandosi nell’eternità, genera il Figlio. Questa generazione del valore non è stata fatta notare con sufficiente accuratezza dagli economisti; è bene fermarvisi alquanto.

Non trovando nella natura un gran numero delle cose che mi bisognano se non in quantità assai limitata o non trovandone affatto, sono costretto a cooperare alla produzione di quanto mi manca; e non potendo mettere le mani su tante cose, proporrò ad altri uomini, miei collaboratori in occupazioni diverse, di cedermi parte dei loro prodotti in cambio di quel che io produco. Avrò dunque, rispetto a me, più di quanto mi abbisogni del mio prodotto speciale; e del pari i miei simili avranno, rispetto a loro, più di quanto hanno bisogno di usare dei rispettivi prodotti. Questa tacita convenzione si compie mediante il commercio. Faremo osservare che la successione logica delle due specie di valore, appare meglio nella storia che nella teoria, avendo gli uomini passato migliaia di anni a disputarsi i beni naturali (è ciò che si chiama la comunità primitiva) prima che la loro industria avesse determinato alcuno scambio.

Ora, l’attitudine che hanno tutti i prodotti, sia naturali sia industriali, di servire alla sussistenza dell’uomo, si chiama particolarmente valore d’utilità; l’attitudine che essi hanno di essere dati un per l’altro, è valore di scambio. In fondo è la stessa cosa, perché il secondo caso non fa che aggiungere al primo l’idea di una sostituzione, e tutto ciò può parere inutilmente sottile; nella pratica le conseguenze sono meravigliose e a vicenda felici o funeste.

Così la distinzione stabilita nel valore è data dai fatti e nulla ha di arbitrario: tocca all’uomo, subendo questa legge, di volgerla a favore del proprio benessere e della propria libertà. Il lavoro, secondo la bella espressione di [Léon] Walras, è una guerra dichiarata alla parsimonia della natura; per esso sono nello stesso tempo generate la ricchezza e la società. Non solo il lavoro produce assai più copia di beni che non ce ne doni la natura – fu già notato che i soli calzolai della Francia producono dieci volte più che le miniere del Perù, del Brasile e del Messico – ma estendendo il lavoro, con le trasformazioni che fa subire ai valori naturali, e moltiplicando all’infinito i suoi diritti, accade a poco a poco che ogni ricchezza, a forza di passare per la trafila industriale, torni intera a colui che la creò e nulla o quasi nulla rimane al possessore della materia prima.

Tale è dunque il procedimento dello sviluppo economico: al primo momento, appropriazione della terra e dei valori naturali; poi associazione e distribuzione, mediante il lavoro, fino alla completa uguaglianza. Gli abissi sono disseminati sulla nostra via, la spada pende sulle nostre teste; ma per scongiurare ogni pericolo abbiamo la ragione: ora la ragione è l’onnipotenza. Dal rapporto che lega il valore utile al valore permutabile risulta che se per accidente o malevolenza, fosse interdetto lo scambio a uno dei produttori, o se l’utilità del suo prodotto venisse a cessare di un tratto, egli, con i magazzini pieni, non possederebbe nulla. Quanto più sacrifici avesse sostenuti e dimostrato abilità nel produrre, tanto più sarebbe profonda la sua miseria. – Se l’utilità del prodotto, invece di sparire affatto, fosse scemata soltanto, cosa che può accadere in mille modi, il lavoratore, invece di fallire sotto il colpo di una catastrofe subitanea, si troverebbe impoverito solamente. Obbligato a barattare una considerevole quantità dei suoi valori contro una scarsa quantità di valori estranei, la sua sussistenza si troverebbe ridotta in una misura uguale al deficit della sua vendita, e ciò lo porterebbe, per gradi, dall’agiatezza all’inedia. Se infine l’utilità del prodotto venisse a crescere, o se la produzione fosse resa meno costosa, il conto dello scambio tornerebbe vantaggioso al produttore, il cui benessere potrebbe così innalzarsi dalla mediocrità laboriosa all’oziosa opulenza. Questo fenomeno di impoverimento e di arricchimento si manifesta sotto mille forme e in mille combinazioni; in ciò consiste il gioco appassionato e intricatissimo dell’industria e del commercio, ed è questa lotteria piena di tranelli che gli economisti credono debba durare eterna e di cui l’Accademia delle Scienze morali e politiche, chiede, senza appello, la soppressione, quando sotto i nomi di profitto e di salario, essa domanda che si concili il valore d’uso col valore di cambio, cioè che si trovi il mezzo di rendere tutti i valori utili ugualmente permutabili, e viceversa tutti i valori permutabili ugualmente utili.

Gli economisti hanno benissimo fatto emergere il doppio carattere del valore; ma non ne hanno espresso con la medesima nettezza l’indole contraddittoria. Qui comincia la nostra critica.

L’utilità è la condizione necessaria dello scambio; ma togliete lo scambio e l’utilità s’annulla; questi due termini sono indissolubilmente legati. Dov’è dunque che appare la contraddizione?

Traendo tutti noi la comune sussistenza dal lavoro e dallo scambio, ed essendo tanto più ricchi quanto più produciamo e permutiamo, ne consegue che ciascuno debba produrre il più che può di valore utile, onde aumentare in uguale ragione i suoi scambi e perciò i suoi godimenti. Ebbene, il primo effetto, l’effetto inevitabile della moltiplicazione dei valori è l’impoverimento; più una merce abbonda, più essa perde nello scambio e commercialmente si deprezza. Non è vero che c’è contraddizione tra la necessità del lavoro e i suoi risultati?

Prego il lettore, prima di correre incontro alla spiegazione, di fermare la sua attenzione sul fatto.

Un contadino il quale ha raccolto venti sacchi di frumento, ch’egli si propone di mangiare con la sua famiglia, si ritiene più ricco che se ne avesse raccolto solo dieci; nello stesso modo, una donna di casa che ha tessuto cinquanta braccia di tela si ritiene anche essa più ricca che se ne avesse tessuto soltanto dieci. Relativamente all’azienda domestica hanno ragione tutti e due; ma dal punto di vista dei loro rapporti col di fuori possono ingannarsi completamente. Se il raccolto del grano è riuscito doppio in tutto il paese, venti sacchi si venderanno meno di quello che si sarebbero venduti dieci sacchi se il raccolto fosse riuscito solo la metà. E parimenti, in un caso simile, cinquanta braccia di tela varranno meno di venticinque. Di maniera che il valore decresce come aumenta la produzione dell’utilità, e un produttore può cadere nell’indigenza arricchendosi sempre. E a ciò pare che non vi sia rimedio, perché il solo mezzo salutare sarebbe questo, che la quantità dei prodotti diventasse di tutti, come quella dell’aria e della luce, infinita. Ma ciò è assurdo. Dio della mia ragione! avrebbe esclamato Jean-Jacques; non sono gli economisti che sragionano, la stessa economia politica si mostra infedele alle proprie definizioni: mentita est iniquitas sibi.

Negli esempi dianzi recati il valore utile supera il valore permutabile; in altri casi è minore. Allora si produce il medesimo fenomeno, ma in senso inverso: la bilancia è troppo favorevole al produttore; chi ci perde è il consumatore. Così accade specialmente nelle carestie, nelle quali il rialzo delle vettovaglie ha sempre qualcosa di artificiale. Vi sono anche professioni in cui tutta l’arte consiste nel dare a una utilità mediocre, e della quale si potrebbe benissimo fare a meno, un esagerato valore d’opinione: tali sono, in genere, le arti di lusso. L’uomo, eccitato dalla passione estetica, è avido d’inezie, il cui possesso soddisfa altamente la sua vanità, il suo gusto innato per il lusso e l’amore del bello, affetto nobile e rispettabile; su ciò speculano i fornitori di questa specie d’oggetti. Colpire la fantasia e l’eleganza non è cosa meno assurda del porre tasse sulla circolazione; ma nel primo caso l’imposta è riscossa da certi industriali in voga, protetti dal favore generale e tutto il merito dei quali si riduce sovente a falsare il gusto e far nascere l’incostanza. Pure nessuno si lamenta e tutti gli anatemi dell’opinione pubblica sono per i monopolisti che riescono a elevare di qualche centesimo il prezzo della tela e del pane.

Non basta avere notato nel valore utile e nel valore permutabile questo sorprendente contrasto là dove gli economisti sono avvezzi a non vedere altro che una cosa semplicissima; bisogna mostrare come questa pretesa semplicità celi un mistero profondo che abbiamo il dovere di penetrare.

Io sfido qualunque economista a dirmi, senza tradurre o ripetere la questione, per qual motivo il valore decresce a misura che aumenta la produzione, e di rimando cosa fa crescere questo medesimo valore a misura che la produzione diminuisce. In termini tecnici il valore utile e il valore permutabile, necessari l’uno all’altro, sono in reciproca ragione inversa; io chiedo dunque perché la rarità, non l’utilità, significa aumento dei prezzi. Notiamolo bene, il rialzo e il ribasso delle merci sono indipendenti dalla quantità di lavoro impiegata nella produzione e il maggiore o minore costo di produzione non serve per spiegare le variazioni dei prezzi.

Il valore è capriccioso come la libertà, non tiene conto né dell’utilità né del lavoro, anzi pare che, nel corso ordinario delle cose, a parte alcune perturbazioni eccezionali, gli oggetti più utili siano sempre quelli destinati a vendersi a prezzo più vile o, in altre parole, che è giusto vedere meglio retribuiti gli uomini i quali lavorano con più soddisfazione e coloro che sudano, faticando, sangue e acqua, remunerati nel peggiore modo. Di maniera che seguendo il principio fino alle ultime conseguenze, si arriverebbe legittimamente a questa conclusione: che le cose, il cui uso è necessario, e la quantità infinita, si devono avere per nulla, e quelle la cui utilità è nulla e la rarità estrema, devono avere un prezzo inestimabile. Ma, per colmo d’imbarazzo, la pratica non ammette questi estremi. Da una parte nessun prodotto umano può crescere all’infinito e dall’altra le cose più rare hanno bisogno d’essere, in un grado qualsiasi, utili, senza di che non sarebbero suscettibili di valore alcuno. Il valore utile e il valore permutabile rimangono dunque fatalmente collegati l’uno all’altro, sebbene per la loro natura tendano continuamente a escludersi.

Non affaticherò il lettore con la confutazione delle logomachie che si potrebbero presentare per gettare luce sul tema; riguardo alla contraddizione inerente alla nozione del valore non c’è né causa assegnabile nè spiegazione possibile. Il fatto di cui parlo è di quelli chiamati primitivi, cioè che possono servire a spiegarne altri; ma sono per se medesimi insolubili come i corpi semplici. Tale il dualismo dello spirito e della materia. Spirito e materia sono due vocaboli che, presi separatamente, indicano ciascuno uno speciale concetto della mente senza corrispondere a nulla di reale. Nella stessa maniera, dato nell’uomo il bisogno di una grande varietà di prodotti con l’obbligo di procurarseli col proprio lavoro, l’opposizione tra il valore utile e il valore permutabile ne risulta necessariamente e da questa opposizione, una contraddizione sulla soglia stessa dell’economia politica. Nessuna mente o volontà divina o umana potrebbe impedirla. Per cui invece di cercare una spiegazione chimerica, contentiamoci di constatare la necessità della contraddizione.

Qualunque sia l’abbondanza dei valori creati e la proporzione in cui essi si permutano, bisogna, perché lo scambio dei prodotti avvenga, se voi domandate, che il mio prodotto vi convenga; se offrite, che io gradisca il vostro. Nessuno ha diritto d’imporre agli altri la propria merce, il solo giudice dell’utilità, o, ciò che è lo stesso, del bisogno, è il compratore. Dunque, nel primo caso, voi siete arbitro della convenienza, nel secondo lo sono io. Togliete la reciproca libertà e lo scambio non è più l’esercizio della solidarietà industriale: è una rapina. Il comunismo, diciamolo così a volo, non supererà giammai questa difficoltà.

Ma, con la libertà, la produzione rimane necessariamente indeterminata, sia in quantità, sia in qualità, onde tanto dal punto di vista del progresso economico, quanto da quello della convenienza dei consumatori, la valutazione è eternamente arbitraria e il prezzo delle merci oscillerà sempre. Supponiamo per un istante che entrambi i produttori vendano a prezzo fisso; ce ne saranno che producendo a buon mercato o meglio, guadagneranno molto, mentre altri non guadagneranno nulla. In ogni modo l’equilibrio è rotto. – Si vuole, per impedire il ristagno del commercio, limitare la produzione allo stretto necessario? È violare la libertà: perché, se togliendomi la facoltà di scegliere, mi condannate a pagare un maximum, distruggete la concorrenza, unica garanzia del buon mercato e provocate il contrabbando. E così per impedire l’arbitrio commerciale, vi gettate nell’arbitrio amministrativo; per creare l’uguaglianza distruggete la libertà, il che è la negazione della stessa uguaglianza. – Raggrupperete i produttori in un solo opificio? suppongo che possediate questo segreto. Non basta ancora. Bisognerà che raggruppiate i consumatori in una famiglia comune; ma in tal caso vi allontanate dalla questione. Non si tratta di abolire l’idea di valore, cosa impossibile, com’è l’abolizione del lavoro, bensì di determinarla. Non si tratta di uccidere la libertà individuale, ma di socializzarla. Ora è provato essere il libero arbitrio la causa dell’opposizione tra valore utile e valore di cambio; come risolvere questa opposizione fino a che dura il libero arbitrio? E come sacrificare questo senza sacrificare l’uomo?...

Dunque per il semplice fatto che nella mia qualità di libero compratore sono giudice dei miei bisogni, giudice della convenienza dell’oggetto, giudice del prezzo che voglio pagare, e d’altra parte voi, nella vostra qualità di libero produttore siete padrone dei mezzi di produzione e per conseguenza avete la facoltà di ridurre le spese, l’arbitrio s’introduce per forza nel valore e lo fa oscillare tra l’utilità e l’opinione.

Ma codesta oscillazione, benissimo scorta dagli economisti, è soltanto l’effetto di una contraddizione che, allargandosi, genera i fenomeni più inattesi. Tre anni di fertilità in certe province della Russia sono una calamità pubblica, come nei nostri vigneti tre anni di abbondanza sono una calamità per il vignaiolo. Gli economisti, lo so bene, attribuiscono questo guaio alla mancanza di sbocchi, perciò è una grande questione per loro quella degli sbocchi. Sventuratamente va detto della teoria degli sbocchi lo stesso della teoria dell’emigrazione, voluta contrapporre a Malthus; è una petizione di principio. Gli Stati meglio provvisti di sbocchi sono soggetti all’eccesso di produzione al pari dei paesi più isolati: dove più che alla borsa di Parigi o di Londra si conoscono i colpi di rialzo o di ribasso? Dall’oscillazione del valore e dagli effetti irregolari che ne derivano, i socialisti e gli economisti, ciascuno dalla propria parte, hanno dedotto conseguenze opposte, ma egualmente false. I primi hanno preso occasione da ciò per calunniare l’economia politica ed escluderla dalla scienza sociale; gli altri per rigettare ogni possibilità di conciliazione fra i termini e affermare come legge assoluta del commercio l’incommensurabilità dei valori e perciò delle fortune.

Dico che dalle due parti l’errore è uguale:

1° L’idea contraddittoria di valore, messa così bene in luce dall’inevitabile distinzione tra valore d’uso e valore di scambio, non viene da una falsa percezione dello spirito né da una terminologia viziosa né da qualsiasi aberrazione pratica, ma è insita alla natura delle cose e s’impone alla ragione come forma generale del pensiero, cioè come categoria. Ora essendo il concetto di valore il punto di partenza dell’economia politica, segue che tutti gli elementi della scienza – anticipo questa parola – sono contraddittori in sé e in opposizione tra loro, tanto che su ciascun problema l’economista si trova sempre tra una affermazione e una negazione ugualmente irrefutabili. L’antinomia infine, per servirmi della parola consacrata dalla filosofia moderna, è il carattere essenziale dell’economia politica, cioè nello stesso tempo, la sua sentenza di morte e la sua giustificazione.

Antinomia, letteralmente contro-legge, vuol dire opposizione nel principio o antagonismo nel rapporto, come la contraddizione o antilogia indica opposizione o contrarietà nel discorso. L’antinomia, chiedo perdono se entro in questi particolari di scolastica, ma poco familiari ancora alla maggior parte degli economisti, l’antinomia è il concetto di una legge a doppia faccia, una positiva, l’altra negativa. Tale è per esempio la legge dell’attrazione, che fa girare i pianeti intorno al sole e che i geometri scompongono in forza centripeta e forza centrifuga. Tale è anche il problema della divisibilità della materia all’infinito, che Kant ha dimostrato potersi negare e affermare con argomenti del pari plausibili e irrefutabili.

L’antinomia non fa che esprimere un fatto, e s’impone imperiosamente allo spirito: la contraddizione propriamente detta è un assurdo. Questa distinzione tra l’antinomia (contra-lex) e la contraddizione (contra-dictio), mostra in qual senso si è potuto dire che in un certo ordine di idee e di fatti l’argomento di contraddizione non serba più lo stesso valore che ha in matematica.

Nelle matematiche è di regola che, dimostrata falsa una proposizione, la proposizione inversa è vera, e così viceversa. Questo è anche il grande mezzo di dimostrazione matematica. In economia sociale la cosa va altrimenti. Vedremo, per esempio, che dimostrando falsa la proprietà in base alle sue conseguenze, la formula contraria, cioè il comunismo, non risulta vera, ma è messo in chiaro che la si può negare nel tempo stesso e al medesimo titolo che la proprietà. Segue forse da ciò, come con enfasi assai ridicola è stato detto, che ogni verità, ogni idea procede da una contraddizione, cioè da qualche cosa che si nega e s’afferma nello stesso momento e dal medesimo punto di vista e che si debba gettare via la vecchia logica che fa della contraddizione il segno caratteristico dell’errore? Questo ciarlatanismo è degno di sofisti che, senza fede né buona fede, lavorano ad eternare lo scetticismo, onde tenere su la loro impertinente nullità.

Siccome l’antinomia, quando sia disconosciuta, conduce senza fallo alla contraddizione, s’è presa l’una per l’altra, specialmente nel francese ove si usa designare ogni cosa per i suoi effetti. Ma né la contraddizione né l’antinomia che l’analisi scopre in fondo a ogni idea semplice sono il principio del vero. La contraddizione è sempre sinonimo di nullità; quanto all’antinomia, alla quale talora si applica lo stesso nome, essa è difatti il precursore della verità, alla quale, per così dire, fornisce la materia; ma non è la verità e, considerata in sé, è la causa efficiente del disordine, la forma propria della menzogna e del male.

L’antinomia si compone di due termini, necessari l’uno all’altro, ma opposti sempre e tendenti a distruggersi reciprocamente. Oso appena aggiungere, ma bisogna pure averlo in mente, che il primo di questi termini ha ricevuto il nome di tesi, posizione, e il secondo quello di antitesi, contrapposizione. Questo meccanismo è ora tanto conosciuto che ben presto, io spero, lo si vedrà figurare nel programma delle scuole elementari. Vedremo adesso come dalla combinazione di questi due zeri venga fuori l’unità o l’idea che fa sparire l’antinomia.

Pertanto non c’è nulla di utile nel valore che non possa permutarsi, nulla di permutabile se l’utilità manca; il valore d’uso e il valore di scambio sono inseparabili. Ma mentre, per i progressi dell’industria, la domanda varia e si moltiplica all’infinito, e la fabbricazione tende per conseguenza a ravvalorare l’utilità naturale delle cose e finalmente a convertire ogni valore utile in valore di scambio; – da un’altra parte, la produzione, aumentando senza tregua la potenza dei suoi mezzi e riducendo sempre le proprie spese, tende a ricondurre la venalità delle cose alla primitiva utilità, di modo che il valore d’uso e il valore di scambio sono in perpetua lotta.

Gli effetti della lotta sono notissimi: le guerre per la prevalenza nel commercio e negli sbocchi, l’ingombro, il ristagno, le proibizioni, i massacri della concorrenza, il monopolio, il ribasso dei salari, le leggi del maximum, l’enorme disuguaglianza delle fortune, la miseria traggono origine dall’antinomia del valore. Mi si dispensi dal fornirne qui la dimostrazione, la quale del resto, scaturirà naturalmente dai capitoli seguenti.

I socialisti pure, invocando a ragione la fine di questo antagonismo, hanno avuto il torto di sconoscerne la fonte e di non vedervi altro fuorché una svista del senso comune, riparabile per decreto dell’autorità pubblica. Da ciò quella esplosione di sensibilità piagnucolosa che ha reso il socialismo così scipito per le menti positive e che, propagando le più assurde illusioni, trae sempre tanta gente in inganno. Ciò che io rimprovero al socialismo non è già di essere venuto senza motivo, ma di rimanere così lungamente e con tanta ostinazione stupido.

2° Ma gli economisti hanno avuto il torto non meno grave di respingere a priori, e ciò a causa dell’elemento contraddittorio, o meglio, antinomico del valore, ogni idea e ogni speranza di riforma, senza voler mai capire che appunto perché la società era pervenuta al suo massimo periodo di antagonismo, doveva essere imminente la conciliazione, l’armonia. Un attento esame dell’economia politica lo avrebbe fatto toccar con mano ai suoi adepti, se avessero fatto maggior conto dei lumi della metafisica moderna. È difatti dimostrato, con i dati più positivi della ragione umana, che là ove si manifesta un’antinomia, c’è promessa di risoluzione dei termini e per conseguenza segnale di una trasformazione. Ora la nozione del valore, quale fu esposta, tra gli altri da J.-B. Say, è precisamente in questa situazione. Ma gli economisti, rimasti per la più parte e per una inconcepibile fatalità, estranei al movimento filosofico, non supponevano che il carattere essenzialmente contraddittorio, e come essi dicevano, variabile del valore, fosse nel tempo stesso il segno autentico della sua costituzionalità, cioè della sua natura eminentemente armonica e determinabile. Qualsiasi onta ne risulti per le varie scuole economiche, certo è che l’opposizione da esse fatta al socialismo procede unicamente da questo falso concetto dei loro stessi princìpi; basterà, tra le tante, una prova.

L’Accademia delle Scienze (non quella delle Scienze morali, l’altra), uscendo un giorno dalle proprie competenze, ammise alla lettura una memoria la quale si proponeva di calcolare le tavole del valore per tutte le merci, in base alle medie di prodotto per ogni uomo e per ogni giornata di lavoro in ciascun genere d’industria. Il “Giornale degli Economisti” (agosto 1845) prese subito nota di questa comunicazione, usurpatrice ai suoi occhi, per protestare contro il progetto di tariffa che ne era l’oggetto e ristabilire ciò che esso chiamava i veri princìpi.

“Non c’è, diceva nelle sue conclusioni, una misura, un tipo del valore; è la scienza economica che lo dice, come la matematica ci dice che non c’è il moto perpetuo, né la quadratura del circolo e che questa quadratura e questo moto non si troveranno quindi mai. Ora, se non c’è una stima del valore, se la misura del valore non è neanche una illusione metafisica, qual è definitivamente la norma regolatrice degli scambi?... È, l’abbiamo detto, quella dell’offerta e della domanda in modo generale; ecco l’ultima parola della scienza”.

Ora, come faceva il “Giornale degli Economisti” a provare che non c’è misura del valore? – Mi valgo del vocabolo consacrato; io dimostrerò che questa espressione misura del valore ha qualcosa di ambiguo e non significa con esatte parole ciò che si vuole, ciò che si deve dire.

Questo giornale ripeteva, accompagnandola con esempi, l’esposizione da noi fatta sopra della variabilità del valore, ma senza giungere come noi alla contraddizione. Ora, se lo stimabile redattore, uno dei più distinti della scuola di Say, avesse avuto più severe abitudini dialettiche; se si fosse da lungo tempo esercitato, non solo a osservare i fatti, ma a cercarne la spiegazione nelle idee che li producono, non dubito che si sarebbe espresso con maggiore riservatezza e che invece di vedere nella variabilità del valore l’ultima parola della scienza, avrebbe anzi ammesso che ne era la prima. Riflettendo che la variabilità nel valore dipende non dalle cose, ma dallo spirito, avrebbe compreso che, come la libertà dell’uomo ha la sua legge, così il valore deve avere la propria. E per conseguenza che l’ipotesi di una misura del valore, giacché questa espressione si adopera, non ha nulla d’irrazionale; anzi, al contrario, è illogica e insostenibile la negazione di questa misura.

Difatti, in che l’idea di misurare e per conseguenza di fissare il valore, ripugna alla scienza? Tutti credono a questa fissazione, tutti la vogliono, la cercano, la suppongono; ogni proposta di vendita o di compera non è altro, in fin dei conti, che un paragone tra due valori, cioè una determinazione più o meno giusta se si vuole, ma effettiva. L’opinione del genere umano sul divario che c’è tra il valore reale e il prezzo commerciale è, si può dire, unanime. Da ciò dipende che se tante merci si vendono a prezzo fisso; ce n’è anche talune che persino nelle loro variazioni sono sempre fisse, il pane, per esempio. Non si negherà che se due industriali possono spedirsi reciprocamente in conto corrente e a prezzo inteso, determinate quantità dei loro prodotti rispettivi, dieci, cento, mille industriali non possano fare altrettanto. Ora ciò appunto importerebbe la soluzione del problema della misura del valore. Il prezzo di qualunque cosa sarebbe discusso, ne convengo, perché la discussione è ancora per noi il solo modo di fissare il prezzo; pure, come ogni scintilla sprizza fuori dall’attrito, la discussione, benché sia una prova d’incertezza, ha lo scopo, a parte la maggiore o minore buona fede che vi si mescola, di scoprire il mutuo rapporto dei valori, cioè la loro misura, la loro legge.

Ricardo, nella sua teoria della rendita, ha dato un magnifico esempio della commensurabilità dei valori. Egli ha fatto vedere che le terre arative stanno fra loro, come, a spese uguali, stanno le loro rendite, e la pratica universale è in ciò d’accordo con la teoria. Ora chi ci dice che questa maniera positiva e sicura di valutare le terre e in genere tutti i capitali fissi, non possa estendersi anche ai prodotti?...

Si dice: l’economia politica non si regge con formule a priori, essa si pronuncia solo sui fatti. Ora, sono per l’appunto i fatti e l’esperienza che ci insegnano non esserci, né potere esistere una misura del valore, e provano che se una tale idea ha dovuto presentarsi naturalmente, la sua realizzazione è del tutto chimerica. L’offerta e la domanda, ecco la sola regola degli scambi.

Non starò qui a ripetere che l’esperienza prova precisamente il contrario; che tutto, nel movimento economico della società, indica una tendenza alla costituzione e alla fissazione del valore; che quello è il punto culminante dell’economia politica, la quale, con codesta costituzione, si trova trasformata, è il supremo segno dell’ordine nella società. – Questo quadro generale, ripetuto senza prove, diverrebbe insipido. Io mi tengo per ora nei termini della discussione e dico che l’offerta e la domanda, nelle quali si vuol vedere la sola norma dei valori, non sono altro che due forme cerimoniali che servono a mettere a fronte il valore d’utilità e il valore di scambio e a provocare la loro conciliazione. Sono questi i due poli elettrici che messi in rapporto producono il fenomeno di affinità economica che si chiama scambio. Come i poli della pila, l’offerta e la domanda sono diametralmente opposti e tendono senza tregua ad annullarsi reciprocamente. È per il loro antagonismo che il prezzo delle cose o si esagera o si annienta e occorre conoscere se non sia possibile, in qualunque occasione, equilibrare o fare transigere queste due potenze, di maniera che il prezzo delle cose sia sempre l’espressione della giustizia. Dire dopo ciò che l’offerta e la domanda sono la regola degli scambi, è dire che l’offerta e la domanda sono la regola dell’offerta e della domanda; non è spiegare la pratica, ma dichiararla assurda, e io nego che la pratica sia assurda. Citai testé Ricardo, il quale, in un caso speciale, fornì una regola positiva di paragone dei valori. Gli economisti fanno ancora meglio: ogni anno raccolgono dai quadri statistici la media di tutti i listini dei prezzi. Ora, che significa una media? Ognuno intende che in una particolare operazione, presa a caso sopra un milione, nulla può indicare se sia l’offerta, valore utile, che ha prevalso, o se sia invece il valore permutabile, cioè la domanda. Ma siccome ogni esagerazione nel prezzo delle merci è presto o tardi seguita da un ribasso proporzionale; siccome, in altre parole, nella società i profitti dell’aggio sono uguali alle perdite, si può ragionevolmente considerare la media dei prezzi di un periodo completo quale indice del valore reale e legittimo dei prodotti. Vero è che questa media arriva troppo tardi, ma chi ci dice che non la si potrebbe scoprire anticipatamente? c’è un economista che osi dire di no?

Per amore o per forza, bisogna dunque cercare la misura del valore; è la logica che lo impone e le sue conclusioni sono ugualmente contrarie agli economisti e ai socialisti. L’opinione che nega l’esistenza di questa misura è irrazionale, è storta. Dite sin che vi piaccia da una parte che l’economia politica è una scienza che poggia sui fatti e che i fatti sono contrari all’ipotesi di una determinazione del valore; – dall’altra che questa scabrosa questione non ha più ragione di esistere in una comunità universale in cui ogni antagonismo sarebbe assorbito, io ripeterò sempre a destra e a sinistra:

1° Che non essendovi fenomeno senza una causa, non ce n’è neanche senza legge e che se la legge dello scambio non s’è trovata, la colpa non e dei fatti, ma dei dotti;

2° Che fino a quando l’uomo lavorerà per sussistere e lavorerà liberamente, la giustizia sarà la condizione della fratellanza e la base dell associazione; ora, senza una determinazione del valore, la giustizia è monca, è impossibile.

2. – Costituzione del valore – definizione della ricchezza

Noi conosciamo il valore sotto due aspetti contrari, non lo conosciamo nel suo tutto. Se potessimo acquistare questa nuova idea, avremmo il valore assoluto e una tariffa dei valori, come quella chiesta dall’Accademia delle Scienze, sarebbe possibile.

Figuriamoci dunque la ricchezza come una massa tenuta da una forza chimica in stato permanente di composizione e nella quale entrino continuamente elementi nuovi, combinandosi in proporzioni diverse, ma secondo una legge certa; il valore è il rapporto proporzionale (la misura) secondo la quale ciascuno degli elementi entra nel tutto.

Da ciò seguono due cose: una che gli economisti si sono ingannati cercando la misura generale del valore nel grano, nel denaro, nella rendita, ecc., e del pari quando, dopo avere dimostrato che codesta misura del valore non si trova né qua né là, hanno concluso che non c’è misura né ragione del valore; l’altra che la proporzione dei valori può variare di continuo, senza cessare perciò di essere soggetta a una legge la cui determinazione è precisamente la soluzione richiesta.

Questo concetto del valore soddisfa, lo si vedrà, a tutte le esigenze, poiché abbraccia nello stesso tempo il valore di scambio in ciò che esso ha di positivo e di fisso, e il valore utile in ciò che ha di variabile; in secondo luogo fa cessare la contrarietà che sembrava un ostacolo insuperabile a qualunque determinazione. Di più mostreremo come il valore, così inteso, differisca interamente da ciò che sarebbe una semplice giustificazione delle due idee di valore e valore permutabile e che esso è dotato di nuove proprietà.

La proporzionalità dei prodotti non è una rivelazione che noi pretendiamo di fare al mondo, né una novità che rechiamo nella scienza, più di quanto la divisione del lavoro fosse una cosa ignota allorché Adam Smith ne spiegò le meraviglie. La proporzionalità dei prodotti è, come ci sarebbe facile provare con citazioni innumerevoli, una idea volgare che si trova in tutte le opere di economia politica, senza però che sinora si sia pensato a darle il posto che le spetta; e questo è quello che tentiamo di fare noi. Del resto ci teniamo a fare questa dichiarazione, onde rassicurare il lettore sulle nostre pretese di originalità e conciliarci gli animi poco favorevoli, per timidezza, alle novità.

Gli economisti pare che non abbiano mai inteso per misura del valore altro che un tipo, una specie d’unità primordiale, esistente per sé e che si applicherebbe a tutte le merci, come il metro si applica a tutte le grandezze. Quindi è sembrato a molti che tale ufficio fosse adempiuto dal denaro. Ma la teoria monetaria ha dimostrato che ben lungi dall’essere la misura del valore, la moneta n’è solo l’aritmetica e un’aritmetica convenzionale. Il denaro è al valore ciò ch’è il termometro al calore. Il termometro con la sua scala arbitrariamente graduata indica quando vi sia perdita o accumulazione di calore; ma non dice quali siano le leggi d’equilibrio del calore, in quale proporzione esso si trovi nei vari corpi, quale quantità ne occorra per produrre un’ascensione di 10, 15 o 20 gradi nel termometro. È cosa sicurissima che i gradi della scala, tutti tra loro uguali, corrispondono a uguali addizioni di calore.

L’idea che s’aveva della misura del valore è dunque inesatta. Quel che noi cerchiamo non è la misura del valore, come tante volte s’è detto, ma la legge secondo cui i prodotti si proporzionano nella ricchezza sociale, in quanto dalla conoscenza di questa legge dipendono il rialzo e il ribasso delle merci in ciò che codesti fenomeni hanno di normale e legittimo. In una parola, nello stesso modo che per la misura dei corpi celesti s’intende il rapporto risultante dal paragone di questi corpi tra loro, così per misura dei valori bisogna intendere il rapporto che risulta dalla loro reciproca comparazione. Ora dico che questo rapporto ha la sua legge e questa comparazione ha un principio suo.

Suppongo dunque una forza che combina in determinate proporzioni gli elementi della ricchezza e ne fa un tutto omogeneo, e se anche gli elementi costituitivi non si trovino nella proporzione voluta, la combinazione sì farà ugualmente, però invece di assorbire tutta la materia, ne rigetterà una parte come inutile. Il movimento interno per il quale avviene la combinazione e che determina l’affinità delle diverse sostanze è, nella società, lo scambio; non più lo scambio considerato nella sua forma elementare, d’uomo a uomo, ma in quanto fusione di tutti i valori prodotti dalle industrie private in una sola e medesima ricchezza sociale. Finalmente la proporzione secondo la quale ogni elemento entra nel composto, è ciò che noi chiamiamo valore; l’eccedenza che rimane dopo avvenuta la combinazione è non valore; fino a che per l’arrivo di una certa quantità di altri elementi esso non entri in una combinazione, non è possibile che si scambi.

Spiegheremo più in là l’ufficio del denaro.

Stabilito ciò, si comprende come, a un dato momento, la proporzione dei valori che formano la ricchezza di un paese, possa a forza di statistiche e d’inventari essere determinata o almeno valutata empiricamente, come i chimici hanno scoperto, con l’esperimento aiutato dall’analisi, la proporzione d’idrogeno e d’ossigeno indispensabile alla formazione dell’acqua. Questo metodo, applicato alla determinazione dei valori nulla ha che ripugni; è un semplice affare di computo. Ma un lavoro simile, per quanto interessante, ci insegnerebbe ben poco. Infatti, mentre noi sappiamo che la proporzione varia senza posa, dall’altra è chiaro che non dandoci una stima complessiva della pubblica ricchezza la proporzione dei valori se non unicamente per il luogo e l’ora in cui si compilerebbe la tabella, noi non potremmo indurne la legge di proporzionalità della ricchezza. Un solo lavoro di codesta fatta non basterebbe, ci vorrebbero, ammettendo pure che si possa avere fiducia in un tale procedimento, migliaia e milioni di lavori simili.

Ora, accade nella scienza economica tutt’altro da ciò che avviene nella chimica. I chimici, ai quali l’esperimento ha fatto scoprire così belle proporzioni, nulla sanno del come e del perché di tali proporzioni, né della forza che le determina. L’economia sociale al contrario, alla quale nessuna indagine a posteriori potrebbe far conoscere la legge di proporzionalità dei valori, può coglierla nella forza stessa che la produce e che ormai è tempo di far conoscere.

Questa forza che A. Smith ha celebrato con tanta eloquenza e che i suoi successori hanno sconosciuta, ponendola alla pari col privilegio, è il lavoro. Il lavoro differisce da produttore a produttore in quantità e qualità. Accade a questo riguardo, quel che accade a tutti i grandi princìpi della natura e alle leggi più generali, semplici nella loro azione e formula, ma modificati all’infinito dalla molteplicità delle cause particolari e adatti a manifestarsi sotto una varietà innumerevoli di forme. È il lavoro, il lavoro solo che produce tutti gli elementi della ricchezza e che li combina fino nelle loro ultime molecole secondo una legge di proporzionalità variabile, ma certa. È il lavoro infine che, come principio di vita, agita mens agitat, la materia, molem, della ricchezza e le dà proporzione. La società, ossia l’uomo collettivo, produce una infinità d’oggetti il cui godimento costituisce il suo benessere. Questo benessere si sviluppa non solo in ragione della quantità dei prodotti, ma anche in ragione della loro varietà (qualità) e proporzione. Da questo postulato fondamentale segue che la società deve sempre, a ogni istante della sua vita cercare nei suoi prodotti una proporzione tale che vi si ritrovi la più forte somma di benessere, avuto riguardo alla potenza e ai mezzi di produzione. Abbondanza, varietà e proporzione nei prodotti sono i tre termini che costituiscono la ricchezza. La ricchezza oggetto dell’economia sociale è sottomessa alle medesime condizioni d’esistenza alle quali soggiacciono il bello, oggetto dell’arte; la virtù, oggetto della morale; il vero, oggetto della metafisica.

Ma come si stabilisce questa mirabile proporzione, tanto necessaria che senza di essa una parte delle fatiche umane va perduta, cioè riesce inutile, disarmonica, non vera, e perciò sinonimo d’indigenza, di nulla?

Prometeo, secondo la favola, è il simbolo dell’attività umana. Prometeo ruba il fuoco al cielo e inventa le prime arti; Prometeo prevede il futuro e vuol farsi uguale a Giove; Prometeo è Dio. Chiamiamo dunque la società Prometeo.

Prometeo dà al lavoro in media dieci ore al giorno, sette al riposo e altrettante al piacere. Per trarre dai suoi esercizi il più utile frutto, Prometeo tiene nota della pena e del tempo che ogni oggetto del suo consumo gli costa. La sola esperienza può ammaestrarlo in ciò, e questa esperienza durerà per tutta la sua vita. Lavorando e producendo Prometeo prova dunque una infinità di disinganni. Ma in ultima analisi, più egli lavora, più il suo benessere si raffina e il suo lusso s’idealizza; più estende le sue conquiste sulla natura e più fortifica in se stesso il principio di vita e di intelligenza, il cui esercizio solo lo rende beato. E ciò al punto che, fatta una volta la prima educazione del lavoratore, e messo ordine nelle sue occupazioni, lavorare non è più, per lui, penare, è vivere, è godere. Ma l’attrattiva del lavoro non ne distrugge la regola, poiché, al contrario, n’è il frutto, e coloro i quali protestando che il lavoro deve essere attraente concludono negando la giustizia e ammettendo il comunismo, somigliano ai fanciulli, che dopo aver raccolto i fiori in giardino, fanno un’aiuola sul pianerottolo.

Nella società la giustizia non è altro che la proporzionalità dei valori; essa ha per garanzia e sanzione la responsabilità del produttore.

Prometeo sa che il tale prodotto costa un’ora di lavoro, il tal altro un giorno, una settimana, un anno; sa del pari che tutti codesti prodotti con l’accrescimento del loro costo, formano il progresso della sua ricchezza. Egli comincerà dunque ad assicurare la propria esistenza provvedendosi delle cose che costano meno e che sono le più necessarie; poi, a misura che si sentirà in posizione più solida, penserà agli oggetti di lusso, procedendo sempre, se è savio, secondo la gradazione naturale del prezzo che ogni cosa gli costa. Qualche volta Prometeo s’ingannerà nel suo calcolo, o anche, trasportato dalla passione, sacrificherà un bene immediato per un godimento prematuro e, dopo aver sudato sangue e acqua, soffrirà la fame. La legge porta in se stessa la propria sanzione; non la si può violare senza che colui che la infrange sia tosto punito.

Say ha dunque avuto ragione di dire: “La felicità di questa classe (quella dei consumatori) composta di tutte le altre costituisce il benessere generale, lo stato di prosperità di un paese”. Solamente avrebbe dovuto soggiungere che il benessere della classe dei produttori, che si compone anche essa di tutte le altre, costituisce ugualmente il benessere generale, lo stato di prosperità di un paese. – E così quando dice: “La fortuna di ciascun consumatore è in perpetua rivalità con tutto ciò ch’egli compra”, avrebbe dovuto aggiungere che la fortuna di ciascun produttore è intaccata continuamente da quanto egli vende. Senza questa reciprocità nettamente espressa, la più parte dei fenomeni economici diventa inintelligibile, e io farò vedere a suo luogo come, a causa di questa grave omissione, il maggior numero degli economisti che scrivono libri ha sragionato a proposito della bilancia del commercio.

Ho detto che la società produce dapprima le cose che costano meno e che sono le più necessarie. Ora è vero che nel prodotto la necessità abbia per correlativo il buon mercato e viceversa, sicché queste due parole necessità e buon mercato, come queste altre, rincaro e superfluo sono sinonimi?

Se ogni prodotto del lavoro, preso isolatamente, potesse bastare all’esistenza dell’uomo, la sinonimia non sarebbe dubbia; avendo tutti i prodotti le medesime proprietà, i più vantaggiosi a produrre e quindi i più necessari sarebbero i meno costosi. Ma non è con questa precisione teorica che si forma il parallelismo tra l’utilità e il prezzo dei prodotti; sia la previdenza della natura, sia qualunque altra la causa, l’equilibrio tra il bisogno e la facoltà produttrice è più che una teoria, è un fatto attestato dalla pratica quotidiana e dal progresso della società.

Rimontiamo alla nascita dell’uomo, all’inizio della civiltà; non è vero che le industrie originarie e più semplici, quelle che richiesero meno preparazione e costo furono le seguenti: raccolta, pascolo, caccia e pesca, dopo le quali, a lungo intervallo, venne l’agricoltura? In seguito quelle quattro industrie primordiali sono state perfezionate e, di più, appropriate: doppia circostanza che non altera l’essenza dei fatti; ma, al contrario, le dà maggiore rilievo. Infatti, la proprietà si è sempre appigliata di preferenza agli oggetti di più immediata utilità, ai valori fatti, per così dire, di modo che si potrebbe tracciare la scala dei valori con i progressi dell’appropriazione.

Nella sua opera Della libertà del lavoro [tr. it., Torino 1859], [Charles] Dunoyer si è positivamente attenuto a questo principio, distinguendo quattro grandi categorie industriali, disposte da lui secondo l’ordine del loro sviluppo, cioè dal minimo al massimo dispendio di lavoro. Sono: l’industria estrattiva, che comprende tutte le funzioni semibarbare citate più su; l’industria commerciale, l’industria manifatturiera, l’industria agricola. Ed è con profonda ragione che il dotto autore ha posto in ultimo luogo l’agricoltura. Dacché, malgrado la sua remota antichità, è positivo che questa industria non ha proceduto d’ugual passo con le altre. Ora la successione delle cose nell’umanità non deve essere determinata in base all’origine, ma secondo l’intero sviluppo. Può darsi che l’industria agraria sia nata prima delle altre, o che tutte siano contemporanee, pure deve assegnarsi l’ultima data a quella che più tardi si è perfezionata. Così la natura medesima delle cose, al pari che i suoi propri bisogni, indicavano al lavoratore l’ordine in cui egli doveva condurre la produzione dei valori che compongono il suo benessere. La nostra legge di proporzionalità è dunque nello stesso tempo fisica e logica, obiettiva e soggettiva; possiede il più alto grado di certezza. Vediamone l’applicazione.

Di tutti i prodotti del lavoro nessuno forse costò più lunghi e pazienti sforzi che il calendario. Pure non ce n’è alcuno il cui godimento possa oggi acquistarsi a più buon mercato e che per conseguenza, secondo le nostre definizioni sia diventato più necessario. Come spiegheremo questo mutamento? Come il calendario così poco utile alle prime orde alle quali era sufficiente l’alternarsi della notte e del giorno, come dell’inverno e dell’estate, è divenuto a lungo andare così indispensabile, così poco dispendioso, così perfetto? Perché per un mirabile accordo, tutti questi epiteti nell’economia sociale sono sinonimi? Come insomma rendere ragione della variabilità di valore del calendario, secondo la nostra legge di proporzione?

Perché il lavoro necessario alla produzione del calendario fosse eseguito, fosse anzi possibile, bisognava che l’uomo trovasse mezzo di avere un po’ di tempo disponibile nelle sue prime occupazioni e in quelle che ne furono immediata conseguenza. In altre parole, bisognava che queste industrie divenissero più produttive o meno costose che non fossero a principio, e ciò è come dire che bisognava risolvere il problema della produzione del calendario a carico delle stesse industrie estrattive.

Suppongo dunque che di un tratto, mediante una felice combinazione di sforzi, mercé la divisione del lavoro, l’uso di qualche macchina, la direzione più intelligente degli agenti naturali, in una parola, con la propria industria, Prometeo trovi mezzo di produrre, in un giorno, tanto di un dato oggetto, quanto prima ne produceva in dieci. Cosa ne seguirà? Il prodotto cangerà di posto sul quadro degli elementi della ricchezza; essendo cresciuta la sua potenza di affinità (oso chiamarla così) per altri prodotti, si troverà in rapporto diminuito il suo valore relativo e invece d’essere valutato per cento, lo sarà per dieci. Ma questo valore sarà pur sempre rigorosamente determinato e il lavoro sarà quello che fisserà la cifra della sua importanza. Il valore dunque varia e la legge dei valori è immutabile; e, meglio ancora, se il valore è suscettibile di variazione, lo è perché è sottoposto a una legge il cui principio è essenzialmente mobile, cioè il lavoro misurato dal tempo.

Il medesimo ragionamento si applica alla produzione del calendario, e di ogni altro valore possibile. Non devo aggiungere come la civiltà, ossia, il fatto sociale dell’accrescimento della ricchezza, moltiplicando i nostri affari, rendendo i minuti del nostro tempo sempre più preziosi, obbligandoci a tenere registro perpetuo e particolareggiato di tutta la nostra vita, abbia reso il calendario una delle cose più necessarie a tutti. È noto per altro che questa scoperta ammirabile ha suscitato, come naturale compimento, una delle più ragguardevoli nostre industrie, l’orologeria.

Qui trova posto naturalmente un’obiezione, la sola che si possa elevare contro la teoria della proporzionalità dei valori.

Say e gli economisti suoi seguaci hanno osservato che essendo il lavoro soggetto anche esso a valutazione, e non distinguendosi, per ciò, da qualsiasi altra merce, si cadeva in un circolo vizioso prendendolo come principio e causa efficiente del valore. Dunque, si concluse, bisogna rivolgersi alla rarità e all’opinione.

Questi economisti, mi permettano che lo dica, hanno dimostrato in ciò una prodigiosa disattenzione. Si dice che il lavoro vale, non in quanto sia una merce, ma in vista dei valori che si suppone siano potenzialmente racchiusi in esso. Il valore del lavoro è una espressione metaforica, un’anticipazione della causa sull’effetto. È una finzione uguale a quella della produttività del capitale. Il lavoro produce, il capitale ha valore; e quando per una specie di ellissi si parla del valore del lavoro, si fa una trasposizione che non contravviene alle regole del discorso, ma che i teorici non devono prendere per una realtà. Il lavoro, come la libertà, l’amore, l’ambizione, il genio è una cosa vaga e indeterminata per sua natura, ma che si definisce qualitativamente mediante il suo oggetto, cioè diventa una realtà grazie al prodotto. Quando dunque si dice, il lavoro di costui vale cinque franchi al giorno, è come dire: il prodotto del lavoro quotidiano di costui vale cinque franchi.

Così l’effetto del lavoro è quello di eliminare continuamente la rarità e l’opinione come elementi costitutivi del valore e, per una necessaria conseguenza, di trasformare le utilità naturali o vaghe (appropriate o non) in utilità misurabili o sociali; da dove risulta che il lavoro è nello stesso tempo una guerra dichiarata alla parsimonia della natura e una cospirazione permanente contro la proprietà. In base a codesta analisi, il valore, considerato nella società che formano naturalmente fra loro, mediante la divisione del lavoro e lo scambio, i produttori, è il rapporto di proporzionalità dei prodotti che compongono la ricchezza, e ciò che chiamasi specialmente valore di un prodotto è una formula che indica, in caratteri monetari, la proporzione di questo prodotto nella ricchezza generale. – L’utilità fonda il valore; il lavoro ne fissa il rapporto, il prezzo è l’espressione nella quale, salvo le aberrazioni che dovremo studiare, si traduce questo rapporto.

Ecco il centro intorno al quale oscillano il valore utile e il valore permutabile, il punto in cui vengono a inabissarsi e sparire, ecco la legge assoluta, immutabile che domina le perturbazioni economiche, i capricci dell’industria e del commercio e che governa il progresso. Ogni sforzo della umanità che pensa e lavora, speculazione individuale e sociale, presa come parte integrante della ricchezza collettiva obbedisce a questa legge. Il destino dell’economia politica era di farla riconoscere, ponendone successivamente tutti i termini contraddittori; lo scopo dell’economia sociale, che chiedo per un istante il permesso di distinguere dall’economia politica, quantunque nel fondo l’una non dovrebbe differire dall’altra, sarà quello di promulgarla e realizzarla dappertutto.

La teoria della misura o della proporzionalità dei valori è, si badi, la teoria stessa dell’uguaglianza. In quel modo infatti che nella società, ove s’è visto essere completa l’identità tra il produttore e il consumatore, il reddito pagato a un ozioso è come un valore gettato nelle fiamme dell’Etna, così il lavoratore al quale si dà un salario eccessivo è come un mietitore al quale si donasse un pane per ogni spiga da lui colta e tutto ciò che gli economisti hanno dichiarato essere consumo improduttivo non è altro in fondo, se non una infrazione alla legge di proporzionalità.

Vedremo in seguito come da questi dati così semplici il genio sociale deduce a poco a poco il sistema ancora oscuro dell’organizzazione del lavoro, del riparto dei salari, del prezzo dei prodotti e della solidarietà universale. L’ordine nella società si stabilisce sui calcoli di una giustizia inesorabile e non già sui sentimenti paradisiaci di fratellanza, di affettuoso ossequio e di amore che tanti onorevoli socialisti si sforzano ora di suscitare nel popolo. Invano, recando l’esempio di Gesù Cristo, essi predicano la necessità e danno l’esempio del sacrificio; l’egoismo è più forte e la legge di severità, la fatalità economica, è solo atta a domarlo. L’entusiasmo umanitario può produrre delle scosse favorevoli al progresso della civiltà; ma queste crisi del sentimento, del pari che le oscillazioni del valore, non avranno altro risultato se non quello di stabilire in modo più forte e assoluto la giustizia. La natura, o la divinità, ha diffidato dei nostri cuori, non ha creduto all’amore dell’uomo per il prossimo e tutto ciò che la scienza scopre intorno alle mire della Provvidenza sulla via della società – lo dico a vergogna della coscienza umana, ma bisogna che la nostra ipocrisia lo sappia – attesta dalla parte di Dio una misantropia profonda. Dio ci aiuta non per sua bontà, ma perché l’ordine è la sua essenza; Dio procura il bene del mondo, non perché lo giudichi degno, ma perché la religione della sua suprema intelligenza ce l’obbliga, e mentre il volgo gli dà il dolce nome di Padre, è impossibile indurre nello storico e nell’economista filosofo l’opinione ch’egli ci ami e ci stimi.

Imitiamo questa sublime indifferenza, questa stoica atarassia di Dio; e poiché il precetto della carità non è mai riuscito a produrre il bene sociale, cerchiamo nella ragione pura le condizioni della concordia e della virtù.

Il valore, concepito come proporzionalità dei prodotti o, in altre parole, come valore costituito, suppone necessariamente e in ugual grado utilità e venalità, indivisibilmente e armonicamente unite. Esso suppone l’utilità, poiché senza questa condizione il prodotto sarebbe sfornito dell’affinità che lo rende permutabile e ne fa un elemento della ricchezza; suppone la venalità, poiché se il prodotto non fosse sempre e a un determinato prezzo disponibile per lo scambio, sarebbe un non valore, sarebbe nulla. Ma nel valore costituito tutte queste proprietà acquistano un significato più largo, più regolare, più vero. L’utilità non è più l’attitudine, per così dire, inerte che hanno le cose di servire ai nostri godimenti e alle nostre esplorazioni. La venalità non è l’esasperazione di una fantasia cieca o di una opinione senza princìpi. Finalmente la variabilità ha cessato di significare un dibattimento pieno di malafede tra l’offerta e la domanda. Tutto ciò è scomparso per far luogo a una idea positiva, normale e determinabile sotto tutte le modificazioni possibili. In forza della costituzione dei valori ogni prodotto, se è lecito porre una tale analogia, è come il nutrimento che, scoperto dall’istinto di alimentazione, poi preparato dall’organo digestivo, entra nella circolazione generale ove si converte, secondo determinate proporzioni, in carne, ossa, liquidi, ecc., e dà al corpo la vita, la forza e la bellezza.

Ora, cosa avviene nell’idea di valore quando dalle nozioni antagoniste di valore utile e di valore di scambio ci innalziamo a quella di valore costituito o di valore assoluto? C’è, per così dire, un incassamento, una compenetrazione reciproca, nella quale i due concetti elementari uncinandosi l’un l’altro come gli atomi di Epicuro, si assorbono l’uno all’altro e spariscono, lasciando al loro posto una composizione dotata, ma a un grado superiore, di tutte le loro proprietà positive e sbarazzata di tutte le loro proprietà negative. Un valore degno di questo nome, come la moneta, gli effetti commerciali di prim’ordine, i titoli di rendita sullo Stato, le azioni di un’impresa solida, non può più né esagerarsi senza ragione né perdere nello scambio. Esso soggiace soltanto alla legge naturale dell’aumento delle specialità industriali e dell’accrescimento dei prodotti. C’è di più: un valore simile non è il risultato di una transazione, cioè di un eclettismo, di un giusto mezzo, o di una mescolanza. È il prodotto di una completa fusione; è un prodotto affatto nuovo e distinto dagli elementi che lo compongono, come l’acqua, prodotta dalla combinazione dell’idrogeno e dell’ossigeno è un corpo a parte, totalmente distinto dai suoi elementi.

La risoluzione di due idee antitetiche in una terza d’ordine superiore è ciò che nel linguaggio delle scuole si chiama sintesi. Questa soltanto dà l’idea positiva e completa, che si ottiene, come s’è visto, con l’affermazione o negazione successiva – il che è lo stesso – di due concetti diametralmente opposti. Da dove si trae questo corollario di capitale importanza così in pratica come in teoria; tutte le volte che nella sfera della morale, della storia o della economia politica, l’analisi ha constatato l’antinomia di una idea, si può affermare a priori che questa antinomia cela una idea più elevata, che tosto o tardi farà la sua apparizione.

Mi rincresce d’insistere tanto su nozioni familiari a tutti i giovani che abbiano appena presa la laurea; ma dovevo entrare in questi particolari, per farli intendere a certi economisti, i quali, a proposito della mia critica della proprietà, hanno ammucchiato dilemmi su dilemmi per provarmi che se io non fossi proprietario sarei necessariamente comunista. E tutto ciò per non sapere cosa siano la tesi, l’antitesi e la sintesi.

L’idea sintetica di valore, come condizione fondamentale d’ordine e di progresso per la società, era stata vagamente intravista da A. Smith, quando, per servirmi delle espressioni di [Adolphe] Blanqui “egli mostrò nel lavoro la misura universale e invariabile dei valori e fece vedere che ogni cosa ha il suo prezzo naturale, verso cui gravita continuamente in mezzo alle fluttuazioni del prezzo corrente, cagionate da circostanze accidentali, estranee al valore venale della cosa stessa”.

Ma questa idea del valore era affatto intuitiva presso Smith; ora la società non muta le proprie abitudini sulla fede d’intuizioni; per decidersi ha bisogno di fatti. Occorreva che l’antinomia s’affermasse in maniera più sensibile e netta; J.-B. Say ne fu l’interprete principale. Però, malgrado gli sforzi d’immaginazione e la spaventosa sottigliezza di questo economista, la definizione di Smith lo domina senza ch’egli se ne accorga e scatta fuori da tutti i suoi ragionamenti.

“Valutare una cosa, dice Say, è dichiarare che essa deve essere stimata tanto quanto un’altra che si indica... Il valore di qualsiasi cosa è vago e arbitrario fino a che esso non sia riconosciuto...”. C’è dunque un modo di riconoscere il valore delle cose, cioè di fissarlo; e siccome questo riconoscimento, codesta fissazione, si fa paragonando le cose tra loro, segue che c’è un carattere comune, un principio, grazie al quale si dichiara che una cosa vale tanto quanto un’altra, o più, o meno.

Say aveva detto prima: “La misura del valore è il valore di un altro prodotto”. Poi essendosi accorto che questa frase era una tautologia, la modificò in questa maniera: “La misura del valore è la quantità di un altro prodotto”, espressione anche essa poco intelligibile. Altrove questo scrittore, ordinariamente così chiaro e sodo, si perde in vane distinzioni: “Si può fare stima del valore delle cose, ma non lo si può misurare, cioè paragonarlo con un titolo invariabile e riconosciuto, perché di codesti titoli non ce n’è. Tutto ciò che si può fare si riduce a valutare le cose paragonandole fra loro”. In altre circostanze distingue i valori reali dai valori relativi. “I primi sono quelli in cui il valore delle cose muta secondo le variazioni delle spese di produzione; i secondi sono quelli in cui il valore delle cose cangia in rapporto al valore delle merci”.

Singolare preoccupazione di un uomo di genio, che non s’accorge come paragonare, valutare, fare stima è lo stesso che misurare; che ogni misura, essendo sempre una comparazione, indica per ciò solo un rapporto vero, se il paragone è fatto bene; che per conseguenza, valore o misura reale e valore o misura di relazione sono cose perfettamente identiche; e che la difficoltà si riduce, non già a trovare un tipo di misura, perché tutte le quantità possono reciprocamente adempiere questo ufficio, bensì a determinare il punto di confronto. In geometria il punto di confronto è l’estensione, e l’unità di misura è ora la divisione del circolo in 360 parti, ora la circonferenza del globo terrestre, ora la dimensione media del braccio della mano, del piede o del pollice dell’uomo. Nella scienza economica, l’abbiamo detto sull’autorità di A. Smith, il punto di vista, sotto il quale tutti i valori si paragonano, è il lavoro; in quanto all’unità di misura, quella adottata in Francia è il franco. Pare impossibile come tanti uomini sensati si arrabattano da quarant’anni per una idea così semplice. Ma no: La comparazione dei valori s’effettua senza che tra essi vi sia alcun punto di confronto e senza unità di misura; – ecco ciò che, pur di non accettare la teoria rivoluzionaria dell’uguaglianza, gli economisti del secolo decimonono hanno deciso di sostenere nei confronti di tutti e contro tutti. Che ne diranno i posteri?

Io ora cercherò di mostrare, con esempi palmari, che l’idea di misura o proporzione dei valori, necessaria in teoria, si è realizzata e si realizza sempre in pratica.

3. – Applicazione della legge di proporzionalità dei valori

Ogni prodotto è un segno rappresentativo del lavoro.

Ogni prodotto può per conseguenza essere cambiato con un altro e la pratica universale lo attesta.

Ma sopprimete il lavoro, non vi rimangono altro che delle utilità più o meno grandi, le quali non essendo dotate di alcun carattere economico, di alcun segno umano, sono reciprocamente incommensurabili, cioè logicamente non permutabili.

Il denaro, come qualsiasi altra merce, è segno rappresentativo del lavoro: a questo titolo ha potuto servire come mezzo comune di valutazione e intermediario nelle transazioni. Però la funzione speciale, attribuita dall’uso ai metalli preziosi, di servire come agenti nel commercio è puramente convenzionale, e qualunque altra merce potrebbe, forse meno comodamente, ma in modo del pari autentica, adempiere questo ufficio: gli economisti lo ammettono e si reca in proposito più di un esempio. Quale è dunque il motivo della preferenza generalmente accordata ai metalli per servire di moneta e come si spiega codesta specialità di funzione del denaro, che non ha riscontro nell’economia politica? Dacché ogni cosa unica e senza pari nella sua specie è per ciò solo di più difficile intelligenza, spesso anche non la s’intende affatto. Ora è possibile ristabilire la serie da dove sembra distaccata la moneta, e per conseguenza ricondurre questa al suo vero principio?

Nel trattare tale questione gli economisti, secondo la loro abitudine, sono usciti fuori del dominio della loro scienza: si sono occupati di fisica, di meccanica, di storia, ecc.; hanno parlato di tutto e non hanno risposto. I metalli preziosi, hanno detto, a cagione della loro rarità, densità, incorruttibilità offrivano per servire come moneta vantaggi che si era ben lungi dal rinvenire, al medesimo grado, nelle altre merci. Insomma, gli economisti, invece di rispondere alla questione economica che ad essi era presentata, si sono messi a trattare la questione tecnica. Hanno fatto valere benissimo la convenienza meccanica dell’oro e dell’argento a fungere da moneta, ma ciò che nessuno ha visto né compreso è la ragione economica che ha determinato in favore dei metalli preziosi il privilegio di cui godono.

Ora, quel che nessuno ha notato è che di tutte le merci l’oro e l’argento sono le prime il cui valore sia stato costituito. Nel periodo patriarcale l’oro e l’argento si mercanteggiano ancora e si permutano in verghe, ma già con una tendenza visibile a predominare e con marcata preferenza. A poco a poco i sovrani se ne impadroniscono e vi appongono il loro suggello e da questa consacrazione sovrana nasce la moneta, cioè la merce per eccellenza, quella che nonostante tutte le scosse del commercio conserva un valore proporzionale determinato e si fa accettare in qualsiasi pagamento.

Ciò che infatti distingue la moneta non è la durezza del metallo, la quale è minore di quella dell’acciaio; né la sua utilità che è di molto inferiore a quella del grano, del ferro, del carbone fossile e di una quantità di altre sostanze reputate vili rispetto all’oro; non sono né la rarità, né la densità, potendo l’una e l’altra essere sostituite sia con la lavorazione di altre materie, sia come avviene oggi, con banconote che rappresenta mucchi enormi di ferro o di rame. Il carattere distintivo dell’oro e dell’argento viene, lo ripeto, da ciò che, grazie alle loro proprietà metalliche, alle difficoltà della loro produzione e soprattutto all’intervento dell’autorità pubblica, essi hanno prontamente acquistato, come merci: la fissità e l’autenticità.

Dico dunque che il valore dell’oro e dell’argento e segnatamente della parte che entra nella fabbricazione delle monete, benché non sia forse calcolato ancora in modo rigoroso, non ha però più nulla di arbitrario. E aggiungo che non è più suscettibile di deprezzamento, come accade per gli altri valori; sebbene possa variare continuamente. Tutto lo spreco di ragionamenti e d’erudizione che s’è fatto per provare, adducendo l’esempio del denaro, che il valore è cosa essenzialmente indeterminabile, è riuscito soltanto a creare una massa di paralogismi provenienti da una falsa idea della questione, ab ignorantia elenchi.

Filippo I re di Francia mischiò alla lira tornese di Carlomagno un terzo di lega, immaginandosi che, avendo egli solo il monopolio della fabbricazione delle monete, gli fosse lecito fare quel che fa ogni commerciante che abbia il monopolio di un prodotto. Cos’era infatti l’alterazione delle monete tanto rimproverata a Filippo e ai suoi successori? se non un ragionamento giustissimo dal punto di vista della consuetudine commerciale, ma falsissimo nella scienza economica, ed è che essendo l’offerta e la domanda regola dei valori, si possa, o determinando una scarsezza fittizia, o accaparrando la fabbricazione, far salire il pregio e quindi il valore delle cose e che ciò sia vero così dell’oro e dell’argento com’è del grano, del vino, dell’olio, del tabacco. Pure, non appena fu sospettata la frode di Filippo, la sua moneta fu ridotta al giusto valore ed egli stesso perdette quanto aveva creduto di guadagnare sui propri sudditi. Lo stesso accadde in tutti i tentativi analoghi. Da dove veniva l’errore?

Dicono gli economisti, che mediante la falsificazione delle monete la quantità dell’oro e dell’argento non è in realtà né scemata né accresciuta e però la proporzione di questi modelli con le altre merci non si è mutata, onde non è in facoltà del sovrano di fare che valga quattro ciò che nello Stato valeva due. Si consideri altresì che se invece di alterare le monete, il re avesse potuto raddoppiarne la massa, il valore permutabile dell’oro e dell’argento sarebbe ribassato di metà, sempre per questa ragione di proporzionalità e d’equilibrio. L’alterazione delle monete era dunque da parte del re un prestito forzato, o meglio una bancarotta, una truffa.

Benissimo: gli economisti spiegano egregiamente, quando vogliono, la teoria della misura dei valori; basta per ciò condurli a discorrere della moneta. Come dunque non vedono che la moneta è la legge scritta del commercio, il tipo dello scambio, il primo termine della lunga catena di creazioni che tutte, sotto nome di merci, devono ricevere la sanzione sociale e diventare, se non di fatto, almeno di diritto accettabili, come la moneta, su qualunque mercato?

“La moneta, dice assai bene [Marie] Augier, non può funzionare come scala per constatare le contrattazioni stipulate, né come buono strumento dello scambio se non in quanto sempre più il suo valore s’approssima all’ideale della permanenza; giacché essa non altro scambia o compra se non il valore suo proprio”. [Du Crédit public et de son histoire, Paris 1842]. Traduciamo in una formula generale questa osservazione giudiziosissima.

Il lavoro diviene garanzia di benessere e d’uguaglianza quando il prodotto di ciascun individuo è in proporzione con la massa, non potendo esso scambiare o comprare altro valore che non sia uguale al suo proprio valore.

Non è strano che si prenda così la difesa del commercio aggiotatore e infedele e che nello stesso tempo si gridi contro il tentativo di un monarca falso monetario, il quale infine applica al denaro il principio fondamentale dell’economia politica, quello della instabilità arbitraria dei valori? Metta in vendita la manifattura 750 grammi di tabacco per un chilogrammo, e gli economisti grideranno al furto; – ma se essa, usando del suo privilegio aumenta di due franchi il prezzo del chilogrammo diranno che il tabacco è caro, ma non troveranno nulla che contraddica ai princìpi. Che imbroglio è l’economia politica!

Vi è dunque nella monetazione dell’oro e dell’argento qualcosa di più di quanto hanno detto gli economisti: c’è la consacrazione della legge di proporzionalità, il primo atto di costituzione dei valori. L’umanità opera in tutto per infinite gradazioni; dopo avere compreso che tutti i prodotti del lavoro devono essere sottoposti a una misura proporzionale che li rende tutti ugualmente permutabili, essa comincia col dare questo carattere di permutabilità assoluta a un prodotto speciale che diverrà tipo e patrono di tutti gli altri. Così per elevare i suoi membri alla libertà e all’uguaglianza, l’umanità comincia col creare i re. Il popolo ha il sentimento confuso di questo cammino provvidenziale, quando nei sogni di fortuna e nelle leggende parla sempre d’oro e di regno e i filosofi hanno reso omaggio alla ragione universale quando nelle loro omelie cosiddette morali e nelle loro utopie d’ordinamento sociale tuonano con pari fracasso contro l’oro e la tirannia. Auri sacra fames! [Virgilio]. Oro maledetto! esclama buffonescamente un comunista. Tanto varrebbe dire: maledetto frumento, maledetta vigna, maledetti montoni, poiché, al pari dell’oro e dell’argento, ogni valore commerciale deve conseguire una esatta e rigorosa determinazione. L’impresa è cominciata da lungo tempo: oggi avanza a vista d’occhio.

Passiamo ad altre considerazioni.

Un assioma generalmente ammesso dagli economisti è che ogni lavoro deve lasciare un’eccedenza.

Questa proposizione è per me di una verità assoluta e universale; è il corollario della legge di proporzionalità, che può considerarsi come il riepilogo di tutta la scienza economica. Ma, mi scusino gli economisti, il principio che ogni lavoro deve lasciare un’eccedenza non ha senso nella loro teoria e non è suscettibile di dimostrazione. Come mai se l’offerta e la domanda sono l’unica regola dei valori si può riconoscere ciò che eccede e ciò che basta? Se né il prezzo di costo né il prezzo di vendita né il salario possono essere matematicamente determinati, com’è possibile concepire un sovrappiù, un profitto? La consuetudine commerciale ci ha dato, insieme al nome, l’idea del profitto; e siccome noi siamo politicamente uguali, si conclude che ogni cittadino ha un eguale diritto a realizzare guadagni nella sua industria personale. Ma le operazioni del commercio sono essenzialmente irregolari e s’è provato perentoriamente che l’attività commerciale è un prelevamento arbitrario e forzato del produttore sul consumatore, in una parola, uno spostamento per non dire altro. Ciò si vedrebbe ben presto se fosse possibile paragonare la cifra totale dei disavanzi di ogni anno con l’ammontare dei ricavi. Nel senso dell’economia politica il principio che ogni lavoro deve lasciare un’eccedenza, non è altro se non la consacrazione del diritto costituzionale che tutti abbiamo acquistato con la rivoluzione, di rubare al prossimo.

La legge di proporzionalità dei valori può sola rendere ragione di questo problema. Io prenderò la questione più dall’alto; è abbastanza grave perché la si tratti con l’ampiezza che merita.

La maggior parte dei filosofi, così come dei filologi, vedono nella società nulla più che un essere razionale, e per dire meglio un nome astratto che serve a designare una collettività d’uomini. È un pregiudizio che abbiamo acquistato sin dall’infanzia con le prime lezioni di grammatica quello di credere che i nomi collettivi, i nomi di genere e di specie non esprimono realtà di sorta. Ci sarebbe molto da dire in proposito, ma non voglio uscire dal mio soggetto. Per il vero economista la società è un essere vivente dotato di una propria attività e intelligenza, retto da leggi speciali che l’osservazione sola scopre e la cui esistenza si manifesta non sotto una forma fisica ma col concerto e l’intima solidarietà di tutti i suoi membri. Così, quando prima, sotto l’emblema di un Dio della favola facevamo l’allegoria della società, il nostro linguaggio in fondo non aveva nulla di metafisico, noi davamo un nome all’essere sociale, unità organica e sintetica. Agli occhi di chiunque ha riflettuto sulle leggi del lavoro e dello scambio (lascio in disparte ogni altra considerazione) la realtà, la personalità dell’uomo collettivo, è tanto certa quanto lo è la realtà e la personalità dell’uomo individuo. Tutta la differenza consiste nel fatto che questo si presenta ai sensi sotto l’aspetto di un organismo le cui parti sono materialmente coerenti, circostanza che nella società non esiste. Ma l’intelligenza, la spontaneità, lo sviluppo, la vita, tutto quanto costituisce al più alto grado la realtà dell’essere è così essenziale alla società come all’uomo; e di là deriva che il governo della società è scienza, cioè studio di rapporti naturali e non arte cioè talento e arbitrio. E di là viene che ogni società declina quando passa nelle mani degli ideologi.

Il principio: ogni lavoro deve lasciare un’eccedenza, indimostrabile nell’economia politica, cioè nella tradizione sistematica della proprietà, è uno di quelli che meglio attestano la realtà della persona collettiva; come vedremo, questo principio è vero per gli individui appunto perché emana dalla società che conferisce loro il beneficio delle sue leggi.

Veniamo ai fatti. Si è osservato che le imprese ferroviarie sono fonti di ricchezza più per lo Stato che per gl’imprenditori. L’osservazione è giusta; e si sarebbe dovuto aggiungere che s’applica non solo alle ferrovie, ma a tutta l’industria. Però questo fenomeno che deriva essenzialmente dalla legge della proporzionalità dei valori e dell’identità assoluta della produzione e del consumo, è inesplicabile con la nozione comune del valore utile e del valore di scambio.

Il prezzo medio del trasporto delle merci sui carri è di 18 centesimi per tonnellata e chilometro, presa e collocata in magazzino la merce. Si è calcolato che a tal prezzo, una impresa ordinaria di ferrovia non piglierebbe il 10% di lucro netto, risultato presso a poco uguale a quello di una impresa di trasporti stradali. Ma ammettiamo che la celerità del trasporto ferroviario stia a quello sui carri come 4 sta ad 1; siccome nella società il tempo è valore, così, a parità di prezzo, la ferrovia avrà sul trasporto con carri un vantaggio del 400%. Pure questo enorme vantaggio, realissimo per la società, non lo è nel modo stesso per l’impresa ferroviaria, la quale, mentre dà al pubblico un vantaggio di 400%, non prende per sé che il 10%. Supponiamo difatti, per rendere la cosa ancora più evidente, che la ferrovia porti la propria tariffa a 25 centesimi rimanendo a 18 quella dei vetturali; essa perderà, immantinente, tutte le consegne; spedizionieri, destinatari, ognuno tornerà al procaccia, al carretto magari. La locomotiva sarebbe lasciata in abbandono e il vantaggio sociale del 400% sacrificato alla perdita del 33%.

La ragione di ciò è facile da cogliere: il vantaggio che risulta dalla celerità della ferrovia è sociale e ogni individuo non vi partecipa se non in proporzione minima (badiamo che qui si parla del trasporto di merci), mentre la perdita colpisce direttamente e personalmente il consumatore. Un beneficio sociale pari a 400 rappresenta, per l’individuo, quando la società fosse composta soltanto di un milione di uomini, quattro diecimillesimi: mentre una perdita del 33% per il consumatore, farebbe un deficit sociale di trentatre milioni. L’interesse privato e l’interesse collettivo, così divergenti a primo aspetto, sono dunque del tutto identici e adeguati; e questo esempio può ormai servire a far comprendere come nella scienza economica tutti gl’interessi si conciliano.

Dunque perché la società consegua il vantaggio supposto, bisogna necessariamente che la tariffa ferroviaria non oltrepassi il prezzo del trasporto con i carri o lo superi di pochissimo.

Ma perché codesta condizione s’adempia, o, in altri termini, perché la ferrovia sia commercialmente possibile, è indispensabile che la materia trasportabile sia abbastanza abbondante per coprire almeno l’interesse del capitale impegnato e le spese di manutenzione della linea. Sicché la prima condizione d’esistenza per una ferrovia è una circolazione considerevole, il che suppone una produzione più considerevole ancora, una grande massa di scambi. Ma produzione, circolazione, scambi, non sono cose che si improvvisano; poi le diverse forme del lavoro non si sviluppano isolatamente e l’una dall’altra indipendente; il loro progresso è, per necessità, connesso, solidale, proporzionato. L’antagonismo può esistere tra gl’industriali; l’azione sociale è, loro malgrado, una, convergente, armonica, personale insomma. Vi è quindi un giorno assegnato per la creazione dei grandi strumenti del lavoro ed è quello in cui il consumo generale può sostenerne l’impiego, cioè – giacché tutte queste proposizioni sono sostanzialmente identiche – quello in cui il lavoro circostante può alimentare le nuove macchine. Anticipare l’ora segnata dal progresso del lavoro, sarebbe imitare quel pazzo che per andare da Lione a Marsiglia fece allestire una nave per sé solo.

Chiariti questi punti, nulla c’è di più facile che spiegare come il lavoro debba lasciare un’eccedenza a ciascun produttore.

Dapprima mettiamoci dal punto di vista sociale; Prometeo, uscendo dal seno della natura, si desta alla vita in una inerzia piena d’incanto; che però diverrebbe ben presto miseria e tortura se non s’affrettasse a trarsene fuori col lavoro. In questo ozio primitivo, essendo nullo il prodotto di Prometeo, il suo benessere è identico a quello del bruto e si può rappresentare con zero.

Prometeo si pone all’opera e nella sua prima giornata, prima giornata della seconda creazione, il prodotto di Prometeo, cioè la sua ricchezza, il suo benessere è uguale a 10.

Nel secondo giorno Prometeo divide il suo lavoro e il suo prodotto diventa uguale a 100.

Nel terzo giorno e in ciascuno dei seguenti Prometeo inventa macchine, scopre utilità nei corpi, nuove forze nella natura; il campo della sua esistenza si estende dal dominio dei sensi alla sfera dei sentimenti morali e della intelligenza, e a ogni passo che fa la sua industria, la cifra della sua produzione s’ingrossa e gli esprime un accrescimento di felicità. E poiché per lui consumare significa produrre, è evidente che ogni giornata di consumo, esaurendo solo il prodotto del dì precedente, lascia un’eccedenza di prodotto per l’indomani.

Ma notiamo ancora e soprattutto questo fatto capitale che il benessere dell’uomo è in ragione diretta dell’intensità del lavoro o della molteplicità delle industrie, in modo che l’accrescimento della ricchezza e l’accrescimento della fatica sono correlativi e paralleli.

Dire ora che ogni individuo partecipa a queste condizioni generali dello sviluppo collettivo, sarebbe affermare una verità che, per essere evidentissima, potrebbe sembrare scipita. Consideriamo piuttosto le due forme del consumo nella società.

La società, al pari dell’individuo, ha dapprima gli oggetti di consumo personale, oggetti dei quali il tempo le fa sentire a poco a poco il bisogno e i suoi istinti misteriosi le impongono di creare. Si ebbe così nel Medioevo un momento decisivo in cui la costruzione dei palazzi comunali e delle cattedrali divenne una passione violenta che bisognò soddisfare a ogni costo; ne dipendeva l’esistenza del comune. Sicurezza e forza, ordine pubblico, accentramento, nazionalità, patria, indipendenza, ecco ciò che compone la vita della società, l’insieme delle sue facoltà mentali; ecco i sentimenti che dovevano trovare la loro espressione e i loro simboli. Tale era stata in altri tempi la destinazione del Tempio di Gerusalemme, vero palladio della nazione giudaica, come il Tempio di Giove Capitolino a Roma. Più tardi, dopo il palazzo municipale e il duomo, organi per dir così, dell’accentramento e del progresso, vennero gli altri lavori di utilità pubblica, ponti, teatri, scuole, ospedali, strade, ecc.

Essendo i monumenti di pubblica utilità d’uso essenzialmente comune e per conseguenza gratuiti, la società recupera le sue anticipazioni con i vantaggi politici e morali che risultano da queste grandi opere e, dando un pegno di sicurezza al lavoro e un ideale agli animi, imprimono un nuovo impulso all’industria e alle arti.

Ma avviene altrimenti con gli oggetti di consumo domestico che soli entrano nella categoria dello scambio: i quali non sono producibili se non secondo le condizioni di mutualità che ne permettono il consumo, cioè rimborso immediato e con lucro ai produttori. Abbiamo illustrato sufficientemente queste condizioni nella teoria della proporzionalità dei valori che potrebbe chiamarsi egualmente teoria della progressiva riduzione dei prezzi di costo.

Ho dimostrato con la teoria e con i fatti il principio che ogni lavoro deve lasciare un’eccedenza; ma questo principio, la cui certezza è pari a quella di una proposizione di aritmetica, è ancor lungi dall’adempiersi per tutti. Mentre col progresso dell’industria collettiva ogni giornata di lavoro individuale ottiene un prodotto sempre maggiore, onde, per necessaria conseguenza, il lavoratore, col medesimo salario, dovrebbe divenire ogni dì più ricco, pure esistono nella società classi che guadagnano e altre che deperiscono; lavoratori con doppio, triplo e centuplo salario e altri in deficit; ovunque insomma gente che gode e gente che soffre e per una mostruosa divisione delle facoltà industriali, individui che consumano e non producono. Il riparto del benessere segue tutti i movimenti del valore e li riproduce in miseria e lusso, con dispersioni di energia spaventose. Ma dappertutto altresì il progresso della ricchezza, cioè la proporzionalità dei valori è la legge dominante e quando gli economisti oppongono ai lamenti del partito sociale l’accrescimento progressivo della fortuna pubblica e i sollievi recati anche alla condizione delle classi più sfortunate, proclamano, senza accorgersene, una verità che è la condanna delle loro teorie.

Scongiuro gli economisti di farsi una domanda nel silenzio del loro cuore, lungi dai pregiudizi che li turbano e senza riguardo agli impieghi che occupano o aspettano, agli interessi che servono, ai suffragi che ambiscono, alle distinzioni nelle quali la loro vanità si culla; dicano se fino a oggi il principio, che ogni lavoro deve lasciare un’eccedenza, era loro comparso dinanzi con questa catena di preliminari e di conseguenze da noi sollevate e se con queste parole abbiamo inteso esprimere qualcosa d’altro che il diritto di fare l’aggiotaggio su valori, manipolando l’offerta e la domanda; se non sia vero che affermano nello stesso tempo, da una parte il progresso della ricchezza e del benessere e per conseguenza la misura dei valori, e dall’altra l’arbitrio delle transazioni commerciali e l’incommensurabilità dei valori, cioè quanto vi è di più contraddittorio. Non è forse in virtù di questa contraddizione che si ode ripetere continuamente nei corsi e si legge nei libri di economia politica, quest’assurda ipotesi: se il prezzo di tutte le cose fosse raddoppiato...? Come se il prezzo di tutte le cose non fosse la proporzione delle cose, e si potesse raddoppiare una proporzione, un rapporto, una legge! Non è insomma in virtù dell’abitudine sistematica e anormale del regime di proprietà, difesa dell’economia politica, che ciascuno nel commercio, nell’industria, nelle arti e nello Stato, sotto pretesto di servizi resi alla società, tende senza posa ad esagerare la propria importanza, sollecita ricompense, sovvenzioni, grasse pensioni e lauti emolumenti, come se la retribuzione d’ogni servizio non fosse necessariamente segnata dall’ammontare del suo conto? Perché gli economisti non diffondono con tutte le loro forze questa verità così semplice e luminosa: “il lavoro di ciascun uomo non può comprare altro fuori del valore che esso racchiude e questo valore si proporziona ai servizi di tutti gli altri lavoratori”, se, com’essi mostrano di credere, il lavoro d’ognuno deve lasciare un’eccedenza?...

Ma qui si presenta un’ultima considerazione che esporrò brevemente.

J.-B. Say, che fra tutti gli economisti ha insistito di più sulla indeterminabilità assoluta del valore, si è anche affannato per rovesciare questa proporzione. Egli è, se non m’inganno, l’autore della formula: Ogni prodotto vale ciò che costa; o, ciò che è lo stesso, i prodotti si comprano con prodotti. Questo aforisma, pieno di conseguenze favorevoli al principio d’uguaglianza, è stato contraddetto poi da altri economisti; esamineremo l’una dopo l’altra, l’affermazione e la negazione.

Quando io dico: ogni prodotto vale i prodotti che è costato, ciò significa che ogni prodotto è un’unità collettiva che sotto una forma novella aggruppa un certo numero di altri prodotti consumati in dosi diverse. Da dove segue che i prodotti dell’industria umana gli uni relativamente agli altri generi e specie formano una serie dal semplice al composto, secondo il numero e la proporzione degli elementi, tutti tra loro equivalenti, che costituiscono ciascun prodotto. Poco importa ora che questa serie, del pari che l’equivalenza dei suoi elementi, siano più o meno esattamente espresse nella pratica dell’equilibrio dei salari o delle fortune; si tratta innanzi tutto del rapporto nelle cose, della legge economica. Perché qui, come sempre, l’idea genera dapprima e spontaneamente il fatto, il quale riconosciuto poi dal pensiero che gli ha dato esistenza, si rettifica a poco a poco e si definisce conformemente al suo principio. Il commercio libero e di concorrenza è una lunga operazione di raddrizzamento che tende a fare risaltare la proporzionalità dei valori, aspettando che il diritto civile la consacri e la prenda per norma dello stato delle persone. Dico dunque che il principio di Say: Ogni prodotto vale ciò che costa, indica una serie di produzione umana analoga alla serie animale e alla vegetale e in cui le unità elementari (giornate di lavoro) sono reputate uguali. In questo modo, l’economia politica afferma, mediante una contraddizione, ciò che né Platone né Rousseau né alcun pubblicista antico e moderno hanno creduto possibile, l’uguaglianza delle condizioni e delle fortune.

Prometeo è sempre via via agricoltore, vignaiolo, panettiere, tessitore. Qualunque mestiere faccia, non lavorando che per se stesso, compra quel che consuma (i suoi prodotti) con una sola e medesima moneta (i suoi prodotti) la cui unità metrica è necessariamente la sua giornata di lavoro. Vero è che il lavoro stesso è suscettibile di variazione: Prometeo non è sempre ugualmente disposto, e da un momento all’altro il suo ardore, la sua fecondità crescono e scemano. Ma, come ogni cosa soggetta a variazioni, il lavoro ha la sua media e questo ci autorizza a dire che in fin dei conti la giornata di lavoro paga la giornata di lavoro, né più né meno.

È vero che, se si confrontano i prodotti di una certa epoca della vita sociale a quelli di un’altra, la centomilionesima giornata del genere umano darà un risultato di gran lunga superiore a quello della prima; ma è anche il caso di dire che la vita dell’essere collettivo – a somiglianza dell’individuale – non può essere scissa; che se i giorni non si somigliano, sono però indissolubilmente uniti e che nella totalità dell’esistenza, la pena e il piacere sono ad essi comuni. Se dunque il sarto, per fare il valore di una giornata, consuma dieci volte la giornata del tessitore, è come se il tessitore desse dieci giorni della propria vita per un giorno della vita del sarto. È precisamente ciò che accade quando un contadino paga 12 franchi al notaio per uno scritto la cui redazione costa un’ora, e questa ineguaglianza, questa iniquità negli scambi è la più potente causa di miseria che i socialisti abbiano svelato e che gli economisti confessano sottovoce, aspettando che un segno del padrone li autorizzi a riconoscerla a voce alta.

Qualsiasi errore nella giustizia commutativa, è l’immolazione del lavoratore, la trasfusione del sangue di un uomo nel corpo di un altro uomo... Non c’è da sgomentarsi; non ho nessuna intenzione di fulminare con una irritante filippica la proprietà; ci penso tanto meno che, secondo i miei princìpi, l’umanità non s’inganna mai; che costituendosi dapprima sul diritto di proprietà, essa non ha fatto altro se non porre uno dei princìpi della sua futura organizzazione e che una volta abbattuta la preponderanza della proprietà, ciò che rimane da fare è ricondurre all’unità codesta famosa antitesi. Tutto quanto mi si potrebbe obiettare in favore della proprietà lo so al pari di qualunque dei miei censori, ai quali chiedo la grazia di mostrare un po’ di cuore quando sono a zero di dialettica. Come sarebbero valutabili ricchezze di cui non fosse modulo il lavoro? E se è il lavoro che crea la ricchezza e legittima la proprietà, come spiegare il consumo dell’ozioso? Come mai si può ammettere la lealtà di un sistema di riparto nel quale il prodotto vale, secondo le persone, ora più ora meno di quel che costa?

Le idee di Say conducevano a una legge agraria, per cui il partito conservatore s’è affrettato a protestare contro di essa. “La prima fonte della ricchezza è il lavoro”, aveva detto Pellegrino Rossi. “Proclamando questo grande principio, la scuola industriale ha messo in evidenza non solo un principio economico, ma quello tra i fatti sociali che in mano a un abile storico diventa la più sicura guida per accompagnare la specie umana nel suo cammino e nelle sue dimore sulla faccia della terra”.

Perché, dopo aver posto nel suo corso queste parole così profonde, Rossi ha creduto di doverle ritrattare più tardi in una rivista, compromettendo gratuitamente la sua dignità di filosofo e d’economista?

“Dite che la ricchezza non è se non il risultato del lavoro; affermate che in ogni caso il lavoro è la misura del lavoro, il regolatore dei prezzi, e per sfuggire in un modo o nell’altro alle obiezioni che d’ogni parte suscitano codeste dottrine, quali incomplete, quali assolute, voi sarete condotti di buono o mal grado a generalizzare la nozione del lavoro e a sostituire all’analisi una sintesi perfettamente erronea”.

Mi duole che un uomo come Rossi mi suggerisca un pensiero così triste, ma il fatto è che, leggendo il brano riferito devo dire: la scienza e la verità non sono più nulla; ciò che si adora adesso è la bottega e, dopo la bottega, il costituzionalismo disperato che la rappresenta. A chi dunque pensa d’indirizzarsi Rossi? Vuole il lavoro o qualcosa d’altro? Vuole analisi o sintesi? Vuole tutte codeste cose insieme? Scelga; la conclusione gli sarà inevitabilmente contraria.

Se il lavoro è la fonte d’ogni ricchezza, se è la più sicura guida per intendere lo svolgimento storico delle istituzioni umane sulla faccia del globo, come mai l’uguaglianza di riparto, l’uguaglianza secondo la misura del lavoro non è una legge?

Se, al contrario, vi sono ricchezze che non derivano dal lavoro, in che modo il possesso di tali ricchezze è un privilegio? Qual è la legittimità del monopolio? Venga fuori una buona volta questa teoria del diritto di consumo improduttivo, questa giurisprudenza del buon piacere, questa religione dell’ozio, sacra prerogativa di una casta di eletti!

Che significa ora l’appello all’analisi dai falsi giudizi della sintesi? Questi vocaboli di metafisica non sono buoni che a darla ad intendere ai gonzi, i quali non pensano che la medesima proposizione può essere resa indifferentemente e a volontà sintetica o analitica. Il lavoro è principio del valore e fonte della ricchezza. Proposizione analitica, come la vuole Rossi, poiché questa proposizione è il riassunto di una analisi nella quale si dimostra esservi identità tra la nozione primitiva di lavoro e le nozioni susseguenti di prodotto, valore, capitale, ricchezza, ecc. Pure vediamo che Rossi rigetta la dottrina che risulta da codesta analisi. – Il lavoro, il capitale, la terra sono le fonti della ricchezza. Proposizione sintetica, come cioè a Rossi non garbano: difatti, la ricchezza è qui considerata come nozione generale, che si produce sotto tre specie distinte, ma non identiche. E nondimeno la dottrina così formulata è quella che Rossi preferisce. Piace ora a Rossi che noi rendiamo analitica la sua teoria del monopolio e sintetica la nostra del lavoro? Posso dargli questa soddisfazione... Ma mi vergognerei di prolungare tanto un simile scherzo con un uomo così grave. Rossi conosce meglio d’ogni altra persona che l’analisi e la sintesi nulla provano di per sé sole e che ciò che soprattutto importa, come diceva Bacone, è di fare confronti esatti ed enumerazioni complete.

Giacché Rossi era in vena di astrazioni, poteva dire alla falange di economisti che raccoglie con tanto rispetto le più piccole parole cadute dalla sua bocca:

“Il capitale è la materia della ricchezza, come l’argento è la materia della moneta, come il grano è la materia del pane e, risalendo la serie fino al principio, come la terra, l’acqua, il fuoco, l’atmosfera, sono la materia di tutti i nostri prodotti. Ma è il lavoro, il solo lavoro che crea successivamente qualsiasi utilità data a queste materie e le trasforma per conseguenza in capitali e in ricchezze. Il capitale è lavoro, cioè intelligenza e vita realizzate, come gli animali e le piante sono realizzazioni dell’anima universale, come i capolavori di Omero, di Raffaello e di Rossini sono l’espressione delle loro idee e dei loro sentimenti. Il valore è la proporzione secondo cui tutte le realizzazioni dell’anima umana devono bilanciarsi per produrre un complesso armonico, che, essendo ricchezza, genera per noi il benessere, o piuttosto è il segno, non l’oggetto della nostra felicità. La proposizione non c’è misura del valore è illogica e contraddittoria; ciò risulta dai motivi stessi sui quali si è preteso di stabilirla. La proposizione: il lavoro è il principio di proporzionalità dei valori, non soltanto è vera perché risulta da un’analisi irrefragabile, ma è la meta del progresso, la condizione e la forma del progresso sociale, il principio e la fine dell’economia politica. Da questa proposizione e dai suoi corollari: ogni prodotto vale ciò che costa e i prodotti si comperano con i prodotti; si deduce il dogma dell’eguaglianza delle condizioni. L’idea del valore socialmente costituito, ossia della proporzionalità dei prodotti, serve inoltre a spiegare: a) come una invenzione meccanica, malgrado il privilegio che crea temporaneamente e le perturbazioni che eccita, finisce sempre per produrre un miglioramento generale; – b) come la scoperta di un procedimento economico non possa mai dare all’inventore un profitto uguale a quello che procura alla società; – c) come, mediante una serie d’oscillazioni tra l’offerta e la domanda, il valore di qualsiasi prodotto tenta costantemente a livellarsi col prezzo di costo e con i bisogni del consumo e quindi a stabilirsi in maniera fissa e positiva; – d) come aumentandosi di continuo la massa delle cose consumabili con la produzione collettiva e per conseguenza, essendo la giornata di lavoro sempre meglio ricompensata, il lavoro debba lasciare un’eccedenza a ciascun produttore; – e) come il da fare, lungi dal diminuire, per il progresso industriale, cresca sempre in qualità e quantità, cioè in intensità e difficoltà per tutte le industrie; – f) come il valore sociale elimini continuamente i valori fittizi o, in altre parole, come l’industria operi la socializzazione del capitale e della proprietà; – g) finalmente come il riparto dei prodotti, facendosi regolare in proporzione e misura della mutua garanzia prodotta dalla costituzione dei valori, spinge la società all’uguaglianza delle condizioni e delle fortune. Finalmente, implicando la teoria della costituzione successiva di tutti i valori commerciali un progresso infinito del lavoro, della ricchezza e del benessere, il destino economico della società ci è rivelato: Produrre senza tregua, con la minima quantità di lavoro per ogni prodotto, la massima quantità e varietà possibile di valori in modo da conseguire per ogni individuo la maggior somma di benessere fisico, morale e intellettuale e per la specie la più alta perfezione e una infinita gloria”.

Ora che abbiamo determinato, non senza fatica, il senso della questione proposta dall’Accademia delle Scienze Morali riguardo alle oscillazioni del profitto e del salario, è tempo di affrontare la parte essenziale del nostro compito.

Ovunque il lavoro non è stato socializzato, cioè ovunque il valore non s’è determinato sinteticamente, vi è perturbazione e slealtà negli scambi, guerra di astuzie e di tranelli, impaccio alla produzione, alla circolazione, al consumo, fatica improduttiva, mancanza di garanzie e di solidarietà, indigenza e lusso, ma nel tempo stesso rapina, sforzo del genio sociale per conquistare la giustizia e tendenza costante verso l’associazione e l’ordine. L’economia politica non è altro se non la storia di questa grande lotta. Da una parte infatti l’economia politica, in quanto consacra e pretende eternare le anomalie del valore e le prerogative dell’egoismo, è in realtà la teoria della sventura e l’organizzazione della miseria; ma, in quanto espone i mezzi inventati dalla civiltà per vincere il pauperismo, sebbene questi mezzi siano tornati sempre a vantaggio esclusivo del monopolio, l’economia politica è il preambolo dell’organizzazione della ricchezza.

È importante dunque riprendere lo studio dei fatti e delle abitudini economiche, trarne lo spirito e formularne la filosofia. Senza di ciò nessuna intelligenza del cammino della società è possibile, e nessuna riforma si può tentare. L’errore del socialismo è stato sinora quello di perpetuare l’estasi religiosa, lanciandosi in un fantastico avvenire invece di cogliere la realtà che lo schiaccia; come il torto degli economisti sta nel vedere in ogni fatto compiuto un decreto di prescrizione contro ogni ipotesi di mutamento.

In quanto a me, non intendo così la scienza economica, la vera scienza sociale. Invece di rispondere con un ragionamento a priori ai gravissimi problemi dell’organizzazione del lavoro e del riparto delle ricchezze, interrogherò l’economia politica come depositaria dei segreti pensieri dell’umanità, farò parlare i fatti secondo l’ordine della loro generazione ed esporrò, senza metterci nulla di mio, le loro deposizioni. Sarà nello stesso tempo una storia di trionfi e di dolori, ove i personaggi saranno le idee, gli episodi, le teorie, e le date saranno le formule.

III. Evoluzioni economiche: epoca prima. La divisione del lavoro

L’idea fondamentale, la categoria dominante dell’economia politica è il valore.

Il valore giunge alla sua determinazione con un seguito di oscillazioni tra la domanda e l’offerta.

Per conseguenza il valore si presenta successivamente sotto tre aspetti: valore utile, valore di scambio e valore sintetico o valore sociale, che è il vero valore. Il primo termine genera contraddittoriamente il secondo e i due insieme, assorbendosi in una reciproca compenetrazione, producono il terzo, in modo che la contraddizione o l’antagonismo delle idee pare il punto di partenza di tutta la scienza economica e si può dire di essa, parodiando il motto di Tertulliano sul Vangelo, credo quia absurdum: nell’economia della società vi è verità latente quando c’è contraddizione apparente, credo quia contrarium.

Dal punto di vista dell’economia politica, il progresso della società consiste dunque nella pronta risoluzione del problema della costituzione dei valori, ossia della proporzionalità e solidarietà dei prodotti.

Ma, mentre nella natura la sintesi dei contrari è contemporanea alla loro opposizione, nella società gli elementi antitetici sembrano prodursi a lunghi intervalli e non risolversi se non dopo una lunga e tumultuosa agitazione. È così che ad esempio, non si può concepire neanche l’idea di valle senza collina, di una sinistra senza una destra, di un polo nord senza un polo sud, di un bastone con una sola estremità o che avesse i due capi e non la parte centrale, ecc. Il corpo umano con la sua dicotomia così perfettamente antitetica è formato integralmente nel primo istante del concepimento: ripugna l’idea di una formazione e di un adattamento pezzo per pezzo come il vestito che più tardi, imitandolo, lo coprirà. [Un sottile filologo, Paul Ackermann, ha mostrato con l’esempio del francese, che ogni parola di una lingua ha la sua contraria o, come dice l’autore, il suo antonimo, onde il dizionario può essere disposto per coppie e formare un ampio sistema dualista. Cfr. Dictionnaire des Antonymes, Paris 1842].

Nella società, così come nello spirito, s’è tanto lontani dal vedere l’idea arrivare d’un tratto alla sua pienezza, che una specie di abisso separa per così dire le due posizioni antinomiche e quando si giunge finalmente a riconoscere queste, non si scorge per ciò ancora quale sarà la sintesi. Bisogna che i concetti primitivi siano, per così dire, fecondati da controversie ardenti e da lotte appassionate; le battaglie sanguinose saranno i preliminari della pace. In questo momento l’Europa, stanca di guerre e di polemiche, aspetta un principio conciliatore, e il sentimento vago di questa situazione è quello che induce l’Accademia delle Scienze morali e politiche a chiedere quali sono i fatti generali che regolano i rapporti dei profitti con i salari e ne determinano le oscillazioni, o altrimenti, quali sono gli episodi più salienti e le fasi più rimarchevoli della guerra tra il lavoro e il capitale.

Se dunque dimostrerò che l’economia politica con tutte le sue ipotesi contraddittorie e le sue conclusioni equivoche, non è altro che l’organizzazione del privilegio e della miseria, avrò provato con ciò stesso che essa contiene implicitamente la promessa di una organizzazione del lavoro e dell’uguaglianza, poiché, come s’è detto, ogni contraddizione sistematica annunzia un accordo; di più, avrò posto le basi di questo accordo. Insomma, esporre il sistema delle contraddizioni economiche è gettare le fondamenta dell’associazione universale; dire come i prodotti dell’opera collettiva sono usciti dalla società è spiegare come sarà possibile farveli ritornare; mostrare la genesi dei problemi della produzione e della distribuzione significa prepararne la soluzione. Tutte queste proposizioni sono identiche e di una uguale evidenza.

1. – Effetti antagonisti del principio di divisione

Tutti gli uomini sono uguali nella comunità primitiva, eguali per la loro nudità e per la loro ignoranza, eguali per la potenza indefinita delle loro facoltà. Gli economisti abitualmente tengono conto solo del primo di codesti aspetti: trascurano o disconoscono completamente il secondo. Pure, secondo i più profondi filosofi dei tempi moderni, [François de] La Rochefoucauld, [Claude-Adrien] Helvétius, Kant, Fichte, Hegel, l’intelligenza differisce negli individui soltanto per la determinazione qualitativa, la quale costituisce la specialità o attitudine propria di ciascuno; mentre ciò che essa ha d’essenziale, cioè il giudizio, è in tutti quantitativamente uguale. Di là risulta che prima o poi, secondo che tali circostanze siano o no favorevoli, il progresso generale deve condurre tutti gli uomini da un’uguaglianza originaria e negativa all’equivalenza positiva dei talenti e delle cognizioni.

Insisto su questo dato prezioso della psicologia, la cui necessaria conseguenza è che la gerarchia delle attitudini non potrà d’ora innanzi essere ammessa come principio e legge d’organizzazione; la sola eguaglianza è la nostra regola, com’è anche il nostro ideale. Nello stesso modo che l’eguaglianza della miseria deve, come ho provato con la teoria del valore, mutarsi progressivamente in eguaglianza di benessere, così l’eguaglianza degli animi, negativa al principio, perché non esprime altro che il vuoto, deve riprodursi positivamente all’ultimo termine dell’educazione dell’umanità. Il movimento intellettuale si svolge parallelo all’economico: entrambi sono la traduzione, l’espressione l’uno dell’altro; la psicologia e l’economia sociale vanno d’accordo, o per dir meglio, sviluppano, ciascuna da un punto di vista diverso, la medesima storia. Ciò appare soprattutto nella grande legge di Smith, la divisione del lavoro.

Considerata nella sua essenza, la divisione del lavoro è il modo secondo il quale si realizza l’eguaglianza delle condizioni e delle intelligenze. Con la diversità delle funzioni, essa effettua la proporzionalità dei prodotti e l’equilibrio negli scambi e per conseguenza ci schiude la via alla ricchezza; come ancora, scoprendosi l’infinito ovunque nell’arte e nella natura, ci conduce a idealizzare tutte le nostre operazioni e fa lo spirito creatore, cioè la stessa divinità, mentem diviniorem, immanente e sensibile in tutti i lavoratori.

La divisione del lavoro è dunque la prima fase dell’evoluzione economica e del progresso intellettuale: il nostro punto di partenza è vero da parte dell’uomo e dal lato delle cose e il procedimento della nostra esposizione nulla ha di arbitrario.

Ma nell’ora solenne della divisione del lavoro il vento delle tempeste comincia a soffiare sull’umanità. Il progresso non si compie in maniera uguale e uniforme per tutti, quantunque a lungo andare esso debba investire e trasfigurare ogni creatura intelligente e laboriosa. Incomincia con l’impadronirsi di un piccolo numero di privilegiati, che formano in questo modo l’eletta delle nazioni, e intanto le masse persistono o si sprofondano più nella barbarie. Questa preferenza d’individui da parte del progresso ha per tanto tempo fatto credere alla naturale e provvidenziale disuguaglianza delle condizioni, ha generato le caste e costituisce gerarchicamente tutte le società. Non si capiva che ogni ineguaglianza, che non è altro che una negazione, portava in sé la nota della propria illegalità e l’annunzio della propria decadenza, e ancor meno si poteva pensare che questa medesima disuguaglianza procedesse accidentalmente da una causa la cui ulteriore influenza doveva riuscire a toglierla via del tutto.

Riproducendosi così l’antinomia del valore nella legge della divisione, si è trovato che il primo e più potente strumento di sapienza e di ricchezza che la Provvidenza aveva posto nelle nostre mani è divenuto per noi strumento di miseria e d’imbecillità. Ecco la fomula di questa nuova legge di antagonismo alla quale noi dobbiamo le due più antiche malattie della civiltà: l’aristocrazia e il proletariato: Il lavoro, dividendosi, secondo la legge che gli è propria e che è la condizione prima della sua fecondità, arriva alla negazione dei propri fini e si distrugge da sé. In altri termini: La divisione fuori della quale non c’è progresso, non ricchezza, non eguaglianza, fa subalterno l’operaio, rende inutile l’intelligenza, nociva la ricchezza, impossibile l’eguaglianza.

Tutti gli economisti, da Adam Smith in poi, hanno messo in luce i vantaggi e gl’inconvenienti della legge di divisione, ma insistendo molto più sui primi che sui secondi, perché ciò serviva meglio al loro ottimismo e senza che nessuno di loro si sia chiesto che cosa potessero essere gl’inconvenienti di una legge. J.-B. Say ha riassunto così la questione: “Un uomo, il quale per tutta la sua vita esegue la medesima operazione, giunge senza dubbio ad eseguirla, meglio e più prontamente di un’altra persona qualsiasi; ma nello stesso tempo diviene meno atto a qualunque altra occupazione sia fisica, sia morale; le altre sue facoltà si estinguono e ne risulta una degenerazione nell’uomo individualmente considerato. È una ben triste confessione quella di non aver fatto mai altro che la diciottesima parte di uno spillo, né si pensi che solo l’operaio, il quale per tutta la sua vita tratti una lima o un martello, degeneri così dalla dignità della propria natura; ciò accade anche a chi, per il suo stato, è indotto ad esercitare le più delicate facoltà dell’animo... Insomma, si può dire che la separazione dei lavori e un abile impiego delle forze dell’uomo, accrescono prodigiosamente i prodotti della società, ma tolgono qualche cosa all’attitudine di ciascun uomo preso individualmente”. (Trattato d’Economia politica, tr. it., Torino 1854). Dunque qual è, dopo il lavoro, la causa prima della moltiplicazione della ricchezza e dell’abilità dei lavoratori? La divisione.

Qual è la causa prima della decadenza della mente e, come dimostreremo ben presto, della miseria incivilita? La divisione.

Come mai lo stesso principio, seguito rigidamente nelle sue conseguenze, conduce a risultati diametralmente opposti? Non un economista, prima o dopo Smith, s’è accorto che vi fosse qui un problema da mettere in chiaro. Say arriva fino a riconoscere che nella divisione del lavoro la medesima causa che produce il bene genera il male; poi, dopo qualche parola di commiserazione sulle vittime della separazione delle industrie, contento di aver fatta un’esposizione imparziale e fedele, ci pianta lì. “Sappiate, pare che dica, che dividendo sempre più la mano d’opera, più s’aumenta la potenza produttiva del lavoro, ma nel tempo stesso, riducendosi progressivamente il lavoro a un meccanismo, l’intelligenza s’abbrutisce”.

Invano si leva la voce contro una teoria che creando col lavoro un’aristocrazia di attitudini, conduce fatalmente all’ineguaglianza politica; invano si protesta in nome della democrazia e del progresso che in avvenire non vi saranno più né nobiltà né borghesia né paria. L’economista risponde con l’impassibilità del destino. Voi siete condannati a produrre molto e a produrre a buon mercato; senza ciò la vostra industria sarà sempre meschina e voi vi attaccherete alla coda della civiltà invece di prenderne in mano le redini. – Come! tra noi, uomini generosi, vi deve essere gente predestinata all’abbrutimento e col perfezionarsi della nostra industria è fatale che s’accompagni l’aumento del numero dei nostri fratelli maledetti!... – Ahimè!... Ecco l’ultima parola dell’economista.

Non si può disconoscere che la divisione del lavoro, come fatto generale e come causa, ha tutti i caratteri di una legge; ma siccome codesta legge regola due ordini di fenomeni radicalmente inversi e che si distruggono tra loro, bisogna confessare che essa è di una specie sconosciuta nelle scienze esatte; che è, cosa strana, una legge contraddittoria, una contro-legge, un’antinomia. Aggiungiamo in modo pregiudiziale che questo sembra il carattere comune di tutta l’economia delle società e perciò della filosofia.

Ora, a meno che non si operi una ricomposizione del lavoro, la quale tolga gl’inconvenienti della divisione, conservandone gli effetti utili, la contraddizione inerente al principio è irrimediabile. Bisogna, secondo la parola dei sacerdoti giudei che tramavano la morte di Cristo, bisogna che il povero perisca per assicurare la fortuna del proprietario, expedit unum hominem mori pro populo [Giovanni]. Passo a dimostrare la necessità di questa sentenza, e dopo ciò il lavoratore parcellare, se gli rimane un barlume di intelligenza, si consolerà pensando ch’egli muore secondo le regole dell’economia politica.

Il lavoro che doveva dare l’impulso alla coscienza e renderla sempre più degna di felicità, recando, con la divisione parcellare, l’infiacchimento dello spirito, toglie all’uomo la parte più nobile di se stesso, minorat capitis, e lo rigetta nell’animalità. Da quell’istante l’uomo decaduto lavora da bestia e va trattato come una bestia. A codesta sentenza della natura e della necessità è data esecuzione dalla società.

Il primo effetto del lavoro parcellare, dopo quello della depravazione dell’anima, è il prolungamento delle giornate di lavoro che crescono in ragione inversa della somma d’intelligenza che vi si eroga. Pregiandosi il prodotto dal doppio punto di vista della quantità e della qualità, se, per una qualsiasi evoluzione industriale, il lavoro piega in un senso, vi deve essere compenso in un altro senso. Ma non potendo la durata della giornata di lavoro andare più in là di sedici a diciotto ore, dal momento che il compenso non si può prenderlo sul tempo, lo si dovrà prendere sul prezzo e la mercede si abbasserà. E il ribasso dipende non già, come si è goffamente creduto, perché il valore è essenzialmente arbitrario, ma perché è essenzialmente determinabile. Poco importa che la lotta dell’offerta e della domanda termini ora a vantaggio del padrone, ora a profitto del salariato; codeste oscillazioni possono variare di ampiezza, secondo notissime circostanze accessorie e che furono mille volte valutate. Quel che è certo, e a noi interessa di porre in rilievo, è che la coscienza universale non mette al medesimo livello di prezzo il lavoro di un sottocapo e quello di un manovale. Bisogna ridurre il prezzo della giornata, in modo che il lavoratore dopo aver subita la mortificazione dell’anima per essere costretto ad esercitare un mestiere degradante, deve sottostare anche a quella del corpo per la scarsezza della ricompensa. È l’applicazione letterale della parola evangelica: a chi ha poco toglierò anche il poco che ha.

Vi è negli accidenti economici una ragione spietata che ride della religione e dell’equità così come degli aforismi della politica e fa l’uomo felice o infelice, secondo obbedisca o si sottragga alle prescrizioni del destino. Certo siamo lungi da quella carità cristiana che ispira oggi tanti onorevoli scrittori e che penetrando il cuore della borghesia, si sforza di temperare con una moltitudine di fondazioni pie i rigori della legge. L’economia politica non conosce altro che la giustizia, una giustizia inflessibile e chiusa come la borsa dell’avaro; l’economia politica è l’effetto della spontaneità sociale e l’espressione della volontà divina, perciò affermo: Dio è contraddittore dell’uomo, la provvidenza è misantropa, Dio ci fa pagare a misura di sangue e di lagrime ogni lezione che ci dà e per colmo dei guai, nei rapporti con i nostri simili noi facciamo tutti come lui. Dov’è dunque l’amore del padre celeste per le sue creature? Dov’è la fratellanza umana?

Ma i deisti dicono: può essere altrimenti? Cade l’uomo, rimane l’animale; come il Creatore riconoscerà in questo la propria immagine? Non è naturale che allora lo tratti come una bestia da soma? Ma codesta prova non sarà perenne e presto o tardi il lavoro, dopo essersi specificato, finirà per sintetizzarsi.

Ecco l’argomento consueto di tutti coloro che s’affannano a giustificare la Provvidenza e che spessissimo non riescono ad altro che a fornire novelle armi all’ateismo. È come dire che Dio ci avrebbe nascosto durante seimila anni una idea che poteva risparmiare milioni di vittime, la distribuzione speciale nello stesso tempo e sintetica del lavoro! Invece ci avrebbe elargito, per mezzo dei suoi servitori Mosè, Buddha, Zarathustra, Maometto, ecc., rituali insipidi, obbrobri della ragione, i quali hanno fatto sgozzare più uomini che non contengano lettere! Inoltre, se stiamo alla rivelazione primitiva, l’economia sociale sarebbe la scienza maledetta, il frutto dell’albero riservato a Dio e che l’uomo non doveva toccare! Perché questa riprovazione religiosa del lavoro, se è vero, come va scoprendo la scienza economica, che il lavoro sia il padre dell’amore e lo strumento della felicità? Perché codesta invidia del progresso? Ma se il progresso dipende da noi soli, a che giova adorare questo fantasma di divinità, e che cerca da noi con questo codazzo d’ispirati che ci perseguitano con i loro sermoni? Voi tutti cristiani, protestanti, ortodossi, neorivelatori, ciarlatani e gonzi ascoltate il primo versetto dell’inno umanitario sulla misericordia di Dio: “A misura che il principio della divisione del lavoro riceve un’applicazione completa, l’operaio diventa più debole, più limitato, più dipendente! L’arte progredisce, l’artigiano indietreggia!”. ([Alexis de] Tocqueville, La Democrazia in America, tr. it., Torino 1968).

Guardiamoci dall’anticipare sulle nostre conclusioni e di pregiudicare l’ultima rivelazione dell’esperienza. Dio, per ora, ci appare meno favorevole che avverso; limitiamoci a constatare il fatto.

L’economia politica al suo punto di partenza ci ha fatto udire queste parole misteriose e cupe: Come cresce la produzione delle utilità, così scema la vendita, e similmente, giunta alla prima tappa, ci ammonisce con voce terribile: Come progredisce l’arte, così indietreggia l’artigiano.

Per fermare meglio le idee citiamo qualche esempio.

Quali sono, in tutta la metallurgia, i meno industriosi tra i salariati? Quelli precisamente che sono chiamati meccanici (mécaniciens). Da quando il complesso degli utensili si è così mirabilmente perfezionato, un “meccanico” non è altro che un individuo il quale sa dare un colpo di lima o porgere un pezzo d’opera alla pialla. In quanto alla meccanica è affare dell’ingegnere e del sottocapo. Un maniscalco di campagna riunisce talora in sé, per le sole esigenze del suo mestiere, le attitudini diverse del magnano, del fabbro, del meccanico, del carpentiere, del veterinario; c’è da fare sbalordire il mondo dei sapienti a discorrere della scienza che c’è sotto il mantello di quest’uomo, al quale il popolo, burlone sempre, ha posto il nomignolo di bruciaferro (brûle-fer). Un operaio del Creuzot, che per dieci anni ha visto tutto ciò che il suo mestiere offre di più grandioso e compiuto, appena fuori dal cantiere, non è che un essere inabile a rendere il menomo servigio e a guadagnarsi la vita. L’incapacità dell’artiere è in ragione diretta della perfezione dell’arte, e ciò è vero nella metallurgia come in tutti gli altri stati professionali.

Il salario degli operai meccanici s’è mantenuto sinora a un saggio elevato, ma è fatale che un giorno scenda, non potendo sostenerlo la mediocre qualità del lavoro.

Ho citato un’arte meccanica, ecco ora una industria liberale.

[Johann] Gutenberg e i suoi industriosi compagni [Johannes] Fust e [Peter] Schöffer avrebbero mai pensato che grazie alla divisione del lavoro, la loro sublime invenzione sarebbe caduta nel dominio dell’ignoranza, direi quasi dell’idiotismo? Vi sono pochi uomini così deboli d’intelligenza e di così scarsa cultura com’è la massa degli operai addetti alle diverse branche dell’industria tipografica, compositori, torcolieri, fonditori, legatori e cartolai. La tipografia, quale esisteva ancora al tempo degli Stefani [capostipite Henri Stefani], è divenuta quasi un’astrazione. L’impiego delle donne nella composizione ha colpito al cuore codesta nobile industria e ne ha compiuto l’avvilimento. Ho visto una compositrice, ed era delle migliori, che non sapeva leggere e conosceva le lettere unicamente per la forma. Tutta l’arte si è ritratta nella specialità dei proti e dei correttori, modesti dotti, che l’impertinenza degli autori e dei tipografi umilia sempre, e in alcuni operai veramente artisti. La stampa, in una parola, caduta nel meccanismo, non è più, nei riguardi delle persone addette, al livello della civiltà; ben presto non rimarranno che i monumenti.

Sento dire che gli operai tipografi di Parigi s’adoperano con l’associazione a rialzarsi dalla presente decadenza; possano i loro sforzi non consumarsi in un vano empirismo, né perdersi in sterili utopie!

Dopo l’industria privata, vediamo l’amministrazione.

Nei pubblici servizi, gli effetti del lavoro parcellare si producono del pari spaventosi e intensi; in ogni parte dell’amministrazione, a misura che l’arte si sviluppa, gl’impiegati inferiori vedono assottigliarsi lo stipendio. – Un fattorino postale riceve da 400 a 600 franchi di trattamento annuo e l’amministrazione ne ritiene il decimo per la pensione. Dopo trent’anni di servizio, la pensione, o piuttosto la restituzione, risulta di 300 franchi l’anno, che, ceduta dal titolare a un ospizio, gli danno diritto al letto, alla zuppa e alla lavatura della biancheria. Il cuore mi sanguina a dirlo, ma io trovo che l’amministrazione è ancora generosa; cosa volete che sia la mercede di un uomo il cui unico ufficio è quello di camminare? All’Ebreo Errante la leggenda accorda cinque soldi e non più; i fattorini della posta ne pigliano venti o trenta, vero è che i più hanno famiglia. Il ramo di servizio che richiede l’uso delle facoltà intellettuali è riservato ai direttori e ai commessi, e questi, che fanno un lavoro da uomini, sono meglio pagati.

Da per tutto, dunque, tanto nei servizi pubblici, quanto nell’industria libera le cose sono acconciate in modo che i nove decimi dei lavoratori servono come bestie da soma all’altro decimo; ecco l’effetto inevitabile del progresso industriale e la condizione indispensabile d’ogni ricchezza. E necessario rendersi ben conto di questa verità elementare prima di parlare d’uguaglianza, di libertà, di istituzioni democratiche e di altre utopie, la cui realizzazione suppone una precedente completa rivoluzione nei rapporti dei lavoratori.

L’effetto più rimarchevole della divisione del lavoro è la decadenza della letteratura.

Nel Medioevo e nell’antichità, il letterato, specie il dottore enciclopedico, successore del trovatore e del poeta, sapendo tutto, poteva tutto. La letteratura con la mano in alto regolava la società: i re cercavano il favore degli scrittori o si vendicavano del loro sprezzo bruciandone le persone e le opere. Era anche questo un modo di riconoscere la sovranità letteraria. Oggi si è industriale, avvocato, medico, banchiere, commerciante, professore, ingegnere, bibliotecario, ecc.; non più letterato. O piuttosto chiunque si sia elevato a un grado un po’ notevole nella sua professione, è per ciò solo necessariamente letterato; la letteratura, come la laurea, è divenuta parte elementare d’ogni professione. Il letterato, nel senso puro della parola, è lo scrittore pubblico, specie di commesso-fraseggiatore agli stipendi di tutti e la cui varietà più nota è il giornalista...

Fu una strana idea quella ch’ebbero quattro anni addietro le Camere, di fare una legge sulla proprietà letteraria! come se ormai non fosse evidente la tendenza dell’idea a divenire tutto, non lasciando alcuna importanza allo stile. Grazie a Dio l’eloquenza parlamentare è andata, come la poesia epica, come la mitologia. Il teatro attira di rado gli uomini di affari e i dotti, e mentre quelli che se ne intendono deplorano la decadenza dell’arte, l’osservatore filosofo vi scorge il progresso della ragione virile, importunata, anziché rallegrata da queste difficili bagatelle. L’interesse del romanzo intanto si sostiene in quanto si approssima alla realtà; la storia si riduce a una esegesi antropologica, l’arte del dire insomma s’è fatta ausiliare subalterna dell’idea, del fatto. Il culto della parola, essa stessa troppo frondosa e lenta per gli spiriti impazienti, è negletto e i suoi artifici perdono qualunque lenocinio. La lingua del secolo XIX si compone di fatti e di cifre, è il più eloquente chi con meno parole sa dire più cose. Chiunque non sa quest’arte, è relegato senza misericordia tra i retori, si dice di lui che non ha idee.

In una società nascente il progresso delle lettere va innanzi necessariamente al progresso filosofico e industriale e per lungo tempo serve ad esprimerli entrambi. Ma viene il giorno in cui il pensiero trabocca dagli argini della lingua e allora la preminenza conservata alla letteratura diviene per la società un sintomo sicuro di decadenza. Difatti, il linguaggio è per ciascun popolo la raccolta delle sue idee native, enciclopedia che gli rivela dapprima la Provvidenza; è il campo che la sua ragione deve coltivare prima di volgersi alla diretta osservazione della natura e alle ricerche sperimentali. Ora quando una nazione, dopo avere esaurito la scienza contenuta nel proprio vocabolario, invece di continuare la sua istruzione con una filosofia elevata, s’avviluppa nel suo mantello poetico e si mette a giocare con i suoi periodi e i suoi emistichi, si può francamente affermare che codesta società è perduta. Tutto in essa diverrà sottile, meschino e falso; essa non avrà neanche il vantaggio di conservare nella sua splendidezza la lingua di cui si è follemente invaghita. Anziché vederla procedere nella via dei geni di transizione, di Tacito, di Tucidide, di Machiavelli, di Montesquieu, la si vedrà cadere, per una tendenza irresistibile dalla maestà di Cicerone alle sottigliezze di Seneca, alle antitesi di Sant’Agostino, ai giochi di parole di San Bernardo.

Non c’è dunque da farsi illusione: dal momento in cui lo spirito, assorto prima nel verbo, passa all’esperienza e al lavoro, il letterato propriamente detto non è altro che la misera personificazione della minore tra le nostre facoltà; e la letteratura, ciarpame dell’industria intelligente, trova spaccio solo tra gli oziosi che essa trastulla e i proletari che affascina, i ciurmatori che assediano il potere e i ciarlatani che vi si difendono, i gerofanti del diritto divino che imboccano il portavoce del Sinai e i fanatici della sovranità del popolo i cui scarsi organi, ridotti a provare la loro facoltà tribunizia sulle tombe, aspettando di poterla far piovere dall’alto dei rostri, non sanno fare altro che offrire al pubblico parodie di Gracco e di Demostene.

La società, in tutti i suoi poteri, è dunque concorde ad abbassare indefinitamente la condizione del lavoratore parcellare; e l’esperienza, confermando la teoria, prova che questo operaio è condannato all’infortunio fin dalla nascita, senza che nessuna riforma politica, nessuna associazione d’interessi, nessuno sforzo della carità pubblica o dell’insegnamento possa soccorrerlo. I vari specifici immaginati in questi ultimi tempi, lungi dal poter guarire la piaga, servirebbero piuttosto ad inasprirla, irritandola; e tutto quanto s’è scritto a tale riguardo, mette sempre più in evidenza il circolo vizioso dell’economia politica.

2. – Impotenza dei palliativi. Blanqui, Chevalier, Dunoyer, Rossi e Passy

Tutti i rimedi proposti contro i funesti effetti della divisione parcellare si riducono a due, i quali poi si riassumono in uno, essendo il primo l’inverso del secondo: rialzare l’elemento morale dell’operaio, aumentando il suo benessere e la sua dignità; ovvero prepararne alla lontana l’emancipazione e il benessere con l’istruzione.

Esamineremo successivamente questi due sistemi dei quali l’uno ha per rappresentante Blanqui, l’altro [Michel] Chevalier.

Blanqui è l’uomo dell’associazione e del progresso, lo scrittore dalle tendenze democratiche, il professore accolto con simpatia dal proletariato. Nella sua prolusione del 1845, Blanqui ha proclamato come mezzo di salvezza l’associazione del lavoro e del capitale, la partecipazione dell’operaio ai guadagni, ossia un principio di solidarietà industriale. “Il nostro secolo, egli ha detto, deve veder nascere il produttore collettivo”.

Ma Blanqui dimentica che il produttore collettivo è nato da molto tempo, al pari del consumatore collettivo e che la questione non è più genetica, bensì medica. Si tratta di fare che il sangue proveniente dalla digestione collettiva, invece di portarsi tutto alla testa, al ventre, al petto, scorra anche nelle gambe e nelle braccia. Io non so quali mezzi si proponga di adoperare Blanqui, per effettuare il suo generoso proponimento, se la creazione di opifici nazionali o l’accomandita dello Stato, ovvero l’espropriazione degli imprenditori ai quali si sostituirebbero società lavoratrici, o finalmente se si contenterà di raccomandare agli operai la cassa di risparmio, nel qual caso la partecipazione potrebbe essere rimandata alle calende greche.

Comunque sia, l’idea di Blanqui si risolve in un aumento di salario, derivante dal titolo di consoci, o almeno di cointeressati che egli conferisce agli operai. A che servirebbe dunque per l’operaio la sua partecipazione ai guadagni?

Una filanda di 15 mila fusi che occupa 300 operai non rende, in un anno, a dir molto, 20.000 franchi di guadagno. Mi è stato detto da un industriale di Mulhouse che le fabbriche di tessuti nell’Alsazia sono generalmente al disotto del pari e che codesta industria è ormai un modo di guadagnar denaro non più col lavoro, ma con la speculazione.

Vendere, vendere a tempo, vendere caro, ecco tutta la questione; fabbricare non è altro che un mezzo per preparare un’operazione di vendita. Quando dunque suppongo, in media, un lucro di 20 mila franchi per ogni opificio di 300 persone, siccome il mio argomento è generale, ci vogliono 20 mila franchi perché io mi attenga al vero. Tuttavia teniamo questa cifra. Dividendo 20 mila franchi, guadagno della fabbrica, per 300 persone e 300 giornate di lavoro, mi rimane per ognuna un residuo di 22 centesimi e 2 millesimi, cioè un supplemento di 18 centesimi per la spesa giornaliera, giusto un pezzo di pane. Ora vale la pena d’espropriare gl’imprenditori e di rischiare la fortuna pubblica per fondare stabilimenti più deboli, in quanto, essendosene frazionata la proprietà in azioni piccolissime e non sostenendosi col guadagno, le imprese mancherebbero di zavorra e non sarebbero più assicurate contro le tempeste? E se non si tratta di espropriazione, che meschina prospettiva è quella che si offre alle classi operaie di un aumento di 18 centesimi, come premio di alcuni secoli di risparmio; dacché non ci vorrà meno per formarsi capitali propri, supponendo che le periodiche mancanze di lavoro non obblighino i lavoratori a mangiarsi periodicamente i risparmi!

Il fatto che ho citato è stato messo in vista in parecchi modi. Il signor [I. F.] Passy [tornata dell’Accademia delle Scienze morali e politiche, settembre 1845] ha computato egli stesso nei registri di una filanda di Normandia, nella quale gli operai erano associati all’imprenditore, il salario di molte famiglie per dieci anni e ha trovato delle medie di 12 a 1400 franchi l’anno. Poi ha voluto paragonare la situazione degli operai di filanda pagati in ragione dei prezzi ottenuti dai padroni, con quella degli operai che sono semplicemente salariati e ha riconosciuto che le differenze sono quasi insensibili. Questo risultato si poteva facilmente prevedere. I fenomeni economici obbediscono a leggi astratte e impassibili come i numeri; sono il privilegio, la frode, l’arbitrio quelli che ne turbano l’immortale armonia.

Blanqui, pentendosi, a quanto pare, di avere fatto questa prima concessione alle idee socialiste, si è affrettato a ritrattare le sue parole. Nella tornata medesima in cui Passy dimostrava l’insufficienza della società con partecipazione, esclamò: “non pare che il lavoro sia una cosa suscettibile d’organizzazione e che possa lo Stato regolare il benessere dell’umanità come la marcia di un esercito, e anche con una precisione matematica. È una tendenza cattiva, una illusione che l’Accademia non deve stancarsi di combattere, perché non è soltanto una chimera, ma un pericoloso sofisma. Rispettiamo le intenzioni buone e leali; ma non temiamo di dire che pubblicare un libro sull’organizzazione del lavoro è rifare per la cinquantesima volta un trattato sulla quadratura del circolo o sulla pietra filosofale”.

Poi, trascinato dal suo zelo, Blanqui finisce di rovinare la teoria della partecipazione, già così fortemente scossa da Passy, col seguente esempio: “Il signor Dailly, agricoltore dei più avveduti, ha tenuto il conto per ogni pezzo di terra e un conto per ogni prodotto e ha constatato che nell’intervallo di trent’anni, il medesimo individuo non ha mai ottenuto l’identico raccolto sul medesimo spazio di terra. I prodotti variarono da 26.000 franchi a 9.000 o 7.000 franchi, talora anche scesero a 300 franchi. Vi sono certi prodotti, le patate, per esempio, che lo rovinano una volta su nove. Come dunque in presenza di tali variazioni sui redditi così incerti, stabilire distribuzioni regolari e salari uniformi per i lavoratori?...”.

Si potrebbe rispondere che le variazioni di prodotto in ogni pezzo di terra indicano semplicemente che bisogna associare i proprietari tra loro, dopo avere associato gli operai ai proprietari, istituendo così una solidarietà più efficace; ma sarebbe anticipare il giudizio su ciò che è precisamente in questione e che Blanqui, dopo avervi riflettuto, giudica definitivamente introvabile, l’organizzazione del lavoro. Per altro è evidente che la solidarietà non aggiungerebbe un obolo alla comune ricchezza, non tenendo conto del non toccare essa in alcun modo il problema della divisione.

Tutto sommato, il guadagno degli industriali, che eccita tanta invidia eppure è spesso assai problematico, non vale a togliere la differenza tra i valori effettivi e quelli richiesti e l’antico progetto di Blanqui, meschino nei suoi risultati, sconfessato dal suo autore, sarebbe per l’industria manifatturiera un flagello. Ora essendo la divisione del lavoro stabilita dappertutto, il ragionamento si generalizza e noi arriviamo a questa conclusione, che la miseria è una conseguenza del lavoro, così come lo è dell’ozio.

Si è detto a questo proposito, ed è un argomento molto gradito al popolo: aumentate il prezzo dei servizi, raddoppiate, triplicate le mercedi.

Confesso che se questa argomentazione fosse possibile, otterrebbe un pieno successo, qualsiasi cosa abbia detto Chevalier, al quale devo su questo punto una piccola correzione.

Secondo Chevalier, se si aumentasse il prezzo di una merce qualsiasi, le altre merci crescerebbero di prezzo nella stessa proporzione e nessuno ne ricaverebbe vantaggio.

Questo ragionamento che gli economisti si trasmettono da più di un secolo è tanto falso quanto vizioso, e toccava a Chevalier, nella sua qualità d’ingegnere, di raddrizzare la tradizione economica. Lo stipendio di un capo ufficio è di 10 franchi al giorno, quello di un operaio di 4: se il reddito di ciascuno cresce di 5 franchi, il rapporto degli averi che nel primo caso era come 100 a 40, nel secondo sarà di 100 a 60. L’aumento dei salari s’effettua necessariamente per addizione e non per quoziente, sarebbe quindi un ottimo mezzo di livellamento e gli economisti meriterebbero che i socialisti rinviassero loro la taccia d’ignoranza che a diritto e a torto è ad essi data dagli economisti.

Ma io dico che una tale argomentazione è impossibile e che è assurda la supposizione. Come ha per altro visto assai bene Chevalier, la cifra che indica il prezzo della giornata di lavoro è un esponente algebrico senza alcuna influenza sulla realtà e quel che prima di tutto bisogna pensare ad accrescere, per rettificare le dise-guaglianze della distribuzione, non è l’espressione monetaria, ma il valore dei prodotti. Senza ciò ogni movimento di rialzo nei salari non può avere altro effetto che quello di un rialzo sul frumento, sul vino, sulla carne, sullo zucchero, sul sapone, sul carbone fossile, ecc., cioè il rincaro. Infatti cos’è il salario?

È il prezzo di costo del frumento, del vino, della carne, del carbone fossile; è il prezzo integrale d’ogni cosa. Andiamo ancora più innanzi: il salario è la proporzionalità degli elementi che compongono la ricchezza e che sono giorno per giorno consumati produttivamente dalla massa dei lavoratori. Ora raddoppiare il salario, come l’intende il popolo, significa attribuire a ciascun produttore una porzione superiore in quantità al prodotto dell’opera sua, il che implica un’assurda contraddizione; e se il rialzo cade soltanto su un piccolo gruppo d’industrie, si provoca una perturbazione generale negli scambi, la carestia insomma. Dio mi guardi dall’azzardare predizioni! Pure, malgrado tutta la mia simpatia per il miglioramento dello stato della classe operaia, è impossibile, lo dichiaro, che scioperi accompagnati da un aumento di salari non si concludano con un rincaro generale. Ciò è così certo come il prodotto quattro dall’addizione di due con due. Non è con simili specifici che gli operai giungeranno all’acquisto della ricchezza e, ciò che vale mille volte più della ricchezza, all’acquisto della libertà. Gli operai, sostenuti da una stampa imprudente, esigendo un aumento di salari, hanno fatto gl’interessi del monopolio più che i propri; così possano riconoscere quando il malessere tornerà ancora più pungente, l’amaro frutto della loro inesperienza!

Convinto dell’inutilità, o per meglio dire, dei funesti effetti dell’aumento dei salari e intendendo bene come la questione sia tutta organica e niente affatto commerciale, il signor Chevalier piglia il problema a rovescio. Egli chiede per la classe operaia, prima d’ogni altra cosa, l’istruzione e suggerisce ampie riforme in questo senso.

L’istruzione! è anche la parola del signor Arago agli operai, è il principio d’ogni progresso. L’istruzione!… Bisogna comprendere una volta per sempre quel che da essa possiamo riprometterci per la soluzione del problema intorno al quale ci travagliamo; bisogna, dico, vedere, non già se sia desiderabile che tutti la ricevano, cosa che nessuno pone in dubbio, ma se essa è possibile.

Per cogliere bene la portata degli intenti di Chevalier è indispensabile conoscere bene la sua tattica.

Chevalier assueffatto da gran tempo alla disciplina, prima per i suoi studi politecnici, poi per le sue relazioni sansimoniane e in ultimo per la sua posizione universitaria, non pare disposto ad ammettere che un allievo possa avere una volontà diversa da quella del regolamento, né che un settario possa pensare altrimenti dal caposetta o un funzionario diversamente da chi tiene il potere. Questo può essere un modo di concepire l’ordine tanto rispettabile quanto un altro e non intendo esprimere in proposito né lode né biasimo.

Chevalier è costretto a manifestare la sua opinione personale. Ebbene, in virtù del principio che tutto quanto la legge non vieta è lecito, egli s’affretta a mettere le mani avanti, ed esporre il proprio parere, salvo poi ad acconciarsi, se occorre, all’avviso dell’autorità. È così che Chevalier, prima di fissarsi nel girone costituzionale, s’era dato ad Enfantine; così aveva ragionato sui canali, sulle ferrovie, sulla finanza, sulla proprietà, assai tempo prima che il ministero avesse adottato qualsiasi sistema sulla costruzione delle ferrovie, sulla conversione delle rendite, sui brevetti d’invenzione, sulla proprietà letteraria, ecc.

Chevalier non è dunque un cieco ammiratore dell’insegnamento universitario e, fino a nuovo ordine, non si perita di spiattellare ciò che ne pensa. Le sue opinioni sono radicalissime.

Villemain aveva detto nel suo rapporto: “Lo scopo dell’istruzione secondaria è quello di preparare a tempo un’elite d’uomini per tutti gli uffici da occupare e disimpegnare nell’amministrazione, nella magistratura, nel foro, e nelle diverse professioni liberali, compresi i gradi superiori e le specialità dotte dell’esercito”.

“L’istruzione secondaria, osserva Chevalier, è chiamata anche a preparare coloro che si dedicheranno all’agricoltura o all’industria manifatturiera, al commercio, all’ingegneria. Ora nel programma tutta codesta gente è dimenticata. L’omissione è un po’ grave; perché in fin dei conti il lavoro industriale nelle sue varie forme, l’agricoltura, il commercio non sono nello Stato né un accessorio né un incidente; costituiscono l’elemento principale... Se l’Università vuole giustificare il proprio nome, bisogna che prenda un partito in questo senso, se no, vedrà sorgere nei sui confronti una università industriale... Sarà un controaltare, ecc..”.

E siccome la caratteristica di una idea luminosa è quella di rischiarare tutte le questioni che ad essa si ricollegano, l’insegnamento professionale fornisce a Chevalier un mezzo assai spiccio di troncare, cammin facendo, la controversia del clero con l’Università circa la libertà d’insegnamento.

“Bisogna convenire che si fa una parte troppo bella al clero lasciando la latinità base dell’insegnamento. Il clero conosce il latino tanto quanto l’Università; è la sua lingua. Il suo insegnamento per altro è a più buon mercato; è dunque impossibile che non attiri a sé una gran parte della gioventù nei suoi piccoli seminari e negli istituti che dirige...”.

La conclusione viene spontanea: mutate la materia dell’insegnamento e scattolicizzate il regno: e siccome il clero non conosce altro che il latino e la Bibbia, e non conta nel suo seno né dottori in lettere né agricoltori né ragionieri e fra quarantamila preti non ce ne sono forse tanti che sappiano lavare un piatto, o fare un chiodo, si vedrà ben presto a chi i padri di famiglia daranno la preferenza, se all’industria o al breviario e se essi non stimeranno che il lavoro sia la lingua più bella per pregare Dio.

Così finirebbe l’opposizione ridicola tra l’educazione religiosa e la scienza profana, tra lo spirituale e il temporale, la ragione e la fede, l’altare e il trono, vecchie rubriche ormai vuote di senso, ma con le quali si trastulla ancora la bonomia del pubblico, aspettando che se ne indisponga.

Chevalier non insiste per altro su questa soluzione: egli sa che religione e monarchia sono due compari che, sebbene litighino sempre, non possono stare l’uno senza dell’altro e per non destare sospetti, si slancia attraverso un’altra idea rivoluzionaria, l’eguaglianza.

“La Francia è in grado di fornire alla scuola politecnica venti volte più allievi che non vi vadano ora (essendo in media 176, diventerebbero 3520). Basta che l’Università lo voglia... Se la mia opinione valesse qualcosa, io sosterrei che l’attitudine matematica è molto meno speciale che non si creda comunemente. Si guardi con quale successo ragazzi, presi per dir così dalle strade di Parigi seguono le classi della Martinière sotto il metodo del capitano Tabareau”.

Se l’insegnamento secondario, riformato secondo le idee di Chevalier, fosse frequentato da tutti i giovani francesi, mentre d’ordinario non lo è che da 90.000, non ci sarebbe nessuna esagerazione ad innalzare la cifra delle specialità matematiche da 3520 a 10.000; ma, per la medesima ragione, noi avremmo 10.000 artisti, filosofi e filologi; – 10.000 medici, fisici, chimici e naturalisti; – 10.000 economisti, giureconsulti, amministratori; – 20.000 industriali, capi di arte, negozianti e ragionieri; – 40.000 agricoltori, vignaioli, minatori, ecc., in tutto 100.000 attitudini all’anno, cioè un terzo della gioventù. Il rimanente invece di attitudini speciali, avendo attitudini miste, si collocherebbe indifferentemente qua e là da per tutto.

Certo è che un così potente impulso dato alle intelligenze accelererebbe il cammino dell’eguaglianza e non dubito che tale non sia il voto segreto di Chevalier. Ma ecco precisamente ciò che mi disturba: le attitudini non mancano mai, al pari della popolazione; la questione sta nel trovare impiego per gli uni e pane per gli altri. Invano ci dice il signor Chevalier:

“L’istruzione secondaria offrirebbe minore presa all’accusa che le si dà di lanciare nella società torrenti di ambiziosi privi d’ogni mezzo per appagare le proprie voglie e interessati a sconvolgere lo Stato; gente inapplicata e inapplicabile, buona a nulla, mentre si crede adatta a tutto, specialmente a dirigere gli affari pubblici. Gli studi scientifici esaltano meno l’animo. Essi lo rischiarano e nello stesso tempo lo regolano; dispongono l’uomo alla vita pratica...” – Questo è un discorso da patriarchi; un professore di economia politica deve avere maggior rispetto per la sua cattedra e per il suo uditorio. Il Governo non ha più di centoventi posti disponibili ogni anno e centosettantasei politecnici ammessi alla scuola; che imbarazzo nascerebbe se il numero delle ammissioni salisse a diecimila, o soltanto, prendendo la cifra di Chevalier, a 3500? E generalizzate: la somma totale degli impieghi civili è di settantamila, cioè vi sono tremila posti disponibili ogni anno; che spavento per il Governo, se, adottando le idee riformatrici di Chevalier, si vedesse assediato da cinquantamila sollecitatori!

Si è fatta spesso la seguente obiezione ai repubblicani senza che essi abbiano risposto: quando ogni cittadino avrà il suo certificato d’elettore, i deputati saranno forse migliori e il proletariato avrà fatto un qualche progresso? Rivolgo la stessa domanda al signor Chevalier: quando ogni anno scolastico vi darà centomila attitudini, cosa ne farete?

Per mettere a posto questi giovani scenderete fino all’ultimo scalino della gerarchia. Farete cominciare il giovane, dopo quindici anni di studi sublimi, non come oggi, dai gradi di aspirante ingegnere, di sottotenente di artiglieria, di alfiere di vascello, di sostituto, di controllore, di guardia generale, ecc.; ma dagli ignobili uffici di pioniere, di soldato del treno, di cavafango, di mozzo, di imballatore, di gabelliere. Là dovrà aspettare che la morte diradi le file per mandarlo innanzi di un passo. E potrà accadere che un uomo uscito dalla Scuola Politecnica e capace di diventare un [Sébastien] Vauban muoia cantoniere su una strada di seconda categoria o caporale in un reggimento.

Quanto al cattolicesimo, s’è mostrato più prudente e come vi ha sorpassato tutti voialtri sansimonisti, repubblicani, universitari, economisti nella conoscenza dell’uomo e della società! Il prete sa che la vita è semplicemente un viaggio e che la perfezione non si può realizzare quaggiù; perciò si contenta di abbozzare sulla terra un’educazione che si dovrà compiere in cielo. L’uomo educato dalla religione, contento di sapere, di fare, e di conseguire quanto basta al suo destino sulla terra, non può mai divenire un imbarazzo per il Governo; ne sarebbe piuttosto il martire! Diletta religione! ed è proprio vero che una borghesia la quale ha tanto bisogno di te, ti sconosce così!...

In quali lotte spaventose dell’orgoglio e della miseria ci precipita questa smania d’istruzione universale! a che cosa servirà l’istruzione professionale, a che varranno le scuole di agricoltura e di commercio se i vostri studenti non possiedono né stabilimenti né capitali? Che bisogno di cacciarsi in corpo ogni sorta di scienza fino a vent’anni per andar poi a riattaccare i fili del telaio meccanico o a picconare il carbone fossile in fondo a un pozzo? Come! voi, per confessione vostra non avete che 3000 impieghi da distribuire ogni anno a 50.000 attitudini possibili e parlate ancora di creare altre scuole? Rimanete piuttosto nel vostro sistema d’esclusione e di privilegio, sistema vecchio come il mondo, sostegno delle dinastie, dei patriziati, vera macchina da castrare gli uomini per dare sicurezza ai piaceri di una casta di sultani. Fate pagar caro le vostre lezioni, moltiplicate gl’impacci, allontanate con la lunghezza delle prove il figlio del proletario cui la fame non consente l’attesa e proteggete con tutto il vostro potere le scuole ecclesiastiche ove s’impara a lavorare per l’altra vita, a rassegnarsi, digiunare, rispettare i grandi, amare il re e pregare Dio. Ogni studio è diventa presto o tardi abbandonato: la scienza è un veleno per gli schiavi.

Certo, Chevalier è troppo sagace per non essersi accorto delle conseguenze della sua idea. Ma egli deve aver detto nell’intimo dell’animo suo e bisogna applaudire alla sua buona intenzione: – Occorre prima di tutto che gli uomini siano uomini; in quanto al poi, chi vivrà vedrà.

Noi quindi andiamo innanzi a casaccio, condotti dalla Provvidenza, la quale non ci avverte altrimenti che battendoci; ecco il principio e la fine dell’economia politica.

All’opposto di Chevalier, professore d’Economia politica al Collège de France, il signor Dunoyer, economista dell’Istituto non vuole che si organizzi l’insegnamento. L’organizzazione dell’insegnamento è una varietà dell’organizzazione del lavoro: dunque niente organizzazione. L’insegnamento, nota il signor Dunoyer, è una professione non una magistratura: come tutte le professioni, deve essere e restare libera. Il comunismo, il socialismo, la tendenza rivoluzionaria i cui agenti principali sono stati Robespierre, Napoleone, Luigi XVIII e [François] Guizot, hanno gettato fra noi le idee funeste di accentramento e di assorbimento d’ogni attività nello Stato. La stampa è libera e la penna dei giornalisti è una merce; la religione è libera e chiunque porti sottana, lunga o corta, e sa eccitare a tempo la curiosità pubblica, può raccogliere intorno a sé un uditorio. [Jean-Baptiste] Lacordaire ha i suoi devoti, Leroux i suoi apostoli, [Philippe] Buchez il suo convento. Perché non lasciare libero anche l’insegnamento? Se il diritto di chi impara è indiscutibile, come lo è quello del compratore: il diritto dell’insegnante, specie del genere venditore, gli è correlativo; è impossibile toccare la libertà dell’insegnamento senza violare la più preziosa delle libertà, quella della coscienza. E poi, aggiunge il Dunoyer, se lo Stato deve fornire l’insegnamento a tutti, si pretenderà ben presto, che fornisca lavoro, poi si vorrà l’abitazione, poi il cibo... E dove si va finire?

L’argomentazione di Dunoyer è irrefutabile: organizzare l’insegnamento significa dare a ciascun cittadino la promessa di una professione liberale e di un salario conveniente; questi due termini sono così intimamente legati come la circolazione arteriosa e la circolazione venosa. Ma la teoria del signor Dunoyer implica del pari che il progresso sussiste soltanto per una parte eletta dell’umanità, e che per i nove decimi del genere umano la barbarie è la condizione perpetua d’esistenza. È anzi ciò che costituisce, secondo Dunoyer, l’essenza delle società, la quale si manifesta in tre tempi, religione, gerarchia, mendicità. Di modo che in questo sistema, che è poi quello di [Antoine-Louis] Destutt de Tracy, di Montesquieu, di Platone, l’antinomia della divisione, come quella del valore, è insolubile.

Provo un gusto enorme, lo confesso, a vedere Chevalier partigiano dell’accentramento dell’istruzione combattutto da Dunoyer partigiano della libertà: Dunoyer a sua volta in contrasto con Guizot; Guizot il rappresentante degli accentratori in contrasto con la Carta che stabilisce come principio la libertà; la Carta calpestata dagli universitari che reclamano per sé soli il privilegio dell’insegnamento, malgrado l’ordine formale del Vangelo che dice ai preti: Andate e insegnate. E sopra tutto questo fracasso d’economisti, di legislatori, di ministri, di accademici, di professori e di preti, la Provvidenza economica che dà una smentita al Vangelo, gridando: cosa volete, o pedagoghi, che me ne faccia del vostro insegnamento?...

Chi ci trarrà da questo imbroglio? Il signor Rossi pende per una soluzione eclettica: poco diviso, egli dice, il lavoro rimane improduttivo; troppo diviso abbrutisce l’uomo. La saggezza sta tra i due estremi: in medio [stat] virtus. – Sventuratamente questa saggezza intermedia non è che una mediocrità di miseria aggiunta a una mediocrità di ricchezza, sicché la condizione non muta di un punto. La proporzione del bene e del male invece d’essere come 100 a 100 è soltanto come 50 a 50; questo basta onde dare una volta per sempre la misura dell’eclettismo. Del resto il giusto mezzo del signor Rossi è in opposizione diretta con la grande legge economica: Produrre la massima quantità possibile di valore al minimo costo possibile... Ora, come mai il lavoro può adempiere il proprio destino senza una estrema divisione? Cerchiamo più oltre, se v’accomoda.

“Tutti i sistemi, dice Rossi, tutte le ipotesi economiche appartengono all’economista; ma l’uomo intelligente, libero, responsabile è sotto l’impero della legge morale... L’economia politica è una scienza che esamina i rapporti delle cose e ne trae alcune conseguenze. Essa esamina quali sono gli effetti del lavoro: voi, nella pratica, dovete applicare il lavoro secondo l’importanza dello scopo. Quando l’applicazione del lavoro è contraria a uno scopo più elevato che non sia la produzione della ricchezza, non bisogna attuarla... Supponiamo che fosse un mezzo di ricchezza nazionale quello di far lavorare i fanciulli quindici ore al giorno: la morale direbbe che ciò non è permesso. Proverebbe questo la falsità dell’economia politica? No: prova soltanto che voi confondete quel che deve essere separato”.

Se il signor Rossi possedesse un po’ più di quel candore gallico che gli stranieri acquistano così difficilmente, egli avrebbe, come dice la signora [Marie de] Sévigné, gettata la propria lingua ai cani. Ma è necessario che un professore parli, parli, parli, non per dire qualcosa, ma per non restare muto. Rossi gira tre volte intorno alla questione, poi ci si corica sopra: e ciò basta a certa gente per credere che egli abbia risposto.

Certo è un brutto sintomo per una scienza, quando, sviluppandosi secondo i princìpi che le sono propri, le tocca a un dato punto di essere smentita da un’altra scienza; come, per esempio, allorché i postulati dell’economia politica si trovano contrari a quelli della morale. Suppongo che tanto l’economia politica quanto la morale siano scienze.

Cos’è dunque la cognizione umana se tutte le sue affermazioni si distruggono tra loro? di che bisognerà fidarsi? Il lavoro parcellare è un’occupazione da schiavo, ma è il solo veramente fecondo: il lavoro non diviso, è serbato all’uomo libero, ma non frutta quel che costa. Da una parte l’economia politica ci dice: siate ricchi; dall’altra la morale: siate liberi; e Rossi, parlando in nome di tutte due, ci avvisa nello stesso tempo che noi non possiamo essere né liberi né ricchi, poiché esserlo a metà significa non esserlo affatto. La dottrina di Rossi, lungi dal soddisfare questa duplice tendenza dell’umanità, offre l’inconveniente, per non essere esclusiva, di toglierci tutto: è, sotto un’altra forma, la storia del sistema rappresentativo.

Ma l’antagonismo è ben più profondo che non sia parso al Rossi. Dacché, riducendosi il salario, secondo l’universale esperienza, concordando in ciò con la teoria, in ragione della divisione del lavoro, è chiaro che sottomettendoci alla schiavitù parcellare, non otterremo per questo la ricchezza, non avremo fatto altro che cambiare gli uomini in macchine: tale è la popolazione operaia dei due mondi. E poiché, d’altra parte, senza la divisione del lavoro, la società ricadrebbe nella barbarie, è ancora evidente che sacrificando la ricchezza non si arriverebbe alla libertà; guardate in Asia e in Africa le razze nomadi. C’è dunque necessità, ordine perentorio, assoluto, da parte della morale e della scienza economica di risolvere il problema della divisione. Ebbene, dove sono gli economisti? Dopo più di trent’anni da che [Pierre] Lemontey, sviluppando una osservazione di Smith fece rimarcare l’influenza demoralizzatrice e omicida della divisione del lavoro, quali ricerche si sono fatte? quali combinazioni si sono proposte? la questione è stata compresa?

Tutti gli anni gli economisti rendono conto con un’esattezza che loderei ancora più se non la vedessi rimanere sempre sterile, del movimento commerciale degli Stati d’Europa. Essi sanno quanti metri di panno, quante pezze di seta, quanti chilogrammi di ferro sono stati fabbricati; quale è stato il consumo individuale del pane, del vino, dello zucchero, della carne. Si direbbe che per loro il nec plus ultra della scienza sia la pubblicazione d’inventari e che l’ultimo termine della loro intesa sia quello di diventare i controllori generali delle nazioni. Giammai tanti materiali raccolti offrirono una più bella prospettiva alle indagini; cosa s’è trovato? quale principio nuovo è venuto fuori da questa massa? quale soluzione è risultata per tanti vecchi problemi? che nuova direzione si è impressa agli studi?

Una questione, tra le altre, sembra essere stata preparata per un giudizio definitivo: quella del pauperismo. Il pauperismo è il meglio conosciuto tra tutti gli accidenti del mondo incivilito; si sa press’a poco da dove viene, quando e come si manifesta e ciò che costa. Si è calcolato quale è la sua proporzione nei diversi gradi di civiltà e si è nel tempo stesso formata la convinzione che tutti gli specifici con i quali lo si è fino a oggi combattuto sono riusciti impotenti. Il pauperismo è stato diviso in generi, specie, varietà: è una completa storia naturale, uno dei rami più importanti dell’antropologia. Ebbene, quel che risulta inconfutabile da tutti i fatti raccolti, ma non si è veduto mai, non si vuol vedere e gli economisti si ostinano a coprire col silenzio, è che il pauperismo è costituzionale e cronico nella società fino a che sussista l’antagonismo tra capitale e lavoro e che questo antagonismo non può finire se non con la negazione assoluta dell’economia politica. Quale uscita da questo labirinto hanno saputo scoprire gli economisti?

Quest’ultimo punto merita d’essere considerato un istante.

Nella primitiva comunità, la miseria, come ho fatto notare nel paragrafo precedente, è la condizione universale.

Il lavoro è la guerra dichiarata a questa miseria.

Il lavoro si organizza, prima con la divisione, poi con le macchine, poi con la concorrenza, ecc., ecc..

Ora si tratta di sapere se non è nell’essenza di codesta organizzazione, tale quale ci è data nell’economia politica, di aggravare la miseria degli uni, in modo fatale e invincibile, pur facendo cessare quella degli altri. Ecco in quali termini deve essere posta la questione del pauperismo, ecco come vogliamo risolverla.

Cosa dunque significano queste eterne chiacchiere degli economisti sulla imprevidenza degli operai, la loro accidia, la mancanza di dignità, l’ignoranza, il lassismo, i prematuri matrimoni, ecc.? Tutti codesti vizi, tutta codesta corruttela è il mantello del pauperismo; ma la causa, la causa prima che mantiene fatalmente nell’obbrobrio i quattro quinti del genere umano dov’è? La natura non ha fatto forse tutti gli uomini ugualmente grossolani, ribelli al lavoro, barbari e selvatici? Non sono forse usciti dal medesimo fango il patrizio e il proletario? Da dove viene che, dopo tanti secoli e malgrado tanti prodigi dell’industria, delle scienze, delle arti, il benessere e la cortesia non hanno potuto divenire patrimonio comune? Com’è che a Parigi, a Londra, nei centri delle ricchezze sociali la miseria è tanto schifosa quant’era ai tempi di Cesare e di Agricola? Come mai accanto a una aristocrazia raffinatissima rimane così incolta la plebe? Si accusano i vizi del popolo; ma i vizi della classe elevata non sono, a quanto pare, minori; fors’anche sono maggiori. La macchia originale è la stessa in tutti; com’è che il battesimo della civiltà non ha avuto uguale efficacia per tutti? Non sarebbe forse perché il progresso è a sua volta un privilegio e che l’uomo il quale non possiede né carro, né cavalcatura, è obbligato a guazzare nella melma? Che dico! nell’uomo che giace nell’estrema miseria non sorge neanche il desiderio della salute; egli è caduto così in basso che anche l’ambizione s’è spenta nel suo cuore.

“Fra tutte le virtù private, osserva con moltissima ragione Dunoyer, la più necessaria, quella che ci fa acquistare successivamente tutte le altre è la passione del benessere, il desiderio vivo d’uscire fuori dalla miseria e dall’abiezione; questa che è nello stesso tempo emulazione e dignità, non lascia contento l’uomo in una situazione inferiore... Ma questo sentimento che sembra tanto naturale è, sventuratamente, meno diffuso di quanto si creda. Pochi rimproveri sono dalla massima parte degli uomini meritati meno di quelli che le indirizzano i moralisti ascetici, d’essere cioè troppo amanti degli agi; si sarebbe più giusti facendo il rimprovero opposto... C’è anzi questo di rimarchevole nella natura degli uomini che meno essi hanno cultura e mezzi, meno sono punti dalla brama di acquistarne. I selvaggi più miserabili e meno istruiti tra gli uomini, sono precisamente quelli nei quali è più difficile suscitare bisogni e con maggiore difficoltà si desta il desiderio di uscire dallo stato in cui si trovano; per cui è necessario che l’uomo si sia già procurato col lavoro un qualche benessere prima di provare con qualche vivacità quel bisogno di migliorare la propria condizione e di perfezionare la propria esistenza che io chiamo amore per il benessere”. [Della libertà del lavoro, op. cit.].

Dunque la miseria delle classi lavoratrici proviene in generale dalla loro fiacchezza di cuore e di mente, o come in qualche luogo dice Passy, dalla debolezza, dall’inerzia delle loro facoltà morali e intellettuali. Questa inerzia risulta dal fatto che le classi lavoratrici, ancora semi-selvagge, non sentono con sufficiente energia il desiderio di migliorare la propria condizione. La quale cosa è fatta appunto notare da Dunoyer. Ma siccome questa mancanza di desiderio è essa stessa un effetto della miseria, segue che la miseria e l’apatia sono l’una e l’altra effetto e causa, e il proletariato si aggira in un circolo fatale.

Per venir fuori da questo abisso occorrerebbe o una certa somma di benessere, cioè un progressivo aumento della mercede, ovvero intelligenza e coraggio, cioè un progressivo sviluppo delle facoltà: due cose diametralmente opposte alla degradazione di anima e di corpo che è naturale effetto della divisione del lavoro. Il guaio del proletariato è dunque affatto provvidenziale e tentare di sopprimerlo, ai termini nei quali si ritrova l’economia politica, sarebbe come provocare la tromba rivoluzionaria.

Non senza una profonda ragione, tratta dalle più elevate considerazioni morali, la coscienza universale, manifestandosi a vicenda con l’egoismo dei ricchi e l’apatia del proletariato, rifiuta la qualità d’uomo a chi adempie all’ufficio di una leva o di una molla. Se, per ipotesi impossibile, il benessere materiale potesse toccare in sorte all’operaio parcellare, si vedrebbe accadere qualcosa di mostruoso: gli operai addetti ai lavori ripugnanti, diverrebbero come quei Romani satolli delle ricchezze del mondo, la cui abbrutita intelligenza non era più capace d’inventare nuovi godimenti. Il benessere senza l’educazione abbrutisce il popolo e lo rende insolente, è un’osservazione fatta dalla più remota antichità: Incrassatus est [dilectus] et recalcitravit, dice il Deuteronomio [32]. Del resto il lavoratore parcellare s’è giudicato da sé: egli è contento, purché non gli manchino il pane, un giaciglio e la sbornia la domenica. Un altro stato qualsiasi gli tornerebbe pregiudizievole e comprometterebbe l’ordine pubblico.

A Lione c’è una classe di persone che in grazia del monopolio concesso dal Municipio pigliano retribuzioni superiori a quelle dei professori di facoltà e dei capi divisione dei ministeri, alludo ai facchini. Il prezzo di carico e scarico in certi punti di Lione, in base alla tariffa delle compagnie di facchini, è di 30 centesimi per 100 chilogrammi. A questa ragione non è raro che un individuo guadagni 12, 15 e persino 20 franchi al giorno; e non si tratta che portare quaranta o cinquanta sacchi da un battello a un magazzino. È affare di poche ore. Che condizione favorevole allo sviluppo dell’intelligenza, così per i padri come per i figli, se di per se stessa, per l’agio che procura, la ricchezza fosse un principio moralizzatore! Ma non è così: i facchini di Lione sono oggi quelli che furono sempre, ubriachi, crapuloni, brutali, insolenti, egoisti e vigliacchi. Fa pena dirlo, ma considero questa dichiarazione come un dovere, perché è intrinsecamente esattissima: una delle prime riforme da operare nelle classi lavoratrici consisterà nel ridurre i salari di alcune e aumentare quelli delle altre. Il monopolio non merita maggiore rispetto perché ne godano classi d’infimo ordine, soprattutto quando serve ad alimentare un grossolano individualismo. La sommossa dei lavoranti della seta non ha trovato simpatie di sorta nei facchini e in genere presso tutta le gente addetta ai trasporti, anzi l’attitudine di costoro è stata piuttosto ostile. Nulla di quanto avviene fuori dei porti riesce a scuoterli. Bestie da soma, fatte per il dispotismo, purché non si tocchi il loro privilegio, vivono affatto estranee alla politica. Devo però dire a loro discolpa che da qualche tempo le necessità della concorrenza hanno fatto qualche breccia nella tariffa e già sentimenti più umani si manifestano in queste nature rozze e massicce: ancora qualche riduzione, condita con un po’ di miseria, e le compagnie lionesi formeranno un corpo scelto quando bisognerà prendere di assalto quella Bastiglia.

Insomma, è cosa impossibile e contraddittoria che nel sistema attuale della società il proletariato consegua il benessere mediante l’educazione o l’educazione grazie al benessere. Senza mettere in conto che il proletario, l’uomo-macchina, è inetto a conseguire così l’agiatezza come l’istruzione, è dimostrato da una parte, che il suo salario tende piuttosto a scendere che a elevarsi, e dall’altra che la cultura, anche quando egli potesse ottenerla, gli riuscirebbe inutile, essendo tratto continuamente verso la miseria e la barbarie. Tutto quanto in questi ultimi anni s’è tentato in Francia e in Inghilterra con l’intento di migliorare la sorte delle classi povere, riguardo il salario dei fanciulli e delle donne, e l’istruzione elementare, a meno che non sia il frutto di secondi fini del radicalismo, è stato compiuto a rovescio dei dati economici e in un pregiudizio dell’ordine stabilito. Il progresso, per la massa dei lavoratori, è sempre un libro chiuso da sette suggelli e il fatale enigma non sarà certo spiegato con qualche controsenso legislativo.

Del resto, se gli economisti, a forza di ripetere i loro vecchiumi, hanno finito per smarrire persino l’intelligenza delle cose sociali, non si può dire che i socialisti abbiano risolta meglio l’antinomia che emerge dalla divisione del lavoro. Al contrario, si sono fermati alla negazione, ma non significa tenersi sempre alla negazione, quando, per esempio, si contrappone all’uniformità del lavoro parcellare una sedicente varietà in cui ognuno potrà in una stessa giornata mutare lavoro a volontà, dieci, quindici, venti volte?

Come se cambiare dieci, quindici, venti volte al giorno l’oggetto di un esercizio parcellare, sia rendere sintetico il lavoro; come se, per conseguenza, venti frazioni di giornata di un manovale valgano a dare l’equivalente della giornata di un artista. Supponendo pure che questo volteggiamento industriale fosse praticabile, mentre si può asserire a priori che sfumerebbe innanzi alla necessità di rendere responsabili i lavoratori e perciò personali le funzioni e, non muterebbe in nulla le condizioni fisiche, morali e intellettuali dell’operaio: tutt’al più potrebbe, per mezzo della dissipazione, ravvalorare la sua incapacità e quindi la sua soggezione. È ciò che dichiarano apertamente gli organizzatori, comunisti e d’altra specie. Essi hanno così poco la pretesa di risolvere l’antinomia della divisione, che tutti ammettono come condizione essenziale dell’organizzazione, la gerarchia del lavoro, cioè la classificazione degli operai in parcellari e generalizzatori o sintetici e che in tutte le utopie, la distinzione delle attitudini, fondamento o pretesto eterno della disuguaglianza dei beni, è ammessa come base. Riformatori i cui piani non si potevano raccomandare se non per la logica, e che contro l’estrema semplicità, l’uniformità, la monotonia, la parcellarità del lavoro, vengono a proporre una pluralità come una sintesi, codesti riformatori, dico, sono giudicati e vanno rimandati a scuola.

Ma tu, critico, chiederà senza dubbio il lettore, quale soluzione proponi? Mostraci questa sintesi che mantenendo la responsabilità, la personalità, in una parola, la specialità del lavoratore, deve riunire la estrema divisione e la più grande varietà in un tutto complesso e armonico.

La mia risposta è pronta: interroghiamo i fatti, consultiamo l’umanità, guida migliore non si può avere. Dopo le oscillazioni del valore, la divisione del lavoro è il fatto economico che influisce nel modo più sensibile sui profitti e sui salari. È il primo livello piantato dalla Provvidenza nel terreno dell’industria, il punto di partenza dell’immensa triangolazione che, a lungo andare, dovrà determinare i diritti e i doveri di ciascuno e di tutti. Seguiamo dunque i nostri segnali, senza cui ci smarriremmo e perderemmo:

Sed longe sequere et vestigia semper adora [Stazio].

IV. Epoca seconda. Le macchine

“Ho visto con profondo rincrescimento continuare la penuria nei distretti manifatturieri del paese”. Parole della regina Vittoria all’apertura del Parlamento.

Se qualche cosa può indurre i sovrani a riflettere è questa: che, spettatori più o meno impassibili delle calamità umane, essi si trovano, per la costituzione medesima della società, e l’indole del loro potere, nell’assoluta impossibilità di guarire le sofferenze dei popoli; è loro interdetto persino di occuparsene. Ogni questione di salario e di lavoro, dicono di comune accordo i teorici economisti e rappresentativi, deve rimanere fuori delle attribuzioni del potere. Dall’alto della sfera gloriosa, ove li ha collocati la religione, i troni, le dominazioni, i principati, le potenze e tutta la milizia celeste guardano, inaccessibili alle tempeste, la bufera che imperversa nella società; ma il loro potere non si estende ai venti e ai flutti. Nulla possono i re per la salvezza dei mortali. E, per verità, codesti teorici hanno ragione; il principe è stabilito per conservare non per sconvolgere; per proteggere la realtà, non per effettuare l’utopia. Egli rappresenta uno dei due princìpi antagonisti; ora, creando l’armonia, si eliminerebbe da sé; e ciò da parte sua sarebbe supremamente incostituzionale e assurdo.

Ma, siccome a dispetto delle teorie, il progresso delle idee, cambia senza posa la forma esteriore delle istituzioni, in modo da rendere continuamente necessarie quelle cose stesse che il legislatore non aveva volute, né previste; e così, per esempio, le questioni d’imposta diventano questioni di riparto; quelle d’utilità pubblica, questioni di lavoro nazionale e d’organizzazione industriale; quelle di finanza, operazioni di credito; quelle di diritto internazionale, questioni di dogana e di sbocchi; rimane dimostrato che il principe, non dovendo mai, secondo la teoria, intervenire nelle cose, le quali pure, senza che la teoria l’abbia previsto, diventano ogni giorno e con moto irresistibile, compito di Governo, non è e non può essere, come la Divinità da dove emana, checché si sia detto, altro che una ipotesi, una finzione.

Ed essendo impossibile che il principe e gl’interessi che ha la missione di patrocinare consentano a piegarsi e annientarsi innanzi ai princìpi che novellamente emergono e ai diritti nuovi che si piantano lì, segue che il progresso, dopo essersi compiuto negli animi con moto irresistibile, si effettua nella società per via di scosse, e la forza, malgrado le calunnie che le si addossano, è pur sempre la condizione sine qua non delle riforme. Ogni società nella quale la potenza d’insurrezione è compressa, è una società morta per il progresso: non c’è nella storia verità meglio provata.

Ciò che dico delle monarchie costituzionali è vero anche delle monarchie rappresentative; da per tutto il patto sociale ha vincolato il potere e paralizzato la vita senza che fosse possibile al legislatore accorgersi che il suo lavoro contrastava il suo intento o di procedere in altro modo. Deplorevoli attori delle commedie parlamentari, monarchi e rappresentanti, ecco dunque quel che voi siete: talismani contro l’avvenire! Ogni anno vi reca le doglianze del popolo e quando vi si chiede il rimedio, la vostra sapienza si copre il volto! Se si tratta di sostenere il privilegio, cioè la consacrazione del diritto del più forte che vi ha creati e tutti i giorni muta, ecco che al minimo cenno del vostro capo si agita e corre alle armi e si ordina in battaglia una milizia numerosa. E quando il popolo si lamenta che, malgrado il suo lavoro, e precisamente a causa del suo lavoro, è divorato dalla miseria, quando la società vi chiede i mezzi per vivere, voi gli recitate un atto di misericordia! Tutta la vostra energia è per l’immutabilità, tutta la vostra virtù svanisce in aspirazioni! Come il fariseo, invece di sostentare vostro padre, voi pregate per lui! Possediamo il segreto della vostra missione: voi esistete solo per impedirci di vivere. Nolite ergo imperare, andatevene! In quanto a noi che consideriamo sotto un punto di vista ben diverso la missione del potere, e vogliamo che il compito speciale del Governo sia precisamente d’esplorare l’avvenire, cercare il progresso, procurare a tutti libertà, uguaglianza, salute e ricchezza, continuiamo con coraggio l’opera nostra di critica, ben sicuri, quando avremo svelata la causa del malessere della società, il principio delle sue febbri, il motivo delle sue agitazioni, che non ci mancherà la forza per applicare il rimedio.

1. – Ufficio delle macchine nel loro rapporto con la libertà

L’introduzione delle macchine nell’industria avviene in opposizione alla legge di divisione e quasi per ristabilire l’equilibrio profondamente compromesso da codesta legge. Per valutare bene questo movimento e coglierne lo spirito, diventano necessarie alcune considerazioni generali.

I filosofi moderni, dopo avere raccolto e classificato i loro annali, sono stati condotti dalla natura dei loro lavori a occuparsi anche di storia e allora, non senza sorpresa, si sono accorti che la storia della filosofia era in fondo la stessa cosa che la filosofia della storia; di più, che questi due rami della speculazione, in apparenza tanto diversi, la storia della filosofia e la filosofia della storia non erano poi altro che l’apparato scenico dei concetti della metafisica, la quale è tutta la filosofia.

Ora, se si divide la materia della storia universale in un certo numero di categorie, come le matematiche, la storia naturale, l’economia sociale, ecc., si troverà che ognuna di queste divisioni contiene anche la metafisica. E sarà lo stesso fino all’ultima suddivisione della totalità della storia; così l’intera filosofia sta in fondo a qualsiasi manifestazione naturale o industriale, senza riguardo a grandezze o qualità. Per innalzarsi ai suoi più sublimi concetti si possono adoperare con uguale successo tutti i paradigmi e incontrandosi tutti i postulati della ragione nella più modesta industria così come nelle scienze più generali per fare di qualunque artigiano un filosofo, cioè una mente generalizzatrice e sommamente sintetica basterebbe insegnargli – cosa? – la sua professione.

Finora, è vero, la filosofia, come la ricchezza, è stata riservata per certe caste: noi abbiamo la filosofia della storia, la filosofia del diritto e alcune altre filosofie ancora; è una specie di appropriazione che, al pari di altre molte d’uguale origine, deve scomparire. Ma per eseguire codesta immensa equazione bisogna cominciare dalla filosofia del lavoro; dopo ogni lavoratore potrà mettere mano, a sua volta, alla filosofia del proprio stato.

Essendo dunque ogni prodotto d’arte o d’industria, ogni costituzione, politica e religiosa, ogni creatura organica o inorganica nulla più che una realizzazione, un’applicazione naturale o pratica della filosofia, è dimostrata l’identità delle leggi della natura e della ragione, dell’essere e dell’idea. E quando da parte nostra affermiamo la costante conformità dei fenomeni economici con le leggi pure del pensiero, l’equivalenza del reale e dell’ideale nei fatti umani, non facciamo altro se non ripetere in un caso particolare questa eterna dimostrazione. Che diciamo infatti?

Per determinare il valore, ossia, in altre parole, per organizzare nel proprio seno la produzione e la distribuzione delle ricchezze, la società procede esattamente come la ragione nel generare i concetti. Dapprima pone un primo fatto, emette una prima ipotesi, la divisione del lavoro, vera antinomia, i cui risultati antagonistici si sviluppano nell’economia sociale, nella stessa maniera in cui le conseguenze avrebbero potuto dedursi nello spirito; di modo che il movimento industriale, seguendo, in tutto, le deduzione delle idee, si divide in una doppia corrente: l’una d’effetti utili, l’altra di risultati sovversivi, tutti però necessari e legittimi prodotti della medesima legge. Per costituire armonicamente questo principio a doppia faccia e risolvere codesta antinomia, la società ne fa sorgere una seconda, la quale sarà ben presto seguita da una terza, e così procederà il cammino del genio sociale, fino a che, esaurite tutte le sue contraddizioni – suppongo, ma non è provato, che la contraddizione nell’umanità abbia un termine – torni di un tratto su tutte le sue posizioni anteriori e, con una sola formula, risolva tutti i suoi problemi.

Seguendo nella nostra esposizione questo metodo dello sviluppo parallelo della realtà e dell’idea, abbiamo un doppio vantaggio: dapprima quello di sfuggire alla taccia di materialismo, così spesso data agli economisti, per i quali i fatti sono verità per ciò solo che sono fatti e fatti materiali. Per noi, al contrario, i fatti non sono materia, perché non sappiamo cosa voglia dire la parola materia, bensì manifestazioni visibili d’idee invisibili. A questo titolo i fatti provano soltanto secondo la misura delle idee che rappresentano: ed ecco perché abbiamo rigettato come illegittimi e non definitivi il valore d’uso e il valore di scambio e poi la stessa divisione del lavoro, benché per gli economisti fossero dotati di un’autorità assoluta.

In secondo luogo non ci si può accusare di spiritualismo, idealismo o misticismo; perché, non ammettendo come punto di partenza altro che la manifestazione esteriore dell’idea, idea da noi ignorata, che non esiste fino a che non si riflette, come la luce che non sarebbe nulla se il sole esistesse in un vuoto infinito; rigettando ogni a priori teogonico e cosmogonico, ogni indagine sulla sostanza, sulla causa, sul me e non-me, ci limitiamo a ricercare le leggi dell’essere e a seguire il sistema dalle sue apparenze fino al punto che la ragione può toccare.

Senza dubbio, andando al fondo, ogni cognizione s’arresta dinanzi a un mistero: tali sono, per esempio, la materia e lo spirito, che noi ammettiamo come due essenze incognite, alla base di tutti i fenomeni. Ma ciò non significa che il mistero sia il punto di partenza della cognizione, né il misticismo la condizione necessaria della logica. Al contrario, la spontaneità della nostra ragione tende a respingere perpetuamente il misticismo, essa protesta a priori contro ogni mistero, perché il mistero non serve ad altro che ad essere negato dalla ragione, e la negazione del misticismo è la sola cosa per la quale la ragione non abbia bisogno d’esperienza.

Insomma, i fatti umani sono l’incarnazione delle idee umane; dunque studiare le leggi dell’economia sociale è fare la teoria delle leggi della ragione e creare la filosofia. Ora possiamo proseguire il corso delle nostre ricerche.

Abbiamo lasciato, nel capitolo precedente, il lavoratore alle prese con le leggi della divisione: come si regolerà questo indefesso Edipo per risolvere l’enigma?

Nella società la comparsa continua delle macchine è l’antitesi, la formula inversa della divisione del lavoro; è la protesta del genio industriale contro il lavoro parcellare e omicida. Cos’è infatti una macchina? Un modo di riunire diverse particelle del lavoro che la divisione aveva separate. Qualunque macchina può essere definita così: un riassunto di più operazioni, una semplificazione d’impulsi, un condensamento di lavoro, una riduzione di spese. Sotto tutti questi rapporti la macchina è la controparte della divisione. Dunque con la macchina vi sarà restaurazione del lavoratore parcellare, diminuzione di fatica per l’operaio, ribasso di prezzo nei prodotti, movimento nel rapporto dei valori, progresso verso nuove scoperte, aumento del generale benessere.

Come la scoperta di una formula conferisce una nuova potenza al geometra, così l’invenzione di una macchina è un abbreviamento di mano d’opera che moltiplica la fòrza del produttore, e si può credere che l’antinomia della divisione del lavoro, se non interamente vinta, sarà bilanciata e neutralizzata. Bisogna leggere nel corso di Chevalier gl’innumerevoli vantaggi che derivano alla società dall’uso delle macchine: è un quadro sorprendente, al quale mi piace rinviare il lettore.

Le macchine, collocandosi nell’economia politica in un punto di vista contraddittorio alla divisione del lavoro, rappresentano la sintesi che nello spirito umano si oppone all’analisi. E, come lo si vedrà adesso – nella divisione del lavoro e nelle macchine è già data tutta intera, così con l’analisi e con la sintesi si ha tutta la logica, tutta la filosofia. L’uomo che lavora procede necessariamente e via via per divisione e con l’aiuto di strumenti. Similmente chi ragiona fa, necessariamente, uso via via dell’analisi e della sintesi, e di nulla più che questo. Né il lavoro e la ragione andranno mai oltre: Prometeo, come Nettuno, in tre passi è in capo al mondo.

Da questi princìpi luminosi e semplici al pari di assiomi si deducono conseguenze di gran peso.

Come nella operazione intellettuale l’analisi e la sintesi sono essenzialmente inseparabili e, d’altra parte la teoria diviene legittima solo a condizione di seguire passo passo l’esperienza, segue che il lavoro, riunendo l’analisi e la sintesi, la teoria e l’esperienza in un’azione continua e, come forma esteriore della logica, riassumendo la realtà e l’idea, ci appare di nuovo come modo universale d’insegnamento. Fit fabricando faber: il più assurdo di tutti i sistemi d’educazione è quello che separa l’intelligenza dall’attività e scinde l’uomo in due entità impossibili, uno che astrae e un automa. Ecco perché applaudiamo alle giuste lagnanze di Chevalier, di Dunoyer e di tutti coloro che invocano la riforma dell’insegnamento universitario; ed ecco ancora su che poggia la fiducia che noi abbiamo nei risultati di codesta riforma. Se l’educazione fosse soprattutto sperimentale e pratica, riservando il discorso a spiegare, riassumere e coordinare il lavoro, se fosse concesso di apprendere con gli occhi e con le mani a chi non può con l’immaginazione e la memoria, si vedrebbero ben presto moltiplicarsi insieme alle forme del lavoro le attitudini. Sapendo ognuno la teoria di qualche cosa, conoscerebbe per ciò stesso la lingua filosofica, potrebbe all’occorrenza, fosse anche solo una volta in tutta la sua vita, creare, modificare, perfezionare, far prova d’intelligenza e di comprensione, produrre il suo capolavoro, mostrarsi uomo insomma. L’ineguaglianza degli acquisti della memoria non muterebbe in nulla l’equivalenza delle facoltà, e il genio non ci sembrerebbe più quel che è realmente, la salute dello spirito.

I belli ingegni del secolo decimottavo disputarono lungamente su ciò che sia il genio, in che differisca dal talento, cosa si debba intendere per spirito, ecc. Avevano trasportato nella sfera intellettuale le medesime distinzioni che nella società separano le persone. C’erano per loro geni re e dominatori, geni prìncipi, geni ministri, poi ancora spiriti gentiluomini e spiriti borghesi, talenti cittadini e talenti campagnoli. Al basso della scala stava la folla grossolana della gente addetta alle industrie, anime appena sbozzate, escluse dalla gloria degli eletti.

Tutte le retoriche sono ancora piene di queste impertinenze che l’interesse monarchico, la vanità dei letterati e l’ipocrisia socialista si sforzano di accreditare per mantenere la perpetua schiavitù delle nazioni e l’ordine delle cose.

Ma se è dimostrato che tutte le operazioni dello spirito si riducono a due, analisi e sintesi, necessariamente inseparabili, sebbene distinte; se per inevitabile conseguenza, malgrado l’infinita varietà dei lavori e degli studi, la mente ricomincia sempre la medesima tela, l’uomo di genio non è altro che un uomo di buona costituzione, che ha lavorato molto, molto meditato, molto analizzato, paragonato, classificato, riassunto e concluso; mentre l’essere limitato che si rannicchia in inveterate pratiche endemiche, invece di sviluppare le proprie facoltà, ha ucciso la propria intelligenza con l’inerzia e l’automatismo. È cosa assurda il distinguere come diversificante per natura ciò che in realtà differisce solo per l’età, poi di mutare in privilegio ed esclusione i diversi gradi di uno sviluppo o gli azzardi di una spontaneità, che, grazie al lavoro e l’educazione, devono di giorno in giorno svanire.

I retori psicologici, che hanno classificato le anime umane in dinastie, razze nobili, famiglie borghesi e proletariato, avevano osservato tuttavia come il genio non fosse universale e avesse la sua specialità; in conseguenza, Omero, Platone, Fidia, Archimede, Cesare, ecc., i quali tutti parevano loro primi ognuno nel suo genere, furono da essi dichiarati uguali e sovrani di regni separati. Che inconseguenza! Come se la specialità del genio non rivelasse la legge stessa dell’eguaglianza delle intelligenze! come se, d’altra parte, la costanza del successo nel prodotto del genio non provasse che opera secondo princìpi a lui estranei, che sono pegno della perfezione delle sue opere, tanto li segue con fedeltà e sicurezza! Questa apoteosi del genio, sognata a occhi aperti da uomini, le cui ciarle rimarranno sempre sterili, farebbe credere alla innata stupidità della maggioranza dei mortali, se non fosse la prova palmare della loro perfettibilità.

Così il lavoro, dopo avere diversificato le attitudini e preparato il loro equilibrio grazie alla divisione delle industrie, completa, se così mi è lecito dire, l’armamento delle intelligenze con le macchine. Stando alla testimonianza della storia, del pari che in base all’analisi e nonostante le anomalie cagionate dall’antagonismo dei princìpi economici, l’intelligenza si diversifica negli uomini non per potenza, nettezza ed estensione; ma, in primo luogo per specialità, o, come dicono le scuole, per determinazione qualitativa; in secondo luogo per esercizio e educazione. Dunque, per l’individuo, come per l’uomo collettivo, l’intelligenza è piuttosto una facoltà che viene, si forma, si sviluppa, quae fit, anzi che una entità o entelechia che esiste tutta formata anteriormente al tirocinio. La ragione, o con qualunque altro nome si designi, genio, talento, industria è al punto di partenza una virtualità nuda e inerte che a poco a poco ingrandisce, si fortifica, si colorisce, si determina e varia all’infinito. Per l’importanza dei suoi acquisti, per il suo capitale insomma, l’intelligenza varia e varierà sempre da un individuo all’altro; ma come potenza, uguale originariamente in tutti, il progresso sociale consisterà nel renderla, perfezionando continuamente i suoi mezzi, uguale in tutti. Senza ciò il lavoro rimarrebbe per gli uni un privilegio, per gli altri una punizione.

Ma l’equilibrio delle attitudini, del quale abbiamo visto il preludio nella divisione del lavoro, non compie tutto il destino delle macchine, e le mire della Provvidenza vanno assai più in là. Con l’introduzione delle macchine nell’economia è dato l’impulso alla libertà.

La macchina è il simbolo della libertà umana, il segno del nostro dominio sulla natura, l’attributo della nostra potenza, l’espressione del nostro diritto, l’emblema della nostra personalità. Libertà, intelligenza, ecco tutto l’uomo. Se noi scartiamo come mistica e inintelligibile ogni speculazione sull’essere umano considerato dal punto di vista della sostanza (spirito o materia), ci rimangono soltanto due categorie di manifestazioni che comprendono, la prima tutto quanto chiamiamo sensazioni, volizioni, passioni, attrazioni, istinti, sentimenti; l’altra tutti i fenomeni classificati sotto i nomi di attenzione, percezione, memoria, immaginazione, paragone, giudizio, raziocinio, ecc. Quanto all’apparecchio organico, ben lungi dall’essere esso il principio o la base di questi due ordini di facoltà, lo si deve considerare come la realizzazione sintetica dei medesimi, l’espressione viva e armonica. Come dalla emissione che nei secoli l’umanità avrà fatta dei suoi princìpi antagonisti, deve un giorno risultare l’organizzazione sociale, così l’uomo deve del pari essere considerato come il risultato di due serie di virtualità.

Dunque, dopo essersi affermata come logica, l’economia sociale, proseguendo l’opera sua, prende aspetto di psicologia. L’educazione dell’intelligenza e della libertà, in una parola, il benessere dell’uomo, espressioni tutte perfettamente sinonime, ecco lo scopo comune dell’economia politica e della filosofia. Determinare le leggi della produzione e della distribuzione della ricchezza significa dimostrare con una esposizione obiettiva e concreta le leggi della ragione e della libertà; significa creare a posteriori la filosofia e il diritto. Ovunque ci volgiamo siamo in piena metafisica.

Tentiamo ora con i dati riuniti della psicologia e dell’economia politica di definire la libertà.

Se è lecito concepire la ragione umana alla sua origine come un atomo lucido e riflettente, capace di rappresentare un giorno l’universo, ma al primo istante vuoto di qualsiasi immagine; si può anche considerare la libertà al sorgere della coscienza come un punto vivo, punctum saliens, una spontaneità vaga, cieca o piuttosto indifferente e capace di ricevere tutte le impressioni, disposizioni e inclinazioni possibili. La libertà è la facoltà di agire e di non agire, la quale per una scelta o determinazione (adopero questa parola nel senso passivo e nel senso attivo nello stesso tempo) qualsiasi, esce dalla sua indifferenza e diviene volontà.

Dico dunque che la libertà, al pari dell’intelligenza, è di sua natura una facoltà indeterminata, informe, che trae valore e carattere dalle impressioni esteriori, facoltà per conseguenza negativa nell’inizio, ma che poco a poco si determina e si disegna con l’esercizio, con l’educazione.

L’etimologia, almeno come io la intendo, della parola libertà farà meglio capire il mio pensiero. La radice è lib-et, piace (cfr. tedesco: lieben, amare); da dove s’è fatto lib-eri, figli, quelli che ci sono cari, nome riservato ai figli del padre di famiglia; lib-ertas, condizione, carattere o inclinazione di fanciulli di prosapia nobile; lib-ido, passione da schiavo che non riconosce né Dio né legge né patria, sinonimo di licentia, cattiva condotta. Secondo che la spontaneità si determina utilmente, generosamente o in bene, la si è chiamata libertas; al contrario, quando si determina in maniera nociva, viziosa e vile, in male, la si chiama libido.

Un dotto economista, Dunoyer, ha dato una definizione della libertà, che, ravvicinata alla nostra, finirà per dimostrarne l’esattezza: “Chiamo libertà il potere che l’uomo acquista di usare delle proprie forze più facilmente, a misura che si affranca dagli ostacoli che ne impacciavano originariamente l’esercizio. Dico che egli è tanto più libero, quanto più è liberato dalle cause che gli impedivano di servirsene, più lungi ha rimosso da sé codeste cause, più ha ingrandita e svincolata la sfera della propria azione... Così si dice che un uomo ha la mente libera, gode di una gran libertà di spirito, non solo quando la sua intelligenza non è turbata da alcuna violenza esteriore, ma ancora quando essa non è oscurata dalla ubriachezza né alterata da malattia né impotente per mancanza d’esercizio”.

Dunoyer considera qui il solo aspetto negativo della libertà, cioè la riguarda come se fosse sinonimo di affrancamento dagli ostacoli. Intesa così la libertà, non sarebbe una facoltà dell’uomo, non sarebbe nulla. Ma ben presto Dunoyer, pur persistendo nella sua incompleta definizione, coglie il vero lato della cosa, ed è quando gli accade di dire che l’uomo inventando una macchina, aiuta la propria libertà, non perché, come diciamo noi, la determina, ma, secondo lo stile di Dunoyer, perché toglie ad essa una difficoltà; “Così la favella articolata è strumento migliore della favella per segni; si è dunque più liberi d’esprimere il proprio pensiero e d’imprimerlo nella mente altrui con la parola e non con i gesti. La parola scritta è uno strumento più potente della parola articolata; si è dunque più liberi di agire sulla mente dei propri simili quando si sa rappresentare la parola agli occhi, che quando la si sa solamente articolare. La stampa è uno strumento due o trecento volte più potente della penna; si è dunque due o trecento volte più liberi d’entrare in rapporto con gli altri uomini quando si è in grado di diffondere le proprie idee con la stampa che quando non si può altrimenti pubblicarle se non per scrittura”.

Non metterò in rilievo tutto quel che c’è d’inesatto e d’illogico in questo modo d’intendere la libertà. Dopo Destutt de Tracy, ultimo rappresentante della filosofia di [Étienne de] Condillac, lo spirito filosofico s’è annebbiato tra gli economisti della scuola francese; la paura dell’ideologia ha pervertito il loro linguaggio, e leggendo le loro opere si scorge che l’adorazione del fatto li conduce a perdere persino il sentimento della teoria. Preferisco meglio accertare che Dunoyer, e l’economia politica con lui, non si è ingannato sull’essenza della libertà, forza, energia o spontaneità indifferente per sé a ogni azione e per conseguenza ugualmente suscettibile di qualsiasi determinazione, buona o cattiva, utile o nociva. Dunoyer ha sospettato il vero quando ha scritto: “Invece di considerare la libertà come un dogma, la presenterò come un risultato; invece di farne l’attributo dell’uomo, ne farò l’attributo della civiltà; invece d’immaginare le forme di Governo adatte a stabilirla, esporrò nel modo che potrò meglio come essa nasca da tutti i nostri progressi”. Poi soggiunge non meno a proposito: “Si noterà quanto questo metodo differisca da quello dei filosofi dogmatici, i quali parlano soltanto di diritti e di doveri, di ciò che i governi hanno il dovere di fare e le nazioni il diritto di esigere, ecc. Io non sentenzio apoditticamente: gli uomini hanno il diritto d’essere liberi; mi limito a chiedere: come accade che lo siano?”.

Da quel che abbiamo esposto si può desumere la natura del libro di Dunoyer: rassegna degli ostacoli che impacciano la libertà, e dei mezzi (strumenti, metodi, idee, costumi, religioni, governi, ecc.) che la favoriscono. Se non fossero le omissioni, l’opera di Dunoyer sarebbe riuscita la vera filosofia dell’economia politica.

Dopo avere sollevato il problema, ci dà una definizione conforme in ogni punto a quella che dà la psicologia e suggeriscono le analogie del linguaggio: ed ecco in qual modo a poco a poco lo studio dell’uomo si trova trasportato dalla contemplazione del me all’osservazione delle realtà.

Ora, nello stesso modo che le determinazioni della ragione nell’uomo ebbero il nome d’idee (idee sommarie, supposte a priori, ossia princìpi, concetti, categorie; e idee secondarie o più specialmente acquisite ed empiriche), parimenti le determinazioni della libertà hanno ricevuto il nome di volizioni, sentimenti, abitudini, costumi. Poi continuando il linguaggio, figurativo per sua natura, a fornire gli elementi della psicologia prima, si è presa l’abitudine di assegnare alle idee, come luogo o capacità in cui risiedono, l’intelligenza; e alle volizioni, sentimenti, ecc., la coscienza. Tutte queste astrazioni sono state per lungo tempo prese dai filosofi per altrettante realtà, e nessuno s’accorgeva che qualunque distribuzione delle facoltà dell’anima è necessariamente opera di fantasia e che la loro psicologia era una fantasmagoria.

A ogni modo, se noi ora consideriamo questi due ordini di determinazioni, la ragione e la libertà, come riuniti e fusi dalla organizzazione in una persona viva, ragionevole e libera, intenderemo subito com’essi debbano prestarsi un mutuo aiuto e influire ciascuno sull’altro. Se per errore o inavvertenza della ragione, la libertà, cieca per sua natura, prende una falsa e funesta abitudine, la ragione non tarderà anche essa a risentirne. Invece d’idee vere, conformi ai rapporti naturali delle cose, essa assorbirà pregiudizi tanto più difficili a sradicare più tardi per opera dell’intelligenza, in quanto essi saranno diventati nel corso dell’età più cari alla coscienza. In questo stato la ragione e la libertà sono menomate; la prima è turbata nel suo sviluppo, la seconda è compressa nel suo slancio, e l’uomo è traviato, cioè è nello stesso tempo malvagio e sventurato.

Quando in seguito a una percezione contraddittoria e a una incompleta esperienza, la ragione ebbe sentenziato per bocca degli economisti che non era una regola del valore e che la legge del commercio era l’offerta e la domanda, la libertà si lasciò trascinare dalla foga dell’ambizione, dell’egoismo, del gioco; il commercio è diventato un’alea, sottomessa a certe norme di polizia; la miseria è scaturita dalle fonti della ricchezza; il socialismo, schiavo esso stesso delle abitudini formali, non ha saputo fare altro che protestare contro gli effetti, invece di insorgere contro le cause; e la ragione ha dovuto riconoscere, allo spettacolo di tanti mali, che aveva sbagliato strada.

L’uomo non può giungere al benessere se non in quanto la sua ragione e la sua libertà, non solo procedano concordi, ma ancora non si fermino giammai nel loro sviluppo. Ora, siccome il progresso della libertà, del pari che quello della ragione, è indefinito, e per altro queste due potenze sono intimamente legate e solidali, bisogna concludere che la libertà è tanto più perfetta, quanto più si determina in conformità alle leggi della ragione che sono poi quelle delle cose, e che se la ragione fosse infinita, la libertà anche essa diverrebbe infinita. In altri termini, la pienezza della libertà è nella pienezza della ragione: Summa lex, summa libertas.

Questi preliminari erano indispensabili per valutare bene l’ufficio delle macchine e porre in rilievo il concatenamento delle evoluzioni economiche. A questo proposito rammenterò al lettore che noi non scriviamo una storia secondo l’ordine di tempo, ma secondo la successione delle idee. Le fasi o categorie economiche sono nella loro manifestazione ora contemporanee, ora invertite, e da ciò viene l’estrema difficoltà che hanno provata sempre gli economisti a sistemare le loro idee; da ciò il caos dei loro libri, anche i più considerevoli sotto ogni rapporto, come quelli di A. Smith, Ricardo e J.-B. Say. Ma le teorie economiche hanno e mantengono la loro successione logica e la loro serie nell’intendimento. Quest’ordine noi ci lusinghiamo di scoprire, e perciò l’opera presente sarà simultaneamente una filosofia e una storia.

2. – Contraddizione delle macchine. Origine del capitale e del salariato

Per il fatto stesso che le macchine diminuiscono la fatica dell’operaio, esse abbreviano e diminuiscono il lavoro, in modo che diventa di giorno in giorno sempre più offerto e meno richiesto. A poco a poco, è vero, la riduzione dei prezzi fa aumentare il consumo, onde la proporzione si ristabilisce e il lavoratore è richiamato all’officina. Ma siccome i perfezionamenti industriali si succedono senza posa e tendono continuamente a sostituire l’operazione meccanica al lavoro dell’uomo, segue la tendenza costante a eliminare una parte del servizio e quindi ad allontanare dalla produzione i lavoratori. Ora, accade nell’ordine economico quel che è nell’ordine spirituale: fuori della chiesa non c’è salvezza; fuori del lavoro non c’è sussistenza. La società e la natura, del pari spietate, sono d’accordo per eseguire questo nuovo decreto.

“Quando una nuova macchina, o, in generale, un procedimento spiccio qualsiasi, dice J.-B. Say, rimpiazza un lavoro umano già in attività, una parte delle braccia industriose, il cui servizio viene utilmente supplito, rimane inoperosa. – Una macchina nuova rimpiazza dunque il lavoro di una parte dei lavoratori, ma non diminuisce la quantità delle cose prodotte; perché allora non la si adotterebbe; essa sposta il reddito. Ma l’effetto ulteriore è a tutto vantaggio delle macchine; dacché, se l’abbondanza del prodotto e la modicità del prezzo di costo fanno ribassare il valore venale, il consumatore, cioè ogni persona, ne profitterà”.

L’ottimismo di Say è una infedeltà alla logica e ai fatti. Non trattasi qui soltanto di un piccolo numero di accidenti, che si siano manifestati nel corso di trenta secoli a causa dell’introduzione di una, due o tre macchine; si tratta di un fenomeno regolare, costante e generale. Dopo che il reddito fu spostato, come dice Say, da una macchina, lo è da un’altra e poi ancora da un’altra e così di seguito, fino a che rimanga da fare un lavoro o effettuare scambi. Ecco come il fenomeno deve essere presentato e considerato; ma allora conveniamo che esso muta singolarmente di aspetto. Lo spostamento del reddito, la soppressione del lavoro e del salario è un flagello cronico, permanente, indelebile, una specie di colera che ora appare sotto la figura di Gutenberg, poi prende quella di [Richard] Arkwright; qui lo si chiama [Joseph-Marie] Jacquard, più in là James Watt o [Théodore] marchese di Jouffroy. Dopo avere infierito più o meno lungamente sotto una forma, il mostro ne assume un’altra; e gli economisti, che lo credono partito, si mettono a gridare: non era niente! Tranquilli e soddisfatti, pur di potere insistere con tutto il peso della loro dialettica sul lato positivo della questione, chiudono gli occhi sul lato sovversivo, salvo quando sentono parlare di miseria, ricominciano i loro sermoni sull’imprevidenza e l’ubriachezza dei lavoratori.

Nel 1750 – è una osservazione di Dunoyer e dà la misura di tutte le elucubrazioni della stessa specie: – “nel 1750 dunque la popolazione del Ducato di Lancaster era di 300.000 anime. Nel 1801, grazie allo sviluppo delle macchine da filare, codesta popolazione era di 672.000 anime. Nel 1831 era di 1.336.000 anime. Invece di 40.000 operai occupati dapprima nell’industria cotoniera, se ne contano, dopo l’invenzione delle macchine, 1.500.000”.

Dunoyer soggiunge che nel tempo in cui il numero degli operai addetti a questo lavoro prese questo singolare sviluppo, il prezzo del lavoro diventò una volta e mezzo più considerevole. Non avendo dunque la popolazione fatto altro che seguire il movimento industriale, il suo accrescimento è stato un fatto normale e incensurabile; che dico? un fenomeno felicissimo, perché lo si cita a onore e gloria dello sviluppo meccanico. Ma, di un tratto, Dunoyer fa un voltafaccia; essendo ben presto mancato il lavoro a questa moltitudine di congegni filatori, il salario dovette necessariamente decrescere: la popolazione aumentata dalle macchine si trova immiserita dalle macchine, e Dunoyer esclama: l’abuso del matrimonio è la causa della miseria.

Il commercio inglese, sollecitato dalla sua immensa clientela, richiama operai da tutte le parti e spinge al matrimonio; fino a che il lavoro abbonda, il matrimonio è una cosa eccellente di cui si ama additare gli effetti nell’interesse delle macchine; ma, siccome la clientela è oscillante, non appena il lavoro e il salario mancano, si grida all’abuso del matrimonio, si accusa d’imprevidenza gli operai. L’economia politica, cioè il dispotismo proprietario, non può mai avere torto: la colpa deve essere del proletariato.

L’esempio della stampa è stato citato molte volte, sempre nel senso ottimista. Il numero delle persone che vive oggi con la fabbricazione dei libri è forse mille volte maggiore che non fosse quello dei copisti e dei miniatori prima di Gutenberg; dunque, si conclude con aria soddisfatta, l’arte tipografica non ha danneggiato nessuno. Fatti analoghi potrebbero prodursi all’infinito, senza che se ne possa ricusare uno solo, ma la questione non avrebbe fatto un solo passo. Ancora una volta: nessuno contesta che le macchine abbiano contribuito al benessere generale: ma io affermo, riguardo questo fatto inconfutabile, che gli economisti negano la verità quando assicurano in modo assoluto che la semplificazione dei procedimenti tecnici non produsse in nessun luogo il risultato di diminuire il numero delle braccia addette a una qualunque industria. Ciò che gli economisti dovrebbero dire è che le macchine, al pari della divisione del lavoro, sono nello stesso tempo nel presente sistema di economia sociale una fonte di ricchezza e una causa permanente e fatale di miseria.

“Nel 1836 in un opificio di Manchester, nove telai, ciascuno di trecentoventiquattro fusi, erano serviti da quattro filatori. In seguito si raddoppiò la lunghezza delle slitte (chariots), facendo sostenere da ogni slitta seicentottanta fusi, e due uomini bastarono a dirigerli”.

Ecco nudo e crudo il fatto dell’eliminazione dell’operaio a causa della macchina. Con una semplicissima combinazione due operai su quattro sono messi fuori: cosa importa che tra cinquant’anni, raddoppiata la popolazione del globo, quadruplicata la clientela dell’Inghilterra, costruite nuove macchine, gli industriali inglesi riprendano i loro operai? Gli economisti intendono rifarsi, a favore delle macchine, dell’aumento della popolazione? Rinuncino allora alla teoria di Malthus e smettano di declamare contro l’eccessiva fecondità dei matrimoni.

“Non finì là: ben presto un nuovo perfezionamento meccanico permise di far eseguire da un solo operaio il lavoro che prima ne richiedeva quattro”. Nuova riduzione di tre parti sulla mano d’opera; in complesso, riduzione di quindici sedicesimi sul lavoro dell’uomo.

Un fabbricante di Bolton scrive: “L’allungamento delle slitte dei nostri telai ci permette di adoperare ventisei filatori dove ne occorrevano trentacinque nel 1837”. – Altra decimazione dei lavoratori; una vittima su quattro.

Questi fatti sono presi dalla “Revue d’economie politique” del 1842; e non c’è chi non possa aggiungerne altri analoghi: io ho assistito all’introduzione dei torchi a macchina nelle tipografie e posso dire di aver visto con gli occhi miei il danno sofferto dagli stampatori. Da quindici o vent’anni, il tempo appunto che è decorso dall’introduzione di codesta macchina, una parte degli operai s’è applicata alla composizione, altri hanno lasciato il mestiere, molti sono morti di miseria; è in tal modo che si opera la rifusione dei lavoratori per effetto delle innovazioni industriali. Vent’anni or sono, ottanta equipaggi a cavalli facevano il servizio della navigazione da Beaucaire a Lione: tutto ciò è scomparso innanzi a una ventina di piroscafi. Certo, il commercio ha guadagnato; ma cos’è diventata questa popolazione marinaia! s’è forse trasportata dai battelli nei piroscafi? No: è andata dove vanno le industrie spostate, s’è dispersa. Del resto, i documenti che seguono, tratti dalla medesima fonte, daranno una idea più positiva dell’influenza dei perfezionamenti industriali sulle sorti degli operai.

“La media dei salari settimanali a Manchester è franchi 12,50 (10 scellini). Su 450 operai non ce n’è una quarantina che guadagnino 25 franchi”. L’autore dell’articolo ha cura di rimarcare che un inglese consuma cinque volte più di un francese; è dunque come se un operaio francese dovesse vivere con 2 franchi e 50 centesimi la settimana.

“The Edinburg Review”, 1835. “La slitta di Sharp e Robert di Manchester è dovuta a una coalizione di operai, che non volevano accettare una riduzione di salario, e codesta invenzione ha punito severamente gli imprudenti coalizzati”. – Ci vorrebbe proprio una pena per quel “punito”! L’invenzione di Sharp e Robert di Manchester doveva nascere dalla situazione delle cose; il rifiuto degli operai a subire la riduzione di salario è stato unicamente l’occasione che ne ha determinata la comparsa. Non si direbbe, al tuono di vendetta che piglia “The Edinburg Review”, che le macchine abbiano un effetto retroattivo?

Un industriale inglese: “L’insubordinazione di molti operai ci ha fatto pensare a fare a meno di loro. Abbiamo fatto e provocato tutti gli sforzi immaginabili dell’intelligenza per sostituire ai servizi dell’uomo strumenti più docili, e vi siamo riusciti. La meccanica ha liberato il capitale dell’oppressione del lavoro. Ovunque ancora impieghiamo un uomo, lo facciamo soltanto in via provvisoria, aspettando che s’inventi il mezzo di far gli affari nostri senza di lui”.

Che razza di sistema è questo in cui un negoziante è portato a deliziarsi nel pensiero che la società potrà ben presto fare a meno degli uomini! La meccanica ha liberato il capitale dall’oppressione del lavoro! È proprio come se il ministero si mettesse a liberare il bilancio dall’oppressione dei contribuenti. Insensati! Se gli operai vi costano, essi sono pur quelli che comprano da voi: cosa ne farete dei vostri prodotti, quando gli operai scacciati non consumeranno più? Così il contraccolpo delle macchine, dopo aver schiacciato gli operai, non tarda a toccare i padroni; perché, quando la produzione esclude il consumo, è ben presto essa stessa costretta a fermarsi.

“Durante il quarto trimestre del 1841, quattro grossi fallimenti, avvenuti in una città manifatturiera dell’Inghilterra, posero sul lastrico 1.720 persone”. – Questi fallimenti avevano per causa l’ingorgo della produzione il che significa l’insufficienza degli sbocchi o le strettezze del popolo. Che peccato che la meccanica non possa liberare il capitale dall’oppressione dei consumatori! Che peccato che le macchine non comprino i tessuti da loro stesse fabbricati! Sarebbe l’ideale della società se il commercio, l’agricoltura e l’industria potessero andare senza che vi fosse un sol uomo sulla terra! “In una parrocchia della contea di York gli operai da nove mesi in qua lavorano non più di due giorni la settimana”. – Macchine. “A Geston due fabbriche, valutate 60.000 sterline, si sono vendute per 26.000. Esse producevano più di quanto potessero vendere”. – Macchine! “Nel 1841 il numero dei fanciulli al disopra dei tredici anni è scemato nelle manifatture, perché il loro posto è preso da fanciulli d’età inferiore” – Macchine.

L’operaio adulto torna apprendista, garzone; il risultato era previsto sin dalla fase della divisione del lavoro, durante la quale abbiamo visto la qualità dell’operaio scadere a misura che l’industria si perfeziona.

Terminando, il giornalista fa questa riflessione: “Dopo il 1836 l’industria cotoniera è andata indietro”; – cioè essa non è più in rapporto con le altre industrie: altro risultato previsto dalla teoria della proporzionalità dei valori.

Oggi le coalizioni e gli scioperi degli operai sembrano cessati in tutta l’Inghilterra, e gli economisti si rallegrano con ragione di questo ritorno all’ordine e, diciamolo pure, al buon senso. Ma da ciò che gli operai non aggiungeranno più ormai, almeno amo sperarlo, la miseria dei loro scioperi volontari alla miseria procurata dalle macchine, segue che la situazione sia mutata? E se nulla è mutato nella situazione, l’avvenire non sarà sempre la triste copia del passato?

Gli economisti si compiacciono di riposare lo spirito sui quadri della felicità pubblica; a questo segno si riconoscono e si valutano reciprocamente. Tuttavia non mancano tra loro immaginazioni malinconiche e pessimiste, pronte sempre a opporre ai racconti della prosperità crescente le prove di una miseria ostinata.

Théodore Fix riassumeva così la situazione generale nel dicembre 1844: “L’alimentazione dei popoli non è più esposta alle terribili perturbazioni cagionate dalle carestie e dalla fame, così frequenti fino al principio del secolo decimonono. La varietà delle colture e i perfezionamenti agricoli hanno scongiurato il doppio flagello in modo quasi assoluto. Si valutava nel 1791 a circa 47 milioni di ettolitri la produzione totale del frumento in Francia; il che dava, dedotte le sementi, un ettolitro e 65 centilitri per abitante. Nel 1840 la medesima produzione fu valutata 70 milioni d’ettolitri, cioè ettolitri 1,82, a testa, essendo la superficie coltivata press’a poco quale era prima della Rivoluzione... I manufatti sono cresciuti in proporzione per lo meno pari a quella delle derrate alimentari; e si può dire che la massa dei tessuti si sia più che raddoppiata e forse triplicata da cinquant’anni a questa parte. Il perfezionamento dei processi tecnici ha condotto a questi risultati... Dal principio del secolo la vita media è cresciuta di due o tre anni: indizio irrifiutabile di una più grande agiatezza, o, se si vuole, di un’attenuazione della miseria. Nello spazio di vent’anni la cifra dell’entrata indiretta, senza alcun mutamento oneroso nella legislazione, è salita da 540 milioni a 720: sintomo di progresso economico assai più che di progresso fiscale. Il 1° gennaio 1844 la cassa dei depositi amministrativi e giudiziari doveva alle casse di risparmio 351 milioni e mezzo, e Parigi figurava in questa somma per 105 milioni. Eppure codesta istituzione s’è sviluppata solo da dodici anni in qua, e bisogna notare che i 351 milioni e mezzo attualmente dovuti alle casse di risparmio non costituiscono l’intera massa delle economie realizzate, perché a un dato momento i capitali depositati ricevono un’altra destinazione... Nel 1843, su 320.000 operai e 80.000 domestici dimoranti nella capitale, 90.000 operai hanno depositato alle casse di risparmio 2.547.000 franchi, e 34.000 domestici 1.268.000”.

Tutti questi fatti sono verissimi, e la conseguenza che se ne trae in favore delle macchine è della più squisita esattezza: in realtà esse hanno dato un potente impulso al benessere generale. Ma i fatti che noi ora menzioneremo non sono meno autentici e la conseguenza che ne uscirà contro le macchine non sarà meno giusta, ed è che esse sono una causa incessante di pauperismo. Faccio appello alle cifre dello stesso Fix.

Su 320.000 operai e 80.000 domestici residenti a Parigi ce n’è 230.000 dei primi e 46.000 dei secondi, totale 276.000, che non mettono nulla alle casse di risparmio. Nessuno oserebbe affermare che si tratti di 276.000 dissipatori e bricconi che si espongono volontariamente alla miseria. Ora, siccome tra quegli stessi che fanno economie ci sono individui poveri o di modesta fortuna, per i quali la cassa di risparmio non è altro che una sosta nel libertinaggio e nella miseria, concludiamo che su tutti gl’individui che vivono del loro lavoro forse i tre quarti o sono imprevidenti, oziosi e corrotti perché non mettono nulla alla cassa di risparmio, o sono troppo poveri per fare economie di sorta. Non c’è altra uscita. Ma, a parte la carità, il senso comune non permette di accusare in massa la classe lavoratrice: è necessario dunque rigettare la colpa sul nostro regime economico. Come mai Fix non ha visto che le sue cifre s’accusavano da se stesse?

Si spera che col tempo tutti o quasi tutti i lavoratori metteranno qualcosa alla cassa di risparmio. Senza aspettare la testimonianza dell’avvenire, possiamo verificare subito se codesta speranza è fondata.

Secondo i ragguagli di Vée, sindaco del 5° circondario di Parigi “il numero delle famiglie indigenti iscritte sui registri degli uffici di beneficenza è di 30.000: il che dà 65.000 persone”. Il censimento fatto a principio del 1846 diede 88.474. – E le famiglie povere, ma non iscritte, quante sono? – Altrettante. Mettiamo dunque 180.000 poveri non dubbi, sebbene non ufficiali. E tutti coloro che vivono nelle strettezze, anche con le apparenze dell’agiatezza, quanti sono? Due volte tanti: totale 360.000 persone a Parigi nelle angustie.

“Si parla del grano, esclama un altro economista, Louis Leclerc; ma non ci sono forse immense popolazioni che non mangiano pane? Senza uscire dalla nostra patria, non ci sono forse popolazioni che vivono esclusivamente di mais, di grano nero, di castagne?...”.

Leclerc espone il fatto, diamone l’interpretazione. Se, come non c’è dubbio, l’accrescimento della popolazione si fa sentire principalmente nelle grandi città cioè nei centri ove si consuma più grano, è chiaro che la media per testa è potuta crescere senza che vi sia un miglioramento nella condizione generale. Nulla di più bugiardo di una media.

“Si parla, continua il medesimo autore, dell’accrescimento del consumo indiretto. Invano si tenterebbe di assolvere la falsificazione parigina: essa c’è, ha i suoi maestri, i suoi scolari, la sua letteratura, i suoi trattati didattici e classici... La Francia possedeva vini squisiti; che se n’è fatto? cos’è diventata quella luccicante ricchezza? dove sono i tesori che il genio nazionale creò da Probo in poi? Tuttavia, quando si pone mente alle enormità alle quali dà luogo il vino, ovunque sia caro, ovunque non sia entrato nel regime regolare; quando a Parigi, capitale del regno dei vini buoni, si vede il popolo tracannare un non so che di falsificato, alterato, nauseabondo, talora esecrabile, e le persone agiate bere in casa propria o accettare senza dire una parola, nelle trattorie rinomate, vini fatturati, torbidi, violacei, di una insipidezza, di una fiacchezza, di una povertà tali da far fremere il più meschino villano di Borgogna o di Turenna, non si può più dubitare che le bevande alcoliche siano tra i più imperiosi bisogni della nostra natura!”.

Ho citato questo brano in tutta la sua lunghezza, perché riassume su un caso particolare tutto quanto vi sarebbe da dire sugli inconvenienti delle macchine. Riguardo al popolo, è del vino come dei tessuti e generalmente di tutte le derrate e merci create per il consumo delle classi povere. È sempre la medesima deduzione: ridurre con qualunque mezzo le spese di fabbricazione, a fine 1° di sostenere con vantaggio la concorrenza contro i colleghi più fortunati o più ricchi; 2° servire l’innumerevole clientela di miserabili che non è in grado di comprare se si tratta di genere di buona qualità. Prodotto con i mezzi ordinari, il vino è troppo caro per la massa dei consumatori e corre il rischio di rimanere nelle cantine dei tavernai. Il fabbricante di vino gira intorno alla difficoltà; non potendo rendere autonoma la coltivazione, trova modo di mettere il prezioso liquido a portata di tutti. Certi selvaggi, nella loro fame, mangiano terra, l’operaio della civiltà beve acqua. Malthus fu un gran genio.

Per ciò che riguarda l’aumento della vita media, riconosco la sincerità del fatto, ma nel tempo stesso dichiaro difettosa l’osservazione. Spieghiamo ciò. Supponiamo una popolazione di dieci milioni di anime: se per una qual si voglia causa, la vita media venisse a crescere di cinque anni per un milione d’individui, e la mortalità continuasse a infierire come prima sugli altri nove milioni, si troverebbe, ripartendo sul totale l’accrescimento, che la vita media crescerebbe di sei mesi per ciascun individuo. Va detto della vita media, sedicente indizio del benessere medio, lo stesso dell’istruzione media: il livello delle cognizioni si eleva sempre, ma ciò non impedisce che vi sia oggi in Francia tanta gente barbara quanta ce n’era ai tempi di Francesco I. I ciarlatani che si proponevano di esercitare le ferrovie hanno menato gran rumore dell’importanza della locomotiva per la circolazione delle idee; e gli economisti sempre intenti a valersi delle frivolezze civilizzate, hanno subito ripetuto a coro questa sciocchezza. Come se le idee, per diffondersi, avessero bisogno della locomotiva! E cosa dunque impedisce alle idee di circolare dall’Istituto ai sobborghi di Sant’Antonio e di San Marcello nelle vie strette e miserabili della vecchia città e del Marais, da per tutto insomma ove dimora una moltitudine più priva d’idee che di pane? Da dove viene che tra parigino e parigino, malgrado gli omnibus e la piccola posta, la distanza sia ora tre volte maggiore che non fosse nel secolo decimoquarto?

L’influenza sovversiva delle macchine sull’economia sociale e sulla condizione dei lavoratori s’esercita in mille modi, i quali tutti s’intrecciano e si richiamano reciprocamente: la cessazione del lavoro, la riduzione del salario, la produzione soverchia, l’ingombro, l’alterazione e la falsificazione dei prodotti, i fallimenti, lo spostamento degli operai, la degenerazione della specie e finalmente le malattie e la morte.

Théodore Fix ha egli stesso notato che da cinquant’anni a questa parte la statura media dell’uomo in Francia è scemata di qualche millimetro. Questa osservazione vale quella accennata dianzi: su chi cade questa diminuzione?

In un rapporto letto all’Accademia delle Scienze morali sui risultati della legge 22 marzo 1841, Léon Faucher si esprimeva così: “I giovani operai sono pallidi, deboli, di piccola statura e lenti al pensiero come nei movimenti. A quattordici o quindici anni non sembrano più sviluppati dei fanciulli di nove a dieci anni viventi in condizioni normali. In quanto al loro sviluppo intellettuale e morale, se ne trovano che all’età di tredici anni non hanno la minima nozione di Dio, non hanno mai udito parlare dei loro doveri, e per i quali la prima scuola di morale è stata la prigione”.

Ecco quanto ha visto Léon Faucher, con gran dispiacere di Charles Dupin, e perché ha dichiarato essere impotente a porvi qualsiasi rimedio la legge 22 marzo. Né ci turbi codesta impotenza del legislatore; il male proviene da una causa la cui necessità per noi è pari a quella del sole e nelle ristrettezze in cui ci troviamo, montare in collera o ricorrere a palliativi non farebbe che rendere peggiore la situazione. Sì, mentre la scienza e l’industria fanno progressi tanto meravigliosi, è d’indeclinabile necessità, a meno di ammettere la possibilità d’improvviso spostamento del centro di gravità dell’incivilimento, che l’intelligenza e gli agi del proletariato s’attenuino; mentre s’allunga e migliora la vita delle classi agiate è fatale che peggiori e s’accorci quella delle classi indigenti. Ciò risulta dagli scritti dei benpensanti, cioè dei più ottimisti.

Secondo [Sébastien] de Morogues, 7.500.000 uomini in Francia non hanno da spendere che franchi 91 all’anno, cioè venticinque centesimi al giorno. Cinque soldi!...

Cinque soldi! C’è qualche cosa di profetico in questo ritornello odioso:

In Inghilterra (non compresa la Scozia e l’Irlanda), la tassa dei poveri era:

1801... 4.078.88l di sterline per una popolazione di 8.872.980

1818... 7.870.801 di sterline per una popolazione di 11.978.875

1833... 8.000.000 di sterline per una popolazione di 14.000.000.

Il progresso della miseria è stato dunque più rapido di quello della popolazione; che diventano innanzi a questo fatto le ipotesi di Malthus? – Eppure è indubitabile che nel tempo stesso la media del benessere è cresciuta, cosa esprimono dunque le statistiche?

Il rapporto di mortalità nel primo circondario di Parigi è di uno sopra cinquantadue abitanti e per il dodicesimo di uno sopra ventisei. Ora, quest’ultimo conta un indigente sopra sette abitanti, mentre l’altro ne ha solo uno sopra ventotto. Ciò non impedisce che, come osserva assai bene Fix, sia cresciuta a Parigi la vita media.

A Mulhouse le probabilità della vita media sono di ventinove anni per i fanciulli della classe agiata, e di due anni per quelli degli operai; nel 1812, la vita media era nella medesima località di venticinque anni, nove mesi e dodici giorni, mentre nel 1827 era discesa a ventun’anni e nove mesi. Tuttavia per tutta la Francia la vita media è in aumento. Che significa ciò?...

Blanqui, non potendo spiegarsi tanta prosperità congiunta a tanta miseria esclama: “L’accrescimento della produzione non è aumento di ricchezza... La miseria si spande invece sempre più, a misura che l’industria si concentra. È uopo che vi sia qualche vizio radicale in un sistema che non garantisce nessuna sicurezza né al capitale né al lavoro e che sembra moltiplicare gl’imbarazzi dei produttori, mentre li forza a moltiplicare i loro prodotti”.

Non c’è alcun vizio radicale. Ciò che fa stupire Blanqui è semplicemente ciò di cui l’Accademia alla quale egli appartiene ha chiesto la determinazione: sono le oscillazioni del pendolo economico, il valore, che tocca alternativamente il bene e il male, fino a che non sia suonata l’ora dell’equazione universale. Se mi si consente un altro paragone, dirò che l’umanità nel suo cammino è come una colonna di soldati, i quali, partiti al medesimo passo e nello stesso momento al rullo misurato del tamburo, perdono a poco a poco le distanze. La colonna avanza; ma la distanza dalla testa alla coda si fa sempre maggiore ed è necessario effetto del movimento che vi siano dei ritardatari e degli sviati.

Ma bisogna penetrare più oltre nell’antinomia. Le macchine promettevano un sovrappiù di ricchezza; esse hanno mantenuto la parola, ma dando contemporaneamente un sovrappiù di miseria. – Promettevano la libertà e io proverò che hanno recato la schiavitù.

Ho detto che la determinazione del valore e con essa le tribolazioni della società, cominciano con la divisione delle industrie, senza la quale non potrebbero esistere né scambio né ricchezza né progresso. Il periodo che in questo momento attraversiamo, quello delle macchine, si distingue per un carattere particolare, che è il salariato.

Il salariato procede in linea retta dall’uso delle macchine, cioè, per dare al mio pensiero tutta la generalità d’espressione che occorre, dalla finzione economica grazie a cui il capitale diviene agente di produzione. Il salariato insomma, posteriore alla divisione del lavoro e allo scambio, è il correlativo necessario della teoria della riduzione delle spese, in qualunque modo codesta riduzione si ottenga. Questa genealogia è troppo interessante per non dirne qualcosa.

La prima, la più semplice, la più potente delle macchine è la fabbrica.

La divisione si limitava a separare le diverse parti del lavoro, lasciando ciascuno applicarsi alla specialità che gli tornava gradita; la fabbrica aggruppa i lavoratori secondo la proporzione delle parti al tutto. È, nella forma sua più elementare, la ponderazione dei valori, introvabile secondo gli economisti. Ora, con la fabbrica crescono nello stesso tempo la produzione e il disavanzo.

Un uomo ha notato che dividendo la produzione e le sue diverse parti, e facendole eseguire ciascuna da un operaio a parte, si otterrebbe una moltitudine di forze il cui prodotto sarebbe molto superiore alla somma di lavoro che è dato dallo stesso numero di operai, quando il lavoro non sia diviso.

Cogliendo il bandolo di questa idea, egli pensa che formando un gruppo permanente di lavoratori assortiti per l’intento speciale ch’egli si propone, otterrà una produzione più sostenuta, più abbondante e meno costosa. Non è del resto indispensabile che gli operai siano riuniti nel medesimo locale: l’esistenza della fabbrica non richiede necessariamente questo contatto. Essa risulta dal rapporto e dalla proporzione dei diversi lavori e dal pensiero comune che li dirige. In una parola, la riunione nel medesimo sito può avere i suoi vantaggi che non vanno trascurati; ma non è ciò che costituisce la fabbrica.

Ecco dunque la proposta che fa lo speculatore a coloro che vuole per suoi collaboratori: vi garantisco a perpetuità il collocamento dei vostri prodotti, se vi piace accettarmi per compratore e per intermediario. L’affare è così evidentemente vantaggioso, che la proposta non può essere respinta. L’operaio vi trova continuità di lavoro, prezzo fisso e sicurezza; da parte sua l’imprenditore troverà più facile la vendita, poiché producendo a migliori condizioni, può aumentare il prezzo; finalmente i suoi benefici saranno più considerevoli a cagione della massa delle commissioni. Non ci sarà alcuno, nel pubblico o nelle sfere governative, che non feliciti l’imprenditore per avere accresciuta la ricchezza sociale con le sue combinazioni, e non gli voti una ricompensa.

Ma, in primo luogo, chi dice riduzione di spese, dice riduzione di servizi, non già, è vero, nel nuovo opificio, ma per gli operai della medesima arte rimasti fuori, come ancora per molti altri i cui servizi accessori saranno meno richiesti in avvenire. Dunque ogni formazione d’opificio corrisponde a un taglio di lavoratori; questa asserzione, per quanto sembri contraddittoria, è verissima così per la fabbrica come per una macchina.

Gli economisti ne convengono: ma ripetono qui la loro eterna canzone, che dopo un certo tempo, essendo cresciuta la domanda del prodotto in ragione della riduzione del prezzo, il lavoro, a sua volta, finirà per essere ricercato più di prima. Senza dubbio, col tempo, l’equilibrio si ristabilirà; ma, ripetiamolo, l’equilibrio, rifatto appena su questo punto, si turberà immediatamente su un altro, perché lo spirito d’invenzione, al pari del lavoro, non si arresta mai. Ora, quale teoria potrebbe giustificare queste perpetue ecatombi? “Quando si sarà ridotto, scriveva Sismondi, al quarto o al quinto di quel che è ora il numero degli uomini, occorrerà soltanto il quarto o il quinto dei preti, dei medici, ecc. Quando costoro siano tolti affatto di mezzo, si potrà fare a meno del genere umano”. E ciò accadrebbe effettivamente se per il lavoro d’ogni macchina in rapporto con i bisogni del consumo, cioè per ristabilire la proporzione dei valori continuamente distrutta, non abbisognasse creare senza tregua nuove macchine, aprire altri sbocchi e per conseguenza moltiplicare i servizi e spostare altre braccia. In tale maniera, da una parte l’industria e la ricchezza, dall’altra la popolazione e la miseria s’avanzano, per così dire, in fila e l’una trae seco sempre l’altra.

Ho fatto vedere come agli inizi dell’industria l’imprenditore tratti da pari a pari i suoi compagni, che diventano più tardi i suoi operai. È chiaro infatti che codesta primitiva uguaglianza è dovuta sparire rapidamente grazie alla posizione vantaggiosa del padrone e alla dipendenza degli operai. Invano la legge assicura a ciascuno il diritto d’intrapresa, pari alla facoltà di lavorare solo e vendere direttamente i prodotti del proprio lavoro. Secondo l’ipotesi, quest’ultimo partito è impraticabile, perché la fabbrica ha avuto per scopo l’annientamento del lavoro isolato. E in quanto al diritto di tirare l’aratro e andare avanti, la questione è nell’industria, come in agricoltura; non vale nulla saper lavorare, bisogna essere arrivati a tempo. La bottega, come la terra, cede al primo occupante. Quando uno stabilimento ha avuto l’agio di svilupparsi, di allargare la sua base, farsi la sua scorta di capitali, assicurarsi una clientela, cosa può mai contro una forza tanto superiore l’operaio, che di altro non dispone se non delle braccia? Non fu quindi con un atto arbitrario della potestà sovrana, né con fortuita e brutale usurpazione che si stabilirono nel Medioevo le corporazioni e le maestranze. La forza delle cose le aveva create gran tempo innanzi che i decreti regi le avessero legalmente consacrate, e malgrado la riforma del 1789, le vediamo ricostituirsi sotto i nostri occhi con un’energia cento volte più intensa. Abbandonate il lavoro alle sue tendenze, e l’assoggettamento di tre quarti del genere umano è assicurato.

Non è tutto. La macchina o la fabbrica, dopo aver degradato l’operaio dandogli un padrone, ne compie l’avvilimento, facendolo decadere dal posto di artigiano a quello di manovale.

In altri tempi la popolazione rivierasca della Saona e del Rodano si componeva in gran parte di marinai, tutti assuefatti alla condotta dei battelli, sia con cavalli, sia col remo. Oggi che il trasporto a vapore si è stabilito su quasi tutti i punti, i marinai, non trovando più da vivere col proprio mestiere o passano nell’ozio tre quarti della loro vita, o si fanno fuochisti.

Invece della miseria, la degradazione, ecco il male minore cui le macchine riducono l’operaio. La macchina somiglia a un pezzo di artiglieria: eccetto il capitano, tutti gli altri sono addetti al suo servizio, sono schiavi.

Da che si impiantarono le grandi manifatture, una folla di piccole industrie che alimentavano il focolare domestico è scomparsa: si crede forse che le operaie a 50 e a 75 centesimi abbiano tanta intelligenza quanto ne avevano le loro ave?

“Dopo l’apertura della ferrovia da Parigi a Saint-Germain, racconta Dunoyer, si è attivato tra il Pecq e una moltitudine di luoghi più o meno vicini un tal numero d’omnibus e di vetture che la ferrovia, contro ogni qualsiasi previsione, ha aumentato l’impiego dei cavalli in proporzioni considerevoli”.

Contro ogni previsione! Ci vuole un economista per prevedere cose di questa fatta. Moltiplicate le macchine, voi aumentate il lavoro penoso e umiliante: questo apoftegma è tanto certo quanto qualsiasi altro dal diluvio in qua. Mi si accusi pure, se così piace, di malvolere contro la più bella invenzione del nostro secolo: nulla mi vieterà di dire che il principale risultato delle ferrovie, dopo l’assoggettamento della piccola industria, sarà quello di creare una popolazione di lavoratori degradati: cantonieri, spazzini, facchini, scaricatori, carrettieri, guardiani, portinai, pesatori, pittori, ripulitori, fuochisti, pompieri, ecc. Quattromila chilometri di ferrovie daranno alla Francia un supplemento di cinquantamila servi. Non è certo per codesta gente che Chevalier chiede le scuole professionali.

Si dirà forse che, essendo la massa dei trasporti cresciuta proporzionalmente più che non sia il numero dei giornalieri, la differenza è a tutto vantaggio della ferrovia e che, in fin dei conti, c’è progresso. Si può anche generalizzare l’osservazione e applicare lo stesso ragionamento a tutte le industrie.

Ma è proprio questa generalità del fenomeno che pone in rilievo l’assoggettamento dei lavoratori. Il primo ufficio nell’industria l’hanno le macchine, il secondo gli uomini: tutto il genio sviluppato dal lavoro sbocca nell’abbrutimento del proletariato. Che gloriosa nazione sarà la nostra, quando su quaranta milioni di abitanti ne conterà trentacinque di persone che stentano la vita faticando, o scarabocchiando carta, o stando a servizio!

Con la macchina e la fabbrica, il diritto divino, cioè il principio di autorità, ha fatto il suo ingresso nell’economia politica. Il capitale, la maestranza, il privilegio, il monopolio, l’accomandita, il credito, la proprietà, ecc., questi sono nel linguaggio economico i nomi diversi di quel non so che chiamato altrimenti potere, autorità, sovranità, legge punitiva, rivelazione, religione, Dio infine, causa e principio di tutte le nostre miserie e di tutti i nostri delitti e che più cerchiamo di definire, più ci sfugge.

È dunque impossibile che nello stato presente della società, la fabbrica con la sua organizzazione gerarchica e le macchine, invece di favorire esclusivamente gl’interessi della classe meno numerosa, meno laboriosa e più ricca, siano strumento del bene di tutti?

È quel che andiamo a vedere.

3. – Rimedio contro l’influenza disastrosa delle macchine

Riduzione della mano d’opera è sinonimo di ribasso di prezzo e per conseguenza di aumento di scambi; perché il consumatore, pagando meno, comprerà più. Ma riduzione della mano d’opera è anche sinonimo di restringimento del mercato, perché se il produttore guadagna meno, meno compra. Ed è così che vanno le cose. La concentrazione delle forze nella fabbrica, e l’intervento del capitale nella produzione, sotto il nome di macchina, generano nello stesso tempo la produzione eccessiva e la miseria e tutti hanno potuto vedere questi due flagelli più gravi dell’incendio e della peste, svilupparsi ai nostri giorni in larga distesa e con intensità rovinosa. Tuttavia è impossibile che noi indietreggiamo: bisogna produrre, produrre senza posa, produrre a buon mercato; senza ciò l’esistenza della società è compromessa. Il lavoratore che per evitare l’abbrutimento di cui lo minacciava il principio della divisione, aveva creato tante macchine mirabili, si trova per effetto delle sue stesse opere o colpito di interdizione o soggiogato. Quali mezzi si propongono contro questa alternativa?

Sismondi, come tutti gli uomini dalle idee patriarcali, vorrebbe che la divisione del lavoro, con le macchine e gli opifici, fosse abbandonata, e ogni famiglia tornasse al sistema primitivo, cioè al ciascuno a casa sua, ciascuno per sé nel senso più letterale della parola. – Significa rinculare; è impossibile.

Blanqui torna alla carica col suo progetto di partecipazione dell’operaio e di accomandita di tutte le industrie a profitto del lavoratore collettivo. – Ho dimostrato che questo progetto compromette la fortuna pubblica, senza migliorare in modo sensibile le sorti dei lavoratori; e lo stesso Blanqui sembra aderire a questa opinione.

Come conciliare infatti la partecipazione dell’operaio ai benefici col diritto degli inventori, degli imprenditori, dei capitalisti, dei quali gli uni devono rifarsi delle forti anticipazioni e dei lunghi e pazienti sforzi, gli altri mettono in gioco continuamente la fortuna acquistata e corrono da soli il rischio di intraprese che sono spesso aleatorie e i terzi non potrebbero sopportare una qualunque riduzione nella misura degli interessi, senza perdere in qualche maniera i risparmi? Come, insomma, accordare l’uguaglianza che si vorrebbe stabilire tra lavoratori e i padroni con la preponderanza che non si può togliere ai capi degli stabilimenti, agli accomandatari, agli inventori e che implica così nettamente per loro l’esclusiva appropriazione dei guadagni? Decretare per legge l’ammissione di tutti gli operai al riparto dei lucri, sarebbe pronunciare la dissoluzione della società. Tutti gli economisti l’hanno avvertito tanto bene che hanno finito col mutare in un’esortazione ciò che prima avevano immaginato come uno schema. Ora, fino a quando il salariato non avrà altro profitto se non quello che gli sarà lasciato dall’imprenditore, si può stare sicuri della sua perpetua indigenza: non è nella facoltà dei detentori della mano d’opera che le cose vadano diversamente.

Del resto, l’idea, certo lodevolissima, di associare gli operai agli imprenditori tende a questa conclusione comunista, evidentemente falsa nelle sue premesse: – L’ultima parola delle macchine è di fare l’uomo ricco e felice senza che abbia bisogno di lavorare. Poiché dunque gli agenti naturali devono fare tutto per noi, le macchine devono appartenere allo Stato, e lo scopo del progresso è il regime della comunità. Esaminerò a suo tempo la teoria comunista.

Credo però di dovere sin da adesso prevenire i partigiani di quest’utopia che la speranza nella quale si cullano a proposito delle macchine è una semplice illusione d’economisti, qualche cosa come il moto perpetuo, che si cerca sempre e non si trova mai, perché lo si chiede a chi non può darlo. Le macchine non camminano da sole: bisogna, per tenerle in moto, organizzare intorno ad esse un immenso servizio, di modo che alla fine, creando l’uomo a se stesso tanto più bisogni quanto più strumenti possiede, la faccenda seria con le macchine è non tanto di spartirne i prodotti ma di assicurarne l’alimentazione, cioè rinnovare senza tregua il motore. Ora, questo motore non è l’aria, non è l’acqua, il vapore o l’elettricità; è il lavoro, cioè lo sbocco.

Una ferrovia sopprime su tutta la linea che percorre, il carriaggio, le diligenze, i fabbricanti di basti e selle, i carpentieri, gli albergatori; colgo il fenomeno nell’istante consecutivo all’apertura della strada ferrata. Supponiamo che lo Stato, per misura di conservazione o per principio d’indennità, dia agli industriali spostati la proprietà o l’esercizio della ferrovia; essendosi ridotto, suppongo, del 25% il prezzo del trasporto (senza ciò a che servirebbe la ferrovia?) il reddito di tutti codesti industriali riuniti si troverà scemato in analoga proporzione, e ciò torna a dire, che un quarto delle persone che vivevano prima con i trasporti, si troverà, malgrado la munificenza dello Stato, letteralmente senza mezzi di sorta. Per far fronte alla loro perdita hanno una sola speranza ed è che la massa dei trasporti effettuati sulla linea aumenti del 25%, ovvero che essi tornino a occuparsi in altre categorie industriali. Il che sembra a tutta prima impossibile, infatti, stando all’ipotesi e ai fatti, le occupazioni sono prese ovunque, da per tutto la debita proporzione è serbata e l’offerta si bilancia con la domanda.

Pure bisogna bene, se si vuole che cresca la massa dei trasporti, imprimere un nuovo eccitamento al lavoro nelle altre industrie. Ora ammettendo che si occupino i lavoratori spostati in questa ulteriore produzione superflua e che il loro riparto nelle varie categorie di lavoro sia così facile da eseguire come la teoria prescrive, si sarà ancora lontani dal saldo. Per cui, essendo le persone addette alla circolazione a quelle applicate alla produzione come 100 è a 1000, per ottenere con una circolazione meno costosa di un quarto, o, in altre parole, più potente di un quarto, lo stesso reddito di prima, bisognerà rinforzare parimenti di un quarto la produzione, ossia aggiungere all’attività agricola e industriale non già 25, cifra che indica la proporzionalità dell’industria dei trasporti, ma 250. Ora per giungere a questo risultato bisognerà creare delle macchine, creare, ciò che è peggio, degli uomini; ed ecco ricondotta la questione al medesimo punto. E così contraddizione su contraddizione. Non è solo il lavoro che, a causa della macchina, manca all’uomo; è anche l’uomo che, per la propria debolezza numerica, e l’insufficienza del proprio consumo, manca alla macchina. Di modo che mentre s’aspetta l’attuazione dell’equilibrio, c’è nello stesso tempo, mancanza di lavoro e mancanza di braccia, mancanza di prodotti e mancanza di sbocchi. E quel che diciamo della ferrovia è vero per tutte le industrie: sempre l’uomo e la macchina si perseguitano, senza che il primo possa trovar riposo, né la seconda soddisfare le voraci canne.

Quali che siano i progressi della meccanica, quando pure s’inventassero macchine cento volte più meravigliose della filatrice meccanica, della macchina da calze, del torchio a cilindro; quando si scoprissero forze cento volte più potenti del vapore, ben lungi dall’affrancare l’umanità, di crearle degli agi, e rendere gratuita la produzione d’ogni cosa, si riuscirebbe soltanto a moltiplicare il lavoro, accrescere la popolazione, aggravare la servitù, rendere la vita sempre più cara e sprofondare nell’abisso che separa la classe che comanda e gode dalla classe che obbedisce e soffre.

Supponiamo ora vinte tutte queste difficoltà. Supponiamo che i lavoratori messi in disponibilità dalla ferrovia, bastino all’accrescimento di servizio richiesto dall’alimentazione della locomotiva: effettuandosi il compenso senza strappi, nessuno ne soffrirà; anzi il benessere di ciascuno aumenterà di una frazione del guadagno realizzato per effetto del più facile carreggio sulla strada ferrata. Chi dunque, mi si chiederà, impedisce che le cose procedano per l’appunto con questa regolarità e precisione? E che c’è di più facile, per un Governo intelligente, dell’esecuzione cosiffatta di tutte le transazioni industriali?

Ho spinto l’ipotesi fino all’estremo limite cui potesse giungere, onde mostrare, da una parte lo scopo al quale tende l’umanità, dall’altra le difficoltà che essa deve vincere per arrivarvi. Sicuramente l’ordine provvidenziale è che il progresso si compia, riguardo alle macchine, nel modo che adesso ho detto. Ma ciò che imbarazza il cammino della società e la fa andare da Scilla a Cariddi, è il non essere organizzata. Siamo soltanto alla seconda fase delle sue evoluzioni e già abbiamo incontrato sulla nostra via due abissi che paiono insuperabili, la divisione del lavoro e le macchine. Come ottenere che l’operaio parcellare, se è uomo intelligente, non si abbrutisca, o, se è abbrutito torni alla vita intellettuale? Come fare nascere tra i lavoratori quella solidarietà d’interessi senza cui il progresso industriale segna a ogni passo una catastrofe, quando questi stessi lavoratori sono divisi profondamente dal lavoro, dal salario, dall’intelligenza e dalla libertà, cioè dall’egoismo? Come infine cambiare ciò che, per effetto del progresso compiuto, fu reso inconciliabile? Fare appello al sentimento di comunione e di fratellanza sarebbe anticipare le date. Non c’è nulla di comune, né può darsi fratellanza tra creature foggiate quali sono dalla divisione del lavoro e dai servizi delle macchine. Non è da questa parte che, almeno ora, dobbiamo cercare una soluzione.

Ebbene! si dirà, giacché il male è più negli intelletti che nel sistema, occupiamoci dell’insegnamento, lavoriamo all’educazione del popolo.

Perché l’istruzione sia utile, anzi perché possa essere ricevuta bisogna che l’animo sia libero, nello stesso modo che prima di seminare un campo, lo si ara con l’aratro nettandolo dalle spine e dalla gramigna. Per altro il migliore sistema di educazione, anche in ciò che concerne la filosofia e la morale, sarebbe quello dell’educazione professionale. Ora, come si fa a conciliare questa educazione con la divisione parcellare e il servizio delle macchine? Come mai l’uomo che per effetto del suo lavoro è divenuto schiavo, cioè un bene mobile, una cosa, tornerà una persona col medesimo lavoro o seguitando il medesimo esercizio? Come mai non si vede che queste idee ripugnano e che se per ipotesi impossibile il proletario potesse arrivare a un certo grado d’intelligenza, se ne servirebbe subito per sconvolgere la società e mutare tutti i rapporti civili e industriali? E quel che dico non è una vana esagerazione. La classe operaia a Parigi e nelle grandi città ha idee molto superiori a quelle che aveva venticinque anni addietro; mi si dica ora che questa classe non è decisamente, energicamente rivoluzionaria! E lo diverrà sempre più a misura che acquisterà le idee di giustizia e d’ordine, a misura soprattutto che comprenderà il meccanismo della proprietà.

Il linguaggio, chiedo scusa di tornare ancora una volta all’etimologia, mi pare che abbia nettamente espresso la condizione morale del lavoratore, dopo che questo fu, se così può dirsi, spersonificato dall’industria. Nel latino l’idea di servitù implica quella della subordinazione dell’uomo alle cose e quando più tardi il diritto feudale dichiarò il servo vincolato alla gleba, non fece altro che tradurre con una perifrasi il senso letterale della parola servus. [Malgrado le autorità più raccomandabili, non posso acconciarmi all’idea che servo, in latino servus, deriva da servare, conservare, perché lo schiavo era il prigioniero di guerra serbato al lavoro. La servitù, o almeno la domesticità, è certo anteriore alla guerra, quantunque abbia avuto da questa un notevole aumento. Perché, del resto, se tale fosse l’origine dell’idea come della cosa, invece di serv-us non si sarebbe detto, conformemente alla deduzione grammaticale, serv-atus? Per me la vera etimologia si scopre nella opposizione tra serv-are e serv-ire, il cui tema primitivo è ser-o, in-ser-o, congiungere, serrare, da dove ser-ier, giuntura, continuità, ser-a, serratura, ser-tire, incastrare, ecc. Tutti questi vocaboli implicano l’idea di una cosa principale cui viene a connettersi un accessorio, come oggetto di particolare utilità. Da lì serv-ire essere un oggetto d’utilità; una cosa secondaria a un’altra; serv-are come sarebbe a dire rinserrare, mettere in serbo, assegnare a una cosa la sua utilità, serv-uo uomo disponibile, una utilità, un bene mobile, una persona di servizio insomma. L’opposto di serv-us è dom-inus (dom-us, dom-anium e dom-are); cioè il capo della famiglia, il padrone di casa, colui che adopera per proprio uso gli uomini, servat, gli animali, domat, e le cose, possidet. Che in seguito i prigionieri di guerra siano stati riservati alla schiavitù, servati ad servitium, si capisce benissimo; essendo nota la loro destinazione non hanno fatto che prenderne il nome]. La ragione spontanea, oracolo della fatalità, aveva dunque condannato l’operaio subalterno prima che la scienza avesse posto in evidenza quanto fosse indegna tale condizione. A che possono servire dopo ciò gli sforzi della filantropia per creature reiette dalla Provvidenza?

Il lavoro è l’educazione della nostra libertà. Gli antichi avevano inteso il senso profondo di questa verità quando distinsero le arti servili dalle arti liberali. Quale è la professione tali sono le idee, e quali sono le idee tali sono i costumi. Nella schiavitù tutto assume il carattere dell’abbassamento. Le abitudini, i gusti, le inclinazioni, i sentimenti, i piaceri: c’è sovvertimento universale.

Occuparsi dell’educazione delle classi povere! Ma ciò è creare nelle anime degenerate il più atroce antagonismo; è ispirare in codeste classi idee che il loro lavoro renderebbe insopportabili, affetti incompatibili con la grossolanità del loro stato, piaceri il cui gusto è in esse ottuso. Se un progetto simile potesse approdare, invece di mutare il lavoratore in un uomo se ne farebbe un demone. Si studino di grazia le fisionomie della gente che popola le prigioni e i bagni e mi si dica se il maggior numero non appartiene ad individui che la rivelazione del bello, dell’eleganza, della ricchezza, del benessere, dell’onore e della scienza, di tutto quanto costituisce la dignità dell’uomo, ha trovato troppo deboli ed ha demoralizzati, uccisi.

“Almeno bisognerebbe fissare i salari, dicono i meno arditi, redigere in tutte le industrie tariffe accettate dai principali e dagli operai”.

È Fix che mette innanzi questa ipotesi di salvezza. E risponde vittoriosamente: “Queste tariffe sono state provate in Inghilterra e altrove e si sa quel che valgano: da per tutto appena ammesse furono violate tanto dai padroni che dagli operai”...

Le cause della violazione delle tariffe si intendono facilmente: sono le macchine, sono i procedimenti e le combinazioni incessanti dell’industria. Si combina una tariffa a un dato momento, ma ecco che sopravviene di un tratto una nuova invenzione che dà al suo autore il mezzo di far ribassare il prezzo della merce. Che faranno gli altri imprenditori? Smetteranno di fabbricare e rimanderanno i loro operai, ovvero proporranno una riduzione. È il solo partito che possono prendere, aspettando che riesca loro di scoprire un procedimento con cui, senza abbassare la misura dei salari, possano produrre a migliore prezzo dei loro emuli, il che equivarrà ancora a una soppressione di operai.

Léon Faucher pare che inclini verso un sistema d’indennità. Egli dice: “Noi intendiamo che in un interesse qualunque, lo Stato, rappresentante del voto generale, comandi il sacrificio di una industria”. – È ammesso che lo fa, dal momento che accorda a ciascuno la libertà di produrre e protegge e difende questa libertà contro qualunque attacco. – “Ma è una misura estrema, un esperimento sempre pericoloso, che deve essere accompagnato da tutte le possibili cautele per gl’individui. Lo Stato non ha il diritto di togliere a una classe di cittadini il lavoro che li fa vivere, innanzi di avere provveduto altrimenti alla loro sussistenza o d’essersi assicurato che essi troveranno in una nuova industria l’impiego della loro intelligenza e delle loro braccia. È massima invalsa nei paesi inciviliti che il Governo non può, anche per scopo d’utilità pubblica, impadronirsi di una proprietà privata se non abbia dato al proprietario una giusta e previa indennità. Ora, il lavoro ci sembra una proprietà tanto legittima e sacra, quanto un campo o una casa e non comprendiamo come lo si possa espropriare senza risarcimento di danni... In quel modo che stimiamo chimeriche le dottrine che rappresentano il Governo come l’universale fornitore di lavoro nella società, così ci sembra giusto e necessario che ogni spostamento di lavoro operato in nome dell’utilità pubblica, debba avvenire mediante un compenso o una transizione e che non s’immolino né individui né classi di sorta alla ragione di Stato. La potestà pubblica, nelle nazioni ben costituite, ha sempre il tempo e il denaro occorrenti per sedare queste sofferenze parziali. E precisamente perché l’industria non emana da lui, ma nasce e si sviluppa sotto l’impulso libero e individuale dei cittadini, il Governo è tenuto, quando ne turba il corso, a offrirle una specie di riparazione o d’indennità”.

Parole d’oro. Léon Faucher chiede, qualsiasi cosa dica, l’organizzazione del lavoro. Fare in modo che ogni spostamento di lavoro si operi mediante un compenso o una transizione e che individui e classi non siano mai immolati alla ragione di Stato, cioè al progresso dell’industria e alla libertà delle imprese, legge suprema dello Stato, senza dubbio un costituirsi, in un modo che l’avvenire si determini, come fornitore del lavoro nella società e custode dei salari. E siccome, lo abbiamo ripetuto molte volte, il progresso industriale e per conseguenza il lavoro di spostamento e di collocamento, è continuo nella società, non si tratta già di trovare una transizione particolare per ogni innovazione, ma bensì un principio generale, una legge organica di transizione applicabile a tutti i casi possibili e che produca da sé il suo effetto.

Léon Faucher si sente in grado di formulare questa legge e conciliare i diversi antagonismi che noi abbiamo descritto? No, giacché si ferma di preferenza all’idea di una indennità. La potestà, pubblica, egli dice, nelle nazioni bene organizzate, ha sempre il tempo e il denaro occorrenti per sedare queste sofferenze parziali. Me ne duole per le intenzioni generose di Faucher, ma mi pare che esse siano radicalmente impraticabili.

La potestà pubblica non ha altro tempo e altro denaro se non quello che toglie ai contribuenti. Indennizzare con l’imposta gl’industriali espropriati, sarebbe colpire d’ostracismo le nuove invenzioni e fare un po’ di comunismo con la punta delle baionette, non è risolvere la difficoltà. È inutile insistere più oltre sull’indennità fornita dallo Stato. L’indennità, applicata secondo le mire di Faucher, o porterebbe al dispotismo industriale, a qualche cosa come il Governo di [Agca] Mehmet Ali, o degenererebbe in una tassa dei poveri, cioè in una vana ipocrisia. Per il bene dell’umanità meglio varrebbe non dare indennità alcuna e lasciare che il lavoro cerchi da se stesso in perpetuo il modo di costituirsi.

Ci sono alcuni che dicono: il Governo dovrebbe mandare i lavoratori nei luoghi ove l’industria privata non s’è stabilita, ove le imprese individuali non farebbero presa. Abbiamo monti da rimboscare, cinque o sei milioni di ettari di terreni da dissodare, canali da scavare, mille cose insomma d’utilità immediata e generale cui mettere mano.

“Ci perdonino i lettori, risponde Fix; ma anche qui siamo obbligati a far intervenire il capitale. Queste superfici, salvo alcune terre comunali, si trovano incolte, perché mettendole a coltura non s’avrebbe alcun utile netto e probabilmente non si ripiglierebbero le spese. Questi terreni sono posseduti da proprietari i quali hanno o non hanno il capitale necessario per coltivarli. Nel primo caso il proprietario si contenterebbe, coltivandoli, di un profitto minimo e rinuncerebbe forse a quella che chiamasi rendita della terra; ma s’è accorto che intraprendendo tale coltura perderebbe il capitale d’impianto e altri calcoli gli hanno dimostrato che la vendita dei prodotti non coprirebbe le spese della coltivazione... Tutto ben ponderato, questa terra resterà quindi incolta, perché il capitale che vi si applicherebbe non darebbe alcun profitto e andrebbe perduto. Se fosse altrimenti, tutti questi terreni sarebbero ben presto coltivati; i risparmi che oggi prendono un’altra direzione si avvierebbero in una certa misura verso la coltivazione delle terre, perché i capitali non hanno affezioni ma interessi e cercano sempre l’impiego più sicuro e lucroso”.

Questo ragionamento, assai bene motivato, torna a dire che il momento di mettere a coltura i terreni incolti non è ancora giunto per la Francia, nello stesso modo che per i Cafri e gli Ottentotti non è venuto il momento di avere strade ferrate. In quanto, come fu detto nel Capitolo II, la società comincia con le intraprese più facili, più sicure, più necessarie e meno dispendiose e solo a poco a poco arriva a utilizzare le cose relativamente meno produttive. Da che il genere umano si tormenta sulla faccia del globo, non ha operato diversamente, per lui ritorna continuamente la stessa fatica: assicurarsi la sussistenza mentre muove alle invenzioni. Perché il dissodamento in questione non diventi una speculazione rovinosa, una causa di miseria, in altri termini, perché sia possibile, bisogna moltiplicare ancora i nostri capitali e le nostre macchine, scoprire nuovi processi, dividere meglio il lavoro. Ora, sollecitare il Governo a prendere una tale iniziativa, è fare come i contadini che, vedendo appressarsi la tempesta, si mettono a pregare Dio e invocare il loro santo. I Governi, non lo si ripeterà mai abbastanza, sono i rappresentanti della divinità, stavo per dire gli esecutori delle vendette celesti; non possono fare nulla per noi. Sa forse il Governo inglese dare lavoro ai miserabili che si rifugiano nelle Workhouses? E quando lo potesse, l’oserebbe? Chi s’aiuta Dio l’aiuta! Quest’atto di sfiducia popolare verso la divinità ci dice quello che possiamo aspettarci dal Governo... nulla.

Giunti alla seconda stazione del nostro calvario, invece di darci in preda a sterili contemplazioni, facciamo maggiore attenzione agli ammaestramenti del destino. Il pegno della nostra libertà è nel progresso del nostro supplizio.

V. Epoca terza. La concorrenza

Fra l’idra a cento gole della divisione del lavoro e l’indomito dragone delle macchine, che ne sarà del genere umano? Lo ha detto un profeta or sono più che duemila anni, Satana guarda la sua vittima e la guerra è accesa. Aspexit et dissolvit gentes. Per preservarci da due flagelli, la peste e la fame, la Provvidenza ci manda la discordia.

La concorrenza rappresenta quella era della filosofia nella quale avendo una mezza intelligenza delle antinomie della ragione generato l’arte del sofista, i caratteri del falso e del vero si confusero, e s’ebbero in luogo di dottrine sode, le ingannevoli giostre dello spirito. Così il movimento industriale riproduce fedelmente il movimento metafisico: la storia dell’economia sociale è tutta negli scritti dei filosofi. Studiamo questa fase interessante, il cui carattere più notevole è di levare il senno tanto a quelli che credono quanto a quelli che protestano.

1. – Necessità della concorrenza

Louis Reybaud, romanziere di professione, economista di circostanza, brevettato dall’Accademia delle Scienze Morali e Politiche per le sue caricature antiriformiste, e divenuto col tempo uno degli scrittori più alieni dalle idee sociali, Louis Reybaud è anch’egli, qualsiasi cosa faccia, profondamente imbevuto di queste stesse idee: l’opposizione ch’egli mette fuori non è né nel suo cuore né nella sua mente; è nei fatti.

Nella prima edizione dei suoi Études sur les Réformateurs [Bruxelles 1843] Reybaud, commosso dallo spettacolo dei dolori sociali del pari che dal coraggio di quei fondatori di scuole, che pensarono di potere riformare il mondo con una esplosione di sentimentalismo, aveva formalmente espresso l’opinione che ciò che mancava a tutti i loro sistemi era l’associazione. Dunoyer, uno dei giudici di Reybaud, gli rendeva questa testimonianza, tanto più lusinghiera per Reybaud, in quanto lo faceva in forma leggermente ironica: “Il signor Reybaud che ha esposto con tanta giustezza e perizia in un libro coronato dall’Accademia francese, i vizi dei tre principali sistemi riformisti, tiene per il principio che ad essi è comune e serve di base – l’associazione. L’associazione è agli occhi suoi, e lo dichiara, il più gran problema dei tempi moderni. Essa è chiamata, egli dice, a risolvere quello della distribuzione dei frutti del lavoro. Se per la soluzione di questo problema l’autorità non può nulla, l’associazione potrebbe fare tutto. Il signor Reybaud qui parla come uno scrittore del falanstero...”.

Reybaud s’era spinto un po’ innanzi, come si vede. Dotato di troppo buon senso e di troppa buona fede per non vedere il precipizio, ben presto egli s’accorse di fuorviare e cominciò a indietreggiare. Non gli faccio colpa di questo voltafaccia: Reybaud è di quegli uomini che non possono senza ingiustizia essere tenuti responsabili delle loro metafore. Aveva parlato prima di riflettere, si ritrattò; cosa naturalissima! Se i socialisti dovessero pigliarsela con qualcuno, questo dovrebbe essere Dunoyer, che provocò l’abiura di Reybaud con quel singolare complimento.

Dunoyer non tardò ad accorgersi che le sue parole non erano cadute in orecchie sorde. Egli narra, a gloria dei buoni princìpi, che “in una seconda edizione degli Études sur les Réformateurs, il signor Reybaud ha da se stesso temperato ciò che poteva esservi di assoluto nelle sue espressioni. Invece di scrivere potrebbe tutto, ha messo potrebbe molto”.

Era una modificazione importante, e Dunoyer non mancò di farlo notare, ma permetteva ancora a Reybaud di scrivere nel tempo stesso: “Questi sintomi sono gravi: possono considerarsi come pronostici di una organizzazione confusa nella quale il lavoro cerchi un equilibrio e una regolarità che gli mancano... In fondo a tutti questi sforzi si cela un principio: l’associazione, che s’avrebbe torto a condannare per l’irregolarità delle sue manifestazioni”.

Finalmente Reybaud s’è dichiarato altamente partigiano della concorrenza, il che vuol dire che ha decisamente abbandonato il principio dell’associazione. Dacché, se per associazione non si deve intendere altro se non le forme di società determinate dal Codice di commercio, delle quali [Raymond] Troplong e [Claude] Delangle ci hanno dato in compendio la filosofia, non vale la pena di distinguere i socialisti dagli economisti, un partito che cerca l’associazione e un partito il quale pretende che l’associazione esista.

Non si pensi, per ciò che a Reybaud è accaduto di rispondere sì e no storditamente sopra una questione di cui pare non avesse ancora una idea netta, che io lo collochi tra quegli speculatori di socialismo, i quali, dopo avere lanciata nel mondo una mistificazione, cominciano subito a battere in ritirata, col pretesto che essendo l’idea entrata nel dominio del pubblico, non c’è altro da fare che lasciarla camminare. Reybaud, secondo me, appartiene piuttosto alla categoria dei merli, che annovera nel suo seno tante persone oneste e tanta gente di spirito. Reybaud rimane agli occhi miei il vir probus dicendi peritus [Catone], lo scrittore coscienzioso e abile che può lasciarsi sorprendere, ma non esprime giammai se non quello che vede e quello che prova. Per altro, Reybaud, posto una volta sul terreno delle idee economiche, poteva tanto meno concordare con se stesso, quanto più lucidità c’era nel suo intelletto e giustezza nel raziocinio. Vado a fare sotto gli occhi del lettore questo curioso esperimento.

Se potessi essere ascoltato da Reybaud gli direi: prendete partito per la concorrenza, avrete torto; prendete partito contro la concorrenza, avrete ancora torto: ciò vuol dire che avrete sempre ragione. Dopo ciò se, convinto di non avere sbagliato né nella prima né nella quarta edizione del vostro libro, riuscite a formulare la vostra opinione in maniera intelligibile, vi terrò per un economista di genio pari a [Robert] Turgot e Adam Smith; ma vi prevengo che allora somiglierete a quest’ultimo, che, senza dubbio, conoscete poco; sarete un livellatore. Ci state?

Per meglio preparare Reybaud a questa specie di riconciliazione con se medesimo, mostriamogli dapprima come la sua versatilità di opinioni, che chiunque altro al mio posto gli rimprovererebbe con un’acrimonia ingiuriosa, sia un tradimento, non dello scrittore, ma dei fatti da lui interpretati.

Nel marzo 1844 Reybaud pubblicò un articolo sui semi oleosi, tema assai interessante per la sua patria, Marsiglia, pronunciandosi caldamente per la libera concorrenza e per l’olio di sesamo. In base alle notizie raccolte dall’autore e che paiono autentiche, il sesamo renderebbe dal 45% al 46% d’olio, mentre i grani di papavero e la colza non danno che dal 25% al 30% e l’oliva solo dal 20% al 22%. Il sesamo per questo motivo, non piace ai fabbricanti del Nord che ne hanno chiesta e ottenuta la proibizione. Intanto gl’Inglesi sono all’erta, pronti a impadronirsi di questo prezioso ramo di commercio. Si proibisca il sesamo, dice Reybaud; ne avremo l’olio nelle misture, nel sapone o in altre maniere, e avremo perduto il guadagno della fabbricazione. Per altro l’interesse della nostra marina esige che questo commercio sia protetto, si tratta di non meno di 40.000 tonnellate di semi, il che suppone un contingente di 300 bastimenti e 3000 marinai.

Questi fatti sono concludenti: 45% d’olio invece di 25%; qualità superiore a tutte quelle della Francia; riduzione di prezzo per una derrata di prima necessità; economia per i consumatori; 300 navi, 3000 marinai: ecco quel che ci darebbe la libertà del commercio. Dunque viva la concorrenza, viva il sesamo!

Poi per meglio assicurare questi splendidi risultati, Reybaud, trascinato dal suo patriottismo, e andando dritto allo scopo, osserva, assai giudiziosamente a parere nostro, che il Governo dovrà d’ora innanzi astenersi dallo stipulare qualsiasi trattato di reciprocità per i trasporti: egli chiede che la marina francese esegua così le importazioni come le esportazioni del commercio francese. “Quella che si chiama reciprocità, egli dice, è una pura finzione, il cui vantaggio tocca a quella delle parti contraenti la cui navigazione costa meno. Ora, siccome in Francia gli elementi della navigazione, quali sono, l’acquisto della nave, il salario degli equipaggi, le spese di armamento e di vettovagliamento s’elevano a un grado eccessivo e superiore a quello delle altre nazioni marittime, segue che ogni trattato di reciprocità equivale per noi a un trattato di abdicazione, e invece di dare il nostro consenso a un affare di mutua convenienza, ci rassegniamo consciamente o involontariamente a un sacrificio”. – Qui Reybaud mette in rilievo le disastrose conseguenze della reciprocità: “La Francia consuma 500.000 balle di cotone e ce lo portano gli Americani; adopera quantità enormi di carbone fossile e gli Inglesi ne eseguono il trasporto; gli Svedesi e i Norvegesi ci recano essi stessi il loro ferro e il loro legname; gli Olandesi il loro formaggio; i Russi la loro canapa e il loro grano; i Genovesi il loro riso; gli Spagnoli i loro oli; i Siciliani i loro zolfi; i Greci e gli Armeni tutte le derrate del Mediterraneo e del Mar Nero”.

Evidentemente un tale stato di cose è intollerabile, perché finirà col rendere inutile la nostra marina mercantile. Affrettiamoci dunque a rientrare nei cantieri da dove il basso prezzo della navigazione straniera tenta di escluderci. Chiudiamo le porte alle navi straniere o almeno colpiamole di forte imposta. Abbasso quindi la concorrenza e le marinerie rivali!

Reybaud comincia a capire che le sue oscillazioni economico-socialiste sono assai più innocenti che egli non avrebbe creduto! Come mi dovrà essere riconoscente per avere tranquillizzata la sua coscienza forse agitata!

La reciprocità della quale si lamenta con tanta amarezza Reybaud non è altro che una forma di libertà commerciale. Rendete liberi i traffici, la nostra bandiera sarà cacciata dalla superficie dei mari, come lo sarebbero i nostri oli dal continente. Dunque noi pagheremo più caro il nostro olio se persistiamo a volercelo fabbricare da noi, pagheremo più care le derrate coloniali se vorremo eseguirne noi stessi il trasporto. Per arrivare al buon mercato bisognerebbe, dopo avere rinunciato ai nostri oli, rinunziare alla nostra marina: tanto varrebbe rinunziare immediatamente alle nostre stoffe, alle nostre tele, alle nostre indiane, al nostro ferro; poi, siccome una industria isolata costa per necessità ancora troppo, rinunziare ai nostri vini, ai nostri grani, ai nostri foraggi! A qualunque partito vi atteniate, al privilegio o alla libertà, siete condotti all’impossibile, all’assurdo...

Esiste, senza dubbio, un principio di contemperamento; ma, se non si vuole cadere nel più rigido dispotismo, questo principio deve essere tratto da una legge superiore alla stessa libertà. Ora questa legge non è stata definita ancora e chiedo agli economisti se veramente la loro è una vera scienza. In quanto non posso tenere per dotto chi con la migliore buona fede e con tutto l’ingegno di questo mondo predica nello stesso tempo, a quindici righe di distanza, la libertà e il monopolio.

Non è evidente, di una evidenza immediata e intuitiva che la concorrenza distrugge la concorrenza? C’è nella geometria un teorema più certo e perentorio di questo? Come dunque, a quale patto e in che senso un principio che è la negazione di se medesimo può entrare nella scienza? Come può divenire una legge organica della società? Se la concorrenza è necessaria, se, come dice la scuola, è un postulato della produzione, com’è che diventa così rovinosa? E se il suo effetto più certo è quello di trarre a perdizione coloro che essa trascina, come diviene utile? Dacché gl’inconvenienti che l’accompagnano, del pari che il bene da essa fatto, non sono accidenti provenienti dal fatto dell’uomo; essi discendono logicamente gli uni e gli altri dal principio medesimo e sussistono al medesimo titolo gli uni in faccia agli altri... Dapprima la concorrenza è tanto essenziale al lavoro quanto la divisione, perché essa è la stessa divisione ricomparsa sotto un’altra forma, o piuttosto elevata alla sua seconda potenza; la divisione dico, non più come nella prima epoca delle evoluzioni economiche, adeguata alla forza collettiva e quindi assorbitrice della personalità del lavoratore nella fabbrica, ma generatrice della libertà e tale che d’ogni suddivisione del lavoro fa come una sovranità in cui l’uomo si colloca nella propria forza e indipendenza. La concorrenza, in una parola, è la libertà nella divisione e in tutte le parti divise; principiando dalle funzioni più comprensive essa tende a realizzarsi fino nelle operazioni inferiori del lavoro parcellare.

Qui i comunisti muovono un’obiezione. Bisogna, essi dicono, distinguere in ogni cosa l’uso dall’abuso. C’è una concorrenza utile, lodevole, morale, una concorrenza che allarga il cuore e la mente, una concorrenza nobile e generosa, l’emulazione; e perché questa emulazione non avrebbe per oggetto il vantaggio di tutti?... Vi è un’altra concorrenza funesta, immorale, asociale; una concorrenza gelosa, che odia e uccide, ed è l’egoismo.

Così dicono i comunisti; così si esprimeva, circa un anno addietro nella sua professione di fede sociale, il giornale “La Riforme”.

Per quanto mi ripugni fare opposizione a uomini le cui idee sono in fondo le mie, non posso accettare una simile dialettica. “La Riforme” credendo di cambiare tutto con una distinzione più grammaticale che reale, s’è, senza accorgersi, collocata nel campo delle timide transazioni, che è poi quello della peggiore diplomazia. La sua argomentazione è precisamente quella di Pellegrino Rossi riguardo alla divisione del lavoro e consiste nell’opporre tra loro la concorrenza e la morale, onde limitare l’una con l’altra, come Rossi pretendeva di fermare e restringere con la morale le induzioni economiche, risecando qua, tagliando là secondo il bisogno e l’occorrenza. Ho confutato Rossi facendogli questa semplice difficoltà: come può essere che la scienza sia in disaccordo con se medesima, che la scienza della ricchezza contrasti con la scienza del dovere? E così io chiederei ai comunisti: come mai un principio visibilmente utile può essere nel tempo stesso funesto?

Si dice: l’emulazione non è la concorrenza. Noto innanzi tutto che questa pretesa distinzione cade soltanto sugli effetti divergenti del principio, e ciò ha fatto credere all’esistenza di due princìpi che si confondessero. L’emulazione non è altro che la stessa concorrenza e, giacché si va nelle astrazioni, ci andrò volentieri anch’io. Non c’è emulazione senza scopo, come non c’è moto di passione senza oggetto; e siccome l’oggetto d’ogni passione è necessariamente analogo alla passione stessa, una donna per l’amante, il potere per un ambizioso, l’oro per un avaro, la corona per il poeta, così l’oggetto della emulazione industriale è necessariamente il profitto.

No, insiste il comunista, l’oggetto dell’emulazione del lavoratore deve essere l’utilità generale, la fratellanza, l’amore.

Ma la stessa società, giacché invece di fermarsi al privato individuo, del quale ora si discorre, si vuol parlare dell’uomo collettivo, la società, dico, lavora per arricchire; il benessere, la felicità è il suo unico intento. Come dunque ciò che è vero per la società, non lo sarebbe per l’individuo, poiché, dopo tutto, la società è l’uomo e l’intera umanità vive in ogni uomo? Come sostituire all’oggetto immediato dell’emulazione che, nell’industria, è il benessere personale, un impulso lontano e quasi metafisico che si chiama il benessere generale, quando soprattutto il secondo non è nulla senza il primo e non può risultare che da questo?

I comunisti, in generale, si fanno una strana illusione: fanatici del potere, essi pretendono fare risultare, per una specie di ricorso, dalla forza centrale e, nel corso particolare qui considerato, dalla ricchezza collettiva il benessere del lavoratore che ha creato questa ricchezza; come se l’individuo esistesse dopo la società e non la società dopo l’individuo. Del resto, non è questo il solo caso in cui noi vedremo i socialisti dominati, a loro insaputa, dalle tradizioni del regime contro il quale protestano.

Ma c’è bisogno d’insistere? Dal momento che il comunista cambia il nome delle cose, vera vocabula rerum [Sallustio], confessa implicitamente la propria impotenza e si mette fuori causa. Perciò, io per tutta risposta gli dirò, negando la concorrenza, voi abbandonate le tesi: ormai non si può tenere conto di voi nella discussione. Un’altra volta noi cercheremo fino a qual punto l’uomo deve sacrificarsi per l’interesse comune; per il momento si tratta di risolvere il problema della concorrenza, cioè di conciliare il maggiore soddisfacimento dell’egoismo con le necessità sociali: risparmiateci le vostre sentenze morali.

La concorrenza è necessaria alla costituzione del valore, cioè al principio stesso della distribuzione e per conseguenza all’attuazione della uguaglianza. Fino a che un prodotto è dato da un solo e unico fabbricante, il valore reale di questo prodotto rimane un mistero, sia dissimulazione dalla parte del produttore, sia incuria, o incapacità di far discendere il prezzo di costo al suo limite estremo. In modo che il privilegio della produzione è una perdita reale per la società e la pubblicità dell’industria, come la concorrenza dei lavoratori, è per essa un bisogno. Tutte le utopie immaginate e immaginabili non possono sottrarsi a questa legge.

Certo, io non intendo negare che il lavoro e il salario possano e debbano essere garantiti: nutro anzi la speranza che l’epoca di questa tutela non sia lontana. Ma ritengo che la tutela del salario è impossibile senza l’esatta conoscenza del valore e che il valore non può essere scoperto se non grazie alla concorrenza e non col mezzo d’istituzioni comuniste o per decreto del popolo. In quanto c’è qualche cosa più potente che non sia la volontà del legislatore e dei cittadini ed è l’impossibilità assoluta per l’individuo di fare il proprio dovere quando trovasi scaricato d’ogni responsabilità verso se medesimo. Ora la responsabilità verso se stesso, in materia di lavoro, implica necessariamente, di fronte agli altri, la concorrenza. Ordinate che a datare dal 1° gennaio 1847 il lavoro e il salario siano garantiti a tutti: ben presto un immenso rilassamento succederà alla tensione ardente dell’industria, il valore reale cadrà rapidamente al disotto del valore nominale; la moneta metallica, malgrado la sua effige e la sua impronta legale, correrà la sorte degli assegnati; il commerciante chiederà più per dar meno e noi scenderemo un girone più giù nell’inferno di miseria di cui la concorrenza è solo il terzo cerchio.

Quando io ammettessi, con alcuni socialisti, che l’attrattiva del lavoro potesse un giorno servire d’impulso all’emulazione senza la riserva mentale del profitto, di che utilità potrebbe essere, nella fase che studiamo, questa utopia? Noi siamo soltanto alla terza epoca dell’evoluzione economica, alla terza età della costituzione del lavoro, cioè in un periodo in cui è impossibile che il lavoro possieda attrattive. In quanto l’attrattiva del lavoro non può risultare che da un alto sviluppo fisico, morale e intellettuale del lavoratore. Ora, questo stesso sviluppo, questa educazione dell’umanità mediante l’industria è precisamente l’oggetto delle nostre ricerche attraverso le contraddizioni dell’economia sociale. Come dunque l’attrattiva del lavoro potrebbe servirci di principio e di leva, quando è ancora per noi scopo e fine?...

Ma, se è indubitabile che il lavoro, come la più alta manifestazione della vita, dell’intelligenza e della libertà, rechi con sé le proprie attrattive, io nego che queste possano mai essere totalmente separate dall’intento di utilità e perciò da una riscossa dell’egoismo; io nego il lavoro per il lavoro, come nego lo stile per lo stile, l’amore per l’amore, l’arte per l’arte. Lo stile per lo stile ha prodotto ai nostri giorni la letteratura spiccia e l’improvvisazione senza idee; l’amore per l’amore conduce alla pederastia, all’onanismo, alla prostituzione; l’arte per l’arte porta ai fantocci, alle caricature, al culto del brutto. Quando l’uomo non cerca nel lavoro altro che il piacere dell’esercizio, ben presto smette di lavorare e gioca. La storia è piena di fatti che attestano questa degradazione. I giochi della Grecia, istmici, olimpici, pitici, nemei, esercizi di una società che produceva tutto col mezzo dei suoi schiavi, la vita degli Spartani e degli antichi Cretesi loro modello; i ginnasi, le palestre, gl’ippodromi e le agitazioni dell’agora presso gli Ateniesi; le occupazioni che Platone assegna ai guerrieri nella sua Repubblica, e che rivelano i gusti del suo secolo; finalmente nella nostra società feudale le giostre e i tornei: – tutte queste invenzioni, come molte altre delle quali taccio, dal gioco degli scacchi inventato, a quanto si dice, durante l’assedio dì Troia, da Palamede, fino alle carte dipinte da [Jacquemin] Gringoneur per Carlo VI, sono esempi di quel che diventa il lavoro quando gli si tolga il serio movente della utilità. Il lavoro, il vero lavoro, quello che produce la ricchezza e dà la scienza, ha troppo bisogno di regola, di perseveranza e di sacrificio per rimanere a lungo amico della passione che è fugace di sua natura, incostante e disordinata; è qualche cosa di troppo elevato, troppo ideale e filosofico per diventare esclusivamente piacere e godimento, cioè misticismo e sentimento. La facoltà di lavorare, che distingue l’uomo dai bruti, ha la propria radice nei più riposti penetrali della ragione; come mai potrebbe divenire in noi una semplice manifestazione della vita, un atto voluttuoso della nostra sensibilità?

Che se ora c’è chi ama sostenere l’ipotesi di una trasformazione della nostra natura, senza precedenti storici e di cui nulla sinora avrebbe data la minima idea: questo è un sogno inintelligibile per coloro stessi che lo difendono, un rovesciamento del progresso, una smentita alle leggi più accertate della scienza economica; e per tutta risposta io la escludo dalla discussione.

Restiamo con i fatti, giacché i soli fatti hanno un significato e possono servirci. La rivoluzione francese è stata fatta per la libertà industriale tanto quanto per la libertà politica; e benché la Francia, nel 1789, non abbia scorto tutte le conseguenze del principio del quale chiedeva l’applicazione, pure, diciamolo apertamente, essa non s’è ingannata né nei suoi voti né nella sua aspettativa. Chiunque tentasse negarlo perderebbe agli occhi miei ogni diritto alla critica; non discuterò giammai con un avversario che ponga come canone l’errore spontaneo di venticinque milioni d’uomini.

Alla fine del secolo decimottavo, la Francia, stanca dei privilegi, volle a ogni costo scuotere il torpore delle sue corporazioni e rialzare la dignità dell’operaio, conferendogli la libertà. Bisognava emancipare il lavoro dovunque, stimolare il genio, rendere responsabile l’industriale, suscitandogli mille competitori e facendo pesare su lui solo le conseguenze della sua mollezza, della sua ignoranza e della sua malafede. Già prima del 1789 la Francia era matura per questa transizione; fu Turgot che ebbe la gloria di eseguire il primo passaggio.

Perché dunque se la concorrenza non fosse un principio della economia sociale, un decreto del destino, una necessità dell’anima umana, perché invece di abolire corporazioni, maestranze e giurande, non si pensò piuttosto a riassettare queste istituzioni? Perché, invece di una rivoluzione, non contentarsi di una riforma? Perché questa negazione se poteva bastare una modificazione? Tanto più che questa via di mezzo era perfettamente nell’ordine delle idee conservatrici accolte dalla borghesia. Che il comunismo, che la democrazia quasi socialista, che di fronte al principio della concorrenza, rappresentano inconsciamente il sistema del giusto mezzo, l’idea controrivoluzionaria, mi spieghino, se possono, questa unanimità della nazione!

Aggiungete che i fatti confermano la teoria. A datare dal ministero di Turgot, un risveglio di attività e di benessere cominciò a manifestarsi nella nazione. Quindi la prova sembrò così decisiva, che ottenne l’assenso di tutte le legislature; la libertà dell’industria e del commercio figura nelle nostre costituzioni al medesimo grado della libertà politica. E a questa libertà che la Francia deve da sessant’anni in qua i progressi della propria ricchezza.

In seguito a questo fatto capitale che stabilisce in maniera così vittoriosa la necessità della concorrenza, chiedo il permesso di citarne tre o quattro altri, i quali essendo di meno grande generalità, metteranno meglio in rilievo l’influenza del principio che difendo.

Perché l’agricoltura è tanto stranamente in ritardo tra noi? Da dove viene che la cieca abitudine e la barbarie pesano ancora, in tanti luoghi, su questo importante ramo del lavoro nazionale? Fra le molteplici cause che potrebbero citarsi, vedo in prima linea, la mancanza di concorrenza. I contadini si contendono i lembi del suolo; si fanno concorrenza presso il notaio, ma in campagna non se ne fanno. Parlate loro d’emulazione, e di pubblico bene, li vedrete rimanere a bocca aperta. – Il re, dicono essi, faccia gli affari suoi (il re per loro, vuol dire lo Stato, il bene pubblico, la società), il re faccia i suoi affari, noi faremo i nostri! – Ecco la loro filosofia, il loro patriottismo. Ah! se il re potesse suscitare in loro dei concorrenti! Sventuratamente è impossibile. Mentre nell’industria la concorrenza deriva dalla libertà e dalla proprietà, nell’agricoltura la libertà e la proprietà sono un ostacolo diretto alla concorrenza. Il contadino, retribuito, non in proporzione del lavoro e dell’intelligenza, ma secondo la qualità della terra e il piacere di Dio, non pensa, coltivando, che a pagare il meno che può di salari e fare meno anticipazioni che può. Sicuro di trovare sempre modo di collocare le sue derrate, quel che cerca è piuttosto la riduzione delle spese che il miglioramento del suolo e della qualità dei prodotti. Egli semina, la Provvidenza fa il resto. La sola specie di concorrenza che conosca la classe agricola è quella degli affitti, e non si può negare che in Francia, per esempio, nella Beauce, dia utili risultati. Ma siccome il principio di questa concorrenza è, per dir così, di seconda mano, non uscendo direttamente dalla libertà e dalla proprietà dei coltivatori, accade che tale concorrenza scompaia con la causa che la produce, di maniera che per determinare la decadenza dell’industria agraria in molti luoghi, o almeno per fermare il progresso, basterebbe forse rendere proprietari i fittavoli.

Un altro ramo del lavoro collettivo, che in questi ultimi anni ha fatto nascere vivissime dispute, è quello relativo alle costruzioni pubbliche. “Per dirigere la costruzione di una via, dice benissimo Dunoyer, valgono forse meglio un pioniere e un postiglione che un ingegnere uscito fresco fresco dalla scuola di ponti e strade”. Non c’è persona che non avrà avuto l’occasione di verificare l’esattezza di quest’asserzione.

Sopra uno dei più belli tra i nostri fiumi, celebre per l’importanza della sua navigazione, si doveva costruire un ponte. Sin da quando si pose mano ai calcoli i battellieri s’accorsero che gli archi sarebbero riusciti troppo bassi e i battelli non avrebbero potuto passare sotto il ponte, in tempo di piena. Ne avvertirono l’ingegnere che dirigeva i lavori. – I ponti, rispose costui, si fanno per quelli che vi passano sopra, non per quelli che passano sotto. La risposta è rimasta proverbiale in paese. Ma essendo impossibile che l’imbecillità abbia ragione fino alla fine, il Governo ha sentito la necessità di correggere l’opera del suo agente, e nel momento in cui scrivo, si stanno rialzando le arcate del ponte. C’è da credere che se i negozianti interessati alla percorrenza della via navigabile fossero stati incaricati dell’impresa a loro rischio e pericolo, si sarebbero fatti due volte i lavori? Ci sarebbe da fare un libro se si volessero annoverare i capolavori del medesimo genere dovuti alla dotta gioventù dei ponti e strade, che, uscita appena dalla scuola, e diventata inamovibile, non è più stimolata dalla concorrenza.

Si cita come prova dell’attitudine industriale dello Stato, e per conseguenza della possibilità di abolire ovunque la concorrenza, l’amministrazione dei tabacchi. – Là, si dice, non sofisticazione, non processi, non fallimenti, non miseria. Gli operai, sufficientemente retribuiti, istruiti, educati con le prediche, moralizzati, assicurati con una pensione formata con i loro risparmi, sono in una condizione incomparabilmente migliore di quella dell’immensa maggioranza degli operai addetti all’industria libera.

Tutto ciò può essere vero: quanto a me lo ignoro. Io non so nulla di quel che accade nell’amministrazione dei tabacchi; non ho preso informazioni né presso i direttori né presso gli operai e non ne ho bisogno. Quanto costa il tabacco venduto dall’amministrazione? Quanto vale? Potete rispondere alla prima domanda, informandovene al primo spaccio al quale capitate. Ma non potete dirmi nulla sulla seconda, perché vi manca il termine di paragone, essendo vietato controllare con prove i prezzi di costo della manifattura per conseguenza è impossibile accertarli. Dunque l’impresa dei tabacchi, eretta in monopolio, costa necessariamente alla società più di quanto le rende; è una industria che invece di mantenersi con i prodotti propri, vive di sovvenzioni e, per conseguenza, lungi dall’offrire un modello, è uno dei primi abusi che la riforma deve colpire.

E quando parlo della riforma da introdurre nella produzione del tabacco, non considero soltanto l’enorme imposta che triplica o quadruplica il valore di questo prodotto, né l’organizzazione gerarchica dei suoi impiegati che fa diventare gli uni, lautamente stipendiati, aristocratici tanto costosi quanto inutili, e gli altri salariati senza speranza, tenuti sempre in una condizione subalterna. Non parlo neanche del privilegio della rivendita e di tutto quel mondo di parassiti che ci vive dentro; ho in vista soprattutto il lavoro utile, il lavoro degli operai. Solo per questo l’operaio dell’amministrazione non ha concorrenza, non è interessato né ai lucri né alle perdite, insomma non è libero, per cui la sua produttività è necessariamente scarsa e il suo servizio troppo caro. Si venga a dire dopo ciò che il Governo tratta bene i suoi salariati, che si prende cura del loro benessere: dove sono questi miracoli? Non si vede che tocca alla libertà di sopportare le spese del privilegio e che se, per ipotesi impossibile, tutte le industrie fossero sottoposte al regime di quella dei tabacchi, venendo a mancare la fonte delle sovvenzioni, la nazione non potrebbe equilibrare le entrate con le spese e lo Stato farebbe bancarotta?

Prodotti forestieri. – Cito la testimonianza di un dotto, estraneo all’economia politica, Liebig. – “Una volta la Francia importava dalla Spagna tutti gli anni per 20 o 30 milioni di franchi di soda, essendo quella della Spagna la migliore. Durante la guerra con l’Inghilterra, il prezzo della soda e per conseguenza quello del sapone e del vetro, aumentarono costantemente. Le manifatture francesi furono danneggiate da un tale stato di cose. Fu allora che [Nicolas] Leblanc scoprì il mezzo di estrarre la soda dal sale comune. Questo ritrovato fu per la Francia una fonte di ricchezza: la fabbricazione della soda prese una estensione straordinaria; ma né Leblanc né Napoleone godettero i benefici dell’invenzione. La Restaurazione che approfittò della collera delle popolazioni contro l’autore del blocco continentale, ricusò di pagare il debito dell’imperatore, le cui promesse avevano eccitato la scoperta di Leblanc... Alcuni anni or sono, essendosi messo il re di Napoli a convertire in monopolio il commercio degli zolfi della Sicilia, l’Inghilterra che consuma una immensa quantità di quegli zolfi, minacciò di far guerra al re di Napoli se il monopolio fosse mantenuto. Mentre i due governi scambiavano note diplomatiche, quindici brevetti d’invenzione furono presi in Inghilterra per l’estrazione dell’acido solforico dal gesso, dalle piriti di ferro e da altre sostanze minerali di cui l’Inghilterra abbonda. Ma essendosi accomodate le cose col re di Napoli, non fu dato alcun seguito a questi ritrovati: rimase soltanto da prove che furono fatte che l’estrazione dell’acido solforico con i nuovi processi sarebbe riuscita benissimo, il che forse avrebbe annientato il commercio che la Sicilia fa di questi zolfi”.

Togliete la guerra con l’Inghilterra, togliete la fantasia di monopolio del re di Napoli, non si sarebbe mai pensato in Francia ad estrarre la soda dal sale marino, né in Inghilterra ad estrarre l’acido solforico dalle masse di gesso e di piriti di ferro che il suolo britannico racchiude. Ora questa appunto è l’azione della concorrenza nell’industria. L’uomo esce dall’ozio solo quando il bisogno lo molesta e il mezzo più sicuro per estinguere in lui il genio, è quello di liberarlo da ogni ansia, di levargli l’allettamento del guadagno e della distinzione sociale che ne risulta, creando intorno a lui la pace dovunque, la pace perpetua, e addossando allo Stato la responsabilità dell’inerzia individuale.

Sì, bisogna dirlo, a dispetto del quietismo moderno: la vita dell’uomo è una lotta continua; lotta col bisogno, lotta con la natura, lotta con i suoi simili, lotta, insomma, con se medesimo. La teoria di una eguaglianza pacifica, fondata sulla fratellanza e l’affezione, è una contraffazione della dottrina cattolica dell’allontanamento dai beni e dai piaceri di questo mondo, il principio della pitoccheria, il panegirico della miseria. L’uomo può amare il suo simile fino a dare la vita per lui, ma non lo ama fino al punto di lavorare per lui.

Alla teoria dell’affezione che noi abbiamo ora confutata in fatto e in diritto, gli avversari ne aggiungono un’altra che è poi l’opposto della prima: è legge dello spirito quella di oscillare fra due contraddizioni, quando sconosce la verità, che è il suo punto d’equilibrio. La nuova teoria del socialismo anticoncorrenziale è quella degli incoraggiamenti.

Che c’è di più sociale e progressivo in apparenza, che l’incoraggiamento al lavoro e all’industria? Non c’è democratico che non ne faccia uno dei più belli attributi del potere, né utopista che non lo metta in prima linea tra i mezzi d’organizzare il benessere. Ora, il Governo è per sua natura così inetto a dirigere il lavoro che ogni ricompensa decretata da lui è un vero furto fatto alla sua cassa comune. Reybaud mi fornisce il testo di questa induzione. “I premi accordati per incoraggiare l’esportazione, dice in un qualche suo scritto Reybaud, equivalgono ai diritti pagati per l’importazione della materia prima: il vantaggio risulta assolutamente effimero e non serve ad altro che ad incoraggiare un vasto sistema di contrabbando”.

È un risultato inevitabile. Sopprimete il dazio all’entrata, l’industria nazionale soffre, come s’è visto dianzi a proposito del sesamo; mantenete la tassa non accordando alcun premio per l’esportazione e il commercio nazionale sarà vinto nei mercati stranieri. Per sfuggire a questo inconveniente, rimettete il premio? Non fate altro che restituire con una mano quello che ricevete con l’altra e provocate alla frode, ultimo risultato, caput mortuum di tutti gl’incoraggiamenti all’industria. Segue da ciò che ogni incoraggiamento al lavoro, ogni ricompensa decretata all’industria, al di fuori del prezzo naturale del prodotto, è un dono gratuito, una mancia prelevata sul consumatore e offerta in nome suo a un favorito del Governo, in cambio di zero, di nulla. Incoraggiare l’industria significa in fin dei conti incoraggiare l’ozio; è una delle forme della truffa.

Nell’interesse della nostra marina da guerra, il Governo aveva creduto di dovere accordare agli imprenditori dei trasporti marittimi un premio per ogni individuo impiegato sui loro bastimenti. Ora io continuo a citare Reybaud: “Ogni bastimento che parte per Terranova imbarca da 60 a 70 uomini. In questo numero ci sono 12 marinai, il resto si compone di contadini tolti dai lavori della campagna, i quali ingaggiati come giornalieri per la preparazione del pesce, rimangono estranei alle manovre di bordo e non hanno della gente di mare altro che i piedi e lo stomaco. Pure questi uomini figurano sui registri d’iscrizione navale e vi perpetuano un inganno. Quando si tratta di difendere l’istituzione dei premi sono messi subito in conto perché fanno numero e contribuiscono al successo”.

È un ignobile imbroglio! esclamerà qualche candido riformatore. Sia. Analizziamo il fatto e tentiamo di mettere in vista l’idea generale che vi si trova.

In principio il solo incoraggiamento al lavoro che la scienza possa ammettere è il profitto. Quando il lavoro non riesce a trovare nel suo prodotto la propria ricompensa, non va per ciò incoraggiato, anzi va smesso al più presto, e se questo lavoro è seguito da un prodotto netto, è assurdo aggiungere a questo prodotto netto un dono gratuito e sovraccaricare così il valore del servizio. Applicando questo principio, io dico: se il servizio della marina mercantile richiede solo 10.000 marinai, non bisogna pregarla di mantenerne 15.000; la più spiccia per lo Stato sarebbe di mettere cinquemila coscritti su un bastimento e mandarli in giro per l’Oceano come tanti prìncipi. Ogni incoraggiamento offerto alla marina mercantile è un invito diretto alla frode – che dico? – una proposta di salario per un servizio impossibile. Oppure la manovra, la disciplina, tutte le condizioni del commercio marittimo si combinano con l’aggiunta di persone inutili? Cosa deve fare l’armatore in faccia a un Governo che gli offre una gratificazione se egli imbarca sui propri battelli gente di cui non ha bisogno? Se il ministro getta via il denaro del tesoro, è una colpa raccoglierlo?...

Dunque, si noti, la teoria degli incoraggiamenti emana in linea retta dalla teoria del sacrificio, e per non volere che l’uomo sia responsabile, gli avversari della concorrenza, per fatale contraddizione delle loro idee, sono costretti a fare dell’uomo ora un dio ora un bruto. E poi si meravigliano che ai loro appelli la società non si muova! Poveri semplicioni! gli uomini saranno sempre quali voi li vedete e furono sempre: né migliori né peggiori. Quando il bene privato li alletta, lasciano in disparte il bene generale; nel che li trovo se non degni d’onore, certo di scusa. È colpa vostra se ora esigete da essi più di quanto vi debbano, ora aguzzate la loro cupidigia con ricompense immeritate. L’uomo nulla pregia più di se stesso e per conseguenza la responsabilità propria sopra ogni altra legge. La teoria dell’amore del prossimo, come quella delle ricompense, è una teoria da bricconi, sovvertitrice della società e della morale e per ciò solo che aspettate sia dal sacrificio sia dal privilegio il mantenimento dell’ordine, voi create nella società un nuovo antagonismo. Invece di fare nascere l’armonia della libera attività delle persone, voi rendete l’individuo e lo Stato estranei l’uno all’altro e raccomandando l’unione, attizzate la discordia.

Insomma, la concorrenza analizzata nel suo principio è una ispirazione della giustizia, eppure noi vedremo adesso che la concorrenza nei suoi risultati è ingiusta.

2. – Effetti sovversivi della concorrenza e come essa distrugga la libertà

Il regno dei cieli si guadagna con la forza, dice il Vangelo, e i violenti solo lo afferrano. In queste parole è l’allegoria della società. Nella società regolata dal lavoro, la dignità, la ricchezza e la gloria sono poste a concorso, esse sono la ricompensa dei forti e la concorrenza stessa può definirsi il regime della forza. Gli antichi economisti non s’erano accorti di questa contraddizione; i moderni hanno dovuto riconoscerla.

“Per innalzare uno Stato dall’infimo grado della barbarie al più alto grado d’opulenza, scriveva Smith, bastano tre cose: la pace, tasse moderate e una tollerabile amministrazione della giustizia. Tutto il resto si ottiene dal naturale andamento delle cose”. Alle quali parole l’ultimo traduttore di Smith, Blanqui, fa questa triste glossa: “Abbiamo veduto il corso naturale delle cose produrre effetti disastrosi e creare l’anarchia nella produzione, la guerra per gli sbocchi e la pirateria nella concorrenza. La divisione del lavoro e il perfezionamento delle macchine, che dovevano procurare alla grande famiglia operaia del genere umano la conquista di un po’ di comodo a profitto della propria dignità, non hanno prodotto altro, in molti casi, che la miseria e l’abbrutimento... Quando Smith scriveva, non era ancora venuta la libertà con i suoi imbarazzi e con i suoi abusi, il professore di Glasgow ne prevedeva soltanto le dolcezze... Ma Smith avrebbe scritto come Sismondi se fosse stato testimone delle tristi condizioni dell’Irlanda e dei distretti manifatturieri dell’Inghilterra ai tempi nei quali viviamo...”.

Orsù, letterati, uomini di Stato, pubblicisti di quotidiani, credenti e semicredenti, voi che vi siete assunta la missione di ammaestrare gli uomini, udite queste parole che si direbbero tolte da Geremia? Ci direte una volta dove intendiate condurre la civiltà? Quale consiglio date alla patria in allarme?

Ma a chi parlo io? A ministri, giornalisti, sacrestani e pedanti! Forse codesta gente si dà pensiero dei problemi dell’economia sociale? Hanno forse sentito mai parlare della concorrenza?

Un lionese, anima indurita alla guerra mercantile, viaggiando in Toscana, vide come in questo paese si fabbricassero da cinque a seicentomila cappelli di paglia che formavano in complesso un valore da quattro a cinque milioni. Questa industria è per il popolo minuto press’a poco il solo modo di guadagnarsi il pane. “Come mai, egli pensò, una coltivazione e una industria così semplici non sono state introdotte nella Provenza e nella Linguadoca, il cui clima è simile a quello della Toscana?”. – Ma, osserva qui un economista, se portate via ai contadini toscani la loro industria, come faranno a vivere?

La fabbricazione delle stoffe di seta nera era divenuta per Firenze una specialità della quale custodiva gelosamente il segreto. “Un abile fabbricante di Lione, scrive con soddisfazione il viaggiatore, è venuto a stabilirsi a Firenze ed è riuscito a sapere il metodo che si tiene nella tintura e nella tessitura. Probabilmente questa scoperta farà scemare l’esportazione fiorentina”. ([Jean-Claude] Fulchiron, [Voyage dans l’Italie meridionale. Pise, Florence, Sienne et Rome, Royaume de Naples en 1838, 5 voll., Paris, 1840-42].

In altri tempi l’allevamento del baco da seta era tutto nelle mani dei contadini toscani che ci vivevano sopra. “Le società di agricoltura si sono fatte avanti; hanno dimostrato che il baco da seta, nella stanza da letto del contadino non aveva né una ventilazione sufficiente, né una temperatura abbastanza uniforme, né quelle cure appropriate che poteva ricevere se gli allevatori si fossero dedicati unicamente a questa faccenda. Per conseguenza alcuni cittadini ricchi, intelligenti, generosi, hanno costituito, con plauso generale del pubblico, le così dette bigattiere”. (Sismondi). Ebbene, voi mi direte, questi allevatori di bachi da seta, questi fabbricanti di stoffe nere e di cappelli, perderanno la loro industria? – Sicuramente, si proverà ad essi, per giunta, che hanno in ciò un interesse, visto che potranno procurarsi i medesimi prodotti con minore spesa di quel che ne costi loro la fabbricazione. Ecco cos’è la concorrenza.

La concorrenza col suo istinto omicida leva il pane a tutta una classe di lavoratori, e trova che questo è un miglioramento, un’economia; – ruba vigliaccamente un segreto, e se ne compiace come di una scoperta; – cambia le zone naturali della produzione a detrimento di tutto un popolo, e pretende di non avere fatto altro che valersi dei vantaggi del clima. La concorrenza sconvolge tutte le nozioni dell’equità e della giustizia, aumenta le spese reali della produzione, moltiplicando senza necessità i capitali fìssi, provoca a vicenda l’aumento dei prodotti e il loro deprezzamento, corrompe la coscienza pubblica, mettendo l’alea al posto del diritto, sparge dovunque il terrore e la diffidenza.

Senza questo atroce carattere la concorrenza perderebbe i suoi più felici risultati; senza l’arbitrio nello scambio e gli sgomenti del mercato, il lavoro non scaglierebbe opificio contro opificio senza tregua e, meno affannosa, la produzione non compirebbe nessuna delle sue meraviglie. Dopo aver fatto nascere il male dalla stessa utilità del suo principio, la concorrenza sa di nuovo trarre il bene dal male; la distruzione genera l’utilità, l’equilibrio si ottiene mediante l’agitazione, e si può dire della concorrenza quel che Sansone diceva del leone che aveva atterrato: De comedente cibus exiit et de forti dulcedo. C’è nelle sfere della scienza umana una scienza più mirabile dell’economia politica?

Guardiamoci tuttavia dal cedere a un moto d’ironia che da parte nostra sarebbe una ingiusta invettiva. È nel carattere della scienza economica di trovare la sua certezza nelle sue contraddizioni e tutto il torto degli economisti sta nel non averlo saputo capire. Non c’è cosa più meschina delle loro critiche, né più miserevole dell’imbroglio dei loro pensieri quando toccano la questione della concorrenza; paiono testimoni costretti dalla tortura a confessare ciò che la loro coscienza vorrebbe tacere. Il lettore mi sarà grato di mettere sotto i suoi occhi gli argomenti del lasciar passare, facendolo, per così dire, assistere a un conciliabolo di economisti. Dunoyer apre la discussione.

Dunoyer è di tutti gli economisti quello che ha con maggiore energia abbracciato il lato positivo della concorrenza e per ciò, come era da aspettarsi, quello tra tutti che ne ha colto peggio il lato negativo. Dunoyer, intrattabile su quelli che egli chiama i princìpi, è lontanissimo dal credere che in economia politica il no e il sì possano essere veri l’uno e l’altro nel medesimo istante e al medesimo grado; diciamo anche a lode sua che un tale concetto tanto più gli ripugna quanto più franchezza e lealtà sono nelle sue dottrine. Che non darei per fare penetrare in un animo così puro, ma così ostinato, questa verità, per me certa come l’esistenza del sole, che tutte le categorie dell’economia politica sono altrettante contraddizioni! Invece di affannarsi inutilmente a conciliare la pratica e la teoria, invece di contentarsi della ridicola scusa che ogni cosa quaggiù ha vantaggi e inconvenienti, Dunoyer cercherebbe l’idea sintetica nella quale tutte le antinomie si risolvono e da quel conservatore paradossale che è oggi, diventerebbe con noi rivoluzionario inesorabile e conseguente.

“Se la concorrenza è un principio falso, dice Dunoyer, segue che da duemila anni l’umanità ha battuto una falsa strada”. No; non segue affatto quel che dite e la vostra osservazione pregiudiziale si confuta con la teoria medesima del progresso. L’umanità stabilisce i suoi princìpi, l’un dopo l’altro e talora a lunghi intervalli; né si lascia sfuggire mai la sostanza di alcuno di essi, benché ne distrugga successivamente l’espressione o la formula. Questa distruzione è chiamata negazione, perché la ragione generale, progredendo sempre, nega di continuo la pienezza e la sufficienza delle sue idee anteriori. È così che mentre la concorrenza è una delle epoche della costituzione del valore e uno degli elementi della sintesi sociale, si può anche dire con verità che essa è indistruttibile nel suo principio, ma che pur nondimeno nella sua forma attuale deve essere abolita, negata. Se dunque c’è qualcuno che qui si trova in opposizione con la storia, questo siete voi.

“Ho molte considerazioni da fare sulle accuse mosse alla concorrenza.

“La prima è che questo regime, buono o cattivo, rovinoso o fecondo, non esiste in realtà ancora; non è stabilito in nessun luogo se non per eccezione nella più incompleta maniera”.

Questa prima accusa non ha senso. La concorrenza uccide la concorrenza, abbiamo detto cominciando; questo aforisma può tenere luogo di una definizione. Come mai la concorrenza può essere completa? – Per altro, quando si ammettesse che la concorrenza non esiste ancora nella sua pienezza, ciò proverebbe semplicemente che la concorrenza non agisce con tutta la potenza d’eliminazione che possiede; ma ciò non muta in nulla la sua indole contraddittoria. Che bisogno abbiamo di aspettare ancora trenta secoli per sapere che la concorrenza più si sviluppa e più tende a ridurre il numero dei concorrenti?

“La seconda è che il quadro ordinariamente delineato è infedele, non tenendosi conto abbastanza dell’estensione che ha preso il benessere generale, incluso quello delle classi lavoratrici”.

Se alcuni socialisti sconoscono il lato utile della concorrenza, voi dal canto vostro non fate menzione alcuna dei suoi effetti perniciosi. La testimonianza dei vostri avversari viene a completare la vostra, sicché la concorrenza è messa in piena luce, e da una doppia menzogna risulta per noi la verità. – Quanto alla gravità del male vedremo cosa c’è dì vero.

“La terza è che il male provato dalle classi lavoratrici non è ricondotto alle sue vere cause”.

Se, oltre la concorrenza, esistono altre cause della miseria, ciò toglie forse che la miseria abbia la sua parte? Anche ad esservi un solo industriale rovinato dalla concorrenza, se si riconosce che il disastro è l’effetto necessario del principio, la concorrenza, come principio, dovrebbe essere rigettata.

“La quarta è che i principali mezzi adatti per ovviarvi sarebbero nulla più che semplici espedienti”.

È possibile; ma ne concludo che l’insufficienza dei rimedi proposti c’impone un nuovo dovere, che è precisamente quello di ricercare i mezzi più acconci a prevenire il male della concorrenza.

“La quinta infine è che i veri rimedi, per quanto è possibile rimediare al male con la legislazione, sarebbero precisamente nel regime che viene accusato di averlo prodotto, cioè in un regime sempre più efficace di libertà e concorrenza”.

Ebbene, sia. Il rimedio alla concorrenza consiste, secondo voi, nel renderla universale, bisogna fornire a tutti i mezzi di concorrere, bisogna distruggere o modificare il predominio del capitale sul lavoro, mutare i rapporti di padrone a operaio, risolvere insomma l’antinomia della divisione e quella delle macchine; bisogna organizzare il lavoro; potete dare questa soluzione?

Dunoyer sviluppa in seguito con un coraggio degno di migliore causa la sua utopia prediletta della concorrenza universale; è un labirinto in cui l’autore inciampa e si contraddice a ogni passo.

“La concorrenza, dice Dunoyer, trova una moltitudine d’ostacoli”. Difatti, ne trova tanti e così potenti che essa stessa è resa impossibile, in quanto come si trova il mezzo di trionfare degli ostacoli inerenti alla costituzione della società e per conseguenza inseparabili dalla concorrenza stessa?

“Oltre ai servizi pubblici, vi sono certe professioni delle quali il Governo ha creduto di riservarsi l’esclusivo esercizio e ce n’è un numero ancora più grande di cui le leggi vigenti accordano il monopolio a una quantità ristretta di persone. Quelle lasciate in balia della concorrenza sono assoggettate a formalità, a restrizioni, a vincoli innumerevoli che impediscono a moltissimi di approssimarvisi, onde in esse la concorrenza è ben lungi dall’essere illimitata. Finalmente, non ce n’è alcuna che non sia sottoposta a tasse svariate, necessarie senza dubbio, ecc.”.

Che significa tutto ciò? Dunoyer non intende certo che la società faccia a meno del Governo, di amministrazione, di polizia, d’imposte, d’università, di tutto ciò insomma che costituisce una società. Dunque poiché la società implica necessariamente delle eccezioni alla concorrenza, l’ipotesi di una concorrenza universale è chimerica ed ecco ricacciati sotto il regime dell’arbitrio, cosa che la definizione della concorrenza ci aveva già fatto capire. C’è nulla di serio in quest’argomentazione di Dunoyer?

In altri tempi i maestri della scienza cominciavano col rigettare ogni idea preconcetta e s’adoperavano a ricondurre i fatti, senza alterarli o dissimularli, sotto leggi generali. Le ricerche di Adam Smith, per il tempo in cui apparvero, sono un prodigio di sagacia e di elevato raziocinio. Il quadro economico di [François] Quesnay, per quanto sembri inintelligibile, è testimonianza di un profondo sentimento della sintesi generale. L’Introduzione al grande trattato di J.-B. Say si tiene esclusivamente sui caratteri scientifici dell’economia politica e si vede a ogni linea come l’autore sentiva il bisogno di nozioni assolute. Gli economisti del secolo scorso non hanno certamente costituito la scienza, ma cercavano con ardore e buona fede di costituirla.

Quanto siamo lontani oggi da questi nobili pensieri! Non è più una scienza che si cerca, sono gl’interessi dinastici e di casta che si difendono. Si rimane ostinatamente nella pedanteria, malgrado la sua impotenza: si fa uso dei nomi più venerati per imprimere a fenomeni anormali un carattere di autenticità che non hanno, si tacciano d’eresia i fatti accusatori, si calunniano le tendenze del secolo e nulla irrita così un economista come il pretendere di ragionare con lui.

“Il carattere particolare del tempo presente, grida in tono di vivo malcontento Dunoyer, è l’agitazione di tutte le classi, è la loro inquietudine, la loro impossibilità di fermarsi davanti a nulla e di contentarsi mai; è il lavoro infernale fatto sulle classi meno agiate perché il loro malcontento cresca senza tregua, a misura che la società aumenta gli sforzi perché esse siano in realtà meno da compiangere”.

Bravo, perché i socialisti punzecchiano gli economisti sono diavoli incarnati! Può darsi una cosa più empia difatti che l’insegnare al proletario com’egli sia leso nel suo lavoro e nel suo salario e che, nell’ambiente in cui vive, la sua miseria è irrimediabile?

Reybaud ripete, rinforzandolo, il lamento del suo maestro Dunoyer; paiono i due serafini d’Isaia che cantino un Sanctus alla concorrenza. Nel Giugno 1844, al momento di pubblicare la quarta edizione degli Études sur les Réformateurs, Reybaud, nell’amarezza dell’anima sua, scriveva: “È dovuto ai socialisti il principio dell’organizzazione del lavoro e del diritto al lavoro; essi sono i promotori del regime di sorveglianza... Le camere legislative di ambo i lati dello stretto subiscono poco a poco la loro influenza... Così l’utopia guadagna terreno...”. Ed ecco Reybaud deplorare la l’influenza segreta del socialismo sui migliori ingegni, stigmatizzare, vedete che odio! il contagio inconscio, da cui si lasciano pigliare coloro stessi che hanno rotto qualche lancia contro il socialismo. Poi annunzia come un ultimo atto dell’alta giustizia contro i malvagi, la pubblicazione prossima, sotto il titolo di Leggi del lavoro, un’opera nella quale proverà (a meno che non avvenga una nuova evoluzione nelle sue idee) che le leggi del lavoro non hanno nulla di comune né col diritto al lavoro né con l’organizzazione del lavoro e che la migliore riforma è il lasciar fare. “La tendenza dell’economia politica, aggiunge Reybaud, ormai non è più verso la teoria ma verso la pratica. Le parti astratte della scienza paiono ormai fissate. La controversia delle definizioni è finita o quasi. I lavori dei grandi economisti sul valore, il capitale, l’offerta, e la domanda, il salario, le imposte, le macchine, il fitto, l’aumento della popolazione, l’ingorgo dei prodotti, gli sbocchi, le banche, i monopoli, ecc., ecc., paiono aver segnato il limite delle ricerche dogmatiche e formano un insieme di dottrine al di là del quale c’è poco da sperare”.

Facilità di parlare, impotenza a ragionare, tale sarebbe stata la conclusione di Montesquieu su questo strano panegirico dei fondatori dell’economia sociale. La scienza è fatta! Reybaud lo giura, e ciò che egli proclama con tanta autorità, lo si ripete all’Accademia, nelle cattedre, nel Consiglio di Stato, nelle Camere; lo si pubblica nei giornali; lo si fa dire al re nei suoi discorsi del Capodanno e con questo criterio i tribunali trattano le cause; la scienza è fatta! Che follia è la nostra, o socialisti, di cercare la luce in pieno meriggio e protestare con la lanterna in mano contro il bagliore di questi soli!

Però, signori miei, con sincero rincrescimento e una profonda diffidenza di me stesso, mi vedo costretto a chiedervi qualche chiarimento. Se non potete rimediare ai nostri mali, dateci almeno qualche buona parola, dateci l’evidenza, dateci la rassegnazione.

“È chiaro, dice Dunoyer, che la ricchezza è infinitamente meglio ripartita ai nostri giorni che non lo sia mai stato”. – “L’equilibrio delle gioie e dei dolori, ripiglia subito Reybaud, tende sempre a ristabilirsi quaggiù”.

E che dunque? Cosa dite? Ricchezza meglio ripartita, equilibrio ristabilito! Spiegatevi, di grazia, su questo migliore riparto. È l’eguaglianza che viene o la diseguaglianza che se ne va? La solidarietà che si cementa o la concorrenza che scema? Non vi lascio se non mi date una risposta, non missura cutem... [Orazio]. Infatti, qualunque sia la causa del ristabilimento dell’equilibrio e del migliore riparto che segnalate, io l’accetto con ardore e la seguirò fino alle ultime conseguenze. Prima del 1830, piglio questa data a caso, la ricchezza era peggio ripartita; com’è ciò? Oggi, secondo voi, lo è meglio: perché? Vedete bene dove voglio andare: non essendo ancora perfettamente equo il riparto, né assolutamente giusto l’equilibrio, domando, da una parte, quale sia l’impedimento che turba l’equilibrio, e dall’altra, in virtù di quale principio l’umanità passi senza tregua dal peggio al meno male e dal bene al meglio. Perché questo principio segreto non può essere né la concorrenza né la macchina né la divisione del lavoro né l’offerta e la domanda: tutti questi princìpi sono altrettante leve che di volta in volta fanno oscillare il valore, com’è stato benissimo inteso dall’Accademia delle Scienze Morali. Qual è dunque la legge sovrana del benessere? Qual è questa regola, questa misura, questo criterio del progresso la cui violazione è causa perpetua della miseria? Parlate, non perorate più. Voi dite che la ricchezza è meglio ripartita. Fuori le prove.

Dunoyer: “Secondo documenti ufficiali esistono non meno di undici milioni di quote fondiarie. Si computa a sei milioni il numero dei proprietari che pagano queste quote, di modo che, a quattro individui per famiglia, non ci sarebbero meno di ventiquattro milioni su trentaquattro, che parteciperebbero alla proprietà del suolo”.

Dunque, secondo i dati più favorevoli, vi sarebbero in Francia dieci milioni di proletari, un terzo quasi della popolazione. Eh! che ne dite? Aggiungete a questi dieci milioni la metà degli altri ventiquattro, per la quale la proprietà, oppressa d’ipoteche, frantumata, impoverita, deplorabile, non vale un mestiere e non avrete ancora la cifra degli individui che menano un’esistenza precaria.

“Il numero di ventiquattro milioni di proprietari tende sempre a crescere”.

Sostengo invece che tende sensibilmente a decrescere. Fra il possessore nominale di un pezzo di terra crivellato da imposte e tasse, vincolato, ipotecato e il creditore che percepisce il reddito, qual è, secondo voi, il vero proprietario? I prestatori ebrei e quelli di Basilea sono oggi i veri proprietari dell’Alsazia; e ciò che prova il finissimo giudizio di questi prestatori è che essi non pensano a comprare: preferiscono collocare i propri capitali.

“Ai proprietari fondiari bisogna aggiungere circa 1.500.000 di patentati, ossia, quattro persone per famiglia, sei milioni d’individui interessati come capi in imprese industriali”.

Però, innanzi tutto, un gran numero di industriali sono proprietari fondiari, e voi ne servite a doppio uso. Poi si può affermare che nella totalità degli industriali e dei commercianti patentati, un quarto al più fa dei guadagni, un altro quarto si mantiene in bilico e, il resto, è costantemente in perdita. Prendiamo dunque la metà dei sei milioni di sedicenti capi d’impresa, e aggiungiamola ai dodici milioni molto problematici di effettivi proprietari; avremo un totale di quindici milioni di Francesi, in stato, per la loro educazione, la loro industria, i loro capitali, il loro credito, le loro proprietà, di farsi concorrenza. Per il resto della nazione, cioè per diciannove milioni di anime, la concorrenza è come il famoso “pollo nella pentola” di Enrico V, un piatto che producono per la classe che può pagarlo, ma di cui non toccano briciola.

Altra difficoltà. Questi diciannove milioni d’uomini ai quali non è dato avvicinarsi alla concorrenza, sono i mercenari dei concorrenti. Così in altri tempi i servi combattevano per i signori, ma non potevano portare bandiera, né armare milizie. Ora, se la concorrenza non può per fatto proprio diventare la condizione comune, perché coloro per i quali essa non ha che pericoli non dovrebbero chiedere delle garanzie dai baroni ai cui servigi sono addetti? E se non si possono ricusare loro queste garanzie cosa potrebbero essere quest’ultime se non delle barriere alla concorrenza, come la tregua di Dio, inventata dai vescovi, fu una barriera alle guerre feudali? Per la costituzione stessa della società, la concorrenza è una cosa d’eccezione, un privilegio; adesso domando come mai, con l’eguaglianza dei diritti, questo privilegio sia ancora possibile.

E pensate voi, quando reclamo garanzie per i consumatori e i salariati contro la concorrenza, che faccia un sogno da socialista? Ascoltate due dei vostri più illustri confratelli che non accuserete certo di compiere un’opera infernale.

Rossi, nella Lezione sedicesima, riconosce allo Stato il diritto di regolare il lavoro, quando i danni fossero troppo gravi e le garanzie insufficienti, il che significa per sempre. Perché il legislatore deve assicurare l’ordine pubblico con princìpi e leggi; non aspetta che si producano fatti imprevisti per respingerli con mano arbitraria. – Altrove (Lezione ventiquattresima), il medesimo professore segnala come effetto di una esagerata concorrenza la formazione continua di un’aristocrazia finanziaria e territoriale, la prossima sconfitta della piccola proprietà e getta un grido di allarme. Da parte sua Blanqui dichiara che l’organizzazione del lavoro è all’ordine del giorno nella scienza economica (poi ha ritrattato); egli affretta la partecipazione degli operai ai profitti e l’avvento dell’operaio collettivo e tuona senza remissione contro i monopoli, le proibizioni e la tirannia del capitale. Qui habet aures audiendi audiat! [Matteo]. Rossi, in qualità di criminalista, statuisce contro i briganti della concorrenza; Blanqui, come giudice istruttore, denuncia i colpevoli; è la controscena del duetto cantato testé da Reybaud e Dunoyer. Quando questi gridano Hosanna, quelli rispondono, come i Padri nei Concili, Anathema.

Ma, si dirà, Blanqui e Rossi intendono colpire soltanto gli abusi della concorrenza, essi non proscrivono il principio, e in ciò sono d’accordo con Dunoyer e Reybaud.

Protesto contro questa distinzione nell’interesse della fama dei due professori.

Nel fatto, l’abuso ha invaso tutto e l’eccezione è divenuta regola. Quando Troplong, difendendo, con tutti gli economisti, la libertà del commercio, riconosceva che la coalizione delle messaggerie era uno di quei fatti contro i quali il legislatore si trova assolutamente incapace di agire, e che paiono smentire le più sane nozioni dell’economia sociale, aveva ancora la consolazione di poter dire che un simile fatto era eccezionale ed esservi motivo di credere che non si sarebbe generalizzato. Ora il fatto si è generalizzato; il giureconsulto più pedante solo che metta il capo alla finestra, può vedere come oggi tutto sia monopolizzato dalla concorrenza, i trasporti (per terra, per ferrovia e per acqua), i grani e le farine, i vini e l’acquavite, il legname, il carbone fossile, il ferro, i tessuti, il sale, i prodotti chimici, ecc. È triste per la giurisprudenza, sorella gemella dell’economia politica, vedere in meno di un lustro smentite le sue gravi previsioni; ma è ancora più triste per una grande nazione essere governata da geni così scadenti e dovere razzolare le poche idee di cui si nutre nella prunaia dei loro scritti.

In teoria abbiamo dimostrato che la concorrenza, per il suo lato utile, deve essere universale e portata alla massima intensità; ma che sotto il suo aspetto negativo deve essere cancellata da per tutto fino all’ultima traccia. Gli economisti sono in grado di operare questa eliminazione? Ne hanno previsto le conseguenze, ne hanno calcolato le difficoltà? In caso affermativo oserei dare loro da risolvere il seguente caso.

Un trattato di coalizione o piuttosto di associazione, perché i tribunali sarebbero molto imbarazzati a definire l’una e l’altra, ha riunito in una sola compagnia tutte le miniere di carbone fossile del bacino della Loira. Mosso dalle doglianze dei municipi di Lione e di Saint-Etienne, il ministro ha nominato una commissione con l’incarico di esaminare il carattere e le tendenze di questa società che fa tanta paura. Ebbene, io domando, cosa può qui l’intervento del Governo, assistito dalla legge civile e dall’economia politica?

Si grida alla coalizione. Ma si può impedire ai proprietari delle miniere di associarsi, di ridurre le loro spese generali e d’esercizio, e di trarre, con un lavoro meglio disposto, miglior partito delle loro miniere? O si darà a essi l’ordine di ricominciare l’antica guerra e di rovinarsi con l’aumento delle spese, lo spreco, l’ingorgo, il disordine, il ribasso? Sono assurdità.

Si vorrà impedire che aumentino i prezzi in modo da ottenere un interesse conveniente dai loro capitali? Allora bisogna difenderli contro le domande di aumento di salario da parte degli operai; si rifaccia la legge sulle società in accomandita, si interdica il traffico delle azioni, e quando tutti questi provvedimenti saranno stati adottati, siccome i capitalisti proprietari del bacino suddetto non possono, senza ingiustizia, essere costretti a perdere i capitali impiegati sotto un regime diverso, bisognerà che li indennizziate.

Li costringerete ad accettare una tariffa? È una legge di maximum. Lo Stato dovrà dunque mettersi al posto degli esercenti, fare come essi i conti del capitale, degli interessi, delle spese di amministrazione; regolare il salario dei minatori, gli stipendi degl’ingegneri e dei direttori, il prezzo del legname adoperato per l’estrazione, la spesa del materiale e finalmente determinare la misura normale e legittima del guadagno. Tutto ciò non può farsi per decreto ministeriale, ci vuole una legge. Oserà il legislatore per una industria speciale cambiare il diritto pubblico dei Francesi e mettere il potere politico al posto della proprietà? Allora, di due cose l’una: o il commercio del carbone fossile cadrà nelle mani dello Stato, o lo Stato dovrà trovare il modo di conciliare, nei riguardi della industria estrattiva, la libertà e l’ordine, e in tal caso i socialisti chiederanno che quanto s’è fatto in un sito si faccia da per tutto.

La coalizione delle miniere della Loira ha posto la questione sociale in termini che non permettono più di sfuggirla. O la concorrenza, cioè il monopolio e ciò che viene dopo, o l’esercizio nelle mani dello Stato, cioè l’aumento del lavoro e l’impoverimento continuo; o, infine, una soluzione conforme al principio d’uguaglianza, in altre parole l’organizzazione del lavoro, il che importa la negazione dell’economia politica e la fine della proprietà.

Ma gli economisti non procedono con questa logica brusca: amano venire a patti con la necessità. [François] Dupin (seduta 10 giugno 1843 dell’Accademia delle Scienze morali e politiche) esprime l’opinione che “se la concorrenza può essere utile all’interno, deve essere impedita tra popolo e popolo”.

Vietare o lasciar fare, ecco l’eterna alternativa degli economisti; il loro genio non va oltre. Invano si grida che qui non si tratta di vietare nulla né di permettere tutto; che ciò che ad essi si chiede e la società aspetta è una conciliazione; quest’idea doppia non entra nei loro cervelli.

“Bisogna, replica al Dupin Dunoyer, distinguere la teoria dalla pratica”. Dio buono! Tutti sanno che Dunoyer, inflessibile nelle sue opere rispetto ai princìpi, è di facile contentatura in fatto di pratica nel Consiglio di Stato. Ma si degni dunque una volta di farsi questa domanda: perché sono costretto di distinguere continuamente la pratica dalla teoria? perché non si accordano l’una con l’altra?

Blanqui, uomo conciliante e pacifico, appoggia il dotto Dunoyer, cioè la teoria. Tuttavia pensa con Dupin, cioè con la pratica, che la concorrenza non è senza peccato. Tanto Blanqui ha paura di calunniare e di attizzare il fuoco!

Dupin si ostina nella sua opinione. Mette a carico della concorrenza la frode, la vendita con frode, l’impiego dei fanciulli nelle officine. E tutto ciò senza dubbio per provare che la concorrenza all’interno può essere utile!

Passy con la sua logica ordinaria fa notare che ci sarà sempre gente disonesta, che, ecc. – Accusate la natura umana, esclama, non la concorrenza.

Sin dalla prima parola la logica di Passy s’allontana dalla questione. Non si rimproverano alla concorrenza le frodi delle quali è occasione o pretesto, bensì gli inconvenienti che risultano dalla sua natura. Un manifattore trova il modo di rimpiazzare un operaio che gli costa tre franchi al giorno, con una donna alla quale dà solamente un franco. Questo espediente è il solo che gli è consentito per far fronte al ribasso e fare andare lo stabilimento. Ben presto alle operaie aggiungerà i fanciulli. Poi, costretto dalla necessità della lotta, a poco a poco ridurrà i salari e aumenterà le ore di lavoro. Dov’è qui il colpevole? Quest’argomento si può rigirare in mille modi, applicandolo a tutte le industrie senza che vi sia motivo di accusare la natura umana.

Passy stesso è costretto a riconoscerlo quando soggiunge: “Riguardo al lavoro forzato dei fanciulli, la colpa è dei genitori”.

– È giusto. E la colpa dei genitori su chi cade?

“In Irlanda, continua questo oratore, non c’è concorrenza, eppure la miseria è estrema”.

Su questo punto la logica ordinaria di Passy è tradita da una straordinaria mancanza di memoria. In Irlanda c’è monopolio completo, universale della terra, e concorrenza illimitata, accanita per i fitti. Concorrenza e monopolio sono due palle legate ai piedi dell’infelice Irlanda.

Quando gli economisti sono stanchi di accusare la natura umana, la cupidigia dei genitori, la turbolenza dei radicali, ci allietano con il quadro della felicità del proletariato. Ma, anche su ciò non riescono ad accordarsi né tra loro né con se stessi: nè c’è cosa che meglio ritragga l’anarchia della concorrenza quanto il disordine delle loro idee.

“Oggi, la moglie dell’artigiano veste abiti eleganti che le dame del secolo scorso non avrebbero per niente sdegnato d’indossare”. (Chevalier, Lezione quarta). Ed è lo stesso Chevalier che in base a un calcolo fatto da lui, stima che la totalità del reddito nazionale darebbe 65 centesimi a testa al giorno. Alcuni economisti fanno scendere questa cifra a 55 centesimi. Ora, siccome bisogna prendere su questa somma quello che occorre per costituire le grosse fortune, si può calcolare, tenendosi al computo di De Morogues, che il reddito della metà dei Francesi non supera i 25 centesimi.

“Ma, riprende con mistica esaltazione Chevalier, la felicità non sta forse nell’armonia dei desideri con i godimenti, nell’equilibrio dei bisogni con i soddisfacimenti? Non sta forse in un certo stato dell’anima le cui condizioni l’economia politica non è competente a stornare, come non è in grado di farle nascere? È l’opera della religione e della filosofia”.

– Economista, direbbe Orazio a Chevalier, se l’arguto poeta vivesse ai nostri tempi, occupati solo dei miei redditi e lascia a me la cura del mio animo: Det vitam, det opes; aequum mi animum ipse parabo.

Dunoyer ha di nuovo la parola: “Si potrebbe facilmente, in molti villaggi, i giorni di festa confondere la classe operaia con la classe borghese (perché, ci sono due classi?), tanto l’abbigliamento della prima è accurato. Né è minore il progresso nel vitto. L’alimentazione è nello stesso tempo più abbondante, più sostanziosa e più variata. Il pane è migliorato da per tutto. La carne, la zuppa, il pane bianco sono divenuti, in molti centri industriali, d’uso infinitamente più comune di una volta. Finalmente la durata della vita media è salita da trentacinque anni a quaranta”.

Più oltre Dunoyer delinea il quadro delle fortune inglesi, secondo [Alfred] Marshall. Risulta da questo quadro che in Inghilterra 2.500.000 famiglie non hanno che un reddito di 1.200 franchi. Ora, in Inghilterra, 1.200 franchi sono come da noi 730 franchi, somma che, divisa tra quattro persone, dà a ciascuna 182,50 franchi, ossia cinquanta centesimi al giorno. La somma si avvicina ai 65 centesimi che Chevalier assegna a ciascun francese: la differenza a favore di quest’ultimo proviene da ciò che essendo in Francia minore il progresso della ricchezza, c’è anche minore la miseria. A che bisogna credere, alle magnifiche descrizioni degli economisti o ai loro calcoli?

“Il pauperismo è cresciuto a tal punto in Inghilterra, confessa Blanqui, che il Governo inglese ha dovuto cercare un rifugio in quelle spaventevoli case di lavoro...”. Difatti, queste pretese case di lavoro, ove il lavoro consiste in occupazioni ridicole e sterili, non sono altro, checché se ne dica, che case di tortura. In quanto non c’è per un essere ragionevole tortura che pareggi quella di girare una macina senza grano e senza farina, col solo scopo di fuggire il riposo, senza per questo sottrarsi all’ozio. “Questa organizzazione (l’organizzazione della concorrenza), continua a dire Blanqui, tende a far passare tutti i profitti del lavoro dalla parte del capitale... È a Reims, a Mulhouse, a Saint Quentin, come a Manchester, a Leeds, a Spitalfield che l’esistenza dell’operaio è più precaria...”. Segue un quadro spaventevole della miseria degli operai. Uomini, donne, fanciulli, ragazze vi passano dinanzi affamati, sparuti, cenciosi, pallidi, torvi. La descrizione termina con queste parole: “Gli operai dell’industria meccanica non possono più fornire soldati al reclutamento dell’esercito”. Pare che a quella gente non facciano bene la zuppa e il pane bianco di Dunoyer.

[Louis] Villermé considera come inevitabile il libertinaggio delle giovani operaie. Il concubinato è il loro stato abituale; sono mantenute dai principali, dai commessi, dagli studenti. Quantunque in generale il matrimonio abbia più attrattive per il popolo che per la borghesia, pure molti proletari, malthusiani senza saperlo, temono di far famiglia e seguono la corrente. E così nello stesso modo che gli operai sono carne da cannone, le operaie sono carne da prostituzione: ecco spiegato il vestito elegante della domenica. In fin dei conti, perché queste giovanette dovrebbero essere virtuose più delle borghesi?

[Eugène] Buret, premiato dall’Accademia: “Io dichiaro che la classe operaia è abbandonata corpo e anima a discrezione dell’industria”. – Il medesimo dice altrove: “I più deboli sforzi della speculazione possono fare crescere il prezzo del pane di cinque centesimi e più per libbra: il che rappresenta la somma di 620.500.000 franchi per 34 milioni d’individui”. Notate che il compianto Buret considerava come un pregiudizio popolare l’esistenza degli accaparratori. Eh! sofista: accaparratore o speculatore, che importa il nome se ammettete la cosa?

Con simili citazioni si riempirebbero dei volumi. Ma lo scopo di questo scritto non è di narrare le contraddizioni degli economisti, o di fare alle persone una guerra senza motivo. Il nostro intento è più elevato e più degno: è quello di esporre il Sistema delle contraddizioni economiche, il che è ben altra cosa. Termineremo qui codesta dolorosa rivista; ma, prima di finire, daremo un’occhiata a vari mezzi proposti per rimediare agli inconvenienti della concorrenza.

3. – Rimedi contro la concorrenza

La concorrenza nel lavoro può essere abolita?

Tanto varrebbe domandare se la personalità, la libertà, la responsabilità individuale possano sopprimersi.

Difatti, la concorrenza è l’espressione dell’attività collettiva, nella stessa maniera che il salario, considerato nelle sue determinazioni più elevate, è l’espressione del merito e del demerito, o, in una parola, della responsabilità del lavoratore. È vano declamare e ribellarsi contro queste due forme essenziali della libertà e della disciplina nel lavoro. Senza una teoria del salario, con c’è ripartizione, non c’è giustizia; senza un’organizzazione della concorrenza, non c’è garanzia sociale e, per ciò, non vi è solidarietà.

I socialisti hanno confuso due cose essenzialmente distinte, quando, opponendo l’unione del focolare domestico alla concorrenza industriale, si sono chiesti se la società non potesse essere costituita precisamente come una grande famiglia, i cui membri fossero legati da fraterno affetto e non come una specie di coalizione, nella quale ciascuno è ritenuto dalla ragione dei propri interessi.

La famiglia non è, se mi è lecito esprimermi così, il tipo, la molecola organica della società. Nella famiglia, lo aveva già notato assai bene [Louis de] Bonald, c’è una sola persona morale, un solo spirito, una sola anima, direi quasi con la Bibbia: una carne sola. La famiglia è tipo e culla della monarchia e del patriziato: in essa risiede e si conserva l’idea di autorità e di sovranità, che nello Stato sempre più va scomparendo. Tutte le società antiche e feudali si erano organizzate sul modello della famiglia ed è precisamente contro questa vecchia costituzione patriarcale che protesta e si ribella la democrazia moderna. L’unità costitutiva della società è la fabbrica.

Ora la fabbrica implica necessariamente un interesse di corpo e degl’interessi privati; una persona collettiva e degli individui. Ne risulta un sistema di rapporti ignoti nella famiglia e nei quali l’opposizione della volontà collettiva, rappresentata dal padrone e delle volontà individuali, rappresentate dai salariati, figura al primo posto. Vengono poi i rapporti tra fabbrica e fabbrica, tra capitale e capitale, in altre parole: la concorrenza e l’associazione. Infatti, la concorrenza e l’associazione s’appoggiano l’una sull’altra; l’una non può esistere senza l’altra e lungi dall’escludersi, non sono neanche divergenti. Chi dice concorrenza suppone già uno scopo comune; dunque concorrenza non è egoismo, e il più deplorevole errore del socialismo è di averla considerata come il rovesciamento della società.

Non si tratta qui perciò di distruggere la concorrenza, cosa impossibile quanto di distruggere la libertà; si tratta di trovarne l’equilibrio, direi volentieri, la pulizia. Dacché ogni forza, ogni spontaneità, sia individuale, sia collettiva, deve ricevere la sua determinazione; è, sotto questo riguardo, la concorrenza, nelle condizioni stesse dell’intelligenza e della libertà. Come dunque si determinerà armonicamente la concorrenza nella società?

Abbiamo udita la risposta di Dunoyer, data in nome dell’economia politica. La concorrenza deve determinarsi da se medesima. In altri termini, secondo Dunoyer e tutti gli economisti, il rimedio agli inconvenienti della concorrenza è nella stessa concorrenza, e poiché l’economia politica è la teoria della proprietà, del diritto assoluto d’usare e di abusare, è evidente che l’economia politica non ha null’altro da rispondere. Ora ciò è come dire che l’educazione della libertà si fa mediante la libertà, l’istruzione dello spirito mediante lo spirito, la determinazione del valore mediante il valore: tutte proposizioni evidentemente tautologiche e assurde.

Infatti, per tenerci nel soggetto che stiamo trattando, salta agli occhi che la concorrenza, praticata per se stessa e senz’altro scopo che quello di mantenere una indipendenza vaga e discorde, non può approdare a nulla e che le sue oscillazioni sono eterne. Nella concorrenza sono in lotta i capitali: le macchine, i metodi tecnici, i talenti e l’esperienza, cioè sempre i capitali; la vittoria è assicurata ai grossi battaglioni, e dunque la concorrenza non s’esercita se non a vantaggio degli interessi privati, e se i suoi effetti sociali non sono né determinati dalla scienza né riservati dallo Stato, vi sarà nella concorrenza, come nella democrazia, una continua tendenza dalla guerra civile alla oligarchia, dalla oligarchia al dispotismo, poi dissoluzione e ritorno alla guerra civile, senza fine né riposo. Ecco perché la concorrenza abbandonata a se stessa, non può mai giungere a costituirsi; al pari del valore, essa ha bisogno di un principio superiore che la socializzi e la definisca. Questi fatti sono ormai così bene accertati, che possono considerarsi come entrati nel dominio della critica e non staremo a tornarci su. L’economia politica, per ciò che concerne la politica della concorrenza, non avendo e non potendo avere altro mezzo che la concorrenza stessa, è dimostrata impotente.

Rimane da sapere, dunque, come il socialismo abbia intesa la soluzione. Un solo esempio ci darà la misura dei suoi mezzi e ci permetterà di prendere a suo riguardo alcune conclusioni generali.

Louis Blanc è forse tra tutti i socialisti moderni quello che per il suo rimarchevole talento ha saputo meglio richiamare l’attenzione del pubblico sui propri scritti. Nella sua Organisation du travail [Paris 1839], dopo avere ricondotto il problema dell’associazione a un sol punto, la concorrenza, egli si pronuncia, senza esitare, per la sua abolizione. Si può giudicare da ciò quanto questo scrittore, ordinariamente così accorto, si sia illuso sul valore dell’economia politica e sull’importanza del socialismo. Da una parte Blanc, ricevendo non so da dove le sue idee bell’e fatte, concedendo tutto al suo secolo e nulla alla storia, rigetta assolutamente, nel contenuto e nella forma, l’economia politica e si priva così dei materiali dell’organizzazione; dall’altra dà a tendenze risorte da tutte le epoche anteriori e da lui credute tendenze nuove, una realtà che non hanno e sconosce la natura del socialismo che è di essere esclusivamente critico. Blanc ci dà quindi spettacolo di una immaginativa vivace e pronta alle prese con una impossibilità; egli ha creduto alla divinazione del genio, ma ha dovuto accorgersi che la scienza non s’improvvisa e che il chiamarsi Adolf Boyer, Louis Blanc o Jean-Jacques Rousseau non conta; se nulla c’è nell’esperienza, nulla può esservi nell’intendimento.

Blanc comincia con questa dichiarazione: “Non riusciamo a comprendere coloro che hanno immaginato non sappiamo quale misterioso accoppiamento dei due opposti princìpi. Appiccicare l’associazione alla concorrenza è una meschina idea: è mettere gli ermafroditi al posto degli eunuchi”.

Queste quattro righe di Blanc sono deplorevolissime. Provano che quando faceva la quarta edizione del suo libro, egli aveva, in fatto di logica, così poco progredito come in economia politica e ragionava dell’una e dell’altra come un cieco che parli dei colori. L’ermafroditismo, in politica, consiste precisamente nell’esclusione, perché l’esclusione riconduce sempre, sotto una qualunque forma e in un medesimo grado, l’idea scartata; e Blanc sarebbe stranamente sorpreso se gli si facesse vedere che col mescolare continuamente, com’egli fa nel suo libro, i princìpi più contrari, l’autorità e il diritto, la proprietà e il comunismo, l’aristocrazia e l’uguaglianza, il lavoro e il capitale, la ricompensa e il disinteresse, la libertà e la dittatura, il libero esame e la fede religiosa, il vero ermafrodito, pubblicista a doppio sesso, è proprio lui. Blanc, collocato ai confini della democrazia e del socialismo, uno scalino più giù della repubblica, due al disotto di [Odilon] Barrot, tre al disotto di Thiers, è pur sempre, qualsiasi cosa dica o faccia, un discendente in quarta generazione di Guizot, un dottrinario.

“Certo, esclama Blanc, non siamo tra coloro che gridano anatema al principio di autorità. Questo principio lo abbiamo difeso mille volte contro attacchi tanto dannosi quanto inetti. Sappiamo che quando in una società non c’è in alcun luogo la forza organizzata, il dispotismo è da per tutto...”.

In tal modo, secondo Blanc, il rimedio alla concorrenza, o piuttosto il mezzo di abolirla, consiste nell’intervento dell’autorità, nella sostituzione dello Stato alla libertà individuale: è l’inverso del sistema degli economisti.

Mi dispiacerebbe che Blanc, le cui tendenze sociali sono note, mi accusasse di fargli, confutandole, una guerra politica. Rendo piena giustizia alle intenzioni generose di Blanc; amo e leggo le sue opere e gli rendo grazie per il servizio che ha reso, mettendo a nudo nella sua [Révolution française: histoire de dix ans, 1830-1840, Paris 1849] l’incurabile indigenza del suo partito. Ma nessuno può adattarsi a fare la figura dello stupido e dell’imbecille; ora, messa da parte qualsiasi questione personale, che vi può essere di comune tra il socialismo, questa protesta universale, e il pasticcio di vecchi pregiudizi che forma la repubblica di Blanc? Blanc non cessa di fare appello all’autorità, mentre il socialismo si dichiara apertamente anarchico; Blanc mette il potere sopra la società e il socialismo tende a far passare il potere sotto la società; Blanc fa scendere la vita sociale dall’alto e il socialismo pretende di farla spuntare e vegetare dal basso; Blanc corre dietro alla politica e il socialismo cerca la scienza. Non più ipocrisia, io dirò a Louis Blanc: voi non volete saperne del cattolicesimo né della monarchia né della nobiltà, ma vi occorre un Dio, una religione, una dittatura, una censura, una gerarchia e distinzioni e classi. E io nego il vostro Dio, la vostra sovranità, il vostro Stato giuridico e tutte le vostre mistificazioni rappresentative; io non voglio né l’incensiere di Robespierre né la bacchetta di Marat, e piuttosto che subire la vostra democrazia androgina, appoggio lo statu quo. Da sedici anni il vostro partito resiste al progresso e trattiene l’opinione; da sedici anni mostra la propria origine dispotica facendo anticamera al potere sui banchi del centro sinistra: è tempo che abdichi o si trasformi. Teorici implacabili dell’autorità, cosa proponete che il Governo al quale fate la guerra non possa effettuare in modo più tollerabile di quello che terreste voi?

Il sistema di Blanc si riassume in questi tre canoni: 1° Dare al potere una grande forza d’iniziativa, cioè, in buon volgare, rendere onnipotente l’arbitrio per realizzare un’utopia; 2° Creare e accomandare fabbriche statali; 3° Estinguere l’industria privata sotto la concorrenza dell’industria nazionale.

È tutto qui.

Ha Blanc affrontato il problema del valore, il quale da solo implica tutti gli altri? Non lo sospetta neanche. – Ha dato una teoria della distribuzione? No. – Ha risolto l’antinomia della divisione del lavoro, causa eterna d’ignoranza, d’immoralità e di miseria per l’operaio? No. – Ha fatto sparire la contraddizione tra le macchine e il salariato e conciliato i diritti dell’associazione con quelli della libertà? Tutt’al contrario, Blanc consacra questa contraddizione. Sotto la protezione dispotica dello Stato, egli ammette in principio l’ineguaglianza delle classi e dei salari, aggiungendovi, a titolo di compenso, il diritto elettorale. Operai che votano il proprio regolamento e nominano i propri capi, non sono forse liberi? Potrà bene accadere che questi operai votanti non ammettono tra loro né comando né differenza di salario; allora, nulla essendosi previsto per dare soddisfazione alle migliori attitudini industriali, pur mantenendo l’eguaglianza politica, la dissoluzione penetrerà nella fabbrica e, a meno che non intervenga la polizia, ciascuno andrà per le sue faccende. Questi timori non paiono né seri, né fondati a Blanc; egli aspetta la prova con calma, perfettamente sicuro che la società non s’incomoderà per dargli una smentita.

E le questioni così complesse e imbrogliate, dell’imposta, del credito, del commercio internazionale, della proprietà, della eredità le ha meditate Blanc? E il problema della popolazione lo ha risolto? No, no, no, mille volte no; quando Blanc non taglia di netto una difficoltà, la elimina. A proposito della popolazione egli dice: “La sola miseria è prolifica; ora, la fabbrica statale farà scomparire la miseria, dunque non occorre occuparsi di ciò”.

Invano Sismondi, sorretto dall’esperienza universale, gli grida: “Non abbiamo fiducia alcuna in coloro che esercitano poteri delegati. Crediamo che qualunque corporazione farà i propri affari peggio di coloro che sono animati da un interesse individuale; che da parte dei direttori vi sarà negligenza, fasto, dilapidazione, favoritismo, timore di compromettersi, tutti i difetti insomma che si osservano nell’amministrazione della fortuna pubblica in opposizione alla fortuna privata. Crediamo inoltre che in un’assemblea di azionisti non si troverà altro che disattenzione, capriccio, negligenza e che una impresa mercantile sarebbe continuamente in pericolo e ben presto andrebbe in rovina se dovesse dipendere da un’assemblea deliberante e da un commerciante”. Blanc non ode: stordisce se stesso con la sonorità delle frasi; sostituisce all’interesse privato l’interessamento per la cosa pubblica; alla concorrenza l’emulazione e le ricompense. Dopo aver posto come principio la gerarchia industriale, conseguenza necessaria della sua fede in Dio, nell’autorità e nel genio, si dà in braccio a mistiche potenze, idoli del suo cuore e della sua fantasia.

Per cui Blanc comincia con un colpo di Stato, o piuttosto, secondo la sua espressione originale, applicando la forza d’iniziativa che egli crea nel potere e colpisce i ricchi con una contribuzione straordinaria per accomandarne il proletariato. La logica di Blanc è semplicissima, è la logica della repubblica. Il potere può ciò che il popolo vuole e quel che il popolo vuole è vero. Modo singolare di riformare la società che consiste nel comprimere le sue più spontanee tendenze, negarne le più autentiche manifestazioni e invece di generalizzare il benessere col normale sviluppo delle tradizioni, mettersi a spostare il lavoro e il reddito! Ma, in verità, a che servono questi travestimenti? perché tanti raggiri? Non valeva meglio adottare senz’altro la legge agraria? Il Governo, in virtù della sua iniziativa, non poteva di un tratto dichiarare che tutti i capitali e gli strumenti del lavoro sono proprietà dello Stato, salvo l’indennità da accordare transitoriamente ai detentori? Col mezzo di questo provvedimento perentorio, ma leale e sincero, il campo economico era allora sgombro, l’utopia non avrebbe dovuto affaticarsi molto per nettarlo e Blanc poteva allora, senza impacci di sorta, mettersi con tutt’agio a organizzare la società.

Ma che dico? Organizzare! Tutta l’opera organica di Blanc consiste in un grande atto di espropriazione o di sostituzione, che dir si voglia; una volta spostata e repubblicanizzata l’industria e costituito il grande monopolio, Blanc ritiene che la produzione debba andare a meraviglia, né comprende come contro ciò, che chiama il suo sistema, possa elevarsi una sola obiezione. E difatti, cosa obiettare a un concetto così radicalmente nullo e impalpabile come quello del Blanc? La parte più curiosa del suo libro è quella ove ha raccolto una scelta di obiezioni proposte da alcuni increduli, ai quali è data risposta, s’intende, trionfale. Codesti critici non s’erano accorti che discutendo sul sistema di Blanc, essi ragionavano sulle dimensioni, sul peso e sulla figura di un punto matematico. Ora, è accaduto che nella controversia sostenuta, Blanc ha imparato più che non avesse dalle sue meditazioni, e si vede che se le obiezioni fossero continuate, egli avrebbe finito con lo scoprire ciò che credeva di avere inventato, l’organizzazione del lavoro.

Ma insomma, lo scopo, così ristretto del resto, cui mirava Blanc, cioè l’abolizione della concorrenza e la garanzia di successo per una impresa patrocinata e accomandata dallo Stato, è stato raggiunto? – Riprodurrò in proposito le riflessioni di un economista di talento, [Joseph] Garnier, alle parole del quale mi permetterò di aggiungere qualche commento. “Il Governo, secondo Blanc, farebbe una scelta di operai timorati e darebbe loro buoni salari”. Ci vogliono dunque per Blanc uomini fatti apposta: egli non si lusinga di agire su tutte le indoli. In quanto ai salari, Blanc li promette buoni; e più comodo che segnarne la misura. Blanc ammette per ipotesi che queste fabbriche darebbero un prodotto netto e farebbero inoltre una così efficace concorrenza all’industria privata, che questa si trasformerebbe tutta in fabbriche nazionali.

Com’è possibile ciò se i prezzi di costo delle fabbriche nazionali sono più alti di quelli delle fabbriche libere? Ho fatto vedere al capitolo I che i 300 operai di una filatura non danno, tra tutti all’industriale, un reddito netto e regolare di 20.000 franchi, e che questi 20.000 franchi ripartiti fra i 300 lavoratori non aumenterebbero le loro entrate se non di 18 centesimi al giorno. Ora questo è vero per tutte le industrie. Come farà la fabbrica nazionale, che deve pagare buone mercedi ai suoi operai, a colmare il deficit? – Con l’emulazione, dice Blanc.

Blanc cita con estrema compiacenza la Casa Leclaire, società d’operai imbianchini che fa benissimo i propri affari e la considera come una dimostrazione vivente del suo sistema. Blanc avrebbe potuto aggiungere a quest’esempio una quantità di società simili, che proverebbero tanto quanto è provato dalla Casa Leclaire, cioè niente di più. La Casa Leclaire è un monopolio collettivo, mantenuto dalla grande società che lo regge. Ora si tratta di sapere se la società tutta intera può diventare un monopolio, nel senso di Blanc, e sul modello della Casa Leclaire; e ciò io nego recisamente. Ma quel che tocca più da vicino la questione nostra e a cui Blanc non ha badato, è che risulta dai conti di riparto fornitigli dalla Casa Leclaire, che i salari di codesta Casa superano in larga misura la media generale, e la prima cosa da fare in una riorganizzazione della società, sarebbe quella di suscitare alla Casa Leclaire una concorrenza, sia mediante i suoi operai, sia col mezzo di estranei.

“I salari sarebbero regolati dal Governo. I membri della fabbrica socializzata ne disporrebbero a loro piacimento e l’incontestabile eccellenza della vita in comune non tarderebbe a far nascere dall’associazione dei lavori la volontaria associazione dei piaceri”.

Blanc è comunista sì o no? Lo dica una buona volta invece di tenersi al largo; e se il comunismo non lo rende più intelligibile, almeno si saprà quel che vuole. Leggendo il supplemento in cui Blanc ha giudicato a proposito di confutare le obiezioni fattegli da alcuni giornali, si vede meglio quanto vi è d’incompleto nel suo concetto, figlio almeno di tre padri, il sansimonismo, il fourierismo e il comunismo; col concorso della politica e di un po’, ma pochissimo, di economia politica. Secondo le sue dichiarazioni lo Stato non sarebbe che il regolatore, il legislatore, il protettore dell’industria e non il fabbricante o produttore universale. Ma siccome protegge esclusivamente le fabbriche nazionali per distruggere l’industria privata, finisce suo malgrado, necessariamente nel monopolio e ricade nella teoria sansimoniana, almeno nei riguardi della produzione.

Blanc non può negarlo; il suo sistema è diretto contro l’industria privata; in esso il potere, con la sua forza d’iniziativa, tende ad estinguere ogni iniziativa individuale, a proscrivere il lavoro libero. L’accoppiamento dei contrari è odioso al Blanc: perciò noi vediamo che dopo aver sacrificato la concorrenza all’associazione, le sacrifica la libertà. L’aspetto all’abolizione della famiglia.

“Ciò nonostante, egli dice, la gerarchia uscirebbe dal principio elettivo, come nel fourierismo, come nella politica costituzionale. Ma poi queste fabbriche socializzate, regolate dalla legge, sarebbero altra cosa che corporazioni? Qual è il vincolo delle corporazioni? la legge. E chi farà la legge? il Governo. Supponete che sarà capace? Ebbene, l’esperienza ha mostrato che il Governo non ha mai avuto competenza e attitudine a regolare gli innumerevoli accidenti dell’industria. Voi ci dite che fisserà la misura dei profitti e quella dei salari; sperate che lo farà in maniera da farci vedere lavoratori e capitali rifugiarsi nella fabbrica socializzata. Ma non ci dite come si stabilirà l’equilibrio tra queste fabbriche che tenderanno alla vita comune, al falanstero, voi non ci dite come queste fabbriche eviteranno la concorrenza interna ed estera; come provvederanno all’eccesso di popolazione in rapporto al capitale; come le fabbriche socializzate manifatturiere differiranno da quelle dei campi e altre cose ancora. So benissimo che risponderete: per la virtù specifica della legge! Ma, se il Governo, lo Stato non sanno farla? Non v’accorgete che scivolate sulla china e siete obbligati ad appigliarvi a qualche cosa di analogo alla legge vigente? Si vede nel leggervi. Vi preoccupate soprattutto d’inventare un potere suscettibile di essere applicato al vostro sistema; ma io dichiaro, dopo avervi letto attentamente, non credo che abbiate una nozione chiara e precisa di quel che v’abbisogna. Ciò che manca a voi, del pari che a noi tutti, è la vera nozione della libertà e dell’eguaglianza che non vorreste sconoscere e che siete costretto a sacrificare, per quante precauzioni prendiate. Non conoscendo la natura e le funzioni del potere, non avete osato fermarvi su una sola spiegazione, non avete prodotto il minimo esempio. Ammettiamo che le fabbriche funzionino per produrre, saranno anche stabilimenti commerciali che faranno circolare i prodotti, faranno degli scambi. E chi regolerà i prezzi? La legge? In verità vi dico ci vorrà una nuova apparizione sul monte Sinai, senza la quale non ve la caverete, né voi, né la vostra Camera dei rappresentanti, né il vostro Consiglio di Stato, né il vostro Areopago di Senatori”.

Sono riflessioni di una giustezza invincibile. Blanc, con la sua organizzazione per opera dello Stato, è sempre costretto a concludere con quello da cui avrebbe dovuto cominciare, e che gli avrebbe risparmiato la fatica di scrivere il suo libro: L’organisation du travail. Dice benissimo il suo critico. “Blanc ha avuto il grave torto di fare della strategia politica con questioni che non si prestano a quest’uso”; ha tentato di mettere in mora il Governo e non è riuscito ad altro se non a dimostrare sempre meglio l’incompatibilità del socialismo con la democrazia retorica e parlamentare. Il suo libretto tutto smagliante di pagine eloquenti fa onore al suo gusto letterario, in quanto al valore filosofico, sarebbe assolutamente lo stesso se l’autore si fosse limitato a scrivere sopra ogni pagina in grossi caratteri questo solo motto: io protesto.

Riassumiamo: la concorrenza, come posizione o fase economica, considerata nella sua origine, è il risultato necessario dell’intervento delle macchine nella costituzione della fabbrica e della teoria di riduzione delle spese generali; considerata nel suo significato proprio e nella sua tendenza è il modo secondo il quale si manifesta ed esercita la spontaneità sociale, l’emblema della democrazia e dell’eguaglianza, lo strumento più energico della costituzione del valore, il sostegno dell’associazione. – Come molla delle forze individuali, è pegno della loro libertà il primo momento della loro armonia, la forma della responsabilità che tutte le unisce e rende solidali. Ma la concorrenza abbandonata a se stessa e privata della direzione di un principio superiore ed efficace non è che un movimento vago, un’oscillazione senza scopo della potenza industriale, eternamente penzolante tra due estremi ugualmente funesti: da una parte le corporazioni e il patronato, che abbiamo visto nascere dalla fabbrica, dall’altra il monopolio, del quale si tratterà nel Capitolo seguente.

Il socialismo, protestando con ragione contro questa concorrenza anarchica, nulla che soddisfi ha proposto ancora per darle regola, e n’è prova il trovare ovunque, in tutte le utopie venute alla luce, la determinazione o socializzazione del valore abbandonata all’arbitrio e tutte le riforme sboccare, quando alla corporazione gerarchica, quando al monopolio dello Stato o al monopolio del comune.

VI. Epoca quarta. Il monopolio

Monopolio: commercio, produzione o godimento esclusivi di una cosa. Il monopolio è l’opposto naturale della concorrenza. Questa semplice osservazione basta, come s’è già detto, per far cadere le utopie il cui proposito è di abolire la concorrenza, come se questa avesse per contrario l’associazione e la fratellanza. La concorrenza è la forza vitale che anima l’essere collettivo: distruggerla, se una simile supposizione potesse farsi, sarebbe uccidere la società.

Ma se la concorrenza è necessaria, essa però implica l’idea del monopolio, poiché il monopolio è come la sede di ogni individualità concorrente. Onde gli economisti hanno dimostrato, e Rossi lo ha formalmente riconosciuto, che il monopolio è la forma di possesso sociale fuori della quale non c’è lavoro, non prodotto, non scambio, non ricchezza. Ogni possesso territoriale è un monopolio; ogni utopia industriale tende a costituirsi in monopolio; lo stesso va detto delle altre funzioni non comprese in queste due categorie.

Il monopolio per se stesso non implica dunque l’idea d’ingiustizia; anzi c’è in esso qualcosa che, appartenendo tanto alla società quanto all’individuo, lo legittima: è qui il lato positivo del principio che prendiamo ad esaminare.

Ma il monopolio, al pari della concorrenza, diviene antisociale e funesto: perché? Per l’abuso, rispondono gli economisti. E i magistrati s’applicano a definire e reprimere gli abusi del monopolio; e la nuova scuola degli economisti ripone ogni sua gloria nell’accusarlo.

Dimostreremo che i cosiddetti abusi del monopolio sono puri e semplici effetti dello sviluppo, in senso negativo, del monopolio legale; che essi non possono essere separati dal loro principio senza procurare la rovina di questo principio, e per conseguenza che sono inaccessibili alla legge, onde ogni repressione per questo rispetto è arbitraria e ingiusta. Di modo che il monopolio, principio costitutivo della società e condizione di ricchezza, è nel tempo stesso e al medesimo grado, principio di rapina e di pauperismo; che più bene gli si fa produrre, più male si raccoglie; che senza lui il progresso si ferma e, con lui, il lavoro s’immobilizza e la civiltà svanisce.

1. – Necessità del monopolio

Dunque il monopolio è il termine fatale della concorrenza, che lo genera con una incessante negazione di se medesima; questa genesi del monopolio è già la sua giustificazione. Dacché essendo la concorrenza inerente alla società, come il moto lo è agli esseri viventi, il monopolio che le viene appresso, che ne è lo scopo e il fine e senza il quale la concorrenza non sarebbe stata ammessa, il monopolio è e resterà legittimo fino a che lo sarà la concorrenza, fino a che dureranno i procedimenti meccanici e le combinazioni industriali, fino a che la divisione del lavoro e la costituzione dei valori saranno necessità e leggi.

Dunque per il solo fatto della sua genesi logica, il monopolio è giustificato. Tuttavia questa giustificazione sembrerebbe poca cosa e arriverebbe a far rigettare più energicamente la concorrenza, se il monopolio non potesse a sua volta affermarsi da se stesso e come principio.

Nei capitoli precedenti abbiamo veduto che la divisione del lavoro è la specificazione dell’operaio, considerato soprattutto come intelligenza; che la creazione delle macchine e l’organizzazione delle fabbriche esprimono la sua libertà e che, mediante la concorrenza, l’uomo, ossia la libertà intelligente entra in azione. Ora il monopolio è l’espressione della libertà vittoriosa, il premio della lotta, la glorificazione del genio, lo stimolo più forte di tutti i progressi compiuti sin dall’origine del mondo: a tal punto che, come dicevamo, la società non sarebbe stata fatta senza di lui, mentre non può sussistere con lui.

Da dove viene al monopolio questa singolare virtù, di cui l’etimologia della parola e l’aspetto volgare della cosa non ci danno la minima idea?

Il monopolio, in fondo, non è altro che l’autocrazia dell’uomo sopra se stesso; è il diritto dittatoriale accordato dalla natura a ciascun produttore d’usare le proprie facoltà come gli aggrada, di dare la via al pensiero in quella direzione che preferisce, di speculare, in quella specialità che gli piace scegliere, con tutta la potenza dei suoi mezzi, di disporre da sovrano degli strumenti che s’è creati e dei capitali accumulati col suo risparmio per volgersi a quell’impresa i cui rischi vuole affrontare e sotto l’espressa condizione di godere, solo, il frutto della scoperta e dei benefici dell’avventura.

Questo diritto è così insito alla libertà, che, a negarlo, si mutila l’uomo nel corpo, nell’anima e nell’esercizio delle sue facoltà, e la società, la quale non progredisce se non per il libero impulso degli individui, mancando gli esploratori, si trova fermata nel proprio cammino.

È tempo di dare, valendoci della testimonianza dei fatti, un corpo a tutte queste idee.

Conosco un comune, ove da tempo immemorabile non c’erano sentieri né per la lavorazione delle terre né per le comunicazioni col di fuori. Per tre quarti dell’anno era interdetta ogni importazione o esportazione di derrate; una barriera di fango e di pantani impediva, nello stesso tempo, qualsiasi invasione dal di fuori e ogni escursione dall’interno della borgata sacrosanta. Sei cavalli, nelle belle giornate bastavano appena a tirare un carico che su una buona strada una rozza al passo avrebbe tirato senza la minima difficoltà. Il sindaco del luogo risolvette, malgrado il consiglio comunale, di aprire una strada sul territorio. Fu per gran tempo deriso, maledetto, esecrato. Si era stati benissimo senza la via fino ad allora: che bisogno c’era di spendere il denaro del comune e fare perdere il tempo ai contadini in prestazioni, carreggi, carrate? Era per soddisfare il suo orgoglio che il sindaco voleva, a spese di poveri affittuari, aprire un così bel viale agli amici di città che venivano a visitarlo!...

Malgrado tutto, la strada fu aperta e i contadini ne furono contenti. Che differenza, dicevano; prima attaccavamo otto cavalli per trasportare una trentina di sacchi al mercato e vi restavamo tre giorni; adesso partiamo la mattina con due cavalli e torniamo la sera. – Ma in tutti questi discorsi il sindaco non c’entra più. Dopo che i fatti gli hanno dato ragione, nessuno parla più di lui; ho saputo anzi che la maggior parte gli tenne il broncio.

Questo sindaco l’ha fatta da Aristide. Supponiamo che, stanco per le assurde vociferazioni, egli avesse sin da principio proposto ai suoi amministrati di far aprire la via a sue spese, a condizione di riscuotere per cinquant’anni un pedaggio, lasciando libero chiunque di andare, come in passato, traverso i campi: cosa ci sarebbe stato di fraudolento in codesta transazione?

Ecco la storia della società e dei monopolizzatori.

Non tutti sono in grado di regalare ai propri concittadini una via o una macchina; ordinariamente è l’inventore, che dopo averci rimesso danari e salute, aspetta una ricompensa. Ricusate dunque ad Arkwright, a Watt, a Jacquard il privilegio della loro scoperta, beffandoli per giunta; essi si chiuderanno a lavorare nel loro gabinetto e forse porteranno nella tomba il proprio segreto. Ricusate al colono il possesso del suolo che egli dissoda e nessuno dissoderà.

Ma, si dice, è questo il vero diritto, il diritto sociale, il diritto fraterno? Ciò che all’uscire dalla primitiva comunità va scusato come un effetto della necessità, non è che un diritto provvisorio, il quale deve sparire davanti a una più completa intelligenza dei diritti e dei doveri dell’uomo e della società.

Io non arretro dinanzi a qualunque ipotesi: vediamo, approfondiamo.

È già un gran punto, che, a confessione degli avversari, nel primo periodo dell’incivilimento le cose non siano potute andare diversamente. Rimane da sapere se le istituzioni di questo periodo abbiano, come si dice, una natura precaria o se siano il risultato di leggi immanenti nella società ed eterne.

Ora la tesi che io sostengo in questo momento è tanto più difficile in quanto è in opposizione diretta con la tendenza generale e io stesso dovrò tra poco rovesciarla mediante la sua intrinseca contraddizione.

Mi si dica, per cortesia, come sia possibile fare appello al principio di socialità, di fratellanza e di solidarietà, quando la società stessa respinge ogni transazione solidale e fraterna. Al sorgere di qualsiasi industria, al primo lampo di una scoperta, l’uomo che inventa è isolato; la società lo abbandona e rimane indietro. A dire meglio, quest’uomo relativamente all’idea che ha concepito e di cui determina l’effettuazione, diviene egli solo la società tutta intera. Egli non ha più associati, non collaboratori, non garanti; ognuno lo fugge; su lui solo pesa la responsabilità, a lui solo quindi tutti i vantaggi della speculazione.

Si insiste: è accecamento da parte della società, è incuria dei suoi diritti e dei suoi più sacri interessi, del benessere delle future generazioni; e lo speculatore meglio informato o più intelligente, non può, senza slealtà, profittare del monopolio che l’ignoranza universale lascia in sua balia.

Io sostengo che questa condotta della società è, in quanto al presente, un atto di grande prudenza; e, in quanto all’avvenire, mostrerò com’essa non ci perda. Ho già dimostrato nel Capitolo II con la soluzione dell’antinomia del valore, che il vantaggio di qualsiasi utile scoperta è per l’inventore, checché egli faccia, sempre minore di quello che ne ritrae la società e ho portata la dimostrazione su questo punto alla precisione matematica. Più innanzi dimostrerò pure che oltre il lucro assicuratole in ogni invenzione, la società esercita sui privilegi che concede, sia temporaneamente, sia a perpetuità, molteplici diritti di ripetizione che coprono largamente l’eccesso di certe fortune private e il cui effetto riconduce prontamente all’equilibrio. Ma non anticipiamo.

Io osservo dunque che la vita sociale si manifesta in doppia maniera: conservazione e sviluppo.

Lo sviluppo s’effettua grazie all’impulso delle energie individuali; la massa è di sua natura infeconda, passiva e refrattaria a qualunque novità. È, se il paragone m’è lecito, la matrice, sterile per se medesima, ma ove sono deposti i germi creati dall’attività privata, la quale, nella società ermafrodita, fa il vero ufficio d’organo maschio.

Ma la conservazione della società dipende dal suo sottrarsi alla solidarietà delle speculazioni private, abbandonando assolutamente ai rischi e pericoli degli individui qualunque innovazione. Si potrebbe in poche pagine tracciare la lista delle invenzioni utili. Le imprese condotte a buon fine si contano; ma nessun numero potrebbe esprimere la moltitudine di idee false e di saggi imprudenti che pullulano tutti i giorni nei cervelli umani. Non c’è un inventore, non un operaio che per un solo concetto sano e giusto non abbia ideato migliaia di chimere, non una intelligenza che per una sola scintilla di ragione non getti turbini di fumo. Se fosse possibile dividere tutti i prodotti della ragione umana, mettendo da un lato i lavori utili, dall’altro tutto quanto andò sprecato in forza, intelligenza, capitali e tempo per errori e fantasticherie, si vedrebbe con sorpresa che l’eccedenza di questo conto sul primo è forse di un miliardo per cento. Che diverrebbe la società se dovesse estinguere questa passività e saldare tutti codesti fallimenti? Che diverrebbero la responsabilità e la dignità del lavoratore, se, coperto dalla garanzia sociale, potesse, senza correre alcun rischio, darsi in preda ai capricci di una immaginazione in delirio e giocare a ogni istante i destini dell’umanità?

Da tutto questo io concludo che, come si è praticato sin dall’origine, così si praticherà fino alla fine, e se su questo punto, come su qualsiasi altro, dovessimo mirare alla conciliazione, è assurdo il pensare che nulla di quanto esiste possa essere abolito. Dacché, essendo il mondo delle idee infinito, al pari della natura, e gli uomini inclini a speculare, cioè ad errare, in quella maniera che sono e furono sempre, segue esservi per gli individui costante eccitazione a speculare e per la società ragione di diffidare e mettersi in guardia e per conseguenza sempre motivo di monopolio.

Per uscire da questo dilemma cosa si propone? Il riscatto? In primo luogo il riscatto è impossibile, essendo monopolizzati tutti i valori; da dove prenderebbe la società l’indennità per i monopolizzatori? quale sarebbe la sua ipoteca? D’altra parte il riscatto sarebbe perfettamente inutile: quando tutti i monopoli fossero riscattati, rimarrebbe da organizzare l’industria. Dov’è il sistema? Su che opinione s’è fissato? Quali problemi sono stati risolti? Se l’organizzazione si fa in modo gerarchico, rientriamo nel regime del monopolio; se le si dà forma democratica, torniamo là da dove siamo partiti; le industrie riscattate cadranno nel dominio del pubblico, cioè nella concorrenza, e a poco a poco ridiverranno monopoli; finalmente se l’organizzazione si fa in modo comunistico, non avremo fatto altro che passare da una impossibilità a un’altra. Come a suo tempo dimostreremo, la comunità, al pari della concorrenza e del monopolio, è antinomica, impossibile.

Al fine di non impegnare la fortuna sociale in una solidarietà illimitata e perciò funesta, si starà contenti di mettere regola allo spirito d’invenzione e d’intrapresa? Si creerà una censura per gli uomini di genio e per i matti? Si deve supporre che la società conosca anticipatamente ciò che precisamente si tratta di scoprire. Sottomettere a un esame preventivo i progetti degli imprenditori è intendere a priori ogni movimento. Ripetiamolo ancora, relativamente allo scopo che si propone, c’è un istante nel quale ogni industriale rappresenta nella sua persona la stessa società; vede meglio e più lontano di tutti gli altri uomini presi insieme e ciò spesso senza che egli possa soltanto spiegarsi o essere compreso.

Quando Copernico, Keplero e Galileo, predecessori di Newton, vennero a dire alla società cristiana, allora rappresentata dalla Chiesa: la Bibbia s’è ingannata; la terra gira e il sole è immobile, essi avevano ragione contro la società, che affidata ai sensi e alle tradizioni, li smentiva. Avrebbe la società potuto accettare la solidarietà del sistema copernicano? – Non lo avrebbe potuto. Infatti, questo sistema contraddiceva apertamente alla sua fede e, aspettando l’accordo della ragione con la rivelazione, Galileo, uno degli inventori responsabili, subì la tortura, facendo testimonianza dell’idea novella.

Noi siamo più tolleranti, lo suppongo; ma questa stessa tolleranza prova che accordando maggiore libertà al genio, non vogliamo avere meno prudenza dei nostri antenati. I brevetti d’invenzione piovono, ma senza garanzia del Governo. I titoli di proprietà sono messi sotto la custodia dei cittadini; ma né il registro né il brevetto ne garantiscono il valore; spetta al lavoro l’effettuazione del valore. In quanto poi alle missioni scientifiche e simili che il Governo si trova talora in vena di confidare a esploratori senza danari, esse sono una rapina e una corruzione di più.

La società non può garantire a chiunque il capitale necessario alla sperimentazione di una idea, essa non può rivendicare il risultato di una intrapresa cui non ha sottoscritto, dunque il monopolio è indistruttibile. Del resto la solidarietà non servirebbe a nulla, perché, potendo ognuno richiedere per le proprie fantasticherie la solidarietà collettiva di tutti e avendo il medesimo diritto d’ottenere il marchio dal Governo, si arriverebbe ben presto all’arbitrio universale, cioè puramente e semplicemente allo statu quo.

Alcuni socialisti, infelicissimamente ispirati, lo dico con tutta la forza della mia coscienza, da astrazioni evangeliche, hanno creduto di sciogliere ogni difficoltà con belle massime di questo genere: – L’ineguaglianza delle attitudini è la prova dell’ineguaglianza dei doveri! – Più riceveste da natura, più dovete dare ai vostri fratelli, – e altre frasi sonore e commoventi che fanno colpo sulle immaginazioni vuote, restando tuttavia la cosa più inutile di questo mondo. La formula pratica che si deduce da questi meravigliosi aforismi è che ogni lavoratore deve tutto il suo tempo alla società e che la società deve dargli in contraccambio, tutto quanto è a lui necessario per l’appagamento dei propri bisogni, nella misura dei mezzi di cui essa dispone.

Mi perdonino i miei amici comunisti. Sarei meno severo con le loro idee se non fossi invincibilmente convinto nella mia ragione e nel mio cuore, che il comunismo, il repubblicanesimo e tutte le utopie sociali, politiche e religiose, che sdegnano i fatti e la critica, sono il maggiore ostacolo che incontri il progresso ai tempi nostri. Come non si vuol capire che la fratellanza non può stabilirsi se non mediante la giustizia; che la sola giustizia, condizione, mezzo e legge della libertà e della fratellanza deve essere l’oggetto del nostro studio e dobbiamo, senza tregua, ricercarne nei minimi particolari la determinazione e la formula? Come mai scrittori, ai quali il linguaggio economico è familiare, dimenticano che la superiorità dei talenti è sinonimo di superiorità di bisogni e che lungi dal ripromettersi che individualità vigorose le diano qualcosa più del volgo, la società deve vigilare costantemente affinché esse non ricevano più di quel che rendano, mentre la massa pena tanto a restituire tutto quanto riceve? Si giri e rigiri a piacere, bisognerà sempre venire al libro di cassa, al conto dell’entrata e della spesa, sola garanzia contro i grandi consumatori, del pari che contro i piccoli produttori. L’operaio è sempre in avanzo sulla sua produzione; tende sempre a prendere a credito, a contrarre debiti, a fare fallimento; ha continuamente bisogno che gli si rammenti la massima di Say: i prodotti si comprano con i prodotti. Supporre che un lavoratore di talenti elevati possa contentarsi di metà del suo salario per favorire i mediocri, fornire gratuitamente i propri servigi e produrre, come dice il popolo, per amor del prossimo, cioè per quell’astrazione che si chiama società, sovrano, cittadinanza, è fondare la società sopra un sentimento, non dico inaccessibile all’uomo, ma che eretto sistematicamente a principio, non è che falsa virtù e pericolosa ipocrisia. La carità ci è comandata per riparare le infermità che accidentalmente affliggono i nostri simili e capisco che sotto questo punto di vista la carità possa essere organizzata; capisco che, procedendo dalla stessa solidarietà, essa ridivenga semplice giustizia. Ma, la carità, presa come strumento d’eguaglianza e legge di equilibrio, condurrebbe la società alla dissoluzione. L’eguaglianza si effettua tra gli uomini grazie alla legge inflessibile e rigorosa del lavoro, la proporzionalità dei valori, la sincerità degli scambi e l’equivalenza delle funzioni; in una parola, grazie alla soluzione matematica di tutti gli antagonismi.

Ecco perché la carità, prima virtù del cristiano, legittima speranza del socialista, meta di tutti gli sforzi dell’economista, diventa un vizio sociale, quando se ne fa un principio organico e una legge; ecco perché certi economisti hanno potuto dire che la carità legale ha fatto più male alla società che l’usurpazione proprietaria. L’uomo, e così anche la società di cui è parte, ha con se stesso un conto corrente perpetuo; deve produrre tutto quanto consuma. Questa è la regola generale cui nessuno può sottrarsi senza essere ipso facto colpito di disonore o sospettato di frode. È davvero una idea ben singolare quella di decretare, sotto pretesto di fratellanza, l’inferiorità relativa della maggior parte degli uomini! Dopo una così bella dichiarazione, non rimarrà che trarne le conseguenze e ben presto, grazie alla fratellanza, si tornerà all’aristocrazia.

Raddoppiate il salario normale dell’operaio, voi lo invitate all’ozio, voi umiliate la sua dignità e demoralizzate la sua coscienza; – toglietegli il premio legittimo dei suoi sforzi, voi incitate la sua collera o esaltate il suo orgoglio. Nell’un caso e nell’altro, alterate i suoi sentimenti fraterni. Al contrario, ponete al godimento la condizione del lavoro, solo modo previsto dalla natura per associare gli uomini, rendendoli buoni e felici e voi rientrate nella legge del riparto economico, i prodotti si comprano con i prodotti. Il comunismo, io l’ho deplorato sovente, è la negazione della società nella sua stessa base, che è la progressiva equivalenza delle funzioni e delle attitudini. I comunisti verso i quali inclina tutto il socialismo, non credono all’eguaglianza derivante dalla natura e dall’educazione; essi vi suppliscono con decreti sovrani, ma, per quanto facciano, ineseguibili. Invece di cercare la giustizia nel rapporto dei fatti, la pigliano nella loro sensibilità, chiamando giustizia tutto ciò che a loro pare amore del prossimo e confondendo continuamente le cose della ragione con quelle del sentimento.

Perché dunque fare sempre intervenire nelle questioni di economia la fratellanza, la carità, l’abnegazione e Dio? Non sarebbe forse perché gli utopisti trovano più facili le ciarle su queste grandi parole che gli studi seri sulle manifestazioni sociali?

Fratellanza! Fratelli, fin che volete, purché io sia il fratello grande e voi il piccolo; purché la società, nostra madre comune, onori la mia primogenitura e i miei servizi raddoppiando la mia porzione. – Voi, dite, provvederete ai miei bisogni nella misura dei vostri mezzi. Io intendo, al contrario, che vi si provveda nella misura del mio lavoro, se no, smetto di lavorare.

Carità! Nego la carità; è misticismo. Invano mi parlate di fratellanza e di amore; sono convinto che non mi amate e sento benissimo che non vi amo. La vostra amicizia è una finzione e se mi amate, è per interesse. Io chiedo tutto quel che mi spetta, niente più di quanto mi spetta; perché me lo negate?

Abnegazione! Nego l’abnegazione; è misticismo. Parlatemi di dare e di avere, solo criterio agli occhi miei del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male nella società. A ciascuno secondo le sue opere, prima; e se, al caso, io sono disposto a soccorrervi, lo farò di buona grazia, ma non voglio essere costretto. Costringermi all’abnegazione è assassinarmi!

Dio! Io non conosco Dio; è un misticismo. Cominciate dal cancellare questo nome dai vostri discorsi, se volete che v’ascolti; perché tremila anni d’esperienza m’hanno insegnato che chiunque mi parla di Dio attenta alla mia libertà o alla mia borsa. Quanto mi dovete? quanto vi devo? ecco la mia religione e il mio Dio.

Il monopolio esiste per fatto della natura e per fatto dell’uomo; ha la sorgente nello stesso tempo nel più profondo della nostra coscienza e nel fatto esteriore del nostro essere individui. Come nel corpo e nell’intelligenza tutto è specialità e proprietà, così il lavoro si produce con un carattere proprio e specifico che ne costituisce la qualità e il valore. E non potendo il lavoro manifestarsi senza materia o oggetto d’esercizio, perché la persona richiama necessariamente la cosa, il monopolio si stab’lisce dal soggetto all’oggetto così infallibilmente come la durata si costituisce dal passato all’avvenire. Le api, le formiche e altri animali viventi in società, non sembrano dotati individualmente che di automatismo; l’anima e l’istinto in essi sono quasi esclusivamente collettivi. Ecco perché tra codesti animali non può esservi luogo a privilegio e a monopolio; perché nelle loro operazioni, anche le più riflesse, non si consultano, né deliberano. Ma essendo l’umanità individualizzata nella sua pluralità, l’uomo diviene fatalmente monopolizzatore, perché non essendo monopolizzatore non sarebbe nulla, e il problema sociale consiste nel sapere non come si aboliranno i monopoli, ma come si potrà conciliarli tutti.

Gli effetti più rimarchevoli e immediati del monopolio sono:


1° Nell’ordine politico, la classificazione dell’umanità in famiglie, tribù, città, nazioni, Stati: è la divisione elementare dell’umanità in gruppi e sottogruppi di lavoratori distinti secondo le razze, le lingue, i costumi, i climi. È con il monopolio che la specie umana ha preso possesso del globo, come sarà con l’associazione che essa ne diverrà interamente sovrana.

Il diritto politico e civile, come lo hanno concepito tutti i legislatori senza eccezione e l’hanno formulato i giureconsulti, nato da codesta organizzazione patriottica e nazionale della società, forma nella serie delle contraddizioni sociali una prima e vasta diramazione, il cui studio esigerebbe esso soltanto un tempo quattro volte maggiore di quello che ci è dato per lo studio della questione industriale proposta dall’Accademia.

2° Nell’ordine economico, il monopolio contribuisce all’accrescimento del benessere, prima aumentando la ricchezza generale col perfezionamento dei mezzi; poi capitalizzando, cioè consolidando le conquiste del lavoro, ottenute mediante la divisione, le macchine e la concorrenza. Da questo risultato del monopolio è uscita la finzione economica per la quale il capitalista è considerato come produttore e il capitale come agente di produzione; poi, come conseguenza di questa finzione, la teoria del prodotto netto e del prodotto lordo.

Dobbiamo, a tale riguardo, presentare alcune considerazioni.

Citiamo dapprima J.-B. Say: “Il valore del prodotto è il prodotto lordo: questo valore, dedotte le spese di produzione, è il prodotto netto. Una nazione, considerata in massa, non ha prodotto netto, perché avendo i prodotti un valore eguale alle spese di produzione, quando si sottraggono queste spese, si sottrae tutto il valore dei prodotti. La produzione nazionale, la produzione annua, devono dunque intendersi sempre come produzione lorda. Il reddito annuo è il reddito lordo. Non si può discorrere di produzione netta se non quando trattasi degli interessi di un produttore in opposizione a quelli degli altri produttori. Il profitto di un imprenditore consiste nel valore prodotto, deduzione fatta del valore consumato. Ma ciò che è per lui consumato, come ad esempio la compera di un servizio produttivo, è per l’autore del servizio una parte di reddito”. (Trattato di economia Politica, Quadro analitico, [tr. it., Torino 1854]).

Su queste definizioni non c’è da ridire. Sventuratamente J.-B. Say non ne sentiva tutta l’importanza e non aveva potuto prevedere che un giorno il suo successore immediato al Collegio di Francia le avrebbe attaccate. Rossi ha preteso confutare la proposizione nella quale Say sostiene essere il prodotto netto di una nazione la cosa stessa del prodotto lordo, in quanto le nazioni, al pari degli imprenditori, nulla producono senza anticipazioni, e che se la formula di Say fosse vera, seguirebbe che l’assioma ex nihilo nihil fit non è più un assioma.

Ora è precisamente questo che accade. L’umanità, a somiglianza di Dio, produce tutto dal nulla, de nihilo hilum, così è essa medesima un prodotto uscito dal nulla e come il suo pensiero procede dal nulla: e Rossi non avrebbe commesso una così grave svista se non avesse confuso con i fisiocrati i prodotti del regno industriale con quelli dei regni animale, vegetale e minerale. L’economia politica incomincia col lavoro, si sviluppa col lavoro, e tutto quanto non viene dal lavoro, ricadendo nell’utilità pura, cioè nella categoria delle cose sottoposte all’azione dell’uomo, ma non ancora rese permutabili dal lavoro, rimane radicalmente estraneo all’economia politica. Lo stesso monopolio, per quanto sia stabilito con un atto puro della volontà collettiva, non muta in niente queste relazioni, perché così in base alla storia, come secondo la legge scritta e la teoria economica, il monopolio non esiste o non è reputato esistente se non dopo il lavoro.

La dottrina di Say è dunque incensurabile. Relativamente all’imprenditore la cui specialità suppone sempre altri industriali che collaborano con lui, il profitto è ciò che resta del valore prodotto, deduzione fatta dei valori consumati, fra i quali bisogna comprendere il salario dell’imprenditore, ossia, in altre parole, la sua provvigione. Relativamente alla società, che comprende tutte le specialità possibili, il prodotto netto è identico al prodotto lordo.

Ma c’è un altro punto la cui spiegazione ho invano cercata nel Say, e negli altri economisti, cioè come si stabilisce la realtà e la legittimità del prodotto netto. È chiaro che per far sparire il prodotto netto, basterebbe aumentare il salario degli operai e il saggio dei valori consumati, rimanendo immutato il prezzo di vendita. In modo che, nulla, a quanto pare, distinguendo il prodotto netto da una ritenuta sui salari, o, ciò che torna lo stesso, da un prelevamento esercitato sul consumatore, il prodotto netto ha tutta l’aria di una estorsione operata con la forza e senza la minima apparenza di diritto.

Questa difficoltà è stata risolta anticipatamente nella nostra teoria della proporzionalità dei valori.

Secondo codesta teoria, chiunque metta a profitto una macchina, un’idea o un fondo, deve essere considerato come un uomo che viene ad accrescere, a spese pari, la somma di una certa specie di prodotti e per conseguenza ad aumentare la ricchezza sociale, facendo economia di tempo. Il principio della legittimità del prodotto netto sta dunque nei procedimenti anteriormente in uso: se la nuova combinazione riesce, vi sarà un soprappiù di valori e per conseguenza un guadagno, che è il prodotto netto; se l’impresa è poggiata su una base falsa, vi sarà deficit sul prodotto lordo e a lungo andare, fallimento e bancarotta. Nello stesso caso, ed è il più frequente, in cui non esista alcuna innovazione da parte dell’imprenditore, siccome il successo di una industria dipende dall’esecuzione, la regola del prodotto netto rimane applicabile. Ora, siccome per effetto della natura del monopolio ogni impresa deve svolgersi a rischio e pericolo dell’imprenditore, segue che il prodotto netto gli appartiene al titolo più sacro che sia tra gli uomini, il lavoro e l’intelligenza.

È inutile ricordare che il prodotto netto è spesso esagerato, sia con riduzioni fraudolente sui salari, sia in altro modo. Sono abusi che derivano non dal principio, ma dalla cupidigia umana e rimangono fuori del dominio della teoria. Del resto, ho fatto vedere, trattando della costituzione del valore, Capitolo II § 2: 1° come il prodotto netto non possa mai eccedere la differenza che risulta dall’ineguaglianza dei mezzi di produzione; 2° come il guadagno che trae la società da ogni invenzione sia incomparabilmente superiore a quello dell’imprenditore. Non tornerò su simili questioni, ormai esaurite: noterò soltanto che per effetto del progresso industriale, il prodotto netto tende costantemente a scemare per l’industriale, mentre d’altra parte il benessere aumenta, come gli strati concentrici che compongono il tronco di un albero si assottigliano a misura che l’albero ingrossa e più essi si allontanano dal centro.

Accanto al prodotto netto, naturale ricompensa del lavoratore, ho segnalato come uno dei più felici effetti del monopolio la capitalizzazione dei valori dalla quale nasce un’altra specie di profitto, cioè l’interesse o affitto dei capitali. – In quanto alla rendita, benché spesso si confonda con l’interesse, benché nel linguaggio consueto si riassuma, al pari del profitto e dell’interesse, nella espressione comune di reddito, essa è tutt’altra cosa dall’interesse: essa non deriva dal monopolio, ma dalla proprietà: si riconnette a una teoria speciale e ne parleremo a suo luogo.

Qual è dunque questa realtà conosciuta da tutti i popoli eppure ancora così mal definita che chiamasi interesse o prezzo del prestito e che dà luogo alla finzione della produttività del capitale?

Tutti sanno che un imprenditore, quando fa il conto delle spese di produzione, le divide ordinariamente in tre categorie: 1° i valori consumati e i servizi pagati; 2° le sue competenze personali; 3° l’ammortamento e l’interesse dei suoi capitali. Da quest’ultima categoria di spese è nata la distinzione dell’imprenditore e del capitalista, quantunque queste due denominazioni esprimano in fondo la medesima facoltà, il monopolio. Così, una impresa industriale, la quale dia solo l’interesse del capitale e nessun prodotto netto, è una impresa insignificante che non riesce se non a trasformare i suoi valori, senza aggiungere nulla alla ricchezza; una impresa insomma che non ha più ragione alcuna d’esistere ed è abbandonata ben presto. Da dove viene che questo interesse del capitale non è considerato come un supplemento del prodotto netto? Come mai non è esso stesso il prodotto netto?

Qui ancora la filosofia degli economisti è in difetto. Per difendere l’usura, hanno preteso che il capitale sia produttivo e hanno cambiato una metafora in una realtà. I socialisti antiproprietari non hanno fatto gran fatica a rovesciare i loro sofismi; e da questa polemica è risultato un tale sfavore per la teoria del capitale, che oggi nell’animo del popolo capitalista e ozioso sono sinonimi. Certo non vengo a ritrattare qui ciò che io stesso ho, dopo tanti altri, sostenuto, né a riabilitare una classe di cittadini che sconosce in così strano modo i propri doveri; ma l’interesse della scienza e del proletariato medesimo mi obbligano a completare le mie prime asserzioni e affermare i veri princìpi.

1° Ogni produzione è effettuata in vista di un consumo, cioè di un godimento. Nella società le parole correlative di produzione e di consumo così come quelle di prodotto netto e prodotto lordo indicano una cosa perfettamente identica. Se dunque, dopo che il lavoratore ha realizzato un prodotto netto, invece di servirsene per aumentare il suo benessere, si limitasse al suo salario, e applicasse sempre l’eccedenza che ottiene in una nuova produzione, come fanno tanti, i quali non guadagnano che per comprare, la produzione crescerebbe indefinitamente mentre il benessere e, ragionando dal punto di vista della società, la popolazione rimarrebbe nello statu quo.

Ora, l’interesse del capitale impegnato in una impresa industriale è formato a poco a poco grazie l’accumulazione del prodotto netto; questo interesse è come una transazione tra la necessità di aumentare da una parte la produzione e dall’altra il benessere, è un modo di riprodurre e consumare nel tempo stesso il prodotto netto. Ecco, perché certe società industriali pagano ai loro azionisti un dividendo prima ancora che l’impresa abbia potuto rendere. La vita è breve, il successo viene a passi misurati; da un lato il lavoro comanda, dall’altro l’uomo vuol godere. Per accordare tutte queste esigenze, il prodotto netto sarà reso alla produzione; ma nel frattempo (inter-ea, inter-esse), cioè in attesa del nuovo prodotto, il capitalista godrà.

In modo che, siccome la cifra del prodotto netto segna il progresso della ricchezza, l’interesse del capitale, senza cui il prodotto netto sarebbe inutile e anche non esisterebbe, segna il progresso del benessere. Qualunque sia la forma di governo che si stabilisca tra gli uomini, vivano in dittatura o in comunità, abbia un lavoratore il suo conto aperto in dare e avere, o il comune gli distribuisca lavoro e piacere, la legge che abbiamo esposta si adempirà. I nostri conti degli interessi non fanno altro che rendere testimonianza della medesima.

2° I valori creati dal prodotto netto entrano nel risparmio e vi si capitalizzano sotto la forma più eminentemente permutabile, meno suscettibile di svalutazione e più libera, sotto la forma insomma di numerario, solo valore costituito. Ora, che questo capitale da libero che è, venga a impegnarsi, cioè a prendere forma di macchine, di costruzioni, ecc., esso sarà pur sempre suscettibile di scambio, ma assai più di prima esposto alle oscillazioni dell’offerta e della domanda. Una volta impegnato, difficilmente riuscirà a trarsene fuori e al titolare non rimane che aspettarsene un profitto con l’esercizio dell’impresa. Solo l’impresa è atta a conservare al capitale impegnato il suo valore nominale; è possibile che l’aumenti, possibile che lo attenui. Un capitale così trasformato è come se si fosse avventurato in una impresa marittima; l’interesse è il premio di assicurazione del capitale. E questo premio sarà più o meno forte secondo l’abbondanza o scarsezza dei capitali.

Più tardi si distinguerà ancora il premio di assicurazione del capitale, e nuovi fatti risulteranno da questo sdoppiamento e così la storia dell’umanità non è altro che una perpetua distinzione dei concetti dell’intelligenza.

3° Non solo l’interesse dei capitali fa godere dell’opera propria il lavoratore e dà sicurezza al suo risparmio; ma, e questo è l’effetto più meraviglioso di questo interesse, pur ricompensando la produzione, l’obbliga a lavorare senza posa e non fermarsi mai.

Se un imprenditore è egli stesso il proprio capitalista, può accadere che si contenti, per tutto guadagno, dell’interesse dei suoi capitali; ma è certo allora che la sua industria non è più in progresso e per conseguenza soffre. Lo si scorge benissimo quando altri è il capitalista, altri l’imprenditore. Siccome allora, a causa dell’interesse, il guadagno è assolutamente nullo per il fabbricante, la sua industria diventa un continuo pericolo da cui si deve liberare. Per cui, dovendo il benessere svilupparsi per la società in progresso indefinito, così è anche per il produttore che realizzi continuamente un’eccedenza: senza ciò l’esistenza sua è precaria, monotona, penosa. L’interesse dovuto dal produttore al capitalista è come la frusta del colono che schiocca sul capo dello schiavo addormentato; è la voce del progresso che grida: cammina, cammina! lavora, lavora! Il destino dell’uomo lo spinge alla felicità; perciò gli vieta il riposo.

4° Finalmente l’interesse del denaro è la condizione necessaria del giro dei capitali e il principale agente della solidarietà industriale. Questo aspetto è stato colto da tutti gli economisti e noi ne tratteremo in modo speciale quando ci occuperemo del credito.

Ho dimostrato, credo, meglio che non si fosse fatto sinora: Che il monopolio è necessario, perché è l’antagonismo della concorrenza;

Che è essenziale alla società, perché senza di esso, questa non sarebbe mai uscita dalle foreste primitive e quando le mancasse il monopolio retrocederebbe rapidamente.

Infine, che esso è la corona del produttore, quando, sia per il prodotto netto, sia per l’interesse dei capitali impiegati nella produzione, procura al monopolizzatore l’aumento di benessere che meritano la sua previdenza e i suoi sforzi.

Glorifichiamo dunque con gli economisti il monopolio e lo consacriamo a vantaggio dei cauti conservatori? Volentieri, purché gli economisti ai quali ho reso ragione nelle pagine precedenti, me la rendano alla loro volta nelle pagine seguenti.

2. – Disastri nel lavoro e pervertimenti d’idee causati dal monopolio

Al pari della concorrenza, il monopolio implica contraddizione nei termini e nella definizione. Difatti, essendo il consumo e la produzione due cose identiche nella società e vendere è sinonimo di comprare, chi dice privilegio di vendita o di industria, dice necessariamente privilegio di consumo e di acquisto; il che porta alla negazione dell’uno e dell’altro. Di là l’interdizione di consumare, così come di produrre, pronunciata dal monopolio contro il salariato. La concorrenza era la guerra civile, il monopolio è il massacro dei prigionieri.

Queste diverse proposizioni riuniscono in sé tutte le forme dell’evidenza: fisica, metafisica, algebrica. Quel che aggiungerò non è che l’esposizione amplificata; col solo enunciarle si dimostrano.

Ogni società, considerata nei suoi rapporti economici, si divide naturalmente in capitalisti e lavoratori, imprenditori e salariati, distribuiti su una scala i cui gradi implicano il reddito di ciascuno, comunque si componga, di salari, di profitti, d’interessi, di pigioni o di rendite.

Da questa distribuzione gerarchica delle persone e dei redditi, risulta che il principio di Say, dianzi ricordato: In una nazione il prodotto netto è uguale al prodotto lordo, non è più vero, perché per effetto del monopolio, la cifra dei prezzi di vendita è molto superiore alla cifra dei prezzi di costo. Ora, essendo il prezzo di costo quello che deve pagare il prezzo di vendita, non avendo in realtà una nazione altro sbocco che se medesima, segue che lo scambio, e quindi la circolazione e la vita sono impossibili.

“In Francia 20 milioni di lavoratori, diffusi in tutti i rami della scienza, dell’arte, dell’industria producono tutto quanto è utile alla vita dell’uomo. La somma dei loro salari riuniti è uguale, per ipotesi a 20 miliardi; ma, a cagione del guadagno (prodotto e interesse) preso dai monopolizzatori, la somma dei prodotti deve essere pagata 25 miliardi. Ora, siccome la nazione non ha altri compratori che i suoi salariati e i suoi salarianti, che costoro non pagano per gli altri e che il prezzo di vendita delle merci è lo stesso per tutti, è chiaro che per rendere possibile la circolazione, il lavoratore dovrebbe pagar cinque ciò per cui non ha avuto più di quattro”. (Che cos’è la proprietà?, Cap. IV).

Ecco in che maniera ricchezza e povertà sono correlative, inseparabili, non solo nell’idea, ma nel fatto; ecco ciò che le fa esistere in concorrenza l’una dell’altra e dà diritto al salariato di pretendere che il ricco non possieda più del povero se non perché fu tolto a questo. Dopo che il monopolio ha fatto il suo conto di spese, guadagni e interesse, il salariato-consumatore fa il proprio e si trova che promettendogli un salario rappresentato nel contratto di lavoro per cento, in realtà gli viene dato solo settantacinque. Il monopolio dunque spinge il salariato al fallimento ed è rigorosamente vero che vive delle sue spoglie.

Da sei anni ho sollevato questa contraddizione spaventevole; perché la mia voce non ha avuto un’eco nella stampa? perché i padroni della fama non hanno avvertita l’opinione pubblica? perché coloro che reclamano i diritti politici per l’operaio non hanno detto che lo si deruba? perché gli economisti hanno taciuto? perché?

La nostra democrazia rivoluzionaria fa tanto strepito perché ha paura delle rivoluzioni; ma, dissimulando il pericolo, che non osa guardare in faccia, coopera ad accrescerlo. “Noi somigliamo, dice Blanqui, a fuochisti che aumentino la dose di vapore mentre chiudono le valvole”. Vittime del monopolio, consolatevi! Se i vostri carnefici non vogliono ascoltare, la Provvidenza ha deciso di colpirli: Non audierunt vocem patris sui quia voluit Dominus occidere eos.

Se la rendita non può adempiere le condizioni del monopolio c’è ingombro di merci; il lavoro ha prodotto in un anno ciò che il salario non gli permette di consumare che in quindici mesi, dunque starà a spasso una quarta parte dell’anno. Ma, stando a spasso non guadagna nulla e come farà a comprare? E se il monopolizzatore non può disfarsi dei suoi prodotti, come può mantenere la sua impresa? L’impossibilità logica si moltiplica intorno alla fabbrica, i fatti che la traducono sono dovunque.

“I berrettai d’Inghilterra, dice Eugène Buret, s’erano ridotti a mangiare un giorno sì e l’altro no. E durarono otto mesi in tale stato”. Egli cita una moltitudine di simili casi.

Ma quel che accora, nello spettacolo degli effetti del monopolio, è di vedere gli sventurati operai accusarsi reciprocamente della loro miseria e immaginarsi che coalizzandosi e sostenendosi gli uni con gli altri impediranno la riduzione dei salari. “Gli Irlandesi, dice un osservatore, hanno dato una funesta lezione alle classi lavoratrici della Gran Bretagna... Hanno insegnato ai nostri lavoratori il fatale segreto di limitare i propri bisogni al mantenimento della sola vita animale e di contentarsi, come i selvaggi, del minimum dei mezzi di sussistenza che bastano a prolungare la vita... Ammaestrate da questo fatale esempio, cedendo in parte alla necessità, le classi lavoratrici hanno perduto il lodevole orgoglio che le induceva ad arredare decentemente le loro case e moltiplicare a proprio vantaggio i comodi decenti che contribuiscono alla felicità”.

Nulla di più desolante e stupido ho mai letto. E cosa volevate che facessero codesti operai? Gli Irlandesi sono venuti; dovevano massacrarli? Il salario è stato ridotto: si doveva ricusarlo e morire? La necessità dominava, lo riconoscete voi stessi. Poi vennero le giornate di lavoro allungate, la malattia, la deformità, la degenerazione, l’abbrutimento e tutti i segni della schiavitù industriale; tutte queste calamità sono nate dal monopolio e dai suoi tristi antecedenti, la concorrenza, le macchine, la divisione del lavoro: e voi accusate gli Irlandesi!

Altre volte gli operai accusano la cattiva fortuna e si esortano alla pazienza; è la controparte dei ringraziamenti che indirizzano alla Provvidenza quando il lavoro abbonda e i salari sono sufficienti.

Trovo in un articolo pubblicato da Léon Faucher nel “Journal des Economistes” (settembre 1845), che da qualche tempo gli operai inglesi hanno persa l’abitudine delle coalizioni, il che è certamente un progresso di cui è da felicitarsi con essi; ma che questo miglioramento nel costume degli operai dipende soprattutto dalla loro cultura economica: “Non è dagli industriali, esclamava al meeting di Boston un operaio filatore, che il salario dipende. Nelle epoche di depressione, i padroni sono, per dir così, la frusta di cui si arma la necessità e, vogliano o no, bisogna che ci colpiscano. Il principio regolatore è il rapporto dell’offerta con la domanda e i padroni non hanno questo potere... Agiamo dunque con prudenza; sappiamo rassegnarci alla cattiva fortuna e trarre partito dalla buona: assecondando i progressi della nostra industria, riusciremo utili non solo a noi medesimi, ma a tutto l’intero paese”. (Applausi).

Alla buonora! Ecco operai ben pensanti, operai modello. Che uomini sono questi filatori che subiscono senza lamenti la frusta della necessità, perché il principio regolatore del salario è l’offerta e la domanda!

Léon Faucher aggiunge con una ingenuità meravigliosa: “Gli operai inglesi sono ragionatori intrepidi. Date loro un principio falso e lo spingeranno matematicamente fino all’assurdo, senza fermarsi né spaventarsi, come se marciassero al trionfo della verità”. Per me, spero che malgrado tutti gli sforzi della propaganda economista gli operai francesi non saranno mai ragionatori di questa forza. L’offerta e la domanda, al pari della frusta della necessità, non fanno più presa sull’animo loro. Mancava questa miseria all’Inghilterra, ma non passerà lo stretto.

Per l’effetto combinato della divisione, delle macchine, del prodotto netto e dell’interesse, il monopolio estende le sue conquiste con una progressione crescente; il suo sviluppo abbraccia l’agricoltura del pari che il commercio e l’industria e tutte le specie di prodotti. Tutti conoscono il motto di Plinio [Secondo] sul monopolio terriero che determinò la caduta dell’Italia, latifundia perdidere Italiam. È questo stesso monopolio che impoverisce e rende inabitabile la campagna romana e forma il circolo vizioso in cui s’agita convulsamente l’Inghilterra. Costituito violentemente in seguito a una guerra di razza, produce tutti i mali dell’Irlanda e cagiona tante angustie a O’Connell, impotente, con tutta la sua facondia, a condurre i suoi uditori traverso questo labirinto. I grandi sentimenti e la retorica sono il peggiore rimedio ai mali della società: sarebbe più facile a [Daniel] O’Connell di trasportare l’Irlanda e gli Irlandesi dal Mare del Nord nell’Oceano Australe col soffio delle sue arringhe che fare cadere il monopolio che li costringe. Le comunioni generali e le prediche non servono meglio. Se il sentimento religioso sostiene ancora, solo, il morale degli Irlandesi, è tempo ormai che un po’ di quella scienza profana che la Chiesa sdegna tanto, venga in aiuto alle pecorelle cui il pastore non è più buona tutela.

L’invasione del monopolio nel commercio e nell’industria è troppo nota perché io stia qui a raccoglierne le testimonianze: del resto a che giova il tanto argomentare se i risultati parlano così chiaro? Le descrizioni della miseria delle classi operaie fatta da E. Buret, ha qualcosa di fantastico che v’opprime e vi spaventa. Sono scene alle quali l’immaginazione rifiuta di prestare fede, malgrado i documenti e i processi verbali. Sposi affatto nudi, nascosti nel fondo di un’alcova senza mobili, con i loro figli nudi anche essi; intere popolazioni che non vanno la domenica alla chiesa, perché sono nude; cadaveri rimasti otto giorni senza sepoltura perché il defunto non aveva lasciato né un lenzuolo per avvolgere il suo cadavere né di che pagare la bara e il becchino (e il vescovo piglia da 4 a 500.000 franchi di rendita); – famiglie ammassate nelle fogne, viventi con i maiali e divorate vive dalla putredine o abitanti in buche come gli Albinos; ottuagenari coricati ignudi su tavole nude; la vergine e la prostituta spiranti nella stessa nudità; da per tutto la disperazione, la consunzione, la fame, la fame...! E questo popolo che espia i delitti dei suoi padroni non si ribella! No, per le fiamme di Nemesi!... Quando il popolo non sa vendicarsi, non c’è più Provvidenza.

Gli eccidi in massa del monopolio non hanno ancora trovato poeti. I nostri rimatori, estranei agli affari di questo mondo, senza viscere per il proletario, continuano a sospirare alla l’una le loro melanconiche voluttà. Eppure quale soggetto di meditazioni sarebbero le miserie generate dal monopolio!

Parla Walter Scott: “Una volta, molti anni fa, ogni contadino aveva la sua vacca e il suo maiale e l’orticello attorno alla casa. Dove oggi lavora un solo fittavolo, vivevano un tempo trenta piccoli coloni; in modo che per un solo individuo più ricco, dei trenta coloni del tempo antico, vi sono ora ventinove giornalieri miserabili, senza impiego per le loro intelligenze e le loro braccia e più della metà dei quali è di troppo. La sola funzione utile che compiono è di pagare, quando possono, una rendita di 60 scellini all’anno per le capanne ove abitano”.

Il filatoio nella valle tace,
Dei domestici lari è ito il culto.
Su poco fumo il vecchio nonno stende
Le sue pallide mani; è desolato
Il voto focolar come il suo cuore.

Le relazioni presentate al Parlamento rivaleggiano col romanziere e col poeta. “Gli abitanti di Glensheil, nei dintorni della valle di Dundee, si distinguevano una volta da tutti i loro vicini per la superiorità delle qualità fisiche. Gli uomini erano di alta statura, robusti, attivi, coraggiosi; le donne avvenenti e graziose. I due sessi possedevano un gusto straordinario per la poesia e la musica. Ora, le prove diuturne della miseria, la prolungata privazione di nutrimento adeguato e di vestiti convenienti, hanno profondamente deteriorato questa razza che era notevolmente bella”.

Ecco la degradazione fatale menzionata da noi nei due capitoli della divisione del lavoro e delle macchine. I nostri letterati intanto si occupano di gentilezze retrospettive come se l’attualità fosse impari al loro genio! Il primo di essi che si è avventurato in queste vie infernali ha fatto scandalo nella cricca. Codardi parassiti, vili trafficanti di prosa e di versi, degni tutti del salario di Marsia! Se il vostro supplizio potesse durare tanto quanto il mio disprezzo, sareste costretti a credere alla eternità dell’inferno.

Il monopolio che dianzi ci era parso così ben fondato in giustizia è tanto più ingiusto, in quanto non solo rende il salario illusorio, ma inganna l’operaio nella valutazione di questo salario, prendendo di fronte a lui un falso titolo, una falsa qualità.

Sismondi, nei suoi Études sur l’économie politique, [Paris 1837-1838], osserva che quando un banchiere rimette a un negoziante dei biglietti di banca in cambio dei valori forniti da costui, ben lungi dal fare credito al negoziante, lo riceve, al contrario, da lui. “Questo credito, soggiunge Sismondi, è, in verità, a così corta scadenza, che il negoziante pensa appena ad esaminare se il banchiere ne sia degno, tanto più che è lui a ricorrere al credito invece di accordarne”.

Di modo che, secondo il parere di Sismondi, nell’emissione della carta bancaria, i compiti del negoziante e del banchiere sono invertiti; il primo è il creditore e il secondo è il debitore.

Qualche cosa di simile avviene tra il monopolista e il salariato.

Infatti, sono gli operai, che, come il negoziante alla banca, chiedono di scontare il loro lavoro: in diritto toccherebbe all’imprenditore di dare ad essi cauzione e garanzia.

Mi spiego. In ogni industria, qualunque natura abbia, l’imprenditore non può rivendicare legittimamente, in più del suo lavoro personale, altra cosa che l’idea; in quanto all’esecuzione, risultato del concorso di numerosi lavoratori, è un effetto di potenza collettiva, gli autori della quale, liberi nella loro azione al pari del capo, non possono produrre nulla che vada gratuitamente a lui. Ora, si tratta di sapere se la somma dei salari individuali pagati dall’imprenditore equivale all’effetto collettivo del quale io parlo, perché se fosse altrimenti, l’assioma di Say, ogni prodotto vale ciò che costa, sarebbe violato.

“Il capitalista, si diceva, ha pagato le giornate degli operai a prezzo convenuto; per conseguenza non è verso di loro debitore di nulla. Per essere esatti, bisognerebbe dire che egli ha pagato tante volte una giornata quanti operai ha occupato, il che non è la stessa cosa. Perché la forza immensa risultante da unione dei lavoratori, dalla convergenza, e dall’armonia dei loro sforzi; l’economia di spese ottenuta grazie al loro raccogliersi in maestranza; la moltiplicazione del prodotto, prevista, è vero, dall’imprenditore, ma realizzata da forze libere, egli non le ha punto pagate. Duecento granatieri che manovrano sotto la direzione di un ingegnere, hanno, in poche ore, eretto l’obelisco sulla sua base; si può credere forse che un sol uomo in duecento giorni ne sarebbe venuto a capo? Intanto per conto dell’imprenditore la somma dei salari è la medesima nei due casi, perché egli si aggiudica il beneficio della forza collettiva. Ora, di due cose l’una: c’è usurpazione da parte sua, o c’è errore”. (Che cos’è la proprietà?, Cap. III).

Per trarre conveniente profitto dalla mula Jenny ci sono voluti meccanici, costruttori, commessi, squadre d’operai d’ogni specie. In nome della loro libertà, della loro sicurezza, del loro avvenire, dell’avvenire dei loro figli, questi operai, arruolandosi nella filatura, dovevano fare delle riserve: dove sono le lettere di credito che hanno rilasciate agli imprenditori? Dove le garanzie che hanno avuto da costoro? E che! milioni di uomini hanno venduto le proprie braccia e alienato la propria libertà senza conoscere la portata del contratto; si sono impegnati sulla fede di un lavoro costante e di una retribuzione conveniente; hanno eseguito con le loro mani ciò che la mente dei padroni aveva concepito; sono diventati, con questa collaborazione, soci nell’impresa: e quando il monopolio, non potendo o non volendo più fare scambi, sospende la fabbricazione e lascia questi milioni di operai senza pane, si raccomanda a questi di rassegnarsi. A causa dei nuovi processi industriali, questa gente ha perduto nove giornate di lavoro sopra dieci; e per compenso si mostra la frusta della necessità alzata sulle loro teste! Allora, se rifiutano di lavorare per un salario più scarso, si prova loro che puniscono se stessi. Se accettano il prezzo offerto, perdono quel nobile orgoglio, quel gusto degli agi decenti che formano la felicità e la dignità dell’operaio. Se si concertano per far aumentare il salario, sono gettati in prigione! E mentre toccherebbe a loro di tradurre innanzi ai tribunali quelli che li sfruttano, è sopra di essi che i tribunali vendicheranno gli attentati alla libertà del commercio! Vittime del monopolio, sconteranno la pena dovuta ai monopolizzatori! O giustizia degli uomini, stupida cortigiana, fino a quando sotto i tuoi orpelli di dea, berrai il sangue del proletario sgozzato?

Il monopolio ha invaso tutto, terra, lavoro, strumenti del lavoro, prodotti, distribuzione dei prodotti. La stessa economia politica ha dovuto riconoscerlo: “Voi trovate sempre sulla vostra via, dice Rossi, un monopolio. Non c’è prodotto che si possa considerare come il puro e semplice risultato del lavoro: per cui la legge economica che proporziona il prezzo al costo di produzione non si realizza mai completamente. È una formula modificata profondamente dall’intervento dell’uno o dell’altro dei monopoli ai quali si trovano sottomessi gli strumenti di produzione”. (Corso di economia politica, Lezione Sesta).

Rossi è collocato troppo in alto per dare al proprio linguaggio la precisione e l’esattezza che la scienza esige quando trattasi del monopolio. Ciò che egli chiama con tanta benevolenza una modificazione delle formule economiche, non è altro che una lunga e odiosa violazione delle leggi fondamentali del lavoro e dello scambio. È per effetto del monopolio che nella società il prodotto netto si conta in sovrappiù del prodotto lordo e il lavoratore collettivo deve perciò riscattare il proprio prodotto a un prezzo superiore a quello che questo prodotto costa: il che è contraddittorio e impossibile; – che la bilancia naturale della produzione e del consumo si trova distrutta; che il lavoratore è ingannato tanto sull’ammontare del suo salario, quanto sui suoi regolamenti; che il progresso nel benessere si cangia per lui in progresso continuo nella miseria; è a causa del monopolio, infine, che tutte le nozioni di giustizia commutativa sono pervertite e l’economia sociale, da scienza positiva diventa una vera utopia.

Questa trasfigurazione dell’economia politica sotto l’influenza del monopolio è un fatto così rimarchevole nella storia delle idee sociali, che non possiamo esimerci dal produrne qui alcuni esempi.

Così, dal punto di vista del monopolio, il valore non è più quel concetto sintetico, che serve ad esprimere il rapporto di un oggetto particolare di utilità verso il complesso della ricchezza, valutandosi dal monopolio le cose non in relazione alla società, ma in relazione a sé, il valore perde il suo carattere sociale e non è più che un rapporto vago, arbitrario, egoista, essenzialmente mobile. Partendo da questo principio, il monopolizzatore estende la qualifica di prodotto a tutte le specie di servitù e applica l’idea di capitale a tutte le industrie frivole e vergognose che alimentano i suoi vizi e le sue passioni. Le lusinghe di una cortigiana, dice Say, sono un fondo il cui prodotto segue la legge generale dei valori, cioè quella dell’offerta e della domanda. La maggior parte delle opere di economia politica sono piene di applicazioni di questa fatta. Ma siccome la prostituzione e la domesticità da cui essa proviene sono riprovate dalla morale, Rossi, ci farà notare che l’economia politica, dopo avere modificata la sua formula, in seguito all’intervento del monopolio, dovrà farle subire una nuova correzione, quantunque le sue conclusioni siano inappuntabili. L’economia politica, egli dice, non ha nulla di comune con la morale; tocca a noi accettarne, modificarne o correggerne le formule secondo il nostro bene, quello della società e gl’interessi della morale. Quante cose intercorrono tra l’economia politica e la verità!

Similmente, la teoria del prodotto netto, così eminentemente sociale, progressiva e conservatrice è stata, mi si consenta l’espressione, individualizzata a sua volta dal monopolio, e il principio che dovrebbe procurare il benessere della società ne cagiona la rovina. Il monopolizzatore, ricercando sempre il maggior prodotto netto possibile, non opera più come membro della società e nell’interesse della società: egli opera in vista del suo esclusivo interesse, sia o no contrario all’interesse sociale. Questo mutamento di prospettiva è la causa che Sismondi assegna allo spopolamento della campagna romana. Secondo indagini comparative eseguite circa il prodotto dell’agro romano, secondo che questo fosse messo a coltura o lasciato a pascolo, egli ha trovato che il prodotto lordo sarebbe dodici volte più considerevole nel primo caso che nel secondo; ma siccome la coltivazione esige relativamente un maggior numero di braccia, egli ha visto altresì che in questo medesimo caso il prodotto netto sarebbe minore. Questo calcolo che non era sfuggito ai proprietari è bastato per confermarli nell’abitudine di lasciare incolte le loro terre e la campagna romana è disabitata.

Tutte le parti degli Stati romani, aggiunge Sismondi, presentano il medesimo contrasto tra i ricordi della loro prosperità nel Medioevo e la loro attuale desolazione. La città di Ceri, resa celebre da Renzo di Ceri, che difese Marsiglia contro Carlo V e Ginevra contro il duca di Savoia, è una desolazione. In tutti i feudi degli Orsini e dei Colonna, non c’è più gente. Nelle foreste che circondano il bel lago di Vico, la razza umana è scomparsa; e i soldati con i quali il temuto prefetto di Vico fece così spesso tremare Roma nel secolo decimoquarto, non hanno lasciato discendenti. Castro e Romigliano sono desolati... (Études sur l’économie politique).

Difatti, la società vuole il massimo prodotto lordo e per conseguenza la maggiore popolazione possibile, perché per essa prodotto lordo e prodotto netto sono identici. Il monopolio al contrario mira costantemente al massimo prodotto netto, dovesse anche ottenerlo a costo dello sterminio del genere umano.

Sotto questa influenza del monopolio, l’interesse del capitale, pervertito nella sua nozione, è divenuto a sua volta, per la società, un principio di morte.

Come abbiamo già spiegato, l’interesse del capitale è, da una parte, la forma sotto cui il lavoratore gode del suo prodotto netto, pur facendolo servire a nuove creazioni; d’altra parte questo interesse è il vincolo materiale di solidarietà tra i produttori, dal punto di vista dell’accrescimento delle ricchezze. Sotto il primo aspetto, la somma degli interessi non può mai eccedere l’ammontare stesso del capitale, sotto il secondo punto di vista, l’interesse comporta, di più del rimborso, un premio come ricompensa del servizio reso. In nessun caso implica perpetuità.

Ma il monopolio, confondendo la nozione del capitale, la quale non può attribuirsi se non alle creazioni dell’industria umana, con quella del fondo usufruibile che la natura ci ha dato e che appartiene a tutti, favorito per altro nella sua usurpazione dallo stato anarchico di una società ove il possesso non può esistere se non a condizione d’essere esclusivo, sovrano, perpetuo; – il monopolio si è immaginato, ha messo per principio che il capitale, al pari che la terra, gli animali e le piante, avesse in sé un’attività propria, che dispensasse il capitalista dal recare altro allo scambio, e dal prendere alcuna parte ai lavori della fabbrica. Da questa idea falsa del monopolio è venuto il nome greco dell’usura, tokos, come a dire il parto, o l’accrescimento del capitale, il che ha dato motivo ad Aristotele di fare questo gioco di parole: gli scudi non fanno figlioli. Ma la metafora degli usurai ha prevalso contro il motteggio dello Stagirita; l’usura, come la rendita, di cui è una imitazione, è stata dichiarata, di diritto, perpetua; e solo molto tardi per un semiritorno al principio, ha riprodotto l’idea di ammortamento...

Tale è il significato di questo enigma che ha sollevato tanti scandali fra i teologi e i legislatori e sul quale la Chiesa cristiana ha errato due volte: la prima condannando ogni specie d’interesse, la seconda accostandosi al parere degli economisti e smentendo così le sue antiche massime. L’usura, o diritto d’inatteso guadagno è nello stesso tempo l’espressione e la condanna del monopolio; è lo spostamento organizzato e localizzato del lavoro da parte del capitale; è di tutti i sovvertimenti economici quello che più alto accusa l’antica società e la cui scandalosa persistenza, giustificherebbe una espropriazione brusca e senza indennità di tutta la classe capitalista. Finalmente, il monopolio, per una specie d’istinto di conservazione ha pervertito persino l’idea di associazione che poteva fargli contrasto, o per dire meglio, non le ha permesso di nascere.

Chi potrebbe oggi lusingarsi di definire quel che deve essere la società tra gli uomini? La legge distingue due specie e quattro varietà civili e altrettante società di commercio, dal semplice fare a metà fino all’anonima. Ho letto i commentari più rispettabili che si siano scritti su tutte queste forme di associazione e dichiaro di non aver trovato altro che un’applicazione delle abitudini cieche del monopolio tra due o più coalizzati che uniscono i loro capitali e i loro sforzi contro chiunque produce e consuma, inventa e scambia, vive e muore. La condizione sine qua non di tutte le società è il capitale, la cui sola presenza le costituisce e dà loro una base; il loro oggetto è il monopolio, cioè l’esclusione di tutti gli altri lavoratori e capitalisti, da cui la negazione dell’universalità sociale, in quanto alle persone.

Per cui, stando alla definizione del Codice, una società di commercio che ponesse come principio la facoltà per ogni straniero di farne parte su semplice domanda, e di godere subito dei diritti e delle prerogative dei soci, anche amministratori, non sarebbe più una società; i tribunali ne pronuncerebbero d’ufficio la dissoluzione, la non esistenza. Così ancora, un atto di società nel quale i contraenti non stipulassero nessun conferimento e che, riservando a ciascuno il diritto espresso di fare concorrenza a tutti, si limitasse a garentire reciprocamente il lavoro e il salario, senza parlare né della specialità dell’industria né dei capitali né degli interessi né di profitti e perdite; un atto simile parrebbe contraddittorio nel suo tenore, sfornito d’oggetto come di ragione e sarebbe, ad istanza del primo associato refrattario, annullato dal giudice. Convenzioni redatte in modo che non potrebbero dare luogo ad azione giudiziaria; persone che si dichiarassero soci di tutti sarebbero considerate soci di nessuno; scritti nei quali si parlasse nello stesso tempo di garanzia e di concorrenza tra i soci, senza alcuna menzione di fondo sociale e senza designazione di oggetto, passerebbero per un’opera di ciarlatanismo trascendentale, il cui autore potrebbe essere mandato a Bicêtre, supponendo che i magistrati consentano a considerarlo solo come pazzo.

Eppure è accertato da tutto quanto la storia e l’economia politica offrono di più autentico, che l’umanità fu posta nuda e senza capitale sulla terra che usufruisce; conseguentemente che essa ha creato quotidianamente ogni ricchezza; che il monopolio nel suo seno è soltanto una nozione relativa che serve a designare il grado del lavoratore, con certe condizioni di godimento e che tutto il progresso consiste nel determinare la proporzionalità dei prodotti indefinitamente moltiplicati, cioè nell’organizzare il lavoro e il benessere mediante la divisione, le macchine, la fabbrica, l’educazione, la concorrenza. Lo studio più accurato dei fenomeni non scorge altro al di là di questo. D’altra parte è evidente che tutte le tendenze dell’umanità e nella sua politica e nelle sue leggi civili sono alla universalizzazione, cioè a una completa trasformazione dell’idea di società quale i nostri codici la determinano.

Per cui concludo che un atto di società, il quale regolasse, non più la quota di concorso dei soci, perché ogni socio, secondo la teoria economica, è reputato non possedere nulla al suo ingresso nella società, ma le condizioni del lavoro e dello scambio e desse libero accesso a quanti si presentassero, io concludo, dico, che un tale atto di società sarebbe razionale e scientifico, perché sarebbe l’espressione medesima del progresso, la formula organica del lavoro, perché rivelerebbe, per così dire, l’umanità a se stessa dandole i rudimenti della propria costituzione.

Ora chi mai tra i giureconsulti e gli economisti s’è appressato, soltanto alla distanza di mille leghe, a quest’idea magnifica eppure tanto semplice? “Io non credo, dice Troplong, che lo spirito di associazione sia chiamato a destini maggiori di quelli che ha avuto in passato fino a oggi...; e confesso che non ho tentato nulla per realizzare codeste speranze che reputo esagerate... Esistono dei giusti limiti che l’associazione non deve oltrepassare. No! l’associazione non è chiamata in Francia a governare tutto. Lo slancio spontaneo dello spirito individuale è anche esso una forza viva della nostra nazione e una causa della sua originalità... L’idea di associazione non è nuova... Già noi vediamo presso i Romani la società di commercio comparire con tutta la sua attrezzatura di monopoli, accaparramenti, collusioni, coalizioni, pirateria, venalità... L’accomandita riempie il diritto civile, commerciale e marittimo del Medioevo: essa è in codesta epoca il più attivo strumento del lavoro organizzato in società... Sin dalla metà del secolo decimoquarto, vediamo formarsi le società per azioni e fino al rovescio di [John] Law si vedono divenire una moda. Come! noi ci meravigliamo perché si mettono in azioni miniere, fabbriche, brevetti, giornali! Ma, due secoli fa, si mettevano in azioni isole, reami, quasi tutto un emisfero. Noi gridiamo al miracolo perché centinaia di accomandatari verranno ad aggrupparsi intorno a una impresa; ma già nel secolo decimoquarto la città di Firenze era tutta accomandita di pochi mercanti che spinsero il più lontano possibile il genio delle imprese. – Poi, se le nostre speculazioni sono cattive, se siamo stati temerari, imprevidenti o creduli tormentiamo il legislatore con turbolenti reclami: chiediamo divieti e annullamenti. Nella mania di fare regolamenti per tutto, anche per quanto è già codificato; d’incatenare tutto a testi riveduti, corretti e aumentati; di amministrare tutto, anche i rischi e i rovesci del commercio, gridiamo, in mezzo a tante leggi esistenti: c’è qualche cosa da fare?...”.

Troplong crede alla Provvidenza, ma di certo non è favorito. Non è lui che troverà la formula reclamata oggi dagli animi, disgustati ormai di tutti i protocolli di coalizioni e di rapina dei quali Troplong sciorina il quadro nel suo commentario. Troplong s’inquieta e con ragione contro coloro che vogliono incatenare tutto ai testi di legge: e poi pretende incatenare l’avvenire in una cinquantina di articoli, ove la ragione la più sagace non segnerebbe una scintilla di scienza economica né un’ombra di filosofia. Nella nostra mania, egli grida, di fare regolamenti per tutto, anche per quanto è già codificato!... Non conosco nulla così esilarante come questo tratto, che dipinge nello stesso tempo il giureconsulto e l’economista. Dopo il Codice Napoleone, tirate su la scala!...

“Fortunatamente – seguita Troplong – tutti i progetti di mutamenti venuti in luce nel 1837 e 1838 con tanto fracasso, sono oggi dimenticati. I conflitti delle proposte e l’anarchia delle opinioni riformiste hanno dato risultati negativi. Mentre si operava la reazione contro gli agitatori; il buon senso faceva giustizia di tanti piani ufficiali d’organizzazione assai meno in armonia con le usanze del commercio, meno liberali, dopo il 1830, dei divisamenti del Consiglio di Stato imperiale! Ora tutto è tornato in ordine e il Codice di commercio ha conservato la sua integrità, la sua eccellente integrità. Quando il commercio ne ha bisogno, esso vi trova accanto alla società in nome collettivo, alla società in partecipazione, alla società anonima, l’accomandita libera, temperata solo dalla prudenza degli accomandatari e dagli articoli del Codice penale sulla truffa”. ([Raymond-Théodore Troplong, Du contract des société civile et commerciale, Prefazione, [Paris 1843]).

Che razza di filosofia è codesta che gode vedendo abortire i tentativi di riforma e conta i propri trionfi con i risultati negativi dello spirito d’indagine!... Noi non possiamo in questo istante addentrarci nella critica delle società civili e commerciali, che hanno fornito a Troplong il materiale per due volumi. Riserviamo questo soggetto per il momento in cui, compiuta la teoria delle contraddizioni economiche, avremo trovato nella loro equazione generale il programma dell’associazione, che noi pubblicheremo allora, riguardo alla pratica e ai divisamenti dei nostri antichi.

Una parola sola sull’accomandita.

A primo aspetto si crederebbe che l’accomandita per la sua potenza espansiva e per la facilità di mutazione che presenta, possa generalizzarsi in modo di abbracciare una intera nazione, in tutti i suoi rapporti commerciali e industriali. Ma il superficiale esame della costituzione di questa società fa scorgere ben presto che la specie di allargamento di cui essa è suscettibile, quanto al numero degli azionisti, nulla ha di comune con l’estensione del vincolo sociale.

In primo luogo, l’accomandita, come tutte le altre società di commercio, è necessariamente limitata a una impresa unica: sotto questo rapporto, esclude tutte le industrie estranee alla sua propria. Se fosse altrimenti, l’accomandita avrebbe cangiato natura; sarebbe una forma novella di società i cui statuti si occuperebbero, non più specialmente dei lucri, ma della distribuzione del lavoro e delle condizioni dello scambio; sarebbe per l’appunto quella forma di associazione che Troplong nega e la giurisprudenza del monopolio esclude.

In quanto poi alle persone che compongono l’accomandita, esse si dividono in due categorie: gli amministratori e gli azionisti. Gli amministratori, pochissimi in numero, sono scelti tra i promotori, gli organizzatori e i padroni dell’impresa: a dire il vero sono i soli soci. Gli azionisti, paragonati al piccolo governo che amministra con pieni poteri la società, sono tutta una massa di contribuenti, estranei gli uni agli altri, senza influenza e senza responsabilità, non sono legati all’affare se non per le quote. Sono prestatori a premio, non sono soci.

S’intende, dopo ciò, come tutte le industrie del regno possano essere esercitate da accomandite e come ogni altro cittadino, grazie alla facilità di moltiplicare le sue azioni, possa interessarsi nella totalità o nella maggior parte di codeste accomandite, senza per ciò migliorare per nulla la propria condizione; potrebbe darsi anzi che essa venga sempre più compromessa. Per cui, lo ripetiamo, l’azionista è la bestia da soma, la materia greggia dell’accomandita; dannoso è per lui che codesta società s’è formata. Perché l’associazione sia reale, occorre che colui il quale vi entra, vi appartenga in qualità non di scommettitore, ma d’imprenditore; che abbia voto deliberativo nel Consiglio; che il suo nome sia espresso o sottinteso nella ditta sociale, che tutto, infine, quanto lo riguarda sia regolato sulla base dell’uguaglianza. Ma queste condizioni sono precisamente quelle dell’organizzazione del lavoro che non è punto entrata nelle previsioni del Codice; esse formano il tema ulteriore dell’economia politica, e per conseguenza non sono da supporre, ma da creare, e come tali, radicalmente incompatibili col monopolio.

Il socialismo, malgrado il fatto del suo nome, non ha avuto finora migliore fortuna del monopolio nella definizione della società; si può anche dire che in tutti i suoi piani d’organizzazione, si è sotto questo rapporto, mostrato sempre plagiario dell’economia politica. Blanc, che ho già citato a proposito della concorrenza, e che abbiamo visto a vicenda farsi partigiano del principio gerarchico, difensore ufficioso dell’uguaglianza, banditore del comunismo, negare con un tratto di penna la legge di contraddizione perché non la capisce, e soprattutto aspirare al potere, come ragione ultima del suo sistema, Blanc offre di nuovo il curioso esempio di un socialista che copia, senz’accorgersene, l’economia politica e s’aggira di continuo nel circolo vizioso del regime solito della proprietà. Nel fondo, Blanc nega la preponderanza del capitale; nega pure che il capitale sia uguale al lavoro nella produzione; nel che è d’accordo con le sane teorie economiche. Ma non può o non sa fare a meno del capitale, prende per punto di partenza il capitale, fa appello all’accomandita dello Stato, cioè si mette in ginocchio dinanzi ai capitalisti e riconosce la sovranità del monopolio. Da ciò le contorsioni singolari della sua dialettica. Prego il lettore di perdonarmi queste eterne personalità; ma poiché il socialismo, al pari della economia politica si è personificato in un certo numero di scrittori, non posso dispensarmi dal citare gli autori.

“Il capitale, diceva il ‘Falansterio’, in quanto è una facoltà che concorre alla produzione, ha o non ha la legittimità delle altre facoltà produttive? Se è illegittimo, pretende illegittimamente una parte qualsiasi nella produzione, bisogna escluderlo, non gli si può dare alcun interesse; se, al contrario, è legittimo, non può essere legittimamente escluso dalla partecipazione ai guadagni, all’aumento dei quali ha contribuito”.

La questione non poteva essere messa con maggiore chiarezza. Blanc trova, al contrario, che essa è posta in modo confusissimo, il che vuol dire che se ne sente imbarazzato e si tormenta a non dire, per trovarne il significato. Dapprima suppone che gli si domandi: “se sia equo di accordare al capitalista, nei lucri della produzione, una parte uguale a quella del lavoratore”. A che Blanc risponde senza esitare che ciò sarebbe ingiusto. Segue uno squarcio d’eloquenza per dimostrare questa ingiustizia.

Ora il falansterista non chiede se la parte del capitalista debba essere pari o non a quella del lavoratore; egli vuole soltanto sapere se al capitale tocca una parte. A questo Blanc non risponde.

Si vuol dire, continua Blanc, che il capitale è indispensabile, come lo è il lavoro alla produzione? – Qui Blanc distingue: ammette che il capitale è indispensabile come il lavoro, ma non tanto quanto il lavoro.

Ancora una volta, il falansterista non disputa sulla quantità, ma sul diritto. Si vuol dire, è sempre Blanc che interroga, che non tutti i capitalisti sono degli oziosi? Blanc, generoso per i capitalisti che lavorano, chiede perché si debba dare una così grossa parte a quelli che non lavorano. Tirata d’eloquenza sui servizi impersonali del capitalista e i servizi personali del lavoratore, terminata con un appello alla Provvidenza.

Per la terza volta vi si domanda, se la partecipazione del capitale ai benefici sia legittima, così come ammettete che sia indispensabile nella produzione.

Finalmente, Blanc, che pure aveva capito, si decide a rispondere che, se accorda un interesse al capitale, è per misura transitoria e per addolcire ai capitalisti la china che devono discendere. Del resto, siccome il suo progetto rende inevitabile l’assorbimento dei capitali privati nell’associazione, sarebbe commettere una follia e abbandonare i princìpi se si facesse di più. Se Blanc avesse studiato la materia, poteva rispondere con una sola parola: nego il capitale.

Così Blanc, e sotto questo nome comprendo tutto il socialismo, dopo avere con una prima contraddizione nel titolo del suo libro – Dell’organizzazione del lavoro – dichiarato che il capitale è indispensabile nella produzione, e per conseguenza che deve essere organizzato e partecipare ai benefici come il lavoro, respinge, con una seconda contraddizione, il capitale dall’organizzazione e rifiutata di riconoscerlo; – con una terza contraddizione, egli che si fa beffe delle decorazioni e dei titoli di nobiltà, distribuisce le corone civiche, le ricompense e le distinzioni ai letterati, inventori e artisti che avranno bene meritato dalla patria; assegna ad essi stipendi, secondo i gradi e le dignità loro: cose tutte che importano la restaurazione del capitale, con tanta realtà, ma tuttavia non con tanta precisione matematica, come se s’accogliessero l’interesse e il prodotto netto; – con una quarta contraddizione Blanc costituisce questa nuova aristocrazia sul principio d’uguaglianza, cioè pretende di fare votare delle compagnie di arte da soci uguali e liberi, dei privilegi d’ozio dalla gente che lavora; lo spossessamento, insomma, dagli spossessati; – con una quinta contraddizione fonda questa aristocrazia d’uguaglianza sulla base di un potere dotato di gran forza, cioè sul dispotismo, altra forma del monopolio; – con una sesta contraddizione, dopo avere, con i suoi incoraggiamenti alle arti e al lavoro, tentato di proporzionare la ricompensa al servizio, come fa il monopolio, il salario all’attitudine, come fa il monopolio, si mette a cantare le lodi della vita in comune, del lavoro e del consumo in comune; il che non gli impedisce di voler sottrarre agli effetti della comune indifferenza, tramite incoraggiamenti nazionali prelevati sul fondo comune, gli scrittori seri e gravi, dei quali la comune dei lettori non si cura” – con una settima contraddizione... Ma fermiamoci a sette perché ci sarebbe da arrivare a settantasette senza finire.

Si dice che Blanc, il quale prepara adesso una Storia della rivoluzione francese, s’è posto a studiare seriamente l’economia politica. Il primo frutto di questo studio sarà quello, non ne dubito, di fargli disdire il suo libercolo sull’organizzazione del lavoro e poi di riformare tutte le sue idee sull’autorità e il Governo. A questo titolo la Storia della rivoluzione francese di L. Blanc sarà un lavoro veramente utile e originale.

Tutte le sette socialiste, senza eccezione, sono invase dal medesimo pregiudizio; tutte a loro insaputa, ispirate dalla contraddizione economica, vengono a confessare la propria impotenza dinanzi alla necessità del capitale, tutte aspettano per realizzare le loro idee, di avere in mano il potere e il denaro. Le utopie del socialismo, in ciò che concerne l’associazione, fanno più che mai emergere la verità di ciò che abbiamo detto sin da principio; nulla c’è nel socialismo che non si trovi nell’economia politica e questo plagio perpetuo è la condanna irrevocabile di entrambi. Da nessuna parte si vede spuntare l’idea-madre che sprizza così luminosa dalla generazione delle categorie economiche: che cioè la formula superiore dell’associazione non deve affatto occuparsi del capitale, oggetto dei conteggi privati, ma deve riferirsi unicamente all’equilibrio della produzione, alle condizioni dello scambio, alla progressiva riduzione del prezzo di costo, sola e unica fonte del progresso della ricchezza. Invece di determinare i rapporti d’industria a industria, di lavoratore a lavoratore, di provincia a provincia e di popolo a popolo, i socialisti non pensano che a provvedersi di capitali, intendendo sempre il problema della solidarietà dei lavoratori come se si trattasse di fondare una nuova ditta di monopolio.

Il mondo, l’umanità, i capitalisti, l’industria, la pratica degli affari esistono; non si tratta più se non di ricercarne la filosofia; in altre parole di organizzarsi; e i socialisti vanno in cerca di capitali! Vivendo sempre fuori della realtà, che meraviglia c’è se la realtà vien meno ad essi?

Così Blanc vuole l’accomandita dello Stato e la creazione di fabbriche nazionali; così Fourier chiedeva sei milioni e la sua scuola si occupa anche oggi di mettere insieme questa somma; così i comunisti sperano in una rivoluzione che dia loro l’autorità e il tesoro e si perdono raccogliendo inutili sottoscrizioni. Il capitale e il potere, organi secondari nella società, sono sempre gli dèi che il socialismo adora: se il capitale e il potere non esistessero li inventerebbe. Con le preoccupazioni continue del potere e del capitale il socialismo ha completamente disconosciuto il senso delle sue stesse proteste; e di più non s’è accorto che impegnandosi, come faceva, nel fuoco economico, toglieva a sé persino il diritto di protestare. Esso accusa di antagonismo la società e vuole giungere alla riforma a mezzo di questo stesso antagonismo. Chiede dei capitali per i poveri lavoratori, come se la miseria dei lavoratori non derivasse dalla mutua concorrenza dei capitali, al pari che dalla fattiva opposizione tra lavoro e capitale; come se la questione non fosse oggi precisamente quale sarebbe stata prima della creazione dei capitali, cioè ancora e sempre una questione d’equilibrio; come, infine, se, ripetiamolo senza tregua, ripetiamolo a sazietà, si trattasse ormai d’altra cosa che di una sintesi di tutti i princìpi emessi dalla civiltà, e che se questa sintesi, se l’idea che porta avanti il mondo, fosse conosciuta, occorrerebbe l’intervento del capitale e dello Stato per metterla in evidenza.

Il socialismo, disertando la critica per abbandonarsi alla declamazione e all’utopia, mescolandosi agli intrighi politici e religiosi, ha tradito la sua missione e sconosciuto il carattere del secolo. La rivoluzione del 1830 ci aveva demoralizzato, il socialismo ci infiacchisce. Come l’economia politica, della quale non fa che ripassare le contraddizioni, il socialismo è impotente a soddisfare il moto degli intelletti; non è più altro, se non un nuovo pregiudizio da distruggere in coloro che piegano il collo al suo giogo e in quelli che lo propagano come una ciarlataneria da smascherare, tanto più pericolosa in quanto è ordinariamente in buona fede.

VII. Epoca quinta. La polizia o l’imposta

Nello stabilire i suoi princìpi, l’umanità, come se obbedisse a un precetto sovrano, non indietreggia mai. Simile al viaggiatore che per andirivieni obliqui s’innalza dalla vallata profonda al sommo della montagna, segue intrepidamente la sua via sinuosa e cammina verso la meta con passo sicuro, senza pentimenti, senza fermate. Giunto all’angolo del monopolio, il genio sociale volge indietro uno sguardo melanconico e immerso in profonda riflessione, dice:

“Il monopolio ha tolto ogni cosa al povero salariato: pane, vesti, focolare, educazione, libertà, sicurezza. Io sottoporrò a contribuzione il monopolio: solo a tal prezzo manterrò il suo privilegio.

“La terra e le miniere, le foreste e le acque, primo dominio dell’uomo, sono interdette al proletario. Interverrò nella loro coltivazione, avrò la mia parte dei prodotti e il monopolio territoriale sarà rispettato. L’industria è caduta nel feudalesimo; ma l’alto signore sono io. I vassalli mi pagheranno un tributo e conserveranno il guadagno dei loro capitali. Il commercio preleva sul consumatore lucri usurai. Seminerò di pedaggi la sua vita, bollerò i suoi mandati, visiterò le sue spedizioni e lo lascerò passare. Il capitale ha vinto il lavoro con l’intelligenza. Aprirò delle scuole; e il lavoratore, reso intelligente anch’egli, potrà divenire a sua volta capitalista. Ai prodotti manca la circolazione e la vita sociale è compromessa. Costruirò vie, ponti, canali, mercati, teatri, chiese, e ciò sarà, nello stesso tempo, un lavoro, una ricchezza e uno sbocco. Il ricco vive nell’abbondanza mentre l’operaio soffre la fame. Metterò tasse sul pane, sul vino, sulla carne, sul sale e sul miele, sui generi di prima necessità e sulle cose di valore, e questa sarà un’elemosina per i poveri. Metterò guardiani sulle acque, le vie, le foreste, i campi, le miniere; manderò esattori per le imposte e maestri per l’infanzia; avrò un esercito per i refrattari, tribunali per giudicarli, prigioni per punirli e preti che li maledicano. Tutti questi uffici saranno affidati al proletariato e pagati dagli uomini del monopolio. Questa è la mia volontà certa ed efficace”.

Noi dobbiamo provare che la società non poteva né pensare meglio, né agire peggio: sarà il tema di una rassegna che, lo spero, getterà nuova luce sul problema sociale.

Ogni provvedimento di polizia generale, ogni regolamento di amministrazione e di commercio, al pari di ogni legge d’imposta, non è altro, in fondo, che uno degli innumerevoli articoli di questa antica transazione, sempre violata e sempre ripresa, tra il patriziato e il proletariato. Poco ci importa che le parti o i loro rappresentanti non abbiano saputo nulla; che esse stesse abbiano frequentemente considerate le loro costituzioni politiche sotto tutt’altro punto di vista; non chiediamo all’uomo, legislatore o principe, il senso dei suoi atti, lo chiediamo agli atti medesimi.

1. – Idea sintetica dell’imposta. Punto di partenza e sviluppo di quest’idea

Al fine di rendere più intelligibile quel che verrà in seguito, esporrò rovesciando il metodo che abbiamo tenuto sinora, la teoria superiore dell’imposta; ne darò poi la genesi, e finalmente ne esporrò la contraddizione e i risultati. L’idea sintetica dell’imposta, del pari che il suo concetto originario, fornirebbe materia a più ampi sviluppi. Mi limiterò ad enunciare semplicemente la proposizione, indicando sommariamente le prove.

L’imposta nella sua essenza e nella sua destinazione positiva è la forma di distribuzione tra quella specie di funzionari che Adam Smith indicò col nome di improduttivi, quantunque fosse, al pari di ogni altro, convinto della utilità e necessità del loro lavoro nella società. Con la designazione di improduttivi Adam Smith, il cui genio ha tutto intravisto e ci ha lasciato tutto da fare, intendeva che il prodotto di questi lavoratori è negativo, il che è diverso da nullo e per conseguenza il riparto segue, rispetto a loro, un modo diverso dallo scambio.

Consideriamo ciò che, dal punto di vista del riparto, avviene nelle quattro grandi divisioni del lavoro collettivo: istruzione, industria, commercio, agricoltura. Ogni produttore reca sul mercato un prodotto reale la cui quantità può misurarsi, la qualità valutarsi, dibattersi il prezzo e finalmente scontarsi il valore, sia con altri servizi, o merci, sia in numerario. Per tutte queste industrie il riparto non è altra cosa che lo scambio mutuo dei prodotti, secondo la legge di proporzionalità dei valori.

Nulla di simile per i funzionari pubblici.

Costoro ottengono il diritto alla sussistenza, non con la produzione di utilità reali, ma con l’improduttività stessa nella quale, senza loro colpa, sono ritenuti. Per essi la legge di proporzionalità è inversa; mentre la ricchezza sociale si forma e accresce in ragione diretta della quantità, della varietà e della proporzione dei prodotti effettivi forniti dalle quattro grandi categorie industriali; lo sviluppo di questa medesima ricchezza, il perfezionamento sociale, suppongono al contrario, in ciò che riguarda il personale della polizia, una riduzione progressiva e indefinita. I funzionari dello Stato sono dunque veramente improduttivi. A questo riguardo J.-B. Say pensava come A. Smith, e tutto quanto egli ha scritto su questo tema per correggere il suo maestro, e s’è avuto il torto di annoverare tra i suoi titoli di gloria, proviene unicamente, com’è facile vedere, da un malinteso. In una parola, il salario degli impiegati del Governo costituisce per la società un deficit; esso deve essere portato al conto delle perdite, che l’organizzazione industriale deve mirare a diminuire senza tregua: quale altra qualificazione dare quindi agli uomini del potere se non quella di A. Smith?

Ecco dunque una categoria di servizi che, non dando prodotti reali, non possono per nulla essere saldati nella forma consueta; servizi che non cadono sotto la legge dello scambio, che non possono diventare oggetto di speculazione privata, di concorrenza, di accomandita o di alcuna specie di commercio; servizi che, sebbene tutti li reputino prestati gratuitamente, devono essere pagati, perché confidati, in virtù della legge di divisione del lavoro, a un ristretto numero d’individui speciali che vi attendono esclusivamente.

La storia conferma questo concetto generale. Lo spirito umano, il quale per ogni problema tenta tutte le soluzioni, ha tentato altresì di sottoporre allo scambio le funzioni pubbliche; per lungo tempo i magistrati in Francia, come i notai, hanno vissuto con le loro prebende. Ma l’esperienza ha provato che questa maniera di riparto adoperato per gente improduttiva era troppo costoso, andava soggetto a troppi inconvenienti e vi si è dovuto rinunziare.

L’organizzazione dei servizi improduttivi contribuisce in molte maniere al benessere generale: dapprima esonerando i produttori dalle cure della cosa pubblica, cui tutti devono partecipare e di cui per conseguenza sono più o meno schiavi; in secondo luogo creando nella società un accentramento artificiale, immagine e preludio della futura solidarietà delle industrie; finalmente dando il primo saggio di ponderazione e di disciplina.

Così noi riconosciamo con J.-B. Say l’utilità dei magistrati e altri agenti dell’autorità pubblica; ma sosteniamo che questa utilità è affatto negativa e manteniamo per conseguenza il titolo di improduttivi dato loro da A. Smith, non per sentimento qualsiasi di sfavore, ma perché effettivamente non possono essere classificati nella categoria dei produttori. “L’imposta – dice benissimo un economista della scuola di Say, Garnier – è una privazione che bisogna adoperarsi a scemare più che sia possibile, fino alla occorrenza dei bisogni della società”. Se lo scrittore che cito ha riflettuto sul significato delle sue parole, ha visto certo che la parola privazione della quale si serve, è sinonimo di non-produzione, e in conseguenza coloro al cui vantaggio si raccoglie l’imposta sono veramente improduttivi.

Insisto su questa definizione, che mi sembra tanto meno contestabile, in quanto che se si disputa ancora sul vocabolo, tutti però sono d’accordo sulla cosa, perché contiene il germe della più grande rivoluzione che debba compiersi nel mondo, la subordinazione delle funzioni improduttive alle funzioni produttive, in una parola la sottomissione effettiva, sempre chiesta, mai ottenuta, dell’autorità ai cittadini.

È una conseguenza dello sviluppo delle contraddizioni economiche, che l’ordine nella società si mostri dapprima come a rovescio; che ciò che deve essere in alto sia posto in basso; ciò che deve essere in rilievo paia inciso e ciò che deve essere in luce sia rigettato nell’ombra. Così il potere che è, per essenza, come il capitale, ausiliare e subordinato del lavoro, diventa, per l’antagonismo della società, la spia, il giudice e il tiranno delle funzioni produttive; il potere, cui la sua inferiorità originaria impone l’obbedienza, è principe e sovrano.

In tutti i tempi le classi lavoratrici si sono affaticate contro la casta ufficiale, alla soluzione di questa antinomia di cui la scienza economica può sola dare la chiave. Le oscillazioni, cioè le agitazioni politiche che risultano da questa lotta del lavoro contro il potere, ora determinano una depressione della forza centrale, che giunge a porre a rischio l’esistenza della società, ora esagerando fuor di misura codesta forza, generano il dispotismo. Poi i privilegi del comando, le gioie infinite che procura all’ambizione e all’orgoglio, rendendo le funzioni improduttive oggetto dell’universale cupidigia; un nuovo fermento di discordia penetra nella società, che già divisa, da una parte in capitalisti e salariati, dall’altra in produttori e improduttivi, si divide di nuovo, per il potere, in monarchici e democratici. I conflitti tra la monarchia e la repubblica ci fornirebbero materia per il più meraviglioso e interessante episodio.

I limiti di quest’opera non ci consentono una così lunga escursione, e dopo aver additato questa nuova branca dell’ampia folla delle umane aberrazioni, ci rinserreremo, parlando dell’imposta, nella pura questione economica.

Tale è dunque, nella più succinta esposizione, la teoria sintetica dell’imposta, cioè, se oso permettermi il paragone volgare, di questa quinta ruota del carro dell’umanità, che fa tanto strepito, e si chiama in stile governativo, lo Stato. Lo Stato, la polizia, o il loro mezzo ufficiale di esistenza, l’imposta, è, lo ripeto, il nome ufficiale della classe che si indica in economia politica col nome di improduttiva, ossia in una parola, il servitorame sociale.

Ma la ragione pubblica non coglie subito questa idea semplice rimasta, per tanti secoli, allo stato di concetto trascendentale. Perché la civiltà giunga a tale altezza, bisogna che attraversi burrasche spaventevoli e rivoluzioni innumerevoli, in ciascuna delle quali si direbbe che rinnovelli le proprie forze con un bagno di sangue. E quando finalmente la produzione, rappresentata dal capitale, pare che stia per mettere in una posizione subalterna l’organo improduttivo, Io Stato, allora la società si solleva indignata; il lavoro geme a vedersi a momenti libero, la democrazia freme per l’avvilimento del potere; la giustizia grida allo scandalo e tutti gli oracoli degli dèi che se ne vanno esclamano con terrore che l’abominio della desolazione è nel santuario e la fine dei tempi è venuta. Tanto è vero che l’umanità non vuol mai quel che cerca, e il minimo progresso non può realizzarsi senza gettare il panico nelle popolazioni!

Qual è dunque in questa evoluzione il punto di partenza della società e per qual giro essa giunge alla riforma politica, cioè all’economia nelle spese, all’eguaglianza di riparto dell’imposta e alla subordinazione del potere all’industria?

Lo diremo in poche parole, riservando a più tardi gli sviluppi.

L’idea originaria dell’imposta è quella di un riscatto.

Nel modo in cui, nella legge mosaica, ogni primogenito era considerato appartenere a Jehova, e doveva essere riscattato con una offerta, così l’imposta si presenta ovunque sotto la forma di una decima o di un diritto di regalia con la quale il proprietario riscatta ogni anno dal sovrano il guadagno industriale che ritiene ottenere da lui. Questa teoria dell’imposta non è altro che uno degli articoli speciali di quel che si chiama il contratto sociale. Gli antichi e i moderni si accordano tutti in termini più o meno espliciti a presentare lo stato giuridico della società come una reazione della debolezza contro la forza. Quest’idea domina in tutte le opere di Platone, segnatamente nel Gorgia, ove egli sostiene, con maggiore sottigliezza che logica, la causa delle leggi contro la violenza, cioè l’arbitrio legislativo contro l’arbitrio aristocratico e guerriero. In codesta disputa scabrosa, in cui l’evidenza delle ragioni è eguale da entrambe le parti, Platone esprime il pensiero di tutta l’antichità. Assai prima di lui Mosè, facendo un riparto delle terre, dichiarando il patrimonio inalienabile e ordinando un’estinzione generale e senza rimborso di tutte le ipoteche, ogni cinquantesimo anno, aveva opposto una barriera all’invasione della forza. Solone, iniziando la sua missione legislativa con l’abolizione generale dei debiti, e creando diritti e riserve, cioè barriere che ne impedissero il ritorno, non fu meno reazionario. Licurgo andò più in là: proibì la proprietà individuale e si sforzò di assorbire l’individuo nello Stato, annullando ogni libertà per meglio conservare l’equilibrio. Hobbes, facendo, e con ragione, derivare la legislazione dallo stato di guerra, giunse, per altra via a costituire l’uguaglianza sopra una eccezione, il dispotismo. Il suo libro, tanto calunniato, è uno sviluppo di questa famosa antitesi. La Carta del 1830, consacrando l’insurrezione operata nel 1789 dalla classe popolare contro la nobiltà e decretando l’eguaglianza astratta delle persone innanzi alla legge, malgrado l’ineguaglianza reale delle forze e degli ingegni che forma il vero fondo del vigente sistema sociale, non è altro anche essa se non una protesta della società in favore del povero contro il ricco, del piccolo contro il grande. Tutte le leggi del genere umano sulla vendita, la compra, la locazione, la proprietà, il prestito, l’ipoteca, la prescrizione, le successioni, le donazioni, i testamenti, la dote delle femmine, la minorità, la tutela, ecc., sono altrettante barriere innalzate dall’arbitrio giuridico contro l’arbitrio della forza. Il rispetto dei contratti, la fedeltà alla parola data, la religione del giuramento, sono le finzioni, gli aliossi, come diceva il famoso Lisandro, con i quali la società inganna i forti e li mette sotto il giogo.

L’imposta appartiene a questa grande famiglia d’istituzioni preventive, coercitive, repressive e vendicative che A. Smith indicava col nome generico di polizia e che nel suo concetto originario è, come ho detto, la reazione della debolezza contro la forza.

Ciò risulta, indipendentemente dalle testimonianze storiche, che abbondano, ma che lasceremo in disparte per tenerci esclusivamente alla prova economica, dalla distinzione naturale che s’è fatta delle imposte.

Tutte le imposte si dividono in due grandi categorie: 1) imposte di ripartizione o di privilegio: sono quelle stabilite dal tempo più antico; 2) imposte di consumo o di qualità, la cui tendenza, assimilandosi le prime, è di rendere uguali i carichi pubblici.

La prima specie d’imposta – che comprende, presso di noi, l’imposta fondiaria, quella sulle porte e finestre, il contributo personale, mobiliare e locativo, le autorizzazioni e le licenze, i diritti di mutazione, centesimi e decimi, prestazioni in natura e patenti – è la ritenuta che il sovrano si riserva su tutti i monopoli che concede o tollera, è come abbiamo detto, l’indennità del povero, il passaporto accordato alla proprietà. Tale è stata la forma e lo spirito dell’imposta in tutte le monarchie antiche, la feudalità ne rappresenta il tipo ideale. Sotto quel regime l’imposta non è che un tributo pagato dal detentore al proprietario o accomandatario universale, il re.

Quando più tardi, con lo sviluppo del diritto pubblico, il potere regio, forma patriarcale della sovranità, comincia a impregnarsi di spirito democratico, l’imposta diventa una quota che ogni censito deve alla cosa pubblica e che, invece di andare nelle mani del principe, è ricevuta nel tesoro dello Stato. In questa evoluzione il principio dell’imposta rimane intatto; non è ancora l’istituzione che si trasforma, è il sovrano reale che succede al sovrano figurativo. Che l’imposta entri nel peculio del principe, o serva a pagare un debito comune, è pur sempre una rivendicazione della società contro il privilegio: senza ciò riesce impossibile dire perché l’imposta sia stabilita in ragione proporzionale alle fortune.

“Tutti contribuiscono alle spese pubbliche; nulla di meglio, ma perché il ricco deve pagare più del povero? – È giusto, si dice, perché possiede di più. – Confesso che non capisco questa giustizia. Una delle due, o l’imposta proporzionale garantisce un privilegio a favore dei forti contribuenti, o è, a sua volta, una iniquità. Infatti, se la proprietà è di diritto naturale, come vuole la Dichiarazione del ’93, tutto quanto mi appartiene in virtù di questo diritto è tanto sacro quanto la mia persona: è il mio sangue, è la mia vita, è me stesso; chiunque vi metta mano offende la pupilla degli occhi miei. I miei centomila franchi di reddito sono così inviolabili come la giornata di 75 centesimi della sartina, i miei appartamenti come la sua soffitta. La tassa non è ripartita in ragione della forza fisica, della statura o dell’ingegno; non lo può essere neanche in ragione della proprietà”. (Che cos’è la proprietà?, cap. II).

Queste osservazioni sono tanto più giuste in quanto il principio da loro opposto a quello del riparto proporzionale ha già avuto il suo periodo di applicazione. L’imposta proporzionale è assai posteriore nella storia all’omaggio-regio, che consisteva in una semplice dimostrazione ufficiosa, senza concretezza reale.

La seconda specie d’imposta comprende, in generale, tutte quelle designate, per una specie di antifrasi, col nome di contribuzioni indirette, bevande, sali, tabacchi, dogane, tutte le tasse insomma che colpiscono direttamente la sola cosa che debba essere tassata, il prodotto. Il principio di questa imposta, il cui nome è un vero controsenso, è incontestabilmente meglio fondato in teoria e di più equa tendenza che non il precedente; perciò malgrado l’opinione della massa, sempre ingannata tanto su ciò che le giova quanto su ciò che le nuoce, non esito a dire, che questa imposta è la sola normale, salvo il riparto e l’esazione, di cui qui non devo occuparmi.

Infatti, se è vero, come fu dianzi spiegato, che la natura dell’imposta stia nel compensare, con una forma speciale di salario, certi servizi che si sottraggono alla forma consueta dello scambio, segue che tutti i produttori, godendo ugualmente di codesti servizi, in quanto all’uso personale, devono contribuire al saldo in parti uguali. La quota di ciascuno sarà dunque una frazione del suo prodotto permutabile, o, in altre parole, una ritenuta sui lavori conferiti da lui al consumo. Ma sotto il regime del monopolio e con la percezione della fondiaria, il fisco colpisce la ricchezza prima che entri nello scambio, anzi prima che sia prodotta: la quale circostanza ha per effetto di rigettare l’equivalente della tassa tra le spese di produzione e per conseguenza di farlo sopportare dal consumatore, liberandone il monopolio.

Quale che sia il significato dell’imposta di ripartizione e di quella di quotità, una cosa è positiva ed è quella che soprattutto ci interessa di sapere, stabilendo la proporzionalità dell’imposta, il sovrano ha avuto l’intenzione di fare contribuire i cittadini ai carichi pubblici non più secondo il vecchio principio feudale, mediante una capitazione, il che implicherebbe l’idea di una rateazione calcolata in ragione del numero dei contribuenti, non in ragione dei loro beni; ma al pro-rata dei capitali, ciò che suppone dipendere i capitali da un’autorità superiore ai capitalisti.

Tutti, spontaneamente e di unanime accordo trovano giusto un riparto simile. Tutti, dunque, concordi e unanimi giudicano che l’imposta è una rivalsa della società, una specie di riscatto del monopolio. Ciò si scorge specialmente in Inghilterra ove, per una legge speciale, i proprietari del suolo e i manifattori pagano sulla base di una pro-rata dei loro redditi una imposta di duecento milioni che si chiama la tassa dei poveri. In due parole, lo scopo pratico e aperto dell’imposta è d’esercitare sui ricchi, a profitto del popolo, una rivalsa proporzionale al capitale.

Ora, l’analisi e i fatti mostrano:

che l’imposta di ripartizione, l’imposta del monopolio, invece di essere pagata da coloro che possiedono, lo è quasi per intero da quelli che non possiedono;

che l’imposta di quotità, separando il produttore dal consumatore, colpisce unicamente quest’ultimo, sicché al capitalista rimane la parte che egli pagherebbe se tutte le fortune fossero assolutamente uguali;

finalmente, che l’esercito, i tribunali, la polizia, le scuole, gli ospedali, gli ospizi, le case di ricovero e di correzione, gli uffici pubblici, la religione stessa, tutto quanto la società ha creato per la difesa, l’emancipazione e il sollievo del proletario, pagato dapprima e mantenuto dal proletario, è poi diretto contro il proletario, o perduto per lui; di modo che il proletariato, che a principio lavorava soltanto per la casta che lo divora, quella dei capitalisti, deve lavorare anche per la casta che lo flagella, quella degli improduttivi.

Questi fatti sono ormai così notori e gli economisti, devo render loro questa giustizia, li hanno esposti con tanta evidenza, che mi astengo dal rifare le loro dimostrazioni che, del resto, non trovano più contraddittori. Ciò che propongo di mettere in luce e che mi pare gli economisti non abbiano sufficientemente compreso, è che la condizione creata al lavoratore da questa nuova fase dell’economia sociale non è suscettibile di alcun miglioramento; che, salvo il caso in cui l’organizzazione industriale e per conseguenza la riforma politica conducessero all’eguaglianza delle fortune, il male è inerente alle istituzioni poliziesche come il pensiero caritatevole che le ha generate; finalmente che lo Stato, qualunque forma prenda, aristocratica o repubblicana, fino a quando non sarà divenuto l’organo obbediente e sottomesso di una società d’eguali, sarà per il popolo un inferno inevitabile, stavo per dire una dannazione legittima.

2. – Antinomia dell’imposta

Sento dire qualche volta dai partigiani dello statu quo che, in quanto al presente, godiamo sufficiente libertà e che anche a dispetto delle declamazioni contro l’ordine attuale delle cose, siamo più arretrati delle nostre istituzioni. Io sono, almeno in ciò che concerne l’imposta, precisamente dello stesso avviso di questi ottimisti.

Secondo la teoria dianzi esposta, l’imposta è la reazione della società contro il monopolio. Le opinioni a questo riguardo sono unanimi: popolo e legislatore, economisti, giornalisti e scrittori di farse (vaudevillistes), traducendo ciascuno nel proprio linguaggio il pensiero sociale, stampano a gara che l’imposta deve cadere sui ricchi, colpire il superfluo e gli oggetti di lusso, e lasciare intatti quelli di prima necessità. Insomma si è fatto dell’imposta una sorta di privilegio per i privilegiati; pensiero cattivo, perché significava nel fatto riconoscere la legittimità del privilegio, che in qualsiasi caso e sotto qualunque forma si mostri, non vale nulla. Il popolo doveva essere punito di questa inconseguenza egoistica: la Provvidenza non è venuta meno alla sua missione.

Dal momento dunque che l’imposta fu concepita come una rivendicazione, dovette stabilirsi proporzionatamente agli averi, sia che colpisse il capitale, sia che cadesse più specialmente sul reddito. Ora, io farò notare che essendo il riparto dell’imposta pro-rata, precisamente quello che si adotterebbe in un paese in cui tutte le fortune fossero uguali, salvo le differenze di ordinamento e di riscossione, il fisco è ciò che c’è di più liberale nella nostra società e su questo proposito i nostri costumi sono effettivamente più addietro delle nostre istituzioni. Ma siccome in mano ai cattivi le cose migliori diventano detestabili, vedremo che l’imposta dell’uguaglianza schiaccia il popolo, precisamente perché il popolo non è al livello di essa.

Io suppongo che il reddito lordo della Francia, per ogni famiglia composta di quattro persone, sia di 1000 franchi; è un po’ più della cifra di Chevalier, che assegna 63 centesimi al giorno per testa, cioè 919 franchi e 80 centesimi per famiglia. Essendo ora l’imposta al di là di un miliardo, cioè circa l’ottavo del reddito totale, ogni famiglia guadagnando 1000 franchi all’anno, paga d’imposta 125 franchi.

In base a ciò, un reddito di 2000 fr. paga 250 fr., un reddito di 3000 fr., 375; un reddito di 4000 fr., 500, ecc.

La proporzione è rigorosa e matematicamente inappuntabile; il fisco è sicuro di non perdere, l’aritmetica lo garantisce.

Ma, dalla parte dei contribuenti la cosa cambia totalmente di aspetto. L’imposta che nella mente del legislatore doveva proporzionarsi alla fortuna, è, al contrario, progressiva nel senso della miseria. Sicché più il cittadino è povero, più paga. Lo proverò sensibilmente con alcune cifre.

Per l’imposta proporzionale è dovuta al fisco:

per un reddito di 1000 2000 3000 4000 5000 6000 fr., ecc.

una contribuzione di 125 250 375 500 625 750 fr., ecc.

Pare dunque, stando a questa serie, che l’imposta cresca proporzionalmente al reddito.

Ma, se si riflette che ogni somma di reddito si compone di 365 unità, ciascuna delle quali rappresenta il reddito giornaliero del contribuente, non si troverà più che l’imposta sia proporzionale, si troverà che è uguale. Difatti, se per un reddito di 1000 franchi lo Stato preleva 125 franchi d’imposta, è come se togliesse alla famiglia colpita 45 giornate di sussistenza; e parimenti le quote tributarie di 250, 375, 500, 625, 750, corrispondendo a redditi di 2000, 3000, 4000, 5000, 6000 franchi, fanno sempre per ognuno dei beneficiari una imposta di 45 giornate.

Dico che questa eguaglianza dell’imposta è una mostruosa disuguaglianza, ed è stata una illusione immaginarsi che, essendo più considerevole un reddito giornaliero, debba essere maggiore la contribuzione di cui esso è base. Trasportiamo il nostro punto di vista dal reddito personale al reddito collettivo.

Per effetto del monopolio, abbandonando la ricchezza sociale la classe lavoratrice per volgersi sulla classe capitalista, lo scopo dell’imposta è stato quello di moderare questo spostamento e di reagire contro l’usurpazione, esercitando sopra ogni privilegiato una rivalsa proporzionale. Ma proporzionale a che? a ciò che il privilegio ha preso di troppo, senza dubbio, e non alla frazione del capitale sociale che il suo reddito rappresenta. Ora, lo scopo dell’imposta non è raggiunto e la legge è volta in derisione, quando il fisco invece di prendere la sua ottava parte dove questa si trova, la chiede precisamente a coloro ai quali egli dovrebbe restituirla. Un’ultima dimostrazione renderà ciò palpabile.

Supponiamo il reddito della Francia di 68 centesimi al giorno e a testa; il padre di famiglia che, sia a titolo di salario, sia come reddito dei suoi capitali, guadagna mille franchi l’anno, riceve quattro parti del reddito nazionale; chi prende 2000 franchi ha otto parti; cho riscuote 4000 franchi ne ha sedici, ecc. Segue di là che l’operaio, il quale per un reddito di mille franchi paga 125 franchi al fisco, rende all’ordine pubblico una mezza parte, cioè un ottavo del suo reddito e della sussistenza della propria famiglia; mentre chi vive di rendita, pagando sopra una entrata di 6000 franchi 750 franchi, realizza un beneficio di 17 parti sul reddito collettivo, ossia, in altri termini, guadagna con l’imposta il 4,25%.

Riproduciamo la stessa verità sotto un’altra forma.

In Francia vi sono circa 200 mila elettori. Non so quale sia la somma delle contribuzioni pagate da questi 200 mila elettori; ma non credo allontanarmi molto dalla verità supponendo una media di 300 franchi per ciascuno, che fa in complesso, per 200 mila censiti, 60 milioni, ai quali aggiungendo un altro quarto per la loro quota di contribuzioni indirette, avremo 75 milioni, ossia 75 franchi a testa (supponendo la famiglia d’ogni elettore composta di cinque persone) che paga allo Stato la classe elettorale. Il bilancio, secondo l’“Annuario economico” del 1845, segna all’entrata 1106 milioni, rimanenza: un miliardo 31 milioni, che fa 31 fr. e 30 cent, per ogni cittadino non elettore, due quinti della contribuzione pagata dalla classe ricca. Ora, perché questa proporzione fosse equa, bisognerebbe che la media di benessere della classe non elettorale fosse i due quinti della media di benessere della classe degli elettori, e ciò non è punto vero per più che tre quarti.

Ma questa sproporzione apparirà ancora più rilevante se si riflette che il calcolo fatto sulla classe elettorale è del tutto erroneo, a favore dei censiti.

Difatti, le sole imposte calcolate per il godimento del diritto elettorale sono: 1) la tassa prediale; 2) la personale e mobiliare; 3) quella sulle porte e finestre; 4) la patente. Ora, ad eccezione della personale e della mobiliare che variano poco, le tre altre imposte ricadono sui consumatori ed è lo stesso di tutte le imposte indirette, che i detentori di capitali si fanno rimborsare dai consumatori, eccettuati tuttavia i diritti di trasmissione che colpiscono direttamente il proprietario e salgono in complesso a 150 milioni. Ora, se noi computiamo che la proprietà elettorale figuri in quest’ultima cifra per un sesto, il che è dir molto, essendo la quota delle contribuzioni dirette (409 milioni) ragguagliata a 12 fr. per testa e a 16 fr. quella delle indirette (547 milioni), la media d’imposta pagata da ogni elettore che abbia una famiglia di cinque persone, sarà in tutto di 265 franchi, mentre la parte dell’operaio, il quale non ha che le sue braccia per nutrire sé, la moglie e due figli, sarà di 112 fr. In termini più generali, la media della contribuzione per testa sarà nella classe superiore 53 franchi; nell’inferiore 28. E io ripropongo la questione. Il benessere è, al di qua del censo elettorale, la metà di ciò che è al di là?

È dell’imposta come delle pubblicazioni periodiche che in realtà costano tanto più care quanto più di rado vengono fuori. Un giornale quotidiano costa 40 franchi, un ebdomadario 10, un mensile 4. Supponendo tutte le altre cose uguali, i prezzi di abbonamento di questi giornali stanno tra loro come i numeri 40, 70 e 120, crescendo il prezzo con la rarità delle pubblicazioni. Ora, così precisamente fa l’imposta; è un abbonamento pagato da ciascun cittadino in cambio del diritto di lavorare e di vivere. Chi usa di questo diritto nella proporzione minima, paga di più; chi ne usa molto, paga poco.

Gli economisti sono generalmente d’accordo su ciò. Essi hanno combattuto l’imposta proporzionale, non solo nel suo principio, ma nella sua applicazione; ne hanno rilevato le anomalie, che quasi tutte, provengono dal fatto che il rapporto del capitale al reddito, o della superficie coltivata alla rendita, non è mai fisso.

“Supponiamo una contribuzione di un decimo sul reddito delle terre, e delle terre di qualità differente che producano, la prima 8 franchi di frumento, la seconda 6 franchi, la terza 5; l’imposta prenderà un ottavo del reddito dalla terra più feconda, un sesto da quella che lo è un po’ meno e finalmente un quinto da quella che lo è ancora meno. Non sarà così l’imposta stabilita in senso inverso a quel che dovrebbe essere? – Invece delle terre si possono far entrare nel calcolo gli altri strumenti di produzione e paragonare capitali di uguale valore o quantità di lavoro del medesimo grado, applicate a rami d’industria di varia produttività; la conclusione sarà la stessa. È ingiusto chiedere una capitazione uguale di dieci franchi all’operaio che guadagna mille franchi o all’artista o al medico che mette insieme sessantamila franchi d’entrata”. (G. Garnier, Éléments d’économie politique, [Paris 1845]).

Queste considerazioni sono giustissime, benché non riguardino che la percezione o l’assetto e non tocchino per niente, il principio sostanziale dell’imposta. Supponendo eseguito il riparto sul reddito, anziché sul capitale, rimane sempre questo, che l’imposta, la quale dovrebbe essere in proporzione degli averi, è a carico del consumatore.

Gli economisti hanno saltato il fosso: hanno apertamente dimostrata l’iniquità dell’imposta proporzionale.

“L’imposta – dice Say – non può mai colpire il necessario”. Vero è che questo autore non definisce ciò che si debba intendere per necessario. Ma noi possiamo supplire alla sua omissione. Il necessario è ciò che del prodotto totale rimane all’individuo, deduzione fatta di quanto deve essere prelevato per l’imposta. Così, per fare il conto in cifre rotonde, essendo in Francia la produzione di otto miliardi e l’imposta di un miliardo, il necessario quotidiano per ogni individuo è di 56 centesimi e mezzo. Tutto ciò che sorpassa questo reddito è, secondo J.-B. Say, solamente suscettibile di essere tassato; tutto quanto è al disotto deve essere sacrosanto per il fisco.

È ciò che il medesimo autore esprime in altre parole, quanto dice: “l’imposta proporzionale non è equa”. Adam Smith aveva già detto prima di lui: “Non è affatto irragionevole che il ricco contribuisca alle pubbliche spese, non solo in proporzione del proprio reddito, ma anche qualcosa di più”. “Io andrò più lungi – aggiunge Say –; non temerò di dire che l’imposta progressiva è la sola equa”. E G. Garnier, ultimo compendiatore degli economisti: “Le riforme devono tendere a stabilire un’eguaglianza progressiva, per così dire, assai più giusta, assai più equa che non sia la pretesa eguaglianza dell’imposta, la quale non è altro che una mostruosa disuguaglianza”.

Dunque, stando all’opinione generale e alla testimonianza degli economisti, due cose sono accertate: l’una che nel suo principio l’imposta è una reazione contro il monopolio e diretta contro il ricco, l’altra che, in pratica, quest’imposta è infedele al suo compito; che colpendo di preferenza il povero, commette una ingiustizia e il legislatore deve tendere costantemente a ripartirla in maniera più equa.

Avevo bisogno di stabilire fermamente questo duplice fatto prima di procedere ad altre considerazioni. Ora comincia la mia critica.

Gli economisti con quella bonomia di brava gente che hanno ereditata dai loro antichi e che forma ancora ogni loro vanto, non si sono accorti che la teoria dell’imposta progressiva da essi additata ai governi come il non plus ultra di una savia e liberale amministrazione, è contraddittoria nei termini e piena d’impossibilità. Hanno imputato le oppressioni del fisco ora alla barbarie dei tempi, ora all’ignoranza dei princìpi, ai pregiudizi di casta, all’avidità dei contratti, a tutto quanto insomma, a detta loro, faceva ostacolo alla pratica sincera dell’uguaglianza innanzi al bilancio; non hanno avuto il dubbio che ciò che essi chiamavano imposta progressiva era il rovescio di tutte le nozioni economiche.

Così, per esempio, non hanno badato che l’imposta era progressiva per il solo fatto d’essere proporzionale, ma che la proporzione si trovava presa a rovescio, muovendosi, come abbiamo detto, non nel senso delle più grandi fortune, ma in quello delle minori. Se gli economisti avessero avuta l’idea netta di questo rovesciamento, invariabile in tutti i paesi che hanno tasse, un così singolare fenomeno avrebbe certo fermata la loro attenzione, ne avrebbero cercate le cause e avrebbero finito per scoprire come ciò che essi prendevano per un accidente della civiltà, per un effetto delle inestricabili difficoltà del governo umano, fosse il prodotto della contraddizione inerente a tutta l’economia politica.

L’imposta progressiva, applicata sia al capitale, sia al reddito, è la negazione stessa del monopolio, di quel monopolio che s’incontra dovunque, dice Rossi, sulla via dell’economia sociale; che è il vero stimolo dell’industria, la speranza del risparmio, il conservatore e padre d’ogni ricchezza; del quale insomma abbiamo potuto dire che la società non può esistere con lui, ma non esisterebbe senza di lui. Supponiamo che l’imposta diventi di un tratto ciò che indubbiamente essa deve essere, cioè, la contribuzione proporzionale (o progressiva, è la stessa cosa) di ciascun produttore ai carichi pubblici, ecco che subito la rendita e il profitto sono confiscati da per tutto a vantaggio dello Stato; il lavoro è spogliato del frutto delle sue opere; ridotto ogni individuo alla quota congrua di cinquantasei centesimi e mezzo, la miseria diventa generale, il patto formato tra il lavoro e il capitale è sciolto e la società, priva del timone, indietreggia fino alla sua origine.

Si dirà forse che è facile impedire l’annichilimento assoluto dei profitti del capitale, arrestando a un dato momento l’effetto della progressione. Eclettismo, giusto mezzo, accomodamento col cielo e con la morale: sempre la stessa filosofia! La vera scienza rifugge da simili transazioni. Ogni capitale investito nell’industria deve tornare al produttore sotto forma di interessi; ogni lavoro deve lasciare un’eccedenza, ogni salario deve essere uguale al prodotto. Sotto l’egida di queste leggi la società realizza senza tregua, con la massima varietà delle produzioni, la massima somma possibile di benessere. Queste leggi sono assolute: violarle, significa danneggiare, mutilare il corpo sociale. Quindi il capitale, che, dopo tutto, non è altro se non lavoro accumulato, è inviolabile. Ma, d’altra parte, la tendenza all’uguaglianza non è meno imperiosa: essa si manifesta a ogni fase economica con una energia crescente e un’autorità invincibile. Voi dovete quindi soddisfare nello stesso tempo il lavoro e la giustizia; dovete dare al primo delle garanzie sempre più solide e procurare l’effettuazione della seconda senza concessioni né ambiguità.

Invece di questo voi sostituite continuamente alle vostre teorie il talento del principe, fermate il corso delle leggi economiche con un potere arbitrario e, sotto pretesto di equità, mentite del pari al salario e al monopolio! La vostra libertà non è che una libertà a metà, la vostra giustizia una giustizia a metà e tutta la vostra sapienza consiste in quei mezzi termini, la cui iniquità è sempre doppia, perché non fanno ragione alle pretese né dell’una né dell’altra parte! No, questa non può essere la scienza che ci avete promessa e che svelandoci i segreti della produzione e del consumo delle ricchezze, deve risolvere senza equivoci le antinomie sociali. La dottrina semi-liberale è il codice del dispotismo e mostra l’impotenza ad avanzare pari alla vergogna di rinculare.

Se la società, impegnata dai suoi precedenti economici, non può giammai rifare la strada, se fino a che non venga l’equazione universale, il monopolio deve essere mantenuto nel suo possesso, nessun cambiamento è possibile nell’assetto dell’imposta; solo vi è una contraddizione, che come ogni altra, deve essere spinta fino all’esaurimento. Abbiate dunque il coraggio delle vostre opinioni; rispetto all’opulenza e niente misericordia per il povero che il Dio del monopolio ha condannato. Meno il salariato ha di che vivere, più bisogna che paghi: qui minus habet, etiam quod habet auferetur ab eo. Ciò è necessario, fatale; ci va di mezzo la salute della società.

Tentiamo tuttavia di ritorcere la progressione dell’imposta e di fare che invece del lavoratore, sia il capitalista quello che dia di più.

Osservo intanto che col modo abituale di esazione questo rovesciamento è impraticabile.

Difatti, se l’imposta colpisce il capitale impiegabile, la totalità di questa imposta è contata tra le spese di produzione e allora, una delle due: o il prodotto, malgrado l’aumento del valore di scambio, sarà comprato dal consumatore e per conseguenza il produttore si sottrarrà all’imposta, o questo medesimo prodotto sarà trovato troppo caro, e in tal caso l’imposta, come ha detto benissimo J.-B. Say, agisce come una decima che fosse posta sulle sementi, inceppa la produzione. È così che un diritto troppo elevato sul trasferimento della proprietà, ferma la circolazione degli immobili e rende i fondi meno produttivi, opponendosi a che essi mutino padrone.

Se, al contrario, l’imposta cade sul prodotto, è una imposta di quotità, che ognuno paga secondo l’importanza del proprio consumo, mentre il capitalista che si voleva colpire, è esonerato.

Per altro, la supposizione di una imposta progressiva che abbia per base sia il prodotto, sia il capitale, è affatto assurda. Come concepire che lo stesso prodotto sia colpito da un diritto del 10% presso un venditore e solo del 5% presso un altro? Come mai fondi già gravati d’ipoteca e che tutti i giorni cambiano padrone, come mai un capitale formato per accomandita o per la sola fortuna di un individuo, saranno distinti nel catasto e tassati non in ragione del loro valore o della loro rendita, ma in ragione della fortuna o dei lucri presunti del proprietario?...

Rimane dunque un’ultima soluzione ed è di tassare il reddito netto, in qualunque modo si formi, di ogni contribuente. Per esempio, un reddito di 1000 fr. pagherebbe 10%; un reddito di 2000 fr., 20%; un reddito di 3000 fr., 30%, ecc. Lasciamo da parte le mille difficoltà e vessazioni del censo e supponiamo facile l’operazione. Ebbene! ecco precisamente il sistema che io taccio d’ipocrisia, di contraddizione e di ingiustizia.

Dico, in primo luogo, che questo sistema è ipocrita, perché, a meno di togliere al ricco l’intera porzione del reddito che eccede la media del prodotto nazionale per famiglia, il che è inammissibile, non riconduce, come si crede, la progressione dell’imposta dal lato della ricchezza; tutt’al più ne muta la ragione proporzionale. Così la progressione attuale dell’imposta per le fortune dà mille franchi di reddito in più, essendo come quella della serie 10, 11, 12, 13, ecc.; e per le fortune da mille franchi di reddito in su come quella della serie 10, 9, 8, 7, 6, ecc., aumentando sempre l’imposta con la miseria e scemando con la ricchezza; se soltanto si alleggerisse l’imposta indiretta che colpisce soprattutto la classe povera, e di altrettanto si aggravasse il reddito della classe ricca, la progressione risulterebbe, è vero, per la prima come la serie 10, 10.25, 10.50, 10.75, 11, 11.25, ecc.; e per la seconda come 10, 9.75, 9.50, 9.25, 9, 8.75, ecc. Ma, questa progressione, sebbene meno rapida in ambedue le forme, procederebbe pur sempre nel medesimo senso, sempre cioè a ritroso della giustizia; e questo fa sì che l’imposta progressiva, capace tutt’al più di alimentare le ciance dei filantropi, non ha valore scientifico. Nulla è da essa mutato nella giurisprudenza fiscale; è sempre, come dice il proverbio: al povero la bisaccia, e tutte le sollecitudini del Governo per i ricchi.

Aggiungo che questo sistema è contraddittorio.

Difatti, donare e tenere non vale, dicono i giureconsulti. Perché dunque, invece di consacrare monopoli il cui solo vantaggio per i titolari sarebbe di perderne col reddito il godimento, non decretare immediatamente la legge agraria? Perché mettere nella costituzione che ciascuno gode liberamente i frutti del proprio lavoro e della propria industria, quando a causa dell’imposta o per la tendenza di essa, questo permesso è accordato fino al limite di un dividendo di 56 centesimi e mezzo al giorno, cosa, è vero, che la legge non avrebbe prevista, ma che risulterebbe necessariamente dalla progressione? Il legislatore confermandoci nei nostri monopoli, ha voluto favorire la produzione, alimentare il fuoco sacro dell’industria; ora che interesse avremo noi di produrre, se, non essendo ancora associati, non produciamo solo per noi? Come, dopo averci dichiarati liberi, si può imporci delle condizioni di vendita, di locazione, di scambio che annullano la nostra libertà?

Un individuo possiede in cartelle dello Stato 20 mila franchi di rendita. L’imposta, mediante la nuova progressione, gli porterà via il 50%. A questa condizione gli converrà ritirare il capitale e mangiarsi questo, invece del frutto. Lo si rimborsi dunque. Ma che! rimborsare? Lo Stato non può essere costretto al rimborso e se consente a riscattare, lo fa al tanto per cento del reddito netto. Dunque, una cartella di rendita di 20.000 fr. non ne varrà più che 10.000 per il possessore, a causa dell’imposta, se egli volesse farsela rimborsare dallo Stato; a meno che non la divida in venti lotti, nel qual caso gli renderebbe il doppio. Nel modo stesso un podere che renda 50.000 fr. di fitto perderà due terzi del suo valore, perché l’imposta assorbe appunto i due terzi del reddito. Ma, se il proprietario divide questo fondo in cento lotti e lo mette all’incanto, siccome il terrore del fisco non terrà più indietro i compratori, potrà ripigliare tutto il capitale. Di modo che, con l’imposta progressiva, gl’immobili non seguono più la legge dell’offerta e della domanda, non sono stimati più sulla base del reddito effettivo, ma secondo la qualità del titolare. La conseguenza sarà che i grandi capitali rinviliranno e la mediocrità sarà in auge; i proprietari realizzeranno in fretta e furia, perché tornerà loro più utile mangiarsi le proprietà che averne redditi insufficienti; i capitalisti ritireranno i loro fondi o non li presteranno che con interessi usurai; ogni grande iniziativa sarà interdetta, ogni fortuna appariscente processata, ogni capitale, che superi il limite del necessario prescritto. La ricchezza calpestata si raccoglierà in sé e non uscirà più che di contrabbando: e il lavoro, come un uomo legato a un cadavere, abbraccerà la miseria in un amplesso che non avrà fine. Gli economisti che concepiscono simili riforme, hanno poi ragione di burlarsi dei riformisti?

Dopo avere dimostrato la contraddizione e la menzogna dell’imposta progressiva, devo ancora provarne l’iniquità? L’imposta progressiva, come l’intendono gli economisti, e al loro seguito certi radicali, è impraticabile, se colpisce i capitali e i prodotti; ho per conseguenza supposto che colpisca i redditi. Ma, chi non vede che questa distinzione, puramente teorica, di capitali, prodotti e redditi svanisce innanzi al fisco e ricompaiono le medesime impossibilità che abbiamo già segnalate, col loro carattere fatale?

Un industriale scopre un procedimento, mediante il quale, economizzando il 20% sulle spese di produzione, si procura 25 mila franchi di entrata. Il fisco gliene chiede quindici. L’imprenditore è quindi obbligato ad elevare i prezzi perché, a cagione dell’imposta, il suo ritrovato invece del 20%, economizza soltanto l’8%. Non è come se il fisco impedisse il buon mercato? Così credendo di colpire il ricco, l’imposta progressiva colpisce sempre il consumatore; ed è impossibile che non lo colpisca, a meno che non si sopprima del tutto la produzione. Che disdetta!

È legge di economia sociale che ogni capitale impiegato deve tornare continuamente all’imprenditore sotto forma d’interessi. Con l’imposta progressiva questa legge è radicalmente violata, poiché, per effetto della progressione, l’interesse del capitale si attenua al punto da fare perdere all’industria in tutto o in parte il detto capitale. Perché fosse altrimenti, bisognerebbe che l’interesse dei capitali crescesse progressivamente, come fa l’imposta, il che è assurdo. Dunque l’imposta progressiva arresta la formazione dei capitali; e c’è di più, si oppone alla loro circolazione. Chiunque, infatti, vorrà acquistare un materiale industriale o un podere, dovrà, sotto il regime della progressione contributiva, considerare non più il valore effettivo di questo materiale, o di questo podere, ma bensì l’imposta che lo graverà; in modo che se il reddito reale è del 4% e, per effetto dell’imposta, o per la condizione del compratore, questo reddito debba ridursi al 3%, l’acquisto non potrà più avere luogo. Dopo avere leso tutti gl’interessi e portata la perturbazione nel mercato, con le sue categorie, l’imposta progressiva ferma lo sviluppo della ricchezza e riduce il valore di scambio al disotto del valore reale; rimpicciolisce, pietrifica la società.

Che tirannia! Che derisione!

L’imposta progressiva dunque, in ogni caso, si risolve in negazione di giustizia, divieto di produrre, confisca. È l’arbitrio senza limiti e senza freno dato al Governo su tutto ciò che col lavoro, col risparmio, col perfezionamento dei mezzi contribuisce a costituire la pubblica ricchezza.

Ma a che serve perderci nelle ipotesi chimeriche quando abbiamo la realtà sotto le mani? Non è per colpa del principio proporzionale che l’imposta colpisce con una disuguaglianza così manifesta le diverse classi della società; la colpa è dei nostri pregiudizi, dei nostri costumi. L’imposta, per quanto ciò è dato alle operazioni degli uomini, procede con equità e precisione. L’economia sociale le comanda di rivolgersi al prodotto, ed essa al prodotto si rivolge. Se il prodotto si nasconde, colpisce il capitale, cosa c’è di più naturale? L’imposta precorrendo la civiltà, suppone l’uguaglianza dei lavoratori e dei capitalisti: espressione inflessibile della necessità, sembra invitarci a diventare uguali con l’educazione e il lavoro e, mediante l’equilibrio delle funzioni nostre e l’associazione dei nostri interessi, metterci d’accordo con lei. L’imposta ricusa di fare distinzioni tra uomo e uomo e noi accusiamo il suo rigore matematico della discordanza delle nostre fortune! Chiediamo alla stessa uguaglianza di piegarsi all’ingiustizia!... Non avevo ragione di dire, nel cominciare, che relativamente all’imposta eravamo più indietro delle nostre istituzioni?

Così, vediamo sempre il legislatore fermarsi, nelle leggi fiscali, innanzi alle conseguenze sovvertitrici dell’imposta progressiva e consacrare la necessità, l’immutabilità dell’imposta proporzionale. L’uguaglianza del benessere non può uscire dalla violazione del capitale, l’antinomia deve essere metodicamente risolta, sotto minaccia, per la società, di ricadere nel caos. L’eterna giustizia non s’adatta a tutte le fantasie degli uomini, come una donna che si può violare, ma non si può sposare senza una solenne rinunzia di se stesso, essa esige da parte nostra, con l’abbandono del nostro egoismo, il riconoscimento di tutti i suoi diritti, che sono i diritti della scienza.

L’imposta il cui scopo ultimo, come abbiamo dimostrato, è la retribuzione degli improduttivi, ma il cui pensiero d’origine fu la restaurazione del lavoratore, l’imposta, sotto il regime del monopolio, si riduce dunque a una pura e semplice protesta, a una specie di atto stragiudiziale, che ha per effetto di aggravare la posizione del salariato e turbare il monopolista nel suo possesso. Quanto all’idea di cambiare l’imposta proporzionale in imposta progressiva, o per dir meglio di ritorcere la progressione dell’imposta, è una svista la cui responsabilità tutt’intera appartiene agli economisti.

Ma, d’ora in poi, pende sul privilegio la minaccia. Con la facoltà di modificare la proporzionalità dell’imposta, il Governo ha in mano un mezzo spiccio e sicuro di spossessare, quando lo voglia, i detentori dei capitali; e fa sgomento il vedere ovunque questa grande istituzione, base della società, oggetto di tante controversie, di tante leggi, di tante moine e di tanti delitti, la proprietà, sospesa a un filo sulla gola spalancata del proletariato.

3. – Conseguenze disastrose e inevitabili dell’imposta (sussistenze, leggi suntuarie, polizia rurale e industriale, brevetti d’invenzione, marchi di fabbrica, ecc.)

Chevalier si proponeva nel luglio 1843, riguardo all’imposta, le seguenti questioni: “1) Si chiede a tutti, o di preferenza a una parte della nazione? – 2) L’imposta somiglia a una capitazione, o è proporzionata esattamente alla fortuna dei contribuenti? – 3) L’agricoltura è colpita più o meno dell’industria manifatturiera e della commerciale? – 4) La proprietà fondiaria è trattata meglio o peggio della proprietà mobiliare? – 5) Colui che produce è più favorito di colui che consuma? – 6) Le nostre leggi d’imposta hanno il carattere di leggi suntuarie?”.

A queste diverse questioni Chevalier dà le risposte che riferisco qui appresso e nelle quali è riassunto quanto di più filosofico ho ritrovato su codesta materia. “a) L’imposta colpisce l’universalità, si indirizza alla massa, prende la nazione in blocco; tuttavia, siccome il povero è in maggior numero, essa lo tassa volentieri, certa di ricavarne di più. – b) Per la natura stessa delle cose, l’imposta piglia qualche volta la forma di capitazione, esempio, l’imposta del sale. – c, d, e) Il fisco s’indirizza al lavoro così come al consumo, perché in Francia tutti lavorano; alla proprietà fondiaria più che alla mobiliare e all’agricoltura più che all’industria. – f) Per la stessa ragione le nostre leggi hanno poco il carattere di leggi suntuarie”.

Come! professore, questo è tutto quel che la scienza vi ha mostrato! L’imposta, voi dite, si rivolge alla massa; essa prende la nazione in blocco. Ahimè, lo sappiamo purtroppo, ma qui è appunto l’iniquità e vi si chiede spiegazione. Il Governo, quando si occupò della sistemazione e del riparto dell’imposta, non ha potuto credere, non ha creduto che tutti i patrimoni siano uguali; e per conseguenza non ha potuto volere, non ha voluto che lo siano le quote di contribuzione. Perché dunque la pratica del Governo procede sempre a rovescio della sua teoria? Date, se vi piace, il vostro parere su questo caso difficile. Spiegatevi, giustificate o condannate il fisco; prendete il partito che volete, purché ne prendiate uno o diciate qualche cosa. Ricordatevi che quelli che vi leggono sono uomini e non potrebbero passare per buone a un dottore che parla ex cathedra, proposizioni come questa: I poveri sono in maggior numero, perciò l’imposta li colpisce volentieri, certa di ricavarne di più. No, signore, non è il numero che regola l’imposta; l’imposta sa benissimo che milioni di poveri aggiunti a milioni di poveri non fanno un elettore. Voi rendete il fisco odioso facendolo assurdo: e io sostengo che esso non è né l’uno né l’altro. Il povero paga più del ricco, perché la Provvidenza, alla quale la miseria è odiosa come il vizio, ha disposto le cose in modo che il miserabile debba essere sempre il più spremuto! L’iniquità dell’imposta è il flagello celeste che ci caccia verso l’uguaglianza. Dio buono! se un professore di economia politica che fu in altri tempi un apostolo potesse comprendere questa rivelazione!

Per la natura delle cose, dice Chevalier, l’imposta prende qualche volta la forma di capitazione. Ebbene, in qual caso prende la forma di capitazione? Sempre o mai? Qual è il principio dell’imposta? Qual è lo scopo? Parlate, rispondete.

E quale insegnamento possiamo trarre da questo rimarco così poco degno d’essere preso in considerazione, che cioè il fisco si rivolge al lavoro tanto quanto al consumo, alla proprietà fondiaria più che alla mobiliare, all’agricoltura più che all’industria?

Che importano alla scienza queste interminabili litanie di puri fatti se con l’analisi non riuscite a fare uscire un’idea?

Tutti i prelevamenti che l’imposta, la rendita, l’interesse dei capitali, ecc., operano sul consumo, entrano nel conto delle spese generali e fanno parte del prezzo di vendita: di modo che è sempre, o quasi, il consumatore che paga l’imposta. E siccome le derrate che più si consumano sono anche quelle che rendono di più, accade necessariamente che i più poveri sono i più aggravati; questa conseguenza è, come la prima, inevitabile. Cosa c’importa dunque delle vostre distinzioni fiscali?

Qualunque sia la classificazione della materia imponibile, essendo impossibile tassare il capitale al di là del reddito, il capitalista sarà sempre favorito, mentre il proletario soffrirà l’iniquità, l’oppressione. Non è il riparto dell’imposta che sia cattivo, è il riparto dei beni. Chevalier non può ignorarlo; perché dunque egli, la cui parola avrebbe più autorità di quella d’uno scrittore sospetto di non amare l’ordine attuale di cose, non lo dice?

Dal 1806 al 1811 (questa osservazione, al pari delle seguenti, è di Chevalier), il consumo annuo del vino a Parigi era di 160 litri a persona; ora è solo di 95. Sopprimete l’imposta, che è da 30 a 35 centesimi al litro nella vendita al minuto e il consumo del vino risalirà ben tosto da 95 litri a 200 e l’industria vinicola, che è ingolfata dei suoi prodotti, avrà uno spaccio. – Grazie ai diritti messi sull’importazione del bestiame, la carne è diminuita per il popolo in proporzione analoga a quella del vino; e gli economisti hanno riconosciuto con spavento che l’operaio francese fa meno lavoro dell’operaio inglese, perché è meno nutrito.

Per simpatia verso le classi lavoratrici Chevalier vorrebbe che le nostre manifatture sentissero un po’ lo stimolo della concorrenza straniera. Una riduzione dei dazi sulle lane di un franco per pantalone lascerebbe nella saccoccia dei consumatori una trentina di milioni, la metà della somma necessaria per il pagamento dell’imposta sul sale. Venti centesimi meno sul prezzo di una camicia produrrebbero un’economia probabilmente uguale a quella che occorre per tenere sotto le armi un esercito di ventimila uomini.

Da quindici anni il consumo dello zucchero è salito da 53 milioni di chilogrammi a 118; il che dà attualmente una media di 3 chilogrammi e mezzo a testa. Questo progresso dimostra che lo zucchero deve essere ormai messo col pane, il vino, la carne, la lana, il cotone, la legna e il carbone fossile tra le cose di prima necessità. Lo zucchero è tutta la farmacia del povero; sarebbe forse troppo elevare da 3 chili e mezzo a sette il consumo individuale di questo prodotto? Sopprimete l’imposta che è di franchi 49,50 per ogni cento chilogrammi e il consumo raddoppierà.

L’imposta sui generi di sussistenza molesta e tortura in mille modi il povero proletario: il costo del sale nuoce alla produzione del bestiame; i dazi sulla carne assottigliano ancora di più la razione dell’operaio. Per soddisfare nello stesso tempo all’imposta e al bisogno di bevande fermentate che prova la classe lavoratrice, gli si forniscono miscele sconosciute al chimico del pari che al birraio e al vignaiolo. Che bisogno c’è più delle prescrizioni dietetiche della Chiesa? In grazia dell’imposta, tutto l’anno è quaresima per il lavoratore; e il suo desinare di Pasqua non vale la colazione che Monsignore fa il Venerdì santo. Urge abolire l’imposta di consumo che estenua il popolo e lo affama; è la conclusione concorde degli economisti e dei radicali.

Ma, se il proletario non digiuna per mantenere Cesare, che mangerà Cesare? E se il povero non dà un ritaglio del suo mantello per coprire la nudità di Cesare, di che si vestirà Cesare?

Ecco la questione, questione inevitabile, che si tratta di risolvere.

Chiestosi Chevalier, al n. 6, se le leggi d’imposta abbiano il carattere di leggi suntuarie, risponde: no; le leggi non hanno il carattere di leggi suntuarie. Chevalier avrebbe potuto aggiungere sarebbe stata cosa nuova e vera, che questo è precisamente quanto c’è di nuovo e di meglio nelle leggi d’imposta. Ma Chevalier, che conserva sempre, comunque, un vecchio lievito di radicalismo, ha preferito declamare contro il lusso, cosa che non poteva comprometterlo in faccia a nessun partito. “Se a Parigi – egli esclama – si traesse dalle vetture private, dai cavalli da sella o da carrozza, dai domestici e dai cani l’imposta che si percepisce sulla carne, si farebbe un’opera di pura equità”.

Chevalier siede forse sulla cattedra del Collegio di Francia per commentare la politica di Masaniello? Ho veduto a Basilea cani con la placca del fisco al collo, segno della loro capitazione, e ho creduto che in un paese ove l’imposta è minima, la tassa dei cani fosse più una lezione di morale e una precauzione igienica, che un elemento di reddito. Nel 1844 l’imposta sui cani ha fruttato in tutta la provincia del Brabante (667 mila abitanti), a franchi 2,115 a testa, 63 mila franchi. Da ciò si può congetturare che la stessa imposta, producendo per tutta la Francia 3 milioni recherebbe un alleviamento di otto centesimi annuali a testa nell’imposta di quotità. Certo sono ben lontano dal pretendere che tre milioni siano da sprezzare, specialmente con un ministero prodigo e deploro che la Camera abbia respinto la tassa sui cani che sarebbe pur sempre servita a dotare una mezza dozzina di principesse. Ma ricordo che una imposta di questa fatta ha per base piuttosto un motivo d’ordine che un interesse fiscale; che per conseguenza bisogna considerarla come priva d’importanza nei riguardi fiscali e deve essere abolita come vessatoria, quando il grosso della popolazione, fattosi di costumi più umani, prenda gioia della compagnia delle bestie. Otto centesimi all’anno, che sollievo alla miseria!

Ma Chevalier ha in serbo altri cespiti: cavalli, vetture, domestici, oggetti di lusso, il lusso insomma! Quante cose con questa sola parola: il lusso!

Tagliamo corto a questa fantasmagoria con un semplice calcolo; i commenti verranno dopo. Nel 1842 il complesso dei dazi sull’importazione ascese a 129 milioni. Su questa somma di 129 milioni, 6l articoli, quelli di consumo usuale, figurano per 124 milioni e 177, quelli di gran lusso, per cinquanta mila franchi. Fra i primi lo zucchero ha dato 43 milioni, il caffè 12 milioni, il cotone 11 milioni, le lane 10 milioni, gli oli 8 milioni, il carbone fossile 4 milioni, il lino e la canapa 3 milioni; totale: 91 milioni per sette articoli. La cifra del reddito ribassa a misura che la merce è di uso più ristretto, di più scarso consumo, di più raffinato lusso. Eppure gli articoli di lusso sono i più tassati. Quando dunque per ottenere uno sgravio di qualche rilievo sugli oggetti di prima necessità, si centuplicassero i dazi su quelli di lusso, tutto ciò che si guadagnerebbe sarebbe di sopprimere un ramo di commercio con una tassa proibitiva. Ora, gli economisti sono tutti per l’abolizione delle dogane; è forse per rimpiazzarle con dazi di consumo? Generalizziamo l’esempio: il sale rende al fisco 57 milioni, il tabacco 84 milioni. Mi si dimostri con cifre alla mano, con quali imposte sui generi di lusso, dopo aver soppressa l’imposta sul sale e sul tabacco, si colmerebbe il vuoto.

Volete colpire i generi di lusso: prendete la civiltà a rovescio. In quanto a me, sostengo che i generi di lusso devono essere esenti da dazio. Quali sono nel linguaggio economico i prodotti di lusso? Quelli la cui proporzione nella ricchezza totale è la più debole, quelli che vengono ultimi nella serie industriale e la cui creazione suppone la preesistenza di tutti gli altri. Da questo punto di vista tutti i prodotti del lavoro umano sono stati e via via hanno cessato di essere oggetti di lusso, perché, per lusso noi non intendiamo altro se non un rapporto di posteriorità, sia cronologico, sia commerciale, negli elementi della ricchezza. Lusso, insomma, è sinonimo di progresso; è, a ogni istante della vita sociale, l’espressione del maximum di benessere realizzato col lavoro e al quale è nel diritto, come nel destino comune, di pervenire. Ora, come l’imposta rispetta per un certo tempo la casa costruita di fresco e il campo dissodato di recente, così deve ammettere in franchigia i prodotti nuovi e gli oggetti preziosi, questi perché la loro rarità deve essere combattuta senza tregua, quelli perché ogni invenzione merita incoraggiamento. E che dunque? vorreste stabilire, sotto pretesto del lusso, nuove categorie di cittadini? O prendete sul serio la città di Salento e la prosopopea di Fabrizio?

Giacché il tema lo esige, parliamo pure di morale. Non negherete certo questa verità tanto ripetuta dai Seneca di tutti i secoli che il lusso corrompe e rammollisce i costumi; il che significa che rende umane, eleva e nobilita le abitudini; che la prima e più efficace educazione per il popolo, lo stimolo dell’ideale, presso la maggior parte degli uomini è il lusso. Le Grazie erano nude, secondo gli antichi; dove s’è mai visto che fossero indigenti? Il gusto del lusso ai giorni nostri, in mancanza di princìpi religiosi, mantiene il movimento sociale e rivela alle classi inferiori la loro dignità. L’Accademia delle Scienze morali e politiche l’ha compreso assai bene, quando ha preso il lusso per tema di uno dei suoi discorsi e io applaudo con tutto il cuore alla sua sapienza. Il lusso difatti è già più che un diritto nella nostra società, è un bisogno ed è da compiangere chi non si procura mai un po’ di lusso. E quando gli sforzi universali tendono a popolarizzare sempre più le cose di lusso, voi volete restringere i godimenti del popolo agli oggetti che vi piace di qualificare come oggetti di prima necessità! Quando per la comunità del lusso i gradi si ravvicinano e si confondono, voi scavate più profondamente il fossato e rialzate i vostri scalini. L’operaio suda e fa privazioni e si tortura per comprare un vezzo alla sua fidanzata, un monile alla figlia, un orologio al figlio e voi lo private di questa felicità, a meno che non paghi l’imposta, cioè l’ammenda!

Ma avete riflettuto che tassare gli oggetti di lusso significa interdire le arti di lusso? Trovate che gli operai in seta, il cui salario giornaliero non arriva in media a due franchi, le modiste che pigliano cinquanta centesimi, i gioiellieri, gli orefici, gli orologiai con le interminabili giornate senz’affari, i domestici con la mercede di quaranta franchi, guadagnino troppo?

Siete sicuri che l’imposta del lusso non sia pagata dall’operaio del lusso, come l’imposta delle bevande è pagata dal consumatore di bevande? Sapete voi se un più forte rincaro degli oggetti di lusso non sarebbe un ostacolo al più buon mercato delle cose necessarie e, se credendo di favorire la classe più numerosa non peggiorate la condizione generale? bella speculazione in verità!

Si restituiranno 20 franchi all’operaio sul vino e lo zucchero e se ne porteranno via 40 sugli svaghi. Guadagnerà 75 centesimi sul cuoio delle sue scarpe e per condurre la famiglia quattro volte l’anno in campagna, pagherà 6 franchi di più per la vettura! Un piccolo borghese spende 600 franchi per la donna di casa, la lavandaia, la provveditrice di biancheria e per le compere; se per un’economia meglio intesa e che non scomoda nessuno, prende una domestica, il fisco nell’interesse della sussistenza, punirà questo provvedimento di risparmio! Come è assurda, guardata da vicino, la filantropia degli economisti!

Tuttavia voglio accontentare la vostra fantasia e giacché volete assolutamente delle leggi suntuarie, pretendo darvene la ricetta. E v’assicuro che nel mio sistema la riscossione sarà facile; non controllori, ripartitori, degustatori, viaggiatori, verificatori, ricevitori; non sorveglianza né spese d’ufficio; non la minima vessazione o la più leggera indiscrezione, non una coazione di sorta. Sia decretato per legge che nessuno in avvenire potrà cumulare due stipendi, e che le più grosse paghe non potranno eccedere a Parigi i seimila franchi e nei dipartimenti i quattro mila. Come! abbassate gli occhi!... Confessate dunque che le vostre leggi suntuarie sono una ipocrisia. Per dare sollievo al popolo alcuni applicano all’imposta la regola commerciale. Se, per esempio, dicono, il prezzo del sale fosse ridotto a metà, se l’affrancatura delle lettere fosse diminuita nella stessa proporzione, il consumo crescerebbe senza dubbio, l’entrata sarebbe più che duplicata, il fisco ci guadagnerebbe e il consumatore anche.

Suppongo che i fatti confermino la previsione e dico: se il porto delle lettere fosse diminuito di tre quarti e se il sale si desse per nulla, il fisco ci guadagnerebbe qualche cosa? No, di certo. Qual è dunque il significato di quella che si chiama la riforma postale? È che per ogni specie di prodotto esiste un livello naturale al di sopra del quale il guadagno diventa usuraio e tende a fare decrescere il consumo, ma al disotto del quale c’è perdita per il produttore. Questo somiglia esattamente alla determinazione del valore che gli economisti rigettano e a proposito della quale dicevamo: c’è una forza segreta che fissa i limiti estremi tra cui oscilla il valore e un termine medio che esprime il giusto valore.

Nessuno vorrà che il servizio delle poste si faccia in perdita; l’opinione generale è che questo servizio sia fatto al prezzo di costo. È una cosa tanto semplice che si rimane stupiti come vi sia stato bisogno di una inchiesta laboriosa sui risultati dell’alleviamento della tassa postale in Inghilterra; accumulare cifre innumerevoli e calcoli di probabilità senza fine, torturarsi il cervello per sapere se un abbassamento analogo in Francia darebbe per risultato un guadagno o un ammanco e finire poi per non potersi mettere d’accordo su nulla. Come mai non s’è trovato un uomo di buon senso per dire alla Camera non occorre né il rapporto di un ambasciatore né l’esempio dell’Inghilterra, bisogna ridurre gradatamente la tariffa postale fino al punto in cui l’entrata pareggi la spesa! Dove se n’è andato il vecchio talento francese? [Grazie al cielo, il ministro ha troncato la questione e gliene faccio i più sinceri complimenti. Secondo la tariffa proposta la tassa delle lettere sarebbe ridotta a 10 cent. per le distanze da 1 a 20 km.; – 20 cent., da 20 a 40 km.; – 30 cent., da 40 a 120; – 40 cent., da 120 ai 360; – 50 per le distanze superiori].

Ma, si dirà, se l’imposta desse a prezzo di costo il sale, il tabacco, il trasporto delle lettere, lo zucchero, i vini, la carne, ecc., il consumo aumenterebbe senza dubbio e la riscossione sarebbe enorme. E allora con che cosa lo Stato coprirebbe le spese? La somma complessiva delle contribuzioni indirette è di circa 600 milioni; su che volete voi che lo Stato percepisca quest’imposta?

Se il fisco non guadagna nulla sulle poste, bisognerà aumentare il sale, se si scema il prezzo del sale, bisognerà aumentare la tassa delle bevande; la litania non finirebbe mai. La vendita, a prezzo di costo, dei prodotti, sia dello Stato, sia dell’industria privata è impossibile.

Dunque, replicherò a mia volta, non è possibile che lo Stato dia alcun sollievo alle classi infelici, come non è possibile la legge suntuaria, come non è possibile l’imposta progressiva, e tutte le vostre divagazioni sull’imposta sono sproloqui da avvocato. Voi non avete neanche la speranza che l’accrescimento della popolazione, dividendo i carichi, alleggerisca il fardello per ciascuno, perché con la popolazione cresce la miseria e con la miseria, il da fare e gli impiegati dello Stato aumentano.

Le diverse leggi fiscali votate dalla Camera dei Deputati durante la sessione 1845-1846 sono altrettanti esempi dell’assoluta incapacità del potere, qualunque esso sia e in qualsiasi modo vi si metta, a procurare il benessere del popolo. Per ciò solo che esso è il Governo, cioè il rappresentante del diritto divino e della proprietà, l’arcano della forza è necessariamente sterile, e tutti i suoi atti sono destinati a un fatale disinganno.

Ho citato la riforma della tariffa postale che riduce di un terzo circa il prezzo delle lettere. Certamente, se non si tratta che dei motivi, io non ho nulla a rimproverare al Governo che ha fatto passare quest’utile riduzione; molto meno ancora cercherò di attenuarne il merito con meschine critiche sui particolari, pasto vile della stampa quotidiana. Una imposta assai onerosa è ridotta del 30%; è ripartita più equamente e regolarmente, vedo il fatto e applaudo al ministro che lo ha compiuto. La questione non è là.

Dapprima il vantaggio che il Governo ci procura sulla tassa delle lettere lascia a codesta imposta tutto il suo carattere di proporzionalità, cioè d’ingiustizia, il che non ha quasi più bisogno d’essere dimostrato. L’ineguaglianza dei carichi, in ciò che riflette la tassa postale sussiste come prima, essendo il beneficio della riduzione goduto non dai più poveri, ma dai più ricchi. La ditta commerciale che prima pagava 3.000 franchi di tassa postale, ne pagherà solo 2.000; sono mille franchi di profitto netto che esso aggiungerà ai 50.000 che trae dal suo commercio e che dovrà alla munificenza del fisco. Da parte sua il contadino, l’operaio che scrive due volte l’anno al figlio soldato e riceverà un pari numero di risposte, avrà risparmiato 50 centesimi. Non è vero che la riforma postale è in senso inverso all’equo riparto delle imposte? Che se, secondo la proposta di Chevalier, il Governo avesse voluto colpire il ricco e sollevare il povero, l’imposta delle lettere doveva essere l’ultima a ridurre? Non pare che il fisco, infedele allo spirito della sua istituzione, abbia aspettato il pretesto di uno sgravio minimo sull’indigenza per aver l’occasione di fare un regalo alle grosse borse?

Ecco ciò che i censori del progetto di legge avrebbero dovuto dire e invece nessuno di essi lo ha osservato. Vero è che allora la critica, invece di indirizzarsi al ministro, andava a colpire il potere pubblico nella sua essenza e col potere la proprietà; il che importava agli oppositori. La verità oggi ha contro di sé tutte le opinioni.

E poteva forse essere altrimenti? No, perché se si conservava l’antica tassa, si recava nocumento a tutti senza favorire nessuno e se la si scemava non si poteva dividere la tariffa per categorie di cittadini senza violare l’articolo 1° della Carta costituzionale che dice: “Tutti i francesi sono uguali dinanzi alla legge”, cioè dinanzi all’imposta. Ora, la tassa postale è necessariamente personale, dunque questa imposta è una capitazione; dunque ciò che è equità sotto questo rapporto è iniquità da un altro punto di vista e l’equilibrio dei carichi è impossibile.

Alla stessa epoca un’altra riforma fu operata a cura del Governo, quella della tariffa del bestiame. Prima il dazio sul bestiame, tanto per l’importazione dall’estero, quanto all’entrata nelle città, si riscuoteva per testa; da ora innanzi la si percepirà a peso. Questa utile riforma, reclamata da lungo tempo, è dovuta in parte all’influenza degli economisti, che in questa occasione, come in molte altre, che non starò a ricordare, hanno mostrato lo zelo più onorevole e si sono lasciati dietro di gran lunga le oziose declamazioni del socialismo. Ma qui ancora, il bene che risulta dalla legge in favore delle classi povere è illusorio. Si è resa uguale e regolare la percezione sulle bestie, non la si è ripartita equamente fra gli uomini. Il ricco che consuma 600 chilogrammi di carne all’anno potrà sentire vantaggio dalle nuove condizioni fatte alla macelleria, l’immensa maggioranza del popolo, che non mangia mai carne, non se ne accorgerà. E io rinnovo la domanda. Potevano il Governo e la Camera fare diversamente? No, ancora una volta; perché voi non potete dire al beccaio: tu venderai la carne al ricco per due franchi al chilogrammo e al povero per dieci soldi. Otterreste da lui più facilmente il contrario.

Lo stesso per il sale. Il Governo ha scemato quattro quinti sul sale adoperato nell’agricoltura e sotto condizione di snaturamento. Qualche giornalista, non avendo nulla di meglio da obiettare, ha fatto su ciò una lamentazione, nella quale compiange la sorte dei poveri contadini che sono dalla legge trattati peggio del loro bestiame. E io domando per la terza volta: poteva il Governo fare altrimenti? Una delle due: o la diminuzione sarà assoluta e allora bisognerà rimpiazzare l’imposta del sale con un’altra; ora, io sfido tutto il giornalismo francese a trovare una imposta che regga a un esame di due minuti; – o la riduzione sarà parziale, sia che cadendo sulla totalità delle materie, essa riservi una parte della tassa, sia che abolisca la totalità della tassa, ma solo su una parte delle materie. Nel primo caso la riduzione è insufficiente per l’agricoltura e per la classe povera; nel secondo la capitazione sussiste con la sua enorme sproporzione. In ogni caso, è il povero, sempre il povero colpito, poiché, malgrado tutte le teorie, l’imposta non può mai essere determinata se non in ragione del capitale posseduto o consumato e se il fisco volesse procedere diversamente, fermerebbe il progresso, interdirebbe la ricchezza, ucciderebbe il capitale.

I democratici che ci rimproverano di sacrificare l’interesse rivoluzionario (cos’è l’interesse rivoluzionario?) all’interesse socialista, dovrebbero dirci come mai senza rendere lo Stato unico proprietario e senza decretare la comunità dei beni e dei guadagni, intendano con un qualunque sistema d’imposta sollevare il popolo e restituire al lavoro quanto dal capitale gli è tolto. Ho un bel martellarmi il capo, ma in tutte le questioni vedo il potere pubblico nella più falsa situazione e l’opinione dei giornalisti divagare in un’assurdità senza confini.

Nel 1842 [François] Arago era partigiano della gestione delle ferrovie da parte delle società e ditte private e la maggioranza della Francia la pensava come lui.

Nel 1846, è venuto a dirci di avere mutato parere e, a parte gli speculatori in costruzioni ferroviarie, si può dire che la maggioranza dei cittadini ha cambiato come Arago. Cosa credere e cosa fare in questo va e vieni dei dotti e della Francia?

L’esecuzione affidata allo Stato pareva dovesse garantire meglio gli interessi del paese; ma è lunga, dispendiosa, non intelligente. Venticinque anni di errori, di sviste, d’imprevidenza, i milioni sprecati a centinaia nella grande opera di canalizzazione del paese l’hanno provato ai più increduli. Si sono visti anche degli ingegneri, dei membri dell’amministrazione proclamare altamente l’incapacità dello Stato in materia di lavori pubblici, al pari dell’industria.

L’esecuzione eseguita da compagnie è irreprensibile, è vero, dal punto di vista dell’interesse degli azionisti; ma le società ferroviarie portano con loro il sacrificio dell’interesse generale, aprono la porta all’aggiotaggio e al monopolio organizzato che sfrutta il pubblico a piacere suo.

L’ideale sarebbe un sistema che riunisse i vantaggi dei due modi senza presentare nessuno dei loro inconvenienti. Dov’è il mezzo per conciliare questi caratteri contraddittori? Il mezzo per ispirare lo zelo, l’armonia, la penetrazione in codesti impiegati inamovibili, che non hanno nulla da guadagnare né da perdere? Il mezzo di fare che gli interessi del pubblico stiano a una società industriale tanto a cuore quanto i suoi, di fare che questi interessi siano veramente suoi senza per questo che essa cessi d’essere distinta dallo Stato e di avere per conseguenza interessi propri? Chi è che nel mondo ufficiale concepisce la necessità e per conseguenza la possibilità di una tale conciliazione? E, a più forte ragione, chi è che ne possiede il segreto?

In tale emergenza il Governo ha fatto, come sempre, un po’ di eclettismo: ha preso per sé una parte dell’esecuzione, lasciando l’altra alle società, cioè, invece di conciliare i contrari, li ha messi in conflitto. E i giornali che in nulla e per nulla hanno più o meno talento del Governo, i giornali, dico, dividendosi in tre frazioni, hanno preso a sostenere chi la transazione ministeriale, chi l’esclusione dello Stato, chi l’esclusione delle società. In modo che oggi né il pubblico né il signor Arago sanno più di ieri, quel che vogliono malgrado il loro voltafaccia.

Che gregge è la nazione francese nel secolo decimonono con i suoi tre poteri, la sua stampa, i suoi corpi scientifici, la sua letteratura, il suo insegnamento! Centomila uomini nel nostro paese hanno gli occhi sempre aperti su tutto ciò che interessa il progresso nazionale e l’onore della patria. Ora, proponete a questi centomila uomini la più semplice questione d’ordine pubblico e potete essere sicuri che tutti andranno a dar di naso nella medesima sciocchezza.

È meglio che la promozione dei funzionari si faccia per merito o per anzianità?

Certo non c’è persona che non auguri di vedere questa duplice maniera di valutazione delle attitudini fusa in una sola. Che bella società quella nella quale i diritti dell’ingegno fossero sempre d’accordo con quelli dell’età! Ma, si dice, una perfezione simile è utopica, essendo contraddittoria nel suo enunciato. E invece di vedere che appunto la contraddizione rende possibile la cosa, si fanno dispute sul valore rispettivo dei due opposti sistemi, che, conducendo ciascuno all’assurdo, danno adito ugualmente ad abusi intollerabili,

Chi sarà giudice del merito? Uno dice: il Governo. Ora, il Governo non trova meriti in altri che nelle sue creature. Dunque non promozioni a scelta; via questo sistema immorale che distrugge l’indipendenza e la dignità dell’impiegato.

Ma, dice l’altro, l’anzianità è rispettabilissima, non c’è che dire. È un guaio che abbia l’inconveniente di immobilizzare ciò che è essenzialmente volontario e libero, il lavoro e il pensiero; di creare ostacoli al potere pubblico persino tra i suoi agenti e di concedere all’azzardo e spesso all’impotenza il premio del genio e dell’audacia.

Finalmente si transige: si accorda al Governo la facoltà di nominare arbitrariamente a un certo numero d’impieghi uomini supposti di merito e stimati non bisognosi di esperienza, mentre il rimanente, reputato apparentemente incapace, avanza come prevedono i quadri. E la stampa, questa vecchia rozza di tutte le mediocrità presuntuose, che il più spesso vive con le composizioni gratuite di giovanotti privi di talento e senza studi, la stampa ricomincia i suoi attacchi al Governo, accusandolo, non senza ragione, del resto, ora di favoritismo, ora di pedanteria.

Chi può lusingarsi di fare cosa che vada bene alla stampa? Dopo aver declamato e gesticolato contro l’enormità del bilancio, eccola reclamare aumenti di stipendi per un esercito di funzionari, che in verità, non ha di che vivere. Ora è l’insegnamento alto e basso che fa udire i suoi lamenti per mezzo di essa; ora il clero delle campagne, così mediocremente retribuito, che è stato costretto a conservare i proventi casuali, fonte di scandali e di abusi. Poi è tutto il popolo degli impiegati che non ha modo di alloggiare, di vestirsi, di cibarsi, di riscaldarsi; è un milione di uomini con le loro famiglie, quasi l’ottava parte della popolazione, la cui miseria fa vergogna alla Francia e per i quali bisognerebbe d’un tratto aumentare di 500 milioni il bilancio. Notate che in questo immenso personale non c’è un uomo che sia di troppo; anzi se la popolazione cresce il numero crescerà in proporzione. Siete in grado di spremere dalla nazione due miliardi d’imposte? Potete prendere sopra una media di 920 franchi di reddito per quattro persone, 236 franchi, più del quarto, al fine di pagare, con le altre spese dello Stato, gli stipendi della classe improduttiva? E se non potete farlo, se non potete né saldare, né ridurre le vostre spese cosa cercate? Di che vi lamentate? Lo sappia una volta per sempre il popolo: tutte le speranze di riduzione e di equità nell’imposta, nelle quali lo cullano a vicenda le arringhe del potere e le diatribe degli uomini di partito sono tante mistificazioni; né l’imposta si può ridurre né il riparto può essere equo sotto il regime del monopolio. Al contrario, più la condizione del cittadino s’abbassa, più s’aggrava sulle sue spalle la contribuzione; ciò è fatale, irresistibile, malgrado gli intenti manifesti del legislatore e gli sforzi reiterati del fisco. Chiunque non possa diventare o serbarsi opulento, chiunque sia entrato nella caverna della sventura, deve rassegnarsi a pagare in proporzione della propria miseria: Lasciate ogni speranza voi ch’entrate [Dante].

L’imposta dunque, la polizia – d’ora innanzi non separeremo più le due idee – è una fonte novella di pauperismo; l’imposta aggrava gli effetti sovversivi delle antinomie precedenti, la divisione del lavoro, le macchine, la concorrenza, il monopolio. Colpisce il lavoratore nella libertà e nella coscienza, nel corpo e nell’anima, col parassitismo, le vessazioni, le frodi che suggerisce e la pena che viene dopo.

Sotto Luigi XIV il solo contrabbando del sale produceva 3700 sequestri domiciliari, 2000 arresti d’uomini, 1800 di donne, 6000 di fanciulli, 1100 sequestri di cavalli, 50 confische di vetture, 300 condanne alla galera. E questo era, osserva lo storico, il prodotto di una sola imposta, dell’imposta del sale. Quale era dunque il numero totale degli infelici imprigionati, torturati, espropriati a causa d’imposte?

In Inghilterra su quattro famiglie ce n’è una improduttiva ed è quella che vive nell’abbondanza. Che vantaggi per la classe operaia se questa lebbra del parassitismo fosse tolta! Indubbiamente, in teoria avete ragione, in pratica la soppressione del parassitismo sarebbe una calamità. Se un quarto della popolazione inglese è improduttivo, c’è un altro quarto di codesta popolazione che lavora per lui: cosa farebbe questa frazione di lavoratori se di un tratto perdesse il collocamento dei propri prodotti? Supposizione assurda, dite voi. Sì, supposizione assurda, ma realissima e che dovete ammettere appunto perché assurda. In Francia un esercito permanente di 500 mila uomini, 40 mila preti, 20 mila medici, 80 mila legulei, 26 mila doganieri e non so quante altre centinaia di migliaia di gente improduttiva di ogni specie formano un immenso sbocco per la nostra agricoltura e le nostre fabbriche. Che questo sbocco si chiuda di un tratto ed ecco arrestarsi l’industria, il commercio deporre il suo bilancio e l’agricoltura soffocare sotto le proprie ricchezze.

Ma, come concepire che una nazione si trovi impacciata nel suo cammino per essersi sbarazzata delle bocche inutili? – Chiedete piuttosto come mai una macchina il cui consumo fu previsto di 300 chilogrammi di carbone all’ora, perde la sua forza se gliene danno 150. Ma non c’è modo di fare diventare produttori questi esseri improduttivi, giacché non è possibile liberarsene? – E come farete a stare senza polizia, senza il monopolio, la concorrenza e tutte le altre contraddizioni di cui è composto il vostro ordine di cose? Ascoltate. Nel 1844, in occasione dei torbidi di Rive-de-Gier, il signor Anselme Petetin pubblicò nella “Revue Independante” due articoli pieni di ragione e di franchezza sull’anarchia delle miniere carbonifere nel bacino della Loira. Petetin insisteva sulla necessità di riunire le miniere e centralizzare l’esercizio. I fatti ch’egli recò a notizia del pubblico non erano ignorati dal Governo. Ebbene, il potere pubblico si è occupato della riunione delle miniere e dell’organizzazione di questa industria? Niente affatto, il Governo ha seguito il canone della libera concorrenza: ha lasciato fare e visto passare.

Poi gli esercenti delle miniere si sono associati non senza ispirare una certa inquietudine ai consumatori, i quali in codesta associazione hanno veduto il segreto progetto di far rialzare il prezzo del combustibile. Il Governo ha ricevuto numerose doglianze in proposito, interverrà per restaurare la concorrenza e impedire il monopolio? Non lo può: il diritto di coalizione è, nella legge, identico al diritto di associazione; il monopolio è la base della nostra società, come la concorrenza è la conquista, e purché non ci siano sommosse, il potere lascerà fare e starà a guardare. Che altra condotta potrebbe tenere? Può interdire una società di commercio legalmente costituita? Può costringere i vicini a distruggersi tra loro? Può proibire che riducano le spese? Può stabilire un maximum? Se il potere facesse una sola di queste cose, rovescerebbe l’ordine stabilito. Il Governo dunque non può prendere iniziative di sorta; esso è istituito per difendere e proteggere nello stesso tempo il monopolio e la concorrenza, sotto la riserva di patenti, licenze, contribuzioni fondiarie e altre servitù messe da lui sulla proprietà. A parte queste riserve, il Governo non ha nessuna specie di diritto da far valere in nome della società. Il diritto sociale non è definito; per altro esso sarebbe la negazione del monopolio e della concorrenza. Come mai il Governo potrebbe prendere le difese di ciò che la legge non ha previsto né definito, di ciò che è contrario ai diritti riconosciuti dal legislatore?

Quando il minatore, che noi dobbiamo considerare nel caso di Rive-de-Gier come il vero rappresentante della società di fronte agli esercenti, tentò di resistere al rialzo dei monopolizzatori, difendendo il proprio salario, e d’opporre coalizione a coalizione, il Governo fece fucilare il minatore. Ed ecco gli schiamazzatori politici accusare l’autorità, chiamandola parziale, feroce, veduta al monopolio, ecc. Quanto a me dichiaro che questo modo di giudicare gli atti dell’autorità mi sembra poco filosofico e lo respingo con tutte le mie forze. Può darsi che fosse possibile ammazzare meno gente, può darsi che ne siano rimaste più del necessario sul terreno; il fatto notevole qui non è il numero dei morti e dei feriti, è la repressione degli operai. Quelli che hanno biasimato l’autorità avrebbero fatto lo stesso, salvo forse l’impazienza delle loro baionette e la giustezza del tiro; avrebbero insomma represso e non avrebbero potuto fare altrimenti. E il motivo, che invano si vorrebbe disconoscere, è che la concorrenza è cosa legale; la società in accomandita è cosa legale; l’offerta e la domanda sono cose legali e tutte le conseguenze che risultano direttamente dalla concorrenza, dall’accomandita e dal libero commercio, sono cose legali, mentre lo sciopero degli operai è illegale. E non è solamente il Codice penale che lo dice, è il sistema economico, è la necessità dell’ordine stabilito. Fino a che il lavoro non sarà sovrano, deve essere schiavo: la società non sussiste se non a questa condizione. Che ogni operaio individualmente abbia la libera disposizione della propria persona e delle proprie braccia, si può tollerare; ma che gli operai si mettano, con le coalizioni, a fare violenza al monopolio, è quanto la società non può permettere. [La nuova legge sui libretti (di lavoro) ha ristretto dentro limiti più angusti l’indipendenza degli operai. La stampa democratica ha fatto divampare di nuovo, in questa circostanza, la sua indignazione contro gli uomini del potere, come se questi avessero fatto altro che applicare i princìpi di autorità e proprietà che sono quelli della democrazia. Ciò che le Camere hanno fatto riguardo i libretti era inevitabile e bisognava aspettarselo. È così impossibile a una società fondata sul principio di proprietà non andare incontro alla distinzione delle caste, come a una democrazia non arrivare al dispotismo, a una religione non essere irragionevole, al fanatismo non mostrarsi intollerante. È la legge di contraddizione; quanto tempo ci vorrà per capirlo?]. Schiacciate il monopolio e avrete abolita la concorrenza, disorganizzata la fabbrica, seminata la dissoluzione. L’autorità, fucilando i minatori, s’è trovata come Bruto posto tra l’amore di padre e i doveri di console: bisognava o perdere i figli o salvare la Repubblica. L’alternativa era orribile, è vero; ma tale è nello spirito e nella lettera il patto sociale, questo è il senso della Casta, questo è l’ordine della Provvidenza.

Dunque la polizia istituita per la difesa del proletariato è tutta contro il proletariato. Il proletariato è cacciato dalle foreste, dai fiumi, dalle montagne; gli sono contese persino le scorciatoie; presto non conoscerà altra via che quella della prigione.

I progressi dell’agricoltura hanno fatto sentire generalmente il vantaggio dei prati artificiali e la necessità di abolire il vago pascolo. Da per tutto si dissoda, si affitta, si assiepano le terre comunali: nuovi progressi, nuova ricchezza. Ma il povero giornaliero che non aveva altro patrimonio che il comunale, e l’estate nutriva una vacca e pochi montoni facendoli pascolare lungo le vie, traverso i cespugli e nei campi sfruttati, perderà la sua sola e unica provvidenza. Il proprietario fondiario, il compratore o l’affittuario dei beni comunali saranno soli ormai a vendere col frumento i legumi, il latte e il formaggio. Invece d’indebolire il monopolio antico se n’è creato uno nuovo. Perfino i cantonieri si riservano i cigli delle vie come un prato di loro pertinenza e ne scacciano il bestiame che non sia dell’amministrazione. Cosa deriva da ciò? Che il bracciante, prima di rinunciare alla sua vacca, la fa pascolare in contravvenzione, si mette a fare il predone, commette mille guasti, si fa condannare all’ammenda e alla prigione; a che gli servono la polizia e i progressi agrari? – L’anno scorso il sindaco di Mulhouse, per impedire i furti d’uva, proibì a ogni individuo non proprietario di vigneti, di girare di giorno e di notte nelle vie lungo o traverso i vigneti; precauzione caritatevole, perché preveniva persino i desideri e le voglie. Ma se una via pubblica non è più che un annesso della proprietà; se le terre comunali sono convertite in proprietà; se il demanio pubblico, insomma, è custodito, fissato, venduto come una proprietà, cosa rimane al proletario? A che gli serve che la società sia uscita dallo stato di guerra, per entrare nel regime della polizia?

Come la terra, così l’industria ha i suoi privilegi; privilegi consacrati dalla legge, come sempre sotto condizione e riserva; ma, del pari, come sempre, a gran pregiudizio del consumatore. La questione è interessante e giova dire qualche parola.

Cito da [Augustin] Renouard: “I privilegi furono un correttivo ai regolamenti...”.

Chiedo a Renouard il permesso di tradurre il suo pensiero, rovesciando la frase: – Il regolamento fa un correttivo del privilegio. Dacché chi dice regolamento dice limitazione: ora, come immaginare che si sia limitato il privilegio prima che esso esistesse? Concepisco che il sovrano abbia sottoposto ai regolamenti i privilegi; ma non comprendo ch’egli abbia creato dei privilegi espressamente per attenuare l’effetto dei regolamenti. Una simile concessione non avrebbe avuto alcun motivo; sarebbe stata un effetto senza causa. Nella logica ugualmente che nella storia tutto è appropriato e monopolizzato quando vengono le leggi e i regolamenti; a questo riguardo nella legislazione civile accade come nella legislazione penale. La prima è provocata dal possesso e dall’appropriazione; la seconda dalla comparsa dei crimini e dei delitti. Renouard, preoccupato dall’idea di servitù inerente a ogni regolamento, ha considerato il privilegio come un compenso per questa servitù e ciò gli ha fatto dire che i privilegi sono un correttivo dei regolamenti. Ma quel che Renouard aggiunge prova che voleva dire proprio il contrario: “Il principio fondamentale della nostra legislazione, quello di una concessione di temporaneo monopolio come prezzo di un contratto tra la società e il lavoratore, ha sempre prevalso”, ecc. Cos’è dunque in fondo questa concessione di monopolio? Una semplice ricognizione, una dichiarazione. La società, volendo favorire una industria nuova a godere dei vantaggi che essa promette, transige con l’inventore, come ha transatto col colono: gli garantisce il monopolio della sua industria per un certo tempo: ma non crea il monopolio. Il monopolio esiste per il fatto stesso dell’invenzione; ed è appunto la ricognizione del monopolio che costituisce la società.

Dissipato questo equivoco, passo alle contraddizioni della legge.

“Tutte le nazioni industriali hanno adottato la costituzione di un monopolio temporaneo, come prezzo di un contratto tra la società e l’inventore... Non posso indurmi a credere che i legislatori di tutti i popoli abbiano commesso una rapina”.

Se Renouard legge questo libro, riconoscerà che, citandolo, non censuro il suo pensiero; egli stesso ha avvertito le contraddizioni della legge sui brevetti. Tutto quanto pretendo è ricondurre questa contraddizione al sistema generale.

E innanzi tutto, perché un monopolio temporaneo nell’industria, mentre il monopolio territoriale è perpetuo! Gli Egiziani erano più conseguenti: tra loro questi due monopoli erano del pari ereditari, perpetui, inviolabili. So quali considerazioni si sono fatte valere contro la perpetuità della proprietà letteraria, le ammetto tutte; ma tali considerazioni si applicano ugualmente alla proprietà fondiaria, in più esse lasciano sussistere nella loro integrità gli argomenti che vi si oppongono. Qual è dunque il segreto di tutte queste variazioni del legislatore? – Del resto, io non ho più bisogno di dire che rivelando questa incoerenza, non voglio calunniare né satireggiare: riconosco che il legislatore s’è determinato a fare così, non volontariamente, ma per necessità.

Tuttavia la contraddizione più flagrante è quella che risulta dalle disposizioni esplicite della legge. Nel Tit. IV, art. 30, § 3, è detto: “Se il brevetto si riferisce a princìpi, metodi, sistemi, scoperte, idee teoriche o puramente scientifiche, dei quali non s’indicarono le applicazioni industriali, il brevetto è nullo”.

Ora, cosa è un principio, un metodo, una idea teorica, un sistema? È il frutto del genio, è l’invenzione nella sua purezza, è l’idea, è tutto. L’applicazione è il fatto rozzo, nulla. La legge esclude dal beneficio del brevetto ciò che lo ha veramente meritato, ossia l’idea; invece essa li accorda all’applicazione, cioè al fatto materiale, a un esemplare dell’idea, come direbbe Platone. A torto dunque si dice brevetto di invenzione; si dovrebbe dire brevetto di prima occupazione.

Un individuo che ai giorni nostri avesse inventata l’aritmetica, l’algebra, il sistema decimale, non avrebbe ottenuto alcun brevetto: lo avrebbe avuto Barême per i suoi Conti fatti. Pascal per la sua Teoria della gravità dell’aria non sarebbe stato brevettato; ma un vetraio avrebbe avuto invece il privilegio del barometro. “Dopo due millenni, cito le parole di Arago, uno dei nostri compatrioti s’accorge che la vite di Archimede, che serve a innalzare l’acqua, potrebbe essere adoperata a far discendere dei gas: basta, senza cangiarvi nulla, farla girare da destra a sinistra, invece di girarla, come si usa per fare salire l’acqua, da sinistra a destra. Grossi volumi di gas, saturi di sostanze estranee sono in questo modo portati al fondo di uno spesso strato di acqua; il gas si purifica risalendo. Io sostengo che là c’è una invenzione; che l’individuo il quale ha trovato il mezzo di fare della vite di archimede una soffiatrice aveva diritto a un brevetto”. Ciò che è più straordinario è che lo stesso Archimede sarebbe obbligato a ricomprare il diritto di servirsi della sua vite e il signor Arago trova che sia giusto.

È inutile moltiplicare gli esempi: quel che la legge ha voluto monopolizzare non è, come dicevo, l’idea, ma il fatto; non l’invenzione, ma l’occupazione. Come se l’idea non fosse la categoria che abbraccia tutti i fatti nei quali è tradotta; come se un metodo, un sistema non fosse una generalizzazione d’esperienze, e quindi ciò che costituisce propriamente il frutto del genio, l’invenzione! Qui la legislazione è più che antieconomica, confina con la scempiaggine. Io ho dunque il diritto di domandare al legislatore, perché, malgrado la libera concorrenza, la quale non è altro che il diritto di applicare una teoria, un principio, un metodo, un sistema non appropriabile, esso interdice in taluni casi questa stessa concorrenza, questo diritto di applicare un principio. “Non potendo più, dice con molta ragione Renouard, soffocare i propri concorrenti coalizzandoli in corporazioni e giurande, si trova un compenso nei brevetti”. Perché il legislatore ha tenuto mano a questa congiura di monopoli, a questa interdizione delle teorie che appartengono a tutti?

Ma, a che serve interpellare sempre chi non può dire nulla? Il legislatore non ha capito in che senso agiva quando faceva questa strana applicazione del diritto di proprietà, che si dovrebbe, per essere esatti, chiamare diritto di priorità. Si spieghi almeno sulle clausole del contratto che esso ha concluso in nome nostro con i monopolizzatori.

Passo sotto silenzio la parte relativa alle date e alle altre formalità amministrative e fiscali e vengo all’articolo che dice: “Il brevetto non garantisce l’invenzione”.

Senza dubbio, la società o il sovrano che la rappresenta, non può né deve garantire l’invenzione, perché concedendo un monopolio di quattordici anni, la società diviene compratrice del privilegio e per conseguenza spetta al brevettato di dare garanzia. Come dunque i legislatori possono, con aria di soddisfazione, venire ai loro committenti e dire: Abbiamo trattato in nome vostro con un inventore; esso si obbliga a farvi godere la sua scoperta sotto riserva di poterla fare valere esclusivamente per lo spazio di quattordici anni. Però, noi non garantiamo l’invenzione! – e a che vi siete impegnati, o legislatori? Come non avete visto che senza una garanzia d’invenzione, voi concedevate un privilegio, non già per una scoperta reale, ma per una scoperta possibile e in modo che il campo dell’industria era da voi alienato prima che si trovasse l’aratro? Certo, il dovere vostro era di essere prudenti; chi v’ha conferito il mandato di farvi ingannare?

Il brevetto d’invenzione non è neanche una determinazione di priorità, è una alienazione anticipata. È come se la legge dicesse: garantisco la terra, al primo occupante, ma senza garantirne la qualità, la situazione e neanche l’esistenza; senza che io sappia se devo alienarla, se possa essere oggetto di appropriazione! Che curioso uso della potestà legislativa!

So bene che la legge aveva ottime ragioni per astenersi; ma sostengo che ne aveva altrettanto ottime per intervenire.

Ecco la prova: “Non è possibile dissimularselo, dice Renouard, né lo si può impedire. I brevetti sono e saranno uno strumento da ciarlatani, e nello stesso tempo la legittima ricompensa per il lavoro e per il genio... Tocca al buon senso del pubblico di fare giustizia delle truffe”.

Tanto varrebbe dire: tocca al buon senso del pubblico distinguere i veri dai falsi medicinali, il vino buono dal vino adulterato; tocca al buon senso del pubblico distinguere su una bottoniera la decorazione data al merito da quella prostituita alla mediocrità e all’intrigo. Perché, vi chiamate Stato, Potere, Autorità, Polizia, se la Polizia deve farla il buon senso del pubblico? “Come si dice: chi ha terra ha guerra, così chi ha privilegi ha processi”.

Come punireste la contraffazione se non aveste garanzia? Invano vi si allegherà, in diritto, la prima occupazione, in fatto, la somiglianza. Là, dove la realtà stessa di una cosa è costituita dalla qualità di essa, non esigere garanzia significa non concedere di diritto nulla, significa privarsi del mezzo di paragonare i procedimenti e verificare la contraffazione. In materia di procedimenti industriali, il successo dipende da così poco! Ora, questo così poco è tutto!

Concludo da tutto ciò che la legge sui brevetti d’invenzione, indispensabile nei suoi motivi, è impossibile, cioè illogica, arbitraria, funesta, nella sua economia. Sotto l’impero di certe necessità, il legislatore ha creduto, nell’interesse generale, di accordare un privilegio per una cosa determinata; e invece si trova che ha dato carta bianca al monopolio, che ha abbandonato le probabilità che aveva il pubblico di fare quella scoperta o altra analoga, che ha sacrificato senza compensi i diritti dei concorrenti e lasciato senza difesa in balia della cupidigia dei ciarlatani la buona fede dei consumatori. Poi, affinché nulla mancasse all’assurdità del contratto, ha detto a coloro che doveva garantire: Garantitevi da voi!

Non credo, come non lo crede Renouard, che i legislatori di ogni tempo e in ogni paese abbiano commesso a loro insaputa una rapina, consacrando i vari monopoli sui quali poggia l’economia politica. Ma, Renouard potrebbe convenire con me che i legislatori d’ogni tempo e paese non hanno mai capito nulla dei decreti che mettevano fuori. Un uomo sordo e cieco aveva imparato a suonare le campane e a caricare l’orologio della sua parrocchia. Ciò che c’era di comodo per lui nelle sue funzioni di campanaro era questo, che né il rumore delle campane, né l’altezza del campanile lo stordivano. I legislatori di tutti i tempi e di tutti i siti, per i quali Renouard professa il più profondo rispetto somigliano a quel sordo-cieco, sono i battagli di tutte le pazzie umane.

Che gloria per me se riuscissi a fare riflettere questi automi! se potessi fare loro comprendere che la loro opera è una tela di Penelope, che sono condannati a disfare da una parte, mentre seguitano a tessere dall’altra!

Così, mentre s’applaude alla creazione dei brevetti, sopra altri punti si chiede l’abolizione dei privilegi e sempre con lo stesso orgoglio, con lo stesso contenuto. Horace [Émile] Say vuole che il commercio della carne sia libero. Fra le altre ragioni fa valere questa, tutta matematica: “Il macellaio che vuole ritirarsi dagli affari e cerca un rilevatario, mette in conto gli utensili, la merce, il suo credito e la sua clientela; ma, nel regime attuale, vi aggiunge il valore del nudo titolo, cioè del diritto di godere un monopolio. Ora, il capitale supplementare che il beccaio rilevatario dà per il titolo, porta interesse; non è una creazione nuova; egli deve far entrare questo interesse nel prezzo della carne. Dunque la limitazione nel numero delle botteghe da macellaio anzi che tenere basso il prezzo della carne, lo fa aumentare. Non temo di asserire che quanto dico riguardo alla cessione di una macelleria si applica a tutti gli uffici che hanno un titolo vendibile”.

Le ragioni di Say per l’abolizione del privilegio delle macellerie sono irrefutabili; si applicano agli stampatori, notai, procuratori, uscieri, cancellieri, tabaccai, sensali, agenti di cambio, farmacisti e altri così bene come ai beccai. Ma non distruggono le ragioni che hanno fatto adottare questi monopoli e che si traggono generalmente dal bisogno di sicurezza, autenticità, regolarità per le transazioni, e dagli interessi del commercio, e dall’igiene pubblica. – Lo scopo, voi dite, non si ottiene. – Dio buono! lo so: lasciate le macellerie in balia della concorrenza, mangerete carogne lo stesso. Ecco l’unico frutto che potete sperare dalla vostra legislazione di monopolio e di brevetti.

Abusi! gridano gli economisti ufficiali. Create per il commercio una polizia di sorveglianza, rendete obbligatori i marchi di fabbrica, punite la falsificazione dei prodotti, ecc.

Nella via in cui la civiltà è entrata, da qualunque parte uno si volti, arriva sempre o al dispotismo del monopolio e quindi all’oppressione dei consumatori, o all’annullamento del privilegio per l’azione della polizia, il che vale indietreggiare nell’economia e sciogliere la società distruggendo la libertà. Cosa mirabile! in questo sistema di libera industria, gli abusi, come un bulicame di vermi, rinascono dagli stessi rimedi e se il legislatore volesse reprimere tutti i delitti, impedire tutte le frodi, assicurare contro qualunque attentato le persone, i beni e la cosa pubblica, da riforma in riforma arriverebbe a moltiplicare a tal punto gli impieghi improduttivi che la nazione intera v’entrerebbe dentro e non ci resterebbe infine nessuno per produrre. Tutti sarebbero gente di polizia: la classe industriale diverrebbe un mito. Allora, forse, l’ordine regnerebbe nel monopolio.

“Il principio della legge da fare sui marchi di fabbrica, dice Renouard, è che questi marchi non possono né devono essere trasformati in garanzia della qualità”. È una conseguenza della legge dei brevetti, la quale, come s’è visto, non garantisce l’invenzione. Adottato il principio di Renouard, a che serviranno i marchi? Cosa m’importa di leggere sull’etichetta di una bottiglia, invece di vino a dodici o vino a quindici; società enologica o che altra ditta si voglia? Ciò di cui mi preoccupo è non già il nome del mercante, ma la qualità e il giusto prezzo della merce.

Si suppone, è vero, che il nome del fabbricante sia come un segno di buona o cattiva fabbricazione, di qualità eccellente o scadente. Perché dunque non mettersi apertamente con coloro che vogliono aggiunto al marchio di origine un marchio significativo? Questo riserbo non si capisce. Le due specie di marchi hanno il medesimo scopo; la seconda non è altro che una dichiarazione o parafrasi della prima, un riassunto della distinta del negoziante; perché, lo ripetiamo, se l’origine significa qualche cosa, il marchio non farebbe che determinare questo significato.

[Louis] Wolowski ha sviluppato questa tesi assai bene nella sua prolusione del 1843-1844, la cui sostanza è tutta in questa analogia: “nello stesso modo, dice, che il Governo ha potuto determinare un criterio di quantità, esso può, deve fissare anche un criterio di qualità, essendo l’uno compimento dell’altro. L’unità monetaria, il sistema di pesi e misure non ha recato nessuna offesa alla libertà industriale; il regime dei marchi non la offenderebbe neppur esso”. Wolowski si fa forte dell’autorità dei princìpi della scienza, di A. Smith e J.-B. Say, precauzione utile sempre con uditori più inclini all’autorità che alla ragione.

In quanto a me, dichiaro di trovarmi interamente d’accordo con Wolowski e ciò perché trovo profondamente rivoluzionaria la sua idea. Il marchio, secondo l’espressione di Wolowski, non è altro che un criterio della qualità, il che per me equivale a una tariffa generale. Trattasi di una regia speciale che segni in nome dello Stato e garantisca la qualità delle merci, come accade per le materie d’oro e d’argento, o si lasci al fabbricante la cura del marchio, dal momento che il marchio deve esprimere la composizione intrinseca della merce (sono le precise parole di Wolowski) e garantire da qualsiasi sorpresa il consumatore, esso si risolve per forza in un prezzo fisso. Certo, non è la cosa stessa del prezzo; due prodotti simili, ma d’origine e qualità differenti possono avere uguale valore; un fusto di vino di Borgogna può valere quanto uno di Bordeaux; – ma il marchio significativo conduce alla notizia esatta del prezzo, perché ne dà l’analisi. Calcolare il prezzo di una merce è come decomporla nelle sue parti costitutive; ora, precisamente questo deve fare il marchio di fabbrica, se deve significare qualche cosa. Noi dunque andiamo, come ho già detto, verso una tariffa generale.

Ma una tariffa generale non è altro se non una determinazione di tutti i valori, ed ecco di nuovo l’economia politica in contraddizione nei suoi princìpi e nelle sue tendenze. Sventuratamente, per realizzare la riforma di Wolowski, bisogna cominciare col risolvere tutte le contraddizioni anteriori e collocarsi in una sfera di associazione più elevata; questo difetto di soluzione ha sollevato contro il sistema di Wolowski la riprovazione della maggior parte degli economisti suoi colleghi.

Difatti, il regime dei marchi è inapplicabile nell’ordine attuale, perché questo regime, contrario all’interesse dei fabbricanti, ripugnante alle loro abitudini non potrebbe sussistere altrimenti che per la energica volontà del Governo. Supponiamo per un momento che la regia abbia l’incarico di porre i marchi: bisognerà che i suoi agenti intervengano a ogni istante nella lavorazione, come intervengono nello spaccio delle bevande e nella fabbricazione della birra. Pure questi ultimi, già così molesti, si occupano unicamente delle quantità soggette a imposta, non delle qualità permutabili. Bisognerà che questi controllori e verificatori fiscali portino le loro investigazioni su tutti i particolari, onde reprimere e prevenire la frode; e quale frode? Il legislatore non l’avrà o l’avrà male definita e qui la faccenda diviene davvero imbrogliata.

Non c’è frode a vendere vino di ultima qualità, ma c’è frode a dare una qualità per un’altra; eccoci dunque obbligati a diversificare le qualità dei vini e per conseguenza garantirle. – E fare miscele è lo stesso che frodare? [Jean] Chaptal nel suo trattato dell’arte di fare il vino le consiglia come utilissime; d’altra parte l’esperienza prova che certi vini, in qualche maniera antipatici l’uno all’altro e non associabili, mescolati, danno una bevanda sgradevole e malsana. Eccoci costretti a dire quali vini possano essere utilmente mescolati, quali no. È frode aromatizzare, alcolizzare, annacquare il vino? Chaptal lo raccomanda e tutti sanno che l’uso di certe droghe produce talora buoni risultati, talora effetti perniciosi e detestabili. Quali sostanze proscriverete? in quali casi? in quale proporzione? Proibirete di mescolare la cicoria col caffè, di mettere il glucosio nella birra, l’acqua, il sidro, la concia nel vino?

La Camera dei deputati, nell’informe progetto di legge che le è piaciuto di fare quest’anno sulla falsificazione dei vini, s’è fermata nel bel mezzo dell’opera, vinta dalle inestricabili difficoltà della questione. Ha potuto ben dichiarare che l’introduzione dell’acqua nel vino e quella dell’alcool al di là di una proporzione del 18% è frode e mettere poi codesta frode tra i delitti. Era sul terreno dell’ideologia, ove non si urta mai in intoppi. Ma tutti hanno visto in questo raddoppiamento di severità l’interesse del fisco più che quello dei consumatori; ma la Camera non ha osato creare per sorvegliare e arrestare le frodi un esercito di assaggiatori, verificatori, ecc., e aggravare di un po’ di milioni il bilancio; ma proibendo annacquare e alcolizzate, solo mezzo che rimane ai mercanti vinai per mettere il vino a portata di tutti e mettere insieme qualche guadagno, non ha potuto estendere lo sbocco, alleggerendo i carichi della produzione. La Camera insomma, processando la falsificazione del vino non ha fatto altro che segnare più lontano i confini della frode. Perché l’opera sua raggiungesse l’intento, bisognava prima dire come sia possibile commerciare in vini senza falsificazioni, come il popolo possa comperare vino non adulterato e ciò esce dalle competenze della Camera e sfugge alle sue attitudini.

Se volete che il consumatore sia garantito per il valore e per la salubrità, è indispensabile conoscere e determinare tutto quanto costituisce la buona e sincera produzione, essere sempre ai fianchi del fabbricante, guidarne ogni passo. Non è più lui che fabbrica; il vero fabbricante è lo Stato, siete voi.

Eccoci dunque caduti nella trappola. O impacciate la libertà del commercio mescolandovi in mille modi nella produzione o vi dichiarate unico produttore e spacciatore.

Nel primo caso, vessando tutti, finirete col sollevare tutti contro di voi e presto o tardi lo Stato vi farà cacciare via e i marchi di fabbrica saranno aboliti. Nel secondo, sostituite l’azione del Governo all’iniziativa individuale: il che è contrario ai princìpi dell’economia politica e alla costituzione della società. Prendete una via di mezzo? è il favore, il nepotismo, l’ipocrisia, il peggiore dei sistemi.

Supponiamo ora che il marchio di fabbrica sia lasciato alle cure del fabbricante. Dico che allora i marchi, anche se si rendessero obbligatori, perderebbero poco a poco il loro significato e finirebbero con l’essere nulla più che prove d’origine. Significa conoscere poco il commercio credere che un negoziante, un capo fabbrica, facendo uso di procedimenti non suscettibili di brevetto, possa tradire il segreto della sua industria, dei suoi guadagni, della sua esistenza. Il significato sarà dunque menzognero: non è in facoltà della polizia fare che sia altrimenti. Gli imperatori romani, per scoprire i cristiani che dissimulavano la propria religione, obbligarono tutti a sacrificare agli idoli. Essi fecero degli apostati e dei martiri, e il numero dei cristiani aumentò sempre. Così accadrebbe con i marchi significativi; utili a poche ditte, genererebbero frodi e repressioni innumerevoli; bisognerebbe aspettarselo necessariamente. Perché il fabbricante indichi lealmente la composizione intrinseca, cioè il valore industriale e commerciale della propria merce, bisogna togliergli i pericoli della concorrenza e appagare i suoi istinti di monopolio: potete farlo? Bisogna inoltre interessare il consumatore nella repressione della frode e ciò, fino a che il produttore non sia affatto disinteressato, è cosa impossibile e contraddittoria.

Impossibile: mettete da una parte un consumatore depravato, la Cina; dall’altra un venditore alle strette, l’Inghilterra; tra i due una droga velenosa che esalta e ubriaca, e malgrado tutte le polizie del mondo, avrete il commercio dell’oppio.

Contraddittoria: nella società, il consumatore e il produttore si identificano, ciò vuol dire che entrambi sono interessati a produrre ciò il cui consumo è ad essi nocivo, e siccome per ciascuno il consumo segue la produzione e la vendita, tutti verranno a patti per tutelare il primo interesse, salvo a mettersi rispettivamente in guardia sul secondo.

Il pensiero che ha suggerito i marchi di fabbrica esce dalla stessa fonte, dalla quale, in altri tempi, uscirono le leggi del maximum. È anche questo uno dei tanti andirivieni dell’economia politica.

È provato che le leggi del calmiere, fatte espressamente e ben motivate dai loro autori in vista di rimediare alla carestia, hanno avuto per invariabile risultato di aggravare la penuria. Onde gli economisti non accusano codeste leggi aborrite d’ingiustizia o di malvolere, bensì d’essere maldestre e impolitiche.

Ma quale contraddizione nella teoria che vi contrappongono!

Per rimediare alla carestia, è necessario ricorrere alle sussistenze, o, per meglio dire, farle conoscere; fin là niente da censurare. Affinché si producano le sussistenze, bisogna attirare i possessori col benefizio, eccitare la loro concorrenza e assicurare libertà completa sopra il mercato; questo modo di procedere non vi pare un’assurda omeopatia? Come concepire che più facilmente mi si potrà taglieggiare, più sarò ricco? Lasciate fare, si dice, lasciate passare; lasciate agire la concorrenza e il monopolio, soprattutto nei tempi di carestia, è allora appunto che la carestia è l’effetto della concorrenza e del monopolio. Che logica! ma soprattutto che morale!

Ma, dunque, perché non si farà una tariffa per i fittavoli, come ne esiste una per i panettieri? Perché non un controllo per la semina, per la messe, per la vendemmia, per il foraggio e per il bestiame come c’è un bollo per i giornali, le autorizzazioni e i mandati, come c’è un controllo amministrativo per i fabbricanti di birra e i mercanti di vino...? Nel sistema del monopolio, sarebbe ciò, ne convengo, un aumento di crucci; ma con le nostre tendenze del commercio sleale e la disposizione del potere ad aumentare senza fine il proprio personale e il proprio bilancio, diviene ogni giorno più indispensabile una legge d’investigazione sopra i raccolti.

Del resto, sarebbe difficile dire quale tra il libero commercio e il calmiere produce il male maggiore in tempo di carestia.

Ma qualunque partito voi scegliate, non potete fuggire l’alternativa, la frode è certa e il disastro immenso. Col calmiere le derrate si nascondono; il terrore ingrossando per effetto stesso della legge, il prezzo delle sussistenze aumenta, aumenta; subito la circolazione s’arresta, segue la catastrofe pronta e crudele come una razzia. Con la concorrenza il cammino del flagello è più lento, ma non meno funesto; quanta gente rifinita o morta di fame prima che l’aumento abbia attirato i commestibili! Quanti altri malanni sono venuti! È la storia di quel re al quale Dio, in punizione del suo orgoglio, offerse l’alternativa di tre giorni di peste, tre mesi di carestia o tre anni di guerra. Davide scelse il più corto; gli economisti preferiscono il più lungo. L’uomo è così miserabile che ama meglio finire per tisi che per apoplessia; gli sembra di non morire lo stesso. Ecco la ragione che ha fatto esagerare tanto gli inconvenienti del calmiere e i benefici del libero commercio.

Del resto, se la Francia, dopo venticinque anni, non ha risentito della generale carestia, la causa non è la libertà del commercio, che sa benissimo, quando vuole, produrre nel pieno il vuoto e nel seno dell’abbondanza fare regnare la carestia; la causa è dovuta al perfezionamento delle vie di comunicazione che, abbreviando le distanze, conducono ben tosto l’equilibrio scosso un momento dalla penuria locale. Splendido esempio di questa triste verità, che nella società il bene generale non è mai l’effetto di una cospirazione di particolari volontà!

Più si approfondisce questo sistema di transazioni illusorie tra il monopolio e la società, cioè, come l’abbiamo spiegato al § 1° di questo capitolo, tra il capitale e il lavoro, tra il patriziato e il proletariato; più si scopre che tutto vi è previsto, regolato, eseguito con questa massima infernale, che Hobbes e Machiavelli, teorici del dispotismo, non conobbero: Tutto con il popolo e contro il popolo. Nel mentre che il lavoro produce, il capitale, sotto la maschera di una falsa fecondità, fruisce e abusa; il legislatore, offrendo la sua mediazione, ha voluto richiamare il privilegio ai sentimenti fraterni e circondare il lavoratore di garanzia; e ora si trova, per la contraddizione fatale degli interessi, che ciascuna di queste garanzie è uno strumento di supplizio. Sarebbero necessari cento volumi, la vita di dieci uomini, e un petto di ferro, per raccontare sotto questo riguardo i crimini dello Stato verso il povero, e l’infinita varietà delle sue torture. Un colpo d’occhio sommario sopra le principali categorie della politica, basterà per farcene apprezzare lo spirito e l’economia.

Dopo avere, con un caos di leggi civili, commerciali, amministrative, gettato la discordia negli spiriti, resa più insicura la nozione del giusto moltiplicandone la contraddizione, e resa necessaria per spiegare questo sistema tutta una casta d’interpreti, bisognò organizzare ancora la repressione dei delitti e provvedere al loro castigo. La giustizia criminale, questo ordine così ricco della grande famiglia degli improduttivi e il cui mantenimento costa ogni anno più di 30 milioni alla Francia, è divenuta per la società un principio d’esistenza necessario come il pane alla vita dell’uomo; ma con questa differenza, che l’uomo vive del prodotto delle sue mani, mentre la società divora le proprie membra e si nutre della propria carne.

Si conta, seguendo alcuni economisti:

A Londra 1 delinquente su 89 abitanti. A Liverpool 1 delinquente su 45 abitanti. A Newcastle 1 delinquente su 27 abitanti. Ma queste cifre mancano d’esattezza, e quantunque sembrino spaventevoli, non esprimono il grado reale della perversione sociale per la politica. Qui non si tratta solo di determinare il numero dei colpevoli conosciuti, ma il numero dei delitti. Il lavoro dei tribunali criminali non è che un meccanismo particolare che serve a mettere in rilievo la distruzione morale dell’umanità sotto il regime del monopolio; ma questa esposizione ufficiale è lontana dall’abbracciare il male in tutta l’estensione. Ecco altre cifre che potranno condurci a una più certa approssimazione.

I tribunali correzionali di Parigi hanno giudicato:

Nel 1835 106.467 cause

Nel 1836 128.489 cause

Nel 1837 140.247 cause

Supponiamo che la progressione abbia continuato fino al 1846, e che si aggiungano a questo totale di cause correzionali, quelle della Corte di assise, di semplice polizia, e tutti i delitti non conosciuti o lasciati impuniti, delitti la cui quantità oltrepassa, a dire dei magistrati, di molto il numero di quelli che la giustizia pone sotto accusa, si arriverà a questa conclusione che in un anno, nella città di Parigi, si commettono più infrazioni alla legge che non vi siano abitanti. E come, tra gli autori presunti di queste infrazioni bisogna dedurre necessariamente i fanciulli di sette anni e quelli al disotto, che sono fuori dei limiti della colpevolezza, si dovrà calcolare che ogni cittadino adulto, in un anno, è tre o quattro volte colpevole verso l’ordine stabilito.

Così il sistema proprietario non si mantiene, a Parigi, che con un’annuale perpetrazione di uno o due milioni di delitti! Dunque, quando tutti questi delitti fossero il fatto di un uomo solo, l’argomento sussisterebbe sempre; quest’uomo sarebbe il capro espiatorio carico dei peccati d’Israele; che importa il numero dei colpevoli, allorché la giustizia ha il suo contingente?

La violenza, lo spergiuro, il furto, la truffa, il disprezzo delle persone e della società sono talmente nella natura del monopolio, ne derivano in modo così naturale, con una regolarità così perfetta, e secondo leggi così certe, che si è potuto sottomettere la perpetrazione al calcolo e che, date le cifre di una popolazione, lo stato delle sue industrie e delle sue risorse, se ne deduce rigorosamente la statistica della morale. Gli economisti non sanno ancora qual è il principio del valore; ma conoscono, con la differenza di qualche decimale, la proporzionalità del delitto. Tante migliaia di anime, tanti malfattori, tante condanne; ciò non pone in inganno. È una delle più belle applicazioni del calcolo delle probabilità, e la parte più progredita della scienza economica. Se il socialismo avesse inventato questa teoria accusatrice, tutto il mondo avrebbe gridato alla calunnia.

Che c’è, del resto, che ci debba sorprendere? Come la miseria è un risultato necessario delle contraddizioni della società, risultato che è possibile determinare matematicamente in base alla cifra dei salari, ai prezzi del commercio e al saggio dell’interesse; così i crimini e i delitti sono un altro effetto di questo medesimo antagonismo, suscettibile, come la sua causa, di essere apprezzato col calcolo. I materialisti tirarono le più sciocche conseguenze da questa subordinazione della libertà alle leggi dei numeri; come se l’uomo non fosse sotto l’influenza di tutto ciò che lo circonda, e che essendo ciò che lo circonda retto da leggi fatali, non dovesse provare, nelle sue più libere manifestazioni, il contraccolpo di queste leggi!

Il medesimo carattere di necessità che noi abbiamo segnalato nel fondamento e nell’alimentazione della giustizia criminale, s’incontra, ma sotto un aspetto più metafisico, nella sua moralità.

Secondo il parere di tutti i moralisti, la pena deve essere tale da procurare l’emendamento del colpevole, e conseguentemente tale da allontanarsi da tutto ciò che potrebbe cagionare la sua degradazione. Lungi da me il pensiero di combattere questa felice tendenza degli intelletti e di denigrare delle prove che avrebbero fatta la gloria dei più grandi uomini dell’antichità. La filantropia, malgrado il ridicolo che alcune volte s’attacca al suo nome, rimarrà, agli occhi della posterità, come l’atto più onorevole della nostra epoca; l’abolizione della pena di morte solo rimandata, quella del marchio, gli studi fatti sul regime cellulare, lo stabilimento di opifici nelle prigioni, una quantità di altre riforme, che non posso qui citare, attestano un progresso reale nelle nostre idee e nei nostri costumi. Ciò che l’autore del cristianesimo, in uno slancio di amore sublime, raccontava del suo mistico regno, dove il peccatore pentito deve essere glorificato più del giusto innocente, questa utopia della carità è diventata il desiderio della nostra società incredula; e quando si pensa all’unanimità dei sentimenti che regna a questo riguardo, ci si domanda che mai impedisce che questo voto sia compiuto?

Purtroppo la ragione è ancora più forte dell’amore, e la logica più tenace del delitto; qui, come dappertutto, regna una contraddizione insolubile nella nostra civiltà. Non ci smarriamo in mondi fantastici; afferriamo il reale nella sua nudità spaventevole.

“Fa vergogna il delitto, non il palco”, dice il proverbio. Per il solo fatto che l’uomo è punito, purché abbia meritato d’esserlo, è avvilito, la pena lo rende infame, non in virtù della definizione del codice, ma in ragione dell’errore che ha motivato la punizione. Che importa dunque la materialità del supplizio? che importano tutti i vostri sistemi penitenziari? L’uso che ne fate è per soddisfare la vostra sensibilità, ma è impotente a riabilitare il disgraziato colpito dalla vostra giustizia! Il colpevole una volta avvilito dal castigo, è incapace di riconciliazione; la sua macchia è indelebile, e la sua dannazione eterna. Se si potesse fare altrimenti, la pena cesserebbe d’essere proporzionata al delitto; non sarebbe che una finzione, cioè sarebbe nulla. Colui che la miseria ha condotto al ladrocinio, se si lascia cogliere dalla giustizia, rimane per sempre nemico di Dio e degli uomini; meglio sarebbe stato per lui non venire al mondo; è Gesù Cristo che lo ha detto: Bonum erat ei, si natus non fuisset homo ille [Matteo]. E ciò che pronunciò Gesù Cristo, cristiani e miscredenti non lo considerano un errore; l’irrevocabilità della vergogna, di tutte le rivelazioni del Vangelo, è la sola che il mondo proprietario abbia intesa. Così, separato dalla natura a causa del monopolio, ricercato dall’umanità per la miseria, madre del delitto e della pena, qual rifugio rimane al plebeo, che il lavoro non può nutrire, e che non è abbastanza forte per assalire?

Per condurre questa guerra offensiva e difensiva contro il proletariato, era indispensabile una forza pubblica; il potere esecutivo uscì dalle necessità della legislazione civile, dell’amministrazione e della giustizia. E là ancora le più belle speranze si sono cambiate in amari disinganni.

Come il legislatore, come il borgomastro e come il giudice, il principe si disse rappresentante dell’autorità divina. Difensore del povero, della vedova e dell’orfano, ha promesso di fare regnare intorno al trono la libertà e l’uguaglianza, di venire in aiuto al lavoro e di ascoltare la voce del popolo. E il popolo s’è gettato con amore nelle braccia del potere, e quando l’esperienza gli fece conoscere che il potere era contro di lui, invece d’incolpare l’istituzione, si mise ad accusare il principe, senza mai voler comprendere che, il principe, per natura e destinazione, essendo il capo degli improduttivi e il maggiore dei monopolisti, era impossibile, anche se lo avesse voluto, che prendesse la difesa del popolo.

Ogni critica, sia della forma, sia degli atti del Governo, arriva a questa essenziale contraddizione. E allorché sedicenti teorici della sovranità del popolo pretendono che il rimedio alla tirannia del potere consista nel farlo emanare dal suffragio popolare, come lo scoiattolo, non fanno che girare attorno alla gabbia. Perché dal momento che le condizioni costitutive del potere, cioè l’autorità, la proprietà, la gerarchia, sono conservate, il suffragio del popolo non è più che il consentimento del popolo alla propria oppressione; ciò che è il più sciocco ciarlatanismo.

Nel sistema dell’autorità, qualunque sia per altro la sua origine, monarchica o democratica, il potere è l’organo nobile della società; è per esso che la società vive e si muove: ne emana ogni iniziativa; ogni ordine, ogni perfezione sono il suo lavoro. Secondo le definizioni della scienza economica, al contrario, definizioni conformi alla realtà delle cose, il potere è la serie degli improduttivi che l’organizzazione sociale deve tendere indefinitamente a restringere. Come dunque, col principio di autorità così caro ai democratici, il desiderio dell’economia politica, desiderio che è anche quello del popolo, potrà realizzarsi? Come mai il Governo, che in quest’ipotesi è tutto, diventerà un servo obbediente, un organo subalterno? Come mai il principe avrebbe ricevuto il potere solo per affievolirlo, e lavorerebbe, in vista dell’ordine, alla propria eliminazione? Come mai non si occuperà piuttosto a fortificarsi, ad aumentare il suo personale, a ottenere senza fine dei nuovi sussidi e finalmente a sottrarsi alla dipendenza del popolo, termine fatale di ogni potere uscito dal popolo?

Si dice che il popolo, eleggendo i propri legislatori, e per mezzo loro notificando la propria volontà al potere, avrà sempre mezzo di arrestare le sue invasioni; che così il popolo prenderà in una volta il posto di principe e quello di sovrano. Ecco in due parole l’utopia dei democratici, l’eterna mistificazione con la quale ingannano il proletariato.

Ma il popolo farà leggi contro il potere, contro il principio di autorità e di gerarchia, che è il principio della società essa stessa, contro la libertà e la proprietà? Nell’ipotesi in cui siamo, è più che impossibile, è contraddittorio. Dunque la proprietà, il monopolio, la concorrenza, i privilegi industriali, la disuguaglianza delle fortune, la preponderanza del capitale, la centralizzazione gerarchica schiacciante, l’oppressione amministrativa, l’arbitrio legale, saranno conservati; e come non è possibile che un Governo non agisca nel senso del suo principe, il capitale resterà, come in avanti, il dio della società, e il popolo, sempre taglieggiato, sempre avvilito, non avrà guadagnato alla prova della sovranità che la dimostrazione della sua impotenza.

Invano i partigiani del potere, tutti questi dottrinari dinastico-repubblicani che non differiscono tra loro che nella tattica, si lusingano, una volta al potere, di portare dappertutto la riforma. Che cosa riformare?

Riformare la Costituzione? – È impossibile. Quando la nazione in massa entrasse nell’Assemblea costituente, non uscirebbe che dopo aver votato sotto un’altra forma la propria servitù, o decretato la propria dispersione.

Rifare il codice, opera dell’Imperatore, sostanza pura del diritto romano e del costume? – È impossibile. Che avete da porre al posto della vostra perizia proprietaria, fuori della quale vedete e intendete niente, e al posto delle leggi di monopolio di cui la vostra immaginazione è impotente a romperne il cerchio? Da più di un mezzo secolo che la monarchia e la democrazia, queste due sibille che il mondo antico ci ha lasciate, hanno intrapreso, con una transazione costituzionale, ad accordare i loro oracoli; dopo che la saggezza del principe s’è messa all’unisono con la voce del popolo, quale rivelazione ne uscì? Quale principio d’ordine fu scoperto? Quale uscita fu indicata al labirinto del privilegio? Prima che principe e popolo avessero segnato questo strano compromesso, in che cosa non si rassomigliavano le loro idee? E dopo che ciascuno di essi si sforza di rompere i patti, in che cosa differiscono?

Diminuire i carichi pubblici, ripartire l’imposta su di una base più equa? – È impossibile; all’imposta come all’esercito, l’uomo del popolo darà sempre più della sua quota.

Regolare il monopolio, porre un freno alla concorrenza? – È impossibile, voi uccidereste la produzione.

Aprire nuovi sbocchi? – Impossibile. [Cfr. cap. IX].

Organizzare il credito? – Impossibile. [Cfr. cap. X].

Attaccare l’eredità? – Impossibile. [Cfr. cap. XI].

Creare fabbriche nazionali, assicurare, in mancanza di lavoro, un minimum agli operai; assegnare loro una parte nei benefici? – Impossibile. È nella natura del Governo di non potere occuparsi del lavoro che per incatenare gli operai, come non si occupa dei prodotti se non per riscuotere la propria decima.

Riparare, con un sistema d’indennità, i disastrosi effetti delle macchine? – Impossibile.

Combattere con regolamenti la brutale influenza della divisione parcellare? – Impossibile.

Fare godere al popolo i benefici dell’insegnamento? – Impossibile.

Stabilire una tariffa di merci e di salari, e fissare per mezzo dell’autorità sovrana il valore delle cose? – Impossibile, impossibile.

Di tutte le riforme che la società sollecita con ansietà, nessuna è di competenza del potere, nessuna può essere da esso realizzata, perché la natura del potere vi ripugna, e non è dato all’uomo di unire ciò che Dio ha diviso.

Almeno, diranno i partigiani dell’iniziativa governativa, riconoscerete che per compiere la rivoluzione promessa dallo sviluppo delle antinomie, il potere sarebbe un potente ausiliario. Perché dunque opporvi a una riforma che, dando il potere nelle mani del popolo, aiuterebbe così bene le vostre vedute? La riforma sociale è lo scopo; la riforma politica è lo strumento; perché se volete il fine, respingete il mezzo?

Tale è oggi il ragionamento di tutta la stampa democratica, alla quale rendo grazie di tutto cuore di avere finalmente con questa professione di fede quasi socialista, proclamato la nullità delle sue teorie. Dunque è nel nome della scienza che la democrazia reclama una riforma politica come preliminare della riforma sociale. Ma la scienza protesta contro questo sotterfugio per essa ingiurioso; la scienza ripudia ogni alleanza con la politica, è ben lontana dall’attenderne il minimo soccorso, è dalla politica che essa deve cominciare l’opera delle sue esclusioni.

Come lo spirito dell’uomo ha poca affinità col vero! Quando vedo la democrazia, socialista della vigilia, domandare senza posa, per combattere l’influenza del capitale, il capitale; per rimediare alla miseria, la ricchezza; per organizzare la libertà, l’abbandono della libertà; per riformare la società, la riforma del Governo; quando la vedo, dico, incaricarsi della società, purché le questioni sociali siano messe da parte o risolte; mi sembra di udire un astrologo che, prima di rispondere alle domande dei suoi consultatori, comincia ad informarsi della loro età, del loro stato, della loro famiglia, di tutti i casi della loro vita. Eh! miserabile strega, se tu conosci l’avvenire, sai chi io sono e ciò che voglio; perché lo domandi a me?

Risponderò dunque ai democratici; se conoscete l’uso che dovete fare del potere e se sapete in qual modo il potere debba essere organizzato, possedete la scienza economica. Ora, se possedete la scienza economica, se avete la chiave delle sue contraddizioni, se siete in grado d’organizzare il lavoro, se avete studiato le leggi del cambio, non avete bisogno dei capitali della nazione né della forza pubblica. Siete, da oggi, più potenti del denaro, più forti del potere. Perché, se i lavoratori sono con voi, siete per ciò solo padroni della produzione; tenete incatenato il commercio, l’industria e l’agricoltura; disponete di tutto il capitale sociale; siete gli arbitri dell’imposta; bloccate il potere e vi mettete sotto i piedi il monopolio. Quale altra iniziativa, quale autorità maggiore domandate? Chi vi impedisce di applicare le vostre teorie?

Senza dubbio, non è l’economia politica, quantunque generalmente seguita e accreditata; poiché tutto, nell’economia politica, avendo un lato vero e un lato falso, il problema si riduce a combinare gli elementi economici in modo tale che il loro insieme non presenti più contraddizione.

Non è la legge civile; poiché questa legge, consacrando la perizia economica unicamente per i suoi vantaggi e malgrado i suoi inconvenienti, è suscettibile, come l’economia politica stessa, di piegarsi a tutte le esigenze di una sintesi esatta, e per conseguenza non può essere per voi più favorevole.

Infine, non è il potere, che, ultima espressione dell’antagonismo, è creato solo per difendere la legge, non potrebbe farvi ostacolo se non abiurandosi.

Dunque, ancora una volta, chi vi trattiene?

Se possedete la scienza sociale, sapete che il problema dell’associazione consiste nell’organizzare, non solo gli improduttivi – rimane, grazie al cielo, poco da fare da quella parte – ma anche i produttori e, con questa organizzazione a sottomettere il capitale e rendere subalterno il potere. Tale è la guerra che dovete sostenere; guerra del lavoro contro il capitale; guerra della libertà contro l’autorità; guerra del produttore contro l’improduttivo; guerra dell’uguaglianza contro il privilegio. Ciò che voi domandate, per condurre la guerra a buon fine, è precisamente ciò contro cui dovete combattere. Ora, per combattere e ridurre il potere, per metterlo al posto che gli conviene nella società, serve a nulla cambiare i depositari del potere, né apportare qualche variante nelle loro manovre; bisogna trovare una combinazione agricola e industriale con la quale il potere, oggi dominatore della società, ne diventi lo schiavo. Avete il segreto di questa combinazione?

Ma che dico? Ecco precisamente ciò cui non acconsentite. Siccome non potete concepire la società senza gerarchia, vi siete fatti gli apostoli dell’autorità; adoratori del potere, non pensate che a fortificare il potere e porre la museruola alla libertà; è vostra massima favorita che bisogna procurare il bene del popolo malgrado il popolo, invece di procedere alla riforma sociale con lo sterminio del potere e della politica; è una ricostituzione del potere e della politica quella che fate. Allora, per una serie di contraddizioni che dimostrano la vostra buona fede, ma della quale i veri amici del potere, gli aristocratici e i monarchici, vostri competitori, conoscono bene l’illusione, ci promettete, da parte del potere, l’economia nelle spese, l’equa ripartizione dell’imposta, la protezione del lavoro, l’insegnamento gratuito, il suffragio universale, e tutte le utopie antipatiche all’autorità e alla proprietà. Anche nelle vostre mani, il potere non ha fatto che pericolare ed è per ciò che non avete mai potuto ritenerlo, perciò il 18 brumaio bastarono quattro uomini per togliervelo, e oggi la borghesia, che ama come voi il potere, e vuole un potere forte, non ve lo renderà.

Così il potere, strumento della potenza collettiva, creato nella società per servire da mediatore tra il lavoro e il privilegio, si trova fatalmente incatenato al capitale e diretto contro il proletariato. Nessuna riforma politica può fare scomparire questa contraddizione, poiché, secondo la confessione degli stessi politici, una simile riforma non riuscirebbe che a dare più energia ed estensione al potere, e che a meno di abbattere la gerarchia e disciogliere la società, il potere non può toccare le prerogative del monopolio. Dunque il problema consiste, per la classe lavoratrice, non nell’acquistare, ma nel vincere in una volta il potere e il monopolio, ciò che vuol dire fare sorgere dalle viscere del popolo, dalle latebre del lavoro, un’autorità più grande, un fatto potente che avviluppi il capitale e lo Stato e lo soggioghi. Ogni proposizione di riforma che non soddisfi a questa condizione non è che un flagello di più, una frusta di sorvegliante, virgam vigilantem, diceva un profeta, che minaccia il proletariato.

Il coronamento di questo sistema è la religione. Non debbo qui occuparmi del valore filosofico delle opinioni religiose, raccontare la loro storia, né ricercarne l’interpretazione. Mi limito a considerare l’origine economica della religione, il legame segreto che l’unisce alla politica, il posto che occupa nella serie delle manifestazioni sociali.

L’uomo, disperando di trovare l’equilibrio delle sue potenze, si slancia per così dire fuori di sé e cerca nell’infinito questa sovrana armonia, la cui realizzazione è per lui il più alto grado della ragione, della forza e della felicità. Non potendo accordarsi con se medesimo, s’inginocchia davanti a Dio, e prega. Prega e la sua preghiera, inno cantato a Dio, è una bestemmia contro la società.

È da Dio, pensa l’uomo, che mi viene l’autorità e il potere; dunque obbediamo a Dio e al principe. Obbedite Deo et prìncipibus. – È da Dio che mi viene la legge e la giustizia. Per me reges regnant et potentes decernunt iustitiam [Proverbi]; rispettiamo ciò che ha detto il legislatore e il magistrato. È Dio che fa prosperare il lavoro, che innalza e rovescia le fortune; sia fatta la sua volontà! Dominus dedit, Dominus abstulit, sit nomen Domini benedictum. È Dio che mi castiga quando la miseria mi divora e che soffro persecuzione per la giustizia; accettiamo con rispetto i flagelli di cui la misericordia si serve per purificarci: Humiliamini igitur sub potenti manu Dei. Questa vita, che Dio mi ha donato, non è che una prova che mi conduce alla salvezza; fuggiamo i piaceri; amiamo, cerchiamo i dolori, facciamo della penitenza la nostra delizia. La tristezza che viene dall’ingiustizia lassù è una grazia; felici quelli che piangono! Beati qui lugent... Haec est enim grafia, si quis sustinet tristitias, patiens injuste.

È un secolo che un missionario, predicando davanti a un uditorio composto di finanzieri e di grandi signori, faceva giustizia di questa odiosa morale. “Che ho mai fatto? – esclamava in lagrime. – Ho contristato i poveri, i migliori amici del mio Dio! Ho predicato i rigori della penitenza davanti ad infelici che mancano del pane! È qui, dove i miei sguardi non cadono che sopra potenti e ricchi, sopra oppressori dell’umanità sofferente, è qui che io dovevo far risplendere la parola di Dio con tutta la forza del suo fulmine!...”.

Riconosciamo tuttavia che la teoria della rassegnazione servì alla società impedendone la rivolta. La religione consacrando col diritto divino l’inviolabilità del potere e del privilegio diede all’umanità la forza di continuare la sua via e di esaurire le sue contraddizioni. Senza questa benda sugli occhi del popolo, la società si sarebbe mille volte disciolta. Era necessario che qualcuno soffrisse perché essa fosse guarita; e la religione, consolatrice degli afflitti, ha convinto il povero a soffrire. È questa sofferenza che ci ha condotti dove siamo: la civiltà, che deve al lavoratore tutte le sue meraviglie, deve ancora al suo volontario sacrificio il suo avvenire e la sua esistenza. Oblatus est quia ipse voluit, et livore eius sanati sumus. [Isaia].

O popolo dei lavoratori! popolo diseredato, vessato, proscritto! popolo che s’imprigiona, che si giudica e che si uccide! popolo maltrattato, diffamato! Non sai che vi è un termine, anche alla pazienza, anche alla devozione? Non cesserai di prestare orecchio a questi oratori del misticismo che ti dicono di pregare e di attendere, predicando la salvezza ora con la religione, ora col potere, e la cui veemente e sonora parola ti seduce? Il tuo destino è un enigma che né la forza fisica né il coraggio dell’anima né gli splendori dell’entusiasmo né l’esaltazione di alcun sentimento possono sciogliere. Quelli che ti dicono il contrario t’ingannano e tutti i loro discorsi non servono che a ritardare l’ora della libertà, vicina a suonare. Che cosa è l’entusiasmo e il sentimento, che cosa è una vana poesia, alle prese con la necessità? Per vincere la necessità non vi è che la necessità stessa, ultima ragione della natura, pura essenza della materia e dello spirito.

Così, la contraddizione del valore, nata dalla necessità del libero arbitrio, doveva essere vinta dalla proporzionalità del valore, altra necessità che è prodotta da unione della libertà con l’intelligenza. Ma, perché questa vittoria del lavoro intelligente e libero producesse tutte le sue conseguenze, era necessario che la società traversasse una lunga peripezia di tormenti.

Era dunque necessario che il lavoro, per aumentare la sua potenza si dividesse; e per effetto di questa divisione, necessità di degradazione e impoverimento del lavoratore.

Era necessario che questa primordiale divisione si ricostituisse in strumenti e combinazioni sapienti; e necessario, per effetto di questa ricostruzione, che il lavorante divenuto subalterno perdesse, col salario legittimo, anche l’esercizio dell’industria che lo nutriva.

Era necessario che la concorrenza venisse allora ad emancipare la libertà vicina a perire; e necessario che questa liberazione arrivasse a un’ampia eliminazione dei lavoratori.

Era necessario che il produttore, nobilitato dalla sua arte, come altra volta il guerriero lo era dalle sue armi, portasse alta la sua bandiera, affinché il valore dell’uomo fosse onorato nel lavoro come nella guerra; e necessario che nascesse tosto dal privilegio il proletariato.

Era necessario che la società prendesse sotto la sua protezione il vinto plebeo, mendicante e senza asilo; e necessario che questa protezione si convertisse in una nuova serie di supplizi.

Incontreremo ancora altre necessità, che spariranno, come le prime, di fronte a necessità maggiori, finché verrà il pareggiamento generale, la necessità suprema, il fatto trionfatore, che deve stabilire per sempre il regno del lavoro.

Ma questa soluzione non può uscire né da un colpo di mano né da una vana transazione. È tanto impossibile associare il lavoro e il capitale, quanto produrre senza lavoro e senza capitale – tanto impossibile creare l’uguaglianza col potere, quanto sopprimere il potere e l’uguaglianza, e fare una società senza popolo e senza politica.

Lo ripeto, bisogna che una forza maggiore sconvolga le forme attuali della società; che questa sia il lavoro del popolo, non la sua bravura né i suoi suffragi, quello che per una combinazione sapiente, legale, immortale, ineluttabile, sottometta al popolo il capitale, e gli dia nelle mani il potere.

VIII. Della responsabilità dell’uomo e di Dio sotto la legge di contraddizione o soluzione del problema della provvidenza

Gli antichi imputavano alla natura umana la presenza del male nel mondo. La teologia cristiana non ha fatto che ricamare alla sua maniera su questo tema; e come questa teologia riassume tutto il periodo religioso che si estende dall’origine della società fino a noi, così si può dire che il dogma della prevaricazione originale, avendo con sé l’acconsentimento del genere umano, acquista per ciò stesso il più alto grado di probabilità.

Così, dopo le attestazioni dell’antica saggezza, ogni popolo difendendo come eccellenti le proprie istituzioni e glorificandole, non si deve fare rimontare la causa del male né alle religioni né ai governi né ai costumi tradizionali accolti dal rispetto delle generazioni, ma a una primitiva perversione, a una specie di malizia della volontà dell’uomo. Quanto a sapere come un essere abbia potuto pervertirsi e corrompersi dall’origine, si cavavano da quest’impiccio con degli apologhi; il pomo d’Eva e il vaso di Pandora sono rimasti celebri fra le loro simboliche soluzioni.

Dunque, non solo l’antichità aveva posto la questione dell’origine del male fra i suoi miti; ma l’aveva risolta con un altro mito, affermando, senza esitare, la criminalità ab ovo della nostra specie.

I filosofi moderni hanno contrapposto al dogma cristiano un dogma non meno oscuro, quello della depravazione della società. L’uomo è nato buono, esclama Rousseau col suo fare decisivo; ma la società, cioè le forme e le istituzioni della società, lo corrompono. È in questi termini che è formulato il paradosso o, per meglio dire, la protesta del filosofo di Ginevra.

Ora, è evidente che quest’idea non è che il capovolgimento dell’antica ipotesi. Gli antichi accusavano l’uomo individuale; Rousseau accusa l’uomo collettivo; in fondo, è sempre la medesima proposizione, una proposizione assurda.

Tuttavia, malgrado l’identità fondamentale del principio, la formula di Rousseau, precisamente perché essa era un’opposizione, era un progresso, perciò essa fu accolta con entusiasmo e divenne il segnale di una reazione piena di contraddizioni e d’inconseguenze. Cosa singolare! Il socialismo moderno rimonta all’anatema scagliato contro la società dall’autore dell’Émile.

Dopo settanta o ottanta anni, il principio del pervertimento sociale fu sfruttato e popolarizzato da alcuni settari, i quali, copiando Rousseau, respingono con tutte le loro forze la filosofia anti-sociale di questo scrittore, senza vedere che per il fatto che aspirano a riformare la società, sono anche essi asociali quanto lui. È uno spettacolo curioso vedere questi pseudo-innovatori, condannare al modo di Jean-Jacques monarchia, democrazia, proprietà, comunità, tuo e mio, monopolio, salariato, politica, imposta, lusso, commercio, denaro, in una parola tutto ciò che forma la società, e senza di che la società non può concepirsi; poi accusare il medesimo Jean-Jacques di misantropia e di paralogismo, perché, dopo avere scorto la nullità di tutte le utopie, nel medesimo tempo che segnalava l’antagonismo della civiltà, aveva rigorosamente conchiuso contro la società, quantunque riconoscesse che fuori della società non vi fosse ombra di umanità.

Consiglio di rileggere l’Émile e il Contrat social a quelli che, sulla fede di calunniatori e di plagiari, s’immaginano che Rousseau abbia abbracciato la sua tesi per un vano desiderio di singolarità. Questo ammirabile dialettico è stato condotto a negare la società dal punto di vista della giustizia, quantunque fosse costretto ad ammetterla come necessaria; allo stesso nostro modo, che crediamo a un progresso indefinito, ma non cessiamo di negare come normale e definitiva, la condizione attuale della società. Solo che, mentre Rousseau, per una combinazione politica e un sistema d’educazione suo proprio, si sforzava di avvicinare l’uomo a ciò che egli chiamava la natura, e che era per lui l’ideale della società; noi, istruiti a una scuola più profonda, diciamo che la pecca della società è di dichiarare senza interruzione le sue antinomie, cosa di cui Rousseau non poteva avere idea. Così, a parte il sistema, ora abbandonato, del Contratto sociale, e per ciò che riguarda soltanto la critica, il socialismo è ancora nella stessa condizione di Rousseau, costretto a riformare senza posa la società, cioè a negare continuamente.

Rousseau, in una parola, non ha fatto che manifestare in modo sommario e definitivo ciò che i socialisti ridicono pateticamente, e a ogni stadio del progresso, che l’ordine sociale è imperfetto, e che qualche cosa vi manca sempre. L’errore di Rousseau non è, né può essere, nella negazione della società; esso consiste, come ci accingiamo a dimostrare, nel non continuare fino alla fine la sua argomentazione, e negare in una volta la società, l’uomo e Dio.

La teoria dell’innocenza dell’uomo, correlativa a quella della depravazione della società, ha finito per prevalere. L’immensa maggioranza del socialismo, [Henri de] Saint-Simon, [Robert] Owen, Fourier e i loro discepoli; i comunisti, i democratici, i progressisti di tutte le specie, hanno ripudiato solennemente il mito cristiano del peccato per sostituirvi il sistema di una aberrazione della società. E siccome la maggior parte di questi settari, malgrado la loro evidente empietà, erano ancora troppo religiosi, troppo devoti per compiere l’opera di Jean-Jacques e fare rimontare fino a Dio la responsabilità del male, trovarono il mezzo di dedurre dall’ipotesi di Dio il dogma della bontà nativa dell’uomo, e si misero a fulminare del loro meglio la società.

Le conseguenze teoriche e pratiche di questa reazione furono che, il male, cioè l’effetto della lotta interna ed esterna, essendo cosa per se stessa anormale e transitoria, anche le istituzioni penitenziarie e repressive sono transitorie; che nell’uomo non vi è vizio dalla nascita, ma che l’ambiente in cui vive l’uomo ha depravato le sue inclinazioni; che la civiltà s’è ingannata sulle proprie tendenze; che la limitazione è immorale, che le nostre passioni sono sante; che il godimento è santo, e deve essere ricercato come la virtù stessa, perché Dio che ce lo fa desiderare è santo. E, venendo le donne in aiuto alla facondia dei filosofi, cadde un diluvio di proteste anti-restrittive sul pubblico attonito, quasi de vulva erumpens, per servirmi di un paragone della Santa Scrittura.

Gli scritti di questa scuola si riconoscono dal loro stile evangelico, dal loro teismo sofistico, soprattutto dalla loro dialettica in rebus. “Si imputano – dice Louis Blanc – alla natura umana quasi tutti i nostri mali, bisognerebbe imputarli al vizio delle istituzioni sociali. Guardatevi attorno: quante abilità fuor di luogo, e per conseguenza corrotte? Quante attività diventate turbolente, per non avere trovato il loro fine legittimo e naturale! Si costringono le nostre passioni ad attraversare un ambiente impuro; esse si alterano; che c’è di curioso in ciò? Si metta un uomo sano in un’atmosfera pestifera, egli respira la morte... La civiltà ha percorso una strada falsa...; e dire che non potrebbe essere altrimenti, è perdere il diritto di parlare di equità, di morale, di progresso; è perdere il diritto di parlare di Dio. La Provvidenza si apre per fare posto al più grossolano fanatismo”. Il nome di Dio si presenta quaranta volte e sempre per dire niente, nell’Organisation du travail di Blanc che di preferenza cito, perché, a mio vedere, rappresenta meglio di ogni altro l’opinione democratica avanzata e credo col confutarlo di fargli onore.

Così, mentre il socialismo, aiutato dall’estrema democrazia, divinizza l’uomo negando il dogma del peccato, e per conseguenza detronizza Dio, inutile alla perfezione della sua creatura, lo stesso socialismo, per debolezza di spirito, ricade nell’affermazione della Provvidenza, e ciò nel momento medesimo in cui nega l’autorità provvidenziale della storia.

E siccome niente c’è tra gli uomini che abbia tanta fortuna quanto la contraddizione, l’idea di una religione di piacere, rinnovata da Epicuro durante un oscuramento della ragione pubblica, presa per l’ispirazione del genio nazionale; è per ciò che i nuovi teisti si distinguono dai cattolici, contro i quali i primi da due anni non hanno gridato che per rivalità di fanatismo. È di moda oggi parlare a ogni momento di Dio, e declamare contro il Papa; invocare la Provvidenza e dileggiare la Chiesa. Grazie a Dio noi non siamo atei, diceva un giorno “La réforme”; e poteva aggiungere, per maggiore inconseguenza, non siamo cristiani. Chiunque sa tenere la penna in mano s’è dato la parola d’ingannare il popolo; e il primo artìcolo della nuova fede è che Dio infinitamente buono ha creato l’uomo buono come se medesimo; ciò che non impedisce all’uomo, sotto lo sguardo di Dio, di rendersi perverso in una detestabile società.

Tuttavia è certo, malgrado queste apparenze, e diciamo pure queste velleità di religione, che la contesa impugnata tra il socialismo e la tradizione cristiana, tra l’uomo e la società, deve finire con la negazione della divinità. Secondo noi la ragione sociale non si differenzia dalla ragione assoluta, che non è altro che Dio stesso, e negare la società nelle sue fasi anteriori, è negare la Provvidenza, è negare Dio.

Così siamo posti tra due negazioni, due affermazioni contraddittorie: l’una che con la voce di tutta intera l’antichità, ponendo fuori causa la società e Dio che essa rappresenta, attribuisce all’uomo solo il principio del male; l’altra che, protestando nel nome dell’uomo libero, intelligente e progressivo, rigetta sull’infermità sociale e, per necessaria conseguenza, sul genio creatore e ispiratore della società, tutte le perturbazioni dell’universo.

Ora, siccome le anomalie dell’ordine sociale e le oppressioni delle libertà individuali provengono soprattutto dal gioco delle contraddizioni economiche, noi dobbiamo ricercare, valendoci dei dati che abbiamo messi in luce: 1) Se la fatalità, il cui cerchio ci circonda, sia talmente imperiosa, per la nostra libertà, che le infrazioni alla legge, commesse sotto l’impero delle antinomie, cessino d’esserci imputabili. E, in caso di negativa, da dove provenga questa colpabilità particolare dell’uomo. 2) Se l’essere ipotetico, tanto buono, tanto potente, tanto saggio, al quale la fede attribuisce l’alta direzione delle agitazioni umane, non abbia mancato egli stesso verso la società nel momento del pericolo. E, in caso di affermativa, spiegare questa insufficienza della divinità.

In due parole, noi ci accingiamo ad esaminare se l’uomo è Dio, se Dio è Dio, o se, per arrivare alla pienezza delle intelligenze e della libertà, dobbiamo cercare un soggetto superiore.

1. – Colpevolezza dell’uomo. Esposizione del mito del peccato

Finché l’uomo vive sotto la legge d’egoismo, accusa se stesso; quando si eleva al concepimento di una legge sociale, accusa la società. Nell’uno e nell’altro caso, è sempre l’umanità che accusa l’umanità; e fino a ora ciò che risulta di più evidente da questa doppia accusa, è la facoltà strana, che non abbiamo ancora segnalata, e che la religione attribuisce a Dio come all’uomo, del pentimento.

Di che cosa si pente l’umanità? Per che cosa ci vuol punire Iddio, che si pente così di noi? Poenituit Deum quod hominem fecisset in terra; et tactus dolore cordis intrisecus, delebo, inquit, hominem...

Se dimostro che i delitti, dei quali si accusa l’umanità, non sono la conseguenza dei suoi disturbi economici, quantunque questi risultino dalla costituzione delle sue idee; che l’uomo compie il male gratuitamente e senza violenza, nello stesso modo in cui si onora degli atti d’eroismo che la giustizia non esige; ne seguirà che l’uomo, al tribunale della coscienza, può benissimo fare valere alcune circostanze attenuanti; ma non può mai essere liberato interamente dal delitto; che la lotta è nel suo cuore come nella sua ragione, che ora è degno di lode e ora di biasimo, ciò che sempre è una prova della sua condizione non armonica; infine, che la natura dell’animo è un perpetuo compromesso tra opposte attrazioni, la morale un sistema ad altalena, in una parola, e questa parola dice tutto, un eclettismo.

La prova sarà presto fornita.

Esiste una legge, anteriore alla nostra libertà, promulgata dal principio del mondo, completata da Gesù Cristo, predicata, affermata dagli apostoli, dai martiri, dai confessori e dalle vergini, impressa nell’interno dell’uomo, superiore a tutta la metafisica: è l’Amore. Ama il prossimo come te stesso, ci disse Gesù Cristo dopo Mosè. Tutto sta qui. Ama il tuo prossimo come te stesso, e la società sarà perfetta; ama il tuo prossimo come te stesso, e tutte le differenze tra il principe e il pastore, tra il ricco e il povero, tra il sapiente e l’ignorante, svaniranno; svaniranno tutte le contrarietà degli interessi umani. Ama il tuo prossimo come te stesso e la fortuna col lavoro faranno passare i tuoi giorni senza alcun affanno per l’avvenire. Per compiere questa legge e rendersi felice, l’uomo non ha bisogno che di seguire la propensione del suo cuore e di ascoltare la voce delle sue simpatie; egli resiste! Anzi fa di più: non contento di preferirsi al prossimo, lavora costantemente a distruggerlo; dopo aver tradito l’amore con l’egoismo, lo abbatte con l’ingiustizia.

L’uomo, dico, infedele alla legge della carità, s’è fatto senza alcuna necessità, con le contraddizioni della società altrettanti mezzi per nuocere, per il suo egoismo, la civiltà è divenuta una guerra di sorprese e di tradimenti; mente, ruba, assassina, senza provocazione e senza scusa, eccetto nel caso di forza maggiore. In una parola, compie il male con tutti i caratteri di una natura deliberatamente trista, e altrettanto scellerata in quanto sa, quando vuole, compiere il bene anche gratuitamente e sacrificarsi; ciò che di lui fece dire, con tanta ragione e profondità: Homo homini lupus, vel deus.

Per non estendermi troppo, e per non concludere in questioni sulle quali dovrò ritornare, mi restringo ai fatti economici precedentemente analizzati.

Che la divisione del lavoro sia di sua natura, fino al giorno di una organizzazione sintetica, una causa irresistibile di disuguaglianza fisica, morale e intellettuale fra gli uomini, né la società né la coscienza ne hanno colpa alcuna. È questo un fatto di necessità, di cui il ricco è innocente quanto l’operaio parcellare, sacrificato dalla sua condizione a tutte le indigenze.

Ma da dove proviene che questa disuguaglianza fatale s’è cambiata per gli uni in titolo di nobiltà, per gli altri in titolo di abiezione? Da dove proviene, se l’uomo è buono, il non aver saputo con la sua bontà vincere quest’ostacolo tutto metafisico, e che invece di stringere un legame fraterno fra gli uomini, con crudele necessità lo rompe?

Qui l’uomo non può scusarsi con la sua imperizia economica, con la sua imprevidenza legislativa; gli basterebbe avere cuore. Perché, mentre i martiri della divisione del lavoro avrebbero dovuto essere aiutati, onorati dai ricchi, sono stati respinti come immondi? Come mai non si è visto ancora i padroni alternarsi qualche volta con gli schiavi; i prìncipi, i magistrati e i preti fare dei giri di ricambio con gli operai, i nobili rimpiazzare i contadini della gleba? Da dove venne ai potenti quest’orgoglio brutale? E notate che una tale condotta per loro parte sarebbe non solo caritatevole e fraterna; ma non sarebbe altro che la più rigorosa giustizia. In virtù del principio della forza collettiva, i lavoratori sono uguali e associati con i loro capi; di modo che nel sistema dello stesso monopolio, la comunità di azione riconducendo l’equilibrio che l’individualismo parcellare ha scosso, la giustizia e la carità si confondono. Dunque, come spiegare, con l’ipotesi della bontà naturale dell’uomo, il mostruoso tentativo di cambiare l’autorità degli uni in nobiltà e l’obbedienza degli altri in ignobilità? Il lavoro, tra il servo e l’uomo libero, come il colore tra il nero e il bianco, ha sempre tracciato una linea insuperabile; e noi stessi che tanto ci gloriamo della nostra filantropia, in fondo all’animo pensiamo come i nostri predecessori. La simpatia che proviamo per il proletario è come quella che ci ispirano gli animali; delicatezza d’organi, spavento della miseria, alterigia di allontanare da noi tutto ciò che soffre, ecco per quali rigiri d’egoismo si produce la nostra carità. Perché, infine, e mi basta questo solo per convincere, non è forse vero che la beneficenza spontanea, così pura nella sua nozione primitiva (eleemosyna, simpatia, amore), l’elemosina infine, è divenuta per gli infelici un segno di perdita di diritto, una pubblica ignominia? E i socialisti, correggendo il cristianesimo, osano parlarci di amore! Il pensiero cristiano, la coscienza dell’umanità, aveva ben pensato, quando provocava tante istituzioni per il sollievo della sventura. Per afferrare nella sua profondità il precetto evangelico e rendere la carità legale e onorevole tanto per coloro che ne fossero stati l’oggetto quanto per coloro che l’avessero esercitata, che cosa era necessario? meno orgoglio, meno cupidigia, meno egoismo. Si potrebbe dirmi, se l’uomo è buono, in qual modo il diritto all’elemosina è divenuto il primo anello della lunga catena delle contravvenzioni, dei delitti e dei crimini? Si oserà ancora imputare i misfatti dell’uomo all’antagonismo dell’economia sociale, allorché quest’antagonismo gli offriva sì bella occasione di manifestare la carità del suo cuore, non dico per l’ossequio, ma per il semplice adempimento della giustizia?

So, e quest’obiezione è la sola che possa essermi fatta, che la carità offre vergogna e disonore, poiché l’individuo che la domanda è troppo spesso sospetto di cattiva condotta, e che raramente lo raccomanda la dignità dei costumi e del lavoro. E la statistica prova con le sue cifre che vi sono dieci volte più poveri per codardia e incuria, che per caso o cattiva fortuna.

Non nego quest’osservazione, della quale molti fatti dimostrano la verità, e che da molto tempo ha ricevuto la sanzione del popolo. Il popolo è il primo ad accusare i poveri d’infingardaggine; e niente vi è di più ordinario che trovare nelle classi inferiori uomini che si vantano, come di un titolo di nobiltà, di non essere mai stati all’ospedale, e nelle loro maggiori sventure di non aver ricevuto soccorsi dalla carità pubblica. Così, mentre l’opulenza confessa le sue rapine, la miseria confessa la sua indegnità. L’uomo è tiranno e schiavo della volontà, prima di esserlo della fortuna; il cuore del proletario è come quello del ricco: una fogna della bollente sensualità, un focolare della crapula e dell’impostura.

A quest’inattesa rivelazione, domando come, se l’uomo è buono e caritatevole, accada che il ricco calunni la carità, mentre il povero la deturpa? – Gli uni dicono: è perversione del giudizio del ricco; gli altri: è degradazione delle facoltà del povero. – Ma da dove proviene che il giudizio si perverta, da un lato, e dall’altro che le facoltà si degradino? Da dove proviene che una vera e cordiale fratellanza non ha arrestato da una parte e dall’altra gli effetti dell’orgoglio e del lavoro? Mi si risponda con ragioni e non con frasi.

Il lavoro, inventando procedimenti e macchine che moltiplicano la sua potenza all’infinito, stimolando il genio industriale con la rivalità, e assicurando le sue conquiste con i profitti del capitale e dei privilegi dello sfruttamento, ha reso più profonda e più inevitabile la costituzione gerarchica della società; ancora una volta, non è necessario imputare ciò ad alcuno. Ma, ne chiamo di nuovo testimonio la legge del Vangelo, dipendeva da noi, da questa subordinazione dell’uomo all’uomo, o, per meglio dire, del lavoratore al lavoratore, il trarne conseguenze ben diverse.

Le tradizioni della vita feudale e quelle dei patriarchi avevano dato l’esempio agli operai. La divisione del lavoro e gli accidenti della produzione non erano che richiami alla vita di famiglia, indizi del sistema preparatorio, seguendo il quale, doveva tradursi e svilupparsi la fratellanza. Giurande, maestranze, corporazioni e diritti di primogenitura furono concepiti con quest’idea; a molti stessi comunisti non ripugna questa forma di associazione; è forse sorprendente che l’ideale ne sia così vivo tra coloro che, vinti ma non convertiti, si presentano ancora oggi come suoi rappresentanti? Chi dunque impediva alla carità, all’unione, all’ossequio di mantenersi nella gerarchia allorché la gerarchia non fosse stata altro che una condizione del lavoro? Bastava che gli uomini, padroni di macchine, valorosi combattenti ad armi uguali, non facessero mistero o riserva dei loro segreti; che i baroni non si dedicassero alla campagna che per rendere migliore il mercato dei prodotti, non per loro monopolio; e che i vassalli, certi che la guerra non avrebbe per risultato che aumentare le loro ricchezze, si mostrassero sempre intraprendenti, laboriosi e fedeli. Il capo-fabbrica allora non era più che un capitano il quale faceva manovrare i suoi uomini armati nel loro interesse come nel suo, e li manteneva, non con i suoi denari, ma con i loro propri servizi.

In luogo di queste relazioni fraterne, noi abbiamo visto l’orgoglio, la gelosia e lo spergiuro; il padrone che trae il maggior vantaggio possibile, come il vampiro della favola, il salariato avvilito, e il salariato cospirante contro il padrone; l’ozioso che divora la sostanza del lavoratore e il servo, accoccolato nella bruttura, non ha energia che per l’odio.

“Chiamati a fornire la loro opera nella produzione, questi strumenti del lavoro, quelli lavoro; i capitalisti e i lavoratori sono oggigiorno in lotta, e perché? Perché l’arbitrio presiede in tutti i loro rapporti; perché il capitalista specula sul bisogno che il lavoratore prova di procurarsi strumenti, mentre il lavoratore cerca di trarre partito dal bisogno che prova il capitalista di far fruttare il capitale”. (L. Blanc, Organisation du travail).

E perché quest’arbitrio nei rapporti del capitalista e del lavoratore? Perché questa ostilità d’interessi? Perché questa rabbia reciproca? Invece di spiegare sempre il fatto col fatto stesso, andate al fondo, e troverete dovunque, per prima causa, un desiderio intenso di godimento che né legge né giustizia né carità trattengono; vedrete l’egoismo aggredire senza posa l’avvenire, e sacrificare ai suoi capricci mostruosi lavoro, capitale, la vita e la sicurezza di tutti.

I teologi chiamarono concupiscenza o appetito concupiscibile la brama appassionata delle cose sensuali, effetto, secondo essi, del peccato d’origine. Mi inquieto poco per il momento, di sapere che cosa sia il peccato originale; osservo solo che l’appetito concupiscibile non è altro che il bisogno di lusso, segnalato dall’Accademia delle Scienze morali, come il motore dominante della nostra epoca. Ora, la teoria della proporzionalità dei valori dimostra che il lusso ha per misura naturale la produzione; che ogni consumo anticipato si ricopre con una privazione ulteriore equivalente, e che l’esagerazione del lusso in una società ha per correlativo d’obbligo un aumento di miseria. Ora, se l’uomo sacrificasse il suo benessere personale ai godimenti lussuriosi e anticipati, forse non l’accuserei che d’imprudenza; ma quando prende il benessere del prossimo, benessere che gli deve essere inviolabile, per carità e per giustizia, allora è perverso, perverso senza scusa.

“Allorché Dio – secondo [Jacques] Bossuet – formò l’interno dell’uomo, vi mise prima di tutto la bontà”. Così l’amore è la nostra prima legge; i precetti della ragione pura, come le istigazioni della sensibilità, non vengono che in secondo o terzo ordine. Tale è la gerarchia delle nostre facoltà: un principio di amore, che forma il fondo della nostra coscienza, servito dall’intelligenza e dagli organi. Dunque, delle due cose una: o l’uomo che viola la carità per obbedire alla sua cupidigia è colpevole; oppure se questa psicologia è falsa e nell’uomo il bisogno del lusso deve camminare di pari passo con la carità e con la ragione, l’uomo è un animale disordinato, internamente perverso, il più esecrabile degli esseri.

Così le contraddizioni organiche della società non possono coprire la responsabilità dell’uomo; viste in se stesse, queste contraddizioni non sono che la teoria del regime gerarchico, forma prima, per conseguenza forma integra della società. Per l’antinomia del loro sviluppo, il lavoro e il capitale erano condotti senza posa nello stesso tempo all’eguaglianza e alla subordinazione, alla solidarietà come alla dipendenza; l’uno era l’agente, l’altro il provocatore e il guardiano della ricchezza comune. Questa indicazione era stata confusamente scoperta dai teorici del sistema feudale; il cristianesimo s’era trovato a proposito per cementare il patto; ed è ancora il sentimento di questa organizzazione non conosciuta e falsata, ma per se stessa innocente e legittima, che cagiona rammarichi e sostiene la speranza di un partito. Siccome questo sistema era nelle previsioni del destino, non si può dire che fosse in sé cattivo, nello stesso modo che non si può dire cattivo lo stato d’embrione, perché nello sviluppo fisiologico precede l’età adulta.

Insisto dunque sulla mia accusa.

Sotto il regime abolito da Lutero e dalla rivoluzione francese, l’uomo, per quanto lo comportava il progresso della sua industria, poteva essere felice; non l’ha voluto; al contrario, se ne guardò.

Il lavoro fu stimato un disonore; il prete e il nobile si sono fatti i divoratori del povero; per contentare le loro passioni animali, hanno spento la carità nel cuore; hanno oppresso, rovinato, assassinato il lavoratore. Ed è ancora così che vediamo il capitale dare la caccia al proletariato. Il capitalista invece di temperare con l’associazione e con la reciprocità la tendenza sovversiva dei princìpi economici, l’esagera senza alcuna necessità e con malevola intenzione; abusa dei sentimenti e della coscienza dell’operaio; ne fa il servo dei suoi intrighi, il provveditore dei suoi bagordi, il complice delle sue rapine; lo rende in tutto simile a se stesso, ed è allora che può sfidare la giustizia delle rivoluzioni con l’attenderle. Cosa mostruosa! l’uomo che vive nella miseria, la cui anima per conseguenza sembra più vicina alla carità e all’onore, quest’uomo divide la corruzione del suo padrone; come lui, dà tutto all’orgoglio e alla lussuria, e se alcune volte si duole della disuguaglianza che soffre, è più per rivalità di concupiscenza che per zelo di giustizia. Il più grande ostacolo che l’eguaglianza deve vincere non è l’orgoglio aristocratico del ricco, ma l’egoismo indisciplinato del povero. E voi fate conto sopra la sua bontà nativa per riformare in una volta la spontaneità e la premeditazione della sua malizia!

“Siccome l’educazione falsa e anti-sociale data all’attuale generazione – dice Louis Blanc – non permette di cercare altrove che nell’aumento della retribuzione un motivo d’emulazione e d’incoraggiamento, così la differenza dei salari sarà graduata sulla gerarchia delle funzioni, dovendo un’educazione affatto nuova cambiare su questo punto le idee e i costumi”.

Lasciamo pure per quel che vale la gerarchia delle funzioni e per ciò che vale l’ineguaglianza dei salari; qui non consideriamo che il motivo dato dall’autore. Non è forse strano vedere Blanc affermare la bontà della natura, e nello stesso tempo rivolgersi alla più ignobile delle inclinazioni, l’avarizia? In verità, bisogna che il male vi sembri ben grave, perché giudichiate necessario cominciare la restaurazione della carità con una infrazione alla carità. Gesù Cristo diceva male dell’orgoglio e della cupidigia; però, verosimilmente i libertini che catechizzava erano santi personaggi accanto alle pecore appestate del socialismo. Ma infine diteci in che modo le nostre idee sono state falsate, in che modo la nostra educazione è anti-sociale, poiché è dimostrato che la società ha seguito la via tracciata dal destino, e che non le si possono imputare i crimini dell’uomo?

In effetti la logica del socialismo è meravigliosa.

L’uomo è buono, dicono essi; ma bisogna disinteressarlo dal male perché se ne astenga. L’uomo è buono; ma bisogna interessarlo al bene, perché lo possa praticare. Perché se l’interesse delle sue passioni lo porta al male, farà il male; e se questo interesse lo lascia indifferente al bene, non farà il bene. E la società non avrà diritto di rimproverargli di avere dato ascolto alle sue passioni, perché toccava alla società accompagnarlo nelle sue passioni. Quanto più ricca e più preziosa natura quella di Nerone, che uccise sua madre perché questa donna l’annoiava, e che fece incendiare Roma per avere una immagine del sacco di Troia! Che anima di artista ebbe Eliogabalo che organizzò la prostituzione! che carattere potente Tiberio! che abominevole società fu mai quella che pervertì queste anime divine, e che tuttavia produsse Tacito e Marco Aurelio!...

Ecco dunque ciò che si chiama innocenza dell’uomo, santità delle passioni! Una vecchia Saffo, abbandonata dai suoi amanti, rientra nella vita coniugale; disinteressata verso l’amore, ritorna all’imeneo, ed è santa! Che peccato che questa parola santa non abbia in francese il doppio senso che ha nella lingua ebraica! Tutto il mondo sarebbe d’accordo intorno alla santità di Saffo.

Lessi in un resoconto delle strade ferrate del Belgio, che, l’amministrazione belga avendo approvato un premio di 35 centesimi per ettolitro di coke che si sarebbe economizzato su di una consumazione in media di 95 chilogrammi per lega percorsa, questo premio aveva recato tali frutti che la consumazione era diminuita da 95 chilogrammi a 48. Ciò, ripeto, forma la filosofia socialista; rendere avvezzo l’operaio alla giustizia, incoraggiarlo al lavoro, elevarlo fino alla sublimità della devozione, con l’aumento del salario, con la compartecipazione, con le distinzioni e le ricompense. Certo, non intendo biasimare questo metodo vecchio come il mondo; in qualunque modo addomesticate e rendete utili i serpenti e le tigri io applaudirei. Ma non dite che le vostre bestie sono colombi; perché, per tutta risposta, vi farei vedere le unghie e i denti. Prima che i meccanici del Belgio fossero interessati nell’economia del combustibile, ne bruciavano la metà di più. Dunque vi era per parte loro incuria, negligenza, prodigalità, spreco, può darsi anche ruberia, quantunque obbligati verso l’amministrazione da un contratto che li costringeva a mettere in pratica tutte le virtù contrarie.

È bene, voi dite, interessare l’operaio. Dico di più: ciò è giusto. Ma sostengo che questo interesse, più potente sull’uomo dell’obbligazione accettata, in una parola, più potente del dovere, accusa l’uomo. Il socialismo torna indietro nella morale e fa peggio del cristianesimo. Non comprende più la carità, che, a volergli credere, avrebbe inventata.

Guardate tuttavia, osservano i socialisti, che buoni frutti ha già portato il perfezionamento del nostro ordine sociale. Certamente, la presente generazione vale più di quelle che l’hanno preceduta; abbiamo forse torto concludendo che una perfetta società produrrà perfetti cittadini? – Dite piuttosto, replicano i conservatori partigiani del dogma del peccato, che, la religione avendo purificati i cuori, non è da meravigliarsi se le istituzioni ne abbiano risentito. Ora lasciate che la religione compia la sua opera, e non v’inquietate della società.

Così i teorici delle due opinioni parlano e si vanno aggirando in divagazioni senza fine. Gli uni e gli altri non comprendono che l’umanità, per servirmi di una espressione della Bibbia, è una e costante nelle sue generazioni, cioè che tutto in essa, a ogni epoca del suo sviluppo, nell’individuo come nella massa, procede col medesimo principio, che è, non l’essere, ma il divenire. Da una parte, non vedono che il progresso nella morale è una conquista incessante dello spirito sopra l’animalità, nello stesso modo che il progresso nella ricchezza è il frutto della guerra che fa il lavoro alla parsimonia della natura; per conseguenza l’idea di una bontà nativa perduta a causa della società è tanto assurda quanto l’idea di una ricchezza nativa perduta a causa del lavoro, e deve farsi una transazione con le passioni come col riposo. D’altra parte, non vogliono comprendere che se vi è progresso nell’umanità, sia esso per il fatto della religione, sia per qualunque altra causa, l’ipotesi di una corruzione organica è un controsenso, una contraddizione.

Ma io anticipo le conclusioni che dovrò fare; occupiamoci solo di constatare che il perfezionamento morale dell’umanità, nello stesso modo che il benessere materiale, si realizza per merito di una serie di oscillazioni tra il vizio e la virtù, il merito e il demerito.

Sì, vi è progresso dell’umanità nella giustizia, ma questo progresso della nostra libertà, dovuto del tutto al progresso della nostra intelligenza, non prova certamente la bontà della nostra natura; e ben lungi dall’autorizzarci a glorificare le nostre passioni, ne distrugge in forma autentica la preponderanza. La nostra malignità cambia, col tempo, di moda e di stile; i feudatari del Medioevo derubavano il viaggiatore sulla via principale, poi gli offrivano ospitalità nel loro castello; la feudalità mercantile, meno brutale, trae il più possibile dal proletario, e gli edifica degli ospedali; chi oserà dire quale dei due abbia meritata la palma della virtù?

Di tutte le contraddizioni economiche, il valore è quello che, dominando le altre e riassumendole, in qualche modo tiene lo scettro della società, e quasi del mondo morale. Anche il valore da lungo tempo, oscillando tra i suoi due estremi, valore d’uso, valore di scambio, non è arrivato alla sua costituzione; il mio e il tuo sono fissati ad arbitrio; le condizioni della fortuna sono effetto del caso; la proprietà è fondata su di un titolo precario, tutto è provvisorio nell’economia sociale. Gli esseri socievoli, intelligenti e liberi quale conseguenza dovevano dedurre da quest’incertezza del valore? quella di fare regolamenti amichevoli, che proteggessero il lavoro, garantisserolo scambio e il buon mercato. Che felice occasione per tutti, di supplire con la lealtà, il disinteresse, l’affetto del cuore, all’ignoranza delle leggi obiettive del giusto e dell’ingiusto! Invece, il commercio diventò dovunque, per sforzo spontaneo e consentimento unanime, un’operazione aleatoria, un contratto all’ingrosso, una lotteria, spesso una speculazione di sorpresa e di dolo.

Chi è che obbliga colui che tiene le sussistenze, colui che ha cura del magazzino della società, a simulare la carestia, a dare l’allarme e provocare l’aumento?

L’imprevidenza pubblica abbandona il consumatore alla sua misericordia; qualche cambiamento di temperatura gli fornisce un pretesto; la prospettiva certa di un guadagno finisce per corromperlo, e la paura, abilmente diffusa, getta la popolazione nelle sue mani. Senza dubbio il motore che fa agire il truffatore, il ladro, l’assassino, queste nature falsate, si dice, dall’ordine sociale, è lo stesso che incoraggia l’incettatore fuor di bisogno. Come dunque questa passione del guadagno, lasciata a se stessa, torna a pregiudizio della società? Come mai una legge preventiva, repressiva e coercitiva, ha dovuto porre senza interruzione un limite alla libertà? Perché sta qui il fatto accusatore che non si può negare; dappertutto la legge è uscita dnll’abuso; dappertutto il legislatore fu costretto a mettere l’uomo nell’impossibilità di nuocere, ciò che è sinonimo di mettere la museruola a un leone, e legare un verro. E il socialismo, sempre imitando il passato, non pretende altra cosa; non è forse vero, in effetti, che l’organizzazione che domanda non è che una più forte garanzia della giustizia, una più completa limitazione della libertà?

Il segno caratteristico del commerciante è di fare di ogni cosa o un oggetto o uno strumento di traffico. Fuori di società con i suoi simili, non solidale verso tutti, egli è favorevole e contrario a tutti i fatti, tutte le opinioni, tutti i partiti. Una scoperta, una scienza, è ai suoi occhi una macchina da guerra dalla quale si guarda, e che vorrebbe annientare, a meno che possa servirsene per annichilire i concorrenti. Un artista, un dotto, è un artigliere che sa manovrare il pezzo, e che egli si sforza di corrompere se non lo può ottenere. Il commerciante è convinto che la logica è l’arte di provare a volontà il vero e il falso; è lui che ha inventato la venalità politica, il traffico delle coscienze, la prostituzione degli ingegni, la corruzione della stampa. Sa trovare argomenti e avvocati per tutte le menzogne, per tutte le iniquità. Egli solo non s’è mai fatto illusione intorno al valore dei partiti politici; li giudica tutti ugualmente usufruibili, cioè ugualmente assurdi.

Senza rispetto per le opinioni già confessate, che abbandona e riprende a vicenda; perseguitando acerbamente presso gli altri le infedeltà di cui si rende colpevole, mente nei suoi reclami, mente nei suoi indizi, nei suoi inventari; esagera, attenua, domanda esageratamente; si stima come il centro del mondo, e tutto, eccetto lui, non ha che una esistenza, un valore, una verità relativa. Sottile e scaltro nelle transazioni, stipula, si riserva, temendo sempre di dir troppo e di non dire abbastanza; abusando delle parole cogli ingenui, generalizzando per non compromettersi, specificando per accordare nulla, ritorna tre volte su se stesso, e pensa sette volte sotto il mento prima di dire l’ultima parola. Ha concluso finalmente? Si rilegge, interpreta, si commenta; si dà alla tortura per trovare in ogni particolare del suo atto un senso profondo, e nelle frasi le più chiare l’opposto di ciò che dicono.

Che arte infinita, quanta ipocrisia nei suoi rapporti con gli operai! Dal semplice agricoltore al grosso appaltatore come s’intendono nel trarre partito dalle braccia! Come sanno fare gareggiare il lavoro per ottenerlo a prezzo vile! A prima vista è una speranza per la quale il padrone richiede un giro, poi è una promessa che sconta con una fatica; poi un tentativo, una prova, un sacrificio, perché non ha bisogno di alcuno, che il disgraziato dovrà riconoscere contentandosi di un salario più piccolo: sono esigenze e aggravi senza fine, compensati dai regolamenti di conto i più espropriatori e i più falsi. E bisogna che l’operaio taccia e s’inchini, che stringa i pugni sotto la giubba; perché il padrone gestisce il negozio, e troppo felice colui che può ottenere il favore delle sue frodi. E questa pressione odiosa, così spontanea, così franca, così libera da ogni spinta superiore, perché la società non ha ancora trovato il mezzo d’impedirla, di reprimerla, di punirla, la si attribuisce alla violenza sociale! Che sragionevolezza!

Il commissionario è il tipo, l’espressione più alta del monopolio, il riassunto del commercio, cioè della civilizzazione. Ogni funzione dipende dalla sua, vi partecipa o vi si assimila; poiché, dal punto di vista della distribuzione delle ricchezze, i rapporti degli uomini tra di loro si riducono tutti a degli scambi, cioè a dei trasporti di valori, si può dire che la civilizzazione s’è personificata nel commissionario.

Ora, interrogate i commissionari sulla moralità del loro mestiere; saranno in buona fede; tutti vi diranno che la commissione è un ladrocinio. Si dolgono delle frodi e delle falsificazioni che disonorano l’industria, il commercio, soprattutto intendo la commissione, che non è che una gigantesca e permanente cospirazione di coloro che esercitano il monopolio, a vicenda concorrenti o coalizzati; non è più una funzione esercitata in vista di un profitto legittimo, è una vasta organizzazione di aggiotaggio su tutti gli oggetti della consumazione, come pure sulla circolazione delle persone e dei prodotti. Già la frode in questa professione è tollerata; quante lettere di trasporto aggravate, cassate, falsificate! Quanti bolli fabbricati! Quante avarie dissimulate o fraudolentemente transatte! Quante bugie sulle qualità! Quante parole date, ritratte! Quanti documenti soppressi! Quanti intrighi e coalizioni! E infine, quanti tradimenti!

Il commissionario, cioè il commerciante, cioè l’uomo, è giocatore, calunniatore, ciarlatano, venale, ladro, falsario...

È l’effetto della nostra società antagonista, osservano i neo-mistici. Altrettanto ne dicono gli agenti di commercio, i primi in ogni circostanza ad accusare la corruzione del secolo. Ciò che fanno, se si vuol credere loro, è per semplice rappresaglia e del tutto contro la loro volontà; seguono la necessità, sono nel caso di legittima difesa.

È forse necessario uno sforzo di mente per vedere che queste scambievoli recriminazioni raggiungono la stessa natura dell’uomo, che il preteso pervertimento della società non è altro che quello dell’uomo, e che l’opposizione dei princìpi e degli interessi non è che un accidente per così dire esterno, che mette in rilievo, ma senza necessaria influenza, l’enormità del nostro egoismo e le rare virtù delle quali la nostra specie si onora?

Comprendo la concorrenza disarmonica e i suoi irresistibili effetti d’eliminazione; là vi è fatalità. La concorrenza, nella sua più larga espressione, è l’ingranaggio del quale gli operai si servono reciprocamente per eccitarsi e sostenersi. Ma finché non sia realizzata l’organizzazione che deve innalzare la concorrenza alla sua vera natura, essa rimane una guerra civile nella quale i produttori, invece di aiutarsi tra loro col lavoro, si sminuzzano e si schiacciano col lavoro gli uni cogli altri. Il pericolo qui era imminente; l’uomo, per scongiurarlo, aveva la legge suprema dell’amore; e niente di più facile, spingendo, con l’interesse della produzione, la concorrenza fino ai suoi limiti estremi, che in seguito riparare i suoi effetti micidiali con un’equa ripartizione.

Invece, codesta concorrenza anarchica diventò l’anima e lo spirito dell’operaio. L’economia politica aveva dato all’uomo quest’arma di morte ed egli ha colpito: s’è servito della concorrenza come il leone si serve dei suoi artigli e delle sue mascelle per uccidere e divorare. Come dunque, lo ripeto, un accidente affatto esterno ha cambiata la natura dell’uomo, che si suppone buona, dolce e socievole?

Il mercante di vino chiama in suo aiuto il ghiaccio, l’acqua e i veleni; aumenta con combinazioni di sua testa gli effetti distruttori della concorrenza. Da dove viene questa rabbia? Da ciò: secondo voi, che il suo concorrente gliene dà l’esempio! E chi eccita questo concorrente? Un altro concorrente. Così noi faremo il giro della società, e poi troveremo che è la massa, e nella massa i singoli individui in particolare, che, per un accordo tacito delle loro passioni: orgoglio, pigrizia, cupidigia, diffidenza, gelosia, hanno organizzato questa guerra detestabile.

L’imprenditore, dopo avere raggruppato intorno a sé gli strumenti del lavoro, la materia di fabbricazione e gli operai, deve trovare nel prodotto, con le spese che avrà fatte, prima l’interesse dei suoi capitali, poi un beneficio. È in conseguenza di questo principio che il prestito a interesse ha finito per stabilirsi, e che il guadagno, considerato in se stesso, fu sempre creduto legittimo. In questo sistema, la politica delle nazioni non avendo a prima vista scorto l’intima contraddizione del prestito a interesse, il salariato invece di sorgere da se stesso, doveva dipendere dal padrone, come l’uomo di armi apparteneva al conte, come la tribù al patriarca. Questa costituzione era necessaria, e fino al momento in cui si sarebbe stabilita la completa eguaglianza, poteva bastare al benessere generale. Ma, allorché il padrone, nel suo egoismo disordinato, disse al servo: non avrai alcuna parte con me, ed ha rubato con un sol colpo lavoro e salario, dov’è la fatalità, dove la scusa? Sarà ancora necessario, per giustificare l’appetito della concupiscenza, servirci dell’appetito irascibile? State attenti, tornando indietro, per giustificare l’essere umano nella serie delle sue cupidigie, invece di salvare la moralità, voi la condannate. – Quanto a me, preferisco l’uomo colpevole all’uomo bestia feroce.

La natura ha fatto l’uomo socievole; lo sviluppo spontaneo dei suoi istinti ora fa di lui un angelo di carità, ora lo innalza fino al sentimento della fratellanza e all’idea della devozione. Si vide forse mai un capitalista, stanco del guadagno, aspirare al bene generale, e della emancipazione del proletariato fare l’ultima sua speculazione? Vi è forse gente, favorita dalla fortuna, cui non manca che la corona della beneficenza; eppure qual droghiere, divenuto ricco, vende a prezzo di costo? Qual panettiere, lasciando gli affari, dà la clientela e la bottega ai servitori? Qual farmacista, in procinto di ritirarsi dal commercio, dà i suoi rimedi per quel che valgono? Poiché la carità ha i suoi martiri, perché non ha i suoi amatori? Se si formasse a un tratto un congresso di capitalisti, di uomini di reddito, d’imprenditori per la riforma, ma buoni ancora al servizio, per esercitare gratuitamente un certo numero d’industrie, la società in poco tempo si riformerebbe interamente. Ma lavorare per niente?... è la proprietà di San Vincenzo da Paola, di [François de Salignac] Fénelon, di tutti quelli la cui anima sempre fu disinteressata e il cuore povero. L’uomo arricchito dal guadagno sarà consigliere municipale, membro del comitato di beneficenza, ufficiale delle sale di asilo; adempirà ogni funzione onorifica, eccetto precisamente quella che sarebbe efficace, ma che ripugna alle sue abitudini. Lavorare senza speranza di guadagno! ciò non è possibile, perché sarebbe distruggere se stesso. Lo vorrebbe forse; non ne ha il coraggio. Video meliora proboque, deteriora sequor. [Ovidio] Il proprietario in ritiro è veramente il gufo della favola che raccoglie i fagioli per i suoi sorci mutilati, aspettando di mangiarli. È ancora necessario imputare alla società questi effetti di una passione così da lungo tempo liberamente e pienamente sazia?

Chi spiegherà questo mistero di un essere multiplo e discorde, capace in una volta delle più grandi virtù e dei più spaventevoli delitti? Il cane lecca il padrone che lo percuote; perché la natura del cane è la fedeltà, e questa natura non l’abbandona mai. L’agnello si rifugia nelle braccia del pastore, che lo scortica e lo mangia; perché il carattere inseparabile della pecora è la dolcezza e la pace. Il cavallo si slancia attraverso la fiamma e la mitraglia senza toccare con i suoi piedi veloci i feriti e i morti giacenti sul suo passaggio; perché l’animo del cavallo è inalterabile nella sua generosità. Questi animali sono martiri secondo noi della loro natura costante e devota. Il servitore che difende il padrone con pericolo della propria vita, per poco oro lo tradisce e l’assassina; la casta sposa è adultera per un disgusto o un’assenza, e in Lucrezia troviamo Messalina; il proprietario, a vicenda padre e tiranno, rimette in sesto il suo fittavolo rovinato, e ne scaccia dalle sue terre la famiglia troppo numerosa, cresciuta sotto l’accordo del contratto feudale; l’uomo di guerra, specchio e modello di cavalleria, si fa dei cadaveri dei suoi compagni sgabello all’avanzamento. Epaminonda e Regolo negoziano il sangue dei loro soldati; quante prove di ciò mi sono passate sotto gli occhi! e per un orribile contrasto, la professione del sacrificio è la più feconda in viltà. L’umanità ha i suoi martiri e i suoi apostati; ancora una volta, a che cosa debbo attribuire questa scissione?

All’antagonismo della società, dite sempre voi; allo stato di separazione, d’isolamento, d’ostilità con i suoi simili, nel quale l’uomo ha vissuto fino a oggi; in una parola, a questa alienazione del cuore suo che gli fece prendere il godimento per l’amore, la proprietà per il possesso, la pena per il lavoro, l’ebbrezza per la gioia; infine a questa falsa coscienza, il cui rimorso non ha cessato di perseguitarlo sotto il nome di peccato originale. E quando l’uomo, riconciliato con se stesso, cesserà di riguardare il suo prossimo e la natura quali potenze ostili, è allora che amerà e produrrà con la sola spontaneità della sua energia; che la sua passione sarà di donare, come oggi è di acquistare; e cercherà nel lavoro e nella devozione, sua unica felicità, la voluttà suprema. Allora, l’amore diventando realmente e senza contrasto la legge dell’uomo, la giustizia non sarà più che un nome vano, importuno ricordo di un periodo di violenza e di lagrime.

Certo non disconosco i fatti dell’antagonismo, o come vi piacerà di chiamarli, dell’alienazione religiosa, più di quanto non disconosca la necessità di riconciliare l’uomo con se stesso: tutta la mia filosofia è una perpetuità di riconciliazioni. Voi riconoscete che la divergenza della nostra natura è il preliminare della società, diciamo meglio, il materiale della civilizzazione. È appunto il fatto, ma osservate bene, il fatto indistruttibile di cui cerco il significato. Certo, saremmo ben vicini ad intenderci se, invece di considerare la dissidenza e l’armonia delle facoltà umane come due periodi distinti, dichiarati e consecutivi nella storia, consentiste con me a non vederci che le due facce della nostra natura, sempre contrarie, sempre in opera di riconciliazione, giammai riconciliate interamente. In una parola, come l’individualismo è il fatto primordiale dell’umanità, l’associazione è il termine complementare; ma ambedue sono in continua manifestazione, e sulla terra la giustizia è eternamente la condizione dell’amore.

Così il dogma del peccato non è solo l’espressione d’uno stato particolare e transitorio della ragione e della moralità umana; è la spontanea confessione, in stile simbolico, di questo fatto tanto meraviglioso quanto indistruttibile, la colpevolezza, l’inclinazione al male della nostra specie. Disgrazia a me peccatrice, esclama in ogni parte e in ogni lingua la coscienza del genere umano: Væ nobis quia peccavimus! [Lamentazioni] La religione concretizzando e drammatizzando quest’idea, ha potuto portare fuori del mondo e dietro la storia ciò che è intimo e costante nella nostra anima; ciò per sua parte non era che un miraggio intellettuale; essa non s’è ingannata sull’essenza e sulla perennità del fatto. Ora, è sempre di questo fatto, del quale vogliamo renderci ragione, ed è da questo punto di vista che ci accingiamo ad interpretare il dogma del peccato originale.

Tutti i popoli ebbero costumi espiatori, sacrifici di pentimento, istituzioni repressive e penali, nate dall’orrore e dal rammarico del peccato. Il cattolicesimo, che costruisce una teoria dovunque la spontaneità sociale aveva espressa una idea o posta una speranza, convertì in sacramento la cerimonia nello stesso tempo simbolica ed effettiva, con la quale il peccatore esprimeva il suo pentimento, domandava a Dio e agli uomini perdono del suo errore, e si preparava a una vita migliore. Così, non esito a dire che la riforma, respingendo la contrizione, questionando sulla parola metanoia, attribuendo alla sola fede la virtù giustificativa, infine sconsacrando la penitenza, fece un passo indietro e disconobbe completamente la legge del progresso. Negare non era rispondere. Gli abusi della Chiesa richiedevano in questo punto come in tanti altri una riforma; le teorie della penitenza, della dannazione, della remissione dei peccati e della grazia, contenevano, se così oso dire, allo stato latente, il sistema dell’educazione dell’umanità, bisognava sviluppare queste teorie, spingerle al razionalismo: Lutero non seppe che distruggere.

La confessione auricolare era una degradazione della penitenza, una equivoca dimostrazione sostituita a un grande atto di umiltà; Lutero superò l’ipocrisia dei Papi riducendo la primitiva confessione davanti a Dio e davanti agli uomini a un soliloquio. Così il senso cristiano fu perduto; e non fu stabilito che tre secoli più tardi dalla filosofia.

Dunque, poiché il cristianesimo, cioè l’umanità religiosa, non ha potuto ingannarsi sulla realtà di un fatto essenziale alla natura umana, fatto che essa ha indicato con le parole prevaricazione originale, interroghiamo ancora il cristianesimo, l’umanità sul significato di questo fatto. Né lasciamoci impaurire dalla metafora né dall’allegoria; la verità è indipendente dalle figure. E allora per noi che cos’è la verità, se non il progresso incessante del nostro spirito dalla poesia alla prosa?

E dapprima cerchiamo se quest’idea almeno singolare di una prevaricazione originale non avesse qualche parte correlativa nella teologia cristiana. Perché l’idea vera, l’idea generica, non può risultare da un concetto isolato; ma è una serie.

Il cristianesimo, dopo aver posto come primo termine il dogma del peccato, seguì il suo pensiero assicurando, per tutti quelli che morirebbero in questo stato di bruttura, una condanna irrevocabile di Dio, un’eternità di supplizi. Poi completò la sua teoria conciliando queste due opposizioni col dogma della riabilitazione e della grazia, secondo il quale ogni creatura nata in odio a Dio, è riconciliata per i meriti di Gesù Cristo, che la fede e la penitenza rendono efficaci. Così, corruzione essenziale della nostra natura e perpetuità della pena, salvo il riscatto con la partecipazione volontaria al sacrificio di Cristo; tale è in sostanza l’evoluzione dell’idea teologica. La seconda affermazione è una conseguenza della prima; la terza è una negazione e una trasformazione delle due altre; in effetti, un vizio di costituzione essendo necessariamente indistruttibile, l’espiazione che trae seco è eterna, a meno che una potenza superiore venga, per una rinnovazione integrale, a interrompere il fato e fare cessare l’anatema.

Lo spirito umano non ha che un metodo, nelle sue fantasie religiose, come nelle sue teorie positive; la stessa metafisica ha prodotto i misteri cristiani e le contraddizioni dell’economia politica; la fede, senza che lo sappia, esce dalla ragione; e noi, esploratori delle manifestazioni divine e umane, abbiamo diritto, in nome della ragione, di verificare le ipotesi della teologia.

Dunque la ragione universale, formulata nei dogmi religiosi, che cosa ha veduto nella natura umana, allorché, per una costruzione metafisica, così regolare, ha affermato a vicenda l’ingenuità del delitto, l’eternità della pena, la necessità della grazia? I veli della teologia cominciano a diventare così trasparenti che essa somiglia a una storia naturale.

Se noi concepiamo l’operazione con la quale l’essere supremo si suppone abbia prodotto tutti gli esseri, non come una emanazione, un prodotto della forza creatrice e della sostanza infinita; ma come una divisione o differenza di questa forza sostanziale, ogni essere organizzato o non organizzato ci apparirà come il rappresentante speciale di una delle innumerevoli virtualità dell’essere infinito, come una scissione dell’assoluto; e la collezione di tutte queste individualità (fluidi, minerali, piante, insetti, pesci, uccelli e quadrupedi) sarà la creazione, sarà l’universo.

L’uomo, compendio dell’universo, riassume e sintetizza nella sua persona tutte le virtualità dell’essere, tutte le scissioni dall’assoluto; è la sommità dove queste virtualità, non esistenti che per la loro divergenza, si riuniscono in fasci, ma senza penetrarsi né confondersi. L’uomo, per questa aggregazione è spirito e materia, spontaneità e riflessione, meccanismo e vita, angelo e bruto. Esso è calunniatore come la vipera, sanguinario come la tigre, ghiotto come il porco, osceno come la scimmia e devoto come il cane, generoso come il cavallo, laborioso come l’ape, monogamo come la colomba, socievole come il castoro e la pecora. È per di più uomo, cioè ragionevole e libero, suscettibile di educazione e di perfezionamento.

L’uomo ha tanti nomi quanti ne ha Giove; tutti questi nomi li porta scritti sul viso; e nello specchio variato della natura, il suo istinto infallibile li sa riconoscere. Un serpente è bello secondo la ragione; ma è la coscienza che lo trova odioso e sozzo. Gli antichi, come i moderni, avevano preso la costituzione dell’uomo quale agglomerazione di tutte le virtù terrestri; le opere di [Franz] Gall e di [Johann] Lavater non furono, se così oso dire, che prove del disgregamento del sincretismo umano, e la classificazione che fecero delle nostre facoltà, un quadro in riassunto della natura. L’uomo infine, come il profeta nella fossa dei leoni, è veramente dato in balia delle bestie; e se qualche cosa deve segnalare alla posterità l’ipocrisia infame della nostra epoca, è che scienziati, bigotti spiritualisti, abbiano creduto di servire alla religione e alla morale snaturando la nostra specie e facendo mentire l’anatomia.

Dunque non si tratta che di sapere se dipenda da uomo, nonostante le contraddizioni che l’emissione progressiva delle sue idee moltiplica intorno a lui, il lasciare più o meno libero varco alle virtualità poste sotto il suo potere, o, come dicono i moralisti, alle sue passioni; in altri termini se, come l’Ercole antico, può vincere l’animalità che lo assedia, la legione infernale che pare sempre pronta a divorarlo.

Ora, l’universale consentimento dei popoli afferma, e noi abbiamo constatato ai capitoli III e IV, che l’uomo, astrazione fatta di tutti i suoi istinti animali, si riassume in intelligenza e libertà, cioè prima in una facoltà di valutazione e di scelta, poi in una potenza di azione applicabile indifferentemente al bene e al male. Inoltre, abbiamo constatato che queste due facoltà, che esercitano una influenza necessaria l’una sull’altra, sono suscettibili d’uno sviluppo, di una perfezione indefinita.

Il destino sociale, il segno dell’enigma umano, dunque si trova in queste parole: Educazione, Progresso.

L’educazione della libertà, l’addomesticamento degli istinti, l’affrancamento o la redenzione dell’anima nostra, ecco, come l’ha dimostrato Lessing, il significato del mistero cristiano. Questa educazione sarà quella della nostra vita, e di tutta la vita dell’umanità; le contraddizioni dell’economia politica possono essere risolte; la contraddizione intima del nostro essere non lo sarà giammai. Ecco perché i grandi istitutori della umanità, Mosè, Budda, Gesù Cristo, Zarathustra, furono tutti apostoli dell’espiazione, simboli viventi della penitenza. L’uomo è peccatore per sua natura, cioè non essenzialmente malfattore, ma piuttosto malfatto e il suo destino è di confortare perpetuamente in se stesso il suo ideale.

È ciò che sentiva profondamente il più grande dei pittori, Raffaello, allorché diceva che l’arte consiste nel rendere le cose, non come le ha fatte la natura, ma com’essa avrebbe dovuto farle.

Dunque, d’ora innanzi, a noi devono rivolgersi i teologi, perché solo noi continuiamo la tradizione della Chiesa, solo noi possediamo il significato della Scrittura, dei Concili e dei Padri. La nostra interpretazione si fonda su ciò che c’è di più certo e di più autentico, sulla più grande autorità che possa invocarsi tra gli uomini, la costruzione metafisica delle idee e i fatti.

Sì, l’essere umano è vizioso perché non è logico, perché la sua costituzione non è che un eclettismo che tiene in lotta senza fine le virtualità dell’essere, indipendentemente dalle contraddizioni della società. La vita dell’uomo non è che una transazione continua tra il lavoro e la pena, l’amore e il godimento, la giustizia e l’egoismo; e il sacrificio volontario che fa l’uomo all’ordine delle sue attrazioni inferiori è il battesimo che prepara la sua riconciliazione con Dio, che lo rende degno dell’unione beatifica e della felicità eterna.

Lo scopo dell’economia sociale, col procurare incessantemente l’ordine nel lavoro e col favorire l’educazione della specie, è di rendere possibile, con l’uguaglianza, la carità spontanea, quella carità che non sa comandare ai suoi schiavi; o per dire meglio, di fare sbocciare, come un fiore dal suo gambo, la carità dalla giustizia.

Eh! se la carità avesse il potere di creare la felicità tra gli uomini, da lungo tempo si sarebbe messa alla prova; e il socialismo, invece di cercare l’organizzazione del lavoro, avrebbe detto soltanto: Guardate, voi venite meno alla carità.

Ma, la carità nell’uomo è di poco pregio, vergognosa, molle e debole; per agire, ha bisogno di elisir e di aromi. È il motivo per il quale mi sono attenuto al triplice dogma della prevaricazione, della dannazione e della redenzione, cioè della perfezione con la giustizia. La libertà in questo mondo ha sempre bisogno di assistenza, e la teoria cattolica dei favori celesti completa questa dimostrazione troppo reale delle misure della nostra natura.

La grazia, dicono i teologi, è, quanto alla salvezza, ogni soccorso o mezzo che può condurci alla vita eterna. – Cioè che l’uomo non si perfeziona, non si civilizza, non si rende umano che con l’incessante soccorso dell’esperienza, con l’industria, la scienza e l’arte, col piacere e la pena, in una parola, con tutti gli esercizi del corpo e dello spirito. Vi è una grazia abituale, chiamata anche giustificante e santificante, che si concepisce come una qualità che risiede nell’anima, che racchiude le virtù infuse e i doni dello Spirito Santo, e che è inseparabile dalla carità. – In altri termini, la grazia abituale è il simbolo delle attrazioni in preminenza del bene, che conducono l’uomo all’ordine e all’amore, e al mezzo col quale giunge a domare le cattive tendenze, e a rimanere padrone nel suo possesso. Quanto alla grazia attuale, indica i mezzi esterni che favoriscono lo sfogo delle passioni d’ordine, e servono a combattere le passioni sovversive.

La grazia, secondo Sant’Agostino, è essenzialmente gratuita, e nell’uomo precede il peccato. Bossuet ha espresso il medesimo pensiero nel suo stile pieno di poesia e di affetto: Allorché Dio fece l’interno dell’uomo vi mise prima di tutto la bontà. – Realmente, la prima determinazione del libero arbitrio è in questa bontà naturale, dalla quale l’uomo è spinto incessantemente all’ordine, al lavoro, allo studio, alla modestia, alla carità e al sacrificio. San Paolo ha dunque potuto dire, senza attaccare il libero arbitrio, che, per tutto ciò che riguarda il compimento del bene, Dio mette in opera in noi la volontà e l’azione. Perché tutte le aspirazioni sante dell’uomo sono in lui prima che pensi e senta; e lo stringimento di cuore ch’egli prova quando le viola, il piacere che prova quando loro obbedisce, infine tutti gli inviti che gli provengono dalla società e dalla sua educazione, gli appartengono.

Quando la grazia è tale che la volontà con allegrezza e amore senza esitazione e irrevocabilmente si porta al bene, essa si dice efficace. – Tutto il mondo ha veduto di questi trasporti dell’anima che decidono in un attimo una vocazione, un atto d’eroismo. La libertà non vi perisce; ma, per le sue predeterminazioni, si può dire che era inevitabile che essa si decidesse in questo modo. E i seguaci di Pelagio, di Lutero e altri hanno avuto torto dicendo che la grazia comprometteva il libero arbitrio e uccideva la forza creatrice della volontà; poiché tutte le determinazioni della volontà necessariamente provengono, o dalla società che la sostiene, o dalla natura che le apre lo sviluppo e gli addita il destino.

Ma, d’altra parte, gli agostiniani, i tomisti, i congruisti [molinisti], Giansenio, il padre Thomasin, Molina, ecc., si sono stranamente sviati allorché, sostenendo in una volta il libero arbitrio e la grazia, non hanno veduto che tra questi due termini vi è la stessa relazione che c’è tra la sostanza e il modo, e hanno confessato un’opposizione che non esiste. È necessità che la libertà come l’intelligenza, come ogni sostanza e ogni forza, sia determinata, cioè abbia i suoi modi e i suoi attributi. Ora, dacché nella materia il modo e l’attributo sono inerenti alla sostanza, contemporanei della sostanza; nella libertà il modo è dato da tre agenti per così dire esterni: l’essenza umana, le leggi del pensiero, l’esercizio o l’educazione. La grazia, finalmente, come il suo contrapposto, la tentazione, indica il fatto stesso della determinazione della libertà.

In breve, tutte le idee moderne sull’educazione dell’umanità non sono che una interpretazione, una filosofia della dottrina cattolica della grazia, dottrina che non parve oscura ai suoi autori se non in seguito alle loro idee sul libero arbitrio, che essi credevano minacciato dopo che si parlava della grazia o dell’origine delle sue determinazioni. Noi, al contrario, crediamo che la libertà, indifferente per se stessa a ogni modalità, ma destinata ad agire e comportarsi secondo un ordine stabilito, riceva il suo primo impulso dal Creatore che le ispira l’amore, l’intelligenza, il coraggio, la risoluzione e tutti i doni dello Spirito Santo, poi l’abbandona al lavoro dell’esperienza. Di qui ne segue che necessariamente la grazia è premovente, che senza di essa l’uomo non è capace di alcun bene, e che nondimeno il libero arbitrio spontaneamente compie con riflessione e scelta il proprio destino. In tutto ciò non esiste alcun mistero né alcuna contraddizione. – L’uomo, in quanto è buono, è buono; ma, come il tiranno descritto da Platone, che fu anch’egli un dottore della grazia, l’uomo porta in seno mille mostri, che il culto della giustizia e della scienza, la musica e la ginnastica, tutte le grazie d’occasione e di stato, devono vincere. Correggete una definizione in Sant’Agostino, e tutta questa dottrina della grazia, famosa per le dispute che suscitò e che causarono la Riforma, vi apparirà splendente di chiarezza e di armonia. E ora l’uomo è forse Dio?

Dio, nell’ipotesi teologica, è l’essere sovrano, assoluto, altamente sintetico, l’io infinitamente saggio e libero, per conseguenza infallibile e santo; è certo che l’uomo, sincretismo della creazione, punto d’unione di tutte le virtualità fisiche, organiche, intellettuali e morali manifestate dalla creazione; l’uomo perfezionabile e fallibile, non soddisfa per nulla le condizioni di Divinità che è della natura del suo spirito esprimere. Né egli è Dio né lo saprebbe divenire, vivendo.

A più forte ragione il cane, il leone, il sole, l’universo stesso, divisioni dell’assoluto, non sono Dio. Col medesimo colpo, l’antropolatria e la fisiolatria sono distrutte.

Si tratta ora di fare la contro-prova di questa teoria.

Abbiamo esaminata la moralità dell’uomo dal punto di vista delle contraddizioni sociali. Ci accingiamo ora ad apprezzare dal medesimo punto di vista, la moralità della Provvidenza. In altri termini, Dio, quale la speculazione e la fede lo danno all’adorazione dei mortali, è possibile?

2. – Esposizione del mito della Provvidenza. Retrogradazione di Dio

I teologi e i filosofi, tra le prove, in numero di tre, che sogliono portare intorno all’esistenza di Dio, pongono in prima linea il consenso universale.

Ho tenuto conto di quest’argomento allorché, senza rigettarlo o ammetterlo, mi sono domandato: che cosa afferma il consenso universale affermando un Dio?

E a questo proposito debbo ricordare che la differenza delle religioni non è una attestazione dell’errore nel quale sarebbe caduto il genere umano affermando fuori di sé un Io supremo, non più di quello che la diversità delle lingue sia un’attestazione della non realtà della ragione. L’ipotesi dì Dio, lungi dall’affievolirsi, si rafforza e si stabilisce con la divergenza stessa e con l’opposizione dei culti.

Un argomento di altro genere è quello che si trae dall’ordine del mondo. Ho osservato a questo riguardo che la natura spontaneamente affermando, con la voce dell’uomo, la propria divisione in spirito e materia, lasciava il dubbio se uno spirito infinito, un’anima del mondo, governasse e agitasse l’universo, come la coscienza, nella sua oscura istituzione, ci dice che uno spirito anima l’uomo. Se l’ordine fosse un indice infallibile della presenza dello spirito, non si potrebbe disconoscere nell’universo la presenza di un Dio.

Disgraziatamente, ciò non è dimostrato e non potrebbe esserlo.

Perché, da una parte, lo spirito puro, concepito come opposizione alla materia, è un’entità contraddittoria, di cui per conseguenza niente può attestare la realtà. D’altra parte certi esseri ordinati in se stessi quali i cristalli, le piante, il sistema planetario che nelle sensazioni che ci fanno provare, non rendono a noi, come agli animali, sentimento per sentimento, apparendoci del tutto sprovvisti di coscienza, non vi è più ragione di supporre uno spirito al centro del mondo se non mettendolo su di un bastone di zolfo; e si può fare in modo che se lo spirito, la coscienza, esiste in qualche posto, ciò sia unicamente nell’uomo.

Nondimeno, se l’ordine del mondo non può apprendere niente sull’esistenza di Dio, rivela che una cosa può darsi non meno preziosa e che ci servirà di guida nelle nostre ricerche; cioè che tutti gli esseri, tutte le essenze, tutti i fenomeni sono incatenati gli uni agli altri da un insieme di leggi risultanti dalle loro proprietà, insieme che io ho chiamato (Cap. III) fatalità o necessità.

Dunque che esista una intelligenza infinita, che abbraccia tutto il sistema di queste leggi, tutto il campo della fatalità; che a questa intelligenza infinita si unisca in una penetrazione intima una volontà suprema, eternamente determinata dall’insieme delle leggi cosmiche e per conseguenza infinitamente potente e libera; che infine queste tre cose, fatalità, intelligenza, volontà siano nell’universo contemporanee, l’una all’altra adeguate e identiche; è chiaro che qui non troviamo cosa che ci ripugni; ma è appunto qui l’ipotesi, è questo antropomorfismo che rimane da dimostrare.

Così, poiché l’attestazione del genere umano ci rivela un Dio, senza dirci ciò che possa essere questo Dio; l’ordine del mondo ci rivela una fatalità, cioè un insieme assoluto e perentorio di cause e di effetti, in una parola, un sistema di leggi, che sarebbe, se esistesse Dio, come la vista e la scienza di questo Dio.

La terza e ultima prova dell’esistenza di Dio proposta dai teisti, e da essi chiamata prova metafisica, non è altro che una costruzione tautologica delle categorie, che prova assolutamente niente.

Qualche cosa esiste, dunque esiste una cosa.

Qualche cosa è multiplo, dunque qualche cosa è uno.

Qualche cosa viene dopo qualche cosa, dunque qualche cosa è anteriore a qualche cosa.

Qualche cosa è più piccola o più grande di qualche cosa, dunque qualche cosa è più grande di ogni altra cosa.

Qualche cosa è mobile, dunque qualche cosa è motrice, ecc., all’infinito.

Ecco ciò che si chiama ancora oggi nelle facoltà e nei seminari, dal ministro della pubblica istruzione e dai signori vescovi, dare la prova metafisica dell’esistenza di Dio. Ecco ciò che il fiore della gioventù francese è condannato a belare a somiglianza dei professori, durante un anno, sotto pena di non ricevere i diplomi e di non potere studiare il diritto, la medicina, la tecnica e le scienze. Certamente, se vi è qualche cosa che possa sorprendere, è che con tale filosofia l’Europa non sia ancora atea. La persistenza dell’idea teista a lato del linguaggio delle scuole è il più grande dei miracoli; essa forma la sentenza più forte che si possa allegare in favore della Divinità. Ignoro ciò che l’umanità intenda per Dio.

Non posso affermare se è l’uomo, l’universo, o qualche altra realtà invisibile che si possa intendere sotto questo nome; o se questo nome non esprima che un ideale, un essere di ragione.

Nondimeno, per dare corpo alla mia ipotesi e forza alle mie ricerche, considererò Dio, seguendo l’opinione volgare, come un essere a parte, presente dovunque, separato dalla creazione, dotato di una vita che non finisce come di una scienza e di un’attività infinite; ma, soprattutto previdente, giusto punitore del vizio e compensatore della virtù. Metto da parte l’ipotesi panteistica, come una ipocrisia o come mancante di cuore. Dio è personale o non lo è; questa alternativa è l’assioma da dove dedurrò tutta la mia teodicea.

Per me si tratta, ora, senza preoccuparmi delle questioni che l’idea di Dio potrà sollevare più tardi, di sapere, in vista dei fatti di cui ho constatato l’evoluzione nella società, ciò che debbo pensare della condotta di Dio, quale si propone alla mia fede, e relativamente all’umanità. In una parola, è dal punto di vista dell’esistenza dimostrata del male che voglio, in aiuto della nuova dialettica, scandagliare l’Essere supremo.

Il male esiste; su questo punto ormai tutto il mondo pare d’accordo.

Ora, hanno domandato gli stoici, gli epicurei, i manichei, gli atei, come accordare la presenza del male con l’idea di un Dio eccezionalmente buono, saggio e potente? Come, dopo ciò, Dio, sia per impotenza, sia per intelligenza, sia per malevolenza, avendo lasciato introdursi il male nel mondo, ha potuto rendere responsabili dei loro atti creature che egli stesso aveva creato imperfette, e che abbandonava così a tutti i pericoli delle attrazioni?

Infine, poiché promette ai giusti dopo la morte una beatitudine inalterabile, o, in altri termini, poiché ci dà l’idea e il desiderio della felicità, perché non ce ne fa godere in questa vita togliendoci alla tentazione del male, invece di esporci a un’eternità di supplizi?

Tale è, nel suo vecchio tenore, la protesta degli atei.

Oggi non la si disputa molto; i teisti non s’inquietano più delle logiche impossibilità del loro sistema. Si vuole un Dio, una Provvidenza soprattutto; vi è concorrenza per questa cosa tra i radicali e i gesuiti. I socialisti predicano in nome di Dio la felicità e la virtù; nelle scuole, quelli che parlano più forte contro la Chiesa sono i primi dei mistici.

Gli antichi teisti erano più preoccupati della loro fede. Si sforzavano, se non di dimostrare, almeno di renderla ragionevole, ben sentendo, al contrario dei loro successori, che fuori della certezza non vi è dignità né riposo per il credente.

I Padri della Chiesa risposero dunque agli increduli che il male non è che la privazione di un più grande bene, e che ragionando sempre del meglio, si manca di un punto di appoggio dove potersi fissare, ciò che conduce diritto all’assurdo. In effetti ogni creatura essendo per necessità limitata e imperfetta, Dio, con la sua potenza infinita, può senza fine aumentare la sua perfezione; a questo riguardo c’è sempre, a qualunque grado, privazione del bene nella creatura. Reciprocamente, per quanto imperfetta e limitata si supponga, dal momento che la creatura esiste, essa gode di un certo grado di bene, migliore per essa del nulla. Dunque! se è di regola che l’uomo non è creduto buono che fino a tanto che compie tutto il bene che può fare, non è lo stesso di Dio, poiché l’obbligazione di fare del bene all’infinito è contraddittoria alla facoltà stessa del creare; perfezione e creatura essendo due termini che necessariamente si escludono. Dio dunque sarà solo giudice del grado di perfezione che converrà dare a ogni creatura; intentare sotto questo riguardo un’accusa contro di lui, è calunniare la sua giustizia.

Quanto al peccato, cioè al male morale, i Padri avevano, per rispondere alle obiezioni degli atei, le teorie del libero arbitrio, della redenzione, della giustificazione e della grazia, sulle quali non dobbiamo più ritornare.

Non so se gli atei abbiano replicato in modo categorico a questa teoria dell’imperfezione naturale della creatura, teoria riprodotta con successo da [Félicité] De Lamennais nel suo Esquisse [d’une philosophie, Paris 1840]. Infatti, era impossibile che così rispondessero; perché, ragionando con un falso concetto del male e del libero arbitrio, e con l’ignoranza profonda delle leggi dell’umanità, mancavano ugualmente loro le ragioni, sia per trionfare del dubbio, sia per confutare i credenti.

Usciamo dalla sfera del finito e dell’infinito, e portiamoci nel concetto dell’ordine.

Dio può fare un circolo rotondo, un quadrato ad angoli retti? – Certamente.

Dio sarebbe colpevole se, dopo aver creato il mondo secondo le leggi della geometria, ci avesse messo nello spirito, o soltanto lasciato credere, senza che vi fosse nostro errore, che un circolo può essere quadrato, o un quadrato circolare, allorché da questa falsa opinione dovesse risultare per noi una serie incalcolabile di mali? – Senza dubbio.

Ebbene! Ecco precisamente ciò che Dio, il Dio della Provvidenza ha fatto nel Governo dell’umanità; ecco ciò di cui l’accuso. Egli lo sapeva da tutta l’eternità, poiché, noi, mortali, l’abbiamo scoperto dopo seimila anni di dolorosa esperienza, che l’ordine nella società, cioè la libertà, la ricchezza, la scienza, si realizzano con la conciliazione di idee contrarie che, prese ciascuna in particolare come assolute, dovevano precipitare in un abisso di miseria; perché non ci ha avvertito? perché fin da principio non ha raddrizzato il nostro giudizio? perché ci ha abbandonato alla nostra logica imperfetta, allorché soprattutto il nostro egoismo doveva avvertirlo con le sue ingiustizie e con le sue perfidie? Egli sapeva, questo Dio geloso, che lasciandoci agli accidenti dell’esperienza, non avremmo trovato che tardi questa sicurezza della vita che forma tutta la nostra felicità; perché, con una rivelazione delle nostre leggi, non abbreviò questa lunga scuola? perché, invece di affascinarci con opinioni contraddittorie, non abbreviò l’esperienza, facendoci passare per via di analisi dalle idee sintetiche alle antinomie, invece di lasciarci arrampi-care penosamente per l’erta cima dall’antinomia alla sintesi?

Se, come si pensava altre volte, il male che soffre l’umanità proveniva solo dall’imperfezione inevitabile in ogni creatura; diciamo meglio, se questo male non aveva per causa che l’antagonismo delle virtualità e inclinazioni che costituiscono il nostro essere, e che la ragione deve apprenderci a padroneggiare e condurre, non avremmo diritto di sollevare lamenti. La nostra condizione essendo quella che poteva essere, Dio sarebbe giustificabile.

Ma, davanti a questa illusione volontaria dell’intelletto, illusione che era così facile dissipare, e i cui effetti dovevano essere così terribili, dove è la scusa della Provvidenza? Non è forse vero che qui la grazia mancò all’uomo? Dio, che la fede presenta come un padre tenero e un padrone prudente, ci abbandona alla fatalità dei concetti incompleti; scava la fossa sotto i nostri piedi; ci fa andare alla cieca; e poi, a ogni caduta, ci punisce come perversi. Che dico? Pare che sia contro la sua volontà che finalmente, tutti indolenziti dal viaggio, riconosciamo la nostra via; come fosse offendere la sua gloria col diventare, per le prove che ci impone, più intelligenti e liberi. Dunque, che cosa abbiamo bisogno di domandare senza posa alla Divinità, e che cosa vogliono questi satelliti di una Provvidenza, che, dopo sessanta secoli, con l’aiuto di mille religioni, ci inganna e ci svia?

Dio con i suoi facitori di nuove leggi e con la legge che ha posto nei nostri cuori, ci comanda di amare il prossimo come noi stessi, di fare agli altri ciò che desideriamo che sia fatto a noi, di rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto; di non fare frode alcuna sul salario dell’operaio, di non dare a prestito con usura; sa inoltre che la carità in noi è debole, la coscienza vacillante, e che il minimo pretesto ci appare sempre una ragione sufficiente per sottrarci alla legge; ed è con tali disposizioni che ci impegna nelle contraddizioni del commercio e delle proprietà, là dove, per la fatalità delle teorie, devono cessare assolutamente la carità e la giustizia? Invece di rischiarare la ragione sull’importanza dei princìpi che ad essa s’impongono con tutto il peso della necessità, ma le cui conseguenze, adottate dall’egoismo, sono indispensabili all’umana fratellanza, pone questa ragione ingannata al servizio delle passioni; distrugge, con la seduzione dello spirito, l’equilibrio della coscienza; giustifica ai nostri occhi le usurpazioni e l’avarizia; rende inevitabile, legittima la separazione dell’uomo dal suo simile; crea tra di noi la divisione e l’invidia, rendendo l’eguaglianza col lavoro e col diritto impossibile; ci fa credere che questa uguaglianza, legge del mondo, è ingiusta tra gli uomini; e poi ci proscrive in massa per non avere saputo praticare i suoi precetti incomprensibili! Certo, credo di aver provato che l’abbandono della Provvidenza non ci giustifica; ma qualunque sia il nostro delitto non siamo colpevoli davanti ad essa; e se vi è un essere che, prima di noi e più di noi, si sia meritato l’inferno, bisogna che lo nomini: è Dio.

Allorché i teisti, per stabilire il loro dogma della Provvidenza, indicano come prova l’ordine della natura, quantunque quest’argomento non sia che una petizione di principio, tuttavia non si può dire che implichi contraddizione, e che il fatto indicato sia contro l’ipotesi. Nulla, per esempio, nel sistema del mondo, scopre la più piccola anomalia, la più leggera imprevidenza, di dove si possa dedurre un pregiudizio qualunque contro l’idea di un motore supremo, intelligente, personale. In una parola, se l’ordine della natura non prova la realtà di una Provvidenza, neanche la contraddice.

È tutt’altra cosa nel governo dell’umanità. Qui l’ordine non appare nello stesso tempo che la materia; non è stato creato, come nel sistema del mondo, una volta e per l’eternità. Si sviluppa gradatamente, secondo una serie fatale di princìpi e di conseguenze che l’essere umano stesso, l’essere che si trattava di regolare, deve spontaneamente scoprire, con la propria energia, con la sollecitazione dell’esperienza. Nessuna rivelazione a questo riguardo gli è fatta. L’uomo è sottomesso, dalla sua origine, a una necessità prestabilita, a un ordine assoluto e irresistibile.

Ma quest’ordine, bisogna pure che si realizzi, che l’uomo lo scopra; questa necessità bisogna che esista, che l’indovini. Questo lavoro d’invenzione potrebbe essere abbreviato; niente, né dal cielo né sulla terra, verrà in soccorso all’uomo; nulla lo istruirà. L’umanità, durante centinaia di secoli, divorerà le sue generazioni; si esaurirà nel sangue e nel fango senza che il Dio che adora venga una sola volta ad illuminare la sua ragione e abbreviare la sua prova. Dov’è qui l’azione divina? Dov’è la Provvidenza?

Se Dio non esistesse – è Voltaire, il nemico delle religioni, che parla, bisognerebbe inventarlo. Per qual ragione? “Perché – aggiunge lo stesso Voltaire, se avessi da trattare con un principe ateo che avesse interesse a farmi pestare in un mortaio, sono certo che io sarei pestato”. Strana aberrazione di un grande spirito! E se voi dovete trattare con un principe devoto, al quale comandasse il suo confessore, da parte di Dio, di bruciarvi vivo, non sareste ben certi d’essere bruciati? Dimenticate dunque, voi anticristo, l’inquisizione, la strage di san Bartolomeo, e i roghi di Vanini e di Bruno, le torture di Galileo e il martirio di tanti liberi pensatori?... Non distinguete tra uso e abuso; perché, replicherò, che le conseguenze di un principio mistico e soprannaturale, di un principio che tutto abbraccia, che spiega tutto, che giustifica tutto, come l’idea di Dio, sono tutte legittime, e che lo zelo del credente è il solo giudice in merito.

“Altre volte ho creduto – dice Rousseau – che si potesse essere onesto senza necessità di Dio; ma da questo errore mi sono ricreduto”. Lo stesso ragionamento, in fondo, di Voltaire, la stessa giustificazione dell’intolleranza; l’uomo fa il bene e non s’astiene dal male che con la considerazione di una Provvidenza che lo sorveglia; anatema a coloro che la negano! E, per colmo di derisione, lo stesso uomo che domanda così per la nostra virtù la sanzione di una Divinità remuneratrice e vendicatrice, è pure colui che insegna come dogma di fede la bontà nativa dell’uomo.

E io dico: il primo dovere dell’uomo intelligente e libero è di scacciare incessantemente dal suo spirito e dalla sua coscienza l’idea di Dio. Perché Dio, se esiste, è essenzialmente nemico della nostra natura, e non guadagniamo alcuna cosa dalla sua autorità. Suo malgrado arriviamo alla scienza, suo malgrado arriviamo al benessere, alla società; ciascuno dei nostri progressi è una vittoria nella quale schiacciamo la Divinità.

Non si dica più: le vie di Dio sono impenetrabili! Noi siamo penetrati in queste vie, abbiamo letto in caratteri di sangue le prove dell’impotenza, se non del cattivo volere di Dio. La mia ragione, da lungo tempo umiliata, a poco a poco si innalza al livello dell’infinito; col tempo essa scoprirà tutto ciò che la sua inesperienza le sottrae; col tempo sarò di meno in meno artefice di sventura, e per i lumi che avrò acquistato, per il perfezionamento della mia libertà, mi purificherò, idealizzerò il mio essere, e diventerò il capo della creazione, eguale a Dio.

Un solo istante di disordine, che l’Onnipossente avrebbe potuto impedire e che non ha impedito, accusa la sua Provvidenza e pone in rilievo il difetto della sua saggezza; il minimo progresso che l’uomo, ignorante, abbandonato e tradito, compie verso il bene, lo onora senza misura. Con qual diritto Iddio mi dirà ancora: sii santo, perché io lo sono? Spirito mentitore, gli dirò, Dio imbecille, il tuo regno è finito; cerca altre vittime tra le bestie. So che non sono santo e che mai lo potrò diventare; in qual modo lo saresti tu, se ti assomiglio? Padre eterno, Giove o Jehova, abbiamo imparato a conoscerti; tu sei, fosti, e sarai per sempre il geloso di adamo, il tiranno di Prometeo.

Così, non cado nel sofisma confutato da san Paolo allorché difendendo il vaso, dice al vasaio: perché mi hai fatto in questa maniera? Non rimprovero all’autore delle cose di avermi fatto creatura disarmonica, insieme incoerente: non potrei esistere che a questa condizione. Mi contento di dirgli: perché m’inganni? Perché col tuo silenzio hai scatenato in me l’egoismo? Perché mi hai sottomesso alla tortura del dubbio universale, con l’amara illusione delle idee antagoniste che avevi messo nel mio intelletto? Dubbio della verità, dubbio della giustizia, dubbio della coscienza e della libertà, dubbio di te stesso, o Dio! E come conseguenza di questo dubbio, necessità della guerra con me stesso e col mio prossimo! Ecco, Padre supremo, ciò che hai fatto per nostra felicità e per tua gloria; ecco quali furono, fin da principio, la tua volontà e il tuo governo; ecco il pane, impastato di sangue e di lacrime, di cui tu ci hai nutriti. Gli errori di cui ti domandiamo la remissione, sei tu che ce li fai commettere; gli agguati da cui ti scongiuriamo di liberarci, sei tu che li hai tesi; e il Satana che ci assedia, questo Satana sei tu.

Tu trionfavi, e nessuno osava contraddirti, quando, dopo aver tormentato il giusto Giobbe nel corpo e nell’anima, figura dell’umanità nostra, insultavi la sua candida pietà, la sua discreta e rispettosa ignoranza. Noi eravamo esseri nulli davanti alla maestà invisibile, cui davamo il cielo per baldacchino e la terra per sgabello. E ora eccoti detronizzato e infranto. Il tuo nome, da sì lungo tempo l’ultima parola del sapiente, la sanzione del giudice, la forza del principe, la speranza del povero, il rifugio del colpevole pentito; questo nome non comunicabile, d’ora innanzi dedicato al disprezzo e all’anatema, sarà fischiato dagli uomini. Poiché Dio è sciocchezza e viltà; Dio è ipocrisia e menzogna; Dio è tirannia e miseria; Dio è male. Fino a quando l’umanità si inchinerà davanti a un altare, l’umanità, schiava dei re e dei preti, sarà riprovata; fino a quando un uomo, in nome di Dio, riceverà giuramento da un altro uomo, la società sarà fondata sullo spergiuro; la pace e l’amore saranno banditi dai mortali. Dio, ritirati! poiché d’ora innanzi, io, guarito dalla paura, e divenuto saggio, giuro, con la mano stesa verso il cielo, che tu non sei che il carnefice della mia ragione, lo spettro della mia coscienza.

Nego la supremazia di Dio sull’umanità; respingo il suo governo provvidenziale, la cui non esistenza è insufficientemente provata con le allucinazioni metafisiche ed economiche dell’umanità, in una parola, col martirio della specie; nego la giurisdizione dell’Essere supremo sull’uomo; gli tolgo i titoli di padre, di re, di giudice buono, clemente, misericordioso, soccorritore, remuneratore e vendicatore.

Tutti questi attributi, di cui si compone l’idea di Provvidenza, sono una caricatura dell’umanità, inconciliabile con l’autonomia della civiltà e inoltre smentita dalla storia delle sue aberrazioni e delle sue catastrofi. Ne segue forse che Dio non può più essere compreso come Provvidenza, perché gli togliamo questo attributo così importante per l’uomo, da non avere esitato a farne il sinonimo di Dio, che Dio non esista, e che la falsità del dogma teologico sia, quanto alla realtà del contenuto, oggi dimostrata?

Ahimè! no. È stato distrutto un pregiudizio relativo all’essenza divina; con lo stesso colpo, è stata constatata l’indipendenza dell’uomo; ecco tutto. La realtà dell’Essere divino è stata pregiudicata, e la nostra ipotesi sussiste sempre. Dimostrando, a proposito della Provvidenza, che era impossibile che Dio fosse, abbiamo fatto un primo passo nella determinazione dell’idea di Dio; ora si tratta di sapere se questo primo passo va d’accordo con ciò che rimane dell’ipotesi, per conseguenza si tratta di determinare, dal medesimo punto di vista dell’intelligenza, ciò che Dio è, se egli esiste.

Poiché, nello stesso modo che dopo aver constatata la colpevolezza dell’uomo sotto l’influenza delle contraddizioni economiche, abbiamo dovuto dare ragione di questa colpevolezza, sotto pena di lasciare l’uomo mutilato, e di avere fatto di lui una satira disprezzabile; nello stesso modo, dopo aver riconosciuta la chimera di una Provvidenza in Dio, dobbiamo cercare in qual modo questo difetto della Provvidenza si concili con l’idea di una intelligenza e di una libertà sovrane, sotto pena di mancare all’ipotesi proposta, e che nulla ancora prova essere falsa.

Dunque, affermo che Dio, se un Dio c’è, non assomiglia punto all’effige che ne hanno fatto i filosofi e i preti; che non pensa e non agisce secondo la legge di analisi, di previdenza e di progresso, che è il segno distintivo dell’uomo; che, al contrario, pare piuttosto seguire una marcia inversa e retrograda; che l’intelligenza, la libertà, la personalità in Dio sono costituite diversamente che in noi; e che questa originalità di natura, perfettamente motivata, fa di Dio un essere essenzialmente anti-civilizzatore, anti-liberale, anti-umano.

Provo la mia proposizione andando dal negativo al positivo, cioè deducendo dalle obiezioni la verità della mia tesi del progresso.

1° – Dio, dicono i credenti, non può essere concepito che come infinitamente buono, infinitamente saggio, infinitamente potente, ecc., tutta la litania degli infiniti.

Ora, l’infinita perfezione non si può conciliare col dato di una volontà indifferente o reazionaria al progresso; dunque, o Dio non esiste, o l’obiezione dedotta dallo sviluppo delle antinomie, è prova dell’ignoranza in cui noi siamo dei misteri dell’infinito.

Rispondo a questi ragionatori che se, per legittimare un’opinione del tutto arbitraria, basta basarsi sulla profondità dei misteri, io amo tanto il mistero di un Dio senza Provvidenza, quanto quello di una Provvidenza senza efficacia. Ma, alla presenza dei fatti, non vi è mezzo d’invocare un simile probabilismo; bisogna attenersi alla positiva dichiarazione dell’esperienza. Ora, l’esperienza e i fatti provano che l’umanità, nel suo sviluppo, obbedisce a una inflessibile necessità, le cui leggi si svolgono, e il cui sistema si realizza a misura che la ragione collettiva lo scopre, senza che nulla, nella società attesti un’esterna istigazione, né un provvidenziale comandamento, né alcun sovrumano pensiero. Ciò che fece credere alla Provvidenza, è questa necessità stessa, che è come il fondo e l’essenza dell’umanità collettiva. Ma, questa necessità per sistematica e progressiva che essa appaia, non costituisce per ciò, né nell’umanità né in Dio, una Provvidenza; basta, per convincersene, ricordarsi le infinite oscillazioni, e i dolorosi tentativi con i quali si manifesta l’ordine sociale.

2° – Altri argomentatori in contrasto dicono: con qual scopo queste ricerche astruse? Non vi è più intelligenza che Provvidenza; non vi è né io, né volontà nell’universo, eccetto l’uomo. Tutto ciò che accade, di male come di bene, accade necessariamente. Un insieme irresistibile di cause e di effetti stringe l’uomo e la natura nella stessa fatalità; e ciò che chiamiamo in noi stessi coscienza, volontà, giudizio, ecc., non sono che particolari accidenti di un tutto eterno, immutabile, fatale.

Questo argomento è il rovescio del precedente. Consiste nel sostituire all’idea di un autore onnipossente e saggio quella di un coordinamento necessario ed eterno, ma incosciente e cieco. Questa opposizione ci fa presentire che la dialettica dei materialisti non è più solida di quella dei credenti.

Chi dice necessità o fatalità, dice ordine assoluto e inviolabile; chi al contrario dice perturbazione e disordine, afferma tutto ciò che vi è di più ripugnante alla fatalità. Ora, vi è disordine nel mondo, disordine prodotto dalla fuga di forze spontanee che non incatena potenza alcuna; come può darsi ciò, se tutto è fatale?

Ma chi non scorge che questa antica polemica del teismo e del materialismo proviene da una falsa nozione della libertà e della fatalità, due termini che furono considerati come contraddittori, mentre in realtà non lo sono? Se l’uomo è libero, si dice da alcuni, Dio, a più forte ragione, è anche libero, e la fatalità non è che una parola; – se tutto è incatenato nella natura, soggiungono altri, non vi è né libertà né Provvidenza; e ognuno s’accinge ad argomentare a perdita d’occhio, secondo la direzione presa, senza mai comprendere che questa opposizione della libertà e della fatalità non era che la distinzione naturale, ma non antitetica, dei fatti dell’attività da quelli dell’intelligenza.

La fatalità è l’ordine assoluto, la legge, il codice, il fatum, della costituzione dell’universo. Ma lungi dal fatto che questo codice escluda per se stesso l’idea di un legislatore sovrano, la suppone così naturalmente, che tutta l’antichità non ha esitato ad ammetterlo; e tutta la questione oggi consiste nel sapere se, come l’hanno creduto i fondatori delle religioni, nell’universo il legislatore abbia preceduto la legge, cioè se l’intelligenza sia anteriore alla fatalità, o se, come vogliono i moderni, sia la legge che abbia preceduto il legislatore, in altri termini, se Io spirito sia nato dalla natura. Prima o dopo, questa alternativa riassume tutta la filosofia. È minore male che si disputi sulla posteriorità o anteriorità dello spirito; ma che lo si neghi in nome della fatalità, è una esclusione per nulla giustificata. Basta, per confutarla, ricordare il fatto stesso sul quale si fonda, l’esistenza del male.

Essendo date la materia e l’attrazione, il sistema del mondo ne è il prodotto; ecco quel ch’è fatale. Essendo date due idee correlative e contraddittorie, deve seguire una composizione; ecco ancora che cosa è fatale. Ciò che ripugna alla fatalità non è la libertà, la cui destinazione al contrario è di procurare, in una certa sfera, il compimento della fatalità; è il disordine, è tutto ciò che impedisce l’esecuzione della legge. Esiste, sì o no, disordine nel mondo? I fatalisti non lo negano, poiché, per il più strano errore, è la presenza del male che li ha resi fatalisti. Ora, dico che la presenza del male, lontano dall’affermare la fatalità, rompe la fatalità, fa violenza al destino, e suppone una causa il cui effetto erroneo, ma volontario, è discorde dalla legge.

Questa causa, la chiamo libertà; e ho provato (Cap. IV) che la libertà, nello stesso modo che la ragione, che all’uomo serve da fiaccola, è altrettanto grande e perfetta quanto meglio s’armonizza con l’ordine della natura, che è la fatalità.

Dunque, opporre la fatalità all’attestazione della coscienza che si sente libera, e viceversa, è provare che si prendono le idee al contrario e che non si ha la minima conoscenza della questione. Il progresso dell’umanità si può definire l’educazione della ragione e della libertà umana con la fatalità; è assurdo riguardare questi tre termini come escludendosi l’un l’altro e inconciliabili, quando in realtà si sostengono, la fatalità servendo di base, la ragione venendo dopo, e la libertà coronando l’edificio. La ragione umana tende a conoscere e a penetrare la fatalità; la libertà aspira a conformarsi; e la critica, alla quale ci diamo in questo momento, dello sviluppo spontaneo e delle credenze istintive del genere umano, in fondo non è che uno studio della fatalità. Spieghiamo ciò.

L’uomo, dotato di attività e d’intelligenza, può smuovere l’ordine del mondo, del quale fa parte. Ma tutti i suoi traviamenti sono stati previsti, e si compiono in certi limiti che, dopo un certo numero di andate e ritorni, riconducono l’uomo all’ordine.

È da queste oscillazioni della libertà che si può determinare il giro dell’umanità nel mondo; e poiché il destino del mondo è legato a quello delle creature, è possibile risalire alla legge suprema delle cose, e fino alle fonti dell’essere.

Così non domanderò più: come mai l’uomo ha il potere di violare l’ordine provvidenziale, e come mai la Provvidenza lo lascia fare? Pongo la questione in altri termini: come mai l’uomo, parte integrante dell’universo, prodotto della fatalità, può rompere la fatalità? Come mai un’organizzazione fatale, l’organizzazione dell’umanità, è avventizia, illogica, piena di tumulti e di catastrofi?

La fatalità non dipende da un’ora, da un secolo, da mille anni: perché la scienza e la libertà, se è deciso che debbano arrivare, non giungono più presto? Per ciò che soffriamo per l’attesa, la fatalità è in contraddizione con se stessa; col male, non vi è né fatalità né Provvidenza.

In una parola, perché a ogni istante una fatalità è smentita dai fatti che succedono nel suo seno? Ecco ciò che i fatalisti debbono spiegare, come i teisti debbono spiegare ciò che può essere una intelligenza infinita, che non sa né prevedere né prevenire la miseria delle sue creature.

Ma ciò non è tutto. Libertà, intelligenza, fatalità, in fondo sono tre espressioni adeguate, che servono a designare tre facce differenti dell’essere. Nell’uomo, la ragione non è che una libertà determinata, che sente il suo limite. Ma questa libertà è, nel cerchio delle sue determinazioni, fatalità, una fatalità viva e personale. Dunque, quando la coscienza del genere umano proclama che la fatalità dell’universo, cioè la più grande, la suprema fatalità, è adeguata a una ragione come a una libertà infinita, essa non fa che emettere una ipotesi in ogni modo legittima, la cui verificazione si impone a tutti i partiti.

3° – Attualmente gli umanisti, i nuovi atei, si presentano e dicono: l’umanità, nel suo insieme, è la realtà perseguitata dal genio sociale sotto il nome mistico di Dio. Questo fenomeno della ragione collettiva, specie di miraggio nel quale l’umanità, contemplando se stessa, si crede un essere esteriore e trascendente che lo guarda e presiede ai suoi destini, questa illusione della coscienza, diciamo, è stata analizzata e spiegata: e d’ora innanzi è meglio ritornare indietro nella scienza che riprodurre l’ipotesi teologica. Bisogna attaccarsi unicamente alla società, all’uomo. Dio in religione, lo Stato in politica, la proprietà in economia, tale è la triplice forma sotto la quale l’umanità, divenuta straniera a se stessa, non ha cessato di lacerarsi con le proprie mani, e che deve oggi rigettare.

Ammetto che l’affermazione o l’ipotesi della Divinità proviene da un antropomorfismo, e che Dio non è dapprima che l’ideale, o, per meglio dire, lo spettro dell’uomo. Ammetto di più che l’idea di Dio è il tipo e il fondamento del principio di autorità e di arbitrio, che il nostro compito è di distruggere o almeno di limitare dovunque si manifesti, nella scienza, nel lavoro, nella città. Così non contraddico l’umanismo, ma lo prolungo. Impadronendomi della sua critica dell’essere divino, e applicandola all’uomo, osservo:

– Che l’uomo, adorandosi come Dio, ha posto da se stesso un ideale contrario alla propria essenza, e si è dichiarato antagonista dell’essere creduto sovranamente perfetto, in una parola, dell’infinito.

– Che l’uomo non è di conseguenza, a suo giudizio, che una falsa divinità, poiché affermando Dio, nega se stesso; e che l’umanismo è una religione tanto detestabile quanto tutti i teismi di antica origine.

– Che questo fenomeno dell’umanità che si prende per Dio non si spiega con i termini dell’umanismo, e reclama un’ulteriore interpretazione.

Dio, secondo il concetto teologico, non è solo l’arbitro sovrano dell’universo, il re infallibile e irresponsabile delle creature, il tipo intelligibile dell’uomo; è l’essere eterno, immutabile, presente dovunque, infinitamente saggio, infinitamente libero. Ora, questi attributi di Dio contengono più che un ideale, più che un’elevazione a potenza degli attributi corrispondenti dell’umanità; dico che ne sono la contraddizione.

Dio è contraddittorio all’uomo; nello stesso modo che la carità lo è alla giustizia: la santità, ideale della perfezione, alla perfettibilità; la dignità regia, ideale della potenza legislativa, alla legge, ecc. Di maniera che l’ipotesi divina rinasce dalla sua risoluzione nella realtà umana e il problema di un’esistenza completa, armonica e assoluta, sempre allontanato, ritorna sempre.

Per dimostrare questa antinomia radicale, basta mettere i fatti in paragone delle definizioni.

Di tutti i fatti, il più certo, il più costante, il più indubitabile, è certamente che nell’uomo la conoscenza è progressiva, metodica, riflessiva, in una parola, sperimentale; a tal segno che tutta la teoria privata della sanzione dell’esperienza, cioè della costanza e della serie delle sue rappresentazioni, manca per ciò stesso di carattere scientifico. A questo riguardo, non si saprebbe sollevare il minimo dubbio. I matematici stessi, qualificati puri, ma assoggettati alla serie delle proposizioni, per ciò stesso rivelano l’esperienza, e riconoscono la loro legge.

La scienza dell’uomo, partendo dall’osservazione acquistata, progredisce e avanza in una sfera senza limiti. Il termine al quale mira, l’ideale che tenta di realizzare, ma senza mai poterlo raggiungere e anzi tornando indietro senza posa, è l’infinito, l’assoluto.

Ora, che cosa sarebbe una scienza infinita, una scienza assoluta, determinando una libertà pure infinita, come la speculazione la suppone in Dio? Sarebbe una conoscenza non solo universale, ma intuitiva, spontanea, pura da ogni esitazione come da ogni obiettività, quantunque abbracci in una volta il reale e il possibile; una scienza certa, ma non dimostrativa; completa, non dedotta; una scienza che, essendo eterna nella formazione, sarebbe spoglia d’ogni carattere di progresso nel rapporto delle sue parti.

La psicologia ha raccolto numerosi esempi di questo modo di conoscere: le facoltà istintive e divinatorie degli animali; l’intelletto spontaneo di certi uomini nati calcolatori e artisti, indipendentemente da ogni educazione; infine, la maggior parte delle istituzioni umane e dei monumenti primitivi, prodotti di un genio incosciente e indipendente dalle teorie. E i movimenti così regolari, così complicati dei corpi celesti; le meravigliose combinazioni delle materie; non si dirà che tutto ciò è effetto di un istinto particolare, inerente agli elementi?...

Dunque, se Dio esiste, qualche cosa di lui ci appare nell’universo e in noi stessi; ma questo qualche cosa è in opposizione flagrante con le nostre tendenze più autentiche, col nostro più certo destino; questo qualche cosa si cancella continuamente dall’anima con l’educazione, e ogni nostra cura è di farlo sparire.

Dio e uomo sono due nature che si sfuggono, da quando si conoscono; non si riconcilieranno a meno di una trasformazione dell’uno o dell’altro o di tutti e due? Come mai, se il progresso della ragione ha per scopo di allontanarci sempre dalla Divinità, Dio e l’uomo, nella ragione, sarebbero così identici? Come mai, in conseguenza, l’umanità con l’educazione potrebbe diventare Dio?

Prendiamo un altro esempio.

Il carattere essenziale della religione è il sentimento. Con la religione, l’uomo attribuisce a Dio il sentimento, come gli attribuisce la ragione; di più afferma, seguendo il cammino ordinario delle sue idee, che il sentimento in Dio, nello stesso modo che la scienza, è infinito.

Ora, solo ciò basta per cambiare in Dio la qualità del sentimento, e farne un attributo totalmente distinto da quello dell’uomo. Nell’uomo, il sentimento deriva da diverse sorgenti; si contraddice, si turba, si tormenta da se stesso; senza di ciò non si avvertirebbe. In Dio, al contrario, il sentimento è infinito, cioè pieno, fisso, limpido, al disopra delle tempeste, e non avente alcun bisogno d’inasprirsi col contrasto per arrivare alla felicità. Facciamo noi stessi l’esperienza di questo modo divino di sentire, allorché un unico sentimento, togliendoci tutte le facoltà, come nell’estasi, impone silenzio momentaneamente a tutti gli altri affetti. Ma questo rapimento non esiste che per mezzo del contrasto e con una specie di provocazione avvenuta altrove; non è mai perfetto, dove arriva alla pienezza, è come l’astro che raggiunge il suo apogeo in un istante indivisibile.

Così, viviamo, sentiamo, pensiamo, per una serie d’opposizioni e di scosse, per una guerra intestina; il nostro ideale non è un infinito, ma un equilibrio; l’infinito esprime una cosa diversa.

Si dice: Dio non ha attributi che gli siano propri; i suoi attributi sono quelli dell’uomo; dunque, l’uomo e Dio, fanno una sola e medesima cosa.

Tutto al contrario, gli attributi dell’uomo, essendo infiniti in Dio, sono per ciò stesso propri e specifici; è il carattere dell’infinito di diventare specialità, essenza, perciò esiste il finito.

Dunque si neghi la realtà di Dio, come si nega la realtà di una idea opposta; si respinga dalla scienza e dalla morale questo fantasma incomprensibile e insanguinato, che più si allontana, più sembra perseguitarci; ciò può, fino a un certo punto, giustificarsi, e in ogni caso non può nuocere, Ma non si faccia di Dio l’umanità, poiché sarebbe calunniare l’uno e l’altra.

Si dirà che l’opposizione tra l’uomo e l’essere divino è illusoria, e che proviene dall’opposizione che esiste tra l’uomo individuale e la natura dell’umanità intera? Allora è necessario sostenere che l’umanità, poiché si deifica, è infinita in tutto; ciò che è smentito non solo dalla storia, ma dalla psicologia.

Non è così che bisogna intenderla, esclamano gli umanisti. Per avere l’ideale dell’umanità, bisogna considerarla non nel suo sviluppo storico, ma nell’insieme delle sue manifestazioni, come se tutte le umane generazioni, riunite in un medesimo istante, formassero un solo uomo, un uomo infinito e immortale.

Vuol dire che si abbandona la realtà per cogliere una proiezione, che l’uomo vero non è l’uomo reale; che per trovare il vero uomo, l’ideale umano, bisogna uscire dal tempo ed entrare nell’eterno, che dico? abbandonare il finito per l’infinito, l’uomo per Dio! L’umanità, quale la conosciamo, quale si sviluppa, quale in una parola può esistere, è diritta; ci si fa vedere l’immagine al rovescio come in un cristallo, e poi ci si dice: Ecco l’uomo! E io rispondo: Non è più l’uomo, è Dio. L’umanismo è il più perfetto teismo.

Cosa dunque è questa provvidenza, che suppongono in Dio i teisti? Una facoltà essenzialmente umana, un attributo antropomorfico, col quale Dio è creduto guardare nell’avvenire secondo il progresso degli avvenimenti, nello stesso modo che noi uomini guardiamo al passato, seguendo la prospettiva della cronologia e della storia.

Ora è manifesto che come l’infinito, cioè l’intuizione spontanea e universale nella scienza ripugna all’umanità, così la provvidenza ripugna all’ipotesi di un essere divino. Dio, per cui tutte le idee sono eguali e simultanee; Dio, la cui ragione non separa la sintesi dall’antinomia; Dio, cui l’eternità rende tutte le cose presenti e contemporanee, non ha potuto, creandoci, rivelarci il mistero delle nostre contraddizioni; e ciò perché non vede la contraddizione, perché la sua intelligenza non va soggetta alla categoria del tempo e alla legge del progresso, che la sua ragione è intuitiva, e la sua scienza infinita.

La provvidenza in Dio è una contraddizione in un’altra contraddizione; è per la provvidenza che Dio fu veramente fatto ad immagine dell’uomo; togliete questa provvidenza, Dio cessa d’essere uomo, e l’uomo a sua volta deve abbandonare tutte le pretese alla divinità.

Forse si domanderà che cosa serve a Dio avere la scienza infinita, se ignora ciò che accade nell’umanità.

Distinguiamo. Dio ha la percezione dell’ordine, il sentimento del bene. Ma quest’ordine, questo bene, lo vede come eterno e assoluto; non lo vede in ciò che offre di successivo e d’imperfetto; non ne comprende i difetti. Noi soli siamo capaci di vedere, di sentire e di apprezzare il male, come di misurare la durata; poiché siamo capaci di produrre il male e la nostra vita è temporanea. Dio non vede, non sente che l’ordine; Dio non comprende ciò che accade, perché ciò che accade è al disotto di lui, al disotto del suo orizzonte. Noi, al contrario, vediamo in una volta il bene e il male; il temporaneo e l’eterno, l’ordine e il disordine, il finito e l’infinito; vediamo in noi e fuori di noi; e la nostra ragione, finita, oltrepassa il nostro orizzonte.

Così, con la creazione dell’uomo e lo sviluppo della società, una ragione finita e provvidenziale, la nostra, è stata messa in opposizione alla ragione intuitiva e infinita, Dio; di modo che, Dio, senza perdere nulla della sua infinità in ogni senso, pare, per il solo fatto dell’esistenza dell’umanità, diminuito. La ragione progressiva risultando dalla proiezione delle idee eterne sul piano mobile e inclinato del tempo, l’uomo può intendere il linguaggio di Dio, perché egli viene da Dio, e la sua ragione è simile nel principio a quella di Dio; ma Dio non ci può intendere, né venire fino a noi, perché è infinito, e non può rivestire gli attributi del finito, senza cessare di essere Dio, senza distruggersi. Il dogma della provvidenza in Dio è dimostrato falso in fatto e in diritto.

È facile ora vedere in che modo la stessa argomentazione si rivolge contro il sistema della deificazione dell’uomo.

Affermandosi da uomo fatalmente Dio come assoluto e infinito nei suoi attributi, in quanto egli stesso si sviluppa in senso inverso a questo ideale, vi è disaccordo tra il progresso dell’uomo e ciò che l’uomo accetta come Dio. Da una parte, è manifesto che l’uomo, col sincretismo della sua costituzione e con la perfettibilità della sua natura, non è Dio né lo potrebbe diventare; dall’altra, è certo che Dio, l’Essere supremo, è agli antipodi dell’umanità, la sommità ontologica da cui essa si allontana indefinitamente.

Dio e l’uomo essendosi distribuite, per così dire, le facoltà antagoniste dell’essere, paiono giocare una partita della quale il prezzo è il comando dell’universo: all’uno la spontaneità, l’immanenza, l’infallibilità, l’eternità; all’altro la previdenza, la deduzione, la mobilità, il tempo. Dio e l’uomo si tengono a bada continuamente e si sfuggono senza posa, mentre che questo cammina, senza mai riposarsi, con la riflessione e con la teoria, il primo, per la sua provvidenziale incapacità, pare trarsi indietro con la spontaneità della sua natura. Vi è contraddizione tra l’umanità e il suo ideale, opposizione tra l’uomo e Dio, opposizione che la teologia cristiana aveva posto in allegoria e personificata col nome di Diavolo o Satana, cioè contraddittore, nemico di Dio e dell’uomo.

Tale è l’antinomia fondamentale della quale trovo che i critici moderni non hanno tenuto conto, e che, se la si trascura, dovendo arrivare alla negazione dell’uomo-Dio, per conseguenza alla negazione di tutta questa esposizione filosofica, riapre la porta alla religione e al fanatismo.

Dio, secondo gli umanisti, non è altro che l’umanità stessa, l’io collettivo al quale si sottomette, come a un padrone invisibile, l’io individuale. Ma perché questa singolare visione, se il ritratto è calcato fedelmente sull’originale?

Perché l’uomo, che dalla nascita conosce direttamente e senza telescopio il corpo, l’anima, il capo, il prete, la patria, lo Stato, ha dovuto vedersi come in uno specchio, e senza conoscersi, sotto l’immagine fantastica di Dio? Dov’è la necessità di questa allucinazione? Cos’è mai questa coscienza torbida e losca, che, dopo un certo tempo, si purifica, si riordina, e invece di prendersi per un’altra, si prende definitivamente come tale? Perché per parte dell’uomo questa confessione trascendentale della società, allorché la società stessa era là, presente, visibile, palpabile, volente e agente; allorché infine era conosciuta come società e chiamata per nome.

Si dice: no, la società non esisteva; gli uomini erano agglomerati, ma non associati; la costituzione arbitraria della proprietà e dello Stato, come il dogmatismo intollerante della religione, lo provano.

Pura retorica: la società esiste dal giorno in cui gl’individui, comunicando col lavoro e con la parola, hanno acconsentito a obbligazioni reciproche e dato luogo a leggi e costumi.

Senza dubbio la società si perfeziona a misura del progresso della scienza e dell’economia; ma in nessuna epoca della civiltà il progresso implica metamorfosi come quelle che hanno sognate i facitori d’utopie; e per quanto debba essere eccellente la futura condizione dell’umanità, essa non sarà che la continuazione naturale, la necessaria conseguenza delle sue anteriori posizioni.

Del resto, nessun sistema di associazione escludendo per se stesso, come feci vedere, la fratellanza e la giustizia, l’ideale politico giammai ha potuto essere confuso con Dio, e si vede in effetti che presso tutti i popoli, la società s’è distinta dalla religione. La prima era presa per fine, la seconda solo considerata come mezzo; il principe fu il ministro della volontà collettiva, mentre Dio regnava sulle coscienze, attendendo al di là della tomba i colpevoli sfuggiti alla giustizia degli uomini. L’idea stessa di progresso e di riforma non ha fatto difetto in alcuna parte; infine nulla di ciò che costituisce la vita sociale è stato presso alcuna nazione religiosa interamente ignorato e disconosciuto. Perché, ancora una volta, questa tautologia della società-Divinità, se è vero, come lo si pretende, che l’ipotesi teologica non contiene che l’ideale della società umana, il tipo preconosciuto dell’umanità trasfigurata da uguaglianza, solidarietà, lavoro e amore?...

Certamente, se è un pregiudizio, un misticismo il cui inganno mi pare oggi temibile, non è già più il cattolicesimo che se ne va, sarà piuttosto questa filosofia umanitaria, che fa dell’uomo, sulla fede di una speculazione troppo sapiente per non essere mista all’arbitrio, un essere santo e sacro; proclamandolo Dio, cioè essenzialmente buono e ordinato in tutte le sue potenze, malgrado le testimonianze disperate ch’egli non cessa di dare della sua moralità incerta; attribuendo i suoi vizi alla violenza nella quale ha vissuto, e promettendosi da se stesso, con una libertà completa, gli atti della più pura devozione, poiché nei miti in cui l’umanità, seguendo questa filosofia, s’è dipinta essa stessa, si trovano rappresentati e opposti l’uno all’altro, sotto il nome d’inferno e di paradiso, un tempo di violenza e di pena e un’era di felicità e d’indipendenza! Con una simile dottrina, basterà, cosa inevitabile, che l’uomo riconosca che non è né Dio né buono né santo né saggio perché si abbandoni subito nelle braccia della religione; così che in ultima analisi, tutto ciò che il mondo avrà guadagnato con la negazione di Dio, sarà la risurrezione di Dio.

Secondo me, non è questo il senso delle favole religiose. L’umanità, riconoscendo Dio quale suo autore, suo padrone, suo alter ego, non ha fatto che determinare con un’antitesi la propria natura; natura eclettica e piena di contrasti, emanata dall’infinito e opposta all’infinito, sviluppata nel tempo e aspirante all’eternità, per tutte queste ragioni, fallibile, quantunque guidata dal sentimento del bello e dell’ordine. L’umanità è figlia di Dio, come ogni opposizione è figlia di una posizione anteriore; è per ciò che l’umanità ha scoperto Dio simile a sé, che gli ha prestato i propri attributi, ma dando sempre loro una immagine di carattere specifico, cioè definendo Dio contrariamente a se stessa. L’umanità è uno spettro per Dio, come egli è uno spettro per l’umanità; ciascuno dei due è per l’altro causa, ragione e fine d’esistenza.

Non era sufficiente avere dimostrato, con la critica delle idee religiose, che il concetto dell’io divino si riconduce alla percezione dell’io uomo; era necessario controllare questa deduzione con una critica dell’umanità stessa, e vedere se questa umanità soddisfaceva alle condizioni che la sua apparente deità supponeva. Ora, questo è il lavoro che abbiamo solennemente inaugurato, allorché, partendo in una volta dalla realtà umana e dall’ipotesi divina, abbiamo cominciato a svolgere la storia della società nei suoi stabilimenti economici e nei suoi pensieri speculativi.

Abbiamo constatato, da una parte, che l’uomo, quantunque provocato dall’antagonismo delle sue idee, quantunque fino a un certo punto scusabile, compie il male gratuitamente e con lo sfogo bestiale delle sue passioni, ciò che ripugna al carattere di un essere libero, intelligente e santo. Abbiamo fatto vedere, dall’altra parte, che la natura dell’uomo non è costituita armonicamente e sinteticamente, ma formata da agglomerazioni di virtualità specializzate in ogni creatura, circostanza che, rivelandoci il principio dei disordini commessi dalla libertà umana, ha finito di dimostrarci la non-Divinità della nostra specie. Infine, dopo aver provato che in Dio la provvidenza non solo non esiste, ma è impossibile; dopo avere, in altri termini, separato nell’Essere infinito gli attributi divini dagli attributi antropomorfici, abbiamo concluso, contrariamente alle affermazioni della vecchia teodicea, che relativamente al destino dell’uomo, destino essenzialmente progressivo, l’intelligenza e la libertà in Dio soffrivano un contrasto, una specie di limitazione e di diminuzione risultante dal loro carattere d’eternità, d’immutabilità e d’infinità; di modo che l’uomo invece di adorare in Dio il suo sovrano e la sua guida, non poteva e non doveva vedere in lui che il suo antagonista. E quest’ultima considerazione sarà sufficiente a farci rigettare anche l’umanismo, come tendente invincibilmente, con la deificazione dell’umanità, a una restaurazione religiosa. Il vero rimedio al fanatismo, secondo noi, non è identificare l’umanità con Dio, ciò che viene ad affermare, in economia sociale, la comunità, in filosofia il misticismo e lo statu quo; ma di provare all’umanità che Dio, nel caso che vi sia un Dio, è suo nemico.

Quale soluzione più tardi uscirà da questi dati? Dio alla fine si troverà forse ad essere qualche cosa?

Non lo so. Se è vero, da un lato, che io non abbia oggi più ragione di affermare la realtà dell’uomo, essere illogico e contraddittorio, che la realtà di Dio, essere inconcepibile e non manifesto, so almeno, per la radicale opposizione di queste due nature, che non ho nulla da sperare né da temere dall’autore misterioso che involontariamente suppone la mia coscienza; so che le mie tendenze le più autentiche mi allontanano ogni giorno dalla contemplazione di questa idea; che l’ateismo pratico deve essere in avvenire la legge del mio cuore e della mia ragione; che è osservabile fatalità che debba apprendere incessantemente la regola della mia condotta; che ogni comandamento mistico, ogni diritto divino che mi sarà proposto, deve essere respinto e combattuto; che il ritorno a Dio con la religione, la pigrizia, l’ignoranza o la sottomissione, è un attentato contro me stesso; e che se un giorno dovessi riconciliarmi con Dio, questa riconciliazione, impossibile finché vivo, e nella quale avrei tutto da perdere, niente da guadagnare, non si può compiere che con la mia distruzione.

Concludiamo, e scriviamo sulla colonna che deve servire alle nostre ulteriori ricerche per punto di riferimento:

Il legislatore non si fida dell’uomo, compendio della natura e sincretismo di tutti gli esseri. – Non fa assegnamento sulla Provvidenza, facoltà inammissibile nello spirito infinito.

Ma, attento alla successione dei fenomeni, docile alle lezioni del destino, cerca nella fatalità la legge dell’umanità, la perpetua profezia dell’avvenire.

Si ricorda anche, qualche volta, che se il sentimento della Divinità affievolisce tra gli uomini; se l’ispirazione dall’alto si ritira progressivamente per fare posto alle deduzioni dell’esperienza; se vi è scissione di più in più flagrante tra l’uomo e Dio; se questo progresso, forma e condizione della vita, sfugge alle percezioni di una intelligenza infinita e per conseguenza antistorica; se, per dire tutto, il richiamo alla Provvidenza da parte di un Governo è nello stesso tempo una codarda ipocrisia e una minaccia alla libertà; nondimeno il consenso universale dei popoli, manifestato con lo stabilimento di tanti diversi culti, e la contraddizione per sempre insolubile che tocca l’umanità nelle sue idee, le sue manifestazioni e le sue tendenze, indicano un rapporto segreto dell’anima, e per essa dell’intera natura, con l’infinito, rapporto la cui determinazione esprimerebbe nello stesso tempo il senso dell’universo e la ragione della nostra esistenza.

IX. Epoca sesta. La bilancia del commercio

1. – Necessità del libero commercio

Ingannato sull’efficacia delle misure regolamentari, e disperando di trovare nel suo interno un compenso al proletariato, la società cerca delle garanzie al di fuori. Tale è il movimento dialettico che, nell’evoluzione sociale, conduce alla fase del commercio estero, la quale si formula subito in due teorie contraddittorie, la libertà assoluta e l’interdizione, e si riassume nella celebre formula della bilancia del commercio. Esamineremo successivamente ciascuno di questi punti di vista.

Nulla di più legittimo che il pensiero del commercio estero, il quale, aumentando lo smercio e per conseguenza il lavoro, e così pure il salario, deve assegnare al popolo una sovrimposta, così senza profitto e disgraziatamente immaginata per lui. Quello che il lavoro non ha potuto ottenere dal monopolio come cespite di tasse, lo trarrà di più dal commercio; e lo scambio dei prodotti, organizzato fra popolo e popolo, procurerà un sollievo alla miseria.

Ma il monopolio, come se avesse a farsi risarcire dei pesi che deve sopportare, e che in realtà non sopporta, il monopolio si oppone, a nome e nell’interesse dello stesso lavoro, al libero scambio, e reclama il privilegio del mercato nazionale. Da una parte dunque la società tende a dominare il monopolio con l’imposta, l’ordine e la libertà del commercio: dall’altra il monopolio reagisce contro la tendenza suddetta, e perviene quasi sempre a soffocarla, con l’analogia delle contribuzioni, con la libera determinazione del salario e con la dogana.

Di tutte le questioni economiche nessuna è stata più vivamente dibattuta di quella del principio protettore; nessuna ha fatto meglio emergere lo spirito sempre esclusivo della scuola economista, che, derogando su questo punto alle sue abitudini conservatrici, e facendo di tratto in tratto un voltafaccia, si è risolutamente pronunciata contro la bilancia del commercio. Mentre gli economisti si mostrano sempre guardiani vigilanti di tutti i monopoli e della proprietà, si tengono sulla difensiva e si limitano a mettere da parte, come utopie, le opinioni dei novatori; circa la questione proibitiva essi stessi hanno cominciato l’attacco; hanno gettato la croce addosso al monopolio, come se il monopolio fosse apparso loro per la prima volta; e hanno rotto la faccia alla tradizione, agli interessi locali, ai princìpi conservatori, alla politica loro sovrana e, per tutto dire, al senso comune. È bensì vero che nonostante i loro anatemi e le loro dimostrazioni pretenziose, il sistema proibitivo è oggi così in vigore, malgrado l’agitazione anglo-francese, com’era ai tristi aborriti tempi di [Jean-Baptiste] Colbert e di Filippo II. A questo riguardo si può dire che le declamazioni della setta, come si nominò la scuola economista un secolo fa, provano a ogni parola il contrario di ciò che asseriscono e sono accolte con la stessa diffidenza delle prediche comuniste.

Dunque devo provare, in conformità al metodo adottato in questa opera, in primo luogo, contro i seguaci del sistema proibitivo, che la libertà del commercio è di necessità economica nello stesso modo che è necessità naturale; in secondo luogo, contro gli economisti anti-protettori, che questa medesima libertà, che essi guardano come la distruzione del monopolio, è al contrario l’ultimo colpo dato per l’edificazione di tutti i monopoli, la consolidazione della feudalità mercantile, la solidarietà di tutte le tirannie, come pure di tutte le miserie. Terminerò con la soluzione teorica di questa contraddizione apparente, soluzione conosciuta, in tutti i secoli, sotto il nome di bilancia del commercio.

Gli argomenti che si fanno valere in favore dell’assoluta libertà di commercio sono conosciuti: li accetto in tutta la loro estensione; mi basterà solo richiamarli in qualche pagina. Lasciamo parlare gli economisti stessi: “Supponete le dogane trascurate, cosa succederà? Dapprima si avranno infinite guerre di meno; i diritti di frode e di contrabbando non esisteranno più, e cesseranno d’esistere le leggi penali per la loro repressione, le rivalità nazionali nate da interessi rivali di commercio e d’industria saranno sconosciute; non più frontiere politiche; i prodotti circoleranno di territorio in territorio senza ostacoli, con grandissimo profitto dei produttori; gli scambi si estenderanno sopra una vasta scala; le crisi commerciali, l’impaccio, la penuria diventeranno fatti eccezionali; gli scambi si faranno nella più ampia estensione della parola, e ciascun produttore avrà per mercato il mondo...”.

Qui abbrevio questa descrizione, degenerata in una fantasmagoria, il cui autore, [William] Fox, in altro luogo non si è ingannato. La fortuna dell’umanità non bada a quella meschina cosa che è il gabelliere; e quando la dogana non fosse mai esistita, sarebbe bastata l’influenza della divisione del lavoro, delle macchine, della concorrenza, del monopolio e della polizia per creare dappertutto l’oppressione e il dispotismo.

Quello che segue non merita alcun rimprovero. “Supponiamo che un funzionario di ciascun Governo si presenti a dire: Ho trovato un mezzo per affrettare e aumentare la prosperità dei miei concittadini; e siccome sono convinto dell’eccellenza dei risultati della combinazione, il mio governo sta per applicarlo in tutta la sua estensione. Per l’avvenire non avrete più alcuni nostri prodotti, noi non avremo più che qualcuno dei vostri; le nostre frontiere saranno accerchiate da un’armata che farà la guerra alle merci, che respingerà totalmente le une, e ammetterà le altre mediante una formidabile esazione; che farà pagare tutto ciò che oserà entrare e uscire; visiterà i convogli, i carri, le balle, le casse e persino i pacchi microscopici; fermerà per giorni e ore i mercanti alla frontiera; li svestirà per trovargli fra la camicia e la pelle qualche cosa che non deve entrare né uscire. A quest’esercito, munito di fucili e di sciabole, corrisponderà un altro esercito munito di penne, più formidabile ancora del primo. Regolerà o farà regolare continuamente; getterà il mercante di perplessità in perplessità con ordini, circolari e istruzioni d’ogni genere; egli non sarà mai sicuro di salvare la sua merce dalla confisca o dall’ammenda; e abbisognerà un’attenzione particolare per non avere contese con l’uno o con l’altro dei due eserciti. E tutto questo lo troverete presso di noi come agli antipodi; e più andrete innanzi, più incontrerete ostacoli e danni; più farete sacrifici e meno avrete profitti. Ma, per mezzo di tale combinazione sarete sicuri di vendere ai vostri concittadini, ai quali è vietato di acquistare fuori. Baratterete con un piccolo monopolio un grande mercato, per non avere più concorrenza, e sarete i padroni del consumo interno. Quanto al consumatore non se ne occuperà. Pagherà più caro e godrà meno; sarà un sacrificio che farà alla cosa pubblica, cioè all’industria e al commercio, che il Governo intende proteggere in modo nuovo ed efficace”.

Io ho riportato per esteso questo argomento negativo, e forse troppo poetico, per soddisfare tutte le intelligenze. Davanti al pubblico non si difende meglio la libertà che schierandogli dinanzi agli occhi le statistiche della miseria e della schiavitù. Nondimeno, siccome questo argomento in se stesso non prova né spiega cosa alcuna, bisogna dimostrare teoricamente la necessità del libero commercio.

La libertà del commercio è necessaria allo sviluppo economico, alla creazione del benessere umano, sia che si consideri ciascuna società nella sua unità nazionale e come una parte di tutta la specie, sia che non si scorga in essa che un’agglomerazione di individui liberi, padroni dei loro beni e delle loro persone.

E in primo luogo, le nazioni sono le une rispetto alle altre, come delle grandi individualità fra le quali venne un tempo divisa la coltivazione del globo. Questa idea è tanto vecchia quanto il mondo; la leggenda di Noè che divide la terra fra i suoi figli, non ha altra spiegazione. È possibile che la terra sia stata divisa in una miriade di parti, in ognuna delle quali abbia vissuto una piccola società senza uscire e senza comunicare con i suoi vicini? Per convincersi dell’assoluta impossibilità di una simile ipotesi, basta gettare uno sguardo sulla varietà degli oggetti che servono ai bisogni non solo del ricco, ma del più modesto operaio, e domandarsi se tale varietà fu possibile acquistarla con l’isolamento. Andiamo fino alla fine: l’umanità è progressiva; è quello il suo tratto distintivo, il suo carattere essenziale. Dunque il regime parcellare è inapplicabile all’umanità, e il commercio internazionale è la prima condizione, il sine qua non della nostra perfezione.

Come il semplice operaio, ciascuna nazione ha bisogno di scambio: è per mezzo di esso che cresce in ricchezza, intelligenza e dignità. Tutto quello che abbiamo detto circa la costituzione e il valore fra i membri di una stessa società, è vero per le società fra loro; e nello stesso modo che ciascun corpo politico raggiunge il suo stato normale mediante lo scioglimento progressivo delle antinomie che si sviluppano in esso, è pure mediante un’analoga equazione fra le nazioni che l’umanità cammina verso la sua costituzione unitaria. Il commercio fra nazione e nazione deve dunque essere il più libero possibile, così che nessuna nazione venga scomunicata dal genere umano, per favorire l’unione di tutte le attività e specialità collettive, e accelerare l’epoca, prevista dagli economisti, nella quale tutte le razze non formeranno più che una sola famiglia, e il globo un laboratorio.

Una prova non meno concludente circa la necessità del commercio libero si deduce dalla libertà individuale e dalla costituzione della società in monopoli, costituzione che, come già abbiamo dimostrato nel corso dei capitoli antecedenti, è essa stessa una necessità della natura e della condizione dei lavoratori.

Secondo il principio dell’appropriazione individuale e dell’uguaglianza civile, non riconoscendo la legge alcuna solidarietà da produttore a produttore, e ancora meno da imprenditore a salariato, nessuno, lavorando, ha il diritto di reclamare nell’interesse del suo monopolio particolare, la dipendenza o la soggezione degli altri monopoli. La conseguenza è che ciascun membro della società ha l’illimitato diritto di provvedersi, come più gli conviene, degli oggetti necessari al consumo, e di vendere i suoi prodotti al tale produttore e per quel prezzo che può ottenere. Ogni cittadino ha dunque autorità di dire al suo Governo: o mi consegnate il sale, il ferro, il tabacco, la carne, lo zucchero al prezzo ch’io vi offro, o lasciatemi fare le provviste in un altro luogo. Perché devo sostenere, una volta che mi obbligate a pagare, industrie che mi rovinano, fornitori che mi rubano? Ciascuno nel suo monopolio, ciascuno per il suo monopolio; e la libertà di commercio per tutto il mondo.

In un sistema democratico, la dogana, istituzione d’origine signorile e regale, è una cosa odiosa e contraddittoria. O la libertà, l’uguaglianza, la proprietà sono null’altro che parole, e la Carta un foglio inutile; o la dogana è una continua violazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Perciò, alla notizia dell’agitazione inglese, i fogli democratici francesi hanno generalmente partecipato al principio abolizionista. Libertà! a questa parola la democrazia si riscalda, come il toro davanti al quale si agita un drappo rosso.

Ma la migliore ragione economica della libertà del commercio è quella che si deduce dal crescere della ricchezza collettiva, e dall’aumento del benessere di ciascun proprietario, per il solo fatto dello scambio fra nazione e nazione.

Che la società, che l’operaio collettivo abbia utilità a scambiare i propri prodotti, non lo si può mettere in dubbio, perché mediante questo scambio il consumo è più svariato, e per conseguenza migliore. E, d’altra parte, grazie alla costituzione del lavoro e al patto politico, i cittadini, resi indipendenti e non solidali, hanno tutti individualmente il diritto di approfittare delle offerte dell’industria straniera, e cercarvi garanzia contro i loro rispettivi monopoli; ciò è certo. Ma fin qui non si scorge che uno scambio di valori, non si vede ancora dov’è l’aumento. Per scoprirlo bisogna considerare la cosa sotto un altro aspetto.

Si può definire lo scambio: un’applicazione della legge della divisione al consumo dei prodotti. Siccome la divisione del lavoro è il gran mezzo della produzione e della moltiplicazione dei valori, così pure la divisione del consumo, per mezzo dello scambio, è lo strumento più energico di attrazione di questi medesimi valori. In una parola, dividere il consumo per mezzo della varietà dei prodotti e dello scambio, è aumentare la potenza di consumare: nello stesso modo che, dividendo il lavoro nelle sue operazioni parcellari, si aumenta la sua potenza produttrice. Supponiamo due società sconosciute l’una all’altra, le quali consumino annualmente circa cento milioni di valori ciascuna. Se queste due società, dove supponiamo pure che i prodotti differiscano gli uni dagli altri, vengono a scambiare le loro ricchezze, dopo qualche tempo la somma del consumo, restando inalterata la cifra della popolazione, non sarà più solamente di duecento milioni, ma bensì di duecentocinquanta. In breve, gli abitanti delle due nazioni, una volta fra di loro in rapporto, non si limiteranno solo a un semplice scambio dei loro prodotti, che sarebbe una sostituzione, la varietà inviterà gli uni e gli altri a usufruire dei prodotti stranieri, senza abbandonare quelli indigeni, il che aumenterà nello stesso tempo, e da una parte e dall’altra, il lavoro e il benessere.

Allo stesso modo in cui la libertà del commercio è necessaria all’armonia e al progresso delle nazioni, così è necessaria alla certezza del monopolio e alla pienezza dei diritti politici, è ancora una causa di accrescimento della ricchezza e del benessere per i privati e per lo Stato. Queste considerazioni generali contengono tutte le ragioni che si possono addurre in favore del libero commercio, ragioni tutte che accetto anticipatamente, e sulle quali credo inutile insistere maggiormente; nessuno per altro, ch’io sappia, ne contesta l’evidenza.

Riassumendo, la teoria del commercio internazionale non è altro che un prolungamento della teoria della concorrenza fra i privati. Come la concorrenza è la garanzia naturale, non solamente del buon prezzo dei prodotti, ma anche del miglioramento del buon prezzo; così il commercio internazionale, indipendentemente dall’aumento del lavoro e dal benessere che esso crea, è la garanzia naturale di ciascuna nazione contro i propri monopoli, garanzia la quale, nelle mani di un Governo abile, può divenire uno strumento di alta politica industriale, più potente di tutte le leggi regolamentari e i calmieri.

Fatti innumerevoli, vessazioni mostruose o ridicole, vengono quindi a giustificare questa teoria. A misura che la protezione consegna al monopolio il consumatore senza difesa, si vedono i disordini più strani, le crisi più furiose agitare la società, e mettere in pericolo il lavoro e il capitale.

“Il rincaro fittizio del carbone, del ferro, delle lane, del bestiame – dice Blanqui – non è altro che una imposta prelevata sulla comunità, a profitto di qualcuno. Per quanti sforzi si facciano, la questione sarà sempre di sapere fino a quando la nazione imporrà tali pesi, in vista dei miglioramenti che sempre promette e che mai giungono, perché non possono arrivare per questa via. Il regime protezionista fra noi, come nel resto dell’Europa, tende solo a dare un impulso fittizio e dannoso ad alcune industrie, organizzate secondo il metodo inglese, a profitto quasi esclusivo del capitale. Esso esagera la produzione e restringe l’importazione straniera ed è sempre seguito da rappresaglie. Sostituisce le lotte violente della concorrenza interna all’emulazione della concorrenza esterna. Distrugge i benefici effetti della divisione del lavoro fra le nazioni. Conserva fra loro le vecchie inimicizie... Mantiene le profonde divisioni che separano troppo sovente il lavoro e il capitale, e genera il pauperismo con lo spostamento brusco degli operai”. (“Journal des Économistes”, febbraio 1842).

Tutti questi effetti del sistema protettore, illustrati da Blanqui, sono veri e sono una prova contro le pastoie arrecate alla libertà del commercio. Disgraziatamente li vediamo sorgere a ogni passo, con una intensità non meno grande, dalla libertà stessa: talché se, per guarire il male, si deve concludere con Blanqui per l’estirpazione assoluta della causa morbosa, bisognerà concludere nello stesso tempo contro lo Stato, contro la proprietà, contro l’industria, contro l’economia politica. Ma non siamo ancora arrivati alle antinomie; continuiamo le citazioni. “Il privilegio, il monopolio, la protezione, che dagli uni ricade sugli altri, salvo che sul disgraziato operaio, hanno prodotto nella distribuzione dei beni, scopo di ogni lavoro, delle vere mostruosità. Mai la libertà ha beneficamente livellata la potenza di agire; le pastoie hanno prodotto la frode; il furto, la menzogna, la violenza, sono gli ausiliari del lavoro. L’avarizia oggi reclama, senza vergogna, e come un diritto, i mezzi di accumulare a spese di tutti: la lotta è in ogni luogo, l’armonia in nessuna parte. E frattanto è verso un risultato così disastroso che noi stessi corriamo. In un paese dove il popolo è ancora nulla, si capisce questa perseveranza di sistema; ma in un paese dove il popolo è tutto, perché la sua voce resta muta? Perché, nelle discussioni economiche, il nome del popolo non è giammai pronunciato? La ragione, si grida, deve governare il mondo! Ed è dunque in nome della ragione che la nazione francese è oggi condannata a una dieta pressoché tutta vegetale? Che essa rimane senza abiti, senza camicie, senza calzari, senza mezzi di scambio, in mezzo alle meraviglie dell’intelligenza? Che la patata sostituisce già il frumento nella sua igiene; che il lavoro dà di meno in meno, come oggi in Inghilterra, un soprappiù di produzione sul consumo? È forse la ragione che abbandona il mercato, come una preda, ora agli uni, ora agli altri, senza giammai inquietarsi del prezzo dei prodotti relativamente al salario!... Da più di diciotto anni, la nazione francese è priva di carne; ogni giorno diminuisce la parte relativa a ciascun individuo; e a ogni lagnanza, noi diciamo freddamente che il prezzo di 55 franchi è necessario al produttore! Necessario! La privazione degli alimenti necessaria alla fortuna di qualcuno”. (H. Dussard, “Journal des Économistes”, aprile 1842).

Certamente, il quadro non è esagerato; e spetta agli economisti dire la verità, tutta la verità intorno alle miserie sociali, allorquando essi si trovano impegnati nell’interesse delle loro utopie. Ma, se il tanto accusato principio di protezione non è altro che il principio costitutivo dell’economia politica, il monopolio, che s’incontra in ogni dove sul sentiero, dice Rossi; se questo principio è la proprietà stessa, la proprietà, questa religione del monopolio, non ho il diritto d’essere adirato dell’inconseguenza, per non dire dell’ipocrisia degli economisti? Se il monopolio è una cosa così odiosa, perché non si attacca alla sua base? Perché lodarlo da una parte e dall’altra screditarlo? Perché questa rivolta? Ogni godimento esclusivo, qualunque appropriazione sia della terra, sia dei capitali industriali, sia di un metodo di fabbricazione, costituisce un monopolio: perché questo monopolio non diviene odioso che il giorno nel quale un monopolio straniero, suo rivale, si presenta per fargli concorrenza? Perché il monopolio è meno rispettabile fra compatriota e compatriota, che fra indigeno e straniero? Perché in Francia il Governo non osa attaccare direttamente la coalizione della cava del carbone della Loira, e invoca le armi di una santa alleanza contro le nazionali? Perché questo intervento del nemico esterno contro il nemico interno? Tutta l’Inghilterra oggi è fanatica della libertà degli scambi; sembra un appello fatto ai Russi, agli Egiziani, agli Americani dai monopolisti dell’industria in quel paese, contro i monopolisti del terreno. Perché questo tradimento, se si attacca veramente il monopolio? Milioni di braccia nude in Inghilterra non sono abbastanza forti contro qualche migliaio di aristocratici?

“Quando si dirà – esclama [Nassau] Senior, uno dei membri più influenti della lega – quando si dirà, e con tutta ragione, agli operai che il Governo ha preso l’iniziativa dell’indirizzo da darsi alle manifatture e al commercio; che esso si è servito di tale mostruosa usurpazione per il profitto (reale o supposto) di qualcuno; quando scopriranno che di tutti i monopoli che esso ha conferito, quello che difende con più accanimento è il monopolio della sussistenza; quando vedranno che è quello il monopolio che loro procura le più dure privazioni, e che rende alla classe che governa il più grande e il più immediato profitto; domandiamo, sopporteranno questi mali come una calamità provvidenziale, ovvero li guarderanno come la triste conseguenza di una ingiustizia? Se la ragione li conduce a quest’ultimo giudizio, come si manifesterà il loro disappunto? Si sottometteranno o cercheranno nella loro forza la riparazione a questa lunga ingiuria? E la loro forza è abbastanza grande per essere formidabile? A tutte queste questioni è facile rispondere. La popolazione inglese è composta di milioni di persone agglomerate nelle città, accostumate alle discussioni politiche. Esse hanno un proprio capo e una propria stampa. Sono organizzate in corpi, che chiamano unioni, e che hanno ciascuno i loro ufficiali, il loro potere esecutivo, il potere deliberativo: hanno fondi per i bisogni di ciascuna società, e fondi per i bisogni generali di tutte le società riunite. Sono use, grazie a una lunga pratica, ad eludere le leggi contro le coalizioni, a combattere e a diffidare dell’autorità dello Stato. Una tale popolazione è formidabile, anche nella prosperità; diventerà mille volte più formidabile nella disgrazia, anche quando la disgrazia non possa venire attribuita ai Governi. Ma se questa miseria può essere attribuita alla legislatura, se gli operai possono accusare la classe che governa, non più di errore, ma di furto e di oppressione; se si vedono sacrificati alla rendita del proprietario, ai benefici del piantatore, o a quelli del forestale del Canada; quali limiti si potranno assegnare agli effetti della loro collera? Siamo sicuri che la nostra ricchezza, la nostra grandezza politica, o la stessa nostra costituzione, usciranno immuni da un simile conflitto?”.

Non una parola di questa diceria che non ricada sopra gli abolizionisti.

Quando si dirà agli operai che il monopolio, dal quale si finge di volerli liberare con l’abolizione delle dogane, dinisce per ricevere nuova energia da questa abolizione; che questo monopolio, ben più profondo che non si voglia confessare, consiste, non solamente nel rifornimento esclusivo del mercato, ma bensì, ma soprattutto nell’usufrutto esclusivo del suolo e delle macchine, nell’appropriazione invadente dei capitali, nell’accaparramento dei prodotti, nell’arbitrio degli scambi; quando loro si dimostrerà che essi furono sacrificati alle speculazioni dell’aggiotaggio, abbandonati, piedi e mani legati, alla rendita del capitale; che da là sono nati gli effetti del lavoro parcellare, l’oppressione delle macchine, gli sbalzi disastrosi della concorrenza e quella iniqua derisione dell’imposta; quando loro si dimostrerà in seguito che l’abolizione dei diritti protetti non ha fatto altro che estendere le reti del privilegio, moltiplicare la spoliazione e coalizzare i monopoli di tutti i paesi contro il proletariato; quando si racconterà loro che la borghesia elettorale e dinastica, sotto colore di libertà, ha fatto i più grandi sforzi per mantenere, consolidare e preparare questo regime di menzogna e di rapina; che sono state date cattedre, proposte e decretate ricompense, salariati sofisti, stipendiati giornali, corrotta la giustizia, invocata la religione per difenderlo; che non mancarono alla tirannia del capitale né la premeditazione né l’ipocrisia né la violenza, crederete che alla fine essi non si drizzeranno nella loro collera, e che una volta padroni della vendetta si riposeranno nell’amnistia?

“Ci rincresce – soggiunge Senior – di gettare così l’allarme. Deploriamo la necessità, e la parte che rappresentiamo non ci piace molto. Ma crediamo fermamente che ci minaccino i danni che abbiamo supposti, e il nostro dovere è di fare conoscere al pubblico le basi della nostra convinzione”.

A me pure duole suonare l’allarme: e questo mestiere di accusatore che faccio è l’ultimo che si convenga alla mia natura. Ma è necessario che venga detta la verità e che si faccia giustizia; e se credo che la borghesia si sia meritata tutti i mali di cui la si minaccia, è mio dovere stabilire la sua colpevolezza.

E, in verità, cos’è questo monopolio ch’io perseguito nella sua forma più generale, mentre gli economisti non lo vedono e non lo perseguitano se non sotto l’abito del doganiere? Per l’uomo che non possiede né capitali né proprietà è l’interdizione del lavoro e del movimento, l’interdizione dell’aria, della luce e della sussistenza; è la privazione assoluta, la morte eterna. La Francia, senza abiti, senza calzature, senza camicie, senza pane e senza carne; privata di vino, di ferro, di zucchero e di combustibile; l’Inghilterra desolata da una perpetua carestia, e abbandonata agli orrori di una miseria indescrivibile; le razze impoverite, degenerate, ridiventate selvagge e truci; tali sono i segni spaventevoli con i quali si manifesta la libertà, quando essa è colpita dal privilegio, qualunque sia, e impedita nel suo sviluppo. Si crede di udire la voce di quel gran colpevole che Virgilio colloca nell’inferno, incatenato sopra un trono di marmo:

Sedet, aeternumque sedebit
Infelix Theseus, [Phlegyasque miserrimus omnes Admonet],
et magna testatur voce per umbras,
Discite justitiam moniti, et non temnere divos! [Virgilio, Eneide]

Oggi, la nazione più commerciante del mondo, la più divorata da tutti i monopoli, che protegge, consacra e professa l’economia politica, si sollevò tutta come un sol uomo contro la protezione; il Governo ha decretato, plaudente tutto il popolo, l’abolizione delle tariffe; la Francia che fermenta grazie alla propaganda economica, è alla vigilia di seguire l’impulso dell’Inghilterra e di spingere tutta l’Europa ad imitarla. Si tratta di studiare le conseguenze di questa grande innovazione, la cui origine non è abbastanza chiara ai nostri occhi, né il principio abbastanza profondo, per non ispirarci qualche diffidenza.

2. – Necessità della protezione

Se non avessi da opporre alla teoria del libero commercio che ragioni nuove, fatti che io solo per primo avessi osservato, si potrebbe credere che la contraddizione che faccio sorgere da questa teoria, altro non sia che un divertimento del mio amor proprio; una smoderata voglia di segnalarmi col paradosso; e questo pregiudizio basterebbe per screditare le mie parole.

Ma io difendo la tradizione universale, la più costante e autentica credenza; ho dalla mia parte i dubbi degli stessi economisti, e l’antagonismo dei fatti che essi riferiscono: è questo antagonismo, questo dubbio, questa tradizione ch’io voglio spiegare e che mi giustificano.

Fix, che ho citato parlando della libertà, scrittore riservato, circospetto e moderato, uno degli economisti più dotti della scuola di Say, esso stesso, con le seguenti parole, ha sostenuto il contrario della sua prima proposizione: “Gli economisti avanzati, che non ammettono alcuna eccezione, vogliono procedere con tutta l’energia e la rapidità che ispirano le profonde convinzioni: vogliono abbattere con un solo colpo le dogane, i monopoli e il personale che li sorregge. Quali sarebbero le conseguenze di una simile riforma? Se si lasciassero entrare con esenzione i tessuti stranieri, i ferri e i metalli lavorati, per un certo tempo almeno i consumatori ne risentirebbero un benessere, e alcune industrie vi troverebbero un grande profitto. Ma è certo che un mutamento così istantaneo e inatteso cagionerebbe immensi disastri nell’industria; ingenti capitali diverrebbero improduttivi; centinaia di migliaia d’operai si troverebbero di un tratto senza lavoro e senza pane. L’Inghilterra e il Belgio potrebbero, per esempio, provvedere facilmente la Francia della metà di ciò che consuma; ciò ridurrebbe alquanto la fabbricazione interna, ma causerebbe anche perdite considerevoli agli industriali capaci di proseguire la loro produzione. Si vedrebbe lo stesso risultato per l’industria dei tessuti; l’Inghilterra, il Belgio, la Germania, inonderebbero la Francia dei loro prodotti; e dinanzi a queste insolite importazioni, la maggior parte dei nostri industriali non tarderebbe a soccombere. Nessun paese osò mai fare una simile esperienza, nemmeno per un solo ramo d’industria. Gli uomini di Stato che furono e che sono ancora maggiormente attaccati alle teorie di Adam Smith, hanno retrocesso dinanzi a una simile impresa; e io stesso dichiaro che la trovo piena di pericoli e di minacce”.

Sono queste parole abbastanza energiche e abbastanza chiare? È spiacevole che l’autore, invece di arrestarsi dinanzi al fatto materiale, non abbia dedotto teoricamente le ragioni dei suoi terrori. La sua critica avrebbe goduto di un’autorità che non otterrà la mia, e può darsi che il problema della bilancia del commercio, risolto da un economista di prim’ordine, discepolo e amico di Say, avrebbe dato una regola all’opinione e preparate le basi di una vera associazione fra i popoli.

Ma Fix, imbevuto delle teorie economiche, e persuaso della loro bontà, non può spingersi al di là del presentimento delle loro contraddizioni. Chi mai crederebbe che, dopo lo spaventevole programma esposto, Fix abbia avuto il coraggio di finire con questo strano pensiero: Ciò non distrugge per nulla l’eccellenza della teoria e la possibilità della sua applicazione!...

Dal canto mio, non posso trattenermi dal ripeterlo: più vivo, più mi approfondisco nelle opinioni degli uomini, e più trovo che noi siamo quasi profeti, ispirati da un soffio soprannaturale, e che parliamo nella pienezza del Dio che ci fa vivere. Ma, in noi non c’è solo Dio, c’è pure il bruto, i cui suggerimenti furiosi o stupidi ci turbano la ragione senza posa, e fanno deviare il nostro entusiasmo. Non solo il genio fatidico dell’umanità mi sforza a supporre un Dio, bisogna ancora ch’io ammetta, a complemento dell’ipotesi, che nell’uomo vive e respira tutto il regno animale: il teismo ha per corollario la metempsicosi.

Ecco una teoria contraddetta da fatti costanti e universali, risultati spontanei dell’energia umana, i quali non possono non prodursi; e questa teoria, la quale deve cominciare col darci la filosofia di questi medesimi fatti, e invece li respinge senza comprenderli, la si dichiara indubitabile, eccellente! – Ecco una teoria i cui fautori dichiarano essere inapplicabile alla Francia, all’Inghilterra, al Belgio, alla Germania, all’intera Europa e a tutte le cinque parti del mondo; perché è inapplicabile davvero se non può essere applicata senza cagionare immensi disastri, senza rendere improduttivi immensi capitali, senza togliere il pane e il lavoro a centinaia di migliaia d’operai, senza distruggere la metà della produzione di un paese; una teoria, la quale, nonostante il desiderio dei Governi, non è applicabile né al secolo decimonono né al decimottavo né al decimosettimo né a tutti i secoli precedenti; una teoria che sarà inapplicabile domani, dopodomani, e nei secoli venturi, perché sempre in ciascun punto del globo, per effetto delle attitudini nazionali e individuali, per la costituzione dei monopoli e per la varietà dei climi, si produrranno delle disparità d’interessi e di rivalità, e per conseguenza, sotto pena di morte o di schiavitù, coalizioni ed esclusioni; e ciò nonostante si persiste, per l’onore della scuola, ad assicurare l’applicabilità di tale teoria!

Abbiate pazienza, essi esclamano: il male cagionato dalla libertà degli scambi sarà passeggero, mentre il bene che ne risulterà sarà durevole e incalcolabile. Che mi importano queste promesse di fortuna all’indirizzo della posterità, di cui nulla assicura l’effettuazione, e che senza dubbio, se per caso si realizzassero, sarebbero sostituite da altri disastri? Che m’importa sapere che l’Inghilterra ci avrà procurato a 150 franchi i 100 chilogrammi degli stessi binari ferroviari che paghiamo 350 franchi e 50 centesimi ai nostri fabbricanti, e che lo Stato avrà guadagnato in questo contratto 200 milioni; che il rifiuto di ammettere i bestiami stranieri alle nostre fiere ha fatto ribassare presso di noi del 25% il consumo della carne per ogni individuo, e che la salute pubblica ne è pregiudicata; che l’introduzione delle lane straniere, apportando in media una riduzione di 1 lira per ogni calzone, lascerà 30 milioni nelle tasche dei contribuenti; che i diritti sugli zuccheri in realtà non giovano che ai produttori; che è assurdo che due paesi, i cui abitanti si vedono dalle finestre, si trovino più separati gli uni dagli altri, che non dalla muraglia cinese; che m’importano tutte queste diatribe, quando dopo avermi commosso con lo spettacolo delle miserie proibizioniste, si viene a raffreddare il mio zelo con la considerazione dei mali incalcolabili che apporterà la non proibizione? Se noi prendiamo il ferro inglese, noi guadagniamo 200 milioni; ma le nostre fabbriche soccombono, la nostra industria metallurgica è rovinata, e cinquantamila operai si trovano senza lavoro e senza pane! Si dice che dopo questo sacrificio avremo per sempre il ferro a buon prezzo. Mi pare d’udire: “Si prepara un po’ d’ombra ai pronipoti”.

In quanto a me, preferisco lavorare di più, ma non morire; la cura dei miei figli non può spingermi al punto di gettarmi nella voragine, perché essi abbiano il piacere di annoverare fra i loro antenati un novello Curzio. Se il mio stato mutasse; se io potessi accettare queste offerte vantaggiose senza compromettere la mia libertà e la mia esistenza; se almeno fossi sicuro del beneficio promesso ai miei discendenti, credereste che rifiuterei?...

Una questione d’opportunità, cioè, come lo si vedrà ben presto, una questione di eternità, domina tutta la controversia, e separa i partigiani protezionisti dai liberi scambisti. Gli economisti che tanto sprezzano gli utopisti, in questo caso agiscono come gli utopisti stessi; domandano un grande sacrificio, una immensa rovina, miserie inaudite, in cambio di un incerto benessere, le quali cose, per loro stessa confessione, sono irrealizzabili immediatamente, il che, per la società, è come dire eternamente. E si sdegnano perché non si presta fede alcuna ai loro calcoli! Ma perché non affrontano più risolutamente la difficoltà? Perché non tentano di scoprire il male che deriverà dall’abolizione di certi monopoli (come hanno fatto, e con qual successo!, per la divisione del lavoro, le macchine, la concorrenza e l’imposta), se non rimedi, per lo meno, palliativi? Suvvia, signori, entrate in materia, perché finora vi siete tenuti nell’indeterminatezza dell’annuncio; dimostrateci come la teoria del libero commercio si possa applicare, cioè sia benefica e razionale, nonostante la ripugnanza dei governi e dei popoli, nonostante gli inconvenienti generali e permanenti. Che cosa era necessario, secondo voi, perché potesse venire attuata in ogni luogo questa teoria, senza che l’effettuazione cagionasse quegli immensi disastri di cui parlate continuamente, senza che aggravasse il giogo del monopolio sul proletariato, senza che compromettesse la libertà, l’uguaglianza, l’individualità delle nazioni? Quale sarà il nuovo diritto fra i popoli? Qual rapporto creerà fra il capitalista e l’operaio? Quale intervento del Governo nel lavoro? Codeste ricerche vi appartengono; ci dovete tutti questi chiarimenti. Potrebbe essere, per la tendenza stessa della vostra teoria, che senza accorgervene, siate voi stessi una setta socialista; non temete i rimproveri. Il pubblico è troppo sicuro delle vostre intenzioni, e in quanto ai socialisti, sono troppo contenti di vedevi fra le loro fila per sollevare questo cavillo.

Ma che faccio io? È poco generoso il provocare chiacchieroni così innocenti come gli economisti. Facciamo piuttosto toccare con mano che essi imbroccano il vero, solo quando si contraddicono, la qual cosa, per la maggior parte riuscirà nuova, e che la teoria del libero commercio non ha merito se non perché è la teoria del libero monopolio.

Né vi è cosa evidente di per se stessa, chiara come la luce del giorno, aforistica come la rotondità del circolo, quanto la libertà del commercio, che, sopprimendo tutti gli impacci alle comunicazioni e agli scambi, rende per questo stesso il campo più libero a tutti gli antagonismi, estende il dominio del capitale, generalizza la concorrenza, fa della miseria di ogni nazione, nello stesso modo della sua aristocrazia finanziaria, una cosa cosmopolita, la vasta rete della quale, d’ora innanzi tranquilla e continua, abbraccia nelle sue solide maglie l’avvenire di tutta la specie?

Perché, infine, se i lavoratori, come i Germani descritti da Tacito, come i nomadi Tartari, i pastori Arabi e tutti i popoli semi-barbari, avendo ciascuno ricevuto la loro parte di terra, e prima di produrre da se stessi tutti gli oggetti che consumano, non comunicassero fra loro con lo scambio, non vi sarebbero mai né ricchi né poveri; nessuno guadagnerebbe, e così pure nessuno si rovinerebbe. E se le nazioni, nello stesso modo delle famiglie di cui si compongono, producessero a loro volta tutto presso sé, tutto per sé, non mantenessero alcuna relazione commerciale; è ancora evidente che il lusso e la miseria non potrebbero passare da una all’altra per mezzo dello scambio, che possiamo benissimo chiamare in questo caso, il contagio economico. Sì, è il commercio che crea nello stesso tempo la ricchezza e la diseguaglianza delle fortune; è in grazia del commercio che aumentano continuamente l’opulenza e il pauperismo. Dunque, dove si arresta il commercio, qui cessa contemporaneamente l’azione economica, e regna una immobile e comune mediocrità. Tutto ciò è così semplice, è di un buon senso così volgare, di una evidenza così perentoria, che l’economista deve schivarlo; perché è proprio dell’economista il non ammettere mai la necessità dei contrari, il suo destino è quello d’essere sempre in rotta col senso comune.

Abbiamo dimostrato la necessità del libero commercio; completeremo questa teoria dimostrando come la libertà, più s’allarga, più diventa una nuova causa d’oppressione e d’estorsione per le nazioni commercianti. E se le parole rispondono alla convinzione, avremo svelato il senso della riforma iniziato con tanto rumore dai nostri vicini d’oltre Manica; avremo messo a nudo la più grande di tutte le mistificazioni economiche.

L’argomento principale di Say, che nella crociata organizzata contro il regime protezionista fa la figura di Pietro l’Eremita, consiste in questo sillogismo: “Maggiore. – I prodotti non si pagano che con prodotti, le merci non si comprano che con merci. Minore. – L’oro, l’argento, il platino e tutti i valori metallici, sono prodotti del lavoro, merci come il carbone, il ferro, la seta, i tessuti, i filati, i cristalli, ecc. Conseguenza. – Qualunque importazione di merci essendo pagata mediante un’equivalente esportazione, è assurdo credere che vi possa essere vantaggio da taluna parte, in quanto una partita di merci consegnata in cambio consiste, o non, in moneta effettiva. – Tutto all’opposto, l’oro e l’argento essendo una merce la cui unica utilità si riduce a servire di strumento di circolazione e di scambio per le altre, il vantaggio, se esistesse da qualche parte, è per la nazione che prende all’estero più prodotti di quello che non ne rende; e ben lungi, come si afferma, dal cercare di livellare le condizioni del lavoro con tariffe di dogana, è necessario livellarle con la libertà più assoluta”.

Conseguentemente, J.-B. Say aggiunge come corollario del suo famoso principio: i prodotti non si pagano che con prodotti, le proposizioni seguenti: 1° Una nazione guadagna tanto più quanto la somma dei prodotti che importa sorpassa la somma dei prodotti che esporta; 2° I negozianti di questa nazione guadagnano tanto più quanto più il valore degli ordini che ricevono sorpassa il valore delle merci che hanno esportato all’estero.

Quest’argomentazione che è l’inverso di quella dei partigiani del sistema mercantile, è sembrata così chiara, così decisiva, gli effetti sovversivi della protezione l’hanno così avvalorata, che tutti gli uomini di Stato, i quali si piccano d’indipendenza e di progresso, tutti gli economisti di qualche valore l’hanno adottata. Secondo costoro, torna inutile ragionare con quelli che difendono l’opinione contraria; si preferisce metterli in ridicolo.

“Si dimentica dai più che i prodotti si pagano con prodotti... Gli Inglesi possono darci senza loro danno certi prodotti a buon prezzo; io non credo che essi consentano a darceli per nulla. Non si traffica con persone che nulla abbiano da darci in cambio... Se la Francia vittoriosa della sua perfida vicina la obbligasse a lavorare per essa; se l’Inghilterra per pagare il suo tributo, ciascun anno ci spedisse gratuitamente ciò che essa, secondo noi, ci fa pagare ancora troppo caro, i proibizionisti, per essere conseguenti, dovrebbero gridare al tradimento. Vi sono, lo confessiamo, delle ragioni troppo forti per noi; i nostri avversari usano un’arma a doppio taglio. Che l’Inghilterra prenda da noi come nel 1815, essi gridano alla rovina; che essa a noi dia, come noi ne facciamo l’ipotesi, essi gridano maggiormente”. (“Journal des Économistes”, agosto 1842).

E nei numeri dello stesso periodico, novembre 1844, aprile, giugno, luglio 1845, un economista di vaglia, filantropo generosissimo, ispirato! ciò che parrà sorprendente, dalle idee più egualitarie, un uomo che elogerei di più, se non poggiasse la sua repentina celebrità su di una tesi inammissibile, si sforza di provare, plaudente tutto il pubblico economista:

Che livellare le condizioni del lavoro, è attaccare lo scambio nel suo principio;

Che non è vero che il lavoro di un paese possa essere distrutto dalla concorrenza delle contrade più favorite;

Che anche se ciò fosse giusto, i diritti protezionisti non eguagliano le condizioni della produzione;

Che la libertà eguaglia queste condizioni per quanto possibile;

Che i paesi meno favoriti guadagnano maggiormente negli scambi;

Che la Lega e Robert Peel hanno diritto alla gratitudine dell’umanità per l’esempio che essi hanno dato alle altre nazioni;

E infine che coloro i quali pretendono e sostengono il contrario sono seguaci di Sisifo.

Certamente, il signor Bastiat [deputato] delle Landes, grazie all’audacia e conseguenza della sua polemica, può lusingarsi di avere stupito gli stessi economisti, e deciso coloro le cui opinioni sul libero commercio erano ancora dubbie. Per mio riguardo, confesso di non avere mai trovato in alcun libro sofismi più sottili, più stringenti, più coscienziosi, e che arieggino la verità più sincera, quanto i Sophismes économiques di Bastiat.

Pertanto, oso affermare che se gli economisti d’oggi inventassero meno e d’altra parte fossero più logici, avrebbero facilmente scorto il vizio degli argomenti del Cobden dei Pirenei; e che invece di sforzarsi a spingere la Francia industriale sulla via dell’Inghilterra per una totale abolizione delle barriere, avrebbero detto: Guardiamocene!

I prodotti si comprano con prodotti! Ecco, senza dubbio, uno stupendo, un incontestabile principio, per il quale vorrei venisse innalzata una statua a J.-B. Say. Dal canto mio ho dimostrata la verità di questo principio dando la teoria del valore; e ho provato inoltre che questo principio è la base dell’eguaglianza dei beni, e così pure dell’equilibrio nella produzione e nello scambio.

Ma, quando si aggiunge, quale secondo termine del sillogismo, che l’oro e l’argento coniati sono una merce come un’altra, si afferma un fatto che non è vero che in potenza; si fa conseguentemente una inesatta generalizzazione, smentita dalle nozioni elementari che ci dà la stessa economia politica sulla moneta.

Il denaro è la merce che serve di strumento agli scambi, cioè, come l’abbiamo dimostrato, la merce principale, la merce per eccellenza, quella la cui domanda è maggiore dell’offerta, quella che precede tutte le altre, che si accetta in tutti i pagamenti e, per conseguenza, rappresenta tutti i valori, tutti i prodotti, tutti i capitali possibili. Insomma chi ha merce, non ha per questo ricchezza; bisogna ancora compiere la condizione dello scambio, condizione pericolosa, come si sa, e soggetta a mille oscillazioni e a mille pericoli... Ma chi ha denaro ha ricchezza; perché possiede il valore sia nel modo ideale, che nel modo reale; ha ciò che tutto il mondo vuole avere; può acquistare con quest’unica merce tutte le altre, quando lo voglia, con le condizioni più vantaggiose, e nel tempo più favorevole; in una parola, col denaro si è padroni del mercato. Chi ha denaro si può paragonare a colui il quale nel gioco delle ombre tiene i trionfi. Si può affermare con sicurezza che tutte le carte hanno fra loro un valore di posizione e un valore relativo; si può analogamente aggiungere che il gioco non si può effettuare che con lo scambio di tutte le carte le une contro le altre; ciò non impedisce che il trionfo prenda gli altri colori e, fra i trionfi, i primi precedono gli altri.

Se tutti i valori fossero determinati e fissi come la moneta, se ciascuna merce potesse essere accettata immediatamente e senza perdita in scambio di un’altra, sarebbe del tutto indifferente, nel commercio internazionale, conoscere se l’importazione sorpassi o meno l’esportazione. Questa stessa questione non dovrebbe più sussistere, a meno che la somma dei valori dell’una sorpassi la somma dei valori dell’altra. In questo caso, ciò sarebbe come se la Francia scambiasse un pezzo da 20 franchi contro una sterlina, ovvero un bue di 40 quintali contro uno di 30. Nel primo baratto, essa avrebbe guadagnato il 20%, nel secondo avrebbe perduto il 25%. In questo senso, J.-B. Say avrebbe avuto ragione di dire che una nazione guadagna tanto quanto il valore delle merci che importa sorpassa il valore delle merci che esporta. Ma così non succede nella condizione attuale del commercio; la differenza dell’importazione sull’esportazione s’intende unicamente delle merci per le quali si dovette dare una certa quantità di numerario in acconto; ora questa differenza non è del tutto indifferente.

Ciò compresero perfettamente i seguaci del sistema mercantile, i quali altro non sono che seguaci della priorità del denaro. Si disse, si ripetè, si stampò, che essi non consideravano come ricchezza che il solo metallo. Pretta calunnia. I mercantilisti sapevano bene quanto noi che l’oro e l’argento non sono ricchezza, ma lo strumento potentissimo degli scambi, e conseguentemente rappresentante di tutti i valori che compongono il benessere, un talismano che produce fortuna. E la logica non mancò loro, non più che ai popoli, quando, per sineddoche, hanno chiamato ricchezza quella sorta di prodotti la quale, meglio di ogni altra, condensa e realizza qualunque ricchezza.

Del resto poi gli economisti hanno ravvisato il vantaggio che offre il possesso del denaro. Ma, come si può scorgere in tutti i loro scritti, essi non seppero mai rendersi teoricamente ragione di questo, riguardo alla merce oro e argento; non hanno scorto altro che un pregiudizio popolare; insomma, ai loro occhi, le materie coniate non sono altro che una merce ordinaria, adottata quale strumento di scambio perché più comoda a portarsi, più rara e meno soggetta ad essere alterata; perciò gli economisti dalla loro teoria, o, per dirla schietta, dalla loro ignoranza monetaria, furono trascinati a disconoscerne il vero ufficio del commercio; e la loro guerra contro le dogane, altro non è, infine, che una guerra contro il denaro.

Ho dimostrato nel capitolo sul valore che il privilegio del denaro deriva dal fatto che esso fin dall’origine e ancora oggi è il solo valore determinato che circola nelle mani dei produttori. Credo inutile ricominciare qui questa questione già esaurita; ma è facile comprendere, dopo quanto si disse, e ciò sarà specialmente oggetto del capitolo che segue, che colui che possiede denaro, che si occupa di prestare o vendere la moneta, ottenga perciò solo una vera superiorità su tutti i produttori; perché, infine, la banca sia la regina dell’industria e nello stesso tempo del traffico.

Queste considerazioni fondate sui dati semplici e innegabili dell’economia politica, appena introdotte nel sillogismo di J.-B. Say, fanno apparire la sua teoria del libero commercio e degli sbocchi così inconsideratamente abbracciata dai suoi discepoli, come nulla più che una estensione indeterminata della cosa stessa contro la quale essi gridano, la spoliazione dei consumatori, il monopolio.

Proseguiamo subito nela dimostrazione teorica di questa antitesi: verremo in seguito all’applicazione e ai fatti.

Say afferma che la moneta fra le nazioni non produce gli stessi effetti che fra i privati. Nego decisamente questa proposizione che Say emise solo perché non conosceva a fondo la vera natura della moneta. Gli effetti della moneta quantunque si producano fra le nazioni in modo meno evidente, e sopratutto meno immediato, sono del tutto gli stessi che fra semplici privati.

Supponiamo il caso di una nazione che comperasse continuamente ogni sorta di merci, dando sempre in cambio moneta. Ho il diritto di fare questa ipotesi estrema, dal momento che l’economista, di cui più sopra ho riferito le parole, si arrogava il diritto di dire che se l’Inghilterra ci avesse dati i suoi prodotti per nulla, i proibizionisti, per essere conseguenti, avrebbero dovuto gridare al tradimento. Seguo lo stesso procedimento, e per mettere in rilievo l’impossibilità del regime contrario, comincio col supporre una nazione che tutto compra e nulla vende. A dispetto delle teorie economiche, tutti sanno ciò che questo significa. Che accadrà mai?

Che quella parte del capitale di questa nazione, che consiste in metalli preziosi, essendo emigrata, le nazioni venditrici la ritorneranno alla nazione acquirente mediante ipoteca; cioè che questa nazione, come il proletario romano privo di patrimonio, si venderà per vivere.

A ciò che si può rispondere?

Si risponde col fatto stesso che tutti temono e che è la condanna del libero commercio. Si dice che il denaro diventando da una parte raro, e dall’altra abbondante, si avrà un riflusso di capitali metallici da parte delle nazioni che vendono alla nazione che compra; che questa approfitterà del ribasso della moneta, e che l’alternativa di rialzo e di ribasso ricondurrà all’equilibrio.

Ma questa spiegazione è derisoria: il denaro si darà via per nulla, per amor di Dio? Tutto sta qui. Per scarso, per variabile che sia l’interesse delle somme prese a prestito, purché tale interesse sia qualcosa, segnerà la decadenza lenta o rapida, continua o intermittente del popolo che sempre acquistando e mai vendendo, credesse avere prestiti continuamente dai suoi acquirenti.

Fra poco vedremo ciò che diventa un paese quando si aliena con l’ipoteca.

Così, la mancanza del capitale nazionale, che Say con molta acutezza designò come la sola cosa da temere da un’eccessiva importazione, è inevitabile: essa si effettua, e ciò è vero, non già col trasporto materiale del capitale, ma col trasporto della rendita, grazie alla perdita della proprietà; il che è del tutto la stessa cosa.

Ma gli economisti non ammettono il caso estremo che noi adesso supponevamo, e che troppo evidentemente darebbe loro torto. Essi, a ragione, osservano che nessuna nazione tratta esclusivamente col denaro; che bisogno c’è dunque di limitarsi a ragionare sul reale, non già sull’ipotetico; dopo aver trovato conveniente, per confutare i loro avversari, spingere i princìpi fino alle ultime conseguenze, non tollerano che si faccia egualmente verso di loro; ciò implica la confessione da parte loro che essi non credono più ai propri princìpi, quando si tenta di spingere questi princìpi fino alla fine. Ora, mettiamoci con gli economisti sul terreno della realtà, e cerchiamo se per lo meno la loro teoria sia vera prendendola per il suo giusto mezzo.

Orbene, sostengo che lo stesso movimento di diserzione si paleserà, benché con minore intensità, quando invece di pagare tutti gli acquisti in moneta, il paese importatore ne salderà una parte con i suoi prodotti. Com’è possibile fraintendere una proposizione di una evidenza così matematica? Se la Francia ogni anno importa per 100 milioni di prodotti inglesi, e ne esporta dei suoi in Inghilterra per 90 milioni: 90 milioni di merci francesi servendo a coprire 90 milioni inglesi, il sopravvanzo di queste ultime sarà pagato in moneta, salvo il caso in cui il saldo si faccia in lettere di cambio tirate su altri paesi, il che esce dall’ipotesi. Questo, dunque, è come dire che la Francia aliena 10 milioni del suo capitale, e per sovrappiù a poco prezzo: perché, quando verrà il prestito, è evidente che verrà dato poco denaro contro una grossa ipoteca.

Altro errore degli economisti.

Dopo avere erroneamente paragonato la moneta alle altre merci, gli avversari della protezione commettono una confusione non meno grave, paragonando gli effetti del rialzo e del ribasso della moneta, agli effetti del rialzo e del ribasso sopra gli altri generi di prodotti. Siccome è su questa confusione che s’aggira specialmente la loro teoria del libero commercio, è necessario, per chiarire la discussione, che risaliamo ai princìpi.

Abbiamo detto al capitolo II che la moneta è un valore incostante, ma costituito; gli altri prodotti, almeno la maggior parte di essi, non solo sono variabili nel loro valore, ma mutabili a volontà. Ciò dimostra che la moneta può bensì variare in quantità sopra un dato mercato, cosicché con la stessa somma, si avrà subito più o meno di una data merce; ma essa rimane invariabile nella sua qualità – domando scusa ai lettori se così spesso uso dei vocaboli propri della metafisica, – cioè che nonostante le variazioni della proporzionalità nella merce monetaria, codesta merce rimane la sola accettabile in tutti i pagamenti, la dispotica padrona di tutte le altre, quella il cui valore, se si vuole per un privilegio temporaneo, ma reale, è socialmente e regolarmente determinato nelle sue oscillazioni, e per conseguenza ne è invincibilmente stabilita la preponderanza.

Supponete che a un tratto il grano salga e si mantenga a un prezzo straordinario, e che in questo frattempo la moneta discenda a un terzo o a un quarto del suo valore: ne seguirà che il grano sostituirà la moneta, misurerà la moneta, potrà servire a pagare l’imposta, gli effetti commerciali, le rendite sullo Stato, e a liquidare tutti gli affari? Certamente, no. Finché, con una riforma radicale nell’organizzazione industriale, non sono stati stabiliti e determinati come moneta (se fosse possibile il determinare ciò definitivamente), la moneta conserva la sua sovranità, ed è di essa sola che si può dire che accumulare ricchezza, è accumulare potere.

Quando gli economisti, confondendo tutte queste nozioni, dicono che se la moneta è rara in un paese, vi ritorna col rialzo, rispondo che ciò è precisamente la prova che questo paese si aliena, ed è in questo che consiste la diminuzione del suo capitale.

E quando essi aggiungono che i capitali metallici, accumulati in un paese da una grande esportazione, sono necessitati ad espatriare subito e ritornare nei paesi ove mancano per cercarvi impiego, ripeto che il ritorno è non dubbio segno della decadenza dei popoli importatori, e il presagio della dominazione finanziaria che essi hanno attirato sopra dì sé.

Del resto il fenomeno così importante della subordinazione dei popoli mediante il commercio ha ingannato gli economisti solo perché si sono fermati alla superficie del fatto, non ne hanno scrutato le leggi e le cause. Hanno scorto la materialità del fatto, ma presero un abbaglio sul senso e sulle conseguenze. Su questo punto, come pure su tutti gli altri, si trovano nei loro scritti riunite tutte le prove che li schiacciano.

Leggo nei “Debats” del 27 luglio 1845, che il valore delle esportazioni della Francia nel 1844 fu inferiore di 40 milioni a quello delle importazioni, e che nel 1843 tale differenza fu di 160 milioni. Non parliamo degli altri anni; domando all’autore dell’articolo, il quale non mancò di dare una staffilata al sistema mercantile, ove finirono questi 200 milioni in moneta, che cosa servirono a pagare, e che cosa la Francia ha pagato? – Il rialzo dei capitali nel nostro paese avrebbe dovuto farli rientrare: ecco ciò che egli deve rispondere, secondo J.-B. Say. – Sembrava infatti, che essi fossero ritornati; tutta la stampa politica e industriale ci assicurò che un terzo dei capitali impiegati nelle nostre ferrovie, fermandoci solo a questo ramo di speculazione, erano capitali svizzeri, inglesi, tedeschi; che i consigli di amministrazione di codeste ferrovie erano, composti in parte di stranieri, presieduti da stranieri, e che molte strade, tra le quali la più produttiva, quella del Nord, erano state aggiudicate a stranieri. Ciò è chiaro? Fatti analoghi in tutte le località; quasi tutto il debito ipotecario dell’Alsazia è a favore di capitalisti svizzeri, per mezzo dei quali ritorna il capitale nazionale, sotto l’impronta estera, a sottomettere quelli che una volta ne erano i proprietari.

Dunque, i capitali nazionali sono tornati, ma non sono tornati per nulla; ciò si riconosce. Orbene, contro quale cosa furono scambiati al loro ritorno, cioè furono prestati? Forse contro merci? No, poiché si è visto che la nostra esportazione è inferiore alla nostra importazione: poiché per sostenere questa esportazione qual è attualmente, siamo costretti a privarci ancora dell’importazione. E quindi contro rendite, contro denaro, poiché, per poco che il denaro renda, questo impiego dei loro capitali offre agli stranieri maggior vantaggio che non l’acquisto delle nostre merci di cui non hanno bisogno, e che essi in ultimo avranno pure, come già hanno i nostri capitali. Dunque, alieniamo il nostro patrimonio, e noi stessi diveniamo gli appaltatori dell’estero: come ci possiamo convincere, dopo questi fatti, che più importiamo più siamo ricchi?

Qui sta la difficoltà, e il lettore se ne persuaderà. Così, nonostante l’attrattiva che possono avere i fatti in una simile polemica, essi non devono avere la precedenza sull’analisi, perciò mi sia concessa la facoltà di intrattenermi ancora intorno alla pura teoria.

Bastiat, questo Achille del libero commercio, la cui repentina comparsa abbagliò i suoi confratelli, travisando l’ufficio sovrano della moneta nello scambio, e confondendo con tutti gli economisti il valore regolarmente oscillante della moneta con le fluttuazioni arbitrarie delle merci, seguì Say in un labirinto di arguzie capaci forse di mettere nell’imbarazzo un uomo profano di rubriche commerciali, ma che si districa facilissimamente alla luce della vera teoria sul valore e sullo scambio, e mette subito in evidenza la miseria delle dottrine economiche.

“Supponiamo – dice Bastiat – due paesi, A e B. A possiede su B ogni specie di vantaggi. Concluderete che il lavoro si concentra in A e che B è nell’impossibilità di fare qualcosa”.

Chi parla di concentrazione e d’impotenza? Addentriamoci coraggiosamente nella questione. Supponiamo che due paesi i quali, liberi di sviluppare le loro proprie facoltà, producono oggetti simili o per lo meno analoghi, l’uno però in gran quantità e a prezzo meschino, l’altro in poca quantità e a prezzo elevato. Questi due paesi, secondo l’ipotesi non ebbero mai fra loro un rapporto di sorta: quindi in questo caso non c’è ragione di parlare di concentrazione di lavoro in un paese, né d’impotenza nell’altro. È chiaro che la loro popolazione e la loro industria stanno in ragione diretta delle rispettive facoltà. Ora trattasi di sapere cosa succederà quando questi due paesi si saranno messi in rapporto commerciale fra loro. Tale è l’ipotesi; l’accettate o no?

“A vende più di quello che acquista; B acquista più che non vende. Potrei fare qualche obiezione, ma mi schiero dalla vostra parte”.

Contestate, di grazia! Nessuna concessione: questa falsa generosità è perfida e lascia dubbi.

“Secondo l’ipotesi, il lavoro è ricercatissimo in A, e per conseguenza rincara. – Il ferro, la carne, le terre, gli alimenti, i capitali, sono ricercatissimi in A, e subito rincarano. In questo frattempo, lavoro, ferro, carne, terre, alimenti, capitali, tutto è quanto mai abbandonato in B, e presto tutto diminuisce. A vendendo continuamente, B acquistando continuamente, il denaro passa da B in A, in B diventa raro”.

Ecco il nodo. Che succederà, nel tempo che B, approfittando continuamente del basso prezzo di A, ha dato via tutto il suo denaro?

“Ma, abbondanza di denaro, significa che ne bisogna maggiormente per comprare tutt’altra cosa. Dunque, in A, alla carezza reale che deriva da una incessante domanda, si deve aggiungere una carezza nominale dovuta alla sproporzione dei metalli preziosi. Rarità di denaro, significa che ce ne bisogno poco per ciascuna compra. Dunque, in B, si aggiunge a un buon prezzo nominale un buon prezzo reale”.

Fermiamoci un poco, prima di giungere alla conclusione di Bastiat. Questo scrittore, nonostante la chiarezza del suo stile, bisognerebbe di un commentario che lo spiegasse. Il buon prezzo, sia nominale che reale, che si manifesta in B, in seguito alle sue relazioni con A, è l’effetto diretto della superiorità produttiva di A, effetto che non potrà mai crescere in potenza più della sua causa. In altri termini, quali che siano le oscillazioni dei valori scambiabili rispettivamente fra i due paesi; che i salari, la carne, il ferro, ecc., vengano ad aumentare in A, mentre ribasseranno in B, è evidente che il cosiddetto buon prezzo che regna in B, non può mai fare concorrenza al preteso rincaro che si manifesta in A, poiché il primo è il risultato del secondo, e gli industriali di A restano sempre padroni del mercato.

Effettivamente i salari, cioè i prodotti tutti, qualunque siano, non possono mai in A costringere la domanda degli imprenditori che fanno l’esportazione per il paese, domanda che a sua volta si regola sulla condizione del mercato in B. Per altro, il ribasso causato in B non potrà mai essere per gli industriali di questo paese un mezzo per lottare contro i loro concorrenti in A, poiché questo ribasso è il risultato dell’importazione, non già delle risorse naturali della terra. Sotto questo aspetto il paese importatore può paragonarsi a un orologio i cui contrappesi siano scesi in basso e abbia bisogno di una forza estranea che lo ricarichi per poter continuare. Bastiat, assimilando il denaro alle altre specie di merci, pensò di di aver scoperto il moto perpetuo: e siccome tale identità è falsa, altro non trovò che l’inerzia.

“In queste circostanze – continua il nostro autore – l’industria avrà ogni sorta di impulsi; impulsi, se mi fosse possibile dirlo, portati alla quarta potenza, per abbandonare A e venirsi a stabilire in B. Qui, per rientrare nel campo della verità, diciamo che essa non avrà atteso questo istante; che i repentini cambiamenti ripugnano alla natura, e fino dall’origine, sotto un regime libero, essa si sarà progressivamente divisa e distribuita fra A e B, secondo le leggi dell’offerta e della domanda, cioè secondo le leggi della giustizia e dell’utilità”.

Questa conclusione non ammetterebbe replica se non sussistesse l’osservazione che abbiamo insinuata tra il rincaro nominale di A e il buon prezzo reale di B. Bastiat avendo perduto di vista il rapporto che rende i prezzi di questo subordinati ai prezzi dell’altro, si è immaginato che i metalli preziosi passano da A in B, e da B in A, come l’acqua in una livella, senz’altro scopo, senz’altra conseguenza che ristabilire l’equilibrio e colmare i vuoti. Perché non ha detto ciò che sarebbe stato più chiaro e più vero: quando gli operai di B vedranno diminuire il loro salario e il loro lavoro a causa dell’importazione delle merci di A, essi abbandoneranno il loro paese, andranno a lavorare in A, nello stesso modo che gli Irlandesi emigrano in Inghilterra; e per la concorrenza che faranno agli operai di A, contribuiranno maggiormente a rovinare la loro antica patria, nello stesso tempo che aumenteranno la miseria generale nella patria adottiva. Allora la grande proprietà e la grande miseria regnando dappertutto, l’equilibrio sarà ristabilito?... Strano potere il fascino esercitato con le parole! Bastiat ha constatato lui stesso la decadenza del paese di B; e, smarrito il senso di rialzo e di ribasso, di compensazione, d’equilibrio, di livello, di giustizia, di algebra, scambia il nero col bianco, l’opera di Arimanno con quella di Orsmund, e non scorge, in tale manifesta decadenza, che una restaurazione!

Quando gli industriali di A, arricchiti dal loro commercio con B, non sapranno più come impiegare i capitali, li porteranno, secondo voi, in B. È verissimo. Ma ciò significa che essi andranno in B a comprare case, terre, boschi, riviere e pascoli; che vi formeranno dei possedimenti, si sceglieranno fittavoli e servi, e diverranno signori e prìncipi con l’oro, che è l’autorità che gli uomini rispettano maggiormente. Con questi grandi feudatari la ricchezza nazionale espatriata, rientrerà nel paese, apportando la dominazione straniera e il pauperismo,

Poco importa del resto, che questa rivoluzione si compia lentamente o repentinamente. Le repentine transizioni, come replica spesso Bastiat, ripugnano alla natura: le conquiste commerciali hanno per misura la differenza del prezzo di costo fra le nazioni usurpanti e le nazioni usurpate. Parimenti, poco importa che la nuova aristocrazia venga da fuori, o si componga di indigeni, arricchiti con l’usura e con la banca quando erano intermediari fra i compatrioti e gli stranieri. La rivoluzione di cui parlo non bisogna essenzialmente di una immigrazione, e ancora meno di un’esportazione di denaro. La divisione del popolo in due caste sotto l’influenza del commercio esterno e l’innalzamento di una feudalità mercantile in un paese altre volte libero, e le cui abitudini potevano, tralasciando le altre cause di subordinazione, rimanere eguali, ecco l’essenza di tale rivoluzione, il frutto inevitabile del libero commercio esercitato in condizioni favorevoli. Come! finché non avremo visto il denaro francese attraversare la Manica e perdersi nel Tamigi; finché nulla sarà modificato nel nostro Governo, nelle nostre leggi e nei nostri costumi; finché una colonia mandata da tutte quelle nazioni con le quali commerciamo, non verrà a sostituire i nostri 35 milioni di abitanti, nulla sarà mutato secondo voi? I prodotti del paese, ritornati sotto forma di crediti ipotecari, avranno diviso la nazione in nobili e servi, e nulla avremo perduto! L’effetto del libero commercio sarà stato di rinforzare e ampliare l’azione delle macchine, della concorrenza, del monopolio e dell’imposta; e quando la massa dei lavoratori vinti, grazie all’invasione straniera, sarà abbandonata in balia del capitale, essa dovrà stare zitta; quanto allo Stato altra uscita non avrà che vendere e prostituire la patria, bisognerà che esso si umili dinanzi al genio sublime degli economisti!

Mi si dirà forse che esagero? Non si sa che il Portogallo, paese libero politicamente, che ha il suo re, il suo culto, la sua costituzione, la sua lingua, divenne col trattato di [John] Methuen e il libero commercio un possedimento inglese? L’economista inglese ci avrebbe già fatto perdere il senso della storia; e sarà vero, per valersi dello stile figurato di un difensore del lavoro nazionale, che il cittadino di Bordeaux voglia aprire nuovamente la Francia agli Inglesi, come già fece sotto Eleonora? sarà vero che esiste una cospirazione nel nostro paese per venderci all’aristocrazia bancaria dell’Europa, come i mercanti del Texas hanno venduto, non è molto, il loro paese agli Stati Uniti?

“La questione Texas”, questo è estratto da un nostro giornale accreditatissimo e il meno sospettato di pregiudizi proibizionisti, “fu alla fin fine una questione di denaro. Il Texas aveva un debito considerevolissimo per un paese senza risorse. Lo Stato aveva per creditori quasi tutti i suoi più influenti cittadini; e lo scopo principale di costoro era di farsi rimborsare i crediti, poco importando poi da chi. Essi hanno contrattato l’indipendenza del paese, non avendo altra cosa da vendere. Parve che gli Stati Uniti fossero in grado di pagare meglio del Messico; e se questi avessero accondisceso subito ad accollarsi i debiti del Texas, già da lungo tempo l’annessione sarebbe stato un fatto compiuto”. (“Costitutionel”, 2 agosto 1845).

Ecco ciò che avrebbe voluto impedire il signor Guizot, e ciò che non seppe spiegare alla tribuna quando l’opposizione lo interpellò intorno ai suoi negoziati relativamente al Texas. Che terrore avrebbe potuto gettare questo ministro nella sua maggioranza bottegaia, se avesse cercato di sviluppare questa tesi, magnifica, degna del suo ingegno oratorio. Le influenze mercantili sono la morte della nazionalità, delle quali non lasciano sussistere che lo scheletro!

Bastiat, mi permetta di esternargli qui tutta la mia riconoscenza, è penetrato del socialismo più puro; ama soprattutto il suo paese; professa altamente la dottrina dell’eguaglianza. Se ha sposato la causa del libero commercio con tanto attaccamento; se si fece missionario delle idee della Ligue [pour la Liberté des Échanges], ciò accadde perché fu sedotto, come molti altri, da questa gran parola libertà, la quale per se stessa, non significando che una spontaneità vaga e indefinita, si confà meravigliosamente a tutti i fanatismi, eterni nemici della verità e della giustizia. Senza dubbio la libertà implica eguaglianza per gli individui, come per le nazioni; ciò solamente però quando è definita, quando ha ricevuto dalla legge la sua forma e la sua potenza, e non resti del tutto abbandonata a se stessa, sfornita di ogni sorta di determinazione, come sussiste presso il selvaggio. La libertà così intesa, non è altro, come la concorrenza degli economisti, che un principio contraddittorio, un funesto equivoco: ora ne acquisteremo novella prova.

“Infine, – osserva Bastiat – non è già il dono gratuito della natura che noi paghiamo nello scambio, ma bensì il lavoro umano. Mi prendo un operaio, che arriva con una sega. Pago la sua giornata 2 lire; mi fa 25 assi. Se la sega non fosse stata inventata, probabilmente non avrebbe potuto farne uno solo, e io non di meno gli avrei pagata la sua giornata. Dunque, l’utilità prodotta dalla sega è per me un dono gratuito della natura, o piuttosto è una parte dell’eredità ricevuta in comune, con tutti i miei simili, dall’intelligenza dei miei antenati... Dunque, la retribuzione non si proporziona già alle utilità che il produttore porta sul mercato, sebbene al suo lavoro... Dunque, per concludere, il libero commercio, avendo per oggetto di far godere a tutti i popoli certe utilità gratuite della natura, non può mai dare pregiudizio ad alcuno”.

Ignoro quello che Rossi, Chevalier, Blanqui, Dunoyer, Fix, e altri difensori delle pure teorie economiche, hanno pensato di questa dottrina di Bastiat, il quale, rimuovendo di un sol colpo e annientando i monopoli, fa del lavoro l’unico e sovrano arbitro del valore. Non sarò io, è facile supporlo, che attaccherà la proposizione di Bastiat, perché ai miei occhi essa è l’aforisma dell’eguaglianza stessa, e che in conseguenza la condanna del libero commercio, nel significato che l’intendono gli economisti, c’è dentro tutta.

Non è l’utilità gratuita della natura che io debbo pagare, ma solo il lavoro! Tale è la legge dell’economia sociale, legge ancora poco conosciuta, rimasta fino a oggi ravvolta in una specie di mito e che scopriamo a poco a poco: divisione del lavoro, macchine, concorrenza, ecc. Bastiat, vero discepolo di Smith, ha molto bene riconosciuto e fatto conoscere ciò che deve essere, e conseguentemente ciò che è. Perché la legge del lavoro, l’uguaglianza negli scambi si compia sinceramente, è necessario che le contraddizioni economiche siano tutte risolte; ciò significa, relativamente alla questione che ci occupa, che all’infuori dell’associazione, la libertà del commercio è sempre tirannia della forza.

Così Bastiat spiega molto bene come l’uso della sega divenne per tutti un dono gratuito. Ma è indubitabile che oggi con le nostre leggi di monopolio, se la sega fosse sconosciuta, l’inventore, ottenendo subito un brevetto, s’approprierebbe, durante la sua vita, del beneficio dello strumento. Ora, tale è precisamente la condizione della terra, delle macchine, dei capitali e di tutti gli strumenti del lavoro; e Bastiat parte da una proposizione del tutto erronea, o, per dire meglio, anticipa illegittimamente sull’avvenire, quando opponendo la concorrenza al monopolio e le regioni tropicali alle zone temperate, ci dice: “Se per un avventuroso miracolo la fertilità di tutte le terre arabili venisse ad accrescersi, non sarebbe già l’agricoltore, ma bensì il consumatore che usufruirebbe il vantaggio di tale fenomeno, perché si determinerebbe in abbondanza, in buon prezzo. Ci sarebbe meno lavoro incorporato in ciascun ettolitro di frumento; e l’agricoltore non potrebbe scambiarlo che contro un minor lavoro, incorporato in tutt’altro prodotto”.

E più avanti:

“A è un paese favorito, B è un paese maltrattato dalla natura. Io dico che lo scambio è vantaggioso ad ambedue, ma soprattutto a B, perché lo scambio non consiste già in utilità contro utilità, ma in valori contro valori. Ora, A mette più d’utilità nello stesso valore, in quanto l’utilità del prodotto abbraccia ciò che ha fatto la natura e ciò che ha fatto il lavoro, mentre il valore non corrisponde che a ciò che vi ha messo il lavoro. Dunque, B fa un mercato tutto a suo vantaggio. Acquistando appena dal produttore di A il suo lavoro, esso riceve in sovrappiù maggiori utilità naturali di quello che ne dà”.

Sì, ancora una volta, griderò con tutta la forza della mia voce, è il lavoro che fa il valore, non l’offerta e la domanda come affermate tutti i momenti, e come lo insegnano tutti i vostri fratelli che applaudono senza comprendervi. È il lavoro che si deve pagare e scambiare, non già l’utilità gratuita del suolo; e non potevate dire nulla che dimostrasse meglio la buona fede e l’incoerenza delle vostre idee. In tali condizioni, la più assoluta libertà negli scambi è sempre vantaggiosa e non può giammai diventare nociva. Ma i monopoli, ma i privilegi dell’industria e del capitalista, ma i diritti signorili della proprietà, li avete aboliti? Avete un mezzo per abolirli? Credete alla possibilità, alla necessità della loro abolizione? Vi intimo di spiegarvi, perché ci va di mezzo la salute e la libertà delle nazioni; in simile materia l’equivoco diviene parricidio. Fin quando il privilegio del territorio nazionale e la proprietà individuale saranno per voi sottintesi, la legge dello scambio nella vostra bocca sarà una menzogna; fin quando non vi sarà associazione e solidarietà approvata fra i produttori di tutti i paesi, cioè comunità di doni naturali e scambio solamente dei prodotti del lavoro, il commercio estero non farà che riprodurre fra le razze il fenomeno di servaggio e di dipendenza che la divisione del lavoro, il salariato, la concorrenza e tutti gli agenti economici operano fra gli individui; il vostro libero commercio sarà una truffa, se non preferite ch’io dica una rapina esercitata a viva forza.

La natura, per attrarre i popoli favoriti all’associazione generale, li ha separati dagli altri con barriere naturali che mettono un inciampo alle invasioni e alle conquiste. E voi senza premunirvi con garanzie, togliete tali barriere! Giudicate inutili le precauzioni della natura! Giocate l’indipendenza di un popolo, per soddisfare l’egoismo di un consumatore che non vuole essere del suo paese! Al monopolio interno non sapete contrapporre altro che il monopolio esterno, sempre il monopolio, girando così nel cerchio fatale delle contraddizioni! Ci promettete che il lavoro si scambierà col lavoro; e invece è il monopolio che è scambiato col monopolio, e che Brenno, il nemico del lavoro, ha gettato furtivamente la spada nella bilancia!

La confusione del vero e del reale, del diritto e del fatto: l’imbarazzo perpetuo nel quale l’antagonismo della tradizione e del progresso getta i migliori ingegni, sembrano avere rapito al signor Bastiat persino l’intelligenza delle cose più volgarmente pratiche. Ecco un fatto che egli apporta in prova della sua tesi:

“Una volta, diceva un industriale alla Camera di commercio di Manchester, esportavamo stoffe; poi questa esportazione fu sostituita da quella dei filati, che sono la materia prima delle stoffe: in seguito venne quella delle macchine, che sono gli strumenti che servono a fabbricare il filo; più tardi quella dei capitali, con i quali fabbrichiamo le nostre macchine, e infine quella dei nostri operai e del nostro genio industriale, che sono la sorgente dei nostri capitali. Tutti questi elementi del lavoro andarono, gli uni dopo gli altri, ad esercitarsi là dove essi trovavano lavoro con più vantaggio, là dove il vitto è meno costoso, la vita più facile; e si possono vedere oggi in Prussia, in Sassonia, in Svizzera, in Italia, immense manifatture fondate con capitali inglesi, servite da operai inglesi, e dirette da ingegneri inglesi”.

Ecco una stupenda giustificazione del libero commercio! La Prussia, l’Austria, la Sassonia, l’Italia, impediti dalle dogane e limitate nelle compere dalla scarsità della ricchezza metallica, non ammettevano i prodotti inglesi che con beneficio di sconto, non prendevano che ciò che potevano pagare. I capitali inglesi, impediti e impazienti, escono dal loro paese, vanno a naturalizzarsi in queste contrade inaccessibili, diventano austriaci, prussiani, sassoni, correggendo, con l’emigrazione, l’ingiustizia della fortuna. Colà, sotto la protezione delle stesse dogane che prima li tenevano lontani, e che ora li proteggono, assecondati dal lavoro degli indigeni dai quali più non differiscono, signoreggiano il mercato, fanno concorrenza alla madre patria, rincarano tutti i prodotti, dapprima le stoffe, poi i filati, poi le macchine, poi, ciò che soprattutto è dannoso, i prestiti a usura; e in questa operazione di livellamento delle condizioni del lavoro, in questo fatto che accusa sì altamente la necessità per ogni popolo di non accettare i prodotti dei vicini che sotto condizione di uguaglianza nello scambio, e i loro capitali che a titolo di investimento e non di prestito, si trova un argomento a favore della libertà di commercio! O io stesso nulla arrivo a comprendere, o Bastiat confonde nuovamente le cose più disparate, l’associazione e il salariato, l’usura e l’accommandita.

La contraddizione che nella teoria della bilancia del commercio, come in tutte le altre, ha sviato gli economisti, ha pure colpito Bastiat. Vi fu un istante in cui parve penetrare i due aspetti del fenomeno; disgraziatamente la logica è cosa sì poco conosciuta in Francia, che Bastiat, al quale l’opposizione dei princìpi comandava di concludere con una sintesi, si è rimesso a questo assioma da matematico, che non è vero se non in matematica, ossia, che di due proposizioni, l’una essendo stata dimostrata falsa, l’altra necessariamente è vera.

“L’uomo, egli dice, produce per consumare; è ora produttore, ora consumatore.... Se dunque noi consultiamo il nostro interesse personale, riconosciamo distintamente che esso è doppio. Come venditori abbiamo interesse al rincaro, e per conseguenza alla rarità; come compratori, al buon prezzo, cioè all’abbondanza delle cose”.

Fin là, osserva e ragiona inappuntabilmente. Ma è pure là che giaceva la difficoltà; sotto questa fallace opposizione era velata la burla tesa alla sagacia di Bastiat. A qual partito appigliarsi, non dico già fra me produttore, e il mio vicino consumatore, o viceversa; per risolvere questo problema, non bisogna individuarla, al contrario è necessario generalizzarla; dunque, qual partito prendere, fra i produttori di una nazione, che sono nello stesso tempo consumatori, e i consumatori di questa stessa nazione, che sono pure produttori? In mancanza di logica, il buon senso consigliava essere assurdo preferire l’una o l’altra di queste due categorie, poiché, designando non più caste ma funzioni correlative, esse abbracciano egualmente tutto il mondo. Ma l’economia politica, questa scienza della discordia, non sa vedere le cose in questo modo; per essa nella società non vi sono che individui, per interessi e diritti, contrari gli uni agli altri. Bastiat, che disgrazia! ha osato scegliere e si è perso.

“Giacché i due interessi sono diametralmente opposti, uno deve necessariamente coincidere con l’interesse sociale in generale, e l’altro essergli contrario...”. E Bastiat si mette a provare prolissamente e dottissimamente che l’interesse del consumatore essendo in generale più sociale che quello del produttore, è da questa parte che i Governi debbono inclinare maggiormente alla protezione. È pertanto dimostrato, indirizzo tale questione ai lettori competenti, che tutto quanto fa difetto agli economisti, è il sapere ragionare?

Voi stessi l’avete detto: l’interesse del consumatore nella società è identico a quello del produttore; per conseguenza, in materia di commercio internazionale, bisogna ragionare della società come dell’individuo: orbene, come avete potuto separare questi due interessi l’uno dall’altro? Non vi potete immaginare un consumatore che acquisti con tutt’altra cosa tranne che con i suoi prodotti; allora, perché pretendete essere indifferente per una nazione l’acquistare col proprio denaro, ovvero con i suoi prodotti, dal momento che la conseguenza di questo sistema è il consumo senza produzione, o in altre parole, la rovina? In qual modo dimenticate che il consumatore, la società, non approfitta del buon prezzo di ciò che acquista, che in quanto esso copre le sue compere con una quantità di prodotti nei quali ha incorporato un valore eguale?

Io vedo ciò che vi preoccupa. Opponete l’interesse individuale, che chiamate produzione, all’interesse sociale, che chiamate consumo; e allo stesso modo che preferite l’interesse del più gran numero a quello del più piccolo, così non esitate ad immolare la produzione al consumo. La vostra intenzione è eccellente, e ne prendo atto; ma, aggiungo, che vi siete sbagliati di palla, che avete votato bianco volendo dire nero, che la società da voi fu presa per l’egoismo, e reciprocamente l’egoismo per la società.

Supponiamo che, in un paese aperto al libero commercio, la differenza delle importazioni sulle esportazioni derivi da un solo articolo, la cui produzione, se fosse stata protetta, avrebbe fatto vivere 20.000 uomini, sui 30 milioni di cui si compone la nazione. Nel vostro sistema, l’interesse particolare di questi 20.000 produttori né può né deve prevalere sull’interesse dei 30 milioni di consumatori, e la merce straniera deve essere accolta; secondo la mia opinione, al contrario, deve essere respinta, a meno che non potesse essere pagata con prodotti indigeni; e ciò, non nell’interesse di una corporazione, ma nell’interesse della società stessa. Ne ho già detta la ragione, e mi basterà ricordarlo in due parole; che il valore della moneta non è un valore come un altro, come qualcuno ha detto; perché con i suoi capitali metallici, con i suoi valori più idealizzati e più solidi, una nazione perde la sua sostanza, la sua vita e la sua libertà. Un uomo che perdesse continuamente il suo sangue per la puntura di un ago non morrebbe sicuramente in un’ora, ma potrebbe morire in quindici giorni; e poco importerebbe che lo scolamento avvenisse per la gola ovvero per il dito mignolo. Allo stesso modo, malgrado l’egoismo monopolizzatore, malgrado la legge della proprietà che assicura a ciascuno l’intera disposizione dei suoi beni, dei frutti del suo lavoro e della sua industria, i membri di una medesima nazione sono tutti solidali: come mai questo aspetto, che è nello stesso tempo di giustizia e di economia, vi ha tratti in inganno? Come mai non avete scorto l’antinomia che saltellava sotto la vostra penna?

Deplorabile effetto dei pregiudizi di scuola! Bastiat giudicando la questione del libero commercio dal punto di vista dello stretto egoismo, quando crede di collocarsi sotto il largo orizzonte della società, chiama teoria della carestia quella che consiste nella sua essenza (non difendo punto le irregolarità e le vessazioni della dogana) ad assicurare il pagamento dei prodotti stranieri mediante una consegna equivalente di prodotti indigeni, senza la quale l’acquisto dei prodotti stranieri, a qualunque prezzo si faccia, non è in realtà che un impoverimento. Ed esso chiama teoria dell’abbondanza quella che domanda l’entrata in franchigia di tutte le merci di fuori, anche quando vengono acquistate con denaro; quasi che una tale libertà, la quale in ultima analisi non è profittevole che ai contribuenti, che non serve che all’ozio, non fosse una consumazione senza scambio, un godimento scialacquatore, una distruzione di capitale. Una volta incamminati per questa via, bisogna percorrerla tutta; e la barocca denominazione di sisifismo, applicata al partito delle restrizioni, e solamente ridicola per il suo inventore, è venuta a terminare questa lunga invettiva.

La teoria del libero monopolio una teoria dell’abbondanza! In verità, se non vi fossero filosofi e preti, basterebbero gli economisti per colmare la misura della derisione e della credulità umana!

Abolite nello stesso tempo tutte le tariffe, dicono gli economisti, e avendosi un risparmio generale, tutte le industrie guadagneranno; in più non vi sarà sofferenza parziale; il lavoro nazionale aumenterà, e potrete pareggiare lo straniero. È con questa ragione infantile che Blanqui, dopo una brillante polemica ridusse al silenzio Émile De Girardin, il solo dei nostri giornalisti che abbia tentato di difendere il principio della nazionalità del lavoro.

Certamente, se tutti gli industriali di un paese potessero procurarsi a minor prezzo le materie prime, nulla sarebbe mutato nella loro rispettiva condizione; ma in che cosa cambierebbero le difficoltà? Si tratta dell’equilibrio delle nazioni, non già dell’equilibrio, in ciascuna nazione, delle industrie private. Riassumo l’osservazione fatta più sopra: questa depressione generale, questo vantaggio di avere per un valore eguale a due giornate di lavoro ciò che prima ci costava tre, a che lo dovremo? Ciò lo si dovrà ai nostri sforzi, ovvero all’importazione? La risposta non è dubbia: ciò avverrà grazie all’importazione. Ora dunque, se la causa prima del buon prezzo deriva dal di fuori, come, con l’aggiungere il nostro lavoro, aumentato dei prezzi di trasporto della materia prima, al prodotto dell’estero, potremo far concorrenza allo straniero? E se implica contraddizione che il ribasso di cui l’estero ci fa godere, ci metta in condizione di resistere contro di esso, cioè di pagare i suoi prodotti con i nostri, con quale merce acquisteremo le sue esportazioni? Senza dubbio col nostro denaro. Provateci dunque che il denaro è una merce come un’altra, ovvero procurate che tutte le merci equivalgano alla moneta; se non ci riuscite, tacete, non siete che degli imbroglioni e degli storditi.

Lasciamo entrare in franchigia i cereali, gridano ai fittavoli i confederati inglesi, e il prezzo dei servizi essendo in ogni dove ridotto, la produzione del grano inglese sarà meno costosa; e il fittavolo, il proprietario, e il bracciante ne profitteranno. Ma, ancora una volta, è il movimento perpetuo, è inutile dimostrarlo. In qual modo, se il ribasso dei servizi in Inghilterra è dovuto all’importazione dei grani americani e del Mar Nero, la produzione del grano inglese potrà lottare contro la produzione del grano russo o americano? In qual modo l’effetto potrà vincere la causa? Il prezzo del frumento non salirà in ragione della domanda? Non diminuirà in ragione della concorrenza? Non seguirà tutte le oscillazioni del mercato? Se le spese di produzione in Inghilterra, per il fatto dell’importazione americana, sono ridotte di 3 franchi per ettolitro, la produzione inglese, sostenuta dall’americana, obbligherà l’America a ribassare i suoi prezzi di 3 franchi più di quello che non aveva fatto prima; ma giammai per questo mezzo l’Inghilterra potrà recuperare il vantaggio. Che dico io? Se tutto ribassa in Inghilterra, del ribasso delle sue merci profitteranno gli Americani, che saranno sempre più assicurati della loro superiorità per i loro cereali. Ancora una volta, provate il contrario, oppure ritirate le vostre parole.

Lasciamo introdurre, dice Blanqui, il ferro, il carbone, i tessuti, tutte le materie prime; e accadrà a ciascuna delle nostre industrie quello che già accadde per la produzione dello zucchero di barbabietola, dopo la liberalizzazione dei diritti che la proteggevano; esse aumenteranno di potenza... – Per sfortuna, grazie alla affermazione di Blanqui, i fabbricanti dello zucchero di barbabietola hanno reclamato; essi hanno detto che il progresso che avevano ottenuto nella fabbricazione, lo dovevano, non già alla concorrenza straniera, ma ai loro propri sforzi, alla loro propria intelligenza; che questo progresso, in una parola, l’avevano ottenuto con i loro sforzi, non grazie al soccorso straniero. Nel sistema di Blanqui, la protezione, anche la più moderata, deve nuocere all’industria del paese: tutto al contrario per la protezione quest’industria (essa medesima lo assicura) prospera. Così, si vide in pochi anni l’industria dei lini in Francia crescere da 90.000 fusi a 150.000; e, a quanto dice il ministro del commercio, oggi ne sono stati ordinati altri 60.000. Come potrebbe essere altrimenti? In qual modo, a meno di associare le fabbriche della raffinazione dello zucchero di Francia con quelle delle Antille, le filature della Bretagna con quelle del Belgio, il buon prezzo della industria straniera potrebbe aiutare a far camminare la nostra? Anche se un fabbricante di zucchero di barbabietola mi dicesse il contrario non gli crederei. Blanqui volle solamente dire che la concorrenza straniera, funzionando come stimolante, farà sì che i nostri industriali diverranno più inventori e per conseguenza le nostre industrie diverranno più produttive? In questo caso l’introduzione dei prodotti stranieri altro non è che un mezzo di alta politica commerciale nelle mani del Governo. Lo si dica schiettamente, e il principio è inteso; non v’ha più materia di controversia.

Se io provo a mia volta che l’assoluta libertà del commercio, con la conservazione dei monopoli nazionali e individuali, non solo non è un principio di ricchezza, poiché con una simile libertà l’equilibrio fra le nazioni è distrutto, e senza equilibrio non c’è vera ricchezza; – ma ancora è una causa d’aumento e di carestia, gli economisti mi faranno l’onore di togliersi questo nuovo scrupolo?

La Francia non teme alcuna concorrenza per i suoi vini; tutto il mondo li richiede. Sotto questo rapporto i bordolesi, gli sciampagnesi, i borgognoni non possono che guadagnare con la libertà del commercio; convengo pure, che per la nostra industria vinicola occupando un quinto della popolazione del paese, la soppressione totale delle barriere si presenta sotto una grande apparenza di vantaggio. I vignaioli sarebbero dunque soddisfatti: il libero commercio non avrebbe per effetto che di fare ribassare il prezzo dei vini; tutto al contrario, sarebbe un motivo di rialzo. Ma che cosa ne penserebbero i lavoratori e gli industriali? Il consumo per ogni individuo, che attualmente è di litri 95 a Parigi, discenderà a 60; si prenderà il vino come si prende il caffè, in mezze tazze e in piccoli bicchieri. Ciò sarà orribile per i Francesi; i nostri vini appunto perché crescono sullo stesso suolo sul quale veniamo su noi, ci sono più necessari che agli altri: la maggiore diffusione all’estero ce li toglierà.

Ora, quale il compenso che ci si offre? Sicuramente, questo non ci sarà procurato dai vini inglesi e del Belgio; né da quelli più reali, ma meno accessibili al popolo, quali sono il Porto, i vini ungheresi, l’Alicante o il Madera; né sicuramente dalle birre dell’Olanda, né dai latte dei casolari Alpini. Dunque, cosa berremo? Gli economisti dicono che noi avremo il ferro, il carbone, la chincaglieria, la tela, i cristalli, la carne a minor prezzo; cioè che da una parte non avremo più vino, e dall’altra avremo più fatiche, poiché, come fu dimostrato, non è già con i prodotti esteri che possiamo fare concorrenza ai prodotti esteri.

Reciprocamente poi, gli operai inglesi vedranno ribassare il prezzo del pane, del vino e degli altri commestibili; ma nello stesso tempo crescerà il prezzo del carbone, del ferro e di tutti gli oggetti che produce l’Inghilterra; e come, per conservare il loro lavoro dinanzi alla concorrenza estera, dovranno subire continuamente nuove riduzioni di salari, accadrà lo stesso che agli operai francesi: essi non potranno mai acquistare né i loro prodotti né i nostri. Orbene, chi avrà approfittato della libertà? I monopolizzatori, i soli monopolizzatori, i contribuenti, tutti quelli che vivono del credito dei loro capitali; in una parola, tutti i produttori di povertà, la cui casta, sempre assai numerosa per divorare il sovrappiù che fruttano a fittavoli le terre di prima qualità, ai minatori le miniere più ricche, all’industriale le coltivazioni più produttive, non può permettere al lavoro di badare alle terre e a tutte le coltivazioni inferiori, senza abbandonare le sue rendite. In questo sistema di monopoli ingranati, che si chiama libertà di commercio, il detentore degli strumenti di produzione sembra dire all’operaio: lavorerai fintanto che col tuo lavoro potrai procurarmi un sovrappiù; non andrai più avanti. La natura volle che l’abitante di ciascuna zona vivesse dapprima dei suoi prodotti naturali, poscia che si procurasse, con l’aiuto del superfluo, quegli oggetti che il suo paese non produce. Al contrario, secondo il progetto del monopolio, l’operaio altro non è che il servo dell’ozioso cosmopolita; il contadino di Polonia semina per il lord inglese; il portoghese, il francese producono i loro vini per tutti gli oziosi del mondo; il consumo, se mi è lecito così chiamarlo, è spaesato; il lavoro stesso, limitato dalla rendita, ridotto a una specialità limitata e servile, non ha più patria.

Così, dopo avere trovato che l’ineguaglianza degli scambi rovina a lungo andare le nazioni che acquistano, scopriremo ancora che essa rovina pure quelle che vendono. Una volta rotto l’equilibrio, la rovina si fa sentire da tutte le parti. La miseria reagisce contro il suo autore; e come nella guerra l’armata conquistatrice finisce per spegnersi nella vittoria, similmente, nel commercio, il popolo più forte finisce per essere il più esaurito. Strana rovina! Say ci afferma che nel libero scambio tutto il vantaggio è di colui che più riceve; e prendendo il vantaggio nel senso di minore danno, Say avrebbe del tutto ragione. Si soffre meno a consumare senza produrre che a produrre senza consumare; tanto meglio se, dopo avere tutto perduto, vi resta il lavoro per tutto riconquistare.

L’Inghilterra è da lungo tempo questo paese A, marcato da Bastiat; paese capace di provvedere al mondo da solo, di una moltitudine di cose, e a condizioni migliori di tutti gli altri paesi. Malgrado le tariffe di cui si è dappertutto circondata la diffidenza delle nazioni, l’Inghilterra ha raccolto il frutto della sua superiorità, ha rifornito reami e attirato a sé l’oro della terra; ma nello stesso tempo la miseria le è venuta da tutti i punti del globo. Creazione di fortune straordinarie, spoliazione di tutti i piccoli proprietari e metamorfosi dei due terzi della nazione in casta indigente. Ecco ciò che hanno valso all’Inghilterra le sue conquiste industriali. Invano si sforza, con una teoria assurda, di tenere a bada gli animi e dissimulare la causa del male; invano un intrigo potente, sotto la maschera del liberalismo, cerca di porre le nazioni rivali in una zuffa disastrosa; i fatti restano per istruzione della società, e basterà sempre fare l’analisi di questi fatti per convincersi che ogni infrazione alla giustizia colpisce l’assassino nello stesso tempo della vittima.

Che dirò di più? I partigiani del libero monopolio non hanno egualmente la soddisfazione di potere seguire il loro principio fino alla fine, e la loro teoria finisce con la negazione d’essa stessa. Supponiamo che dopo l’abolizione dei diritti sui cereali l’Inghilterra, entrando nella via della nostra grande rivoluzione, ordinasse la vendita di tutti i possedimenti, e che il suolo, oggi radunato nelle mani di una impercettibile minoranza, si spartisse fra i quattro o cinque milioni di abitanti che formano la gran parte della sua popolazione agricola. Sicuramente, questo procedere, di già previsto da qualche economista, sarebbe il migliore per liberare per un dato tempo l’Inghilterra dalla sua affliggente miseria e un ottimo supplemento delle workhouse. Ma, messa in opera questa grande misura rivoluzionaria, se il mercato inglese continuasse, come peri il passato, a essere aperto ai cereali e agli altri prodotti agricoli di fuori, è evidente che i nuovi proprietari, forzati a vivere delle loro terre e ricavarne pane, orzo, carne, latte, uova e legumi, e non potendo scambiare o non scambiando che in perdita, poiché le loro produzioni costerebbero più care degli oggetti della stessa natura importati dall’estero, questi proprietari, si aggiusterebbero, come altre volte i nostri contadini, in modo di non comprare niente, e da produrre essi stessi tutto ciò di cui avrebbero bisogno. Le barriere sarebbero abolite; ma le popolazioni rurali astenendosi, sarebbe come se l’abolizione non fosse avvenuta. Ora, non ci vuole gran penetrazione per vedere che tale è stata la causa prima del regime protezionista; gli economisti, con le loro cifre e con la loro eloquenza, potrebbero dire come pensano di sfuggire da questo cerchio?...

L’essenza della moneta disconosciuta; gli effetti del rialzo e del ribasso sulla moneta paragonati senza alcun criterio agli effetti del rialzo e del ribasso sopra le merci; l’influenza dei monopoli sul valore dei prodotti messa da parte; l’egoismo sostituito dappertutto all’interesse sociale; la solidarietà degli oziosi eretta sopra le rovine della solidarietà dei lavoratori; la contraddizione nel principio, e soprattutto, le nazionalità sacrificate sopra la protezione del privilegio: ecco, se non m’inganno, ciò che abbiamo fatto sortire, con una irresistibile evidenza dalla teoria del libero commercio.

Conviene che seguiti la confutazione di questa utopia, così cara agli economisti? O mi sono abbandonato alla più strana allucinazione, o il lettore imparziale deve essere ormai molto disingannato, e l’argomentazione degli avversari deve sembrargli meschina, priva di filosofia e di vera scienza, che a mala pena oso ancora citare nomi e testi. Ho paura che la mia critica, a forza d’evidenza, divenga alla fin fine irriverente; e piuttosto che irritare, con una pubblica discussione, il rispettabile amor proprio, preferisco mille volte abbandonarlo alla solitudine del rimorso.

Ma non abbiamo ancora detto tutto: per altro l’opinione è sì poco chiara, l’autorità dei nomi è sì potente per noi, che mi si perdonerà il furore col quale sono costretto a combattere una scuola le cui intenzioni, sono fortunato di conoscerle, sono eccellenti, ma i cui mezzi reputo contraddittori e funesti.

Mathieu de Dombasles, uno dei migliori agronomi, aveva benissimo conosciuto la ragione filosofica del regime protezionista; e aveva combattuto, con un buon senso pieno d’originalità e di fantasia, la teoria di J.-B. Say. Senza dubbio, diceva, Say avrebbe tutte le ragioni se le merci fossero semplicemente scambiate, come nelle società primitive; ma esse sono state da una parte e dall’altra vendute e comperate; si è avuto dell’oro e dell’argento per appunto, e la moneta ha saldato la differenza. Che importa dunque il buon mercato? Dal momento che non paghiamo le nostre compere in valori agricoli o industriali, ma con metalli preziosi, alieniamo progressivamente i nostri possessi, e diventiamo realmente tributari dello straniero. Poiché abbiamo sempre da pagare, dovremo ricomprare dell’oro e dell’argento, o lasciare prendere ipoteca. Ma il primo partito è impossibile nel commercio, resta dunque il secondo, che è, propriamente parlando, la schiavitù.

È contro questa deduzione irrefutabile, presa dalle nozioni di economia politica, che Dunoyer si è indignato, in piena seduta dell’Accademia delle Scienze morali e politiche.

“De Dombasles, va detto con veemenza, una delle più forti e sane intelligenze, uno dei caratteri più puri del nostro paese, è, al pari di [Antoine] d’Argout, partigiano del regime protezionistico. Ma nessuno è infallibile; e può capitare agli spiriti più felicemente dotati di ingannarsi”.

Perché questa insinuazione pochissimo parlamentare? La teoria liberale è così sicura che ogni ragione, sotto pena di follia, deve inchinarsi ad essa? La certezza di questa teoria, si dirà, è acquisita dall’Accademia di Scienze morali e politiche, che ne assume la responsabilità... Perché non aggiungete: e fuori della quale non vi sono che intriganti, imbroglioni, comunisti abominevoli, degni d’essere sferzati da Dunoyer e avere per biografo Reybaud? A questo non avrei niente da rispondere. Ma, domanderò all’Accademia di Scienze morali, custode delle libertà industriali contro l’invasione delle utopie comuniste, come avviene che d’Argout e Dombasles si oppongono alla libertà del commercio, precisamente perché si oppongono al comunismo? L’atterramento delle barriere, se non è la comunità dei lavoratori, è per lo meno la comunità degli imprenditori: è già un principio d’eguaglianza. Ora, ciascuno a casa sua, ciascuno per sé, gridano d’accordo d’Argout e Dombasles; ne abbiamo abbastanza delle nostre iniquità, e non vogliamo entrare in comunità di rapina con nessuno. Al più osserva l’ultimo: “Risulta dalla divisione degli interessi che non può esserci società reale fra diverse nazioni; non c’è e non può esserci che una semplice agglomerazione di società contigue... Cos’è l’interesse generale dell’umanità; cos’è l’interesse speciale delle nazioni?...”. Questo discorso è esplicito: l’abolizione delle dogane fra i popoli è impossibile, dice il Dombasles, perché la comunità fra i popoli è impossibile.

Perché l’Accademia delle Scienze morali, nemica, per principio, della comunità come d’Argout e Dombasles lo sono per istinto, ha preso parte, nella questione del libero commercio, per la comunità? “L’illustre agronomo, dice Dunoyer, non si è limitato a riguardare il sistema in fatto; ha preso a difenderlo in teoria”.

Teoria e pratica, pratica e teoria: ecco i punti cardinali di tutto il ragionamento del signor Dunoyer. Questo è il suo Deux ex machina. Tutti i giorni i princìpi economici sono smentiti dai fatti: pratica. I fatti compiuti in virtù dei princìpi sono disastrosi: teoria. Scusando eternamente la teoria con la pratica e la pratica con la teoria, si finisce per mettere il senso comune fuori causa, e l’arbitrario è certo di avere sempre ragione. Da quale teoria Dunoyer è stato condotto, nella questione protezionista, a disertare la pratica proprietaria e a dichiararsi partigiano della comunità? “Infatti, dalle epoche in cui le relazioni commerciali hanno cominciato a svilupparsi, si è cominciato dappertutto con la proibizione delle merci estere”.

Registriamo prima questo fatto, e notiamo che Dunoyer, difendendo una teoria opposta ai fatti, comincia la giustificazione del suo comunismo con un’utopia. Come! L’Accademia di Scienze morali e politiche, nel rapporto che ha pubblicato, sopra il concorso relativo all’associazione, s’è lagnata che i concorrenti avessero tenuto troppo poco conto della storia, e Dunoyer, trentesimo autore di questa relazione, consacra la sua vita a difendere un principio opposto alla storia! La storia non significa dunque più niente, dopo che si è accademici! “Niente doveva sembrare così naturale e così lecito che respingere la concorrenza estera: il cupido istinto delle popolazioni, l’interesse fiscale dei governi, le vivacità nazionali, la paura, l’odio, la gelosia, l’amore della vendetta e delle rappresaglie, ogni sorta di cattivi sentimenti dovevano spingere all’uso di questo mezzo, uso che ha saputo colorire subito la sagacia naturale dello spirito umano, sempre abile a scoprire buone ragioni in appoggio delle più cattive cause”.

Ecco il genere umano trattato come Dombasles. Questi si dichiara protezionista: è un genio caduto, degno delle censure dell’Accademia. Il genere umano ha pensato sul libero commercio diversamente da Dunoyer: è una razza di bricconi, di pirati, di falsari, degni di tutti i mali della gabella e della dogana.

Dunoyer, mi permetto di dirgli, accorda troppa potenza alla nostra malizia, e fa nello stesso tempo troppo onore al nostro spirito. Credo che neanche una istituzione sia nata da un cattivo pensiero, tanto meno da un assoluto errore; e il compito della sagacia umana non è d’inventare pretesti alle risoluzioni sociali, ma di scoprire quali sono stati i veri motivi. Il consenso universale si è ingannato stabilendo attorno a ciascun popolo un cerchio di garanzie? Se Dunoyer si fosse posta la questione in questi termini, senza dubbio sarebbe stato più riservato nella risposta. “Che il sistema dunque abbia avuto le sue ragioni ciò non è contestabile: che non abbia impedito certi progressi, e anche progressi considerevoli, quantunque infinitamente minori e soprattutto meno felicemente diretti, che se le cose avessero preso un corso più regolare e più legittimo, ciò non è suscettibile di essere contestato”.

Dunoyer, mi rincresce di metterlo in così cattiva compagnia, ragiona giusto come i comunisti e gli atei. Senza dubbio, dicono questi, la civiltà ha camminato; senza dubbio la religione e la proprietà hanno avuto le loro ragioni d’esistenza; ma quanto più rapidi sarebbero stati i nostri progressi, senza i re, i preti, la proprietà, fondamento della famiglia; senza questo terribile dogma della caduta e della necessità di combattere la carne!... Inutili rimpianti: le proibizioni furono nei loro tempi, come la proprietà, la monarchia e la religione, parte integrante e necessaria della politica degli Stati, e una delle condizioni della loro prosperità. La questione non è solo di discutere le proibizioni in se stesse, ma di sapere se il loro destino è compiuto: a che serve l’essere membro di un’Accademia di Scienze morali, politiche e storiche se si sconoscono questi princìpi della più volgare critica?

Dunoyer accusa in seguito la divergenza degli interessi creati dal sistema protezionista. È prendere la cosa al contrario. La divergenza degli interessi non è nata dalla protezione; deriva dall’ineguaglianza delle condizioni del lavoro e dei monopoli; essa è la causa non l’effetto dello stabilimento delle dogane. Forse non esistevano in Inghilterra depositi di oli e di ferro, come le pianure a frumento in Polonia, come la vigna nel Bordolese e in Borgogna, prima che i popoli pensassero a proteggersi gli uni contro gli altri? “È permesso supporre che sull’esempio degli altri privilegi che sotto certi rapporti e a certe epoche hanno agito come stimolanti, le proibizioni sono state un incoraggiamento, che hanno aiutato a vincere l’esitazione dei capitalisti, e impegnarli in imprese utili, ma rischiose”.

È permesso domandare quali sono questi altri privilegi che, come le proibizioni, hanno agito da stimolanti sull’industria, e che pertanto la teoria condanna del pari che le proibizioni? Dappertutto all’origine, ci dice Rossi, riscontriamo un monopolio. È questo monopolio che cambia il prezzo naturale delle cose, e che nondimeno consolidandosi e generalizzandosi con un tacito accordo, diventa la proprietà. Ora, che la proprietà abbia avuto le sue ragioni, ciò non è contestabile; che di più essa non abbia impedito certi progressi, che abbia agito come stimolante, ciò non è maggiormente suscettibile di essere contestato. Ma che la proprietà, fino a un certo punto spiegabile come fatto, sia affermata come principio e principio assoluto, ecco ciò che proibisco, sotto pena d’inconseguenza, a ogni avversario delle protezioni. Per la terza volta Dunoyer è comunista.

Dunoyer cerca in seguito di seminare la divisione nei ranghi dei suoi avversari: “In una occasione recente, un certo numero d’industrie che combattevano con violenza l’unione commerciale col Belgio, a nome e nell’interesse del lavoro nazionale, sono state smentite, accusate, apostrofate [malamente] da molte altre”.

Perché meravigliarsi? Era l’antinomia della libertà e della protezione che si cambiava in dramma; ogni partito arrivando sulla scena aveva l’intolleranza e la diffidenza dei suoi interessi, vi doveva essere battaglia, crisi, ingiurie e scandalo. In una simile mischia, la parte degli economisti era di non prendere la parte di nessuno: dovevano mostrare a tutti che erano ingannati e vittime di una contraddizione. Monopoli contro monopoli, ladri contro ladri! La scienza non aveva che tenersi da parte, se ci si rifiutava di ascoltare le sue parole di pace. Gli economisti, difensori del monopolio dell’interno, quando si tratta dell’operaio; apologisti del monopolio estero, quando si tratta del consumo dell’ozioso, non hanno pensato che a tirare partito per la teoria dalla lotta degli interessi. In luogo di parlare ragionevolmente, hanno soffiato sul fuoco, e perciò non sono riusciti che ad attirarsi le maledizioni dei proibizionisti e a renderli più ostinati. La loro condotta in questa circostanza è stata indegna di veri saggi, e i giornali ai quali hanno consegnato le loro diatribe resteranno come prova della loro incredibile cecità.

“Per questo solo, dice Dunoyer, il Governo favorisce la nazione, quando si mostra ostile verso gli stranieri”.

Questo è fanatismo umanitario: è come se si dicesse che la famosa massima: Ciascuno a casa sua, ciascuno per sé, è una dichiarazione di guerra. E vedete come, malgrado il tumulto delle opinioni, tutto si incatena nelle cose della società! È al momento in cui il ministero accarezza l’alleanza inglese e la difende a oltranza che noi economisti accarezziamo la libertà inglese, questa libertà che, facendo cadere la catena dai nostri piedi, ci taglia le braccia... Non calunniamo più l’interesse nazionale che l’interesse privato; soprattutto non crediamo di amare troppo il nostro paese. Il semplice buon senso, diceva con una ragione eminentemente pratica Dombasles, e sono stupito che Dunoyer non ne sia stato colpito, ha fatto sentire di buon’ora alle nazioni che vale di più produrre un oggetto che consumano, che comperarlo dallo straniero. Il rifiuto del di più delle merci straniere è semplicemente il rifiuto di mangiarsi patrimonio e rendite; e in quanto alla fantasia, oggi disordinata, di produrre tutto da se stesso, è ancora, si deve ben riconoscerlo, la sola garanzia che abbiamo contro questo contagio della feudalità mercantile, che dopo essere nato in Inghilterra, minaccia come un colera d’impadronirsi dell’Europa. Ma la teoria del libero commercio non ammette né distinzione né riserva. Gli conviene, col monopolio della terra e degli strumenti di lavoro, la comunità del mercato, cioè la coalizione degli aristocratici, il vassallaggio generale dei lavoratori, l’universalità della miseria.

Dunoyer si lamenta che la protezione arresta i favorevoli effetti della concorrenza fra i popoli, e mette ostacolo ai progressi generali dell’industria. Ho già risposto che a questo riguardo la questione dei proibizionisti, è una questione di alta politica commerciale, e che sta ai Governi giudicare quando devono estendere la proibizione, quando devono restringerla. Del resto, è chiaro, che se il regime protezionista, togliendo la concorrenza fra i popoli, priva la civiltà dei suoi fortunati effetti, la preserva nel tempo stesso dai suoi effetti sovversivi: vi è compenso.

Infine, Dunoyer, dopo aver circondato la fortezza protezionista con le trincee della sua argomentazione, si decide a dare l’assalto. Ecco qui, dapprima, come rende conto delle ragioni dei suoi avversari. “Nell’interno d’uno stesso paese, tutte le miniere non sono suscettibili d’essere utilizzate con la stessa facilità; tutti i lavoratori non coltivano un suolo egualmente fertile; tutte le fabbriche non sono egualmente ben collocate; tutte non dispongono di motori naturali gratuiti, o di motori d’eguale forza; tutti non hanno al loro servizio delle popolazioni egualmente intelligenti e ben indirizzate. Dove le condizioni sono più eguali, una moltitudine di cause possono accidentalmente farle variare, un modo nuovo, un procedimento nuovo, un perfezionamento qualunque”.

A meraviglia. Ebbene! che dice la teoria? Qual è il suo sistema di compenso? Come, poiché il possesso di questi strumenti di produzione è di già un monopolio, la teoria livellerà le ineguaglianze create da tutti questi monopoli? Come mai, seguendo l’espressione del vostro collega Bastiat, fra tutti questi produttori che vengono allo scambio, il lavoro incorporato da ciascuno di essi nel suo prodotto sarà la sola cosa che si paghi?

Come mai colui che, in un giorno produce una melarancia a Parigi, sarà tanto ricco quanto colui, che nello stesso tempo ne produce una cassa in Portogallo? Ecco ciò che aspetta da voi il buon senso popolare: ed è il principio, è la scusa, per non dire la giustificazione del regime protezionista.

Vanità delle teorie! Dunoyer indietreggia. Invece di tirarsi fuori a viva forza dalla difficoltà, cerca di stabilire che la difficoltà non esiste. E la sua ragione, conviene bene che si confessi, è ancora la più potente che abbiano immaginato gli economisti. Le dogane dice, sono ben state abolite nell’interno di tutti i paesi, in Francia, in Germania, in America, ecc., e questi paesi si sono trovati bene, perché non lo sarebbero egualmente all’estero, fra tutti i popoli?

Ah! domandate perché? Ciò vuol dire che ignorate il senso dei fatti compiuti, che non sapete prevedere il senso di quelli di cui provocate il compimento; e ogni vostra teoria riposa sopra un’oscura analogia! Non avete visto né inteso né compreso ciò che è successo e parlate con la certezza di un profeta di ciò che succederà! Domandate perché non si aboliranno le dogane al di fuori come al di dentro?...

Rispondo alla domanda in tre parole: non esiste fra i popoli né comunità di monopoli né comunità di scambi, e ciascun paese ha sufficientemente miseria sviluppata nel suo seno dai suoi monopoli e dalle sue imposte, per non aggravarla ancora con l’influenza dei monopoli e delle imposte dell’estero.

Ho sufficientemente parlato dell’ineguaglianza che risulta fra le nazioni dal monopolio dei loro territori rispettivi; mi limiterò dunque a considerare qui la questione del libero commercio dal punto di vista dell’imposta.

Ogni servizio utile che si produce in una società politica arriva alla consumazione gravata di certi diritti fiscali rappresentanti la parte proporzionale che questo prodotto sopporta negli scambi pubblici. Così una tonnellata di carbone fossile spedita da Saint-Etienne a Strasburgo costa, ogni spesa compresa, 30 franchi. Sopra questi trenta franchi, quattro rappresentano l’imposta diretta, chiamata diritto di navigazione, che deve rimborsare il prodotto carbone per andare da Saint-Etienne a Strasburgo.

Ma la somma di 4 franchi non rappresenta tutti gli scambi che paga una tonNellata di carbone; vi sono ancora altre spese, che chiameremo imposta indiretta del carbone, e che si deve così portare in conto. In effetti la somma di 26 franchi, che forma il completamento del valore totale del carbone portato a Strasburgo, si compone per intero di salari, dall’interesse pagato al capitalista che coltiva il fondo, fino al lavoratore e ai marinari che conducono il battello a destinazione. Ora, questi salari, a loro volta, si dividono egualmente in due parti: l’una che è il prezzo del lavoro, l’altra che rappresenta la parte contributiva di ciascun lavoratore nell’imposta. Cosicché, spingendo questa scomposizione tanto lontano, quanto può andare, si troverà, può essere, che una tonnellata di carbone venduta trenta franchi è gravata dal fisco di circa il terzo del suo valore commerciale, ossia 10 franchi.

È giusto che il paese, dopo aver gravato i produttori di spese straordinarie, compri i loro prodotti preferendoli a quelli dei produttori stranieri che non gli pagano niente? – Sfido chiunque a rispondere no.

È giusto che il consumatore di Strasburgo, che potrebbe avere il carbone di Prussia a 25 franchi, sia obbligato a provvedersi in Francia, dove egli lo paga trenta, oppure di pagare, per ottenere il carbone di Prussia, un nuovo diritto?

Ciò è come domandare: il consumatore di Strasburgo appartiene alla Francia? Gode dei diritti inerenti alla qualità di francese? Produce per la Francia e sotto la protezione della Francia?...

Dunque, egli è solidale con tutti i suoi compatrioti; e come la sua clientela l’ha acquistata sotto l’egida della società francese, egualmente il suo consumo personale fa parte della distribuzione. E questa solidarietà è ineluttabile; per cessare d’esistere, bisognerebbe cominciare col sopprimere il Governo, sopprimere l’amministrazione, l’esercito, la giustizia e tutti gli accessori, e ristabilire gli industriali nel loro stato di natura; ciò è evidentemente impossibile. Dunque la comunità degli scambi, è la condizione economica della società francese che ci obbliga a fare lega contro lo straniero, se non vogliamo perdere in un commercio insostenibile il capitale nazionale. Sfido nuovamente d’opporre qualcosa a questo principio della solidarietà civica.

Allorché le dogane interiori sono state abolite in Francia, senza parlare dell’accrescimento della povertà che è stato uno dei principali risultati della centralizzazione dei monopoli nazionali, e che diminuisce di molto i vantaggi della libertà del commercio fra gli ottantasei dipartimenti, si è fatta, fra questi stessi dipartimenti, una ripartizione proporzionale dell’imposta a seguito della comunità degli scambi. In modo che le ricche località pagando di più e le povere meno, una specie di compenso s’è fatto fra le province. Si è avuto, come sempre, accrescimento di ricchezza e progresso di miseria; ma per lo meno tutto ciò è stato reciproco.

Niente di simile potrebbe avere luogo fra le nazioni del globo, fino a quando saranno divise di governo e non solidali. Gli economisti non hanno, senza dubbio, la pretesa di fare la guerra ai prìncipi, di rovesciare le dinastie, di ridurre i Governi alla funzione di guardie di città, e di sostituire alla distruzione degli Stati la monarchia universale; ma tanto meno possiedono il segreto di associare i popoli, cioè di risolvere le contraddizioni economiche e sottomettere al lavoro il capitale.

Ora, a meno di riunire tutte queste condizioni, la libertà del commercio non è che una cospirazione contro le nazionalità e contro le classi lavoratrici; sarei fortunato che qualcuno mi provasse, con ragioni dimostrative, che in questo, come in tutto il resto, mi sono ingannato.

Ecco dunque che a forza di agitare la questione della dogana, dopo avere visto la protezione comandata dalla necessità, legittimata dallo stato di guerra, cioè dalla consacrazione universale dei monopoli, la troviamo ancora fondata in economia politica e nel diritto. L’esistenza della dogana è intimamente legata alla percezione dell’imposta e al principio della solidarietà civica, così bene che all’indipendenza nazionale e alla garanzia costituzionale delle proprietà.

Perché dunque accuserò solamente d’egoismo e di monopolio gli industriali che domandano protezione? Quelli che gridano libertà! sono dunque dei puri? Mentre gli uni traggono utili e impoveriscono il paese, guarderò come salvatori quelli che vogliono venderlo, e non accuserò di fellonia gli abolizionisti anglofili? A questo proposito ricorderò un motto dell’onesto Dombasles, che mi è restato come piombo sul petto, e di cui non ho mai penetrato il mistero: “Io non so, scriveva egli con tristezza, se un francese vorrebbe dire, oppure potrebbe trovare la verità sopra qualcuna delle questioni che riguardano questo soggetto”.

La dogana esiste dappertutto dove si stabilisce un commercio da nazione a nazione. I popoli selvaggi la praticano come i civilizzati; comincia ad apparire nella Storia, nel tempo stesso che l’industria; è uno dei princìpi costitutivi della società, allo stesso titolo che la divisione del lavoro, le macchine, il monopolio, la concorrenza, l’imposta, il credito, ecc.

Non dico che debba durare sempre, almeno nella sua attuale forma, ma affermo che le cause che l’hanno fatta nascere dureranno sempre; conseguentemente a un’antinomia che la società deve eternamente risolvere, e che fuori di questa soluzione, non c’è altro per le società che inganno e mutua miseria. Un Governo può sopprimere con un’ordinanza le sue linee di dogana; che importa al principio, che importa alla fatalità, di cui noi non siamo che gli organi, questa soppressione?

L’antagonismo del lavoro e del capitale sarà diminuito? La guerra del patriziato e del proletariato sarà generalizzata. Il contagio dell’opulenza e della povertà non incontrerà più alcun ostacolo; perché le catene del vassallaggio saranno state, come una rete, gettate sul mondo, e tutti i popoli legati sotto un patronato unitario. Ma senza che il problema dell’associazione industriale venga risolto e la legge d’equilibrio sociale trovata.

Qualche osservazione ancora, e termino questo paragrafo di già abbastanza lungo.

Il più popolare di tutti i nostri economisti, ma nello stesso tempo il più ardente promotore della libertà assoluta degli scambi, Blanqui, nella sua Storia dell’Economia Politica [dagli antichi fino ai nostri giorni, tr. it., Torino 1839], ha votato all’esecrazione della posterità i Re di Spagna Carlo V e Filippo II, per avere adottato per primi, come regola politica, il sistema della bilancia del commercio e suo indispensabile ausiliario, la dogana.

Certo, se per questo misfatto Carlo V e Filippo II furono peggiori di Tiberio e Domiziano, conviene confessare pertanto ch’ebbero tutta la Spagna e tutta l’Europa per complici; circostanza che, agli occhi della posterità, deve attenuare il loro delitto. Questi sovrani rappresentanti del loro secolo, ebbero dunque sì gran torto nel loro sistema di nazionalità esclusiva?

Blanqui ci risponde.

Consacra un capitolo speciale a dimostrare come la Spagna, grazie alle immense ricchezze che le aveva dato la scoperta del Nuovo Mondo, essendosi alienata dalla sua antica industria, dapprima per l’espulsione dei Mori, poi per quella degli Ebrei, infine per la sua lascivia e la sua poltroneria, fu in pochissimo tempo rovinata, e divenne la più povera di tutte le nazioni. Comprando sempre e mai vendendo, non poteva sfuggire al suo destino. Blanqui lo dice, lo prova; questa è una delle più belle parti della sua opera. Non è vero che se Carlo V e Filippo II avessero potuto, con un mezzo qualunque, forzare la Spagna a lavorare, sarebbero stati veri dèi tutelari, padri della patria?

Disgraziatamente Carlo V e Filippo II non erano né socialisti, né economisti; non avevano a loro disposizione venti sistemi d’organizzazione e di riforma, e non si davano cura di credere che l’uscita dei capitali dalla Spagna fosse una ragione elevata alla quarta potenza di farceli ritornare.

Come tutti gli uomini della loro epoca, sentivano vagamente che l’uscita del numerario equivaleva a un’effusione della ricchezza nazionale; che se comprare sempre e mai vendere era il mezzo più celere di rovinarsi, comperare molto e vendere poco era un mezzo di rovina meno pronto ma più sicuro. Il loro sistema d’esclusione o per meglio dire di coercizione al lavoro non riuscì, sono d’accordo; io stesso confesso che era impossibile che riuscisse; ma sostengo ch’era impossibile impiegarne un altro; mi appello a tutta la sagacia inventiva di Blanqui.

Due cose mancarono ai re di Spagna: il segreto di fare lavorare una nazione piena d’oro, segreto introvabile assai più di quello di fare dell’oro, e lo spirito di tolleranza religiosa in un paese dove la religione dominava tutto. La ricca e cattolica Spagna era anticipatamente condannata per la sua religione e per il suo culto. Le barriere elevate da Carlo V e Filippo II, rovesciate dalla viltà dei soggetti, non opposero che una debole resistenza all’invasione straniera, e in meno di due secoli un popolo di eroi si trovò cambiato in un popolo di lazzaroni.

Blanqui dirà che la Spagna s’impoverì non per i suoi cambi, ma per la sua inazione; non a causa della soppressione delle barriere, ma malgrado l’erezione delle barriere? Blanqui, la cui eloquenza sì brillante e sì viva sa dare rilievo a cose da niente, è capace di fare questa obiezione? È mio dovere prevenirlo.

È ammesso che consumare senza produrre è, per parlare propriamente, distruggere; per conseguenza, spendere il proprio denaro in una maniera improduttiva, è distruggere; prendere a prestito a questo fine, sopra il proprio patrimonio, è distruggere; lavorare con perdita è distruggere; vendere con perdita è distruggere. Ma comperare più merci che non si possa vendere è ancora lavorare con perdita, è consumare il proprio patrimonio, è distruggere la fortuna; che importa che questa fortuna se ne vada in contrabbando o per autentico contratto? Che importano la dogana e le barriere? La questione è di sapere se vendendo una merce con la quale si è padroni del mondo, e che non si può fare ritornare che col lavoro e lo scambio, si aliena la propria libertà. Ho dunque il diritto di assimilare ciò che fece la Spagna sotto Carlo V e Filippo II, quando si limitava a dare il suo oro in cambio dei prodotti stranieri, con ciò che noi stessi facciamo, quando cambiamo 200 milioni di prodotti stranieri contro 160 milioni dei nostri prodotti, più 40 milioni del nostro denaro...

Quando gli economisti si vedono troppo spinti sui princìpi, si gettano sui dettagli, cadono in equivoci sull’interesse del consumatore e la libertà individuale, ci abbagliano di citazioni, denunciano gli abusi della dogana, i suoi intrighi, le sue vessazioni, fanno valere il male inseparabile dal monopolio per concludere sempre per una più grande libertà del monopolio.

Blanqui, rispondendo con la sua inesauribile fantasia a un celebre giornalista, divertì molto i lettori mostrando loro la dogana che percepisce 5 centesimi per una sanguisuga, 15 centesimi per una vipera, 25 per una libbra di china, tanto per un chilogrammo di liquirizia, ecc., Tutto paga, esclama egli, persino i rimedi che devono rendere la salute ai disgraziati... E perché, non aggiunse Blanqui, fino la carne che mangiamo, fino il vino che beviamo, fino i tessuti che ci coprono! Ma perché non pagherebbe tutto, poiché conviene che qualche cosa paghi? Dite dunque, finalmente, invece di declamare e di fare dello spirito, come lo Stato farebbe senza imposta, come il popolo farebbe senza lavoro?...

In occasione del ferro e dell’alluminio adoperati in marina, Carlo Dupin sostenne davanti al Consiglio generale dell’agricoltura e del commercio il sistema dei premi e il “Journal des Économistes”, gennaio 1846, fece questa riflessione: “Charles Dupin dice che vi sono abbastanza fabbriche in Francia per soddisfare tutti i bisogni della navigazione. La questione non è là. Queste fabbriche possono dare il ferro a così buon mercato come si avrebbe in Belgio o in Inghilterra?”.

La questione è per l’appunto là. È indifferente per una nazione di vivere lavorando, o di morire facendo prestiti? Se la Francia deve rinunciare a produrre da se stessa tutto ciò che avrebbe a più basso prezzo dall’estero, non c’è ragione perché non abbandoni le industrie in cui è superiore; e tutti gli sforzi che facciamo per ricondurre a noi la clientela che ci scappa, sono malissimo intesi. Il principio protezionista, spinto fino all’ultima sua conseguenza, termina, come ha detto [Hippolyte] Dussard, col rifiutare il prodotto straniero, anche dato per niente; ma il principio liberale arriva a tralasciare il lavoro nazionale: e gli economisti, invece di elevarsi al di sopra dell’alternativa, l’accettano e scelgono! Che povera scienza!

L’atto politico che di più ha sollevato il clamore economico, è stato il blocco continentale, posto da Napoleone contro l’Inghilterra.

Scartiamo ciò che vi fu di gigantesco e insieme di piccolo in questa macchina di guerra, che era senza dubbio impossibile manovrare con la stessa precisione di un quadrato della guardia, ma del resto perfettamente concepito nel suo principio, e che è, a mio avviso, una delle prove più eloquenti del genio di Napoleone. Il fatto ha provato in mio favore, diceva egli a Sant’Elena, tanto annetteva importanza a questo titolo imperituro della sua gloria, tanto godeva di consolarsi nel suo esilio col pensiero che, soccombendo a Waterloo, aveva conficcato nel cuore del nemico il dardo che doveva ucciderlo.

Il “Journal des Économistes” (ottobre 1844), dopo avere riunite tutte le ragioni che giustificano Napoleone, ha trovato modo di trarne la conseguenza, che il fatto ha provato contro Napoleone. Ecco i motivi che presenta: non cambio né esagero cosa alcuna.

Il blocco continentale ha forzato l’Europa a scuotersi dal suo letargo; dal regno dell’Imperatore data il movimento industriale del continente; in seguito a questo novello sviluppo, la Francia, la Spagna, la Germania, la Russia hanno appreso a fare senza le forniture inglesi; dopo essersi rivoltate contro il sistema d’esclusione immaginato da Napoleone, si sono messe ad applicarlo ciascuna dalla sua parte; il pensiero di un solo uomo è divenuto quello di tutti i governi: imitando l’Inghilterra, non solo nell’industria, ma nelle sue combinazioni protezioniste, riservano dappertutto ai fabbricanti indigeni il mercato del loro paese: tanto che l’Inghilterra, più che mai minacciata da questo blocco universale rinnovato da Napoleone, pronta a mancare di sbocchi, domanda intanto con gran clamore la soppressione delle barriere, raduna dei mostruosi meeting per la libertà assoluta del commercio e, con questo cambiamento di tattica, si sforza di trascinare in un movimento abolizionista, le nazioni rivali.

“Il sistema protezionista – diceva [William] Huskisson alla Camera dei Comuni – è per l’Inghilterra un brevetto d’invenzione scaduto”. “Sì, – replica Dombasles – il brevetto è caduto nel dominio pubblico, ecco perché l’Inghilterra non lo vuole più”. Aggiungo che questo prova precisamente che essa ci tiene più che mai.

Ciò che tocca di più i nostri economisti, dalla parte dei confederati, è che costoro domandano l’abolizione delle tariffe all’importazione, per tutti i prodotti del di fuori, senza reciprocità. Senza reciprocità! Quale devozione alla santa causa della fraternità umana! Ciò ricorda il diritto di visita. Senza reciprocità! Come mai possiamo noi, Francesi, Tedeschi, Portoghesi, Spagnoli, Belgi e Russi, resistere a questa prova di disinteressamento?

“Come immaginarsi – esclama l’avvocato della Ligue, Bastiat – che tanti sforzi perseveranti, tanto sincero accaloramento, tanta vita, tanta azione, tanto accordo, non abbiano che uno scopo: ingannare i popoli vicini e farli cadere nella trappola? Ho letto più di trecento discorsi degli oratori della Lega; ho letto un immenso numero di giornali e di opuscoli, pubblicati da questa potente associazione; e posso affermare che non ho visto una sola parola che giustifichi una simile supposizione, una parola da cui si possa dedurre che si tratta, per la libertà del commercio, di assicurare il governo del mondo al popolo inglese”.

Pare che Bastiat abbia letto male, oppure non capito: ecco qui ciò che ha trovato nelle pubblicazioni della Ligue un economista non meno istruito di Bastiat nella retorica dei confederati: “Questi giornali, questi opuscoli, sono pieni di sottigliezze e di sofismi, sfortunatamente, si contraddicono gli uni con gli altri, quantunque siano spesso dovuti alla stessa penna. Quando si indirizzano al popolo, i confederati dicono, rifacendosi ad A. Smith: la libera importazione del frumento farà abbassare il prezzo del pane e aumentare i salari in seguito alla domanda considerevole dei prodotti manufatturieri. Parlando ai capitalisti: la diminuzione del prezzo delle sussistenze ci permetterà di abbassare i salari e aumentare i nostri guadagni, in ragione dell’allargamento delle vendite... Se i salariati si mostreranno esigenti, potremo sempre fare senza di loro con l’aiuto delle macchine e del vapore. S’indirizzano a un proprietario? Allora lasciano Smith per prendere Ricardo: si sforzano di provare che la libertà commerciale, invece di fare abbassare il prezzo del frumento in Inghilterra al livello dei prezzi più bassi sui mercati stranieri, avrà per effetto, al contrario, di fare aumentare i frumenti esteri allo stesso prezzo dei frumenti inglesi... E poi la posizione insulare della Gran Bretagna assicurerà sempre ai padroni del suolo un enorme privilegio, un monopolio. Per convincere gli affittuari: non è contro di essi che la Lega ha puntato le sue batterie, perché non sono essi che approfittano del monopolio: è il proprietario che preleva l’imposta sulla fame. Il giorno in cui si abolirà il diritto sui frumenti, il Parlamento decreterà una riduzione proporzionata nel prezzo dei fitti... D’altra parte la meccanica è sul punto di fare dei progressi più meravigliosi di quelli di cui siamo testimoni: fra poco, il lavoro dei campi sarà fatto da motori inanimati; in tutti i casi, la riduzione del prezzo delle derrate permetterà di abbassare i salari, e tutti i prodotti spetteranno ai fittavoli...”. (“Revue indépendante”, 25 gennaio 1846, articolo di Vidal).

Ma a che servono i discorsi, che cosa importano le parole? Sono i fatti che bisogna giudicare, potius quod gestum, quam quod scriptum.

Il popolo inglese è messo in grado di vivere non dei prodotti naturali del territorio, aumentati da una quantità proporzionata di prodotti manufatturieri, più una nuova proporzione di prodotti forniti dal di fuori in cambio dei suoi; ma, sfruttando il mondo intero con la vendita esclusiva delle sue chincaglierie e dei suoi tessuti, senz’altra risorsa che il denaro della sua clientela. È questa utilizzazione anormale che ha perduto l’Inghilterra, sviluppandovi oltremodo il capitalismo e il salariato; e questo è il male che essa si sforza d’innestare nel mondo, deponendo lo scudo delle tariffe, dopo avere rivestita la corazza dei suoi impenetrabili capitali.

“L’anno scorso (1844) – diceva in un banchetto un operaio inglese, citato da [Julius] Faucher – abbiamo esportato filati e tessuti per un valore di 630 milioni di lire: ecco qual è la sorgente principale della nostra prosperità. Ma quando i mercati esteri si chiudono per noi, allora viene il ribasso dei salari... Fra i filatori, cinque lavorano per l’estero, contro uno che lavora per l’interno; e i tessitori fabbricano una sola pezza per l’interno, contro sei destinate ai mercati di fuori”.

Ecco, formulata con un esempio, l’economia della Gran Bretagna.

Supponete la sua popolazione di ventidue milioni di abitanti, le abbisognano 132 milioni di stranieri per occupare i suoi tessitori, 110 milioni per dare lavoro ai suoi filatori, e così proporzionatamente per tutte le industrie inglesi.

Questo non è più vero scambio, è nello stesso tempo l’estrema servitù e l’estremo dispotismo.

Tutti i ragionamenti dei faziosi vengono a rompersi contro questa violazione flagrante della legge di proporzione, legge che è tanto vera per la totalità del genere umano, quanto per una sola società, legge suprema dell’economia politica.

Senza dubbio, se i prodotti degli operai inglesi fossero unicamente pagati in derrate venute da fuori e consumate da essi; se lo scambio fosse conforme alla legge del lavoro, non solo fra i commercianti inglesi e le altre nazioni, ma fra essi e i loro salariati, malgrado l’anomalia di una specialità industriale così ristretta, il male, commercialmente parlando, non esisterebbe.

Ma chi non vede la falsità, la menzogna della situazione dell’Inghilterra?

Non è per consumare i prodotti delle altre nazioni che lavorano gli operai inglesi, è per la fortuna dei loro padroni. Per l’Inghilterra, lo scambio integrale in natura è impossibile: conviene assolutamente che le sue esportazioni si bilancino a suo vantaggio con un’entrata sempre crescente di numerario. L’Inghilterra non aspetta da alcuno né filati né tessuti né oli né ferro né macchine né chincaglierie né lane; dirò lo stesso dei grani, della birra, della carne, poiché la penuria che essa sente, effetto del monopolio aristocratico, è piuttosto fittizia che reale.

Dopo la riforma delle leggi sui cereali, l’entrata dell’Inghilterra diminuirà da una parte, ma sarà presto aumentata dall’altra; in caso contrario il fenomeno che si va svolgendo in essa sarebbe incomprensibile e assurdo. Quanto agli oggetti di consumo che fa venire da fuori: tè, zucchero, caffè, vino, tabacco, sono ben piccola cosa a confronto dei prodotti lavorati che può mandare in cambio. Perché l’Inghilterra potesse vivere nelle condizioni che s’è programmata, bisogna che le nazioni con le quali commercia si impegnino a non filare e tessere il cotone, la lana, la canapa, il lino e la seta, che le abbandonino ancora, col privilegio delle chincaglierie, il monopolio dell’Oceano; che in tutto e per tutto accettino, come loro consiglia il più famoso e il più pazzo dei riformatori contemporanei, Fourier, il commissionario degli Inglesi, che questi divengano i commissionari del globo.

Tutto questo è possibile? E se tutto questo è impossibile, come mai gli scambi reciproci con gli Inglesi, nel sistema della libertà assoluta del commercio, potranno essere una verità? Come mai, senza il sacrificio delle altre nazioni, la situazione dell’Inghilterra sarebbe sicura? Dopo la loro entrata in Cina, gli Inglesi fanno praticare ai Cinesi il principio della non-proibizione. Una volta l’uscita del numerario era severamente proibita nel Celeste Impero, ora l’oro e l’argento escono liberamente. Il “Journal des Économistes” (gennaio e febbraio 1844) a questo soggetto s’esprimeva così: “L’Inghilterra che ha ottenuto dalla Cina ciò che voleva, rinuncia all’onore costoso di tenere un ambasciatore a Pechino, e ne allontana ancora, senza lamentarsene, tutti i personaggi politici, dei quali potrebbe temere l’influenza. D’altra parte, essa acconsentì a introdurre nei trattati una clausola addizionale, che accorda a tutte le bandiere i vantaggi che aveva prima esclusivamente riservati alla propria: in grazia di questa apparente concessione, rese inutile in Cina la presenza dei diplomatici e dei negozianti europei, come pure americani. Ma aggiustò le cose in modo, che tiene per sé sola i lucri del mercato cinese; in quanto è essa che regolò le tariffe e che presiederà alla loro applicazione nei cinque porti aperti al commercio. Inutile dire che queste tariffe sono moderate soprattutto per gli articoli sui quali l’Inghilterra non teme concorrenza”.

Ebbene! che dicono di questa lealtà punica gli economisti? È abbastanza chiaro che ciò che l’Inghilterra domanda, con la sua teoria del libero commercio, non sono gli scambiatori, ma unicamente compratori?

L’“Annuaire de l’Economie politique” del 1845 venne a confermare le sinistre previsioni del “Journal des Économistes” del 1845. Ivi si legge: “Il trattato con la Cina non ha ancora prodotto agli Inglesi i vantaggi che si ripromettevano. Gli Inglesi cominciano seriamente a credere che, in seguito ad enormi sbilanci di commercio a pregiudizio del Celeste Impero, dopo molti anni, il numerario vi si faccia talmente raro, che ogni transazione con questo paese divenga impossibile”. [Questo articolo fu poi smentito sulla base di indizi considerati più veridici. Quanto a me il fatto mi pare tanto più indubitabile essendo un risultato necessario della politica inglese. Che è mai, innanzi alla necessità, la ritrattazione di un giornalista, anche il meglio informato?].

E, per conclusione, Fix pubblicava l’altro giorno: “La sorte della Cina non sarà differente da quella dell’India. L’origine dei possedimenti inglesi in queste vaste regioni si riattacca a quella politica odiosa e infame che ha decretato il servaggio e lo sfruttamento di tanti popoli diversi”.

Gli economisti, che ci raccontano tutti questi fatti, che ci dicono tutte queste cose, non hanno il garbo di beffarsi dei proibizionisti e di coloro che diffidano delle merci della perfida Albione? In quanto a me, lo dichiaro: commosso, come sono, dalle parole di Dombasles, “non so se un francese vorrebbe dire, oppure solamente vorrebbe trovare la verità intera sulle questioni che riguardano questo soggetto”, attendo con impazienza che gli economisti rispondano: in quanto io, loro avversario in tutto, interessato come mi suppongono a rovinare, per fas et nefas, il credito delle loro teorie, riguarderei come una calamità per la scienza che una delle grandi scuole che la dividono, diciamo meglio che la onorano, si esponga senza motivo e per un moto di falsa generosità, a passare nel nostro puntiglioso paese per mezzana e agente segreta della nostra eterna rivale.

Tutto il mondo sa che l’agitazione inglese per la libertà del commercio fu dapprima diretta solamente contro il monopolio dei cereali. Avendo l’industria esaurito i mezzi di riduzione, la tassa dei poveri, che prima serviva di aggiunta alla retribuzione dell’operaio, essendo stata abolita, i fabbricanti pensarono di fare diminuire il prezzo dei viveri, domandando la riforma della tariffa dei grani. La loro mira non andò dapprima più lontano; e non fu che in seguito alle recriminazioni sollevate dai proprietari terrieri che vennero a capire che, l’industria inglese presa in massa, non aveva più bisogno di protezione, e che quindi poteva benissimo accettare la sfida dell’agricoltura. Promuoviamo dunque, si dissero i manufatturieri, non più una riforma parziale, ma una riforma generale; faremo cosa vantaggiosa e logica che sembrerà sublime. Le fortune, momentaneamente spostate, si ristabiliranno sopra altri punti, e il proletario inglese sarà di nuovo distolto dalle sue vaghe speranze d’eguaglianza da una guerra d’industria sostenuta contro il mondo. Che lo ammetta o lo neghi, la Ligue tende, con la libertà di commercio, al servaggio delle nazioni; e quando si vanta la filantropia dei suoi oratori, si dovrebbe far dimenticare che è con i suoi scritti e con i suoi missionari che la devota Inghilterra ha cominciato dappertutto l’opera delle sue spoliazioni e dei suoi brigantaggi.

Gli economisti si sono stupiti del lungo silenzio della stampa francese sopra l’agitazione antiproibizionista della Gran Bretagna. E anch’io mi stupisco, ma per motivi tutt’affatto differenti: cioè che si prenda per una solenne rinuncia al sistema della bilancia di commercio quello che non è, per i nostri vicini, che l’applicazione più larga e completa di questo sistema, e che non si abbia denunciato alla polizia d’Europa questa grande commedia anglicana, nella quale dei pretesi teorici, facili ad essere ingannati da questa parte dello stretto, compari dall’altra, si sforzano di farci rappresentare la parte di vittime.

Popoli importatori, popoli sfruttati: ecco quel che sanno a meraviglia gli uomini di Stato della Gran Bretagna, i quali non potendo imporre con la forza delle armi i loro prodotti all’universo, si sono messi a scavare sotto le cinque parti del mondo la mina del libero commercio. Robert Peel stesso lo confessò alla tribuna. “È per produrre a più buon mercato – disse – che riformiamo la legge dei cereali”. E queste parole citate al Parlamento francese hanno subito calmato in noi l’entusiasmo abolizionista. Restò stabilito, a giudizio di tutta la stampa francese che la riforma di Robert Peel conservava un carattere sufficientemente protettore, e non era che un’arma di più, di cui essa si voleva servire per stabilire la sua supremazia sopra il mercato estero. [I soli giornali che abbiano tentato di combattere il ministro, il “Journal des Débats”, il “Siecle”, il “Courrier François”, sono precisamente quelli la cui parte economica è affidata a notabili economisti. Pur rendendo omaggio alla prudenza del ministro, si sono riservate le loro teorie. Quanto ai giornali democratici, ci fa pena dovere riportare che essi non hanno veduto niente, non hanno capito niente, niente hanno detto di quel che è successo. Bivaccavano nei Carpazi!].

Il libero commercio, cioè il libero monopolio, è la santa alleanza dei grandi feudatari del capitale e dell’industria, il mostruoso mortaio che deve compiere sopra ogni punto del globo l’opera cominciata con la divisione del lavoro, le macchine, la concorrenza, il monopolio e la politica; schiacciare la piccola industria e sottomettere definitivamente il proletario. È l’accentramento sopra tutta la faccia della terra di questo regime di spoliazione e di miseria, prodotto spontaneo di una civiltà nascente, ma che deve perire non appena la civiltà avrà acquistato la coscienza delle sue leggi; è la proprietà nella sua forza e nella sua gloria. Ed è per fare sorgere questo sistema che tanti milioni di lavoratori sono affamati, tante innocenti creature passano dal seno materno alla fossa, tante fanciulle e donne sono prostituite, tante anime vendute, tanti caratteri spezzati! Ancora, se gli economisti conoscessero un’uscita da questo labirinto, una fine a questa tortura! Ma no: sempre! giammai! Come l’orologio dei dannati, è la ripetizione dell’Apocalisse economica. Oh! se i dannati potessero bruciare l’inferno!...

3. – Teoria della bilancia del commercio

La questione della libertà commerciale ha acquistato ai nostri giorni una tale importanza, che dopo avere esposto la duplice serie di conseguenze che ne risultano, per il bene e per il male dell’umanità, non posso dispensarmi dal farne conoscere la soluzione. Completando così la mia dimostrazione, avrò, lo spero, reso inutile agli occhi del lettore non compromesso, ogni ulteriore discussione.

Gli antichi conoscevano i veri princìpi del libero commercio. Ma, poco amanti di conoscere le teorie quanto i moderni, non hanno riassunto i loro giudizi a questo riguardo; ed è bastato che gli economisti venissero ad impossessarsi della questione, perché tosto la verità tradizionale venisse offuscata.

E si può vedere la bilancia di commercio, dopo un secolo di anatemi, dimostrata e difesa a nome della libertà e dell’uguaglianza, a nome della storia e del diritto delle genti, da uno di quelli a cui gli apologeti a oltranza dei fatti compiuti danno così liberamente la qualifica d’utopisti. Questa dimostrazione che procurerò di abbreviare quanto sia possibile, sarà l’ultimo argomento che sottoporrò alla meditazione e alla coscienza dei miei avversari.

Il principio della bilancia del commercio risulta sinteticamente:

1° Dalla formula di Say: I prodotti non si ottengono che con prodotti, formula a cui Bastiat ha fatto questo commento, del quale il maggiore onore risale ad Adamo Smith: La remunerazione non si proporziona alle utilità che il produttore porta sul mercato, ma al lavoro incorporato in queste utilità.

2° Dalla teoria della rendita di Ricardo.

Il lettore è sufficientemente convinto sul primo punto; passo dunque al secondo.

Si sa come Ricardo spiegava l’origine della rendita.

Quantunque la sua teoria lasci a desiderare sotto tutti i rapporti filosofici, come dimostreremo più a lungo nel capitolo XI, essa non è meno esatta di quella relativa alla causa della disuguaglianza degli affitti.

All’inizio, diceva Ricardo, ci si dovette attaccare di preferenza alle terre di prima qualità, che, a uno stesso prezzo davano un maggiore prodotto. Quando il prodotto di queste terre divenne insufficiente per nutrire la popolazione, si procedette a dissodare le terre di seconda qualità, e si continuò in tal modo fino a quelle di terza, quarta, quinta e sesta qualità, ma sempre con la condizione che il prodotto della terra rappresentasse per lo meno il costo della coltivazione.

Nello stesso tempo, il monopolio dei possessori di terre avendo cominciato a stabilirsi, ogni proprietario esigette da colui al quale lasciava la coltivazione della sua terra, tanto di affitto quanto la coltura della terra poteva rendere di prodotto, meno il salario del lavoratore, cioè, meno il costo della coltura. In modo che, secondo Ricardo, la rendita propriamente detta è il sovrappiù del prodotto della terra più fertile sopra le terre di qualità inferiore. Di qui ne segue che l’affitto non diviene applicabile a queste che quando si è obbligati a passare a una qualità inferiore, e così di seguito fino a che si giunge alle terre che non rendono il loro costo. Tale è la teoria, non la più filosofica forse, ma la più comoda per spiegare il cammino progressivo con cui si stabilirono gli affitti.

Convenuto questo, supponiamo, con tutti gli scrittori di tutte le scuole socialiste, che la proprietà del suolo diventando collettiva, ogni agricoltore dovrebbe essere retribuito, non più secondo la fecondità della terra, ma, come ben dice Bastiat, secondo la quantità di lavoro incorporato nel suo prodotto. In questa ipotesi, se la terra di prima qualità

dà un valore lordo per iugero: 100

la terra di seconda qualità: 80

la terra di terza qualità: 70

la terra di quarta qualità: 60

la terra di quinta qualità: 50

essendo supposto il costo della coltivazione totale: 360

a 50 franchi per iugero, ossia i 5 iugeri: 250

il prodotto netto per la totalità della coltivazione sarà di: fr. 110

e per ciascun coltivatore comproprietario: 22.

La medesima legge è applicabile nel caso in cui il costo di coltivazione di ogni specie di terreno sia ineguale per tutte le varie specie di coltura. Sarebbe possibile, in un sistema di associazione, grazie a questa solidarietà di prodotti e di servizi, estendere la coltura alle terre il cui prodotto non coprirebbe le spese; cosa impossibile col monopolio.

Tutto ciò non è che un sogno di socialista, un’utopia contraddetta dalla consuetudine proprietaria; e, vista l’impotenza della ragione contro la costumanza, si deve temere che la ripartizione del lavoro non si stabilisca per molto tempo ancora fra gli uomini.

Ma ciò che la proprietà e l’economia politica respingono con uguale ardore dall’industria privata, tutti i popoli sono stati d’accordo nel volerlo, quando si è trattato di scambiare fra loro i prodotti dei loro territori.

Allora, essi si sono considerati gli uni e gli altri come tante individualità indipendenti e sovrane, coltivando, secondo l’ipotesi del Ricardo, terre di diverse qualità, ma formando fra loro, secondo l’ipotesi dei socialisti, per la coltivazione del globo, una grande compagnia, di cui ogni membro ha diritto di proprietà indivisa sopra la totalità della terra. Ed ecco come hanno ragionato.

I prodotti non si scambiano che con prodotti, cioè che il prodotto deve essere in ragione, non della sua utilità, ma del lavoro incorporato in questa utilità. Se dunque, per la diversa qualità del suolo il paese A dà 100 di prodotto lordo per 50 ore di lavoro, mentre il paese B non dà che 80, A deve bonificare a B il 10% su tutti i suoi raccolti.

Questo abbuono, è vero, non viene esatto che al momento dello scambio, o, come si dice, all’importazione, ma sussiste il principio, e per farlo uscire di nuovo, basta ridurre a un’unica espressione i diversi valori che si scambiano fra due popoli. Prendiamo ad esempio il frumento.

Ecco due paesi di diversa fecondità, A e B. Nel primo, ventimila operai producono un milione d’ettolitri di frumento; nel secondo non producono che la metà. Il frumento costa dunque in B due volte che in A. Supponiamo, cosa che non ha luogo in pratica, ma che si ammette benissimo in teoria, poiché in sostanza il commercio più variato, non è altro che lo scambio, sotto una diversa forma, di valori simili; supponiamo che i produttori del paese B domandino di scambiare il loro frumento con quello del paese A. È evidente che se un ettolitro di frumento è dato per un ettolitro di frumento, vi saranno due giornate di lavoro che saranno state donate per una. L’effetto, quanto alla consumazione sarà nullo; per conseguenza, non si avrà perdita reale da alcuna parte. Ma, fate che il valore incorporato nelle due quantità possa esserne tratto fuori, sia sotto la forma di un’altra utilità, sia sotto quella di moneta; siccome tutti i valori prodotti da B sono proporzionali al valore dei suoi cereali; come, d’altra parte, la moneta nazionale che esso spende, non può essere rifiutata in pagamento quando sarà presentata, lo scambio, che prima, per la somiglianza dei prodotti, non era che un paragone senza realtà, questo scambio diviene effettivo, e B perde veramente il 50% su tutti i valori che mette nel suo commercio con A. Lo scambio, questo atto per così dire tutto metafisico, tutto algebrico, è l’operazione con cui nell’economia sociale una idea prende corpo, figura e tutte le proprietà della materia: è la creazione de nihilo.

Le conseguenze possono variare all’infinito. Supponiamo che i produttori di A ottengano la facoltà di venire sul mercato di B a fare concorrenza ai produttori di questo paese; ogni ettolitro di frumento che essi venderanno producendo loro un guadagno del 50%, cioè la metà del prodotto annuale di B, basteranno venti o trent’anni al paese A per conquistare i valori circolanti, poi, per mezzo di questi, i valori fissi e finalmente i capitali fondiari del rivale.

Ora, ecco ciò che il senso comune delle nazioni non ha voluto.

Esse hanno ammesso nella pratica che le meno favorite non avessero il diritto di domandare conto alle più fortunate del soprappiù di rendita; avevano per questa moderazione delle ragioni che in questo momento è inutile dedurre, e che ciascuno, riflettendoci, scoprirà. Ma quando si è trattato di commercio, ognuna si mise a calcolare i prezzi di vendita e quelli dei propri rivali; ed è dopo questo calcolo che tutte si sono fatte delle tariffe fuori delle quali non devono, né possono consentire scambi. Ecco il vero principio, la filosofia della dogana, ed ecco ciò che gli economisti non vogliono.

Non farò ai miei lettori l’ingiuria di dimostrare loro più a lungo la necessità di questa legge d’equilibrio, volgarmente chiamata la bilancia di commercio. Tutto ciò è di una semplicità tale da fare arrossire un bambino. Quanto agli economisti li giudico abbastanza buoni contabili da non avere bisogno di una parafrasi.

Non è vero intanto che le tariffe di dogana, oscillando senza tregua dall’assoluta proibizione all’intera franchigia, secondo i bisogni di ogni paese, i lumi dei governi, l’influenza dei monopoli, l’antagonismo degli interessi e la diffidenza dei popoli, convergono verso un punto di equilibrio e, per adoperare il termine tecnico, verso un diritto differenziale, la cui percezione, se fosse possibile ottenerla rigorosa e fedele, esprimerebbe l’associazione reale, l’associazione in re dei popoli e sarebbe la stretta esecuzione del principio economico di Say? E se noi socialisti, troppo lungamente dominati dalle nostre chimere, venissimo a capo, con la nostra logica, di generalizzare il principio protettore, il principio di solidarietà, facendolo discendere dagli Stati ai cittadini; se, domani, risolvendo in un modo così limpido le antinomie del lavoro, pervenissimo, senz’altro soccorso che quello delle nostre idee, senz’altra potenza che quella di una legge, senz’altro mezzo di costrizione e di perpetrazione che una cifra, a sottomettere per sempre il capitale al lavoro, non avremmo singolarmente avanzata la soluzione del problema della nostra epoca, di questo problema chiamato, a torto o a ragione, dal popolo e dagli economisti, organizzazione del lavoro?

Gli economisti si ostinano a vedere nella dogana che una interdizione senza motivo; nella protezione, un privilegio; nel diritto differenziale, un primo passo verso la libertà illimitata. Tutti, senza eccezione s’immaginano che come dalla proibizione assoluta alla libertà senza cauzione, si è effettuato un progresso che ha avuto favorevoli risultati, tutti i diritti saranno levati, e il commercio, cioè il monopolio, sciolto da tutte le pastoie. Tutti i deputati, i giornalisti, i ministri partecipano a questa deplorevole illusione; prendono per progresso il movimento logico da una negazione a un’altra negazione, il passaggio dall’isolamento volontario all’abbandono. Non capiscono che il progresso è il risultato di due termini contraddittori; hanno paura di arrestarsi sul cammino, e di essere trattenuti nel giusto mezzo, non sapendo che vi è tanta lontananza – dal giusto mezzo alla sintesi – quanto dalla cecità alla vista.

A questo proposito, devo spiegare in che cosa ciò che io chiamo diritto differenziale o bilancia di commercio, espressione sintetica della libertà e del monopolio, si differenzi da un’operazione di giusto mezzo.

Supponiamo che dopo la soppressione delle barriere, le esportazioni della Francia, al contrario della generale attesa e di tutte le probabilità, uguaglino le importazioni: secondo gli economisti, i partigiani della bilancia di commercio dovranno essere soddisfatti; non avranno più alcun motivo di lagnanza. Io dico che ciò sarà un giusto-mezzo, e che di conseguenza saremo sempre lontani dal nostro scopo. Stando a quanto abbiamo detto, niente ci garantirà che le merci straniere che acquistiamo con le nostre, in moneta del nostro paese, e al corso nel nostro paese, non le abbia il forestiero a più buon mercato, nel qual caso noi lavoriamo sempre in perdita. Supponiamo ancora che la cifra delle esportazioni essendo minore di quella delle importazioni, il Governo, convinto della necessità di ristabilire l’equilibrio escluda a questo fine dal nostro mercato certe merci dello straniero, di cui favorirebbe presso di noi la produzione. Questo sarebbe ancora giusto mezzo, e per conseguenza un falso calcolo, poiché invece di livellare le condizioni del lavoro, non si stabilirebbe che una bilancia fra cifre perfettamente arbitrarie. Niente, lo so, somiglia di più al giusto mezzo, che l’equilibrio, ma niente in fondo più ne differisce; e per non perdermi qui in lunghe sottigliezze, mi limiterò a fare osservare, una volta per tutte, che il giusto mezzo è la negazione di due estremi, ma senza affermazione, senza nessuna conoscenza, senza definizione alcuna del terzo termine, del termine vero; mentre la conoscenza sintetica è la scienza, la definizione esatta di questo terzo termine, l’intelligenza della verità, non solamente per i suoi opposti, ma anche in se stessa e per se stessa.

Questa è quella falsa filosofia del giusto mezzo, eclettismo e dottrinarismo, che acceca ancora oggi gli economisti. Essi non hanno visto che la protezione era il risultato non di una sovversione transitoria, di un accidente anormale, ma di una causa reale e indistruttibile, che obbliga i governi, e che eternamente li obbligherà. Questa causa che risiede nella disuguaglianza degli strumenti di produzione e nella preponderanza della moneta sopra le altre merci, era stata osservata dagli antichi. La storia è piena di rivoluzioni e di catastrofi da essa prodotte.

Di dove è venuta nei tempi moderni e nel Medioevo la fortuna degli Olandesi, la prosperità delle città tedesche e lombarde, di Firenze, di Genova e di Venezia, se non dalle enormi differenze realizzate a loro profitto nel commercio con tutti i punti del mondo? La legge d’equilibrio era nota; oggetto costante della loro sollecitudine, mira della loro industria e dei loro sforzi, era sempre di violarla. E tutte queste repubbliche, per relazioni con popoli che non avevano da dare loro, in cambio delle stoffe e degli aromi, che argento e oro, non si sono forse arricchite? E nello stesso tempo le nazioni che formavano la loro clientela non sono forse state rovinate? Non è forse a datare da quest’epoca che la nobiltà di razza è caduta nell’indigenza, e che ebbe termine la feudalità?

Rimontiamo il corso delle età: chi fondò l’opulenza di Cartagine e di Tiro, se non il commercio, cioè questo sistema di cambio i cui conti bilanciano sempre, in favore dei detestati speculatori, con una massa metallica sottratta all’ignoranza e alla credulità dei barbari?

A un certo momento l’aristocrazia mercantile, sviluppata su tutto il litorale mediterraneo, fu sul punto di prendere l’impero del mondo; e questo momento, il più solenne della storia, è il punto di partenza di quella lunga retrogradazione che, cominciando da Scipione, non finisce che con Lutero e Leone X. Il tempo non era ancora venuto; la nobiltà di lignaggio, la feudalità terriera, rappresentata allora dai Romani, doveva vincere la prima battaglia contro l’industria e ricevere il colpo mortale dalla rivoluzione francese.

Oggi è la volta dei patrizi della finanza. Come se avessero di già il presentimento della loro prossima caduta, essi non sono occupati che a riconoscersi, a radunarsi, a classificarsi, e a mettersi per ordine secondo le qualità e l’importanza; fissare le rispettive parti nello sfruttamento dell’operaio, e confermare una pace, il cui unico oggetto è la sottomissione definitiva del proletario. In questa santa alleanza, i governi divenuti solidali gli uni degli altri, e legati da una indissolubile amicizia, non sono più che i satelliti del monopolio; re assoluti e costituzionali, prìncipi e duchi, boiardi e margravi, grandi proprietari, grandi industriali, grossi capitalisti, funzionari dell’amministrazione, dei tribunali e della Chiesa, tutti coloro che, in una parola, invece di operare, vivono di lista civile, di rendite, di aggio, di polizia e di fanatismo, uniti da un comune interesse, e poi anche più dalla tempesta rivoluzionaria che già romba sull’orizzonte, si trovano necessariamente compromessi in questa vasta congiura del capitale contro il lavoro. Ci avete pensato, proletari?

Non domandatemi se tali sono veramente i pensieri segreti dei governi e degli aristocratici, questo è il frutto della situazione, è necessità fatale. La dogana considerata solamente dagli economisti come una protezione accordata ai monopoli nazionali, e non come l’espressione ancora imperfetta di una legge d’equilibrio, la dogana d’ora innanzi non basta più per contenere il mondo. [Le parole del Ministro alla Camera dei deputati, relativamente al trattato belga, provano che tale non è ancora, presso di noi, il pensiero del Sistema. Il signor [Laurent] Cunin-Gridaine, ministro del commercio, resistendo alla corrente abolizionista, accolta all’inizio dal favore di tutta la stampa d’opposizione e di una parte della stampa ministeriale, ha reso alla Francia il più grande servizio a partire dal Ministero del 29 ottobre. Possa la Francia, profittando della dilazione che le procura questo negoziato, illuminarsi sui veri princìpi della libertà e dell’uguaglianza fra i popoli].

Ci vuole per il monopolio una più larga protezione; il suo interesse sempre identico la domanda, ed eccita su tutti i toni la distruzione delle barriere. Quando, per la riforma di Robert Peel, per l’estensione incessante dello Zollverein, per l’unione doganale, solamente citata, fra il Belgio e la Francia, i circoli doganali saranno stati ridotti a due o tre grandi circoscrizioni, non tarderà a farsi sentire il bisogno di una totale libertà, di una più intima coalizione. Sarà necessario, per contenere le classi lavoratrici, malgrado la loro ignoranza, malgrado l’abbandono e la divisione in cui esse sono tenute, che tutte le polizie, tutte le borghesie, tutte le dinastie della terra si diano la mano. Infine, la complicità della classe media, dispersa, secondo il principio gerarchico, in una moltitudine di uffici e di privilegi; l’inglobamento degli operai più intelligenti, divenuti conduttori, capi-mastri, commessi e sorveglianti per conto della coalizione; la defezione della stampa, l’influenza delle sacrestie, la minaccia dei tribunali e delle baionette; da una parte la ricchezza e il potere, dall’altra la divisione e la miseria; tante cause riunite rendendo l’improduttivo inespugnabile, comincerà un lungo periodo di decadenza per l’umanità.

Per la seconda volta, ci avete pensato, proletari?

Del resto, sarebbe una pena inutile cercare d’ora innanzi di fondare l’equilibrio delle nazioni sopra una pratica meglio intesa e più esatta del diritto differenziale, diversamente detto bilancia di commercio. Delle due cose l’una: Se la civiltà deve percorrere un terzo periodo di feudalità e di servaggio, l’istituzione delle dogane, ben lungi da servire il monopolio, come hanno ridicolamente immaginato gli economisti, è un ostacolo alla coalizione dei monopoli, un ostacolo al loro sviluppo e alla loro esistenza. Conviene che questa istituzione sia abolita, e lo sarà. Qui non si tratta che di regolare le condizioni di questa abolizione, e di conciliare gli interessi dei monopolisti; ora, essi sono avvezzi a questo tipo di transazioni, e il lavoro del proletario è là per servire d’indennità.

Se al contrario il socialismo, indossando la toga virile della scienza, rinunciando alle sue utopie, bruciando i suoi idoli, abbassando il suo orgoglio filosofico davanti al lavoro; se il socialismo, che nella questione del libero commercio, non ha fatto fino a questo momento che fare risuonare le sue trombe in onore di R. Peel, pensa seriamente a costituire l’ordine sociale con la ragione e l’esperienza; allora la livellazione delle condizioni del lavoro non ha più bisogno di eseguirsi alla frontiera, al passaggio delle merci; essa si compie da se stessa nelle fabbriche fra i produttori; la solidarietà esiste fra le nazioni per il fatto della solidarietà delle fabbriche; la bilancia stabilendosi da compagnia a compagnia, esiste di fatto per tutto il mondo; la dogana è inutile e il contrabbando impossibile. È qui del problema dell’eguaglianza fra i popoli, come di quello dell’equilibrio, o della proporzione dei valori; non è già con una inchiesta o un calcolo che possa a posteriori risolversi, ma solo col lavoro. Del resto, se durante qualche anno di transizione, la conservazione delle linee doganali fosse giudicata utile, dovrebbero secondo informazione commerciale determinarsi le tariffe; quanto alla percezione dei diritti, mi riporterò volentieri all’esperienza dell’amministrazione. Tali particolarità non entrano nel mio piano; basta ch’io dimostri la legge sintetica del commercio internazionale, e che indichi il modo ulteriore della sua applicazione, per mettere il lettore nello stesso tempo in guardia e contro i danni di un’assoluta proibizione, e contro la menzogna di una libertà senza limiti.

Qualche parola ancora sul carattere metafisico della bilancia di commercio e finisco.

Perché il principio della bilancia di commercio soddisfi le condizioni di evidenza che abbiamo determinato trattando del valore, deve conciliare nello stesso tempo la libertà del commercio e la protezione del lavoro. Ora è ciò che succede con la creazione del diritto differenziale. Da una parte, infatti, questo diritto, la cui origine storica è così poco onorevole quanto quella dell’imposta, e che si è tentati di guardare come un pedaggio abusivo, non fa che riconoscere e determinare la libertà, imponendole per condizione l’uguaglianza. D’altra parte, la percezione di questo diritto, che suppongo sempre determinato esattamente, protegge sufficientemente il lavoro, poiché suscitandogli una concorrenza a forza eguale, non fa che esigere ciò che può rendere, e niente che non possa rendere.

Ma questa conciliazione, questa bilancia, acquista ancora delle proprietà tutte nuove, e conduce, per la sua natura sintetica, ad effetti che non potevano produrre né la libertà intera, né la proibizione assoluta. In altri termini, essa dà più che i vantaggi riuniti dell’una e dell’altra, nello stesso tempo che scarta i loro inconvenienti. La libertà senza equilibrio produceva il buon mercato, ma rendeva infeconde tutte le colture che davano solo mediocri risultati, il che era sempre un impoverimento: la protezione spinta fino alla esclusione assoluta, garantiva l’indipendenza, mantenendo però la carestia, poiché è carestia ottenere, con una stessa somma di lavoro, una sola varietà di prodotto.

Col commercio, una solidarietà effettiva, in re, indipendente dal capriccio degli uomini, è creata; i popoli laboriosi, in qualunque zona abitino, fruiscono egualmente dei beni della natura; la forza di ciascuno sembra raddoppiata, e nello stesso tempo il suo benessere. L’associazione degli strumenti di lavoro porgendo il mezzo, con la ripartizione delle spese tra tutti, di rendere produttive le terre inaccessibili al monopolio, una quantità più alta di prodotti è acquistata dalla società. Finalmente la bilancia commerciale, tenuta diritta fra i popoli, non può mai degenerare, come la protezione e il liberalismo, in servitù e privilegio; e ciò è quello che finisce di dimostrarne la verità e la salutare influenza.

La bilancia di commercio adempie dunque a tutte le condizioni dell’evidenza: abbraccia e risolve, in una idea superiore, le idee contrarie di libertà e di protezione; gode di proprietà estranee a queste, e non presenta inconvenienti. Senza dubbio il metodo attualmente in uso per applicare questa sintesi è difettoso, e si sente la sua origine barbara e fiscale; il principio resta vero, e cospira contro il proprio paese chi non lo riconosce.

Eleviamoci, frattanto, a più alte considerazioni.

Sarebbe una strana illusione, se si immaginasse che le idee in se stesse si compongano e si decompongano, si generalizzino e si semplifichino, come ci sembra di scorgere nei processi dialettici. Nella ragione assoluta, tutte queste idee che classifichiamo e differenziamo a piacimento della facoltà di comparare, e per i bisogni dell’intendimento, sono ugualmente semplici e generali; esse sono uguali, in dignità e in potenza; potrebbero tutte essere prese dal supremo Io (se l’Io supremo ragionasse) per premesse o conseguenze dei suoi ragionamenti.

Infatti, perveniamo alla scienza per mezzo di una specie di ponte delle nostre idee. Ma la verità in sé è indipendente da queste figure dialettiche, e affrancata dalle combinazioni del nostro spirito; così come le leggi del movimento, dell’attrazione e dell’associazione degli atomi, sono indipendenti dal sistema di numerazione per mezzo del quale esprimiamo le nostre teorie. Non ne segue che la scienza può essere falsa o dubbia, mentre la verità in sé è infinitamente più vera che la scienza, poiché è vera sotto una infinità di punti di vista che ci sfuggono, come, per esempio, le proporzioni atomiche, che sono vere in tutti i sistemi di numerazione possibili.

Nelle ricerche sulla certezza, questo carattere essenzialmente soggettivo della conoscenza umana, carattere che non legittima il dubbio, come pensarono i sofisti, è la cosa che importa soprattutto di non perdere di vista, sotto pena d’incatenarsi a una specie di meccanismo che, come una macchina il cui gioco non lascia niente all’iniziativa dell’operaio, condurrà il pensatore all’abbrutimento. Ci contenteremo per il momento di constatare, con l’esempio della bilancia di commercio, la soggettività della conoscenza: più tardi tenteremo di scoprire nuovi orizzonti, nuovi mondi, nell’infinità della logica.

Per un caso assai frequente nell’economia sociale, la teoria della bilancia di commercio non è che una particolare applicazione di qualche operazione aritmetica usuale, addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione. Ora, se domando quale di queste quattro espressioni, somma, differenza, prodotto, quoziente, presenti l’idea più semplice o più generale; quale, del numero 3 o del numero 4, presi l’uno e l’altro come fattori, o del numero 12, che ne è il prodotto, sia il più antico, io non dico nella mia moltiplicazione, ma nell’aritmetica eterna dove esiste questa moltiplicazione per ciò solo che i numeri s’incontrano: se nella sottrazione il resto, nella divisione il quoziente, indicano un rapporto più o meno complesso dei numeri che li hanno formati, può sembrare una questione sprovvista di senso?

Ma, se simili questioni sono assurde, è pure assurdo il credere che traducendo questi rapporti aritmetici in linguaggio metafisico o commerciale, si cambia la loro qualità rispettiva. Ripartire egualmente fra gli uomini i doni gratuiti della natura è una idea tanto elementare nella ragione infinita quanto quella di scambiare o di produrre; pertanto se crediamo alla nostra logica, la prima di queste idee viene di seguito alle due altre, e solamente ner una elaborazione relativa di questa noi arriviamo a realizzare quella.

In Inghilterra, il lavoro produce, suppongo, 100 per 60 di spesa, in Russia 100 per 80. Sommando insieme dapprima i due prodotti (100 + 100 = 200), quindi le cifre della spesa (60 + 80 = 140); levando quindi la più piccola di queste due somme dalla maggiore (200 – 140 = 60), e dividendo il resto per 2, il quoziente 30 indicherà il beneficio netto di ciascun produttore, dopo la loro associazione con la bilancia di commercio.

Occupiamoci prima del calcolo.

Nel calcolo i numeri 100, 200, 60, 80, 140, 2, 30, sembrano generarsi gli uni dagli altri per via di distacco. Ma questa generazione è esclusivamente l’effetto della nostra ottica intellettuale. Questi numeri non sono in realtà che i termini di una serie di cui ogni momento, ogni rapporto necessariamente semplice o complesso, è contemporaneo agli altri, e coordinato con essi di tutta necessità.

Veniamo ora ai fatti. Ciò che l’economia sociale chiama tanto in Inghilterra quanto in Russia, rendita della terra, spesa di coltivazione, scambio, bilancia, ecc., è la realizzazione economica dei rapporti astratti espressi dai numeri 100, 200, ecc. Sono, se posso dire così, le poste, e i premi che la natura ha messo su ciascuno dei suoi numeri, e che col lavoro e col commercio ci sforziamo di riscuotere e di fare uscire dall’urna del destino. E come il riporto di tutti questi numeri indica una necessaria equazione, si può dire egualmente che per il solo fatto della coesistenza loro sul globo e nello stesso tempo delle qualità diverse, del loro suolo, della possanza superiore o inferiore dei loro strumenti, gli Inglesi e i Russi sono associati.

L’associazione dei popoli è l’espressione concreta di una legge dello spirito, è un fatto di necessità.

Ma, per compiere questa legge, per produrre questo fatto, la civiltà procede con un’estrema lentezza, e percorre un immenso cammino. Mentre i numeri 100, 80, 70, 60 e 50 con i quali noi rappresentavamo, al principio di questo paragrafo, le diverse qualità di terre, non presentano all’immaginazione che un’equazione da farsi, o meglio un’equazione già fatta, ma per noi sottintesa, e si risolvono tutti nel numero 22 risultato di questa equazione; la società, concedendo dapprima il monopolio di queste 5 qualità di terre, comincia col creare cinque categorie di privilegiati, le quali, aspettando l’arrivo dell’eguaglianza, formano fra loro un’aristocrazia costituita sopra i lavoratori, e vivente a loro spese. Presto questi monopoli con la gelosa ineguaglianza, conducono alla lotta tra la protezione e la libertà, dalla quale deve uscire finalmente l’unità e l’equilibrio. L’umanità, come una sonnambula disobbediente all’ordine del suo magnetizzatore, compie senza coscienza, lentamente, con inquietudine e imbarazzo, il decreto della ragione eterna; e questa realizzazione, per così dire di mala voglia della giustizia divina nell’umanità, è ciò che noi chiamiamo progresso. Così la scienza nell’uomo è la contemplazione interiore del vero. Il vero non coglie la nostra intelligenza che con l’aiuto di un meccanismo che pare stenderla, aggiustarla, modellarla, darle un corpo e un aspetto, su per giù come si vede una morale figurata e drammatizzata in una favola. Oserei dire che tra la verità mascherata dalla favola e la stessa verità aggiustata dalla logica, non c’è differenza essenziale. In fondo, la poesia e la scienza sono della stessa natura, la religione e la filosofia non differiscono; e tutti i nostri sistemi sono come un ricamo a pagliuzze, tutte di grandezza, colore, figura e materia simili e suscettibili di prestarsi a tutte le fantasie dell’artista.

Perché dunque mi lascerò andare all’orgoglio di un sapere che dopo tutto attesta unicamente la mia debolezza, e restare volontariamente vittima di una immaginazione il cui solo merito è di falsare il mio giudizio, ingrossando come soli i punti brillanti sparsi sul fondo oscuro della mia intelligenza?

Ciò che chiamo scienza, non è altro che una collezione di giocattoli, un assortimento di fanciullaggini serie, che passano e ripassano senza posa nel mio spirito.

Queste grandi leggi della società e della natura, che mi sembrano le leve sulle quali s’appoggia la mano di Dio per mettere in movimento l’universo, sono fatti così semplici come una infinità di altri sui quali non mi soffermo, fatti perduti nell’oceano delle realtà, e né più né meno degni di qualche attenzione che gli atomi. Questa successione di fenomeni il cui scoppio e la cui rapidità mi schiacciano, questa tragicommedia dell’umanità che a volte mi ravviva e mi spaventa, non è niente fuori del mio pensiero, che solo ha il potere di complicare il dramma e di allungare il tempo.

Ma, se è proprio della ragione umana costruire, sopra il fondamento dell’osservazione, queste meravigliose opere con le quali si rappresenta la società e la natura; essa non crea la verità, non fa che scegliere, nell’infinità delle forme dell’essere, quella che più le aggrada. Da là ne segue che il lavoro della ragione umana diviene possibile, che vi sia inizio di paragone e di analisi, che la verità, la fatalità tutta intera sia data. Non è dunque esatto dire che qualche cosa succede, che qualche cosa si produce; nella civiltà, come nell’universo, tutto esiste, tutto sempre agisce.

Così la legge d’equilibrio si manifesta dall’istante in cui si stabiliscono delle relazioni fra i proprietari di due campi vicini; e non è sua colpa se, attraverso le nostre fantasie di restrizione, di proibizione e di prodigalità, non abbiamo saputo scoprirla.

E così di tutta l’economia sociale. Dappertutto l’idea sintetica funziona nello stesso tempo che i suoi elementi antagonisti; e mentre ci figuriamo il progresso dell’umanità come una perpetua metamorfosi, questo progresso non è in realtà altra cosa che la predominanza graduale di una idea sopra un’altra predominanza e graduazione che ci appaiono come se i veli che ci nascondono a noi stessi si ritirassero insensibilmente.

Da queste considerazioni si viene a concludere, e così avremo nello stesso tempo la ricapitolazione di questo paragrafo, l’annuncio di una più alta soluzione:

Che la formula d’organizzazione della società col lavoro deve essere così semplice, così primitiva, di una intelligenza e di una applicazione così facile, quanto lo è la legge d’equilibrio che, scoperta dall’egoismo, sostenuta dall’odio, calunniata da una falsa filosofia, uguaglia fra i popoli le condizioni del lavoro e del benessere;

Che questa formula suprema, che abbraccia in una volta il passato e l’avvenire della scienza, deve soddisfare egualmente gli interessi sociali e la libertà individuale; conciliare la concorrenza e la solidarietà, il lavoro e il monopolio, in una parola, tutte le contraddizioni economiche;

Che questa formula esiste, nella ragione impersonale dell’umanità, che agisce e funziona oggi, e sin dall’origine delle società, così come ciascuna delle idee negative che la costituiscono; che fa vivere la civiltà, determina la libertà, governa il progresso e, fra tante oscillazioni e catastrofi, ci porta con un moto certo verso l’uguaglianza e l’ordine.

Invano lavoratori e capitalisti si consumano in un lotta brutale; invano la divisione parcellare, le macchine, la concorrenza, il monopolio decimano il proletariato; invano l’iniquità dei governi e la menzogna dell’imposta, la cospirazione dei privilegi, la frode del credito, la tirannia proprietaria e le illusioni del comunismo moltiplicano nei popoli la servitù, la corruzione e la disperazione: il carro dell’umanità cammina, senza arrestarsi né retrocedere, sopra la sua strada fatale, e le coalizioni, le carestie, i fallimenti appaiono meno sulle sue immense strade, che i picchi delle Alpi e delle Cordigliere sulla faccia unita della terra.

Dio, la bilancia alla mano, s’avanza in una maestà serena, e la sabbia della vita non imprime al suo doppio piattello che un invisibile fremito.

X. Settima epoca. Il credito

È stato concesso a un uomo, nostro contemporaneo, d’esprimere volta a volta le idee più opposte, le tendenze più disparate, senza che nessuno abbia osato sospettare della sua intelligenza e della sua probità, senza che si sia risposto alle sue contraddizioni altrimenti che rimproverandolo, ciò che non era affatto rispondere: quest’uomo è Lamartine.

Cristiano e filosofo, monarchico e democratico, gran signore e popolano, conservatore e rivoluzionario, apostolo dei presentimenti e dei compianti, Lamartine è l’espressione vivente del diciannovesimo secolo, la personificazione di questa società, sospesa fra tutti gli estremi. Una sola cosa gli manca, facile ad acquistare: la coscienza delle sue contraddizioni. Se la sua scelta non l’avesse destinato a rappresentare tutti gli antagonisti, e senza dubbio ancora a divenire l’apostolo della riconciliazione universale, Lamartine sarebbe restato ciò che dapprima ci è parso con tanta chiarezza, il poeta delle pie tradizioni e delle nobili ricordanze. Ma Lamartine deve alla sua patria la spiegazione di questo vasto sistema di antinomie di cui è a un tempo l’accusatore e l’organo; Lamartine, per la posizione che ha preso, è condannato, e non può fare appello contro questo giudizio la cui origine viene da più in alto delle opinioni contrarie ch’egli rappresenta, Lamartine è condannato a morire sotto il peso delle sue incongruenze o a conciliare tutte le sue ipotesi. Possa finalmente, come la sposa del Cantico, uscire da questa ignoranza di se stesso che non è adatta alla maturità del suo genio; possa comprendere tutta la grandezza della sua parte, e accogliere i voti di coloro che possono applaudire ai suoi sbalzi, perché soli ne possiedono il segreto. Che venga posto sotto le nostre tende, l’oratore onesto, il grande poeta: e gli diremo chi siamo, e gli riveleremo il suo proprio pensiero: Si ignoras te, egredere et pasce haedos tuos juxta tabernacula pastorum!

Socialisti! pattuglie perdute dell’avvenire, viaggiatori diretti all’esplorazione di una contrada tenebrosa, la cui opera disconosciuta sveglia simpatie sì rare e sembra alla moltitudine un sinistro presagio; nostra missione è di ridonare al mondo delle credenze, delle leggi, degli dèi, ma senza che noi stessi, durante il compimento della nostra opera, conserviamo né fede né speranza né amore.

Il nostro più grande nemico, socialisti, è l’utopia! Camminando con passo risoluto, al lume dell’esperienza, non dobbiamo conoscere che la nostra consegna: Avanti! Quanti fra noi sono periti e nessuno ha pianto la loro sorte! Le generazioni alle quali apriamo la strada passano giulive sulle nostre tombe obliate; il presente ci scomunica, l’avvenire è senza ricordo per noi, e la nostra esistenza affonda in un duplice nulla.

Ma i nostri sforzi non saranno perduti. La scienza raccoglierà il frutto del nostro scetticismo eroico, e la posterità, senza sapere, fruirà del nostro sacrificio, di questa fortuna che non è fatta per noi. Avanti! Ecco il nostro Dio, la nostra credenza, il nostro fanatismo. Noi cadremo gli uni dopo gli altri; fino all’ultimo; la pala del nuovo venuto coprirà di terra il cadavere del veterano; la nostra fine sarà come quella delle bestie; noi non siamo, malgrado il nostro martirio, di quelli sui quali il prete andrà a cantare il canto funebre: Dio custodisca le ossa dei santi! Separati dall’umanità che ci segue, seguiamo da noi stessi tutta l’umanità, il principio è in questo sublime egoismo. Che i sapienti ci scaccino, se vogliono; le loro idee sono all’altezza del loro coraggio; e noi abbiamo appreso, leggendoli, a non curarci della loro stima. Ma salute al poeta che alcuna contraddizione non spaventa, a colui che canterà, vecchio bardo, i dannati della civiltà, e che verrà un giorno a meditare sulle loro orme! Poeta, quelli che già l’oblio avvolge, ma che non temono né l’inferno né la morte, ti salutano! Ascolta. Erano le due prima dell’alba: la notte era fredda; il vento soffiava attraverso le eriche; avevamo passato la gola delle montagne, marciavamo in silenzio attraverso luoghi isolati, dove morivano insensibilmente la vegetazione e la vita. Tutto a un tratto sentiamo una voce tetra, come quella di un uomo che ricordi i suoi pensieri:

La divisione del lavoro ha prodotto la degradazione del lavoratore; è perciò che ho riassunto il lavoro nella macchina e nell’officina;

La macchina non ha prodotto che schiavi, e l’officina salariati; è perciò che ho suscitata la concorrenza;

La concorrenza ha prodotto il monopolio; ed è perciò che ho costituito lo Stato e imposto al capitale una tassa. Lo Stato è divenuto per il proletario una nuova servitù e ho detto: che da una nazione all’altra i lavoratori si stendano la mano;

Ed ecco che dappertutto vi sono sfruttatori che si uniscono contro gli sfruttati: la terra non sarà presto che una caserma di schiavi. Voglio che il lavoro sia diretto dal capitale, e che ogni lavoratore possa diventare imprenditore e privilegiato!...

A queste parole, ci arrestammo, pensando fra noi stessi che cosa poteva significare questa nuova contraddizione. Il suono grave della voce risuonava nei nostri petti, e le nostre orecchie l’intendevano come se un essere invisibile l’avesse proferito fra noi. I nostri occhi brillavano come quelli dei selvaggi, proiettando nella notte un tratto fiammeggiante; tutti i nostri sensi erano animati di un ardore, di una sensibilità inusitati. Un brivido leggero, che non proveniva né da sorpresa né da paura, corse per le nostre membra; ci parve che un fluido ci avvolgesse; che il principio della vita, sfavillando dagli uni agli altri tenesse incatenate con un comune legame le nostre esistenze, e che le nostre anime formassero fra loro, senza confondersi, una grande anima, armonica e simpatica. Una ragione superiore, come un lume dall’alto illuminava le intelligenze. Alla coscienza dei pensieri si aggiungeva in noi la penetrazione dei pensieri degli altri: e da questo commercio intimo nasceva nei cuori il sentimento delizioso di una volontà unanime, e nello stesso tempo variata nella sua espressione e nei suoi motivi. Ci sentimmo più uniti, più inseparabili e intanto più liberi. Nessun pensiero che non fosse puro, nessun sentimento che non fosse leale e generoso. In questa estasi di un istante, in questa comunione assoluta che, senza cancellare i caratteri li elevava per amore fino all’ideale, sentimmo ciò che deve essere la società; e il mistero della vita immortale ci fu rivelato. Tutto il giorno senza bisogno di parlare o di fare alcun segno, senza provare dentro niente che rassomigliasse al comando o all’obbedienza, lavoravamo con un accordo meraviglioso, come se tutti fossimo stati nello stesso tempo princìpi e organi del movimento. E quando, verso sera, fummo a poco a poco resi alla nostra grossolana persona, a questa vita di tenebre ove ogni pensiero è sforzo, ogni libertà scissione, ogni amore sensualità, ogni società un ignobile contatto; credemmo che la vita e l’intelligenza ci scappassero dal seno dolorosamente scorrendo.

La vita dell’uomo è tessuta di contraddizioni. Ciascuna di queste contraddizioni è essa stessa un momento della costituzione sociale, un elemento dell’ordine pubblico, e del benessere delle famiglie, le quali non si producono che da questa mistica associazione degli estremi.

Ma l’uomo, considerato nell’insieme delle sue manifestazioni, e dopo l’intero esaurimento delle sue antinomie, presenta ancora un’antinomia che, non rispondendo a niente sulla terra, resta in questo mondo senza soluzione. Ciò perché l’ordine nella società, che si suppone così perfetto, non cancellerà mai interamente l’amarezza e la noia: la felicità in questo mondo è un ideale dietro cui siamo condannati a correre, ma che l’antagonismo implacabile della natura e dello spirito tiene fuori della nostra portata.

Se essa sia una continuazione della vita umana in un mondo ulteriore, o se l’equazione suprema non si realizzi che con un ritorno nel nulla, questo è quello che ignoro: niente per ora mi permette di affermare l’una o l’altra cosa. Tutto ciò che posso dire è che il nostro pensiero va più lontano di quel che possiamo conseguire, e che l’ultima formula alla quale l’umanità vivente può pervenire, quella che abbraccia tutte le sue posizioni anteriori, è ancora il primo termine di una nuova e indescrivibile armonia.

L’esempio del credito servirà a farci capire questa riproduzione senza fine del problema del nostro destino. Ma, prima di addentrarci a fondo nella questione, diciamo qualche cosa dei pregiudizi generalmente sparsi sul credito, e procuriamo di ben comprenderne lo scopo e l’origine.

1. – Origine e filiazione dell’idea di credito. Pregiudizi contraddittori relativi a questa idea

Il punto di partenza del credito è la moneta.

Si è visto al Capitolo II come, per un insieme di circostanze favorevoli, essendo il valore dell’oro e dell’argento costituito per primo, la moneta fosse divenuta il tipo di tutti i valori vaghi e oscillanti, cioè non socialmente costituiti, non ufficialmente stabiliti. È stato anche dimostrato in questa occasione, come il valore di tutti i prodotti essendo una volta determinato e reso altamente scambievole, accettabile, in una parola, come la moneta, in tutti i pagamenti, la società sarebbe, per questo solo fatto, arrivata al più alto grado di sviluppo economico, di cui, dal punto di vista del commercio, essa sia suscettibile. L’economia sociale non sarebbe più, come oggi, relativamente agli scambi, allo stato di semplice formazione; essa sarebbe allo stato di perfezionamento. La produzione non sarebbe definitivamente organizzata; ma lo sarebbero di già lo scambio e la circolazione; e basterebbe all’operaio di produrre, di produrre senza tregua, un po’ riducendo le sue spese, un po’ scoprendo dei metodi migliori, inventando dei nuovi oggetti di consumo, respingendo i suoi rivali o sostenendo i loro attacchi, per conquistare la ricchezza e assicurare il proprio benessere.

In questo stesso capitolo, abbiamo segnalato il difetto d’intelligenza del socialismo riguardo la moneta; e abbiamo mostrato riconducendo questa invenzione al suo principio, che ciò che noi dobbiamo reprimere nei metalli non è l’uso, ma il privilegio.

Infatti, in ogni possibile società, anche comunista, occorre una misura dello scambio, sotto pena di violare il diritto sia del produttore, sia del consumatore, e di rendere ingiusta la ripartizione. Ora, fino a che i valori siano generalmente costituiti da un metodo di associazione qualunque, è necessario che un certo prodotto, quello fra tutti, il cui valore parrà il più autentico, il meglio definito, il meno alterabile, e che, a questo vantaggio aggiungerà quello di una grande facilità di conservazione e di trasporto, sia preso per tipo, cioè nello stesso tempo per strumento di circolazione e per paradigma degli altri valori. È dunque inevitabile che questo prodotto veramente privilegiato diventi oggetto di tutte le ambizioni, paradiso in prospettiva dell’operaio, palladio del monopolio; che malgrado tutte le proibizioni, questo talismano prezioso circoli di mano in mano, invisibile agli sguardi di un geloso potere; che la maggior parte dei metalli preziosi servendo per numerario, sia così distolta dal suo vero uso, e diventi sotto forma di moneta, un capitale dormiente, una ricchezza fuori consumo; che in questa qualità di strumento di scambi, l’oro sia preso a sua volta per oggetto di speculazione, e serva di base a un immenso commercio; che infine protetto dall’opinione, dal favore pubblico appoggiato, acquisti il potere, e nel tempo stesso metta fine alla comunità! Il mezzo di distruggere questa formidabile potenza, non sta dunque nel distruggerne l’organo quasi dicevo il depositario: ma nel generalizzarne il principio. Tutte queste proposizioni sono ormai così bene dimostrate, così rigorosamente concatenate l’una all’altra, quanto i teoremi della geometria.

L’oro e l’argento, cioè la merce prima costituita in valore, essendo dunque presa per modello degli altri valori e strumenti universale di scambio, ogni commercio, ogni consumo, ogni produzione da loro dipendono.

L’oro e l’argento, precisamente perché hanno acquistato al più alto grado i caratteri di socialità e di giustizia, sono divenuti sinonimi di potere, di dignità reale, e quasi di divinità. L’oro e l’argento rappresentano la vita, l’intelligenza e la virtù commerciale. Una cassa piena di denaro è un’arca santa, un’urna magica, che dà a coloro che hanno la facoltà di attingervi, la santità, la ricchezza, il piacere e la gloria. Se tutti i prodotti del lavoro avessero lo stesso valore di scambio come la moneta, ciascuno possiederebbe la facoltà di produrre una sorgente inesauribile di ricchezza. Ma la religione del denaro non può essere abolita, o, per meglio dire, la costituzione generale dei valori non può operarsi che con uno sforzo della ragione e della giustizia umana: fin là, è inevitabile che, come in una società governata il possesso del denaro è il segno certo della ricchezza, la penuria del denaro un segno quasi certo di miseria.

II denaro essendo dunque il solo valore che porti il timbro della società, la sola merce di titolo che abbia corso nel commercio, è, come la ragione generale, l’idolo del genere umano. L’immaginazione attribuisce al metallo ciò che è l’effetto del pensiero collettivo manifestato mediante il metallo, e perciò tutti, invece di cercare il benessere nella sua vera sorgente, cioè, nella socializzazione di tutti i valori, nella creazione incessante di nuove figure monetarie, si occupano esclusivamente di acquistare denaro, e sempre denaro.

Fu per rispondere a questa domanda universale di numerario, che non era in fondo altra cosa che una domanda di sussistenze, una domanda di scambio, che, in luogo di mirare direttamente allo scopo, si arrestò il primo termine della serie, e in luogo di fare successivamente di ciascun prodotto una moneta nuova, non si pensò che a moltiplicare più che si potesse la moneta metallica, dapprima col perfezionamento della sua fabbricazione, poi facilitandone l’emissione, e infine con delle finzioni.

Evidentemente questo era un ingannarsi sul principio della ricchezza, sul carattere della moneta, l’oggetto del lavoro e la condizione dello scambio; ciò era andare contro la civiltà, ricostituendo nei valori il regime monarchico, che già cominciava ad alterarsi nella società. Tale è pertanto l’idea madre che ha dato vita alle istituzioni di credito; e tale è il pregiudizio fondamentale, di cui noi non abbiamo più bisogno di dimostrare l’errore, che colpisce di antagonismo, nel loro stesso concetto, tutte queste istituzioni.

Ma, come già abbiamo avuto molte volte occasione di dire, l’umanità, anche quando obbedisce a una idea imperfetta, non s’inganna nelle sue vedute. Cosa sorprendente, procedendo all’organizzazione della ricchezza per un passo indietro, essa ha operato così bene, così utilmente, così infallibilmente, come, avuto riguardo alla condizione della sua esistenza evolutiva, le era concesso di fare. L’organizzazione retrograda del credito, come pure tutte le manifestazioni economiche anteriori, nello stesso tempo che aprivano un nuovo varco all’industria, hanno determinato, è vero, un aggravamento di miseria; ma, infine, la questione sociale si è prodotta sotto un aspetto nuovo, e l’antinomia, ormai più conosciuta, lascia la speranza di una intera e vicina soluzione. Così, l’oggetto ulteriore, ma al presente non bene avvertito, del credito, è di costituire, con l’aiuto e sul prototipo del denaro, tutti i valori ancora oscillanti; sua mira immediata e certa è di supplire a questa costituzione, condizione suprema dell’ordine nella società e del benessere fra i lavoranti, con una più larga diffusione del valore metallico.

Il denaro, hanno pensato i promotori di questa nuova idea, il denaro è la ricchezza; se dunque noi potessimo procurare a tutti del denaro, molto denaro, tutti sarebbero ricchi. E in virtù di questo sillogismo si sono sviluppate, su tutta la faccia della terra, le istituzioni di credito.

Ora, è chiaro che mentre l’oggetto ulteriore del credito presenta una logica idea, luminosa e feconda, conforme, in una parola, alla legge d’organizzazione progressiva; la sua mira immediata, solo cercata, solo voluta, è piena d’illusioni e, per la sua tendenza allo statu quo, di pericoli. Infatti, il denaro, del pari che le altre merci, essendo soggetto alla legge di proporzione, se la sua massa aumenta, ma nello stesso tempo gli altri prodotti non si accrescono in proporzione, il denaro perderà il suo valore, e niente, in ultima analisi, sarà stato aggiunto alla ricchezza sociale; – se, al contrario, con il numerario la produzione s’accresce dappertutto, e la popolazione aumenta nel modo stesso, niente non è ancor cangiato nella situazione rispettiva dei produttori; e nei due casi, la soluzione domandata non progredisce di una sillaba.

A priori dunque, non è vero che l’organizzazione del credito, nei termini in cui si propone, contenga la soluzione del problema sociale.

Dopo avere raccontato la filiazione e la ragione d’esistenza del credito, noi abbiamo da render conto della sua apparizione, cioè del posto che deve essergli assegnato nelle categorie della scienza. È qui che noi avremo a segnalare la poca profondità e l’incoerenza dell’economia politica. Il credito è insieme la conseguenza e la contraddizione della teoria degli sbocchi, la cui ultima parola, come si è visto, è la libertà assoluta del commercio.

Ho detto dapprima che il credito è la conseguenza della teoria degli sbocchi e, come tale, di già contraddittoria.

Al punto dove siamo arrivati in questa storia nello stesso tempo fantastica e reale della società, abbiamo visto tutti i modi d’organizzazione e i mezzi d’equilibrio cadere gli uni sugli altri, e riprodurre senza tregua, più imperiosa e più mortale che prima, l’antinomia del valore. Pervenuto alla sesta fase della sua evoluzione, il genio sociale, obbedendo al moto d’espansione che lo spinge, cerca al di fuori, nel commercio estero, lo spaccio, cioè il contrappeso, che gli manca. Al presente noi andiamo a vederlo, illuso nella sua speranza, cercare questo contrappeso, questo spaccio, questa garanzia dello scambio che a ogni costo gli occorre, nel commercio interno, al di dentro. Grazie al credito, la società ripiega in qualche modo in se stessa; pare che abbia capito che produzione e consumo essendo per essa cose adeguate e identiche, è in se medesima, e non per un sbocco indefinito che essa deve trovare l’equilibrio.

Tutti quanti reclamano al giorno d’oggi l’intervento delle istituzioni di credito. Questa è la tesi favorita da Blanqui, Wolowski, Chevalier, capi dell’insegnamento economico; questa è l’opinione di Lamartine, di una folla di conservatori e democratici, di quasi tutti quelli che, ripudiando il socialismo, e con esso la chimera dell’organizzazione del lavoro, si pronunciano tuttavia per il progresso. Del credito! del credito! gridano questi riformatori dai vasti pensieri e dalla lunga vista; il credito è ciò di cui abbiamo bisogno. Quanto al lavoro, come della popolazione: l’uno e l’altra sono sufficientemente organizzati; la produzione, qualunque sia, non mancherà. E il Governo, stordito da questi clamori, s’è creduto in dovere, con la sua stupida e lenta andatura, di gettare le fondamenta della più formidabile macchina di credito, chiamando una commissione per la riforma della legge ipotecaria.

È dunque sempre lo stesso ritornello: denaro! denaro! è del denaro che ci vuole per il lavoratore. Senza denaro il lavoratore è alla disperazione, come un padre di sette figli senza pane. Ma, se il lavoro è organizzato, come mai ha bisogno di credito? E se è il credito stesso che manca all’organizzazione, come pretendono gli ammiratori del credito, come mai si può dire che l’organizzazione del lavoro sia completa?

Allo stesso modo in cui nel nostro sistema di monopolio geloso, di produzione concorrenziale e di commercio aleatorio, è il denaro, il denaro solo che serve di veicolo al consumatore per andare da un prodotto all’altro; così il credito, applicando in grande questa proprietà del denaro, serve al produttore per realizzare i suoi prodotti, aspettando che possa venderli. Il denaro è la realizzazione effettiva dello sbocco della vendita, della ricchezza, del benessere; il credito ne è la realizzazione anticipata. Ma, come nell’uno così nell’altro caso, è sempre la distribuzione la cosa più importante, e per essa si deve passare, se si vuole andare dalla produzione al consumo, onde segue che l’organizzazione del credito equivale a un’organizzazione di sbocchi all’interno e, per conseguenza, nell’ordine dello sviluppo economico, segue immediatamente la teoria del libero commercio o della distribuzione al di fuori.

A nulla servirebbe dire che il credito ha per mira di favorire la produzione piuttosto che il consumo, non si farebbe che spostare la difficoltà. In verità, se si rimonta al di là della sesta stazione economica, lo sbocco, s’incontrano successivamente tutte le altre categorie, il cui insieme esprime la produzione, cioè: la polizia, il monopolio, la concorrenza, ecc. Per quanto, alla fine, in luogo di dire semplicemente che il credito anticipa sulla distribuzione, e su tutto ciò che è la conseguenza della distribuzione, si dovrà ancora dire che il credito suppone nel debitore una forza tale, che, mercé il monopolio, la concorrenza, i capitali, le macchine, la divisione del lavoro, l’importanza dei valori, lo deve fare prevalere sui suoi rivali; cosa che, invece di diminuire la forza dell’argomento, lo fortifica.

Come dunque, osserverò agli organizzatori del credito, senza una conoscenza esatta dei bisogni del consumo, e quindi della proporzione da dare ai prodotti consumabili; come mai, senza una regola dei salari, senza un metodo di paragone dei valori, senza una limitazione dei diritti del capitale, senza una polizia del mercato, tutte cose che ripugnano alle vostre teorie, potete pensare seriamente a organizzare il credito, cioè lo spaccio, la vendita, la ripartizione, in una parola il benessere? Se parlaste d’organizzare una lotteria, alla buon’ora; ma organizzare il credito, voi che non accettate alcuna delle condizioni che possano giustificare il credito! Non lo sperate!

E se, per difendere una contraddizione, pretendete che tutte queste questioni sono risolte; se, dico, lo sbocco è dappertutto largamente aperto al produttore; se il posto della merce è assicurato; se il beneficio è certo; se il salario e il valore, queste cose così mobili, sono disciplinate, ne segue che la reciprocità, la solidarietà, l’associazione infine esistono fra i produttori; in questo caso il credito non è più che una formula inutile, una parola vuota di senso. Se il lavoro è organizzato, tutto ciò che ho detto costituisce l’organizzazione del lavoro, il credito non è altro che la circolazione medesima in tutto il suo processo, dal primo abbozzo dato alla materia, fino alla distruzione del prodotto, per opera del consumatore; la circolazione, dico, tendente, sotto l’ispirazione di un comune pensiero, alla misura normale del valore, e sbarazzata da tutte le sue pastoie.

La teoria del credito, come supplemento o anticipazione della distribuzione, è dunque contraddittoria. Adesso consideriamola sotto un altro punto di vista.

Il credito è la canonizzazione del denaro, la dichiarazione della sua dignità reale su tutti i prodotti. Per conseguenza il credito è la smentita più formale del sistema antiproibizionista, la giustificazione flagrante, da parte degli economisti, della bilancia di commercio. Che gli economisti imparino una volta a generalizzare le loro idee, e poi ci dicano come mai, se è indifferente per una nazione pagare le merci che riceve con denaro o con i suoi prodotti, essa possa avere bisogno di denaro? Come mai può avvenire che una nazione che lavora si esaurisca; come mai vi è sempre richiesta da parte sua del solo prodotto che non consuma: il denaro? Come mai tutte le sottigliezze immaginate fino a oggi per supplire alla mancanza di denaro, come fidejussioni, lettere di credito, banconote, non fanno che tradurre e rendere più sensibile questo bisogno?

In verità, il fanatismo antiproibitivo per il quale si segnala oggi la setta economista non si comprende più, se si bada agli sforzi straordinari ai quali essa si sottopone per proteggere il commercio del denaro e moltiplicare le istituzioni di credito.

Che cosa è, ancora una volta, il credito?

È, risponde la teoria, la liberazione del valore impegnato, che permette di rendere questo stesso valore circolare, da inerte che esso era prima.

Parliamo un linguaggio più semplice: il credito è l’anticipazione che fa un capitalista, contro un deposito di valori di difficile scambio, della merce la più suscettibile a scambiarsi e per conseguenza la più preziosa di tutte, il denaro; il denaro che, secondo [August] Cieszkowski, tiene in sospeso tutti i valori permutabili, e senza il quale sarebbero essi stessi colpiti dall’interdizione; del denaro che misura, domina e rende subalterni tutti gli altri prodotti; del denaro col quale solo si estinguono i debiti e ci liberiamo dalle nostre obbligazioni; del denaro, il quale, assicura alle nazioni come agli individui il benessere e l’indipendenza; del denaro infine, che, non solo è il potere, ma la libertà, l’eguaglianza, la proprietà, tutto.

Ecco ciò che il genere umano, di unanime accordo, ha compreso; ciò che gli economisti sanno meglio di ogni altro, ma che non cessano di combattere con un accanimento comico, per sostenere, io non so quale fantasia di liberalismo, in contraddizione con i loro princìpi più energicamente confessati. Il credito è stato inventato per soccorrere il lavoro facendo passare nelle mani del lavoratore lo strumento che l’uccide, il denaro; e di là si parte per sostenere che fra le nazioni industriali, il vantaggio del denaro negli scambi non è niente; che è affatto insignificante per esse saldare i conti con merci o con monete; che solo il buon mercato è da considerare!

Ma se è vero che nel commercio internazionale i metalli preziosi hanno perduto la preponderanza, ciò vuol dire che nel commercio internazionale tutti i valori sono arrivati allo stesso grado di determinazione e, come il denaro, sono egualmente accettabili: in altri termini, che la legge di scambio s’è trovata, e si è organizzato il lavoro fra i popoli. Allora, la si formuli questa legge, si spieghi questa organizzazione, e in luogo di parlare di credito e di fabbricare nuove catene per la classe lavoratrice, si faccia capire, con l’applicazione del principio di equilibrio internazionale, a tutti gli industriali che si rovinano perché non scambiano, agli operai che muoiono di fame, perché manca loro il lavoro, come i prodotti, come la mano d’opera siano valori dei quali possono disporre per il consumo, come se fossero biglietti di banca.

Come! il principio che, secondo gli economisti, regge il commercio delle nazioni, sarebbe inapplicabile all’industria privata? Perché? Delle ragioni, delle prove, in nome di Dio!

Contraddizione nell’idea stessa del credito, contraddizione nel progetto di organizzare il credito, contraddizione fra la teoria del credito e quella del libero commercio; è tutto qui ciò che abbiamo da rinfacciare agli economisti?

Al pensiero d’organizzare il credito gli economisti ne aggiungono un altro non meno illogico: che è quello di rendere lo Stato organizzatore e principe del credito. È allo Stato, dice il celebre Law, alludendo alla creazione degli opifici nazionali, e alla repubblicanizzazione dell’industria, è allo Stato che tocca dare il credito non riceverlo. Massima superba, fatta per essere gradita a tutti coloro cui ripugna la feudalità finanziaria, e che vorrebbe rimpiazzarla con l’onnipotenza del Governo; ma massima equivoca, interpretata in sensi opposti da due tipi di persone, da una parte i politici fiscali e stipendiati, a cui ogni mezzo è buono per fare venire il denaro del popolo negli scrigni dello Stato, perché solo essi vi pescano, e dall’altra parte, i partigiani dell’iniziativa, stavo per dire della confisca governativa, a cui la comunione torna utile.

Ma la scienza non si accontenta di ciò che piace, cerca ciò che è possibile; e tutte le passioni antibancarie, le tendenze assolutiste e comuniste non possono prevalere ai suoi occhi sopra l’intima ragione delle cose. Ora, l’idea di fare derivare dallo Stato ogni credito e per conseguenza ogni garanzia, può tradursi nella questione seguente:

Lo Stato, organo improduttivo, personaggio senza proprietà e senza capitali, non offrendo per garanzia ipotecaria che il suo budget, sempre chiedente prestito, sempre bancarottiere, sempre indebitato, che non può impegnarsi senza impegnare con lui tutti quanti, per conseguenza i prestatori suoi stessi, fuori di cui, infine, si sono sviluppate spontaneamente tutte le istituzioni di credito, lo Stato, con le sue risorse, la sua garanzia, la sua iniziativa, la solidarietà che impone può diventare l’accommandatario universale, l’autore del credito? E quando lo potesse, la società lo sopporterebbe?

Se questa questione fosse risolta affermativamente, ne seguirebbe che lo Stato possiede il mezzo di compire il voto manifestato col credito dalla società, allorché, rinunciando alla sua utopia di affrancamento del proletariato mercé il libero commercio e ripiegandosi sopra se stessa, essa cerca di ristabilire l’equilibrio tra la produzione e il consumo con un ritorno dal capitale al lavoro che lo produce.

Lo Stato, costituendo il credito, avrebbe ottenuto l’equivalente della costruzione dei valori: il problema economico sarebbe risolto, il lavoro affrancato, tolta la miseria.

La proposizione di rendere lo Stato nello stesso tempo autore e distributore del credito, malgrado la sua tendenza dispotico-comunista, è dunque di una importanza capitale, e merita di attirare tutta la nostra attenzione. Per trattarla, non come merita, in quanto al punto in cui siamo, le questioni economiche non hanno più limiti; ma con la profondità e la generalità, che solo possono supplire ai dettagli, la divideremo in due periodi: uno che abbraccia tutto il passato dello Stato relativamente al credito, e che andiamo senz’indugio a passare in rivista: l’altro che avrà per oggetto di determinare ciò che contiene la teoria del credito, e per conseguenza ciò che ci si può aspettare da una organizzazione del credito sia dallo Stato, sia dal capitale libero; questa sarà la materia del 2° e del 3° paragrafo.

Se per apprezzare la potenza d’organizzazione che gli economisti, in questi ultimi tempi, hanno attribuito allo Stato in materia di credito, dopo di avergliela rifiutata in materia d’industria bastasse invocare degli antecedenti, la partita sarebbe troppo bella contro i nostri avversari, ai quali non avremmo da opporre, in luogo di argomenti, ciò che più potrebbe toccarli, l’esperienza.

È provato, diremmo loro, dall’esperienza, che lo Stato non ha né proprietà né capitali, niente in una parola sopra cui possa fondare le sue lettere di credito.

Tutto quello che possiede, in valori mobiliari e immobiliari, è da lungo tempo impegnato: i debiti che ha contratto al di là del suo attivo, e di cui la nazione paga gli interessi, passano in Francia i quattro miliardi. Se dunque lo Stato si fa organizzatore del credito, imprenditore di banca, non può essere con le sue proprie risorse, ma con la fortuna degli amministrati: per cui si deve concludere che nel sistema di organizzazione del credito da parte dello Stato, in virtù di una certa solidarietà fittizia o tacita, ciò che appartiene ai cittadini appartiene allo Stato, ma non reciprocamente, e che il governatore di Luigi XV aveva ragione di dire a questo principe mostrandogli il suo reame: tutto questo, sire, è per voi. Questo principio di dominio eminente dello Stato sopra i beni dei cittadini è il vero fondamento del credito pubblico: perché la Costituzione non ne parla? Perché la legislazione, il linguaggio, le abitudini, gli sono piuttosto contrarie? Perché garantire ai cittadini le loro proprietà libere dal dominio dello Stato, se poi si cerca di introdurre surrettiziamente questa teoria della solidarietà della fortuna pubblica e delle fortune particolari? E se questa solidarietà non esiste, né può, nel sistema della preponderanza e dell’iniziativa del potere, esistere; se non è che una finzione, infine, che diventa la garanzia dello Stato? E che cosa è mai il credito fornito dallo Stato?

Queste considerazioni, di una semplicità quasi triviale, e di una realtà inattaccabile dominano tutta la questione del credito. Non sarà sorprendente che io vi ritorni di tanto in tanto con nuova insistenza.

Non la proprietà solamente è nulla nello Stato: esso non ha produzione. Lo Stato è la casta degli improduttivi; non esercita alcuna industria i cui benefici previsti possano dare valore e sicurezza ai suoi pezzi di carta. È ormai riconosciuto che tutto ciò che produce lo Stato, sia in lavori di pubblica utilità, sia in oggetti di consumo domestico o personale, costa tre volte più che non valga. In una parola, lo Stato, e come organo improduttivo della polizia, e come produttore per la parte del lavoro collettivo che gli è attribuito, vive unicamente di sovvenzioni: per quale virtù magica, per quale trasformazione incredibile diventerà tutto in una volta il dispensatore dei capitali di cui non possiede un centesimo? Come mai lo Stato, l’improduttività stessa, a cui per conseguenza il risparmio è essenzialmente impossibile, diventa il banchiere nazionale, l’accommandatario universale? Dal punto di vista della produzione come da quello della proprietà, conviene dunque ritornare all’ipotesi di una tacita solidarietà di cui lo Stato si farebbe discretamente intermediario e che usufruirebbe a suo profitto, fino al giorno in cui gli fosse permesso di confessarla a voce alta, e di decretarne gli articoli. Prima di avere visto funzionare questa grande macchina, non posso pensare che si tratta semplicemente di un’attività di banca, formata col soccorso di capitali privati. e la cui gestione solamente sarebbe confidata a funzionari pubblici; in che cosa una tale impresa, quando pure procurasse al commercio dei capitali a migliori condizioni, si differenzierebbe da tutte le imprese analoghe? Ciò sarebbe creare per lo Stato, senza che metta niente di suo, una nuova sorgente di rendita; salvo il pericolo di lasciare nelle mani del potere delle considerevoli somme, non vedo ciò che il progresso e la società ci guadagnerebbero.

L’organizzazione del credito per opera dello Stato deve andare più a fondo delle cose; e mi si permetterà di seguitare le mie riflessioni...

Ma sì, si dice, lo Stato possiede un capitale, poiché ha la più grossa, la più imperitura delle rendite: l’imposta. Aumentando questa imposta di qualche centesimo, può servirsene per combinare, eseguire e assicurare le più vaste operazioni di credito? E anche, senza ricorrere a un aumento d’imposta, chi impedisce allo Stato, sotto la garanzia limitata o illimitata della nazione, e in virtù di un voto dei rappresentanti della nazione, di creare un sistema completo di banca agricola e industriale?

Ma di due cose l’una: o si pretende di fare del credito, sotto il pretesto di un interesse generale, l’oggetto di un monopolio a profitto dello Stato, oppure si ammette che la Banca Nazionale, allo stesso modo che oggi la Banca di Francia, funzionerebbe in concorrenza con tutti i banchieri del paese.

Nel primo caso, la situazione, lungi dal migliorare, peggiorerebbe, e la società camminerebbe verso una pronta dissoluzione, poiché il monopolio del credito nelle mani dello Stato avrebbe per effetto inevitabile di annichilire dappertutto il capitale privato, negandogli il suo più legittimo diritto, quello di produrre interessi. Se lo Stato è dichiarato accommandatario, scontista unico del commercio, dell’industria e dell’agricoltura, si sostituisce a quelle migliaia di capitalisti e di gente che vivono di rendita, che vivono sui loro capitali, obbligati, d’ora in poi, in luogo di consumare la rendita, a intaccare il capitale. Ben più, rendendo i capitali inutili, ne arresterebbe la formazione, ciò che è retrocedere oltre la seconda epoca dell’evoluzione economica.

Si può arditamente sfidare un Governo, una legislatura, una nazione ad intraprendere alcunché di simile; da questa parte la società è arrestata da un muro di metallo che nessuna potenza potrebbe abbattere.

Ciò che qui dico è decisivo e abbatte tutte le speranze dei socialisti moderati che, senza andare fino al comunismo, vorrebbero, per mezzo di un perpetuo arbitrio, creare, a profitto delle classi povere, talora delle sovvenzioni, cioè una partecipazione di fatto al benessere dei ricchi; talora dei laboratori nazionali, e per conseguenza privilegiati, cioè la rovina della libera industria; a volte un’organizzazione del credito con l’intervento dello Stato, cioè la soppressione del capitale privato, la sterilità del risparmio.

Quanto a coloro che da simili considerazioni non fossero scossi, senza che abbia qui bisogno di rammentare la serie di già molto lunga di contraddizioni che hanno da risolvere prima di arrivare al credito, mi limiterò, per il momento, a fare osservare che, facendo la guerra al capitale, interdicendone l’impiego, essi arriveranno presto, non allo scioglimento e alla solidarietà dei valori, ma alla soppressione del capitale circolante, all’abolizione dello scambio, all’interdizione del lavoro.

Il commercio del denaro che non è altro se non il modo secondo cui si esercita la produttività del capitale, è necessariamente il più libero, voglio dire il più incoercibile, il più refrattario al dispotismo, il più antitetico alla comunità, per conseguenza meno suscettibile di centralizzazione e di monopolio. Lo Stato può imporre alla Banca dei regolamenti; può in certi casi, con leggi speciali, restringere o facilitare la sua azione; ma non potrebbe da se stesso e per suo proprio conto, non più che per conto del pubblico, sostituirsi ai banchieri e accaparrare la loro industria.

L’idea di rendere lo Stato veramente principe e dispensatore del credito, essendo impraticabile, – e quante ne passo sotto silenzio delle considerazioni che ne dimostrerebbero tutta l’assurdità! – forza è dunque di arrestarsi alla seconda ipotesi, quella di una concorrenza, o meglio di una cooperazione dello Stato, specialmente riguardo certe parti ancora oscure del credito che reclamano la sua iniziativa, e che i capitali privati non hanno potuto fecondare né raggiungere.

Eccoci lontani, bisogna convenirne, da quell’organizzazione così sonoramente annunciata del credito fornito dallo Stato, che per la necessità delle cose si riduce, come tutto ciò che viene dallo Stato, a qualche manipolazione legislativa e a un ministero di polizia. Quando anche la Banca Centrale fosse entrata nel cerchio amministrativo, siccome essa dovrebbe conservare tutta l’indipendenza delle sue operazioni, l’intera separazione dei suoi interessi da quelli dello Stato, sotto pena di comprometterli e di diffondere il discredito inerente allo Stato, una simile Banca non sarebbe altro che la prima casa finanziaria del reame; questa non sarebbe una organizzazione del credito fornito dallo Stato, a cui, lo ripeto, è impossibile organizzare niente, né il lavoro, né il credito.

Lo Stato resta dunque, e deve restare eternamente con la sua indigenza nativa, con l’improduttività che è essenzialmente sua propria, con le sue abitudini di accattare prestiti, cioè con le qualità più opposte alla potenza creatrice, che fanno di esso non il principe del credito, ma il tipo del discredito.

In tutte le epoche e presso tutti i popoli, si vede lo Stato senza posa occupato, non a fare scaturire dal suo seno il credito, ma a organizzare i suoi prestiti. Sparta, non avendo tesori, imponeva un digiuno per trovare i fondi di un prestito; Atene prendeva in prestito da Minerva il suo mantello d’oro e i suoi gioielli; la confisca, le esazioni, la falsa moneta erano le risorse ordinarie dei tiranni. Le città dell’Asia, familiarizzate con tutti i segreti della finanza, operavano in una meno barbara maniera, prendevano a prestito come facciamo noi, e si liberavano dai debiti con l’imposta.

A misura che si procede nella storia si vede perfezionarsi nello Stato l’arte dei prestiti; quella di concedere credito è ancora da apparire. Sovente, per liberarsi dei debiti, lo Stato si è visto nella necessità di fallire; in Francia solamente, e per uno spazio di 287 anni, il signor Augier ha trovato una cifra totale di nove fallimenti fatti dallo Stato, “senza contare, aggiunge lo storiografo, dei grandi e piccoli mezzi di liberazione analoghi, in permanenza sotto tutti i nostri re e al tempo della Ligue oppure periodici a ciascun avvenimento del trono, dopo l’invenzione di questo mezzo liberatore fatta dal re Giovanni nel 135l”. Marie Augier, Du crédit public, [Paris 1842], ricordare anche: A. Cieszkowski, Du crédit e de la circulation, [Paris 1839].

In verità, poteva avvenire altrimenti?

E c’è forse bisogno di tante ragioni per rendersi conto dell’antagonismo invincibile di queste due cose, il credito e lo Stato?

Lo Stato, qualsiasi cosa dica e faccia, non è e non sarà mai la stessa cosa che la totalità dei cittadini, di conseguenza la fortuna dello Stato non potrebbe identificarsi con la totalità delle fortune particolari, né per la stessa ragione le obbligazioni dello Stato divenire comuni e solidali per ciascun contribuente. Che si venga a capo di sviare per qualche tempo l’opinione pubblica, di dare alla carta dello Stato un credito eguale a quello dell’oro; di sostenere, a forza di sottigliezze e di mascheramenti, questa menzogna governativa; non si sarà fatto altro che coprire l’asino con la pelle del leone, e al minimo imbarazzo, vedrete la mascherata sparire, non lasciando dietro di sé che la confusione e lo spavento.

Ciò appunto aveva visto Law, quando in una contemplazione profetica in cui avanzava di due secoli l’umanità, esclamò che spetta allo Stato di dare credito, non di riceverlo; era l’associazione reale dei lavoratori, era quella solidarietà economica, risultato della conciliazione di tutti gli antagonismi, che, sostituendo allo Stato la grande unità industriale, può solo dare credito e soddisfazione così al produttore come al consumatore.

Ingannato da una frase equivoca e prendendo la maschera per l’uomo, lo Stato per la società, Law si mise a realizzare una ipotesi contraddittoria; egli doveva necessariamente naufragare, e fu una fortuna per la Francia, in quell’immensa catastrofe, che l’ingegnoso speculatore arrivasse ben presto alla fine della sua esperienza. Noi avremo occasione di ritornare sopra questo grande inganno, il cui autore fu il primo ingannato, quando parleremo delle diverse finzioni col cui mezzo si è immaginato di procurare la circolazione del numerario, o, ciò che è lo stesso, lo sviluppo del credito.

2. – Sviluppo delle istituzioni di credito

Il credito è, di tutta l’economia politica, la parte più difficile, ma, nello stesso tempo, la più singolare e la più drammatica. Così, malgrado il grande numero di opere pubblicate sulla materia e di cui alcune sono di un alto valore, oso dire che questa immensa questione non è ancora stata compresa in tutta la sua estensione e per conseguenza in tutta la sua semplicità. Ed è qui sopratutto che si vede l’uomo, strumento della logica eterna, realizzare a poco a poco e per una serie di movimenti una pura astrazione, il credito, come già abbiamo visto precedentemente convertirsi in realtà tutta una fantasmagoria d’idee astratte: la divisione del lavoro, la gerarchia, la concorrenza, il monopolio, l’imposta, la libertà di commercio. È studiando i diversi problemi ai quali dà luogo il credito che si cerca di convincersi che la vera filosofia della storia è nello sviluppo delle fasi economiche, e che si vede la costituzione del valore apparire decisamente come il perno della civiltà e il problema dell’umanità. La società, secondo la fortunata espressione di Augier, va attorno a un disco d’oro come l’universo attorno al sole. Il credito come le fasi che abbiamo fino a ora studiato: “Non è già – per adoperare il linguaggio della stessa scrittrice – un figlio diretto della volontà dell’uomo; è un bisogno nella società umana, una necessità così imperiosa come quella dell’alimentazione. È ancora una forza innata, provvidenzialmente o fatalmente intelligente, che compie la sua opera di cose future o di rivoluzioni tenebrose... I poteri e i re si agitano, il denaro li conduce; questo sia detto senza farne la parodia all’opera della Provvidenza”.

Tuttavia, diciamolo senza scrupolo, la filosofia della storia non è in queste fantasie semi-poetiche di cui i successori di Bossuet hanno dato tanti esempi; essa è nelle oscure strade dell’economia sociale. Lavorare e mangiare, questo è, non spiaccia agli scrittori artisti, il solo fine apparente dell’uomo. Il resto non è che un’andata e ritorno di gente che cercano una occupazione o che domandano del pane. Per compiere questo umile programma, il volgo profano ha dispiegato più genio di quanto i filosofi, i sapienti e i poeti abbiano dimostrato nel comporre i loro capolavori.

Cosa singolare, di cui non abbiamo ancora citato un esempio, e che sorprenderà il lettore poco avvezzo a queste metamorfosi del pensiero, il credito, nella sua espressione più avanzata, si presenta sotto una formula di già sintetica, ciò che non gli impedisce d’essere ancora un’antinomia, la settima nell’ordine delle evoluzioni economiche. Così come ha dimostrato il signor Cieszkowski in un’opera di cui non posso che raccomandare la lettura agli amatori della metafisica applicata, il credito arriva al suo più alto periodo sviluppandosi successivamente in opposizione e composizione, per conseguenza producendo una idea positiva e completa. Ma, come dimostreremo a nostra volta, questa sintesi regolarmente formata è, per così dire, di un ordine secondario, cioè è ancora una contraddizione. Così le idee come i corpi si compongono e si decompongono all’infinito, senza che la scienza possa dire mai qual è il corpo o l’idea semplice. Le idee e i corpi sono tutti di una eguale semplicità, e non ci sembrano complessi che in seguito alla loro comparazione o quando sono messi in rapporto con altri corpi e altre idee. Tale è il credito: una idea che, da semplice che sembrava alla nascita, si sdoppia isolando l’avversaria, poi si complica combinandosi con essa e, dopo questa unione, riappare così semplice, così elementare, così contraddittoria e impotente come al momento della prima generazione. Ma è tempo di venire alle prove.

Il credito si sviluppa in tre serie d’istituzioni: le due prime inverse l’una all’altra, e la terza che le riassume tutte e due in una intima combinazione.

La prima serie comprende la lettera di cambio, la banca di deposito, alla quale conviene aggiungere la cassa di risparmio; infine il prestito sopra pegno o sopra ipoteca, di cui il monte di pietà fornisce un esempio.

Con queste operazioni si è voluto rendere il denaro più accessibile a tutti, dapprima facilitandogli il cammino e abbreviandogli le distanze, poi rendendo il denaro stesso meno casalingo, meno timido a venire fuori. In termini più chiari, per avere il denaro più a buon mercato, si è pensato di fare economie, da una parte sul trasporto con la lettera di cambio, dall’altra parte sopra l’uso della materia come sullo scambio, mediante la banca di deposito; infine si è attirato il numerario con la certezza offrendogli la garanzia del pegno e dell’ipoteca.

Col mezzo della lettera di cambio, il denaro che possiedo o che mi è dovuto a Pietroburgo, mentre sono a Parigi, è a mia disposizione; e reciprocamente la somma che possiedo a Parigi e che devo a Pietroburgo esiste a Pietroburgo.

Questa combinazione è una conseguenza forzata del commercio, essa cammina dietro la produzione e lo scambio, come l’effetto dopo la causa, e non capisco la smania degli economisti che cercano nella storia la data della lettera di cambio e fissano questa data al dodicesimo o tredicesimo secolo all’incirca. La lettera di cambio, per barbara e irregolare che ne sia la redazione, esiste dal giorno in cui due paesi, trovandosi in rapporto, una somma può essere pagata da uno o dall’altro sopra la semplice ricognizione del debitore o l’avviso del creditore.

Così, niente impedisce di vedere, con Augier, una lettera di cambio nell’obbligazione segnata a Tobia dal suo parente Gabelo, che fu poi soddisfatta dal detto Gabelo nelle mani di Tobia il giovane, portatore dell’obbligazione, sconosciuto al sottoscrittore. Questo fatto che, secondo la leggenda, è successo in Asia cinque o sei secoli prima della venuta di Gesù Cristo, mostra che all’epoca le operazioni di cambio e di sconto non erano organizzate fra Rages e Ninive; ma il principio era da loro conosciuto e la conseguenza poteva facilmente essere dedotta, il che basta per il momento alla nostra tesi.

Tutti conoscono i vantaggi del cambio e a quale massa di numerario esso supplisce. Un negoziante di Marsiglia deve 1000 franchi a un negoziante di Lione, il quale a sua volta deve 1000 franchi a un negoziante di Bordeaux. È sufficiente, perché il negoziante di Lione si rimborsi del suo credito e nello stesso tempo paghi il suo debito, che indirizzi al suo corrispondente di Bordeaux una lettera di cambio tratta da lui sul negoziante di Marsiglia, e che per conseguenza rappresenta, sotto la duplice garanzia del marsigliese e di quel di Lione, la somma di franchi 1000. La stessa operazione potrà ripetersi, con la stessa lettera di cambio, fra il commerciante di Bordeaux e un altro di Tolosa, ciò che triplicherà la garanzia data alla lettera di cambio; e così di seguito all’infinito, la garanzia del titolo, e per conseguenza la sua solidità, il suo valore commerciale, aumentano sempre, fino a che, arrivata al termine della scadenza, sia presentata al pagamento. La lettera di cambio è dunque un vero supplemento della moneta, e un supplemento tanto più certo perché la promessa acquista, per via della girata, una garanzia progressiva, così che, in certi casi la carta di commercio di prima qualità è preferita al denaro.

Con la banca di deposito si è proceduto a un’altra astrazione, cioè alla distinzione della moneta di conto dalla moneta corrente. Il denaro, come ogni materia e merce, è soggetto a logorio, alterazione, latrocinio e frode. D’altra parte, la diversità delle monete è un ostacolo alla loro circolazione e per conseguenza una nuova causa d’imbarazzo. Si sono fatte sparire queste difficoltà creando dei depositi pubblici, ove ogni specie di moneta era ammessa per il suo valore intrinseco e sotto deduzione di un aggio in moneta, fino a concorrenza dell’ammontare dei depositi. La Banca di Amsterdam, fondata nel 1609, è citata come il modello delle banche di deposito. Così il denaro, rappresentato da una carta di nessun valore intrinseco, circola senza essere soggetto ad alcun ritaglio, usura né aggio, in una parola, senza subire diminuzione, e con la più grande facilità.

Ma era poco l’avere appianata così la via al numerario, bisognava trovare il mezzo di farlo uscire dagli scrigni; e a ciò non si è mancato di provvedere.

Il denaro è la merce per eccellenza, il prodotto il cui valore è il più autentico e ricercato, per conseguenza il denaro dei cambi, il prototipo di tutti gli estimi. Eppure, malgrado queste eminenti prerogative, il denaro non è la ricchezza; da solo, nulla può per il nostro benessere; esso non è che il capofila, il richiamo degli elementi che devono costituire la ricchezza.

Il capitalista, la cui fortuna consiste nel denaro, ha dunque bisogno d’impiegare i suoi fondi, di scambiarli, di renderli più che sia possibile produttivi, e produttivi di denaro, cioè, d’ogni specie di cose. E questo bisogno di disfarsi dei suoi soldi lo prova così vivamente, che il capitalista il cui avere consiste in terre, case, macchine, ecc., prova il bisogno, per la sua impresa, di procurarsi dei soldi.

Perché questi due capitalisti facciano produrre i loro capitali, bisogna dunque che li associno. Ma l’associazione ripugna all’uomo, per quanto gli sia necessaria; e né l’industriale né l’uomo del denaro, pur sempre cercando d’intendersi, acconsentirebbero ad associarsi. Un mezzo si presenta per accontentare il desiderio senza sforzare la ripugnanza; il detentore del numerario presta i suoi fondi all’industriale, ricevendo in pegno i capitali mobiliari e immobiliari di questo, oltre a un beneficio o interesse.

Tale è insomma la prima manifestazione del credito, o come lo chiama la scuola, la sua tesi.

Ne risulta che la moneta, per quanto elevata sia al disopra delle altre merci, appare presto, come uno strumento del cambio, con dei notabili inconvenienti, il peso, il volume, il logorio, l’alterazione, la rarità, gli imbarazzi del trasporto, ecc.; – che se il denaro considerato in se stesso, nella sua materia e nel suo valore, è un perfetto pegno di credito, poiché con l’aiuto di questo pegno, o marcato dal sovrano, accettabile in ogni tempo e contro ogni specie di prodotti, si è sicuri di procurarsi tutti i beni possibili, nondimeno, come rappresentante dei valori e come mezzo di circolazione, questo stesso denaro offre degli svantaggi e lascia alcunché a desiderare; in una parola, è un segno imperfetto del credito.

È per riparare a questo vizio proprio del numerario che, come stiamo per vedere, il genio commerciale applica tutti i suoi sforzi.

Il secondo termine, la serie opposta delle istituzioni di credito, è il contrario, la negazione, in un certo senso, della prima; essa comprende le banche di circolazione e di sconto e tutto ciò che ha rapporto con le carte di banca, cartamoneta, assegnati, ecc. Ecco il meccanismo di questa generazione.

Che il lettore mi perdoni di richiamarlo costantemente a queste formule di metafisica alle quali ho già ricondotto tutte le fasi anteriori e nelle quali faccio ancora rientrare le diverse forme di credito. Riflettendoci, si comprenderà, lo spero, che quest’apparato così sgradevole a prima vista, così contrario alle nostre abitudini letterarie, è, dopo tutto, l’algebra della società, lo strumento intellettuale che solo, dandoci la chiave della storia, ci fornisce il mezzo di proseguire con coscienza e certezza l’opera istintiva e tormentata della nostra organizzazione.

Per altro, è tempo che la nostra nazione rinunci alle piccolezze della sua letteratura degenerata, alle ciarle di una tribuna corrotta e di una stampa venale, se vuole salvarsi dalla decadenza politica che la minaccia e che da sedici anni taluni si adoperano a farle accettare con così deplorabile successo.

La carta di banca avendo dietro il suo pegno, cioè il numerario che rappresenta, non è ancora una finzione, ma è semplicemente una astrazione, cioè una verità staccata dal fatto o dalla materia che la realizza e la concreta e la cui esistenza forma la garanzia del biglietto. In questo stato la carta di banca è un supplemento fortunato e comodo della moneta, ma non la moltiplica.

Ora, tale è la facoltà che essa acquista con una combinazione della lettera di cambio e del certificato di deposito.

Poiché la lettera di cambio è ricevuta in pagamento come la moneta, in altri termini, poiché si può scambiare contro ogni specie di prodotto, può pure essere scambiata contro il denaro; di là la banca di circolazione, cioè il mestiere dello scontatore, sotto beneficio di commissione, di carta commerciale.

Il negoziante che ha fatto denaro della sua carta si trova dunque ad avere in disponibilità il capitale che, senza questa operazione, sarebbe restato per lui un capitale morto, e per conseguenza improduttivo. Con l’ammontare della sua lettera di cambio egli produce nuovi valori, acquista servizi, paga salari, salda l’acquisto di merci. Rapidità nella produzione, aumento di prodotto, moltiplicazione del capitale, tali sono le conseguenze dello sconto.

Ma, sull’esempio dell’industriale, il banchiere, la cui arte consiste tutta nello scambiare soldi contro carta, poi carta contro soldi, può obbligarsi egli stesso per lettera di cambio e fornire carta sulla sua propria ditta, cioè creare buoni sia nominativi, sia al portatore, e rimborsabili da lui a vista. In effetti, un banchiere il cui fondo di commercio sia di un milione, dopo aver scambiato questo milione con lettera a termine medio di 40 giorni, può trovarsi alla fine di tre settimane senza un centesimo nella sua cassa, e per conseguenza nell’impossibilità materiale di fare dei nuovi sconti. Ora, siccome in luogo di specie, questo banchiere non possiede più che della carta che è sicuro di riscuotere in numerario, può tirare sopra questa riscossione una lettera di cambio, cioè creare ciò che volgarmente si dice un biglietto di banca, che sarà accettato dal commerciante come una moneta vera, e che tuttavia sarà pur sempre, come ogni lettera di cambio una promessa di rimborso.

Così il biglietto di banca è ancora la lettera di cambio, creata al primo tempo del credito, ma elevata, per così dire, alla sua dodicesima potenza; è una lettera di cambio la cui sottoscrizione è fatta per valuta ricevuta in lettere di cambio. Ecco dove comincia la finzione. Niente di più logico, del resto, di questa manovra: essa risulta, come è facile scorgerlo, da due princìpi combinati, dal deposito e dallo sconto.

E pertanto, proseguita nelle sue conseguenze più legittime, essa finisce con abusi mostruosi, col rovescio stesso del credito.

Difatti, restando alla teoria, poiché ogni lettera di cambio, a presentazione o a termine, deve essere rimborsata, salvo gli accidenti che nel mestiere del banchiere sono da prevedersi, è chiaro che niente impedisce a quest’ultimo di tirare su se stesso tante lettere di cambio, di emettere tanti biglietti di banca quanti valori si presentino allo sconto, purché ogni volta abbia cura di fare coincidere le sue riscossioni con la probabile presentazione dei biglietti, o di stipulare per il loro rimborso generale, in caso di problemi, un rinvio della scadenza. Matematicamente questa teoria è irreprensibile, poiché la lettera di cambio del banchiere non è, se posso adoperare questo termine di stampatore, che una nuova tiratura della carta ch’egli sconta. In modo che arriviamo a questa conseguenza estrema, che il commercio della banca può farsi senza denaro. Basta per questo, come nota finalmente Sismondi, che il negoziante, invece di domandare credito al banchiere, dia credito al banchiere stesso.

C’è di più, il principio in virtù del quale la banca, invece di denaro, rimette ai negozianti che vengono a scontare una lettera di cambio tirata sul suo portafoglio, conduce diritto alla negazione stessa della moneta, alla sua espulsione dal commercio.

Figuriamoci poi quali debbano essere (in prospettiva) i benefici di’ una impresa capace, in virtù di un privilegio accordato dal sovrano, di abbracciare tutto il commercio di un impero e, senza possedere la più piccola particella d’oro, di neutralizzare la potenza dell’oro di operare lo scambio di tutti i valori e di pigliarsi la rendita netta di qualche miliardo di capitali!

Tale fu, secondo noi, la serie dei ragionamenti per mezzo di cui il famoso Law fu condotto all’idea della sua banca regia, la quale, pur avendo all’inizio niente in cassa, appoggiata solo (per dar corpo all’idea) sopra un’utilizzazione gigantesca del Mississipi, doveva scontare ogni lettera di cambio e, mettendo in circolazione i suoi biglietti sostituirli a poco a poco al numerario, mentre che con le azioni che metteva in circolazione in cambio delle pezze, attirava tutte le ricchezze metalliche del reame negli scrigni dello Stato. Law, trascinato dalla logica delle sue idee e rassicurato d’altra parte sopra la moralità del suo sistema dall’alta garanzia dello Stato, la cui capacità di dare credito senza offrire un pegno reale era per lui un soggetto di meditazione giornaliera, prese sul serio il suo folle concetto (oppure si deve vedere in lui solo un audace truffatore?).

Ecco un dubbio che sulla semplice esposizione di quella mirifica avventura non saprei risolvere. È certo che né Law né alcuno del suo tempo possedeva a fondo la teoria del credito, non più di quello che oggi gli economisti intendano di filosofia dell’economia politica.

E se qualche cosa può scusare Law, è la buona fede, l’ammirabile stolidità con la quale gli economisti, senza vederci niente, proseguono le loro utopie del libero commercio, della concorrenza illimitata, dell’imposta progressiva ed equa, dell’organizzazione del credito, ecc., cioè la negazione del monopolio tramite l’affermazione del monopolio.

A parte il sistema di Law, resta acquistato alla scienza che, nella teoria del credito, l’impiego del denaro conduce al non impiego del denaro; ed è ancora un’applicazione di questa teoria che un celebre economista, Ricardo, ha creato un altro sistema di circolazione e di sconto dal quale la moneta si trova completamente esclusa.

Così, al punto di partenza, abbiamo la banca di deposito, cioè un sistema nel quale, per consegnare al negoziante dei pezzi di carta, la banca comincia a domandargli quelli che ha, cosa che implica nullità di credito per chiunque non possiede denaro: assurdità. Dall’altra parte della teoria, abbiamo la banca di circolazione, cioè un sistema la cui ultima parola è che, per fare denaro, basta un pezzo di carta il cui valore è nullo: assurdità.

Quest’assurdità, risalta meglio se, rimontando al principio della moneta, alla teoria della costituzione dei valori, si generalizza il principio della banca di circolazione applicandola a ogni specie di prodotti. Come in realtà il banchiere può tirare una lettera di cambio sopra se stesso e fare entrare così nel commercio un valore fittizio, ammesso pertanto come reale; così, ogni imprenditore d’industria, ogni commerciante può, con l’aiuto di un compare, emettere una lettera per spedizioni che non ha fatte, per prodotti che non possiede neanche; cosicché, con questo meccanismo, i biglietti di banca si moltiplicano a misura della domanda del commercio e uno Stato potrebbe arrivare a un movimento di affari di diverse centinaia di miliardi, senza avere prodotto e senza possedere un centesimo di valore.

Questa applicazione del principio della banca di sconto è frequente nel commercio, dove si designa con la parola circolazione, termine improprio, ma che si dovette adoperare per caratterizzare la posizione di un uomo che fa denaro con delle finzioni e ricorre agli ultimi mezzi.

Le emissioni reiterate di assegnati sotto la Repubblica non furono altra cosa.

Ora, dopo quasi un secolo che si è intravista, piuttosto che non si sia compresa, la contraddizione di questo meccanismo, non si è saputo ancora rimediarvi, come a tanti altri inconvenienti dell’economia politica, se non per mezzo di un compromesso.

Si sono poste insieme le due operazioni, e tutta l’abilità consiste nel tenersi in un giusto mezzo. Così, è convenuto, e gli economisti non oltrepassano questo cerchio, che una banca funzionando nello stesso tempo come banca di deposito e come banca di circolazione e di sconto, può benissimo, senza rischiare, emettere dei biglietti fino alla concorrenza del quarto o del terzo sopra i suoi valori metallici. Là s’arresta la pratica, l’economia politica non va più oltre.

Resta dunque a provare una terza combinazione del credito, cioè un terzo modo di procurare la circolazione dei valori non costituiti, per l’intermediario del denaro. Poiché esiste opposizione fra i due primi modi, opposizione che il miscuglio economico non risolve, è segno che deve trovarsi un terzo termine che, conciliando gli altri due, li completi e li perfezioni. Tale è l’opera che ha intrapreso Cieszkowski.

Sino a ora, dice egli, possediamo, come mezzo di credito, ma separati l’uno dall’altro:

1° La moneta, pegno perfetto, ma segno imperfetto del credito;

2° Il biglietto di banca, pegno imperfetto o piuttosto nullo, ma segno perfetto del credito.

Si tratta di trovare una combinazione nella quale il mezzo di circolazione sia tutto in una volta e in un uguale grado, pegno perfetto, come il denaro; segno perfetto come la carta di banca; di più, seguendo la legge dell’interesse, produttivo come la terra e i capitali, per conseguenza non suscettibile di stare inoperoso.

Questa combinazione esiste, risponde Cieszkowski, e lo dimostra nel più buon linguaggio filosofico e con l’esperienza più profonda; doppia qualità che deve renderlo quasi inintelligibile agli economisti e ai filosofi. In una esposizione così rapida delle idee di Cieszkowski non posso che fare torto a questo scrittore; tenterò comunque, aggiungendo qualche volta le mie idee alle sue, di dare un saggio del suo sistema.

Rimontiamo ancora una volta ai princìpi.

La moneta è, di tutte le merci, la sola il cui valore, quantunque variabile, sia definitivamente costituito e quotato; è per questa prerogativa dei metalli preziosi che essa serve da estimatore comune per tutti i prodotti.

La mira ulteriore del credito è di arrivare alla costituzione di tutti i valori, cioè di renderli, come l’oro e l’argento monetato, accettabili in tutti i pagamenti, ciò che sarebbe evidentemente risolvere il problema della ripartizione, fondare l’eguaglianza sulla legge del lavoro e portare di pari passo l’umanità al più alto grado di libertà individuale e di associazione possibile.

Per arrivare a questo risultato, abbiamo detto, il genio sociale procede per assimilazione. Cioè col mezzo di astrazioni e di finzioni successive tende a rendere circolabile, come denaro, ogni valore prodotto, ma tuttavia sotto condizione di un’antecedente valutazione. Poco importa del resto che il corpo del valore cambi fisicamente di mano; basta per la circolazione che si trasferisca il titolo di proprietà. È così che un biglietto di banca enunciante una porzione di ricchezza accumulata dalla banca, equivale per il portatore al possesso attuale della somma portata sopra questo biglietto; è così parimenti che il prezzo stipulato e accettato di una merce venduta può divenire moneta sotto la forma di una lettera di cambio.

Si domanda dunque come si faranno partecipare al beneficio della circolazione, come si faranno servire per il credito, non solo il denaro, non solo i biglietti che rappresentano il denaro, non solo infine le lettere di cambio e altre obbligazioni a termine fisso e protestabili che rappresentano un valore venduto e deliberato, ma ancora i valori invenduti, gli strumenti di lavoro che servono alla produzione di questi valori, la terra, il lavoro medesimo?

Ed ecco ciò che risponde Cieszkowski.

Se, dopo aver valutato tanto in capitali quanto in rendita tutte le ricchezze mobiliari e immobiliari di una nazione si rendessero titoli di proprietà, biglietti scambiabili, accettabili all’imposta e in ogni tipo di pagamento, deduzione fatta di una aliquota (metà, terzo o quarto del valore della cosa) per la garanzia del portatore, si avrebbe in questo un nuovo mezzo della circolazione:

1° Un pegno perfetto, poiché sarebbe, come le verghe e le casse d’oro della banca, un capitale esistente, reale e non più fittizio;

2° Un segno perfetto, poiché sarebbe eminentemente portabile e di nessun valore intrinseco;

3° Una moneta produttiva, poiché sarebbe il titolo di proprietà dei capitali in piena produzione.

Del resto questi biglietti non abolirebbero l’uso della moneta, la ridurrebbero solamente e la restringerebbero a una parte secondaria. Non farebbero cessare neanche la finzione dei biglietti di banca e della cartamoneta; ma, quantunque la moneta e i biglietti fiduciari avessero servito, per così dire, a paradigma alla creazione di nuovi mezzi, questi qui li dominerebbero di tutta l’altezza di una combinazione organica sui suoi princìpi costituenti e li terrebbero nei giusti limiti.

L’autore entra in seguito in lunghi particolari sull’organizzazione dell’agenzia centrale di dove partirebbe questa vasta emissione di valori, sulla gerarchia delle banche secondarie, sulle precauzioni da prendere, il cammino da seguire, gli esempi in appoggio. Non manca più al suo progetto che qualche fantasma d’uomo di Stato, che, comprendendolo per tre quarti e aggiustandolo a suo modo, s’attirerebbe una immensa fama e farebbe dimenticare l’autore.

Per finire finalmente sopra questa interessante opera, è là che Wolowski, amico e compatriota dell’autore, professore di legislazione comparata al Conservatorio di Arti e Mestieri, ha attinto il suo progetto d’organizzazione del Credito Fondiario, progetto di alta portata e che ha ricevuto l’adesione degli uomini più considerevoli e più competenti in questa materia. Tale è dunque lo sviluppo normale e completo di tutte le istituzioni possibili di credito, poiché al di là di questa teoria che abbraccia tutti i valori prodotti e produttivi, tutti i capitali impegnati e la terra, non c’è niente.

Prima evoluzione: lettera di cambio, prestito sopra pegno, banca di deposito.

Seconda evoluzione: banca di circolazione e di sconto, carta fiduciaria, cartamoneta, assegnati.

Terza evoluzione: disimpegno di tutti i capitali rappresentati con biglietti che danno interessi.

Il sistema di Cieszkowski, conseguenza necessaria dei due primi sarà mai realizzato? A non riportarsi che al movimento economico che trascina la società, si può crederlo. Tutte le idee, in Francia, sono per la riforma ipotecaria e l’organizzazione del credito fondiario, due cose che, sotto una forma più o meno pronunciata implicano per forza l’applicazione di questo sistema. Cieszkowski, da vero artista, ha tracciato l’ideale del progetto; ha descritto la legge economica alla quale tutte le riforme ulteriori della società sono sottomesse. Poco importano allora tutte le varietà di applicazione e le modificazioni di dettaglio; l’idea è sua nella sua qualità di teorico, e anche, in caso di realizzazione, di profeta. Cieszkowski, in una parola, ha raccontato una delle fasi più curiose dell’organizzazione sociale; è possibile che esista una lacuna nella storia, questa lacuna non esisterà nella scienza.

La società vive più per lo spirito che per i sensi, è perciò che le è qualche volta permesso, nella pratica, di fare dei passi larghi.

Gettiamo pertanto un colpo d’occhio retrospettivo sopra questo movimento prodigioso, e nello stesso tempo così spontaneo e logico del credito, e cerchiamo la prova di questa necessità provvidenziale, in quanto d’ora innanzi possiamo accoppiare questi due termini che riscontriamo a ogni passo e di cui l’uomo sembra l’agente involontario; di questa necessità, che ha fatalmente colpito Augier e che è la prova dell’infallibilità umana.

Poteva non esistere la moneta? Tanto vale domandare se fra tutti i prodotti del lavoro umano se ne trovi qualcuno di un valore più commerciale degli altri.

Osserviamo di passaggio che il progresso avrebbe potuto essere più o meno ritardato se, in luogo dell’oro e dell’argento, la società avesse adottato per valuta comune il frumento, il ferro, la seta o ogni altra merce di una più grande variabilità di valore e di una più difficile circolazione.

La moneta, una volta inventata, poteva non diventare l’oggetto della generale cupidigia, la cosa più necessaria al povero come al ricco?

E poiché la fabbricazione di una più grande quantità di numerario, in luogo di risolvere il problema non fa che aggiornarlo, può avvenire ancora che, dopo avere valutato come denaro tutti i capitali e i prodotti, non si lavori a disimpegnarli e a metterli in circolazione come moneta?

Diciamolo francamente, tutto questo era inevitabile, tutto questo era scritto nel cervello umano come sul libro dei destini. Da questo momento la via seguita dall’umanità è la vera via, e le sue operazioni sono giustificate.

Per un istante il socialismo, pronunciandosi per bocca della Chiesa, insorse contro lo spirito economico e parve volere arrestare la marcia della società abolendo il prestito ad interesse. Era come una negazione della Provvidenza per mezzo della stessa Provvidenza, una protesta della coscienza universale divenuta cristiana contro la ragione universale che persisteva ad agire da pagana.

Il socialismo, che fu sempre il fondo del cattolicesimo, presentiva che anche con un’organizzazione perfetta di credito, l’umanità non sarebbe avanzata che con la piena concorrenza; che la miseria e l’opulenza sarebbero state, ciascuna dalla sua parte, accresciute; ma esso voleva una legge più completa, meno egoista e soprattutto meno illusoria. Disgraziatamente, all’epoca in cui Roma e i Concili, spinti da un falso spirito di popolarità, inveivano contro il capitale e proibivano l’interesse, la libertà era da conquistare; e come questa conquista non poteva farsi che dalla proprietà, e per conseguenza dall’interesse, la Chiesa fu obbligata a ritirare le sue folgori e aggiornare i suoi anatemi.

La malattia del secolo è la sete dell’oro cioè il bisogno di credito; che c’è di sorprendente in questo?

Che la morale proscritta, la letteratura famelica e la democrazia retrograda si lamentino contro il regno della banca e il culto del vitello d’oro, queste imprecazioni non intelligenti non fanno che testimoniare il cammino trionfale dell’idea.

Dal Sinai in qua il vitello d’oro è il Dio adorato dal genere umano, Dio forte, Dio invincibile, che non trova infedeli che fra i contemplatori, i quali, simili a Mosè, dimenticano sulla montagna il mangiare e il bere. Israele non si è ingannato quando, prostrato davanti una massa d’oro gridò: ecco il Dio, che t’ha liberato dalla schiavitù. E Mosè non si è ingannato neanche quando ha voluto che il suo popolo riconoscesse ancora una potenza superiore all’oro e che gli ha mostrato tal quale, Jehova, la forza creatrice, in una parola, il lavoro della libertà e della ricchezza.

Ma, come dice il saggio, c’è tempo per ogni cosa: tempo per la seminagione e tempo per la mietitura; tempo per Mammone e tempo per Jehova; tempo per il capitale e tempo per l’eguaglianza.

Nella genesi economica il culto dell’oro doveva precedere quello del lavoro; così, ha osservato con molta ragione Augier, ogni progresso del credito è una vittoria riportata sul dispotismo, come se col capitale si svolgesse per noi la libertà.

La lettera di cambio, la banca di deposito, il cambio di monete, il prestito ad interesse, il prestito pubblico, i conti correnti, il numerario fittizio, l’interesse composto e i processi di riscatto che se ne deducono sembrano essere stati conosciuti nello stesso tempo remotissimo; la trasmissibilità della lettera di cambio per via di girata, la creazione di un debito pubblico permanente, le alte combinazioni del credito, sembrano d’invenzione più moderna. Tutti questi processi con i quali si esprime il credito, dalla moneta di ferro fino all’assegnato e al biglietto di rendita, devono essere considerati come i pezzi di una immensa macchina la cui azione può essere definita, in una parola vecchia come il mondo fœnus, l’interesse. [Augier, che dà su tutte queste cose interessanti particolari, crede che l’origine sia tutta fenicia e che la tradizione ebraica, dopo averli conservati durante secoli, li ha fatti ricomparire tutto a un tratto verso la fine del Medioevo, e al tempo del Rinascimento. Non approvo, lo dico francamente, queste ipotesi di trasmissione fra popoli d’idee necessarie, che la riflessione soffocò tosto che si produsse l’oggetto che le rappresenta. Non vi sono combinazioni del credito, come del linguaggio, della religione e dell’industria. Ogni popolo le sviluppa spontaneamente in se stesso, senza l’aiuto dei suoi vicini, secondo la natura e il grado dei propri bisogni. Per tutte le cose che riguardano l’essenza della società, nessuna nazione può rivendicare il primato d’invenzione non più che il diritto di primogenitura. Le monete, reali o fittizie, di cuoio, di seta, di conchiglia, di ferro, ecc., sono alla moneta d’oro e al biglietto di banca ciò che il culto della lince, del cane, delle cipolle è al culto di Giove e di Jehova, ciò che il feticismo è al cristianesimo: sono tutte forme di credito nate, come le forme religiose, dalla spontaneità dei popoli, e che con le forme religiose devono scomparire davanti a un concetto più savio e una idea più alta].

Cosa singolare, ma che non può più sorprenderci, è che l’invenzione del prestito ad interesse non appartiene più al capitale, ma al lavoro stesso, e al lavoro schiavo. Dappertutto e in ogni epoca sono gli industriosi e gli oppressi che scoprono come il prestito ad interesse possa divenire un’arma offensiva e difensiva più terribile che la spada e lo scudo; dappertutto vi sono le caste privilegiate, la nobiltà, la potestà regia, il sacerdozio che si fanno sfruttare dall’usura, aspettando di rivolgere poi contro i popoli la spada incantata che ferisce e guarisce, che uccide e risuscita.

“Con le crociate, l’immobilità che aveva colpito i capitali, la terra e l’uomo attaccato alla gleba, scomparve. Il primo denaro libero fu il primo che potè essere preso a prestito. Ma se il primo fondo di riscatto era minimo, la produzione lo mise ad interesse composto, e cominciò il movimento. La classe che per acquistare le ricchezze ha solo il lavoro e l’intelligenza, si costituì in corpo formidabile sotto il regime delle corporazioni... I mercanti si confederarono: le loro agglomerazioni, le loro confraternite diventarono città, le città crebbero, la rivolta seguì la potenza e l’indipendenza fu, come sempre, il frutto dell’insurrezione... Le città marittime aprirono la marcia. La coalizione ebbe banche in Inghilterra, nelle Indie, in Svezia, in Norvegia, in Russia, in Danimarca. Amburgo, Brema, Lubek, Francoforte, Amsterdam, furono celebri col nome di città anseatiche (hanssen, associazione). Per ottenere concessioni, la lega prestò denaro ai sovrani e ottenne così diritti di cittadinanza e di privilegio... Se si avevano lamentele, l’associazione sospendeva ogni commercio, bloccava i porti, fin quando gli operai oziosi che essa aveva creati e la miseria del popolo che essa affamava, forzavano i sovrani a domandare grazia e a richiamare i padroni stranieri, accordando nuovi privilegi, cioè mezzi d’oppressione. In questo stato di cose, davanti alla lega anseatica, tremarono i re... Nacquero società segrete, una massoneria del denaro, delle iniziazioni, delle torture da subire per essere ammessi nei banchi della lega, vere fortezze fondate in seno alle città, come erano le fattorie di Genova e di Venezia nel Levante”. (Augier, op. cit.).

In breve, le città crearono una forza pubblica e, per pagarla regolarmente, s’imposero una tassa. Questa fu l’origine della rendita pubblica. I re si affrettarono ad imitare questa innovazione, e siccome essi prendevano sempre a prestito, in seguito alla pubblica entrata, non tardò a formarsi, per una successione di prestiti, il debito pubblico. Così vediamo il credito nascere e svilupparsi spontaneamente in seno al lavoro e alla servitù, ingrandire in seguito per la libertà e diventare a sua volta conquistatore e sovrano. È allora che lo Stato l’adotta, dapprima per rovinarsi maggiormente aumentando il consumo improduttivo, più tardi per accrescere i suoi possessi e infine per attaccarsi alla nuova feudalità.

“Presto, continua Augier, i re, sull’esempio dei comuni, fecero la guerra con il denaro. Luigi XI è il primo re che abbia pensato saviamente sul denaro. Prestò 300 mila scudi d’oro a Giovanni di Aragona dopo essersi fatto impegnare le contee di Cerdagne e di Roussillon. Prestò pure 20 mila scudi d’oro ad Enrico VI d’Inghilterra, e ricevette in ipoteca la città di Calais... Così alla guerra di devastazione succedeva la guerra dei capitali. L’anno 1509 Luigi XII s’incaricò di pagare la guarnigione di Verona, che apparteneva a Massimiliano; volle che il principe gli rimettesse, a garanzia di questa somma e di tutte quelle ch’egli potrebbe ancora in seguito avere in prestito, le due cittadelle di Verona e la piazza di Valleggio... Ora, se il buon re Luigi pagava la guarnigione a condizione che la città gli appartenesse, noi domandiamo che cosa l’imperatore Massimiliano guadagnò in questo prestito, se non di dare in prestito i suoi uomini?”.

Lo stesso Massimiliano, che gli storici di quel tempo hanno soprannominato Massimiliano senza denaro, trovandosi a Bruges, fu tenuto tre giorni in prigione nella bottega di uno speziale dai borghesi di questa città, fino a che non ebbe rinunciato al Governo della Fiandra, schiacciata dalle imposte con cui quel principe indebitato non cessava di opprimere i suoi sudditi. Infine si vide papa Leone X e tutto il clero, dietro suo esempio, impegnare i valori delle chiese, i vasi sacri, le reliquie dei santi, agli ebrei, che è ben più, di quanto fece Pericle prendendo a prestito da Minerva il suo mantello d’oro e i suoi gioielli al tempo della guerra contro gli Spartani.

Che cosa fu la rivoluzione del 1789? un disimpegno di capitali. I privilegi della nobiltà e del clero rendevano inalienabile e invisibile la maggior parte del capitale sociale, e fu una vera legge agraria il decreto che ordinò in una volta la liquidazione e la mobilizzazione. Lo scopo della rivoluzione, lo scopo reale e confermato non fu e non poteva essere che quello; tutto quel rumore repubblicano e imperialista che ebbe luogo dopo e di cui non è rimasto che un ricordo, l’ha ben provato. E tale sarà la fine del combattimento ingaggiatosi sotto i nostri occhi fra il capitale rappresentato dall’economia politica e il lavoro rappresentato dal socialismo. Osserverò solamente che oggi, malgrado tutte le apparenze contrarie, il lavoro ha la sorte ancora più bella che in altri tempi, ma il momento non è ancora venuto di darne la ragione.

Non dimentichiamo, accanto all’impulso potente dato all’emancipazione generale dall’usura che il terzo stato esercitava contro gli altri ordini, l’influenza delle masse metalliche gettate in Europa per la scoperta del Nuovo Mondo, quella delle banche di circolazione come quella dell’accomandita. Aggiungete il progresso delle scienze, delle arti e dell’industria, opera propria dei borghesi, e comprenderete come, nel 1789, [Emmanuel] Sieyès chiarendo al mondo che il terzo stato era tutto, il clero e la nobiltà niente, convenne che il monarca, principe dei nobili, e dei figli primogeniti della Chiesa, desse a questa dichiarazione di un non-nobiltà, forza di legge.

Non è più permesso dubitarne: il credito, cioè un insieme di combinazioni che fa del lavoro e dei valori oscillanti una specie di moneta corrente e produttiva che, per conseguenza, apre all’interno quello sbocco che la libertà più assoluta non può procurare; il credito è stato uno dei princìpi attivi dell’emancipazione del lavoro, dell’accrescimento della ricchezza collettiva e del benessere individuale.

Riflettendo sulla moltitudine dei mezzi di produzione, di cambio, di ripartizione, di solidarietà effettiva che il genio umano ha creato, si è meno sorpresi dell’ottimismo di quelli che trovano che tutto va bene, che la società ha fatto abbastanza per il proletario, che se vi sono poveri, il male non deve essere imputato che ad essi, e si comincia a dubitare dentro sé che il lamento del socialismo non abbia il minimo fondamento.

Che il lettore si degni di seguirmi un istante in questa ricapitolazione.

La libertà individuale è garantita. Il lavoratore non teme più che un padrone gli disputi il peculio, ciascuno dispone liberamente dei prodotti del suo lavoro e della sua industria. La giustizia è la stessa per tutti. Se la Costituzione, per un motivo di conservazione e d’ordine incontestabile nel regime proprietario, ha fatto del censo la condizione del diritto elettorale, questa condizione essendo posta nelle cose e non nella distinzione delle persone, tutti quanti per altro essendo chiamati dalla fortuna, si può dire ancora, a questo punto di vista, che la legge elettorale, al pari dell’imposta, è una legge d’eguaglianza e per conseguenza una istituzione irreprensibile, e ancora al disopra del popolo per cui è fatta. Del resto lo Stato stesso invita, spinge il semplice operaio, il proletario a seguire l’esempio del borghese, prima proletario come lui e semplice lavoratore, ora pervenuto all’agiatezza e alla dignità; lo Stato offre al lavoratore la Cassa di Risparmio, poi le pensioni di vecchiaia, più tardi l’accomandita, l’associazione, ecc. Il proletario, se sa fare uso dei mezzi messi a sua disposizione, può legittimamente sperare di bilanciare un giorno con i suoi capitali, la potenza del capitalista, che accusa di rivaleggiare grazie al suo lavoro con le più vaste industrie, e di partecipare infine a quella sovranità della ricchezza, che, da più secoli, ha cominciato in un modo così sicuro l’abbassamento del potere. Non sarebbero da attribuire piuttosto ai gusti depravati, ad abitudini di disordine e di indisciplina, all’egoismo di cui è affetta, e che le fa respingere ogni idea di associazione e di concerto, alle assurde dottrine, a cui lo spingono ben più che a una mancanza reale di mezzi, il malessere e lo scontento della classe operaia?

Io prendo il proletario dalla sua nascita. È da quel momento, dalla culla, che la società si occupa di lui.

Per assicurargli le cure che reclama la prima età, la società gli apre dapprima l’Ospizio di maternità. Mi si permetta, per un momento, di paragonare la Maternità a una istituzione di credito in favore del povero. Così il ragazzo dalle fasce è già debitore di una banca, perché è lui, ben più che sua madre, che approfitta di questa provvidenza della società. Al sortire dalla Maternità è ricevuto nell’asilo d’infanzia. Più tardi riceverà gli elementi di tutte le conoscenze umane e quelli del disegno e della musica, in scuole create per lui.

Il giorno del tirocinio arriva: questo è il più penoso, se si guarda da vicino, di tutti i periodi della vita dell’operaio. Ma come tutti questi dolori sembrano leggeri al ragazzo, sostenuto dalla gaiezza e dall’innocenza dell’età, dalle carezze della madre, dai consigli del padre, dall’immensa speranza di tutta una vita che comincia appena!...

A diciotto anni è operaio, è libero. Comincia a diventare uomo. Di già ama, e fra qualche anno si sposerà.

Supponiamo che questo operaio, a vent’anni, non avendo che le sue braccia e quella somma di conoscenze, ben più considerevole che non si creda, che può dare la scuola primaria, aiutata dal tirocinio e da qualche lettura; supponiamo, dico io, che quest’operaio, obbedendo a una buona ispirazione, pensi a crearsi una pensione per la vecchiaia, una risorsa alla moglie e ai figli s’egli viene a morire.

La Cassa di Risparmio gli è aperta. A 5 franchi per mese il deposito sarà alla fine dell’anno di 60 lire. Al termine di 20 anni, allorché l’operaio sarà in tutta la forza dell’età e della ragione, la somma dei suoi risparmi s’eleverà a 1.200 franchi, le quali, aumentate degl’interessi, formeranno un capitale disponibile di circa 2.000 franchi, ossia, al 4% d’interesse, 80 franchi di rendita.

Supponiamo intanto che questo stesso operaio, giunto all’età di 40 anni, allorché la previdenza è il primo dovere del padre di famiglia, invece di consumare questa rendita che è di 80 franchi, la porti alla cassa di assicurazione sulla vita: al 3% di premio, fa già una somma di 2.666 franchi che assicura alla vedova e ai figli in caso di morte, e che aggiunta alle 2.000 franchi che possiede alla cassa di risparmio, formerebbe di già, se questo padre previdente e saggio morisse nel suo 41° anno, un capitale assicurato di 4.666 lire. Ammettiamo, al contrario, che quest’uomo, continuando, come per il passato, a portare le sue 5 franchi al mese, più gli interessi della prima somma che avrà ritirata e collocata, alla Cassa di Risparmio, viva ancora vent’anni, a sessant’anni avrà davanti a sé un capitale di quasi 7.000 franchi, i suoi ragazzi educati e, per poco che voglia occuparsi ancora, una vecchiaia fuori del bisogno.

Sviluppiamo intanto, sopra una scala più vasta, questa interessante ipotesi.

Supponiamo che in una delle nostre grandi città, Parigi, Lione, Rouen, Nantes, mille operai, decisi ad profittare dei vantaggi del risparmio e dell’assicurazione, formino fra loro una società di mutuo soccorso, il cui fine principale sia quello di aiutarsi a vicenda nel caso di malattia e d’inoperosità, in modo da assicurare a ciascuno, con la sussistenza, la continuazione del deposito. Col capitale risultante dai loro depositi riuniti, questi operai potrebbero benissimo formare fra loro una società di assicurazione sulla vita, che, offrendo loro tutti i vantaggi delle società di questo genere, riserverebbe nello stesso tempo i benefici dell’operazione.

Ciò significa che potrebbero associarsi essi stessi in modo migliore oppure ancora che, con lo stesso premio, assicurerebbero una somma più considerevole.

Così un operaio, nel medesimo tempo impiegato ad ammassare con quarant’anni d’impercettibili economie, una somma di 4.000 franchi, potrebbe anche assicurare alla famiglia, con l’interesse proveniente dai suoi risparmi, un’altra somma di 3.000 franchi, ossia in tutto 7.000 franchi che lascerebbe alla vedova se morisse a sessant’anni, in un’età in cui l’uomo è ancora robusto e capace di lavorare; 7.000 franchi sono la dote di molte ragazze.

Questo esempio ci mostra uno dei più fortunati usi delle funzioni del credito. È evidente, in effetti, che l’ammontare delle somme assicurate non è che un capitale fittizio, in gran parte irrealizzabile, se lo si considera in un momento qualunque della durata del contratto. Ma questo capitale, fittizio per la società, non è nemmeno una realtà per ciascun assicurato, perché non è rimborsabile che per frazioni minime e successivamente alla morte di ciascun associato.

L’assicurazione sulla vita è analoga alla lettera di cambio e alla carta di banca, salvo che, invece di appoggiarsi su verghe d’oro si appoggia sopra le entrate.

Supponiamo infine che una società di lavoratori, così organizzata, si sostenga, si rinnovelli e si sviluppi durante venti o trent’anni, arriverà il momento in cui questa società potrà, in una volta, riunendo le sue forse, disporre di parecchi milioni.

Che cosa non potrebbero intraprendere uomini laboriosi e sobri, uomini provati da trent’anni di pazienza e di economia, con una simile forza? Non è evidente che una tale condotta, sostenuta durante tre o quattro generazioni e propagandata dappertutto come una nuova religione, riformerebbe il mondo e condurrebbe infallibilmente all’eguaglianza?

Si possono variare e combinare all’infinito delle ipotesi di questo genere, e sempre si arriverà a concludere che, se il proletariato resta povero, è perché non vuol darsi la pena d’essere ricco.

Ma, mio Dio, tanto vale dire che se siamo pazzi è che non siamo savi, e se soffriamo è che non siamo in buona salute. Senza dubbio, il diritto pubblico, le leggi civili e di commercio, la scienza economica, le istituzioni di credito, contengono un milione di volte ciò che è necessario al proletariato per uscire dalla miseria e affrancarsi da questa odiosa servitù del capitale, da questo giogo infame della materia, causa prima di tutte le aberrazioni dello spirito. Ma, per cogliere la legge di questa emancipazione, conviene uscire, con l’aiuto di una concessione trascendente, dal cerchio dell’usura; e al termine dove siamo giunti, in questa fase miracolosa del credito, siamo più che mai ingolfati nell’usura. Fra poco indicheremo la parte dei torti del proletario, quella del capitalista e quella della Provvidenza.

Dopo avere detto ciò che sono state fino a ora le forme del credito e ciò che possono diventare, ci resta di parlare del formulario comune a tutte loro, che è per l’economia politica ciò che la procedura è per la giustizia: voglio alludere alla contabilità.

Il credito è il padre della contabilità, scienza di cui ogni segreto consiste nel principio che non vi può essere debitore senza creditore, e reciprocamente; ciò è la traduzione dell’aforisma, che i prodotti si ottengono con dei prodotti, e riconduce, sotto una nuova espressione, l’antagonismo fondamentale dell’economia politica.

Si leggeranno con interesse le nozioni seguenti sopra la contabilità presso i Romani.

“Gli antichi Romani avevano ciascuno un registro sopra il quale scrivevano i debiti e i crediti, specie di conti correnti dove scrivevano pure, sotto il nome di quelli con i quali erano in relazione, il passivo, acceptum, e l’attivo, expensum, di ciascuno. Come il giornale presso di noi, se è nella forma prescritta dalla legge, e senza cancellature, questi libri facevano fede in giustizia. Uno di essi era chiamato nomen trascriptitium, registro di trascrizione, cioè libro mastro. Prima di portare gli articoli in quest’ultimo, i Romani li mettevano, come noi, su un brogliaccio: quello che si trova indicato in Cicerone, Pro Roseto, sotto il nome di adversaria, come chi dicesse controllo. Il riporto sul transcriptitium si faceva tutti i mesi per lo meno, trascrivendo da una parte ciò che si era pagato, expensum, dall’altra ciò che si era ricevuto, acceptum. Infine questi libri, tenuti in realtà per dare e avere, erano chiamati rationes, poiché dovevano rendere ragione di tutto ciò che si faceva tra le parti. Tale sarebbe l’origine della denominazione del libro di ragione o libro mastro, e da ciò le parole: Ragione Sociale, i signori Clopin-Clopant, Harpagon et Compagnie. Se ci si obbligava per una certa somma, chi contraeva il debito scriveva sul suo registro quanto aveva ricevuto dal suo creditore; quest’ultimo scriveva sul suo registro quanto aveva dato a quello ch’egli voleva fare suo debitore. Era infatti ciò che in gergo commerciale chiamiamo accreditare e addebitare. Dalla conformità dei registri risultava il contratto”. (Augier, op. cit.).

Si osservi questo parallelismo: addebitare, fare debitore; dovere, essere debitore; accreditare, fare creditore; credere (questa parola ha perduto in francese il significato del latino credere), confidare rimettere in fruizione e proprietà fino a totale pagamento, essere creditore.

È così che abbiamo segnalato la correlazione di servire e servare, essere o fare schiavo, che esprime così energicamente il rapporto di padrone e servo. L’opposizione delle idee sopra le quali s’eleva di giorno in giorno l’edificio sociale si era formulata sin da principio nel linguaggio, come più tardi, e per una successione di determinazioni, doveva formularsi nei fatti.

Oltre l’opposizione fondamentale di credito e debito, compra e vendita, che esprime così bene l’oggetto ulteriore che abbiamo assegnato al credito, quello di stabilire l’equilibrio fra la produzione e il cambio; la contabilità detta in partita doppia ci rivela un’altra opposizione, cioè quella delle persone e delle cose.

Il negoziante, dopo aver aperto, in debito e credito, un conto a ogni persona con la quale è in relazione di affari, ne apre un altro, pure in debito e credito, per ogni natura di valori che riceve o spedisce e che classifica in 4 o 5 grandi categorie: conto cassa, conto cambio, conto merce, conto diversi, i quali vengono, alla liquidazione o inventario, a risolversi in un conto unico, quello dei guadagni e delle perdite, esprimendo per il negoziante ciò che l’economista chiama prodotto lordo e prodotto netto.

Sembrerebbe che una immensa circonvallazione di forti, di bastioni e di cittadelle, preparata dal destino prima della creazione del mondo, imprigioni la nostra intelligenza e tenga a dovere l’attività a misura che tenta di prodursi? Da qualunque parte si volti la libertà, è subito afferrata, senza che mai l’abbia potuto prevedere, da qualcuna di quelle fatalità economiche che, sotto l’apparenza di strumenti assicuranti, la circondano e la fanno schiava, senza che le sia possibile scappare dalla loro stretta, né concepire niente fuori della loro cerchia. Prima che il commercio e l’agricoltura, l’arte di fare conti e di rendersi conto fossero inventati, il linguaggio, formato spontaneamente, anteriore a ogni istituzione politica ed economica, sottratto per conseguenza all’influenza dei pregiudizi posteriori, il linguaggio esprimeva di già ogni idea di lavoro, di prestito, di scambio, di credito e di debito, di mio e di tuo, di valore e di equilibrio. La scienza economica esisteva; e Kant, al contrario degli economisti che si gloriano di non prestare fede che al più grossolano empirismo, non avrebbe mancato di collocare l’economia politica, se se ne fosse occupato, in mezzo alle scienze pure, cioè possibili a priori per la formazione dei princìpi e indipendentemente dai fatti.

In un soggetto come quello che tratto, tutto doveva essere nuovo e imprevisto. Ho lungamente cercato perché, nelle opere destinate all’insegnamento dell’economia politica da Smith a Chevalier, non è in nessuna parte menzionata la contabilità del commercio. E ho finito per scoprire che la contabilità, o più modestamente la tenuta dei libri essendo tutta l’economia politica, era impossibile che gli autori di zibaldoni cosiddetti economisti, i quali non sono in realtà che dei commentari più o meno ragionati sopra la tenuta dei libri, se ne fossero accorti. Così la mia sorpresa, dapprima estrema, cessò affatto quando mi convinsi che buon numero d’economisti erano cattivissimi contabili, non comprendendo affatto, il dare e l’avere, in una parola, la tenuta dei libri. Ne faccio giudice il lettore.

Che cosa è l’economia politica?

È la scienza (passiamo la parola) dei conti della società, la scienza delle leggi generali della produzione, della distribuzione e del consumo delle ricchezze. Non è l’arte di produrre frumento né di fare vino né di estrarre carbone né di fabbricare ferro, ecc., non è l’enciclopedia delle arti e dei mestieri; è, ancora una volta, la conoscenza dei processi generali con i quali si crea la ricchezza, si aumenta, si cambia, si consuma nella società.

Da questi processi, comuni a tutte le industrie possibili, dipendono il benessere degli individui, il progresso delle nazioni, l’equilibrio delle fortune, la pace dentro e fuori. Ora, in ciascun stabilimento industriale, in ogni casa di commercio, a fianco degli operai occupati alla produzione, alla spedizione, all’entrata delle merci, in una parola, a fianco dei lavoratori, vi è un impiegato superiore, un rappresentante, se posso dire così, della legge generale, un organo del pensiero economico incaricato di annotare tutto ciò che avviene nello stabilimento dal punto di vista dei processi generali della produzione, della circolazione e del consumo.

Questo impiegato è il contabile. Egli solo può apprezzare gli effetti di una divisione del lavoro ben intesa, dire quale economia apporti una macchina, se l’impresa copre o no le sue spese; quanto la vendita ha dato di guadagno; quali sono i migliori sbocchi, cioè quali clienti sono buoni pagatori, di quali altri si deve diffidare, dove si può sperare di farne sorgere.

È la persona meglio in grado di seguire le manovre della concorrenza, prevedere i risultati di un monopolio, prevedere da lontano il rialzo e il ribasso; è lui insomma che, per mezzo dei suoi conti, conosce la situazione della piazza e quella di fuori in ciò che concerne il movimento dei valori commerciali e metallici e la circolazione dei capitali. Il contabile, infine, è il vero economista a cui una compagnia di falsi letterati ha tolto il suo nome, senza che lo sapesse e senza che essi stessi si siano mai accorti che ciò per cui facevano tanto fracasso sotto il nome di economia politica, non erano che ciarle inconcludenti sopra la tenuta dei libri.

La contabilità commerciale è una delle più belle e fortunate applicazioni della metafisica; una scienza (essa merita questo nome) per limitata che sia nel suo oggetto e nella sua sfera, che, per la precisione e la certezza, non la cede all’aritmetica e all’algebra.

Supponiamo di proporre a un matematico questo problema: Trovare, attraverso le note scritte che ogni negoziante deve conservare delle sue operazioni, una combinazione di registrazione tale che nessuna vendita, nessuna compera, nessuna riscossione, nessuna spesa, nessun guadagno né alcuna perdita, alcun contratto, transazione, movimento di numerario o mutazione nel capitale, possano essere da lui dissimulate, snaturate, falsificate, aumentate o diminuite senza che il Cambiamento si mostri all’istante nelle scritture, in modo che la responsabilità del negoziante davanti alla legge e in confronto a terzi, se i terzi e la legge vogliono usare rigore, sia completamente assicurata.

Questo matematico, se per aiutarsi non avesse avuto che delle cifre, sarebbe stato certamente molto imbarazzato. Ora, tale è precisamente il problema che ha risolto il Codice di commercio, artt. 8 e 9.

“Art. 8. – Ogni commerciante è obbligato a tenere un libro-giornale che presenti giorno per giorno i suoi debiti attivi e passivi, le operazioni del suo commercio, i contratti, accettazione o girata di effetti, e in generale tutto ciò che riceve e paga, a qualunque titolo sia, e che annunzi, mese per mese, le somme prelevate per le proprie spese, il tutto indipendentemente dagli altri libri usati nel commercio, ma che non sono indispensabili. [Questi libri sono: il libro acquisti e vendite, il libro debito e credito, il libro cassa, il libro inventari, il libro scadenza, il copia lettere, ecc.].

“È obbligato a mettere insieme le lettere che riceve e di copiare sopra un registro quelle che spedisce.

“Art. 9. – È obbligato a fare tutti gli anni, sotto scrittura privata un inventario dei suoi effetti mobiliari e immobiliari, e dei suoi debiti attivi e passivi, e di copiarli anno per anno sopra un registro speciale a ciò destinato”.

Ebbene, questi due articoli non racchiudono forse tutto il programma dell’economia politica? E non è cosa che muove al riso vedere certi uomini, dopo avere innalzata a scienza questa pratica, buona se la si prende come strumento, ma detestabile se si vuole cercare il principio della giustizia e della società, vederli insegnare, in qualità d’economisti, a questi commercianti che essi copiano e che sono loro maestri? Che cosa l’economista sa in più di quello che il Codice di commercio in dieci linee ha prescritto a ogni negoziante?

Il Codice di commercio non ha niente pregiudicato né sul prezzo delle merci, né sopra il tasso dei salari. Esso lascia quest’articolo all’arbitrio del commerciante, a cui ingiunge solo di portare in conto le somme pagate, quali che siano. È così che gli economisti, commentatori scrupolosi e fedeli, ci dicono che il valore è per sua natura incommensurabile, e dipende esclusivamente dall’offerta e dalla domanda.

Il Codice di commercio, al titolo Società di commercio, sviluppando la dottrina del Codice Civile, art. 1832 e seguenti, dice: “La Società è un contratto col quale due o più persone si accordano di mettere qualche cosa in comune nella speranza di un beneficio che potrà risultarne, ecc.”. Il Codice di commercio suppone dunque che il lavoro da se stesso non può diventare oggetto di una società, materia di un commercio.

Così gli economisti insegnano che il capitale è produttivo e che l’ordine sociale è fondato sopra il monopolio.

È inutile spingere più lontano questo parallelo. Le questioni di credito pubblico e d’imposta sono ancora questioni di contabilità commerciale applicata allo Stato; non c’era che farne un capitolo di economia politica, visto il modo in cui l’intendevano gli economisti. Ancora se l’economia politica fosse una filosofia del commercio, una filosofia della tenuta dei libri! Ma non è così, l’economia politica non è che un difficile commentario sopra gli art. 8 e 9 del Codice di commercio, i quali racchiudono da essi soli la sostanza di mille volumi.

Dunque, riassumendo.

Il Codice di commercio, facendo applicazione del principio metafisico che ogni creditore suppone un debitore, e viceversa, e imponendo a ogni commerciante l’obbligazione di registrare giorno per giorno i debiti passivi e attivi e ogni operazione, ha gettato le vera fondamenta del credito e creato lo strumento irresistibile della futura eguaglianza.

La contabilità non implica da essa stessa la misura dei valori, resta indifferente alla misura delle quantità espresse sotto la rubrica dare e avere; impassibile come l’aritmetica di cui fa frequente uso, essa si presta tanto a constatare la rovina quanto l’opulenza del negoziante, la spoliazione dell’operaio quanto la giustizia del padrone, ma ciò non significa che il legislatore abbia voluto fare una legge dell’instabilità della fortuna.

E gli economisti, accettando come giudicato, facendo dire alla pratica ciò che non poteva neanche sapere, e che, meglio studiando, avrebbe finito per dichiarare falso, gli economisti hanno tutti insieme mancato alla loro missione di filosofi e perduto la loro competenza come critici.

I libri di commercio sono testimoni incorruttibili che il commerciante è obbligato a tenere presso di sé, a sue spese, come una compagnia di guardie sempre pronte ad accusarlo se è un truffatore, come a giustificarlo in caso di fallimento se è un onest’uomo.

Gli economisti hanno concluso da questa parte tutta passiva, da questa indifferenza del testimonio algebrico, che non c’è una legge dello scambio; la vera filosofia concluderà al contrario che con simili strumenti l’eguaglianza è salvata se la legge dello scambio è scoperta.

La contabilità commerciale deve abbracciare il mondo intero e il gran libro della società avere tanti conti particolari quanti individui esistono, tanti articoli diversi quanto si produce di valori.

Quando questo tempo d’equità sarà venuto, la politica e il regime rappresentativo, l’economia eclettica e il socialismo comunitario saranno tanto sprezzati quanto meritano d’esserlo; e la monarchia, la democrazia, l’aristocrazia, la teocrazia, tutti questi sinonimi di tirannia appariranno alla gioventù rigenerata cose così strane come le qualità formali, gli atomi curvi, la scienza araldica e l’idioma dei teologi.

3. – Menzogna e contraddizione del credito. Suoi effetti sovversivi. Suo potere depauperante

La Provvidenza, conducendo l’uomo nella via miracolosa del credito, sembra avere avuto per scopo di creare in seno alla società una istituzione generale di assicurazione per la diffusione e la perpetuità della miseria.

Sin qui si è visto, a ogni evoluzione dell’economia politica, la distinzione approfondirsi sempre più fra padrone e salariato, fra capitalista e lavoratore. Le macchine e la concorrenza, il monopolio, l’organizzazione dello Stato, le proibizioni come le franchigie, tutto ciò che il genio umano ha immaginato a sollievo della classe lavoratrice, è costantemente tornato a vantaggio del privilegio e all’oppressione via via più completa del lavoro. Si tratta frattanto di consolidare l’opera, di fortificare la piazza contro le scorrerie del nemico e di assicurare il possessore contro gli attacchi dello spossessato. – Ma questa assicurazione toccherà allo spogliato di pagarla; essendo scritto: Tutto dal lavoratore e tutto contro il lavoratore.

Operai, lavoratori, uomini di fatica, uomini che producete, si dice loro con un’enfasi piena di lusinghe, è per voi, per il sollievo dei vostri vecchi anni che abbiamo istituito questa cassa di risparmio. Venite, portateci le vostre economie, faremo ad esse buona e sicura guardia: ve ne pagheremo l’interesse: sarete i nostri contribuenti e noi i vostri debitori. Lavoratori! prendete a prestito con usura e siccome non rimborsate mai, vi si espropria. Venite alla nostra banca ipotecaria, non vi prenderemo niente per l’atto, non esigeremo rimborso e, mediante un piccolo interesse, al termine di 36, di 45, di 50 anni voi sarete liberati.

Produttori, commercianti, industriali! il denaro vi manca. Ma non sapete che i vostri strumenti, le case, la clientela, il talento, la probità sono una miniera d’oro? Intendiamo lavorare questa sabbia ed estrarne il metallo prezioso che nasconde, e quando l’estrazione sarà stata fatta, vi renderemo tutto mediante un leggero sconto. – Padri di famiglia, volete assicurare dopo la vostra morte una dote alle figlie, una pensione alle vedove, una riserva ai ragazzi in tenera età? Vi domandiamo, a partire dal giorno della vostra iscrizione, un premio, proporzionato alla vostra età, della somma che vi pagheremo.

Lavorerete, e vivrete senza inquietudine, l’oro colerà a fiotti. Sarete ricchi, ricchi e fortunati; avrete il lavoro, la distribuzione, la rendita, dotazioni, eredità, guadagno dappertutto!

In una parola, io rovescio questa baracca e annullo la mistificazione del credito.

Il credito, per essenza e destinazione, domanda, come il lotto, sempre più di quello che dà, né può fare altrimenti; senza ciò non sarebbe più credito. Dunque vi è sempre spoliazione della massa, e qualunque sia il travestimento, utilizzazione senza reciprocità del lavoro da parte del capitale.

Il credito mentisce quando si offre a tutti quanti. Da una parte l’economista, ricettatore e ciarlone, ci dice: “Può aspirare a fruire del credito solo l’uomo onesto animato da sentimenti d’onore, fedele alla parola data, schiavo dei suoi impegni. Credito e fiducia sono sinonimi. In qual luogo e verso chi la fiducia sussisterebbe, se non dove la probità è stimata e verso uomini di una moralità provata? Similmente, chi non sarà stupito di ciò che offrono di liberale le istituzioni di credito provviste di abbondanti risorse e bene amministrate? La missione di queste istituzioni è, in effetti, di fare passare gli strumenti del lavoro, la sostanza vitale delle imprese piccole o grandi, il nerbo dell’industria, in altri termini, i capitali, dalle mani dei detentori che non vogliono farli valere essi stessi, o che non lo saprebbero, o che non ne avrebbero l’opportunità, in altre mani più atte o più disposte a utilizzarli, e che siano sicure. Là dunque dove c’è un credito ben organizzato, l’uomo che riunisce l’intelligenza all’amore del lavoro, l’attitudine industriale alla probità, è accertato che non gli mancherà il mezzo di acquistare col tempo l’agiatezza, di farsi col tempo quella posizione che il poeta antico chiamava di aurea mediocrità, che gli Inglesi designano sotto il nome d’indipendenza, e che offre all’uomo le migliori garanzie di fortuna. Una volta giunti là, salvo qualche eccezione, gli uomini, nei tempi ordinari, si arrestano volentieri e piantano le loro tende senza guardare più oltre. Ma, per le stesse eccezioni, per le nature superiori, quando sono a questo punto, è assai facile col credito elevarsi a quelle alte posizioni che sono al più alto livello delle posizioni sociali e di dove si passa facilmente alle più eminenti funzioni dello Stato, e ne troviamo nella nostra società liberale molti esempi splendidi. Dopo quindici anni, signori, voi avete veduto due commercianti che s’erano innalzati seguendo le vie del commercio, pervenire alla prima dignità dello Stato, a quella di presidente del Consiglio dei Ministri!...”. ([Michel] Chevalier, Corso di economia Politica, [tr. it., Torino 1864]; Discorso di apertura del 1845).

Ascoltiamo frattanto l’economista, severo filosofo, e cerchiamo di ben apprendere la lezione: “Il credito non è un’anticipazione dell’avvenire, un inganno della crematistica, che non fa che rimuovere i capitali mostrando di crearli. Il credito è la metamorfosi dei capitali fissi e impegnati, in capitali circolanti o disimpegnati. È necessario dunque che il credito sia appoggiato a realtà e non ad aspettative; vuole delle ipoteche e non delle ipotesi... Ex nihilo nihil fit; dunque, se volete creare esibite i vostri materiali, e non presentate ciò che deve essere creato come strumento di creazione; non è che un circolo vizioso... Il male intimo che corrode il credito sta nello scontare il fine invece dei mezzi”. ([Auguste] Cieszkowski, Du crédit et de la circulation, op. cit.).

Ammirevole espressione ma disperatamente logica! Così il credito, in buona e sana economia, non è accordato alla persona ma all’ipoteca; il credito, così magnificamente definito, la metamorfosi dei capitali vincolati in capitali circolanti, è il cambio revocabile di un capitale qualunque contro denaro, una vendita a riscatto. Dunque, malgrado l’etimologia del nome, credito è diffidenza, poiché l’uomo che non possiede niente non otterrà mai credito. Tutto al contrario, tocca a lui, obbligato a servire per vivere, dare eternamente il suo lavoro a credito, durante 8, 15 o 30 giorni a un imprenditore!

E si parla d’organizzare il credito, come se il credito fosse altra cosa che la circolazione di una merce accessibile solo a coloro che posseggono dei capitali suscettibili d’ipoteca! Ma parlate dunque d’organizzare il pegno del credito, questa è la cosa che manca; il pegno del credito, capite? cioè il possesso della terra, l’industria e il lavoro. Il credito sulle cose non mancherà, la fiducia per le cose è senza limiti, la fiducia per l’uomo, il credito per le persone manca dappertutto; dunque, ancora una volta, è soprattutto il pegno del credito, sono i motivi di fiducia verso gli individui che si tratta di creare; e parlare di credito al lavoro prima di avere terminato il lavoro, è costruire un’ombra di ferrovia per trasportare delle ombre di viaggiatori in ombre di vagoni.

Così il credito, per sua condizione essenziale, è inaccessibile al lavoratore, senza influenza diretta sul suo destino, è per lui come se non esistesse. È il pomo d’oro delle Esperidi, custodito da un dragone sempre desto, il quale non può essere colto se non da uomo forte che porta sul suo scudo la testa di Medusa, l’ipoteca.

Il credito non ha niente a che fare con i poveri, i giornalieri, i proletari; il credito per essi è un mito. Il credito non può né deve addossarsi che a realtà, non ad aspettative; il credito è reale, non personale, come dicono i giuristi. Perché questa regola possa essere rovesciata la reazione del lavoro contro il capitale deve fare diventare tutte le ricchezze proprietà collettive, e i capitali, sortiti dalla società, farveli rientrare; bisogna, in una parola, che l’antinomia sia risolta. Ma allora il credito non sarà più che un organo secondario del progresso, scomparso nell’associazione universale.

Poiché il credito mente, esso ruba. Il rapporto di queste due idee è tanto necessario come quello d’improduttività e di miseria. In effetti, il credito è l’organizzazione più vasta della signoria del denaro e della produttività del capitale: due funzioni che, sotto il nome di credito, vengono a concertarsi e unirsi per completare la servitù del lavoratore.

Non ci stanchiamo di ritornare ai princìpi.

Come dal capitalista al lavoratore vi è supremazia e dipendenza, come, in altri termini, il capitale inaugura nella società un inevitabile feudalesimo, così, dalla moneta alle altre merci, c’è supremazia e dipendenza. La gerarchia delle cose riproduce la gerarchia delle persone. Anche quando, secondo il sistema di Ricardo o quello di Cieszkowski, tutti gli scambi si operassero per l’intermediario di biglietti o di titoli di proprietà, di capitali suscettibili di disimpegno, la moneta sarebbe tuttavia il dio nascosto che nella sua oziosità profonda e nella sua regia noncuranza governerebbe il credito, poiché è a sua immagine che i valori circolanti sarebbero non già concreti ma finti; poiché la moneta servirebbe loro sempre di misura, che la sua stampiglia sarebbe, per così dire, apposta sulla carta; poiché esso non otterrebbe fiducia sopra l’opinione né credito nel commercio in quanto lo si saprebbe sempre e a volontà rimborsabile in denaro; poiché infine, malgrado questa generalità della finzione, la costituzione effettiva dei valori non sarebbe avanzata più di prima.

Che cosa si otterrebbe, in realtà, da questa banca centrale, emettendo miliardi di biglietti fruttiferi, impegnati sulle proprietà dello Stato e su tutti gli immobili del paese? Si avrebbe un immenso catasto, in seguito al quale i capitali fondiari e gli strumenti di lavoro, valutati in denaro, sarebbero mobilizzati, resi trasmissibili, in una parola, lanciati nella circolazione senza maggiore formalità di un pezzo d’oro.

Invece dei quattro miliardi che costituiscono il totale della circolazione in Francia, essa arriverebbe rapidamente alla cifra di venti o trenta miliardi; e si deve aggiungere, per l’onore dei princìpi, che per la varietà del pegno, questo immenso materiale di circolazione non diminuirebbe.

Si avrebbe il fantasma della costituzione del lavoro che deve rendere ogni merce accettabile in pagamento allo stesso titolo dell’oro; ma non si avrebbe la realtà di questa costituzione, poiché i capitali monetizzati, per entrare in commercio, dovrebbero subire una riduzione anteriore, garanzia del loro valore nominale.

È dunque dimostrato, mi pare, che il credito non raggiunge lo scopo dell’economia politica, che è di costituire tutti i valori sociali al loro saggio naturale e legittimo, determinandone la proporzionalità. Al contrario, il credito, disimpegnando i valori mobiliari e immobiliari, non fa che dichiarare la loro subordinazione al numerario. Constata la realtà di questo e la dipendenza degli altri; invece di creare una franca circolazione stabilisce su tutti i valori un pedaggio per la deduzione che loro fa subire al fine di renderli circolabili. In una parola, il credito libera il problema dalle oscurità che l’attorniano, non lo risolve.

Per di più, ecco ciò che dichiara Cieszkowski. “L’utilizzazione del credito e della circolazione è l’utilizzazione dei valori idealizzati e generalizzati di una nazione; è una industria, se si vuole, ma una industria che agisce non sopra questo e quell’altro valore, lordo e immediato, ma sopra la quintessenza generale di tutti i valori sopra un prodotto sublimato da tutte le ricchezze effettive, dopo il cui disimpegno il residuo della sublimazione non presenta quasi più che un caput mortuum”.

Ecco dunque qual è la manovra del credito. Comincia per generalizzare e sublimare (stimando 4 ciò che vale 6) la ricchezza, riconducendo a un tipo unico (il denaro) i valori (strumenti del lavoro e prodotti) in modo imperfetto scambiabili, come le pagliette d’oro nel minerale, poiché fa convergere tutti questi valori generalizzati e sublimati verso un organo centrale, il palazzo del denaro, dove si compie il mistero.

Rendiamoci conto, per l’ultima volta, dell’operazione, considerandola sotto tutte le sue forme.

Dapprima il credito, dando alla moneta forme così varie, quali sono i capitali vincolati per se stessi, non apporta alcun ribasso ai valori metallici. L’oro e l’argento conservano il loro prezzo e la loro potenza; la carta di credito, sebbene eguale, quantunque anche superiore in un certo senso, poiché comporta interesse, non li spossessa; al contrario, rendendo i capitali impegnati circolabili, non fa che marcare la proporzione degli uni e degli altri. Non è la merce-moneta che è aumentata, come succederebbe raddoppiando la massa metallica oppure emettendo in una volta un miliardo di assegnati; è la ricchezza sociale stessa, con la sua varietà infinita e le sue innumerevoli forme, che è messa in movimento.

È un nuovo passo, un passo gigantesco verso quella costituzione assoluta del valore che è lo scopo finale dell’economia politica. In effetti, per rendere questa costituzione definitiva, basta sostituire al credito l’eguaglianza e rendere ogni valore circolabile, non solo sotto beneficio di deduzione e di sconto, ma alla pari, ciò che è il carattere essenziale della moneta.

Ora, è questo intervallo, al di là del quale il lavoratore e il capitalista diventano eguali e simili, che il credito non può superare senza cessare di essere credito, cioè senza cambiarsi in mutualità, solidarietà e associazione, in una parola, senza fare sparire la servitù dell’interesse.

L’interesse, l’usura, la regalia, la decima o, come l’ho già chiamato, il diritto di guadagno casuale, è l’attributo essenziale del capitale, l’espressione della sua prerogativa, per conseguenza la condizione sine qua non del credito.

Questo interesse cessa forse per il disimpegno dei capitali fondiari e mobiliari e per la creazione dei biglietti fruttiferi? Tutt’altro, esso si esercita su una più vasta scala, con più generalità, regolarità e consistenza. Dunque, niente è ancora cambiato nella costituzione sociale, e l’antagonismo sul quale essa riposa non ha ricevuto che un aumento di attività e d’energia.

Ora, in che consiste il meccanismo e qual è la proprietà dell’interesse?

È nel volere che nella società il prodotto netto sia in eccedenza sul prodotto lordo (vedi più sopra al capitolo VI), nel creare continuamente un capitale fittizio, una ricchezza nominale, una spesa non preceduta da riscossione, un attivo introvabile, cioè, in una parola, nel supporre l’impossibile, e come conseguenza fare affluire senza posa la ricchezza, dalle mani dei produttori che, dopo la finzione, ricevono credito, alle mani di coloro che non producono, ma che, secondo la stessa finzione, danno credito, ciò che è tre o quattro volte contraddittorio.

Il capitalista dunque, che dispone di valori metallici, i soli costituiti, i soli accettabili in ogni scambio, volendo venire in aiuto al lavoratore, favorire il commercio e la produzione, contribuire per quanto è in lui alla fortuna pubblica, prende in pegno i titoli di proprietà dei suoi clienti e rimette denaro o lettere di cambio, ciò che raddoppia i suoi utili, il tutto prendendo interesse, il che fa senza tregua ritornare alla banca lo stesso numerario prestato, senza che per questo cessi d’essere dovuto. E siccome le somme prestate, ritornate con l’usura, sono continuamente riprestate, accade ben presto che il suolo, le case e tutto il mobiliare nazionale si trovino impegnati o ipotecati a profitto dei banchieri. Questo movimento alienante è così rapido che si può paragonarlo a quello dei corpi celesti. Price ha calcolato che un decimo di franco, messo a interesse composto dall’era cristiana fino al 1772, avrebbe prodotto più oro che non potrebbero contenere 150 milioni di globi, di superfice pari a quella della terra.

Il denaro, sempre ripreso appena prestato, e per conseguenza sempre ridomandato con maggiore istanza, viene a mancare?

Il banchiere emette biglietti garantiti, moneta di carta la quale, malgrado piccoli accidenti e qualche errore nei conti, non tarda a rientrare assieme al numerario e sempre con accrescimento di domanda.

La carta di banca assistita dall’ipoteca non basta più? Si creano biglietti a rendita, si mette in circolazione tutto ciò che resta di capitali, s’inventano nuove combinazioni di riscatto; si diminuisce il prezzo del prestito, le spese di contratto; si allungano i termini. – Ma, essendo impossibile che il capitale sia prestato per niente, che rientri come è stato rimesso; essendo l’interesse del capitale, per quanto debole, indispensabile dal momento che deve riprodurre indefinitamente il capitale stesso con utile, è necessario che in una nazione il lavoro si alieni, per così dire, continuamente a profitto del capitale, e che continuamente il fallimento e la miseria ristabiliscano l’equilibrio.

Price e il suo discepolo Pitt, facendo i calcoli sull’interesse composto, non si sono accorti che dimostravano matematicamente la contraddizione del credito. La varietà delle forme, la sottigliezza delle combinazioni, la facilità del trasporto, la dilazione accordata al rimborso: tutto ciò non serve a niente.

L’equilibrio non può esistere che a condizione di fare rientrare su se stesso il credito, cioè di rendere il capitalista e il lavoratore creditori e debitori allo stesso grado, cosa impossibile sotto il regime del monopolio.

Venga dunque al più presto questo disimpegno universale dei capitali, questo regno dei biglietti a rendita, e il denaro, idolo decrepito, sarà messo da parte. E vedremo l’umanità, che i poeti dipingono come fidanzata di Dio e regina della natura, assisa come una cortigiana, l’occhio infiammato, il petto ansante a una tavola da gioco, comprando, vendendo, speculando sempre per gioco. Allora gli strumenti del lavoro saranno divenuti nello stesso tempo poste e strumenti di gioco, i mercati si convertiranno in borse e le strade in ammazzatoi; la navigazione sarà pirateria; ogni arte e ogni scienza saranno fabbrica di false chiavi, scalpelli, tenaglie e seghe preparate per il furto. Poi vi saranno deplorevoli suicidi, atroci vendette, dissoluzione, saccheggio, anarchia; dopo di che la società, stanca ma non sazia, ricomincerà la sua ridda infernale.

“Non è forse da temere – esclama Augier – davanti a questo spaventevole avvenire, che l’abitudine producendo la disonestà, trasformi la famiglia umana in un nido di ladri o bancarottieri sistematici, retti da leggi in derisione dell’equità, e ipocritamente uniti contro la giustizia, che in ogni tempo le genti oneste hanno cercato di fondare? Non è da temere, infine, che costumi senza esempio anche nel passato, vengano in permanenza a rinnovellare e mettere in pratica ciò che si è visto in quarantotto ore negli Stati di America, il fallimento di cento banche in una volta, quello del Governo, e in seguito, ciò che è mancato allo spettacolo, quello di tutti i cittadini in un giorno? Soggetto incantevole di sogno per gli ergastolani, specie di legge agraria di nuovo genere!”.

Come dubitarne ancora? Sotto il regime del monopolio, l’organizzazione del credito è l’allettamento dell’avere sociale; è il salvacondotto delle nazioni, incessantemente perduto, incessantemente ripreso dalla bancarotta. Mentre la differenza del prodotto lordo e del prodotto netto nella società, sola vera causa di povertà, passa inosservata, mascherata dal frastuono della scienza e dal cambiamento di decorazione; mentre il progresso della meccanica industriale, le lotte della concorrenza, la formazione di grandi compagnie, le agitazioni parlamentari, le questioni d’insegnamento, d’imposta, di colonizzazione, di politica estera assorbono l’attenzione pubblica e la distraggono dai suoi grandi interessi, il credito si prepara con la generalizzazione dei valori, con il loro disimpegnarsi, e la loro affluenza in un unico magazzino, a scoprire questo sistema di miseria, e a dimostrare l’impossibilità matematica del nostro ordine sociale.

L’economia politica, dirigendo il movimento sociale nel senso della costituzione dei valori, aspira a risolvere sopra la società il problema del movimento perpetuo, problema che i meccanici e gli economisti, di comune accordo, dichiarano irrisolvibile perché non posseggono i dati della soluzione. Il movimento può essere perpetuo, ma a condizione di essere spontaneo, prodotto da una forza intima, non da una forza esteriore alla macchina. Così nell’universo c’è perpetuità di movimento, perché deriva da una forza intima alla materia, l’attrazione; così la vita è perpetua nell’animale, perché risulta da una forza intima all’organismo, creatrice dell’organismo e capace, in una certa misura, di soggiogarne gli elementi. E siccome è nella natura della vita di accrescere, con l’organizzazione, il suo stesso ostacolo, viene un momento in cui la vita soccombe sotto l’attrazione molecolare, una spontaneità sotto un’altra spontaneità; ma la vita in se stessa, come pure l’attrazione, è perpetua.

Così la forza che anima e sviluppa la società, forza spontanea, imperitura, di cui le nostre contraddizioni sono i battiti. Nell’ipotesi del credito, l’uomo fa venire dal privilegio, da nient’altro che dal privilegio, e sempre dal privilegio, cioè da un’alienazione, la forza produttiva; questa forza, che deve essere intima al lavoratore che per conseguenza risiede nelle viscere della società. È meraviglioso che il credito, con tutte le sue combinazioni, arrivi fatalmente all’immobilità e alla morte. Il privilegio, che è col credito l’impulso al lavoro, il privilegio dura fin quando il lavoratore, producendo, può spogliarsi a suo profitto senza perire. E siccome è dimostrato dalla teoria dell’interesse raddoppiato che il capitale prestato al lavoro è dovuto due volte ogni quattordicesimo anno, ne segue che, in una organizzazione perfetta del credito, il lavoro perde ogni quattordici anni i capitali che mette in movimento.

La conseguenza è che l’equilibrio non si stabilisce per i capitali se non con la bancarotta, ciò vuol dire che la legge dello sviluppo sociale non è affatto la stessa cosa che la legge del credito, onde per mettersi d’accordo col principio che fa andare il mondo, dovremmo cominciare con lo spossessare quelli che possiedono, il che è impossibile se le nostre contraddizioni anteriori restano irrisolte.

Si dica dunque frattanto, e si ripeta sotto tutte le forme immaginabili, che il credito deve essere appoggiato a realtà e non ad aspettative; che esso vuole delle ipoteche, non delle ipotesi: tutta questa teoria, inattaccabile per chiunque si ponga nella pratica del privilegio, si trova radicalmente impotente e convinta di falso, poiché alla fine i capitali considerati insieme nella società, non hanno altra ipoteca che se stessi, e dandosi a credito, non possono appoggiarsi ad altra realtà che alla propria. Law, saltando tutta questa fantasmagoria del credito, mostrò maggiore franchezza che i teorici del nostro secolo, tentando di fondare il credito sopra un mito (conveniva bene tenere le immaginazioni per qualche cosa), e dicendo a se stesso: la teoria indica che il credito deve essere reale. Ma, nella società, la progressione dell’interesse, conducendo fatalmente all’insolvibilità chiunque ha preso a prestito, è inevitabile che il credito che comincia per essere reale, divenga alla fine personale, cioè addossato a castelli in aria. Di allora in poi è meglio che il debitore sia la persona dello Stato, in fatto d’ipoteca morale, quella è la più sicura. E poiché questo debitore è onnipotente, ne segue, all’opposto d’ogni altro debitore, che invece di ricevere credito è lui che lo dà.

Si immagini, se possibile, a quale tortura di spirito quest’uomo dovette essere in preda tra tutte quelle contraddizioni di cui allora nessuno possedeva il segreto; a quale vertigine dovette soccombere più tardi, quando alla fine dei conti vide tutte le sue combinazioni terminare nello sfacelo, nell’orrido fallimento, come diceva Mirabeau.

Non c’è voluto meno di cinquant’anni di sviluppo filosofico senza paragone nella storia, per capire chi fu Law, uomo d’intelligenza superiore, audace avventuriero che cercava una costruzione impossibile, il movimento perpetuo della società tramite il credito, e che ragionando con una ammirabile giustezza, fu condotto, sempre dalla sua stessa logica, alla contraddizione, al nulla. Si giudichi come dovette essere ammirato da coloro che credevano di capirlo, e calunniato da coloro che non lo capivano! Law aveva, senza dubbio, il vago sentimento di questa deplorevole antinomia che smerciava, come la pietra filosofale, di reame in reame, in quanto non si può ammettere che si fosse fatto illusioni sul valore delle sue azioni del Mississipi. Ma gli era impossibile rendersi conto di un dubbio che contraddiceva la teoria; e, spinto dagli avvenimenti, certo di non essersi allontanato dalla pratica volgare, si decise di tentare l’incognito, pronto a rovesciare un impero per un’esperienza metafisica, e a ritirarsi dopo, esecrato da tutti. Ciò che di più ammiro in quest’uomo, ciò che fa di Law ai miei occhi un personaggio veramente storico, una figura ideale, è che abbia creduto senza esitare che una tale esperienza valeva la pena d’essere fatta. Dopo tutto, Law non intaccava il capitale sociale, non faceva che rimuoverlo. Il lavoro restava come ancora di salvezza; il popolo non correva alcun pericolo nella prova: e quanto alla nobiltà cupida, oziosa e depravata, non meritava che se ne inquietasse. Non si sarebbe trattato, a suo riguardo, che della perdita di barattieri e di balordi.

Le idee di Law non furono capite da nessuno, neanche dall’autore; e gli economisti come pure gli storici, che dopo ne hanno parlato e che ne parlano ancora, non pare che ne abbiano penetrato il mistero. Conviene dunque che l’esperienza si rinnovi con un meraviglioso insieme, perché il tentativo sia più generale, e nessuna fortuna scappi. Cieszkowski e Wolowski sono i principali capi della spedizione; i membri componenti la commissione incaricata di passare in revisione la legge delle ipoteche e organizzare il credito fondiario, formano l’equipaggio; Augier è il Geremia che piange anticipatamente sulla catastrofe. Chi oserà lagnarsi, quando le sommità dell’economia politica, della finanza, dell’insegnamento e della magistratura, appoggiate dal favore pubblico, parlando in nome della scienza e degli interessi, dopo aver fatto adottare le loro idee ai grandi potenti dello Stato e suggerita la lezione al legislatore, avranno aggiunto al nostro vecchio fardello di democrazia, di aristocrazia e di monarchia, la bancocrazia, il Governo del fallimento?

Il credito è ipocrita come l’imposta, spoliatore come il monopolio, agente di servitù come le macchine. Come un contagio sottile e lento, propaga, estende, distribuisce sopra la massa dei popoli gli effetti più concentrati, più localizzati dei flagelli anteriori. Ma, con qualunque maschera si ricopra, pietà, lavoro, progresso, associazione, filantropia, il credito è ladro e assassino, principio, mezzo e fine della feudalità industriale. Il legislatore degli Ebrei aveva scrutato tutte queste profondità, quando raccomandava al suo popolo di fare credito alle altre nazioni, ma di non riceverlo mai da esse, e prometteva a questa condizione il dominio e l’impero.

“Se tu fai credito alle nazioni e tu stesso non prendi a prestito tu regnerai sopra tutti i popoli, e nessuno sarà tuo padrone”. (Deuteronomio, Cap. XV, v. 6).

Gli Giudei non hanno trasgredito questo precetto, infedeli a Jehova spesse volte, fedeli sempre a Mammone. E si può vedere oggi se la promessa di Mosè è stata adempiuta.

Il credito opera, non direttamente, colpendo solamente il produttore, ma in una maniera indiretta, ricadendo sul consumatore come l’imposta di quotità. Ecco perché l’azione del credito resta impercettibile al volgo e non solleva l’opinione pubblica: l’interesse diviso della produzione prevalendo qui, nello stesso modo che in tutte le questioni d’imposta, sull’interesse collettivo del consumo. Come la forza s’accresce con la concentrazione, vis unita major, così un peso che si divida sembra minore: e sopra questo principio è stabilito il prestigio e la durata del credito. Ripromettendosi tutti di sortire dal gioco con guadagno, e rigettando sul pubblico l’interesse che li aggrava, si trovano d’accordo nel domandare credito; nessuno pensa a scongiurarne gli effetti sovversivi. Non si riflette che in questa lotteria le eventualità sono combinate in tal modo che il banchiere guadagna sempre, e che alla fine, salvo qualche fortunato che finisce costantemente per associarsi alla banca, la sovrattassa dei prodotti essendo universale e reciproca, ogni produttore è così aggravato come se portasse solo il peso del proprio credito, il fardello della sua cattiva coscienza.

Ma non potrebbe accadere che con l’universalità del credito, con la varietà delle sue combinazioni, ciascuno diventasse nello stesso tempo accommandatario e accommandato, desse credito e lo ricevesse, prendendo nel primo caso un prezzo, e nel secondo pagandolo; cosicché, per questa vera circolazione, le condizioni fossero eguagliate e, per quanto possa darsi fra gli uomini, mutuamente garantite?

Faccio quest’obiezione, per puerile che sia, allo scopo di mettere in tutta evidenza il circolo vizioso del credito, l’impossibilità matematica di questa pretesa circolazione a regime d’eguaglianza. Di allora in poi più di un finanziere, più di un organizzatore del credito è stato ingannato da questa utopia; è dunque scusabile al comune lettore sollevarla, come a me di rispondervi. Rammentiamoci che nel periodo attuale delle antinomie sociali che chiamiamo il credito e da cui ci si attendono così pompose meraviglie, niente è ancora organizzato; il lavoro è in balia della divisione parcellare; la fabbrica, della maestranza e del salariato; il mercato, della concorrenza e del monopolio; la società, dell’ipocrisia fiscale e parlamentare. In questa situazione, perché l’equilibrio, tale quale lo si suppone, possa stabilirsi, converrebbe che i grossi capitali appartenessero ai meno salariati; i capitali di second’ordine, agli operai di un grado superiore, e i capitali più piccoli, per conseguenza i più piccoli redditi, a quei lavoratori che godono dei più grossi salari. Ma tutto questo è contraddittorio, impossibile, assurdo. Coloro che guadagnano di più sono di necessità quelli che faranno i maggiori risparmi, e che, nella accommandita universale che si pretende creare, possiederanno il più gran numero di azioni. Cosa importa allora che ogni salariato, dal disgraziato attaccato a una ruota e che guadagna un franco e 25 centesimi al giorno, fino al capo dello Stato che prende 12 milioni di vitalizio, sia iscritto sulla lista dei creditori dello Stato, sul libro mastro della rendita?

All’iniquità del salario non avrete fatto che aggiungere l’iniquità del reddito; sarà come nel progetto di partecipazione di Blanqui (Cap. III), in cui gli associati che vi partecipano possono ricevere in sovrappiù del loro soldo, e a titolo di beneficio, una parte quotidiana di 18 centesimi. Conviene dunque ritornare all’osservazione generale che abbiamo fatta; perché il credito possa diventare un vero mezzo di equilibrio, è necessario che l’equilibrio sia precedentemente stabilito nella fabbrica, nel mercato, nello Stato; è necessario che il lavoro sia organizzato. Ora, questa organizzazione non esiste, anzi la si respinge; dunque non c’è niente da sperare dal credito.

Per mettere in piena luce questa contraddizione, esaminiamo qualche caso particolare del credito, soprattutto quelli che sono nati dalla carità piuttosto che dall’interesse. Come avremo occasione di notare, la carità è della famiglia del credito, è una delle forme del credito e, una volta uscita dalla sua mistica spontaneità per lasciarsi guidare dalla ragione, è sottomessa a tutte le leggi del credito.

Comincio dai presepi.

Lungi da me il pensiero di calunniare queste fondazioni veramente pie, poste sotto l’invocazione di Gesù bambino, che la città di Parigi deve allo zelo tanto attivo quanto dotto di uno dei più onorevoli cittadini, Morbeau. Il principio della miseria è esclusivamente sociale, è il delitto di tutti quanti. Ma le opere della carità sono personali e gratuite; e sarei imperdonabile se disconoscessi la virtù di tanti uomini la cui vita è dedicata a procurare l’emancipazione fisica e morale delle classi povere.

Mi si perdoni dunque l’analisi alla quale sono obbligato a discendere in questo libro, dove niente deve essere risparmiato, e non si giudichi la durezza del cuore dall’inflessibilità della ragione. I miei sentimenti, oso dirlo, sono sempre stati tali quali amici e nemici potevano desiderare che fossero; quanto ai miei scritti così oscuri come appaiono, non sono dopo tutto che l’espressione delle mie simpatie per tutto ciò che è uomo, e che viene dall’uomo.

Ecco ciò che ho letto in un piccolo stampato di quattro pagine, appeso in pubblico per la propaganda dei presepi:

“Presepio di bambini poveri, dell’età minore di due anni, le cui madri lavorano fuori del loro domicilio, e si comportano bene. Il presepio è aperto alle 5.30 del mattino, chiuso alle otto e mezza della sera. La madre vi porta il suo bambino con i panni necessari per la giornata; viene ad allattarlo alle ore dei pasti e lo riprende ogni sera. Il bambino slattato ha il suo piccolo paniere come il ragazzo dell’asilo. Bambinaie scritte fra le donne povere hanno cura dei bambini. Un medico visita il presepio tutti i giorni. La madre dà alle bambinaie 20 centesimi al giorno. Quella che ha due ragazzi nel presepio non paga per tutti e due che 30 centesimi”.

Seguono i nomi delle signore ispettrici e direttrici, nonché dei medici e membri dei comitati.

Confesso che la carità di tante donne, le più distinte per nascita, educazione e fortuna, che si fanno ospitaliere come le loro sorelle in Gesù Cristo, aspettando che una società migliore permetta loro di diventare collaboratrici e compagne, mi commuove e mi tocca; e metterei orrore a me stesso se sfuggisse dalla mia penna, parlando dei doveri che queste nobili signore compiono con tanto amore, e che niente loro impone, una sola parola da cui trasparisse l’ironia o lo sprezzo. Oh sante e coraggiose donne! i vostri cuori hanno avanzato i tempi, e noi miserabili pratici, falsi filosofi, falsi sapienti, siamo responsabili dell’inutilità dei vostri sforzi. Possiate un giorno ricevere la vostra ricompensa!

Ma possiate ignorare sempre ciò che una dialettica suscitata dall’inferno, in quanto è la società stessa che l’ha messa nel mio animo, mi obbligherà a dire di voi!

Perché, in un’opera di misericordia, fatta a vantaggio di bambini poveri dell’età minore di anni due, le cui madri sono obbligate di andare fuori di casa per guadagnarsi di che vivere, questa restrizione dolorosa, e si comportano bene?

Senza dubbio si è voluto incoraggiare il lavoro, aiutare l’economia, ricompensare la buona condotta, senza favorire il disordine. Ma chi dunque soffrirà dell’esclusione? Sarà la madre o il suo bambino? La cattiva condotta di questa madre non è essa stessa una calamità di cui il povero bambino ha bisogno d’essere risarcito, ancora più che dell’abbandono e della privazione?...

Ma la carità, se non vuole agire alla cieca e produrre alla fine più male che bene, deve, come il credito, scegliere i suoi soggetti; la carità non è essa stessa che una specie di collocamento, quando con diritto di riscatto come l’asilo e il presepio, quando a fondo perduto come l’ospedale; ma collocamento che in tutti i casi, diventa tanto più efficace, quanto le genti a cui s’indirizza sanno meglio farlo valere e, sia per se stessi, sia del pari che i loro discendenti, siano nel caso di riconoscere un giorno i loro obblighi. La carità, il cuore e la ragione ce lo dicono, è senza calore per gli incurabili, come il credito è senza capitali per il commerciante rovinato. Tutti i libri che si sono scritti sulla carità sono ripieni di questa massima, che la carità deve innanzi tutto mostrarsi intelligente, ciò che vuol dire, non impegnarsi senza ipoteche, sotto pena di lavorare in pura perdita, e degenerare in consumo improduttivo, in distruzione.

Così, la carità è mendace e avara come il credito, di cui è l’immagine! È strano che i moralisti non abbiano saputo dedurre dall’affinità di due cose in apparenza così opposte, ma perfettamente identiche, la carità e l’usura, questa conclusione fatale, che non era sfuggita all’antica teologia; cioè che la carità è veramente una virtù sovrumana, un principio antisociale, sovversivo e anarchico, una virtù nemica dell’uomo.

È strano, diciamo noi, che si trovino ancora degli scrittori di fama, come [Jules] Michelet, per predicare al mondo la rigenerazione tramite l’amore e l’onnipotenza del sacrificio.

Come! sapete praticare le opere di devozione, esercitare la carità, senza fare uso della ragione, cioè senza tradurre la carità e il sacrificio in un atto di semplice giustizia commutativa, in una operazione di credito; e quando vi parliamo d’organizzare questo stesso credito, di organizzare il lavoro, di creare la giustizia, di rendere la carità non solo intelligente ma intelligibile, gridate ora al mercantilismo, ora all’utopia! Ci accusate di tiepidezza, e ci rimproverate di sacrificare all’egoismo, perché vogliamo sottomettere tutto al calcolo, invece di scaldarci con l’amore e la fede! Preferite all’aritmetica una carità ipocrita, che non si può esimere dall’aritmetica senza diventare subito imbecille! Ma chi non sa che la carità, il sacrificio, l’abnegazione sono patrocinate solo perché amate l’ineguaglianza, perché sotto le vostre sembianze umili celate un intrattabile orgoglio, perché siete proprietario? Ebbene, cercate intanto di giustificarla, la vostra carità; difendetela.

Non è abbastanza per il presepio di esigere come garanzia la buona condotta della madre: bisogna che esso imponga a questa madre povera, e con molti figli, una contribuzione. – “La madre dà alle bambinaie 20 centesimi per ogni giorno di presenza del bambino; e se essa ha due bambini, 30 centesimi”. Contiamo intanto: 30 centesimi di presenza; 10 centesimi per i panni e il bucato; 10 centesimi di calzature, per tutti i viaggi che la madre dovrà fare al presepio; totale 50 centesimi da prelevare sopra una giornata di 90 centesimi o un franco. A ciò aggiungete che questa madre trascura il suo governo domestico, che non fa più niente per il marito e per se stessa, e troverete che il vantaggio dei presepi per le donne povere è zero.

Può essere altrimenti? No, perché se il baliaggio, il bucato e le altre cure usate al bambino fossero gratuite, se le madri non avessero da dare che il loro latte, il presepio diventerebbe presto il pretesto e l’oggetto di una considerevole imposta, una vera tassa dei poveri, e si sarebbe dato così un incoraggiamento alla maternità legittima e illegittima, all’accrescimento della popolazione, questa sfinge della società moderna. La carità deve dunque fare qui due cose, e due cose incompatibili: avere cura dei ragazzi dei poveri, e non incoraggiare i poveri a fare dei figli. È precisamente il problema di Malthus: aumentare senza posa le sussistenze, senza che le sussistenze aumentino la popolazione. Apostoli della carità! siete assurdi come gli economisti.

E notate questo contrasto. La madre il cui fanciullo è ammesso al presepio, perché essa si comporta bene, e lavora, questa madre a cui si ha la pretesa di fare l’elemosina, ne fa essa stessa una molto più grande alle sue protettrici, quando dà loro la sua giornata di venti soldi. Leggo nei giornali i ragguagli delle lotterie fatte per i poveri, lotterie i cui biglietti si compongono generalmente di bei lavori usciti dalle mani di dame di carità. Questo vuol dire come una dama del gran mondo, cristiana e caritatevole, che ha compreso che la missione del ricco sta nel riparare gli oltraggi della fortuna verso il povero, e che gode dieci mila franchi di reddito, frutto del lavoro e della spoliazione dei poveri, rende loro all’incirca il cinque o dieci per cento di quel che loro deve e fruisce per sovrappiù dei meriti del sacrificio. È chiaro che la vostra carità non è che ipocrisia e usura. Eh! ciascuno a casa sua, ciascuno per sé, se siete contenti; le vostre cercatrici di poveri sono cortigiane, con le quali seducete il popolo e divorate il suo patrimonio. [Dopo la relazione dell’8 marzo 1846, centonovantuno ragazzi erano stati ammessi nei presepi, ciò che, aggiungendovi 14 bambinaie, arriva a duecentocinque famiglie soccorse. Ogni famiglia soccorsa è costata alla carità, cioè alla contribuzione supplementare, pagata dalle fondatrici, all’incirca 20 centesimi di presenza che ogni madre deve pagare, 3 franchi e 50 centesimi al mese. Supponendo cento il numero delle persone caritatevoli che prendono parte ai presepi, il sacrificio è stato per ciascuna di 7 franchi, 47 cent, e 5 mill.].

Che le grandi dame lavorino per sé e i poveri per sé, che si sappia una volta per tutte che la giustizia vale di più, per la felicità del mondo, della devozione!

Chi ci libererà dalla carità, da questa mistificazione, con la quale non si cessa di abusare dell’ingenuità del proletario, da questa cospirazione permanente contro il lavoro e la libertà? Sorvolo le sale di ricovero, gli scaldatoi pubblici, la scuola gratuita (gratuita come il tirocinio), e arrivo al monte di pietà. Qui dovrei protestare di nuovo il mio rispetto profondo per gli uomini che hanno avuto il pensiero di questa fondazione utile, ma perché non mi si accusi di misantropia sistematica, e sia ben dimostrato che ciò che accuso, sono le idee, le teorie e le istituzioni nate da queste idee e da queste teorie, inizio, in ciò che concerne il monte di pietà, dall’ipotesi più favorevole, quella in cui il denaro del popolo, il denaro depositato nelle casse di risparmio, fosse solo ammesso nei monti di pietà per fare credito al popolo. Suppongo dunque che l’interesse dei capitali impegnati nei monti di pietà sia di 3 franchi e 50 centesimi, lo stesso che quello pagato ai depositanti delle casse di risparmio:

– Interesse dei capitali impegnati, 3,50

– Spese d’ufficio, commessi, magazzini, ecc., 0,50

– Valore degli oggetti abbandonati, 33%. – Ammettendo che sulla totalità dei depositi, il decimo solamente sia abbandonato e venduto, sia dallo stabilimento, sia dal depositante stesso a mercanti di polizze, al 16%, sotto il valore reale: questa perdita, ripartita su dieci depositi dà 1,60

– Totale 5,60.

Morale: con la teoria del credito, il lavoratore che presta al 3,50% riceve in prestito al 5,60%, differenza 2,10%, che costituisce la perdita sull’interesse. Vi sono dei monti di pietà che prestano al 12%, sotto pretesto che il loro prodotto è adoperato in opere pie, nel mantenimento degli ospedali, ecc. Questo è esattamente come togliere venti once di sangue a un uomo, e offrirgli in compenso un bicchiere di acqua zuccherata.

Si è giunti fino a dire che è necessario che l’interesse dei monti di pietà sia alto, perché il popolo non sia incoraggiato a portarvi le sue masserizie; altra assurdità ipocrita. Perché allora non sopprimere affatto i monti di pietà? O piuttosto, perché non scrivere sulla porta di questi santi stabilimenti: qui si assassina per l’amore di Dio e il bene dell’umanità?

Ma l’istituzione che ai nostri giorni ha riunito il più gran numero di suffragi e che, lo dico sinceramente, li merita sotto tutti i rapporti, è la cassa di risparmio. Gli spiriti stizzosi, a cui costa troppo confessare che il Governo ha fatto una cosa utile, hanno diffuso le obiezioni più sciocche, hanno detto che il risparmio conduce all’avarizia, che turba la pace delle famiglie, per la facilità concui una donna può trovare di fare economie più del marito; hanno domandato come è possibile risparmiare a chi non guadagna neanche di che vivere; e mille altre chiacchiere che, pur non mancando di qualche apparenza di ragione, non intaccano il principio in se stesso, e non hanno servito che a mostrare la cattiva coscienza dei loro autori:

“Al 31 dicembre 1843, la cifra del saldo dovuto dalla cassa dei depositi e prestiti alle casse di risparmio delle principali città manifatturiere del reame era:


San Quintino L. 1.255.000

Sedan L. 800.000

Troyes L. 1.881.000

Louviers L. 680.000

Nimes L. 1.675.000

Saint-Etienne L. 2.606.000

Rive de Gier L. 130.000

Reims L. 1.813.000

Lille L. 4.412.000

Mulhouse L. 1.081.000

Lione L. 7.589.000

Rouen L. 6.158.000

Amiens L. 4.784.000

Abbeville L. 1.386.000

Limoges L. 467.000

15 città: totale: L. 36.217.000


“Ecco – aggiunge Fix, da cui tolgo questo prospetto – dei punti scelti su tutto il territorio, che rappresentano le nostre principali industrie in tutte le loro ramificazioni. Consultando i totali di queste differenti casse di risparmio si trova che tutte le categorie d’operai hanno partecipato ai depositi; ciò che prova che nessuna classe di lavoratori è specialmente colpita dalla miseria e privata della facoltà di fare economie. I particolari che contengono le relazioni delle casse di risparmio, confermano pienamente quest’asserzione. Ci sono fra i depositanti non solo operai di diverse professioni, ma tutte le gradazioni dello Stato civile; vi sono uomini e donne di tutte le età, minorenni, celibi, sposati, ecc.”. In presenza di questi risultati, Fix domanda: “Questa non è una testimonianza dell’efficacia delle nostre istituzioni del nostro sistema economico per realizzare il progresso?”.

Ed ha la buona fede di rispondere: “Questi fatti, per consolanti che siano, sono tuttavia lungi dal condurci alla conclusione, che la situazione delle classi operaie è soddisfacente, che la condizione dei lavoratori è felice, che non si devono realizzare dei miglioramenti. Dio ci guardi da simili affermazioni! Vi sono in questo mondo più miserie che non possono guarirsi con una carità senza limiti, con le meditazioni di tutti gli spiriti superiori, e con i mezzi pratici che risulterebbero da questo duplice sforzo. Le sofferenze sono purtroppo reali: mai spariranno...”.

Ma infine, se l’economia politica è efficace per realizzare il progresso della ricchezza, come Fix pretende, perché è impotente a fare sparire la miseria? e come si spiega questa evidente contraddizione?

Soggiunge Fix, un po’ più oltre, che la fortuna sulla terra si accorderebbe male col nostro destino futuro; ciò vuol dire che l’economia politica è un enigma per gli economisti, e Fix non l’ha risolto.

Oso sperare che il lettore sia andato più in là di questo. Tutte le categorie d’operai, come ha molto giudiziosamente osservato Fix, partecipano ai depositi delle casse di risparmio, e fra i depositanti si trovano individui di ogni sesso, età, condizione. Questo prova che tutte le condizioni sono uguali come strumenti di ricchezza, e che a ogni età, in ogni momento della sua vita sociale, l’uomo può essere produttore, e diventare l’artefice del suo benessere. Così si dimostra di nuovo, alla cassa di risparmio, l’equivalenza delle funzioni e l’anomalia della miseria; tale è il nostro primo punto.

Ma, in ogni categoria industriale, la divisione del lavoro, le macchine, l’organizzazione gerarchica, i benefici del monopolio, l’iniqua ripartizione dell’imposta, la menzogna del credito, fanno innumerevoli vittime, e rendono inutili per la moltitudine gli sforzi dell’industria umana, la previdenza del legislatore e tutte le combinazioni della giustizia e dell’equità. Ora, mancando l’equilibrio nella produzione, è necessario che manchi pure nella ripartizione; e senza inquietarci della contrarietà che potrebbe esistere, per la realizzazione della felicità, fra il destino presente e il destino futuro, è per lo meno certo che il destino presente non è d’accordo con se stesso, e che questa discordanza viene dall’economia politica.

Che le relazioni delle casse di risparmio forniscano la prova del benessere dei depositanti, l’ammettiamo volentieri; ma se queste stesse relazioni fornissero nello stesso tempo la prova del malessere dei non depositanti, che c’è da provare in favore dell’economia politica?... Sopra 400 mila operai e servi che contiene Parigi, 124 mila solamente sono iscritti alle casse di risparmio; il resto manca. Quale uso fanno dunque questi del loro salario? Due esempi vengono ad insegnarcelo.

A Parigi, un certo numero d’operai stampatori guadagna da 5 fino a 10 franchi al giorno e lavora tutto l’anno; la gran maggioranza non percepisce 3 franchi e gode di due mesi di riposo. A Lione, taluni operai della seta avendo a casa diversi telai, possono farsi, col loro lavoro personale e con quello degli operai che occupano fino a 5 o 6 franchi di reddito. La maggioranza non passa, in media, gli uomini 2 franchu e le donne 1. Mi fermo a queste due professioni. Mi si dica quale può essere a Parigi l’esistenza di un adulto che guadagna meno di 3 franchi al giorno, e a Lione quella di un operaio che ha un salario variabile da 1 a 2 franchi? Ci si meraviglia perché questa gente non fa economie, tanto più che costoro non figurano sulle liste dei poveri; ma, a dire il vero, questi uomini sono più da compiangere di quelli che, avendo risolutamente saltato il fosso, ricevono l’obolo dalla carità ufficiale.

Qui è il caso, direte, di raddoppiare di attività, di economia, d’intelligenza; qui è il caso di approfittare delle casse di risparmio e di altre istituzioni di previdenza precisamente per gli operai meno pagati. La cassa di risparmio è la banca di deposito del povero, e certo fu una fortunata idea quella di fare esordire il povero nella carriera del benessere, come hanno fatto tutte le banche.

Così la cassa di risparmio non è che una dichiarazione ufficiale, una specie di censimento della povertà, e si vuole che serva di mezzo curativo alla povertà! La cassa di risparmio è senza fondi per coloro che non hanno niente da darle, ed è precisamente per costoro che è fatta! Non mi stupisco più che dei moralisti abbiano il coraggio d’esigere dal proletario l’intelligenza, l’attività e tutte le virtù morali, dopo avere essi stessi lavorato quarant’anni a diventare così bestie! Passiamo oltre.

Gli effetti sovversivi della cassa di risparmio sono di due tipi: relativamente alla società e relativamente agli individui. In ciò che riguarda la società, la cassa di risparmio, riposando sopra la finzione della produttività del lavoro, è la dimostrazione più chiara degli effetti disastrosi di questa finzione. Quando i depositi di tutte le casse di risparmio ammonteranno a un miliardo, questa farà, al 3,50%, 35 milioni d’imposta da aggiungere al bilancio e da ripartire fra i contribuenti. Ora, chi pagherà quest’imposta?

La nazione, cioè la classe più povera, quella che non ha niente alla cassa di risparmio, per la più gran parte; la classe economa a cui l’interesse sarà dovuto, per una parte minore, e la classe ricca per una parte minima. Così, la cassa di risparmio ha per punto di partenza una spoliazione, poiché senza questa spoliazione la cassa di risparmio non esiste. E poi si dice agli spogliati: Mettete alla cassa di risparmio! Perché non mettete alla cassa di risparmio?...

Supponiamo che lo Stato, fedele alle tradizioni della banca di deposito, conservi senza toccarli i fondi confidati alla sua custodia. Al termine di vent’anni dovrà, con l’interesse composto, due miliardi invece di uno, Alla fine, il fallimento, fallimento inevitabile per la metà delle somme date, senza alcun vantaggio per lo Stato. In questa ipotesi, la garanzia essendo distrutta, l’istituzione è impossibile.

Ma è evidente che lo Stato non si metterebbe in condizioni così sfavorevoli. Dovrà dunque, per non aggravarsi, applicare ai servizi pubblici le economie del popolo, ciò che cambia la cassa di risparmio in un prestito sempre aperto, avente un movimento continuo d’entrata e d’uscita, ma integralmente non rimborsabile. Dopo l’istituzione delle casse di risparmio, la buona gente ha manifestato a più riprese il timore che il Governo in un giorno di panico, si trovi nell’impossibilità di rispondere all’affluenza dei depositanti che verrebbero a ridomandare i loro fondi. Uno scrittore di opuscoli ne ha fatto pure un testo di critica contro il Governo. Come se lo scopo del Governo non debba precisamente mettersi fuori dall’obbligo del rimborso! Come se il mancato rimborso non fosse insieme una necessità dell’istituzione e una delle più preziose garanzie dell’ordine di cose! Questo è ciò che il “Journal des Débats” (30 dicembre 1845), in un articolo dovuto, credo, a Chevalier, ha benissimo compreso e formalmente riconosciuto. L’ammontare dei depositi, avendo una volta raggiunto la sua cifra massima, che ho supposto di un miliardo, il Governo avrà per tale fatto, e senza il concorso delle Camere, ricevuto in prestito e dispensato un miliardo, di cui è sicuro che i rappresentanti della nazione non rifiuteranno mai di votare l’interesse. È una cosa che fa pietà vedere la stampa gettare alte grida per una conversione di rendita che le si rifiuta e che non darebbe 4 milioni di economia, mentre non si avvede di questo miliardo che, senza voto, senza controllo, corre a vaporizzarsi nell’officina del potere, salvo l’interesse di 60 o 70 milioni che resterà.

Dalla parte dei depositanti, la cassa di risparmio è un agente di miseria non meno energico, non meno sicuro, poiché, ben lungi dal ridurre a nulla il malessere, non fa che ripartirlo, e per questa ripartizione lo aumenta. È una malattia infiammatoria e locale che si trova cambiata in un languore universale e cronico.

Si dice al povero: soffri di più, astieniti, digiuna, diventa più povero ancora, più bisognoso, più indigente; non sposarti, non amare, affinché il padrone dorma tranquillo sulla tua rassegnazione, e l’ultimo giorno l’ospedale sia esente dall’obbligo di prenderti.

Ma chi mi garantisce che raccoglierò il frutto di questa lunga privazione? A misura che la vita passa, la probabilità di vivere diminuisce ed è per scongiurare una eventualità sempre meno sicura che si esige da me il sacrificio del bene presente, del bene reale? La vita non si ricomincia, e il mio risparmio non può divenire la preparazione di un’altra carriera. Il saggio, il filosofo pratico, preferisce un godimento ogni settimana a mille scudi ammassati in quarant’anni di una solitaria avarizia. Tanto più che con questo regime si è quasi certo di non ammassare che per i propri eredi.

Voi dite, il godimento è passeggero; questa pienezza della vita, che fa la felicità e la salute, non si sente che a rari intervalli e durante momenti molto brevi; la felicità non è di questo mondo.

Profondi moralisti sostengono, al contrario, che la vita è precisamente in questi istanti rapidi in cui l’anima e i sensi sono al termine dei desideri e della voluttà, e che colui che ha conosciuto quest’ebbrezza dell’esistenza una sola volta, per un minuto, ha vissuto. Sarà per farmi vegetare che voi mi proibite di vivere? E se non ci fosse un’altra vita?... Insomma:

Il fine filantropico e conosciuto della cassa di risparmio, è di preparare all’operaio una garanzia contro gli accidenti che lo minacciano, dissesti, malattie, mancanza di lavoro, riduzione di salario, ecc. Sotto questo rapporto la cassa di risparmio dimostra una lodevole previdenza e un buon sentimento; ma essa è la confessione pubblica e quasi la sanzione dell’arbitrio mercantile, dell’oppressione capitalistica e della mancanza di solidarietà generale, cause vere della miseria dell’operaio.

Il fine economico e segreto, della cassa di risparmio, è di prevenire, per mezzo di una riserva, le sollevazioni per le sussistenze, le coalizioni e gli scioperi, ripartendo su tutta la vita dell’operaio la sfortuna che, da un giorno all’altro, può colpirlo e ridurlo alla disperazione. Sotto questo punto di vista la cassa di risparmio è un progresso, in questo, insegna a trionfare della natura e dell’imprevisto; ma essa è pure la morte, la decadenza estetica del lavoratore. Si è molto parlato in questi ultimi tempi di rendere le casse di risparmio e di quiescenza obbligatorie per gli operai a cui verrebbe fatta a quest’oggetto una trattenuta sul salario. Venga una simile legge e, pur togliendo le miserie repentine, gli estremi impoverimenti, si sarà fatto dell’inferiorità della casta lavoratrice una necessità sociale, una legge costitutiva dello Stato.

Infine, lo scopo politico e dinastico della cassa di risparmio è d’incatenare col credito che le si domanda la popolazione all’ordine attuale di cose. Nuovo passo verso la stabilità, l’eguaglianza civile e la subordinazione del potere all’industria, ma nello stesso tempo eccitazione all’egoismo e illusione di credito, poiché invece di procurare a tutti un possesso effettivo e sociale dei prodotti del lavoro e della natura, non fa che sviluppare l’istinto di accumulazione senza offrire garanzie.

Ora, se la cassa di risparmio non tocca le cause dell’ineguaglianza, se non fa che cambiare il carattere della povertà, rendendole in estensione ciò che le toglie in intensità, se la separazione del patriziato e del proletariato diventa più profonda; se essa è una consacrazione del monopolio i cui effetti l’hanno fatto nascere mentre dovrebbe abolirlo, si può dire ancora che la cassa di risparmio è l’arca di salvezza delle classi lavoratrici e che un grande rinnovamento deve uscirne un giorno?

Alle casse di risparmio tengono dietro le casse di quiescenza, le società di mutuo soccorso, di assicurazione sulla vita, le tontine [una forma di microcredito], ecc., tutte combinazioni il cui principio si riduce a ripartire i cattivi eventi sia sull’intera vita degli individui, sia sopra un certo numero di associati, ma senza mai togliere il male dalla radice, senza elevarsi all’idea di una reciprocità, neanche di una semplice riparazione.

Secondo il progetto di O. Rodrigue sulle casse di quiescenza, ogni operaio sarebbe ammesso a fare dei versamenti alla cassa dopo ventuno e fino ai quarantacinque anni, e la pensione potrebbe cominciare ad essere presa dopo cinquantacinque o sessantacinque anni.

Il minimo di questa pensione sarebbe di 60 franchi.

Ora, su mille individui presi all’età di ventuno anni, più della metà muoiono prima del cinquantacinquesimo anno; dunque, per risparmiare una vecchiaia sfortunata a 500 persone, si fa pagare una indennità a 500 altre che nell’ordine della Provvidenza non avevano niente a temere Invece di 500 poveri se ne avranno 1000; tale è la legge di tutte queste lotterie. Lamartine sentiva questa contraddizione quando si lagnava che si facesse l’elemosina ai poveri col denaro dei poveri, e perciò domandava che i fondi di quiescenza fossero presi sul bilancio. Sfortunatamente il rimedio sarebbe stato peggiore del male: una tassa dei poveri! Per la salute del popolo e il bene degli indigenti non la si doveva volere, non la si è voluta.

L’assicurazione sulla vita è un’altra specie d’istituzione nella quale l’imprenditore, mediante un premio che gli è pagato prima, promette di pagare, il giorno della morte dell’assicurato, una certa somma ai suoi eredi.

Questo è il rovescio della rendita a fondo perduto.

Siccome è per il grande numero degli assicurati che queste imprese possono sostenersi, ne risulta che nell’assicurazione sulla vita quelli che vivono lungamente sono pagati da quelli che muoiono presto. Sempre la ripartizione del male presentata come garanzia contro il male; sempre il rapporto di estensione sostituito, in tutta segretezza, al rapporto di intensità. Lascio da parte i pericoli di fallimento degli assicuratori, il processo che conviene sostenere per essere pagati, il rischio di perdere dei lunghi anni di sacrifici se, per una disgrazia qualunque, ci si trovi nell’impossibilità di continuare a pagare il premio.

Quali che siano dunque i vantaggi affatto personali che certi individui, necessariamente in piccolo numero, traggono dalle istituzioni di soccorso e di previdenza, l’impotenza di queste istituzioni contro la miseria è matematicamente dimostrata. Tutte operano come i giochi di azzardo, fanno sopportare alla massa il beneficio che procurano a qualcuno; di modo che, se, come indica la ragione e come richiede l’universalità del male, le società di soccorso dovessero realmente soccorrere tutti quelli che ne hanno bisogno, non soccorrerebbero nessuno, si scioglierebbero. Con l’eguaglianza sparirebbe la mutualità. Dunque è un fatto d’esperienza che le società di mutuo soccorso non si sostengono che soltanto quando si rivolgono a operai di una certa agiatezza; e che cadono, o piuttosto diventano impossibili, non appena si parla di ammettervi quelli cui esse servirebbero di più, i poveri.

La cassa di risparmio, il mutuo [soccorso], l’assicurazione sulla vita, cose eccellenti per chi, godendo di già di una certa agiatezza, desidera aggiungervi delle garanzie, sono affatto infruttuose, se non addirittura inaccessibili, alla classe povera.

La sicurezza è una merce che si paga come ogni altra; e siccome la tariffa di questa merce ribassa, non secondo la miseria del compratore, ma secondo l’importanza della somma che assicura, l’assicurazione si risolve in un nuovo privilegio per il ricco e in una crudele ironia per il povero.

Terminiamo questo argomento con un esempio che, preso in un’altra sfera d’operazioni, metterà meglio in rilievo ciò che il credito tende a produrre ed è nell’impotenza assoluta di realizzare, sia con l’intervento dello Stato, sia con l’azione del monopolio.

Ho spiegato, nel Cap. VI, l’origine e la teoria del rendimento dei capitali, cioè del prestito a interesse. Ho detto come questa teoria, vera fino a che si tratti di transazioni fra singoli, e l’interesse si limiti a ricostituire il capitale aumentato solo di un premio leggero, diventa falsa applicata alla società, e con la perpetuità dell’interesse. La ragione di questo, ho poi aggiunto, è che il prodotto netto è calcolato più del prodotto lordo, ciò che nella società è contraddittorio, impossibile.

Ora, il credito non è altro che il tentativo di eguagliare le condizioni applicando alla società il principio del sovrappiù del prodotto netto sopra il prodotto lordo e della perpetuità dell’interesse.

Supponiamo che lo Stato intraprenda un canale la cui costruzione, dopo finito il lavoro, costerà 30 milioni. È chiaro che se il Governo, dopo avere preso questi 30 milioni sul bilancio, stabilisce la tariffa dei diritti di navigazione in modo da fare rendere al canale l’interesse della somma che costa, ciò sarà come se facesse pagare due volte il canale ai contribuenti. L’uso del canale, salvo le spese di manutenzione, deve dunque essere gratuito; tale è il principio economico delle spese dello Stato.

Nella pratica le cose non si fanno così. Primo, è raro che lo Stato possieda i capitali di cui ha bisogno, e siccome è impossibile procurarseli in un sol colpo con l’imposta, soprattutto perché le spese per opere di utilità pubblica si sono accresciute in proporzioni così vaste, si è trovato più comodo e meno oneroso domandarli a prestito. Col prestito i contribuenti, invece di fornire 30 milioni, non ne pagheranno che l’interesse, che, per la sua piccolezza, parrà dileguarsi nel bilancio. Ma siccome il prestito sarà stato contratto ai termini della legge del monopolio e secondo la giurisprudenza dell’usura; siccome, in una parola, il capitale dovrà ricostituirsi con beneficio per i prestatori, accadrà che sarà convertito in rendita perpetua, ciò che vuol dire che il canale, sempre pagato, sarà sempre dovuto; oppure, che l’interesse sarà dovuto solamente per quaranta, cinquanta o novantanove anni, con premio sul godimento, cioè in un tempo determinato il prezzo del canale sarà stato erogato due, tre o quattro volte. D’ordinario quelli che prestano si ritengono anticipatamente il premio di assicurazione, facendosi sottoscrivere dallo Stato un’obbligazione di 100 mentre non danno che 80, 70 o 60, come gli usurai che prestano con l’interesse nascosto, a causa del procuratore del re.

Ne segue che uno Stato che prende a prestito non può più sdebitarsi, poiché per rimborsare il suo debito sarebbe obbligato o di imporre una contribuzione, ciò che è impraticabile, o di fare un nuovo prestito, che essendo compiuto nello stesso modo del precedente e dovendo rendere in totalità ciò che non è stato ricevuto che in parte, non farà che aumentare il debito. Tutti quanti ormai sanno questo, i prestatori soprattutto.

Da dove viene dunque che lo Stato che s’indebita senza posa, trova sempre prestiti? Ciò avviene precisamente perché, a misura che s’indebita, è obbligato a offrire condizioni migliori; in modo che, relativamente allo Stato, è proprio, in un certo senso, il credito aumenta a misura che la solvibilità diminuisce.

Ecco la spiegazione di questo fenomeno.

Suppongo che nel 1815, essendo il debito della Francia di un miliardo, lo Stato facesse i suoi prestiti al 90%; nel 1830 il debito essendosi elevato a due miliardi, lo Stato poteva ancora trovare dei prestatori, ma solo all’80%.

Per questo sistema non c’è fine al credito dello Stato, se non quando la rendita assorbe la totalità del prodotto nazionale; ma allora lo Stato, liberandosi con la bancarotta da un prestito divenuto fittizio, tutti quanti si trovano pagati, e il credito dello Stato è più fiorente di prima. In Inghilterra l’interesse del debito pubblico passa i 700 milioni, circa un sesto dei proventi. Che una serie di avvenimenti come quella dal 1789 al 1815 venga a raddoppiare il debito dell’Inghilterra, e ogni famiglia inglese dovrà pagare tutti gli anni, per il rimborso della rendita, quattro mesi del suo lavoro; cosa impossibile, senza dubbio, ma la più fortunata che possa accadere all’Inghilterra.

Per un momento si è creduto di trovare il mezzo di liberare lo Stato con l’ammortamento o il riscatto. Tutto è stato detto sopra questa invenzione, io non la rammento qui che per memoria.

L’ammortamento è un gioco a nascondersi, nel quale lo Stato, speculando nello stesso tempo sul proprio credito e sul proprio discredito, raccoglie le rendite che ha sottoscritte quando queste discendono al disotto del pari, a mezzo dei capitali che si procura a basso prezzo. In questa manovra di riscatto, da una parte lo Stato è interessato a giocare al ribasso, per conseguenza a discreditare se stesso; dall’altra ha bisogno, per procurarsi nuovi prestiti a rilevare il suo credito, di giocare al rialzo, e per conseguenza di mettersi nell’impossibilità di riscattare. Questa puerilità che si è per qualche tempo molto vantata, può fra mille altre servire a dare la misura delle gravi occupazioni di un uomo di Stato.

Ora, ciò che ha luogo per lo Stato, ha luogo egualmente per la società. La società è divisa dal credito in due caste, una che senza posa dà credito, l’altra che lo riceve.

Ma, mentre nello Stato l’operazione è una e centralizzata, nella società il credito si divide all’infinito fra milioni di capitalisti e gente che prende a prestito. Del resto, il risultato è sempre lo stesso. Nove fallimenti dello Stato in tre secoli, cento fallimenti registrati ogni mese al tribunale di commercio della Senna; si può, dopo queste cifre autentiche, farsi una idea dell’azione del credito sopra l’economia dei popoli.

Fallimento perpetuo, bancarotta intermittente, ecco dunque nella società e nello Stato l’ultima parola del credito. Non cercate altra uscita, la scienza finanziaria, immaginando i piani di ammortamento, ha rivelato la propria contraddizione. È d’ora innanzi accertato che la vita nell’umanità obbedisce ad altre leggi che alle categorie economiche, poiché, se fosse vero per esempio, che l’umanità visse e si sviluppò in grazia del credito, l’umanità dovrebbe perire, nello Stato ogni trent’anni, e nella società continuamente.

Ma la vita nell’umanità non può cessare; la ricchezza e il benessere, la libertà e l’intelligenza sono in continuo progresso; se il credito reale ci condanna incessantemente a morire, il credito personale, che ritorna sempre in seguito a ciascuna sconfitta, ci porta avanti con vittorioso sforzo, e l’opera della civiltà, sempre in procinto di disciogliersi se noi prestiamo fede alle formule, sempre ripresa sotto una legge di morte, si prosegue malgrado la scienza, malgrado la ragione, malgrado la necessità, per un incomprensibile miracolo.

XI. Ottava epoca. La proprietà

1. – La proprietà è inesplicabile fuori della serie economica. Dell’organizzazione del senso comune, o problema della certezza

Il problema della proprietà è, dopo quello del destino umano, il più grande che possa proporsi la ragione, l’ultimo che essa perverrà a risolvere. In effetti, il problema teologico, l’enigma della religione, è spiegato; il problema filosofico, che ha per oggetto il valore e la legittimità della conoscenza, è risolto; resta il problema sociale che è unito a questi due, e la cui soluzione, per confessione di tutti, è connessa essenzialmente alla proprietà.

Esporrò in questo capitolo la teoria della proprietà in sé, cioè nella sua origine, spirito, tendenza e rapporti con le altre categorie economiche. Quanto a determinare la proprietà per sé, cioè in ciò che deve essere dopo la soluzione integrale delle contraddizioni, e quale diventa tutti i giorni, è, come ho detto, l’ultima fase della costituzione sociale, l’oggetto di un lavoro nuovo di cui questo qui ha per scopo di fare intravedere il disegno e di posare le basi.

Per ben capire la teoria della proprietà in sé, è necessario prendere le cose più in alto e presentare sotto un nuovo aspetto l’identità essenziale della filosofia e dell’economia politica.

Nel modo stesso che l’incivilimento, sotto il punto di vista dell’industria, ha per scopo di costituire il valore dei prodotti e d’organizzare il lavoro, e che la società non è altra cosa che questa costituzione e questa organizzazione: così l’oggetto della filosofia è di fondare il giudizio determinando il valore della conoscenza e organizzando il senso comune, e ciò che si chiama logica non è altro che questa determinazione e questa organizzazione.

La logica, la società, è sempre la ragione; tale è dunque quaggiù il destino della nostra specie, considerata nelle sue facoltà generatrici, l’attività e l’intelligenza. Così l’umanità, nelle sue manifestazioni successive, è una logica vivente; questo è quello che ci ha fatto dire al principio di quest’opera, che ogni fatto economico è l’espressione di una legge dello spirito, e che, come non c’è niente nell’intelletto che non sia stato prima nell’esperienza, così non c’è niente nella pratica sociale che non provenga da un’astrazione della ragione.

La società, come la logica, ha dunque per legge primordiale l’accordo della ragione e dell’esperienza. Mettere d’accordo la ragione e l’esperienza, marciare all’unisono della teoria e della pratica, ecco ciò che si propongono ugualmente l’economista e il filosofo, ecco il primo e l’ultimo comandamento imposto a ogni uomo che agisce e pensa. Condizione facile, senza dubbio, se non la si osserva in questa formula, in apparenza così semplice; sforzo prodigioso, sublime, se si considera tutto ciò che ha fatto l’uomo da principio, tanto per sottrarsi che per conformarsi.

Ma che intendiamo con questo accordo della ragione e dell’esperienza, cioè con questa organizzazione del senso comune, la quale poi non è altro che la logica?

Chiamo dapprima senso comune il giudizio in quanto esso si applica a cose di una evidenza intuitiva e immediata, la cui percezione non esige né deduzione, né ricerca. Il senso comune è più che l’istinto; questo non ha coscienza delle sue determinazioni, mentre il senso comune sa ciò che vuole e perché lo vuole. Il senso comune non è già la fede, il genio o l’abitudine, che non si giudicano né si conoscono, mentre il senso comune si conosce e si giudica, come esso conosce e giudica tutto ciò che lo circonda.

Il senso comune è uguale presso tutti gli uomini. E da esso che conseguono le idee al più alto grado d’evidenza e la più perfetta certezza; con esso non si sviluppa il dubbio filosofico. Il senso comune è nello stesso tempo ragione ed esperienza sinteticamente unite; ancora una volta, è il giudizio, ma senza dialettica né calcolo.

Ma il senso comune, per il fatto stesso che coglie solo le cose di una evidenza immediata, ripugna alle idee generali, all’incatenamento delle proposizioni, per conseguenza al metodo e alla scienza, talmente che, più un uomo si slancia nella speculazione, più sembra allontanarsi dal senso comune e per conseguenza dalla certezza.

Come dunque gli uomini, eguali nel senso comune, diventeranno anche uguali nella scienza che naturalmente loro ripugna?

Il senso comune non è suscettibile di aumento né di diminuzione, il giudizio considerato in se stesso non può cessare d’essere sempre lo stesso, sempre uguale a sé e identico.

Come mai, giova ripeterlo, è possibile, non solo mantenere l’uguaglianza delle capacità del senso comune, ma ancora elevare in esse la conoscenza al disopra del senso comune?

Questa difficoltà, così formidabile a primo aspetto, sparisce una volta che la si osserva da vicino. Organizzare la facoltà di giudizio, o il senso comune è, propriamente parlando, scoprire i processi generali per mezzo dei quali lo spirito va dal cognito all’incognito per un seguito di giudizi i quali tutti, presi isolatamente, sono di un’evidenza intuitiva e immediata, ma il cui insieme dà una formula che non si sarebbe ottenuta senza questa progressione, formula che, per conseguenza, oltrepassa la portata ordinaria del senso comune.

Così, l’intero sistema della nostra conoscenza riposa sul senso comune, ma si eleva indefinitamente al disopra del senso comune che, limitato al particolare e all’immediato, non può abbracciare il generale con un semplice sguardo, ed ha bisogno, per giungervi, di dividerlo, come un uomo che, misurando con un passo la larghezza di un solco, e ripetendo lo stesso movimento un certo numero di volte, fa il giro del globo. [La dialettica è propriamente il procedere dello spirito da una idea all’altra, attraverso una idea superiore, una serie].

Accordo della ragione e dell’esperienza, organizzazione del senso comune, scoperta dei processi generali dai quali il giudizio sempre identico si eleva alle contemplazioni più sublimi; tale è l’opera capitale dell’umanità, quella che ha fatto nascere la peripezia più vasta, più intricata e più drammatica che si sia compiuta sulla terra. Non c’è scienza, religione, società che abbia messo un così lungo tempo e impiegato tanta potenza per stabilirsi; a mala pena questo grande lavoro, cominciato da trenta secoli è pervenuto a definirsi.

Venti volumi basterebbero appena a raccontarne la storia; io vado, in qualche pagina, a rintracciarne le principali fasi. Questo riassunto ci è indispensabile per spiegare l’apparizione della proprietà.

L’organizzazione del senso comune suppone antecedentemente la soluzione di un altro problema, del problema della certezza, che si divide in due specie correlate: certezza del soggetto, certezza dell’oggetto. In altri termini, prima di cercare le leggi del pensiero, bisogna assicurarsi della realtà dell’essere pensante e dell’essere che è pensato, senza di che si corre il pericolo di ricercare le leggi del niente. Il primo momento di questa grande polemica è dunque quello in cui l’io procede alla conoscenza di se stesso, si palpa, per così dire, e cerca il punto di partenza dei suoi giudizi.

Chi sono io, si domanda, o piuttosto, sono qualche cosa? Sono sicuro che esisto?

Ecco la prima questione alla quale il senso comune doveva rispondere.

Ed è a ciò che esso ha effettivamente risposto con questo giudizio così ammirato: Io penso, dunque esisto.

Io penso, tanto basta. io non ho bisogno di saperne di più per essere certo della mia esistenza, poiché tutto ciò ch’io potrei apprendere a questo riguardo è che nessun essere è provato s’io non l’affermo, e che, per conseguenza, nulla senza di me esiste. L’io, tale è il punto di partenza del senso comune e la sua risposta alla prima questione di filosofia.

Così il senso comune, o piuttosto la natura ignota, impenetrabile, che pensa e parla, l’io infine non si prova, si stabilisce. Il suo primo giudizio è un atto di fede in se stesso; la realtà del pensiero è dichiarata come fatto principale, necessario, assioma infine, fuori del quale non si può ragionare. Ma, sia mancanza di giudizio, sia sottigliezza d’idee, certi pensatori trovarono quest’affermazione del senso comune di già troppo ardita. Essi avrebbero voluto che il senso comune mettesse in mostra i suoi titoli.

Chi ci garantisce, dicevano, che noi pensiamo, che noi esistiamo? Qual è l’autorità del senso intimo? Che cosa è mai, un’affermazione di cui tutto il valore viene dalla sua stessa spontaneità?...

Lunghe discussioni s’impegnarono a questo proposito.

Il senso comune vi mise fine con questa celebre sentenza: dato che il dubbio che cade sul dubbio stesso è assurdo, che l’investigazione che ha per oggetto la legittimità dell’investigazione è contraddittoria, che un tale scetticismo è antiscettico e si confuta da sé, che noi pensiamo e desideriamo di conoscere, che non si può disputare sopra questo fatto che abbraccia l’universo e l’eterno, per conseguenza, la sola cosa che resta da fare è di sapere dove il pensiero può condurre. Pirrone e la sua setta saranno riconosciuti dalla filosofia di una assurdità che tranquillizza l’io sopra la sua esistenza; la loro opinione essendo accusata, dai suoi propri termini, di contraddizione al senso comune, è scomunicata dal senso comune.

Malgrado l’energia di questi considerando, qualcuno pensò di dovere protestare ancora e chiedere la revisione. I veri scettici non sono quelli che dubitano della realtà del loro dubbio, un simile scetticismo è ridicolo; bensì quelli che dubitano della realtà del contenuto del dubbio, ed è necessario verificare se questo contenuto è reale, ciò che è molto differente...

È dunque come se voi diceste, – replicò il senso comune, per esempio, che non dubitate dell’esistenza delle religioni, poiché la religione è un fenomeno del pensiero, un accidente dell’io, ma solo della realtà dell’oggetto delle religioni, e a più forte ragione della possibilità di determinare quest’oggetto; – oppure ancora che non dubitate dell’oscillazione del valore, poiché questa oscillazione è un fenomeno del pensiero generale, un accidente dell’io collettivo, ma della realtà stessa dei valori e a più forte ragione della loro misura. Ma se, in rapporto all’uomo, la realtà delle cose non si distingue dalla legge delle cose, come, per esempio, la realtà dei valori, che non è e non può essere che la legge dei valori; e se la legge delle cose non è niente senza l’io, che la determina e la crea, come voi siete obbligati ad ammettere, la vostra distinzione della realtà del dubbio dalla realtà del contenuto del dubbio, come pure quell’a fortiori che viene in seguito, è assurda. L’universo e l’io diventano, per il pensiero, identici e adeguati; dunque, ancora una volta, nostro compito è di ricercare se, per rapporto a se stesso, l’io può indursi in errore; se nell’esercizio delle sue facoltà è soggetto a perturbazioni; quale la misura comune delle idee, e qual è il valore di questo concetto: non io, che prende l’io appena entra in azione e da cui è impossibile all’io di separarsi.

Così, a giudizio del senso comune, la teoria metafisica della certezza è analoga alla teoria economica del valore o, per meglio dire, queste due teorie non ne fanno che una sola; e gli scettici che, pure ammettendo la realtà del dubbio, negano intanto la realtà del contenuto del dubbio, e per conseguenza la possibilità di determinare questo contenuto, somigliano agli economisti che, affermando le oscillazioni del valore, negano la possibilità di determinare queste oscillazioni, e per conseguenza la realtà stessa del valore. Abbiamo fatto giustizia di questa contraddizione degli economisti, e vedremo subito che, come il valore si determina nella società con una serie di oscillazioni tra l’offerta e la domanda, così pure la verità si costituisce con una serie di fluttuazioni fra la ragione che afferma e l’esperienza che conferma, e che dal dubbio stesso si forma a poco a poco la certezza.

Ottenuta così e determinata la certezza del soggetto, restava dunque, prima di passare all’investigazione delle leggi della conoscenza, di determinare la certezza dell’oggetto, base di tutti i nostri rapporti con l’universo. Questa fu la seconda conquista del senso comune, il secondo momento del lavoro filosofico.

Noi non possiamo sentire, amare, ragionare, agire, esistere, fintantoché ce ne restiamo chiusi in noi stessi; bisogna che l’io lasci libero il varco alle sue facoltà, che spieghi il suo essere, che esca in qualche modo dalla sua nullità; che dopo essersi posato si opponga, cioè che si metta in rapporto con un non so che, che è o gli paia altra cosa che se stesso, in una parola, con un non-io.

Dio, l’essere infinito, che un po’ più tardi la nostra ragione, stabilita sopra la sua duplice base, supporrà invincibilmente, Dio, dico, poiché la sua essenza abbraccia tutto, non ha bisogno di uscire da se stesso per vivere e conoscersi. Il suo essere si spiega tutto intero in sé, il suo pensiero è introspettivo; in lui l’io non coglie il non-io che come io, perché tutti e due sono infiniti, l’infinito è necessariamente unico, e in Dio, per conseguenza, il tempo è identico all’eternità, il movimento identico al riposo, l’agire sinonimo di volere, l’amore senz’altro oggetto, senz’altra causa determinante che lui. Dio è l’egoismo perfetto, la solitudine assoluta, la concentrazione suprema. Sotto tutti i rapporti, Dio, natura diversa dall’uomo, esiste per se stesso e senza opposizione, o piuttosto produce dentro di sé il non-io, invece di cercarlo al di fuori; benché egli si distingua, è sempre io: la sua vita non s’appoggia su niente altro; dall’istante che si sa, vive, e tutto esiste, tutto è provato per lui: ego sum qui sum. Dio è veramente l’essere incomprensibile, ineffabile, e pertanto necessario; per quanto alla ragione ripugni, non è meno forzata a dirlo.

Ben altrimenti dell’uomo, dell’essere finito. Questi non esiste né per se stesso né in se stesso; abbisogna al suo individuo un ambiente nel quale la sua ragione rifletta, la sua vita si risvegli e la sua anima come i suoi organi attingano la propria sussistenza. Tale è per lo meno il modo con cui noi concepiamo lo sviluppo del nostro essere; questo punto è confessato da tutti quelli che non sono ostinati nella contraddizione dei pirronisti.

Si tratta dunque di riconoscere il senso di questo fenomeno e di determinare la qualità di questo non-io che la coscienza ci presenta come una realtà esteriore necessaria alla nostra esistenza, ma indipendente.

Ora, dicono gli scettici, ammettiamo che l’io non possa ragionevolmente dubitare d’esistere, con qual diritto affermerebbe una realtà esteriore, una realtà che non è, che gli resta impenetrabile e che qualifica non-io? Gli oggetti che vediamo fuori di noi sono veramente fuori di noi? E se realmente esistono, sono tali quali noi li vediamo? Ciò che i sensi ci riferiscono delle leggi della natura viene dalla natura, oppure non è altro che un prodotto della nostra attività pensante che ci mostra fuori di sé ciò che essa proietta dal suo proprio seno? L’esperienza aggiunge qualche cosa alla ragione, oppure non è altro che la ragione manifestata a se medesima? Qual mezzo, infine, c’è di verificare la realtà o la non realtà di questo non-io?...

Questa singolare domanda, che il senso comune da solo non avrebbe mai fatta, presentata dai più grandi geni che abbiano onorato la nostra razza e sviluppata con un’eloquenza, una sagacia, una varietà di forme meravigliose, ha dato luogo a una infinità di sistemi e di supposizioni che è molto difficile comprendere nei loro voluminosi autori, ma di cui ci si può formare un’idea riducendoli a qualche linea.

Alcuni dapprima hanno preteso che il non-io non esiste. Ciò era naturale, bisognava aspettarselo. Un non-io che si opponga all’io, è come un uomo che venga a turbare un altro nel suo possesso; il primo movimento di questi è di negare una tale vicinanza. Non c’è corpo, essi hanno detto, non natura, non apparizioni fuori dell’io, non altra essenza che l’io. Tutto si passa nello spirito; la materia è un’astrazione, e ciò che noi vediamo e affermiamo come frutto di una non sappiamo quale esperienza, è il prodotto della nostra pura attività che, determinandosi da se stessa, s’immagina di ricevere dal di fuori ciò che è nella sua essenza di creare. Per parlare più giustamente, di diventare, poiché, relativamente all’anima, essere, produrre e diventare, sono sinonimi.

Ma, osserva il senso comune, noi distinguiamo nella conoscenza, due modi: la deduzione e l’acquisizione. Per la prima lo spirito sembra creare in effetti tutto ciò che apprende; tali sono le matematiche. Per il secondo, al contrario, lo spirito, senza posa arrestato nel suo progresso scientifico, non avanza che con l’aiuto di un’eccitazione perpetua, la cui causa è pienamente involontaria e fuori della sovranità dell’io. Come dunque, nello spiritualismo, rendere ragione di questo fenomeno, che è impossibile non conoscere? Come mai, se tutta la scienza viene dall’io, non è essa spontanea, completa dall’origine, eguale in tutti gli individui, e nello stesso individuo in tutti i momenti dell’esistenza? Come infine spiegare l’errore e il progresso? In luogo di risolvere il problema, lo spiritualismo lo scarta: esso non conosce i fatti meglio accertati, più indubitabili, cioè le scoperte sperimentali dell’io; esso tortura la ragione ed è forzato, per sostenersi, a revocare in dubbio il suo proprio principio, negando la testimonianza negativa dello spirito. Lo spiritualismo è contraddittorio, inammissibile.

Altri allora si sono presentati, i quali hanno sostenuto che la materia sola esiste, e che lo spirito è un’astrazione.

Niente di vero, hanno detto: niente c’è di reale fuori della natura; non esiste altro se non ciò che possiamo contare, pesare, misurare, trasformare; i corpi e le loro infinite modificazioni. Noi stessi siamo corpi, corpi organizzati e viventi; quel che noi chiamiamo anima, spirito, coscienza o io, non è che un’entità che serve a rappresentare l’armonia di questo organismo.

È l’oggetto che, per il movimento inerente alla materia, genera il soggetto, il pensiero è una modificazione della materia; l’intelligenza, la volontà, la virtù, il progresso non sono che determinazioni di un certo ordine, attributi della materia, la cui essenza, del resto, ci è ignota.

Ma, replica il senso comune, si Satanas in se ipsum divisum est, quo-modo stabit? L’ipotesi materialista presenta una duplice impossibilità. Se l’io non è altra cosa che il risultato dell’organizzazione del non-io, se l’uomo è il punto culminante, il capo della natura; s’egli è la natura stessa elevata alla più alta potenza, come ha la facoltà di contraddire la natura, di tormentarla e di rifarla? Come spiegare quella reazione della natura su se stessa che produce l’industria, le scienze, le arti, tutto un mondo fuori di natura e che ha per unico fine di vincere la natura? Come ricondurre, infine, a modificazioni materiali ciò che, secondo la testimonianza dei nostri sensi alla quale solo i materialisti prestano fede, si produce al di fuori delle leggi della materia?

D’altra parte, se l’uomo non è che materia organizzata, il suo pensiero è il riflesso della natura; perché allora la materia e la natura si conoscono così male?

Da dove derivano la religione, la filosofia, il dubbio? Come! la materia è tutto, lo spirito nulla; e quando questa materia è giunta alla sua più alta manifestazione, alla sua evoluzione suprema; quand’essa si è fatta uomo, non si conosce più: perde la memoria di sé: si smarrisce e non procede che con l’aiuto dell’esperienza, come se non fosse la materia, cioè l’esperienza stessa!

Che cos’è dunque questa natura dimentica di se stessa che ha bisogno di apprendere a conoscersi non appena arriva alla pienezza del suo essere, che non diventa intelligente se non per ignorarsi, e perde la sua infallibilità nell’istante preciso in cui acquista la ragione?

Lo spiritualismo, negando i fatti, soccombe sotto la propria impotenza; i fatti schiacciano il materialismo con la loro testimonianza; più questi sistemi lavorano per stabilirsi, più mostrano la loro contraddizione.

Allora sono venuti, con un’aria devota e con un contegno raccolto, i mistici. – Lo spirito e la materia, il pensiero e l’estensione, hanno essi detto, esistono l’uno e l’altro. Ma non lo sappiamo da noi stessi; è Dio che, per sua rivelazione, ci attesta la loro realtà.

E siccome tutte le cose sono state create da Dio, e tutte esistono in Dio, è ancora in Dio. spirito infinito, da cui procede la nostra intelligenza, che la nostra intelligenza le può vedere. Così si spiega il passaggio dall’io al non-io, e i rapporti dello spirito e della materia diventano intelligibili.

Era in questione Dio per la prima volta: l’attenzione degli uditori raddoppiò.

Senza dubbio, dice il senso comune, lo spirito non potendo mettersi in comunicazione che con lo spirito, è in grado di farci vedere in Dio, che è spirito, le cose corporali che sono sue opere. Disgraziatamente questo sistema riposa sopra un circolo vizioso e una petizione di principio. Da una parte, prima di credere a Dio, noi abbiamo bisogno di credere a noi stessi; ora noi non sentiamo il nostro io; intanto siamo assicurati della nostra esistenza in quanto una relazione esteriore ce la fa sentire, cioè, in quanto ammettiamo un non-io, quel che è precisamente in questione.

Quanto alla rivelazione, essa è stata fatta, seguendo i suoi partigiani, per miracoli, per segni i cui strumenti sono presi nella natura. Ora, come mai giudicare del miracolo e credere alla rivelazione se non siamo antecedentemente assicurati dell’esistenza del mondo, della costanza delle sue leggi, della realtà dei suoi fenomeni?

Il misticismo ha dunque questo d’importante, che dopo avere riconosciuto la necessità del soggetto e dell’oggetto, cerca di spiegarli l’uno e l’altro nella loro origine. Ma questa origine, che sarebbe Dio, secondo i mistici, cioè un terzo termine intelligente come l’io e reale come il non-io, non lo si definisce, non lo si prova, non lo si spiega; tutto al contrario, separandolo dal mondo e dall’uomo, lo si rende inaccessibile all’intelligenza, e perciò non vero.

Il misticismo è una mistificazione.

La controversia era a tal punto. Deisti e increduli, spiritualisti e materialisti, scettici e mistici, non potevano mettersi d’accordo e il mondo non sapeva cosa credere. Tutti si guardavano senza dire niente allorché, con un’aria grave e spirito modesto, senza alcuna enfasi, un filosofo, il più scaltro e il più sottile, prese la parola.

Egli cominciò per riconoscere la realtà dell’io e del non-io come l’esistenza di Dio; ma pretese che fosse radicalmente impossibile all’io assicurarsi, per via di ragionamento o d’esperienza, di quel che è fuori di lui, e che tuttavia non può fare a meno di ammettere.

Sì, diceva, i corpi esistono, il modo con cui si forma in noi la coscienza lo prova. Ma questi corpi, questo non-io, non lo conosciamo in se stesso, e tutto ciò che l’esperienza ci reca a questo riguardo proviene unicamente dal nostro fondo. È vero e proprio frutto del nostro spirito, che sollecitato dalle sue percezioni esterne, applica alla cosa le proprie leggi, le proprie categorie, e poi s’immagina che questa forma che dà alla natura sia la forma della natura. Sì, ancora, dobbiamo credere all’esistenza di Dio, a un’essenza che serve di sanzione alla morale e di complemento alla vita. Ma questa credenza all’Essere Supremo non è altro che un postulato della ragione, una ipotesi tutta soggettiva immaginata per il bisogno della nostra ignoranza, e alla quale nulla, eccetto la necessità della dialettica, rende testimonianza.

A queste parole s’alzò un lungo mormorio. Gli uni si rassegnarono a credere ciò che erano condannati a non dimostrare mai; gli altri pretesero esservi motivi per credere superiori alla ragione; questi rigettavano una credenza che non aveva per base che la sua spontaneità e il cui oggetto poteva ridursi a una semplice formalità della ragione; quelli accusavano apertamente la filosofia critica d’inconseguenza. Quasi tutti caddero chi nello spiritualismo, chi nel materialismo, chi nel misticismo, ciascuno traendo vantaggio per il sistema che più gli piaceva dalle confessioni di questo filosofo. Infine, un uomo dal cuore magnanimo, dall’anima passionale, pervenne a domare il frastuono e a richiamare sopra di sé l’attenzione.

Questa filosofia, osservò egli con amarezza, che pretende di avere trovato la chiave dei nostri giudizi e si colloca sotto la protezione della ragione pura, manca assolutamente d’unità e non brilla che per la sua incoerenza. Che cos’è questo Dio che non si può, si dice, dimostrare e che pertanto giunge appunto allo scioglimento?

Che cos’è questa oggettività che non ha altra funzione se non di esercitare il pensiero senza fornirgli materiali? Se l’io, la natura e Dio esistono come pare che si creda, essi sono in rapporto diretto e reciproco, e in questo caso noi possiamo conoscerli; qual è questo rapporto? Se, al contrario, questo rapporto è nullo o puramente soggettivo, come si pretende, come si osa affermare la realtà del non-io e l’esistenza di Dio?

L’io è essenzialmente attivo, non ha dunque bisogno di alcuna eccitazione. Possiede i princìpi della scienza, ha il sapere e il fare, gode della potenza creatrice, e ciò che chiamate in lui esperienza è una vera eiaculazione. Come l’operaio che, facendo l’esperienza di una idea nuova, crea l’oggetto stesso della sua esperienza e produce così un valore adeguato al suo proprio pensiero; così nell’universo l’io è il creatore del non-io; per conseguenza porta la sua sanzione in se stesso e non sa che fare né della testimonianza della natura né dell’intervento della divinità. La natura non è una chimera, poiché essa è l’opera che manifesta l’operaio; il non-io, così reale come l’io, è il prodotto e l’espressione dell’io, e Dio non è più che il rapporto astratto che unisce l’io e il non-io in una fenomenalità identica; tutto si unisce, tutto si lega e si spiega. L’esperienza è la scienza scritta, il pensiero manifestato dal soggetto e ritrovato dal soggetto.

Per la prima volta la filosofia veniva a darsi un sistema. Fino a quel momento, essa non aveva fatto che oscillare da una contraddizione all’altra, procedendo per negazione ed esclusione, cioè sopprimendo ciò che essa non poteva accordare. Tutto al più aveva tentato di affermare simultaneamente le sue differenti tesi, ma senza sperare, senza avere modo di risolverle.

Ora il passo era fatto; un nuovo periodo d’investigazione stava per cominciare.

Sulle conclusioni che abbiamo udito, ripeté qualcuno, non vi sarebbe niente da dire, e il sistema che esse riassumono sarebbe inattaccabile, se fosse dimostrato, e questo è quel che è sempre in questione, che l’uomo sa qualche cosa, che esiste in lui una sola idea anteriormente all’esperienza. Si concepirà allora che ciò che apprende, non fa che dedurlo; e ciò che sperimenta, lo ritrova. Ma non è vero che l’io abbia da lui stesso alcuna idea; non è vero che possa creare la scienza a priori; e sfido chiunque a porre la prima pietra del suo edificio.

Ecco qui, aggiunse con una voce ispirata, ciò che mi hanno insegnato la ragione e l’esperienza. Il rapporto che unisce l’io e il non-io non è, come è stato detto, un rapporto di filiazione e di causalità, bensì è un rapporto di coesistenza. L’io e il non-io esistono l’uno vicino all’altro, eguali e inseparabili, ma irriducibili, se non in un principio superiore, soggetto-oggetto, che li genera tutti e due, in una parola, nell’assoluto. Questo assoluto è Dio, creatore dell’io e del non-io, o, come dice il simbolo di Nicea, di tutte le cose visibili e invisibili! Questo Dio, questo assoluto, abbraccia nella sua essenza l’uomo e la natura, il pensiero e l’estensione; lui solo ha la pienezza dell’essere, egli è Tutto. Le leggi della ragione e le forme della natura sono dunque identiche; nessun pensiero si manifesta se non con l’aiuto di una realtà; e reciprocamente nessuna realtà si mostra se non è penetrata dall’intelligenza.

Ecco da dove viene questo accordo meraviglioso dell’esperienza e della ragione, che vi ha fatto prendere volta per volta lo spirito come una modificazione della natura e la natura come una modificazione dello spirito. L’io e il non-io, l’umanità e la natura, sono ugualmente sussistenti e reali; l’umanità e la natura sono contemporanee nell’assoluto; la sola cosa che le distingue è che nell’umanità l’assoluto si sviluppa con coscienza, mentre nella natura si sviluppa senza coscienza. Così il pensiero e la materia sono inseparabili e irriducibili; essi si manifestano, secondo gli esseri, in proporzioni disuguali, perché ciascuno dei princìpi costitutivi dell’assoluto si mostra nelle creature volta a volta in inferiorità o in predominanza. È insomma un’evoluzione infinita, uno sviluppo perpetuo di forme, di essenze, di vite, di volontà, di potenze, di virtù, ecc.

Per un momento questo sistema parve raccogliere tutti i suffragi. La fusione dell’io e del non-io nell’assoluto; quella distinzione e quella inseparabilità nello stesso tempo del pensiero e dell’essere, che costituisce la creazione, lo svolgimento incessante dello spirito e la progressione degli esseri sopra una scala senza fine, suscitava un entusiasmo generale. Ma fu entusiasmo che passò come il lampo. Un nuovo dialettico levandosi bruscamente: Questo sistema, disse non ha bisogno che di una cosa, la prova.

L’io e il non-io si confondono nell’assoluto; che cos’è questo assoluto? quale ne è la natura? quale prova possiamo avere della sua esistenza, poiché non si manifesta, o forse è impossibile che in qualità di assoluto si manifesti?... Il pensiero e l’essere, aggiunge, identici nell’assoluto, sono irriducibili nella creazione, benché inseparabili e omologhi; come si sa questo? Come mai l’identità delle leggi non implica l’identità delle essenze, l’identità delle realtà, poiché è riconosciuto, che la sola cosa reale per noi è la legge? E che serve ricorrere a un assoluto mistico e impenetrabile, che serve riprodurre questa vecchia chimera di Dio, per conciliare due termini che, per l’identità dichiarata delle loro leggi, sono già conciliati? La natura e l’umanità sono lo sviluppo dell’assoluto: perché l’assoluto si sviluppa? In virtù di quale principio e secondo quale legge? Dov’è la scienza di questo sviluppo? La vostra ontologia, la vostra logica? E poi, se le medesime leggi reggono la materia e il pensiero, basta studiare l’una per conoscere l’altro; la scienza è possibile, secondo voi stessi, a priori, perché dunque negate la scienza e non ci date che l’esperienza, che di per se stessa non spiega niente, poiché non è scienza?

Ebbene! aggiunse egli, m’incarico, senza ricorrere all’assoluto, e tenendomi all’identità del pensiero e dell’essere, di costruire questa scienza dello sviluppo che vi scappa, e che non avete potuto trovare, poiché distinguete ciò che non può essere ammesso come distinto, lo spirito e la materia, cioè la duplice faccia dell’idea.

E lo si vide, questo Titano della filosofia intraprendere a rovesciare l’eterno dualismo col dualismo stesso: stabilire l’identità sulla contraddizione; trarre l’essere dal nulla e, con l’aiuto della sua sola logica, spiegare, profetizzare, che dico mai? creare la natura e l’uomo! Nessun altro, prima di lui, aveva penetrato così profondamente le leggi intime dell’essere; nessuno aveva rischiarato di una così viva luce i misteri della ragione. Egli riuscì a dare una formula che, se anche non è tutta la scienza, e nemmeno tutta la logica, è per lo meno la chiave della scienza e della logica. Ma si conobbe ben presto che questa logica stessa il suo autore non aveva potuto costruirla se non costeggiando sempre l’esperienza, e prendendo da essa a prestito i materiali: che tutte le formule seguivano l’osservazione, ma non la precedevano mai. E siccome, dopo il sistema dell’identità del pensiero e dell’essere, non c’era più niente da aspettare dalla filosofia, essendo chiuso il circolo, fu dimostrato per sempre che la scienza senza l’esperienza, è impossibile; che se l’io e il non-io sono correlativi, necessari l’uno all’altro, inconcepibili l’uno senza l’altro, essi non sono identici, che la loro identità, del pari che la loro riduzione in un assoluto impalpabile, non è che una veduta della nostra intelligenza, un postulato della ragione, utile in certi casi per il ragionamento, ma senza la minima realtà; infine che la teoria dei contrari, di una potenza incomparabile per controllare le nostre opinioni, scoprire i nostri errori e determinare il carattere essenziale del vero, non è l’unica forma della natura, la sola rivelazione dell’esperienza, e per conseguenza la sola legge dello spirito.

Partiti dal cogito di Descartes, eccoci dunque ritornati, per una serie non interrotta di sistemi, al cogito di Hegel. La rivoluzione filosofica è compiuta; un movimento nuovo sta per incominciare; ora sta al senso comune prendere le conclusioni e dare il verdetto.

Ora, che dice il senso comune?

Relativamente alla conoscenza: essendo che l’essere non si rivela da se stesso che in due momenti indissolubilmente legati che chiamiamo, il primo, coscienza dell’io, il secondo, rivelazione del non-io; che ogni passo ulteriore nella conoscenza implica sempre questi due momenti riuniti; che questo dualismo è perpetuo e irriducibile; che fuori di esso non esiste più né soggetto né oggetto; che la realtà dell’uno tiene essenzialmente alla presenza dell’altro; che è tanto assurdo isolarli quanto riunirli, poiché, in ambedue i casi, ciò è negare la verità tutta intera e sopprimere la scienza; concluderemo dapprima che il carattere della scienza è invincibilmente questo: accordo della ragione e dell’esperienza.

Relativamente alla certezza: essendo che malgrado la dualità d’origine della conoscenza, la certezza dell’oggetto è in fondo la stessa che la certezza del soggetto; che ciò è stato posto fuori di dubbio contro i pirronisti; che a questo riguardo c’è abbondanza di gudizio; che l’esperienza è tanto una determinazione dell’io che un apprezzamento del non-io; ciò basta per il soddisfacimento della ragione. Che possiamo desiderare di più che d’essere assicurati dell’esistenza dei corpi come lo siamo della nostra? E che cosa serve ricercare se il soggetto e l’oggetto sono identici o solamente adeguati; se, nella scienza, siamo noi che prestiamo le nostre idee alla natura, o se è la natura che ci dà le sue; allorché con questa distinzione, si suppone sempre che l’io e il non-io possano esistere isolatamente, ciò che non è; o che essi sono risolubili, ciò che implica contraddizione?

Infine, relativamente a Dio: essendo che è una legge della nostra anima e della natura o, per chiudere queste due idee in una sola, della creazione, che essa sia ordinata sempre secondo una progressione che va dall’esistenza alla coscienza, dalla spontaneità alla riflessione, dall’istinto all’analisi, dall’infallibilità all’errore, dal genere alla specie, dall’eternità al tempo, dall’infinito al finito, dall’ideale al reale, ecc.; ne segue, per una logica necessità, che la catena degli esseri, tutti invariabilmente costituiti, ma in proporzioni differenti, in io e non-io, è compresa fra due termini opposti, l’uno, che il volgo chiama creatore, o Dio, e che riunisce tutti i caratteri d’infinità, spontaneità, eternità, infallibilità, ecc., l’altro che è l’uomo e che raccoglie in sé i caratteri opposti di una esistenza evolutiva, riflessa, temporanea, soggetta a perturbazione ed errore, e in cui la previdenza forma il principale attributo, come la scienza assoluta, cioè l’istinto alla più alta potenza è l’attributo essenziale della Divinità. Ma l’uomo ci è noto nello stesso tempo per la ragione e l’esperienza; Dio, al contrario non ci è ancora svelato che come postulato della ragione: in una parola, l’uomo è, Dio è possibile.

Tale è stato, sui lavori della filosofia, il secondo giudizio del senso comune; giudizio i cui motivi sono attinti nei materiali forniti dalla filosofia stessa, giudizio senza appello e che si è chiaramente prodotto il giorno in cui la filosofia ha riconosciuto che la ragione nulla può senza l’esperienza e che, riguardo a Dio, non ci manca più nient’altro che l’evidenza del fatto, la dimostrazione sperimentale; il giorno in cui coprendosi la faccia col suo mantello, essa ha detto addio al mondo, e pronunciato sopra di sé il consummatum est.

È possibile negare il dualismo che vediamo sorgere dappertutto nel mondo? – No.

È possibile negare la progressione degli esseri? – Di nuovo no.

Ora, essendo conosciuta la legge di questa progressione, e dato l’ultimo termine, è una necessità di ragione che esista un primo termine, e che questo primo termine sia agli antipodi dell’ultimo. Così, l’essere infinito, il gran Tutto, in quo vivimus, movemur et sumus, il Genere supremo, dal quale l’uomo tende incessantemente a liberarsi, e al quale si oppone come antagonista, questa Essenza eterna, infine, non sarebbe mica l’assoluto dei filosofi; come l’uomo suo avversario, essa non esisterebbe così che per distinzione in io e non-io, soggetto e oggetto, anima e corpo, spirito e materia, cioè sotto due aspetti generici, diametralmente opposti.

Del resto, gli attributi, facoltà e manifestazioni di Dio, sarebbero il contrario degli attributi, facoltà e determinazioni dell’uomo, così come la logica induce fatalmente a credere, e come si conviene all’infinito; ormai non manca altro alla verità dell’ipotesi che la sua realizzazione, cioè la prova di fatto. Ma tutta questa deduzione è in se stessa ineluttabile: e se fosse possibile per argomenti dimostrarla falsa, il dualismo primordiale sarebbe sparito, l’uomo non sarebbe più uomo, la ragione non sarebbe più ragione, il pirronismo diventerebbe saggezza e l’assurdo sarebbe verità.

Ecco pertanto ciò che fa tremare la filosofia umanitaria. Essa è così mal guarita dall’assoluto, come da tutte le fantasie panteistiche; ha provato una gioia tanto grande, credendo scoprire che l’uomo è nello stesso tempo Dio e l’assoluto; è così spossata, anelante dopo tanti sistemi, che non ha più il coraggio di trarre, contro Dio e contro l’uomo, la conclusione delle proprie dottrine. Non osa confessare, questa filosofia sonnambula che i medi suppongono di necessità gli estremi; che l’ultimo chiama un primo, il finito un infinito, la specie un genere: che questo infinito, così reale come il finito che lo divide; questo genere supremo, che diventa specie a sua volta per il contrasto della creazione progressiva che emana dal suo seno; questo Dio, infine, antagonista dell’uomo, non può essere l’assoluto; che è precisamente questo che lo rende possibile; che se è possibile, conviene cercare a qual fatto corrisponde, e che il negarlo sotto pretesto di risolverlo nell’uomo, è disconoscere la natura militante e creare al disopra, al disotto, e tutto attorno all’uomo, un vuoto incomprensibile, che la filosofia è obbligata a colmare sotto pena di annientare l’uomo e di vedere perire il suo idolo.

Mi rincresce dirlo, sento che una tale dichiarazione mi separa dalla parte più intelligente del socialismo, trovo impossibile, più ci penso, sottoscrivere questa definizione della nostra specie, che poi in fondo, nei nuovi atei, è un’ultima eco dei terrori religiosi; che, sotto il nome d’umanismo riabilitando e consacrando il misticismo, riconduce nella scienza il pregiudizio, nella morale l’abitudine, nell’economia sociale la comunità, cioè l’atonia e la miseria; nella logica, l’assoluto, l’assurdo. Mi è impossibile, dico, accogliere questa nuova religione, alla quale, si cerca invano interessarmi dicendomi che ne sono il Dio. È appunto perché sono costretto a ripudiare, a nome della logica e dell’esperienza, questa religione, come pure tutti i suoi precedenti, mi conviene ancora ammettere come plausibile l’ipotesi di un essere infinito, ma non assoluto, in cui la libertà e l’intelligenza, l’io e il non-io esistano sotto una forma speciale, inconcepibile, ma necessaria, e contro il quale il mio destino è di lottare, come Israele contro Jehova, fino alla morte.

Il soggetto e l’oggetto della scienza sono trovati; la verità del pensiero e dell’essere è constatata autenticamente: resta da scoprire il metodo.

La filosofia, nelle sue ricerche più o meno palesi sopra l’oggetto e la legittimità della conoscenza, non aveva tardato ad accorgersi che essa seguiva, senza saperlo, certe forme di dialettica che ricomparivano senza posa, e che, studiate più da vicino, furono presto riconosciute come mezzi naturali d’investigazione del senso comune. La storia delle scienze e delle arti non offre nulla di più interessante dell’invenzione di queste macchine del pensiero, veri strumenti di tutte le nostre conoscenze, scientiarum organa, di cui ci limiteremo a fare conoscere qui i principali. Il primo di tutti è il sillogismo.

Il sillogismo è di sua natura e per temperamento spiritualista. Appartiene a quel momento dell’investigazione filosofica in cui l’affermazione dello spirito domina l’affermazione della materia, in cui l’ebbrezza dell’io fa negligere il non-io, e rifiuta, per così dire, ogni accesso all’esperienza. Questo è l’argomento favorito della teologia, l’organo dell’a priori, la formula dell’autorità.

Il sillogismo è essenzialmente ipotetico. Una proposizione generale e una proposizione sussidiaria o un caso particolare essendo dati, il sillogismo insegna a dedurre in una maniera rigorosa la conseguenza, ma senza garantire la verità estrinseca di questa conseguenza, poiché, da se stesso non garantisce la verità delle premesse.

Il sillogismo non offre dunque utilità che come mezzo di concatenare una proposizione a un’altra proposizione, ma senza dimostrarne la verità: come il calcolo, risponde con giustezza e precisione a ciò che gli si domanda; non apprende a porre la questione. Aristotele, che tracciò le regole del sillogismo, non fu ingannato da questo strumento, di cui segnalò i difetti, come ne aveva analizzato il meccanismo.

Così il sillogismo, procedendo invariabilmente da un a priori, da un pregiudizio, non sa da dove venga; poco amante dell’osservazione, posa il suo principio ben più che non l’esponga; tende, in una parola, meno a scoprire la scienza che a crearla.

Il secondo strumento della dialettica è l’induzione.

L’induzione è il rovescio o la negazione del sillogismo, come il materialismo, l’affermazione esclusiva del non-io, è il rovescio e la negazione dello spiritualismo.

Tutti quanti conoscono questa forma di ragionamento, innalzata e raccomandata da Bacone, che doveva, secondo lui, rinnovare le scienze. Essa consiste nel rimontare dal particolare al generale, al contrario del sillogismo, che discende dal generale al particolare. Ora, siccome il particolare può classificarsi, secondo la varietà infinita dei suoi aspetti, in una moltitudine innumerevole di categorie, e siccome il principio della induzione è facile capire che non sia prima stabilito, ne segue che al contrario del sillogismo, che non si sa da dove venga, l’induzione non si sa dove vada; resta a terra e non può elevarsi né risolversi. Come il sillogismo, l’induzione non può che dimostrare la verità già conosciuta; è impotente per la scoperta. Se ne accorgono oggi in Francia, dove la mancanza di ciò che si chiama spirito filosofico, cioè la mancanza di strumenti dialettici superiori, mantiene la scienza stazionaria, al momento stesso in cui le osservazioni s’accumulano con un’abbondanza e una rapidità spaventevoli. È una verità dire che i progressi compiuti dopo Bacone non sono dovuti, come si è tante volte ripetuto, all’induzione, ma all’osservazione sostenuta da un piccolo numero di pregiudizi generali, che ci aveva lasciato l’antica filosofia, e che l’osservazione non fa che confermare, modificare o distruggere. Attualmente che abbiamo esaurito la nostra trama, l’induzione s’arresta, la scienza non progredisce più.

In due parole, l’induzione dando tutto all’empirismo, il sillogismo tutto all’a priori, la conoscenza oscilla fra due nulla: mentre i fatti si moltiplicano, la filosofia si svia, e molto spesso l’esperienza resta perduta.

Ciò che abbisogna in questo momento è dunque un nuovo strumento che riunendo le proprietà del sillogismo e dell’induzione, partendo nello stesso tempo dal particolare e dal generale, conducendo di fronte la ragione e l’esperienza, imitando, in una parola, il dualismo che costituisce l’universo e che fa uscire tutta l’esistenza dal niente, approdi sempre, infallibilmente, a una verità positiva.

Tale è l’antinomia.

Per questo, solo che una idea, un fatto, presenti un rapporto contraddittorio, e sviluppi le sue conseguenze in due opposte serie, c’è da aspettarsi di vederne uscire una idea nuova e sintetica. Tale è il principio universale e per conseguenza infinitamente vario, dell’organo nuovo, formato dall’opposizione e dalla combinazione del sillogismo e dell’induzione, organo intravisto solamente dagli antichi, di cui Kant fu il rivelatore, e che è stato messo in opera con tanta potenza e successo dal più profondo dei suoi successori, Hegel.

L’antinomia sa da dove viene, sa dove va, e ciò che porta: la conclusione che fornisce è vera senza condizione di evidenza antecedente né ulteriore, vera in se stessa, da se stessa e per se stessa.

L’antinomia è l’espressione pura della necessità, la legge intima degli esseri, il principio delle fluttuazioni dello spirito, e per conseguenza dei suoi progressi, la condizione sine qua non della vita, nella società come nell’individuo.

Abbiamo, nel corso di questo libro, fatto conoscere sufficientemente il meccanismo di tale meraviglioso strumento; ciò che ci resta da dire troverà successivamente posto nelle parti seguenti.

Ma, se l’antinomia non può né ingannare né mentire, essa non è tutta la verità; e, limitata a questo strumento, l’organizzazione del senso comune sarebbe incompleta, in quanto lascerebbe all’arbitrio dell’immaginazione il funzionamento delle idee particolari determinato dall’antinomia, e non ci spiegherebbe il genere, la specie, la progressione, le evoluzioni, il sistema infine, cioè precisamente ciò che costituisce la scienza. L’antinomia avrebbe tagliato una moltitudine di pietre, ma queste pietre resterebbero sparse; non vi sarebbe l’edificio.

È così che l’osservazione più superficiale basta per mostrare la distribuzione in tante coppie degli organi del corpo umano; ma chi non conoscesse che questa dicotomia, vera incarnazione della gran legge dei contrari, sarebbe ben lontano dall’avere l’idea della nostra organizzazione, così complicata, e non pertanto una. Altro esempio.

La linea è formata dal movimento di un punto che si oppone a se stesso, il piano nasce da un movimento analogo della linea, e il solido da un movimento simile del piano. Le matematiche sono piene di questi casi dualistici; pure il dualismo, impiegato solo, è affatto sterile per l’intelligenza delle matematiche. Provate a dedurre, col dualismo, dall’idea della linea quella del triangolo. Provate ad estrarre dai concetti antitetici di quantità, qualità, ecc., l’idea del raggio a sette colori, della melodia a sette toni... Così le idee, dopo essere state determinate individualmente dai loro rapporti contraddittori, hanno ancora bisogno di una legge che le leghi, le figuri, le sistematizzi: senza di che resterebbero isolate, come le stelle che il capriccio dei primi astronomi ha bensì potuto riunire in costellazioni fantastiche, ma che non sono meno straniere le une alle altre, finché la scienza più profonda di Newton e di [William] Herschel non scoprì i rapporti che le coordinano nel firmamento.

La scienza, tal quale può risultare dall’antinomia, non basta all’intelligenza dell’uomo e della natura; un ultimo strumento dialettico diventa dunque necessario. Ora, questo strumento, che può mai essere, se non una legge di progressione, di classificazione e di serie: una legge che abbracci nella sua generalità il sillogismo, l’induzione, l’antinomia stessa, e che sia a questa come nella musica il canto è all’accordo?...

Questa legge, conosciuta in tutti i tempi, come chiunque se ne può convincere rileggendo il primo capitolo del Genesi, dove si vede Dio che crea tutti gli animali e le piante secondo i loro generi e le loro specie, è stata soprattutto messa in luce dai naturalisti moderni; essa è sovrana in matematica; i filosofi come gli artisti l’hanno proclamata come l’essenza pura del bello e del vero. Ma da nessuno, che io sappia, ne è stata data la teoria; mi si perdonerà dunque di rimandare per questo oggetto a un’altra opera, nella quale si troverà, senza dubbio, che ho fatto prova più di buona volontà che di attitudine. [De la création de l’ordre dans l’humanité ou Principes d’organisation politique, Paris 1843]. Progressione, serie, associazione di idee per gruppi naturali, tale è l’ultimo passo della filosofia nell’organizzazione del senso comune. Tutti gli altri strumenti dialettici si riducono a questo; il sillogismo e l’induzione non sono che frammenti staccati da serie superiori, e considerati in diverso senso: l’antinomia è come la teoria di due poli di un piccolo mondo, astrazione fatta dai punti medi e dai movimenti interiori. La serie abbraccia tutte le forme possibili di classificazione delle idee, essa è unità e varietà, vera espressione della natura, per conseguenza forma suprema della ragione. Solo diventa intelligibile allo spirito ciò che può essere riportato a una serie, o distribuito in serie; e ogni creatura, ogni fenomeno, ogni principio che ci appaia come isolato, resta per noi inintelligibile. Malgrado la testimonianza dei sensi, malgrado la certezza del fatto, la ragione lo respinge e lo nega, fino a che non abbia ritrovato gli antecedenti, le conseguenze, i corollari, cioè la serie, la famiglia.

Per rendere tutto questo più sensibile, facciamone l’applicazione alla questione stessa che forma l’oggetto del presente capitolo, la Proprietà.

La proprietà è inintelligibile fuori della serie economica, abbiamo detto nel sommario di questo paragrafo.

Ciò significa che la proprietà non si comprende e non si spiega, in una maniera sufficiente, né con a priori qualsiasi, morali, metafisici o psicologici (formula del sillogismo); né con a posteriori legislativi o storici (formula dell’induzione) e neanche esponendone la natura contraddittoria, come ho fatto nella mia Memoria sulla proprietà (formula dell’antinomia). Bisogna riconoscere in quale ordine di manifestazioni analoghe, simili o adeguate si fonda la proprietà; conviene, in una parola, ritrovarne la serie. Tutto ciò che si isola, tutto ciò che non si afferma che in sé, e per sé, non gode di una sufficiente esistenza, non riunisce tutte le condizioni d’intelligibilità e di durata; occorre ancora l’esistenza nel tutto, dal tutto e per il tutto; conviene, in una parola, ai rapporti interni unire i rapporti esterni.

Che cosa è la proprietà? Da dove viene la proprietà? Che vuole la proprietà? Ecco il problema che interessa al più alto grado la filosofia; il problema logico per eccellenza, il problema dalla cui soluzione dipendono l’uomo, la società, il mondo. Il problema della proprietà è, sotto un’altra forma, il problema della certezza; la proprietà è l’uomo; la proprietà è Dio; la proprietà è tutto.

Ora, a questa questione formidabile, i giuristi rispondono balbettando i loro a priori: la proprietà è il diritto d’usare e di abusare, diritto che risulta da un atto della volontà manifestata con l’occupazione e l’appropriazione; ed è evidente che essi non ci insegnano assolutamente nulla. Ammettendo che l’appropriazione sia necessaria al compimento del destino dell’uomo e all’esercizio della sua industria, tutto ciò che se ne può concludere è che essendo l’appropriazione necessaria a tutti gli uomini, la possessione deve essere uguale, ma sempre mutabile e mobile, suscettibile di aumento e di diminuzione, nonostante il consenso dei possessori, ciò che è la negazione stessa della proprietà. Nel sistema dei giuristi, dei ragionanti a priori, la proprietà, per essere d’accordo con se stessa, dovrebbe essere come la libertà, reciproca e inalienabile; in modo che ogni acquisto, cioè ogni esercizio ulteriore del diritto di appropriazione si troverebbe ad essere nel tempo stesso, dalla parte dell’acquirente, il godimento di un diritto naturale e, di fronte ai suoi simili, un’usurpazione; cosa che è contraddittoria, impossibile.

Che gli economisti appoggiati sulle loro induzioni utilitarie, vengano a loro volta e ci dicano: l’origine della proprietà è il lavoro. La proprietà è il diritto di vivere lavorando, di disporre liberamente e sovranamente dei propri risparmi, del proprio capitale, del frutto della propria intelligenza e della propria industria; il loro sistema non è più solido. Se il lavoro, l’occupazione effettiva e feconda, è il principio della proprietà, come spiegare la proprietà presso colui che non lavora? Come giustificare l’affitto? Come mai dedurre dalla formazione della proprietà mediante il lavoro, il diritto di possedere senza lavoro? Come concepire che da un lavoro sostenuto durante trent’anni risulta una proprietà eterna? Se il lavoro è la sorgente della proprietà, questo vuol dire che la proprietà è la ricompensa del lavoro; ora, qual è il valore del lavoro? Qual è la misura comune dei prodotti, il cui scambio conduce a così mostruose disuguaglianze nella proprietà?

Si dirà che la proprietà deve essere limitata alla durata della occupazione reale, alla durata del lavoro? Allora la proprietà cessa d’essere personale, inviolabile e trasmissibile: non è più la proprietà. Non è evidente che se la teoria dei giuristi è tutta arbitraria, quella degli economisti è dettata solo dall’abitudine? Del resto, essa è parsa così dannosa per le sue conseguenze, che è stata quasi subito abbandonata appena messa in luce. I giuristi d’oltre Reno, fra gli altri, sono ritornati quasi tutti al sistema della prima occupazione; cosa appena credibile nel paese della dialettica.

Che dire poi delle divagazioni dei mistici, di quella gente a cui fa orrore la ragione e per cui il fatto è sempre abbastanza spiegato e giustificato in quanto esiste? La proprietà, dicono, è una creazione della spontaneità sociale, l’effetto di una legge della provvidenza, davanti alla quale dobbiamo umiliarci come davanti a tutto ciò che viene da Dio. E che cosa potremmo trovare di più rispettabile, di più autentico, di più necessario e di più sacro, di quel che il genere umano ha voluto spontaneamente e compiuto per un permesso dall’alto?

Così, la religione viene a sua volta a consacrare la proprietà; da questo segno, si può giudicare la poca solidità di questo principio. Ma la società, in altro modo detta la Provvidenza, non ha potuto consentire alla proprietà, che in vista del bene generale; è permesso, senza mancare al rispetto dovuto alla Provvidenza, di domandare di dove vengano allora le esclusioni?... Che se il bene generale, non esige assolutamente l’eguaglianza delle proprietà, per lo meno implica una certa responsabilità da parte del proprietario; e quando il povero domanda l’elemosina, è il sovrano che reclama il suo diritto. Da dove viene dunque che il proprietario è padrone di non rendere mai conto, di non mettere a parte?

Sotto tutti questi punti di vista la proprietà resta inintelligibile: e quelli che l’hanno attaccata potevano essere certi prima che non si risponderebbe loro, come potevano egualmente essere sicuri che le loro critiche non avrebbero avuto il minimo effetto. La proprietà esiste di fatto; ma la ragione la condanna; come mai conciliare qui la realtà e l’idea? come fare passare la ragione nel fatto? Ecco ciò che ci resta da fare, e che nessuno ancora sembra avere chiaramente compreso. Fintanto che la proprietà sarà difesa con così poveri mezzi, sarà in pericolo; e fino a tanto che un fatto nuovo e più potente non sarà opposto alla proprietà, gli attacchi non saranno che insignificanti proteste, buone per aizzare i pezzenti, e irritare i proprietari.

Infine, è venuto un critico, che procedendo con l’aiuto di una argomentazione nuova, ha detto:

La proprietà, in fatto e in diritto, è essenzialmente contraddittoria ed è per questa stessa ragione che essa è qualche cosa. Difatti:

La proprietà è il diritto di occupazione e, nel tempo stesso, il diritto di esclusione.

La proprietà è il premio del lavoro e la negazione del lavoro. La proprietà è il prodotto spontaneo della società e la dissoluzione della società.

La proprietà è una istituzione di giustizia e la proprietà è il furto.

Da tutto questo risulta che un giorno la proprietà trasformata sarà una idea positiva, completa, sociale e vera; una proprietà che abolirà l’antica proprietà e diventerà per tutti egualmente effettiva e benefica. E ciò che lo prova, è ancora una volta che la proprietà è una contraddizione.

Fin dal momento in cui la proprietà cominciò a essere conosciuta, fu svelata la sua natura intima, il suo avvenire fu previsto. Ma la critica non aveva compiuto che metà del suo compito, poiché, per costruire definitivamente la proprietà, per toglierle il suo carattere di esclusione e darle la sua forma sintetica, non bastava averla analizzata in se stessa, conveniva ancora ritrovare l’ordine d’idee di cui essa non è che un momento particolare, la serie che l’avviluppa, e fuori della quale non è possibile né comprendere né intaccare la proprietà.

Senza questa condizione, la proprietà, conservando lo statu quo, restava inattaccabile come fatto, inintelligibile come idea; e ogni riforma intrapresa contro questo statu quo, non poteva essere, a riguardo della società, che un passo indietro, se non forse un parricidio.

Si abbia la bontà di riflettere, in effetti, che al momento in cui noi scriviamo, la proprietà è ancora tutto per la nostra scienza legislativa come per le nostre abitudini economiche; che all’infuori della proprietà, malgrado gli sforzi tentati in questi ultimi tempi dal socialismo, non si concepisce, non s’immagina niente; che né nella giurisprudenza né nel commercio né nell’industria non si scopre uscita; che distrutta la proprietà, la società cade in un disordine senza fine e che, per avere appreso a conoscere la proprietà nella sua natura antinomica, noi non sappiamo meglio di prima come essa realizzerà la sua formula definitiva, come mai dall’ordine attuale uscirà un ordine nuovo di cui nulla al mondo ci dà ancora l’idea; che si pensi, dico io, a tutte queste cose, e poi si domandi, come mai per la sola virtù dell’antinomia, dall’organizzazione presente, che esaurisce nello stesso tempo la nostra esperienza e la nostra ragione, arriveremo a determinare una forma sociale per la quale manchiamo egualmente di idee e di fatti?

Bisogna riconoscerlo: l’antinomia, dimostrando ciò che è in sé la proprietà, ha detto la sua ultima parola, essa non può andare più oltre. Occorre un’altra costruzione logica, bisogna trovare la progressione, di cui la proprietà è solo uno dei termini, costruire la serie fuori della quale la proprietà, non apparendo che come un fatto isolato, una idea solitaria, resta sempre inconcepibile e sterile; ma nella quale anche la proprietà riprendendo il suo posto, e per conseguenza la sua vera forma, diverrà parte essenziale di un tutto armonico e vero, e perdendo le sue qualità negative, rivestirà gli attributi positivi dell’uguaglianza, della mutualità, della responsabilità e dell’ordine.

Così, quando noi abbiamo voluto scoprire la parte e il senso filosofico della moneta, di questo fatto che ci appariva isolato nei libri degli economisti, e che per questa ragione era rimasto fino a ora inesplicabile, abbiamo ricercato la catena della quale supponevamo che la moneta fosse un anello staccato; e con questa semplice ipotesi abbiamo senza pena scoperto che la moneta era il primo dei nostri prodotti, il cui valore fosse socialmente costituito, e che per questa ragione serviva di tipo a tutti gli altri. Così pure quando abbiamo avuto bisogno di conoscere la natura e di farci una teoria dell’imposta, quest’altro fatto isolato, oggetto di tanto clamore nell’economia politica, noi non abbiamo avuto che da completare la grande famiglia dei lavoratori, facendovi entrare come genere i lavoratori improduttivi, cioè quelli la cui remunerazione non ha luogo per lo scambio, e il cui impiego è in diminuzione, mentre l’impiego degli altri lavoratori è in progresso.

Parimenti, per arrivare alla piena intelligenza della proprietà, per acquistare l’idea dell’ordine sociale, dobbiamo fare due cose:

1° Determinare la serie delle contraddizioni, di cui fa parte la proprietà;

2° Dare, mediante un’equazione generale, la formula positiva di questa serie.

Se le nostre speranze non c’ingannano, avremo presto compiuto la prima parte di questo compito. La proprietà è uno dei fatti generali che determinano le oscillazioni del valore; essa è parte integrante di quella lunga serie di istituzioni spontanee che comincia dalla divisione del lavoro, e finisce nella comunità, per risolversi nella costituzione di tutti i valori. E già noi potremo mostrare nel Sistema delle contraddizioni economiche, come in una tappezzeria veduta a rovescio, l’immagine rovesciata della nostra organizzazione futura; così che per mettere l’ultima mano alla nostra opera e risolvere la seconda parte del problema non avremo da fare altro che un raddrizzamento.

In principio dunque, ogni essere solitario, cioè non diviso o senza seguito, è in sé intelligibile; è, come lo spirito e la materia, come tutte le essenze non manifestate o, ciò che è lo stesso, non classificate, una cosa inaccessibile all’intendimento, e che si risolve, per lo spirito, in sentimento, in mistero. È per questo che l’Essere infinito in cui già la logica ci obbliga a credere, sarà sempre per l’uomo, anche dopo che l’osservazione ne avrà constatata l’esistenza, come se non esistesse.

Niente in lui né fuori di lui, potendo mettere un termine alla concentrazione e alla solitudine, né l’eternità né l’ubiquità né l’onnipotenza né la scienza infinita né la creazione né l’umanità progressiva di cui è il principio e il sostegno, ma da cui si distingue essenzialmente, un simile essere resta sempre ignoto; e tutto ciò che la ragione ci comanda a suo riguardo è la negazione o, ciò che torna lo stesso, la fede.

Il sillogismo, l’induzione, l’antinomia e la serie formano dunque l’armamento completo dell’intelligenza; è facile scorgere che nessun altro strumento dialettico rimane da scoprire.

Il sillogismo sviluppa l’idea, per così dire, dall’alto in basso; l’induzione la riproduce dal basso in alto.

L’antinomia la prende di fronte e per traverso.

La serie la segue e la penetra in solidità e profondità.

Il campo della conoscenza non avendo altre dimensioni, non esiste alcun altro metodo. D’ora innanzi, possiamo dire che la logica è fatta, il senso comune organizzato; e siccome l’organizzazione del lavoro è il corollario inevitabile del senso comune, è impossibile che la società non arrivi tosto alla sua costituzione certa e definitiva.

2. – Cause dello stabilimento della proprietà

La proprietà occupa l’ottavo posto nella catena delle contraddizioni economiche: questo punto è il primo che noi dobbiamo stabilire.

È provato che l’origine della proprietà non può essere riportata né alla prima occupazione né al lavoro.

La prima di queste opinioni non è che un circolo vizioso dove il fenomeno è dato come spiegazione del fenomeno; la seconda è eminentemente eversiva della proprietà, poiché col lavoro per condizione suprema, è impossibile che la proprietà si stabilisca. Quanto alla teoria che fa rimontare la proprietà a un atto di volontà collettiva, essa ha lo svantaggio di tacere sui motivi di questa volontà; ora sono questi motivi che bisogna precisamente conoscere.

Tuttavia, benché queste teorie considerate separatamente, non sboccano sempre in una contraddizione, è certo che ciascuna di esse contiene una parte di verità; e si può egualmente presumere che se invece di isolarle, si studiassero tutte e tre insieme e sinteticamente, vi si troverebbe la vera teoria, cioè la ragione dell’esistenza della proprietà.

La proprietà comincia, o per meglio dire si manifesta, con un’occupazione sovrana, effettiva, che esclude ogni idea di partecipazione e di comunità; questa occupazione, nella sua forma legittima e autentica, non è altro che il lavoro: senza questo, come mai la società avrebbe acconsentito a concedere e a fare rispettare la proprietà? La società ha voluto la proprietà e tutte le legislazioni del mondo non sono state fatte che per essa.

La proprietà si è stabilita con l’occupazione, cioè col lavoro: conviene ricordarlo spesso, non per la conservazione della proprietà, ma per l’istruzione dei lavoratori. Il lavoro conteneva in potenza, esso doveva produrre, per l’evoluzione delle sue leggi, la proprietà; nel modo stesso che aveva generato la separazione delle industrie, poi la gerarchia dei lavoratori, poi la concorrenza, il monopolio, la politica, ecc. Tutte queste antinomie sono allo stesso titolo posizioni successive del lavoro, bastoni da livello piantati sulla sua strada eterna e destinati a formulare, nella loro riunione sintetica, il vero diritto delle genti. Ma il fatto non è il diritto; la proprietà, prodotto naturale dell’occupazione e del lavoro, era un principio di anticipazione e d’usurpazione; essa aveva dunque bisogno d’essere riconosciuta e legittimata dalla società: questi due elementi, l’occupazione del lavoro e la sanzione legislativa, che i giuristi hanno male a proposito separati nei loro commentari, si sono riuniti per costituire la proprietà. Ora, si tratta di conoscere i motivi provvidenziali di questa concessione, quale parte essa sostenga nel sistema economico: tale sarà l’oggetto di questo paragrafo.

Proviamo dapprima che per stabilire la proprietà, era necessario il consenso sociale.

Fintanto che la proprietà non è riconosciuta e legittimata dallo Stato, resta un fatto extra sociale; è nella stessa posizione del bambino, il quale non è reputato membro della famiglia, della città e della Chiesa, che tramite il riconoscimento del padre, l’iscrizione al registro dello Stato Civile e la cerimonia del battesimo. In assenza di queste formalità, il ragazzo è come la prole degli animali: è un membro inutile, un’anima vile e serva, indegna di considerazione; è un bastardo. Così il riconoscimento sociale era necessario alla proprietà, e ogni proprietà implica una comunità primitiva. Senza questo riconoscimento, la proprietà resta semplice occupazione, e può essere contestata dal primo venuto.

“Il diritto a una cosa – dice Kant [Primi princìpi metafisici della dottrina del diritto] – è il diritto dell’uso privato di una cosa riguardo alla quale io sono in comunità di possesso (primitiva o susseguente) con tutti gli altri uomini: questo possesso è l’unica condizione sotto la quale posso interdire a ogni altro possessore l’uso privato della cosa, perché senza la supposizione di questo possesso, non sarebbe possibile concepire come io che non sono frattanto attualmente possessore della cosa, posso essere leso da coloro che la possiedono, e che se ne servono. – Il mio arbitrio individuale o unilaterale non può obbligare altrui ad interdirsi l’uso di una cosa, s’egli non v’era altrimenti obbligato. Egli non può essere dunque obbligato se non dagli arbitri riuniti in un possesso comune. Se non fosse così si sarebbe nella necessità di concepire un diritto in una cosa, come se essa avesse un obbligo verso di me, e da dove deriverebbe in ultima analisi il diritto contro ogni possessore di questa cosa; concetto veramente assurdo”.

Così, secondo Kant, il diritto di proprietà, cioè la legittimità della occupazione, procede dal consenso dello Stato, il quale implica originariamente possesso comune. E non può, dice Kant, essere altrimenti. Tutte le volte dunque che il proprietario osa opporre il suo diritto allo Stato, questi riconducendo il proprietario alla convenzione, può sempre terminare la lite con questo ultimatum: o riconoscete la mia sovranità, e vi sottomettete a quello che l’interesse pubblico reclama; o io dichiaro che la vostra proprietà ha cessato d’essere collocata sotto la salvaguardia delle leggi, e tolgo ad essa la mia protezione.

Da ciò segue che nello spirito del legislatore l’istituzione della proprietà, come quella del credito, del commercio e del monopolio, è stata fatta con un intento d’equilibrio, il che colloca senz’altro la proprietà fra gli elementi dell’organizzazione, e la distingue come uno dei mezzi generali di costituzione dei valori. “Il diritto a una cosa – dice Kant – è il diritto dell’uso privato di una cosa, riguardo alla quale io sono in comunità di possessione con tutti gli altri uomini”. In virtù di questo principio, ogni uomo privo di proprietà può e deve richiamarsi alla comunità, custode dei diritti di tutti; da che ne risulta, così come si è detto, che nelle mire della Provvidenza, le condizioni devono essere uguali.

Questo è Kant, come [Thomas] Reid ha nettamente compreso ed espresso nel passo seguente: “Si domanda frattanto sin dove si estende la facoltà di prendere possesso di un fondo? – Sin dove giunge la facoltà di averlo in suo potere, cioè quanto lo possa difendere colui che vuole appropriarsene. Come se il fondo dicesse: se voi non potete difendermi, non potete nemmeno comandarmi”.

Io non sono per altro sicuro se questo passaggio debba o no intendersi dalla possessione anteriore alla proprietà. Soggiunge Kant, l’acquisizione non è definitiva che nella società; nello stato di natura, essa non è che provvisoria.

Si potrebbe dunque concludere qui che, nel pensiero di Kant, l’acquisizione, una volta divenuta definitiva per il consenso sociale, può indefinitamente accrescersi sotto la protezione sociale; ciò che non può avere luogo nello stato di natura, dove l’individuo difende solo la sua proprietà. Ne consegue, per lo meno dal principio di Kant, che nello stato di natura l’acquisizione si estende per ciascuna famiglia a tutto ciò che essa può difendere, cioè può coltivare; oppure, meglio, è uguale a una frazione della superficie coltivabile divisa per il numero delle famiglie; poiché, se l’acquisizione oltrepassa questo quoziente, essa incontra presto più nemici che non abbia difensori. Ora, siccome nello stato di natura questa acquisizione, così limitata, non è ancora che provvisoria, lo Stato, facendo cessare la precarietà, ha voluto fare cessare l’ostilità reciproca degli acquisitori, rendendo perentorie le acquisizioni. L’eguaglianza è dunque stato il pensiero segreto, l’oggetto principale del legislatore nella costituzione della proprietà. In questo sistema, il solo ragionevole, il solo ammissibile, la proprietà del mio vicino è la garanzia della mia proprietà. Io non dico più col giurista, possideo quia possideo; io dico col filosofo, possideo quia possides.

Vedremo in seguito che l’eguaglianza mediante la proprietà è tanto chimerica che l’eguaglianza tramite il credito, il monopolio, la concorrenza, o ogni altra categoria economica; e che a questo riguardo il genio provvidenziale, pur raccogliendo dalla proprietà i frutti più preziosi e inattesi, non è stato meno deluso nella sua speranza, e si è ostinato a volere l’impossibile. La proprietà non contiene né più né meno di tutti i momenti che la precedono nell’evoluzione economica; come essi, contribuisce, in eguale proporzione, allo sviluppo del benessere e all’accrescimento della miseria; non è la forma dell’ordine, deve cambiare e sparire con l’ordine. Similmente i sistemi dei filosofi sulla certezza, dopo avere arricchito la logica delle loro vedute, si risolvono e spariscono nelle conclusioni del senso comune.

Ma, infine, il pensiero che ha presieduto all’istituzione della proprietà è stato buono; abbiamo dunque da ricercare ciò che giustifica questa istituzione, in che cosa la proprietà serve la ricchezza, quali sono le ragioni positive e determinanti che l’hanno prodotta.

Ricordiamo dapprima il carattere generale del movimento economico.

La prima epoca ha avuto per scopo di inaugurare il lavoro sulla terra con la separazione delle industrie, di fare cessare l’inospitalità della natura, di strappare l’uomo alla sua miseria originale, e di convertire le sue facoltà inerti in facoltà positive e agenti, che fossero per lui tanti strumenti di fortuna.

Come nella creazione dell’universo la forza infinita si era divisa, così, per creare la società, il genio provvidenziale divise il lavoro. Da questa divisione, l’eguaglianza cominciò a manifestarsi, non più come identità nella pluralità, ma come equivalenza nella varietà, l’organismo sociale è costituito in principio, il germe ha ricevuto l’impulso vivificatore, l’uomo collettivo esiste.

Ma, la divisione del lavoro suppone funzioni generalizzate e funzioni parcellari; di là ineguaglianza di condizioni fra i lavoratori, abbassamento degli uni, elevazione degli altri; e sin dalla prima epoca, l’antagonismo industriale rimpiazza la comunità primitiva.

Tutte le evoluzioni susseguenti tendono nello stesso tempo, da una parte a ricomporre l’equilibrio delle facoltà, dall’altra a sviluppare sempre l’industria e il benessere. Abbiamo visto come, al contrario, lo sforzo provvidenziale arrivi sempre a un progresso eguale e divergente di miseria e di ricchezza, di incapacità e di scienza. Nella seconda epoca appaiono il capitale e il salariato, la ripartizione egoista e ingiuriosa; nella terza il male si aggrava per la guerra commerciale; nella quarta esso si concentra e si generalizza per il monopolio; nella quinta, riceve la consacrazione dello Stato. Il commercio internazionale e il credito vengono a loro volta a dare un nuovo campo all’antagonismo. Più tardi, la finzione della produttività del capitale, diventando, per la potenza dell’opinione, quasi una realtà, un nuovo pericolo minaccia la società, la negazione del lavoro stesso per lo straripamento del capitale. È in questo istante, è da questa situazione estrema che nasce teoricamente la proprietà; e tale è la transizione che vogliamo conoscere bene.

Fino al presente, se si fa astrazione dallo scopo ulteriore dell’evoluzione economica, e la si consideri in se stessa, tutto ciò che fa la società, lo fa alternativamente col monopolio e contro il monopolio. Il monopolio è stato il perno attorno al quale si agitano e circolano i diversi elementi economici. Frattanto, malgrado la necessità della sua esistenza, malgrado gli sforzi senza numero che ha fatto per il suo sviluppo, malgrado l’autorità del consenso universale che lo confessa, il monopolio è ancora provvisorio; esso, come dice Kant, non può durare se non in quanto il titolare sappia usufruirlo e difenderlo. È per questo che a volte cessa di pieno diritto con la morte, come nelle funzioni inamovibili, ma non venali; a volte è ridotto e nello stesso tempo limitato, come nei brevetti; a volte lo si perde per il non esercizio, ciò che ha dato luogo alle teorie della prescrizione, nonché al possesso annuale, ancora in uso presso gli Arabi.

Altre volte il monopolio è revocabile dalla volontà del sovrano, come nel permesso di fabbricare sopra un terreno militare, ecc. Così il monopolio non è che una forma senza realtà; il monopolio attiene all’uomo, non prende materia, è bensì il privilegio esclusivo di produrre e di vendere, ma non è ancora l’alienazione degli strumenti di lavoro, l’alienazione della terra.

Il monopolio è una specie di affitto che non interessa l’uomo altrimenti che per la considerazione del guadagno. Il monopolista non s’attiene ad alcuna industria, ad alcun strumento di lavoro, ad alcuna residenza; è cosmopolita e globalizzante; poco gli importa, purché guadagni; la sua anima non è incatenata a un punto dell’orizzonte, a una particella della materia. La sua esistenza resta vaga, fintanto che la società, che gli ha conferito il monopolio come mezzo di fortuna, non fa per lui di questo monopolio una necessità di vita.

Ora il monopolio, per se stesso precario, esposto a tutte le incursioni, a tutti i danni della concorrenza, tormentato dallo Stato, spremuto dal credito, non tenuto punto a cuore dal monopolista, il monopolio, dico, tende incessantemente, sotto l’azione del traffico usuraio, a spersonalizzarsi; in modo che l’umanità, in balia senza posa della tempesta finanziaria causata dallo svincolo generale dei capitali, è esposta a staccarsi dal lavoro stesso e a invertire la propria marcia.

Che cos’era in effetti, il monopolio prima del credito, prima del regno della banca? Un privilegio di guadagno, non un diritto di sovranità; un privilegio sul prodotto, più che un privilegio sullo strumento. Il monopolista restava straniero alla terra su cui abitava, ma che non possedeva realmente; poteva bensì moltiplicare le sue coltivazioni, ingrandire le sue fabbriche, aggiungere terra a terra: era sempre un amministratore, piuttosto che un padrone; non imprimeva alle cose il suo carattere; non le faceva a sua immagine; non le amava per se stesse, ma unicamente per i valori che gli dovevano rendere; in una parola, non voleva il monopolio come fine, ma come mezzo.

Dopo lo sviluppo delle istituzioni di credito, la condizione del monopolio è ancora peggiore.

I produttori, che si trattava di associare, sono divenuti totalmente incapaci di associazione; hanno perduto il gusto e lo spirito del lavoro; sono giocatori. Al fanatismo della concorrenza, aggiungono i furori della roulette. La bancocrazia ha cambiato il loro carattere e le loro idee. Un tempo vivevano fra loro come padroni e salariati, vassalli e feudatari; oggi non si conoscono più che come prestatori e usurai, vincitori e perdenti. Il lavoro è sparito al soffio del credito; il valore reale è sparito davanti al valore fittizio, la produzione davanti all’aggiotaggio. La terra, i capitali, il talento, il lavoro stesso, se in qualche parte ancora si riscontra del lavoro, servono da poste in gioco. Dei privilegi, dei monopoli, delle funzioni pubbliche, dell’industria, nessuno si dà più pensiero; la ricchezza non la si chiede al lavoro, la si aspetta da un colpo di dadi. Il credito, diceva la teoria, ha bisogno di una base fissa; ed ecco che proprio il credito ha messo tutto in moto. Esso s’appoggia a delle ipoteche e fa correre queste ipoteche, cerca garanzie e, a dispetto della teoria che non vuole vedere garanzie che nella realtà, il pegno del credito è sempre l’uomo, poiché è l’uomo che fa valere il pegno, e senza l’uomo il pegno sarebbe assolutamente inefficace e nullo; accade che l’uomo non tenendo più alla realtà, con la garanzia dell’uomo il pegno sparisce, e il credito resta ciò che esso si era vanamente vantato di non essere, una finzione.

Il credito, in una parola, a forza di disimpegnare il capitale, ha finito per svincolare l’uomo stesso dalla società e dalla natura. In questo idealismo universale, l’uomo non poggia più al suolo, è sospeso nell’aria da una potenza invisibile.

La terra è coperta di abitanti, gli uni nuotano nell’opulenza, gli altri orridi di miseria, e non è posseduta da nessuno. Essa non ha più che padroni che la sprezzano, e servi che la odiano; costoro non la coltivano per sé, ma per un portatore di polizze che nessuno conosce, che non vedranno mai, che, può darsi, passerà su questa terra senza guardarla, senza pensare che gli appartiene. Il detentore della terra, cioè il possessore di rendite, somiglia al mercante di cianfrusaglie; ha nel suo portafoglio ville, pascoli, ricchi alloggiamenti, eccellenti vigneti, che gli importa! È disposto a cedere tutto mediante dieci centesimi di rialzo: la sera si libera dei suoi beni, come il mattino li aveva ricevuti, senza amore e senza rimpianto.

Con la finzione della produttività del capitale, il credito è arrivato alla finzione della ricchezza; la terra non è più il laboratorio del genere umano, è una banca; e se fosse possibile che questa banca non facesse senza posa delle nuove vittime, forzate di ridomandare al lavoro il provento che hanno perduto al gioco, e così sostenere la realtà dei capitali; se fosse possibile che la bancarotta non venisse a interrompere di tanto in tanto questa infernale orgia, abbassandosi il valore del pegno continuamente, mentre la finzione aumenterebbe la sua carta, la ricchezza reale diventerebbe nulla e la ricchezza scritta crescerebbe all’infinito.

Ma la società non può retrocedere; conviene dunque salvare il monopolio sotto pena di perire, salvare l’individualità umana pronta a immergersi in una gioia ideale; conviene, in una parola, consolidare, stabilire il monopolio. Il monopolio era, per così dire, celibe: voglio, dice la società, che si sposi. Era il cortigiano della terra, il coltivatore del capitale: voglio che ne diventi il signore e lo sposo. Il monopolio si arrestava all’individuo, d’ora innanzi si estenderà alla razza. Da lui il genere umano non aveva che eroi e baroni; per l’avvenire avrà dinastie. Familiarizzato il monopolio, l’uomo si attaccherà alla sua terra, alla sua industria, come alla sua donna e ai suoi figli, e l’uomo e la natura saranno uniti con un’affezione eterna.

La condizione che il credito aveva fatta alla società, era, in effetti, la più detestabile che si potesse immaginare, quella in cui l’uomo poteva nello stesso tempo abusare di più e possedere di meno.

Ora, alla Provvidenza, nei destini dell’umanità e del globo, conveniva che l’uomo fosse animato da uno spirito di conservazione, e dall’amore per lo strumento delle sue opere, strumento rappresentato in generale dalla terra. Per l’uomo non trattasi solamente di utilizzare la terra, ma di coltivarla, di abbellirla, di amarla; ora, come compiere questo scopo altrimenti che cambiando il monopolio in proprietà, il concubinato in matrimonio, propriamque dicabo, opponendo alla finzione che spossa e imbratta, la realtà che fortifica e nobilita?

La rivoluzione che si prepara nel monopolio, ha dunque soprattutto in vista il monopolio della terra, su questo esempio e sul modello della proprietà terriera, tutte le altre proprietà si sono costituite. Da condizionata, temporanea e vitalizia, l’appropriazione diventerà dunque perpetua, trasmissibile e assoluta. E per meglio difendere l’inviolabilità della proprietà, i beni saranno per l’avvenire distinti in mobili e immobili, e saranno fatte leggi per regolare la trasmissione, l’alienazione e l’espropriazione degli uni e degli altri.

In riassunto: la costituzione dell’ipoteca col dominio, cioè con l’unione più intima dell’uomo alla terra; la costituzione della famiglia con la perpetuità e la trasmissibilità del monopolio; infine, la costituzione della rendita, come principio di eguaglianza fra le fortune; tali sono i motivi che, nella ragione collettiva, hanno determinato lo stabilimento della proprietà.

1° Il credito esige garanzie reali, tutti gli economisti sono d’accordo su questo punto. Per cui la necessità, per organizzare il credito, di formare l’ipoteca.

Ma la garanzia reale è nulla, se essa non è nello stesso tempo personale, credo di averlo sufficientemente spiegato. Per cui la necessità ancora, per sviluppare il credito, di cambiare il monopolio in proprietà. Nell’ordine delle evoluzioni economiche, la proprietà nasce dal credito, benché essa ne sia la previa condizione; come l’ipoteca viene in seguito del prestito benché sia la previa condizione del prestito. Questo è quel che Augier mi sembra avere voluto dire, allorché, nella conclusione sfortunatamente troppo breve del suo libro, si esprime in questi termini: “Non c’è ipoteca senza proprietà libera; di necessità non c’è credito reale senza proprietà. [...] I popoli in fatto di credito subiscono diverse prove nella formazione della loro ipoteca, e del genere di reddito che deve costituirne la base...”.

Difatti, fino al momento in cui il privilegiato, contraendo un prestito, viene a danneggiare la sua coltivazione, si può non vedere in lui che il padrone dei lavoratori posti sotto i suoi ordini, il gestore di una compagnia che agisce tanto a nome dei suoi collaboratori che in proprio, nel loro interesse, del pari che per la sua fortuna. Il monopolio è infeudato alla sua persona con privilegio sugli interessi del capitale e sui benefici ma senza garanzia di perpetuità e di trasmissibilità, e sotto condizione di prendere sempre attivamente e personalmente parte all’usufrutto. Per lui il diritto nella cosa non esiste nella sua pienezza; il capo d’uno stabilimento non potrebbe arrischiare e compromettere un materiale ancora macchiato di un certo carattere di comunità, senza essere colpevole, per lo meno nel foro interno; e questo perché egli non gode ancora che di un privilegio d’usufrutto, egli non ha la proprietà. Il monopolista infine è una specie di mandatario: la necessità del credito lo fa re.

Poteva darsi in effetti, che, impegnando gli strumenti di produzione, il privilegiato trattasse solo in qualità di contro-mastro, plenipotenziario di una piccola repubblica? No, certamente: una simile condizione, imposta al debitore, sarebbe stata una diminuzione dei suoi vantaggi, perché essa lo sottometteva ai subalterni; sarebbe stata una diminuzione del patto sociale, un retrocedere alla seconda fase.

Dunque, per il fatto solo che la società, forzata dal credito, ha riconosciuto nel monopolista il diritto di contrarre prestiti sull’ipoteca del suo monopolio senza rendere conto ai compagni di lavoro, lo ha reso proprietario. La proprietà è il postulato del credito, come il credito era stato il postulato del commercio e il monopolio il postulato della concorrenza. Nella pratica, tutte queste cose sono inseparabili e simultanee; ma nella teoria esse sono distinte e consecutive; e la proprietà non è il monopolio, come la macchina non è la divisione del lavoro, benché il monopolio sia quasi sempre e quasi di necessità accompagnato dalla proprietà, come la divisione suppone quasi sempre e quasi di necessità l’impiego delle macchine.

Gravi conseguenze dovevano risultare da questa nuova combinazione, tanto per la società che per l’individuo.

Dapprima, cambiando un titolo precario in un diritto perpetuo, la società ha dovuto contare, ed essa ha contato in effetti, dalla parte del proprietario, sopra un attaccamento più serio e più morale alla sua industria, sopra un amore più profondo e meglio ragionato del benessere; in seguito, sopra un’avidità meno grande di guadagno, sopra sentimenti d’umanità più profondi, sopra una poesia del luogo natale, un culto del patrimonio, che estendendosi ai lavoratori, riannoderebbero tutte le generazioni e costituirebbero la Patria. La patria ha la sua origine nella prosperità; così, i comunisti conseguenti, distruggendo la proprietà, lavorano con tutte le loro forze, nello stesso modo che gli economisti col libero commercio, a distruggere le differenze di razze, di lingua e di clima; essi non vogliono, gli uni e gli altri, più nazionalità, più patria. È così che le sette esclusive, malgrado la loro ostilità e il loro odio, in fondo sono sempre d’accordo: l’antagonismo delle opinioni non è che una commedia.

Dico dunque che, assicurando a perpetuità il monopolio al proprietario, la società lavorava nello stesso tempo alla sicurezza del proletario; facendo del capitale la sostanza stessa del possessore, si prometteva che tutti quelli che lavorassero con lui e per lui, li riguarderebbe non più come suoi compagni, ma come suoi figli. Figli! questo è il nome che nella lingua popolare il Capo dà a quelli ch’egli comanda; questo era, nella lingua primitiva, il nome comune di ciascun popolo: figli d’Israele, figli di Misraim, figli di Assur. Il proprietario, amministrando da buon padre di famiglia, si trovava così ad amministrare per il bene di tutti; l’interesse privato si confondeva con l’interesse sociale. In breve, la società, decretando la proprietà, pensò di organizzare, nobilitare il patriarcato. Persino l’eredità, modificata dalla volontà di vendere e di scambiare, fu una nuova garanzia di stabilità; così la monarchia ereditaria, espressione più alta del diritto di proprietà, escludendo le lotte dell’elezione, all’interno opponeva una barriera alla guerra civile, e all’esterno personificava il popolo.

Dalla parte dell’individuo il miglioramento non era meno sensibile.

Con la proprietà, l’uomo prende definitivamente possesso del suo dominio e si dichiara padrone della terra. Come già si è visto nella teoria della certezza, dalle profondità della coscienza, l’io si slancia e abbraccia il mondo; e in questa comunione dell’uomo e della natura, in questa specie di alienazione di se stesso, la sua personalità, lungi dall’affievolirsi, raddoppia di energia.

Nessuno ha più forza di carattere, è più previdente, più perseverante del proprietario. Come l’amore, che si può definire un’emissione dell’anima, che si accresce col possesso e che, più si espande, più abbonda; così, la proprietà aggiunge qualcosa all’essere umano, lo eleva in forza e in dignità. Ricco, nobile, barone, proprietario, signore o sire, tutti questi nomi sono sinonimi. Nella proprietà come nell’amore, possedere ed essere posseduto, l’attivo e il passivo, esprimono sempre la medesima cosa; l’uno non è possibile che per l’altro, ed è solo per questa reciprocità che l’uomo fino allora tenuto, da un’obbligazione unilaterale, e ora incatenato dal contratto sinallagmatico stipulato da lui con la natura, sente tutto ciò che è e ciò che vale, e gode della pienezza dell’esistenza. E tale è la rivoluzione che opera nel cuore dell’uomo la proprietà, che, lungi dal materializzare le sue affezioni, le spiritualizza: è allora ch’egli apprende a distinguere la nuda proprietà dall’usufrutto; il dominio eminente, trascendentale, dal semplice possesso; e questa distinzione alla quale il monopolio non poteva giungere è un passo di più verso l’affrancamento della specie e verso l’associazione, che consiste nell’unione delle volontà e nell’accordo dei princìpi, ben più che in una misera comunità di beni che opprime nello stesso tempo l’anima e il corpo.

La prova della proprietà è fatta, converrebbe smentire la storia intera per negarla. Noi dicevamo, parlando del credito, che la Rivoluzione francese era stata una sollevazione per la legge agraria; ora che è mai in fondo una legge agraria, se non una collazione di proprietà? Rendendo il popolo proprietario, in luogo e al posto di due caste divenute indegne e impotenti, la nazione si è procurato un patrimonio immenso che gli ha permesso di sopperire alle spese delle sue vittorie e di pagare le spese delle sue sconfitte. È ancora la proprietà che oggi sostiene la morale della nostra società e mette una barriera alla dissoluzione incessante dell’aggiotaggio. Il commerciante, l’industriale, il capitalista stesso, hanno sempre in vista la proprietà: è nella proprietà che tutti aspirano a riposarsi dalle fatiche della concorrenza e del monopolio...

2° Ma è soprattutto nella famiglia che si scopre il senso profondo della proprietà. La famiglia e la proprietà camminano di fronte, appoggiate l’una sull’altra, non avendo l’una e l’altra significato e valore che per il rapporto che le unisce.

Con la proprietà comincia la parte della donna. Il regime domestico, questa cosa tutta ideale e che invano si tenta di rendere ridicola, è il reame della donna, il monumento della famiglia. Togliete il regime domestico, togliete questa pietra del focolare, centro di attrazione degli sposi, avete delle coppie, non più famiglie. Vedete, nelle grandi città, le classi operaie cadere a poco a poco, per l’instabilità del domicilio, l’inanità del regime domestico, la mancanza di proprietà, nel concubinato e nella crapula! Degli esseri che non possiedono niente, che per nulla sentono interesse e vivono giorno per giorno, non potendosi assicurare nulla, hanno altro da fare che ammogliarsi; meglio vale non impegnarsi che impegnarsi sopra il niente. La classe operaia è dunque votata all’infamia; è ciò che esprimeva nel medioevo il diritto del signore, e presso i Romani l’interdizione del matrimonio ai proletari.

Ora, che cosa è il matrimonio, in rapporto alla società, se non nello stesso tempo il rudimento e la fortezza della proprietà?

Il matrimonio è la prima cosa che sogna la giovinetta; quelli che parlano tanto di attrazione e che vogliono abolire il matrimonio, dovrebbero prima spiegare questa depravazione dell’istinto del sesso. Per me, più ci penso, e meno posso rendermi conto, fuori della famiglia e del matrimonio, del destino della donna. Cortigiana o massaia (massaia dico, e non serva), non vedo via di mezzo: che cosa c’è di umiliante in questa alternativa? In che cosa la parte della donna, incaricata del governo della casa, di tutto ciò che ha rapporto al consumo e al risparmio, è essa inferiore a quella dell’uomo, la cui funzione propria è il comando nella fabbrica, cioè il governo della produzione e dello scambio?

L’uomo e la donna sono necessari l’uno all’altro come i due princìpi costitutivi del lavoro; il matrimonio, nella sua dualità, indissolubile, è l’incarnazione del dualismo economico, che si esprime, come è noto, con i termini generali di consumo e di produzione. È in questa veduta che sono state regolate le attitudini dei sessi, il lavoro per l’uno, la spesa per l’altro; e guai a ogni unione nella quale una delle parti manchi al suo dovere! La felicità che si erano promessa gli sposi si cambierà in dolore e in amarezza: che essi ne incolpino se stessi!...

Se non vi fossero che donne, vivrebbero insieme come una compagnia di tortorelle; se non vi fossero che uomini, non avrebbero alcuna ragione di elevarsi al disopra del monopolio e di rinunciare all’aggiotaggio; si vedrebbero tutti padroni o valletti, seduti al gioco o curvi sotto il giogo. Ma l’uomo è stato creato maschio e femmina, onde la necessità del matrimonio e della proprietà. Che i due sessi si uniscano e tosto da questa unione mistica, la più sorprendente di tutte le istituzioni umane, nasce, per un inconcepibile prodigio, la proprietà, la divisione del patrimonio comune in sovranità individuali.

Il regime domestico, ecco dunque per ogni donna, nell’ordine economico, il più desiderabile dei beni; la proprietà, la fabbrica, il lavoro per suo conto, ecco, con la donna, ciò che ogni uomo brama di più. Amore e matrimonio, lavoro e governo della famiglia, proprietà e domesticità. Che il lettore, in favore del senso, degni qui supplire alla lettera: tutti questi vocaboli sono equivalenti, tutte queste idee si chiariscono e creano per i futuri autori della famiglia una lunga prospettiva di felicità, come esse rivelano al filosofo tutto un sistema.

Su tutto ciò, il genere umano è unanime, meno s’intende il socialismo, che solo, nella divagazione delle sue idee, protesta contro l’unanimità del genere umano. Il socialismo vuole abolire il governo della famiglia, perché esso costa troppo caro; la famiglia, perché essa fa torto alla patria; la proprietà, perché essa pregiudica lo Stato. Il socialismo vuole cambiare la parte della donna; da regina che la società l’ha costituita, esso vuole farne una sacerdotessa di Cotytto. Io non entrerò in una discussione diretta delle idee socialiste a questo riguardo. Il socialismo, rispetto al matrimonio come relativamente all’associazione, non ha idee, e ogni critica si risolve in una confessione esplicita d’ignoranza, genere di argomentazione senza autorità e senza effetto.

Non è evidente, difatti, che se i socialisti credessero possibile, con l’aiuto dei mezzi conosciuti, dare l’agiatezza e anche il lusso a ogni famiglia, non si solleverebbero contro il regime domestico? che se essi potessero accordare i sentimenti civici con le affezioni domestiche, non condannerebbero la famiglia? che se avessero il segreto di rendere la ricchezza non solamente comune, ciò che è niente, ma universale, ciò che è tutt’altra cosa, lascerebbero i cittadini vivere in privato ovvero in comune, e non stancherebbero il pubblico con le loro querele sul governo della famiglia?

Per confessione dei socialisti, il regime domestico, la famiglia, la proprietà, sono cose che contribuiscono potentemente alla felicità; il solo rimprovero è che essi non sanno come accordare queste cose col bene generale. È questa una argomentazione seria? Come se essi potessero concludere partendo dalla loro particolare ignoranza contro lo sviluppo ulteriore delle istituzioni umane! Come se lo scopo del legislatore non fosse quello di realizzare per ciascuno, non di abolire, il matrimonio, la famiglia, la proprietà! Per non estendermi troppo, mi contenterò di trattare la questione sotto uno dei suoi principali aspetti, l’eredità. Noi generalizzeremo in seguito; ad uno disce omnes, come dice il poeta [Virgilio].

L’eredità è la speranza della casa, il contrafforte della famiglia, la ragione ultima della proprietà. Senza l’eredità, la proprietà non è che una parola, la parte della donna diventa un enigma. A che scopo, nel laboratorio comune, operai maschi e operai femmine? Perché questa distinzione di sessi, che Platone, correggendo la natura, tentava di fare sparire dalla sua repubblica? Come mai rendere ragione di questa duplicità dell’essere umano, immagine della dualità economica, vera superfetazione fuori del governo domestico e della famiglia?... Senza l’eredità non solo non vi sono più né sposi né spose, ma non vi sono più né antenati né discendenti. Che dico? non vi sono neanche collaterali, poiché, malgrado la sublime metafora della fraternità cittadina, è chiaro che se tutti quanti sono miei fratelli, io non ho più fratelli. Allora l’uomo isolato in mezzo ai suoi compagni sentirebbe il peso della sua triste individualità, e la società, priva di legamenti e di visceri per la dissoluzione delle famiglie e la confusione dei laboratori, simile a una mummia disseccata, cadrebbe in polvere... Ma il socialismo ha molto coraggio, non si spaventa per così poco. Louis Blanc, semi-socialista, che vuole la famiglia senza l’eredità, come il socialismo puro vuole l’umanità senza la patria e senza la famiglia, esclama nella sua Organizzazione del lavoro: “La famiglia viene da Dio, l’eredità viene dagli uomini!”.

Questo non prova con sicurezza che la famiglia sia migliore né l’eredità peggiore. Ma tutti ormai conoscono lo stile di Blanc. I suoi perpetui richiami in favore della divinità non sono che un superlativo poetico, come si dice in lingua ebraica del pane degli dèi per il pane d’orzo. Questo, è, del resto, ciò che Blanc dà chiaramente ad intendere: “La famiglia è, come Dio, santa e immortale; l’eredità è destinata a seguire la stessa china delle società che si trasformano e degli uomini che muoiono”.

Paragone, antitesi, periodo di quattro elementi, eleganza di giro, niente vi manca, all’infuori dell’idea che, io sono mortificato, è per l’appunto contro il senso comune.

Poiché gli uomini muoiono e le società si trasformano, l’eredità è necessaria; poiché la famiglia non deve mai perire, al movimento che porta via incessantemente le generazioni conviene opporre un principio di immortalità che le sostenga.

Che diventerebbe la famiglia se fosse senza tregua divisa dalla morte, se ogni mattina dovesse ricostituirsi perché niente ricollegherebbe il padre ai figli? Ciò che vi urta nell’eredità io lo vedo; l’eredità, secondo voi, non serve che a mantenere l’ineguaglianza. Ma l’ineguaglianza non viene dall’eredità, essa risulta dai conflitti economici. L’eredità prende le cose come le trova: create l’uguaglianza e l’eredità vi renderà l’uguaglianza.

Il sansimonismo aveva visto la connessione dell’eredità con la famiglia e proscrisse l’una e l’altra. La democrazia avanzata, che non osa dichiararsi né socialista né comunista, ha creduto dare prova di genio separando l’eredità dalla famiglia, il mezzo dal fine, e gettandosi in un eclettismo tanto puerile quanto quello del Governo di cui si beffa. Ed è curioso vedere Blanc pavoneggiarsi di una così bella scoperta.

Si era detto ai sansimoniani: senza eredità, non c’è famiglia. Essi risposero: bene! distruggiamo la famiglia e l’eredità. I sansimoniani e i loro avversari si ingannarono ugualmente in senso inverso. La verità è che la famiglia è un fatto naturale che, in qualsiasi ipotesi, non potrebbe essere distrutta, mentre l’eredità è una convenzione sociale che i progressi della società possono fare sparire.

Costoro s’ingannano tutti: quelli che vedono nella famiglia e nell’eredità che la protegge un ostacolo all’associazione, e quelli che s’immaginano che una convenzione sociale così spontanea, così universale come l’eredità non sia un fatto naturale. I democratici, grandi parlatori di cose divine, grandi amatori di Requiem, non paiono intendere che ciò che esce dalla coscienza umana è così naturale come la coabitazione e la generazione; la natura, per essi, è la materia. A crederli, l’umanità, obbedendo alla spontaneità delle sue inclinazioni, ha deviato dalla natura e conviene ricondurvela. E come? Con fatti naturali? No, i democratici non si piccano di essere così conseguenti; ma per via di convenzioni. Cosa c’è di più convenzionale del sistema di manomorta, che i democratici pensano di sostituire all’eredità?

“Si può rendere conto delle cause che hanno fatto sin qui guardare come assolutamente connesse la questione della famiglia e quella dell’eredità? Che nell’attuale ordine sociale l’eredità sia inseparabile dalla famiglia, nessuno ne dubita. E la ragione sta precisamente nel vizio di questo ordine sociale che noi combattiamo. Se un giovane esce dalla famiglia per entrare nel mondo, e vi si presenta senza fortuna e senza altra raccomandazione che il suo merito, mille contrarietà l’attendono: a ogni passo troverà ostacoli, la sua vita passerà in seno a una lotta perpetua e terribile, nella quale egli forse trionferà, ma vi corre anche grande pericolo di soccombere. Ecco ciò che l’amore paterno è obbligato a prevedere... Ebbene! se l’amore paterno cessa di provvedere a questo, chi vi provvederà? Tocca, dicono i democratici, a quell’essere invisibile, impalpabile, immortale, onnipotente, capacissimo, sacrissimo, che risponde di tutto: allo Stato. Cambiate il centro in cui noi viviamo; fate che ogni individuo che si presenta alla società per servirla sia certo di trovarvi il libero uso delle sue facoltà e il mezzo di entrare in partecipazione del lavoro collettivo; la previdenza paterna è, in questo caso, sostituita dalla previdenza sociale. E questo è ciò che deve essere: il bambino, la protezione della famiglia; la protezione della società per l’uomo”.

Sì, cambiate..., fate che..., sostituite la previdenza sociale alla previdenza paterna. Se io non vi avessi letto, vi attenderei all’opera. Che disgrazia che non possiate sostituire ancora il lavoro degli individui col lavoro dello Stato. Che calamità che lo Stato non possa, in luogo dei privati, maritarsi, fare bambini, nutrirli e provvederli! Ma che dico io? il lavoro libero e la produzione di ragazzi nati dalle coppie non sono cose naturali, e l’eredità cosa di convenzione?

Ma che risponderete a questo padre che dice: quando faccio il mio testamento, non lo faccio solo per i miei eredi, lo faccio anche per me. L’atto della mia ultima volontà è una forma per la quale io continuo a godere dei miei beni dopo che ho cessato di vivere, una maniera di restare nella società che lascio, un prolungamento del mio essere fra gli uomini. È il legame di solidarietà che mi unisce ai miei figli, che rende comuni fra noi le affezioni e le obbligazioni. Voi mi vantate la vostra previdenza, in cambio della quale mi chiedete i miei beni. Io conto più sopra me stesso che sopra un procuratore. Voi avete troppo da fare per pensare a tutto e in tempo utile; per altro, io non vi conosco. Chi siete dunque voi che vi chiamate lo Stato? chi vi ha visto? dove state? quali garanzie sono le vostre? Ah! somigliate al Dio dei vostri preti, promettete il cielo a condizione che vi si dia la terra. Mostratevi dunque finalmente, mostratevi una volta nella vostra saggezza e nella vostra potenza!

L’abolizione dell’eredità procede, come tutte le stravaganze repubblicane, da quella ideologia assurda che consiste nel sostituire dappertutto all’azione libera dell’uomo la forza d’iniziativa del potere, all’essere reale un essere di ragione, alla vita e alla libertà una chimera la cui triste influenza è stata la causa di quasi tutte le calamità sociali.

“L’abuso delle successioni collaterali è universalmente riconosciuto, continua Blanc; queste successioni saranno abolite, e i valori che le compongono dichiarati proprietà comunali”. Ma, per abolire le successioni collaterali, conviene cominciare con l’abolire la proprietà: senza questo vi sfido a toccare le successioni con laterali. Difenderete i fìdecommessi, i fondi perduti, i diritti di riscatto, le dotazioni? Avrò la facoltà di lasciare il fatto mio a tutti quanti, cioè a dire allo Stato, e non potrei darlo a qualcuno? Mi sarà permesso di lavorare, di fare dei risparmi, di formare dei capitali, di acquistare degli immobili, di goderne ad esclusione di qualsiasi altro; e quando si tratterà per me di disporne, di accrescere il mio benessere costituendomi una famiglia di adozione invece di una famiglia naturale che non ho, non sarò padrone di niente? A che dunque mi servirà l’essere proprietario? Siete voi comunisti? osate dirlo; non tergiversate; non stancateci più con le vostre finzioni di divinità, di repubblica e di Governo, grandi parole che non sono che pleonasmi nella vostra prosa poetica e lusinghe per gli imbecilli. Il povero che oggi non ha niente da lasciare ai suoi figli, il povero ha una famiglia? Se ne ha una, la famiglia, nell’impuro ambiente in cui siamo, può dunque, fino a un certo punto, esistere senza l’eredità. Se non ne ha, giustificate le vostre istituzioni. E affrettatevi...; la famiglia non dovrebbe essere un privilegio...”.

Declamazione! L’eredità esiste nella famiglia del povero come in quella del ricco: questo diritto, sacro e inalienabile, il proletario l’ha definitivamente acquistato nella nostra grande rivoluzione, e l’ha opposto, come una barriera insormontabile, alle depredazioni della nobiltà. Così, in altri tempi il plebeo di Roma si liberò dalla tirannia del patrizio ottenendo il ius connubii, il diritto di famiglia, riservato da lungo tempo ai soli nobili. Ciò che manca al povero non è più l’eredità, è il retaggio. Invece di abolire l’eredità, pensate piuttosto a fare cessare il diseredamento. Siete voi stessi che lo dite, la famiglia non dovrebbe essere un privilegio. Ed è per questo che il diritto di famiglia è universale, non comune; che l’eredità è necessaria, e per conseguenza il retaggio. Proscrivere l’eredità perché essa non è ancora effettiva per tutti quanti, è un ragionare in un senso materialista e contro-rivoluzionario; è come se si condannasse la Francia a non mangiare che patate e bere acqua per compassione della disgraziata Irlanda.

“Conducete la famiglia fino all’eredità: vedete subito fra l’interesse sociale e l’interesse domestico aprirsi un abisso...”.

Ma, ancora una volta, da dove viene questo antagonismo? È dall’eredità in se stessa, o dall’ineguaglianza dei retaggi? – Con l’eredità, dite voi, il retaggio non può essere a lungo e, a più forte ragione, non può diventare una realtà per tutti quanti. – Chi ve l’ha detto? Che ne sapete se l’eredità, come la proprietà, il monopolio e la concorrenza non potrebbe essere rivolta dal lavoro contro il capitale, dopo aver servito così lungamente il capitale contro il lavoro? Ma voi avete sì poca intelligenza delle contraddizioni economiche che non vi verrà l’idea di fare loro produrre, combattendole l’una con l’altra, risultati opposti a quelli che danno oggi; anzi, ogni vostra ideologia tende a cancellarli. Cancellare dalla scienza sociale i princìpi della società, togliere dalla civiltà gli organi civilizzatori, tale è dunque la vostra fiosofia! Così i democratici non guarderanno tanto per il sottile; i socialisti saranno lietissimi delle condizioni che avrete loro fatte, la stampa patriottica celebrerà la vostra eloquenza, e tutto andrà per il meglio nella più saggia delle democrazie possibili.

I socialisti temperati attaccano il diritto di successione, perché essi non sanno farne un mezzo conservatore dell’eguaglianza; i fourieristi e i sansimoniani attaccano la famiglia perché i loro sistemi sono incompatibili con l’industria privata, la vita interiore e il libero scambio; i comunisti attaccano la proprietà, perché essi ignorano che la proprietà cesserà di essere abusiva con la mutualità dei servizi. Confessione d’ignoranza! tale è l’argomento di tutte queste sette pretese riformatrici, argomento che porta in sé la sua confutazione e basta solo a disgustarci delle prediche umanitarie.

3° Garantito il credito, costituita la famiglia, accordato a tutti il diritto di successione, restava dunque da distribuire la proprietà, affinché ciascuno potesse, a sua volta, diventare capo di famiglia, e nessuno fosse sprovvisto di retaggio. Ma come dividere la terra? come limitare i lotti? come conservare l’uguaglianza dei retaggi? La terra basterà essa a tanti patrimoni? oppure sarà riservata al coltivatore, e l’industriale, l’improduttivo, il commerciante, ecc., saranno esclusi dalla proprietà? Come si faranno le mutazioni, i compensi, le liquidazioni? come si regolerà il lavoro? come la divisione dei frutti? ecc.

È evidente, le questioni economiche si riproducono tutte nella proprietà.

Ed è a tutte queste questioni, così spaventose per il loro numero, la loro profondità, le loro difficoltà, i loro immensi particolari, che la società risponde con questa parola: la rendita.

Al fine di non lasciare alcun dubbio nello spirito del lettore, procederò, per la rendita, come ho fatto per l’imposta. Farò vedere che l’idea organica rinchiusa nella costituzione della rendita, si sviluppa in tre momenti consecutivi, di cui l’ultimo, necessariamente legato ai due altri, si risolve in un’operazione di livellamento.

E dapprima, che cosa è la rendita?

La rendita, noi abbiamo detto al Capitolo VI, ha la più grande affinità con l’interesse. Tuttavia ne differisce essenzialmente in quanto l’interesse ha riferimento ai capitali nati dal lavoro e accumulati col risparmio, mentre che la rendita cade sulla terra, materia universale del lavoro, substratum primordiale d’ogni valore.

È proprio del capitale di rendere un interesse per un tempo sufficiente a ricostituirlo con beneficio; la progressione decrescente dell’interesse, all’infuori d’ogni dimostrazione teorica, l’attesta sufficientemente. Così, allorché il capitale è raro, e l’ipoteca è senza valore e senza garanzia, l’interesse è perpetuo, e portato qualche volta a un tasso esorbitante. A misura che il capitale abbonda, l’interesse diminuisce; ma siccome esso non può mai sparire, come non può accadere che il prestito di denaro divenga un semplice scambio, nel quali tutti i pericoli sarebbero per i capitalisti e i benefici per colui che prende a prestito, l’interesse, arrivato a un certo limite, cessa di decrescere e si trasforma. Da rendita perpetua che era, diventa rimborso con premio eseguito ad annualità, ed è allora che l’interesse rientra nella parte che gli assegna la teoria.

Se dunque il capitale o l’oggetto prestato si consuma o perisce per l’uso che se ne fa, come accade per il frumento, il vino, il denaro, ecc., l’interesse si estinguerà con l’ultima annualità; se, al contrario, il capitale non perisce, l’interesse sarà perpetuo.

La rendita è l’interesse pagato per un capitale che non perisce mai, cioè la terra. E siccome questo capitale non è suscettibile di alcun aumento quanto alla materia, ma solo di un miglioramento indefinito quanto all’uso, accade che, mentre l’interesse o il beneficio del prestito (mutuum) tende senza posa a diminuire per l’abbondanza dei capitali, la rendita tende ad aumentare sempre per il perfezionamento dell’industria da cui risulta il miglioramento nell’uso della terra. Da dove segue, in ultima analisi, che l’interesse si commisuri all’importanza del capitale, mentre, relativamente alla terra, la proprietà si stima dalla rendita.

Tale è, nella sua essenza, la rendita; si tratta di studiarla nella sua destinazione e nei suoi motivi.

Al punto di partenza dell’istituzione, la rendita è l’onorario della proprietà, è l’utile pagato al proprietario per la gestione che gli conferisce il suo nuovo diritto. Non ritornerò su quello che ho già detto nel primo numero di questo paragrafo, trattando della necessità in cui si è trovata la società, nell’interesse del lavoro e del credito, di cambiare la condizione del privilegiato. Mi limito a ricordare che, alla settima epoca dell’evoluzione economica, la finzione avendo fatto svanire la realtà e l’attività umana minacciando di perdersi nel vuoto, era diventato necessario attaccare più fortemente l’uomo alla natura; ora, la rendita è stata il prezzo di questo nuovo contratto. Senza di essa la proprietà non sarebbe che un titolo nominale, una distinzione puramente onorifica; ora, la ragione sovrana che guida la civiltà non fa uso di questa molla dell’amor proprio; essa paga, salda le sue promesse, non con parole, ma con realtà. Nelle previsioni del destino, il proprietario compie la più importante funzione dell’organismo sociale: è un centro di azione attorno a cui gravitano, si aggruppano e si riparano quelli ch’egli chiama a fare valere la sua proprietà, e che, da salariati insolenti e gelosi devono diventare suoi figli.

Del resto, bisogna dirlo, anche se poco gradito, è costume farsi generalmente delle grandi illusioni sulla felicità e sicurezza di quelli che possiedono rendite, comparativamente al benessere di cui godono le classi lavoratrici. L’operaio a 30 soldi al giorno che vede passare la vettura del proprietario ricco di 100.000 franchi di rendita, non può fare a meno di credere che un tal uomo sia cento volte più felice di lui. Non si vede nella rendita che un mezzo per vivere senza lavoro e procurarsi tutte le felicità, e si applaude alla morale dei grandi che si fanno una specie di dovere sociale di spendere tutte le loro rendite. Di là, presso l’uomo del popolo, un principio di gelosia e di odio tanto ingiusto quanto immorale, e una causa attiva di depravazione e di scoraggiamento.

Pertanto, per chi guarda le cose dall’alto e nella loro verità inflessibile, il redditiere, in una società in via d’organizzazione, non è altra cosa che il custode delle economie sociali, il curatore dei capitali formati dalla rendita. Secondo la teoria che ogni lavoro deve lasciare dopo di sé un eccedente destinato in parte ad aumentare il benessere del produttore, in parte a migliorare il fondo produttivo, il capitale può definirsi un’estensione grazie al lavoro dei domini che ci ha dato la natura. La terra utilizzabile è rinchiusa in stretti limiti; il globo intero ci appare già come una gabbia in cui siamo trattenuti, senza sapere perché; una certa quantità di mezzi e di materiali ci sono dati, tramite i quali possiamo abbellire, estendere, riscaldare e rendere sana la nostra stretta abitazione. Ogni formazione di capitale equivale dunque per noi alla conquista di un terreno; ora, il proprietario, come capo spedizione, è il primo che approfitta della ventura. Insomma, malgrado le immense perdite di capitali che accadono per l’imprevidenza, la dappocaggine e il disordine dei detentori, è così che le cose si fanno nella società; la grande maggioranza delle rendite è impiegata a nuove utilizzazioni. La Francia spende due miliardi in canali e ferrovie; è come se essa aggiungesse al suo territorio la metà di un dipartimento. Di dove viene questa estensione meravigliosa? dal risparmio collettivo, dalla rendita.

Non serve a niente citare qualche esempio di fortune colossali le cui rendite sono consumate improduttivamente dai titolari, e che scompaiono per altro davanti alla massa delle fortune più piccole; questi esempi, il cui scandalo rivolta il lavoro e fa mormorare l’indigenza, ma la cui punizione si fa raramente attendere, confermano la teoria. Il proprietario che, disconoscendo la sua missione, vive solamente per distruggere senza prendere alcuna parte alla gestione dei propri beni, non tarda a pentirsi della sua indolenza; siccome non mette niente da parte, presto prende a prestito, si indebita, perde la proprietà e cade a sua volta nella miseria.

La Provvidenza oltraggiata si vendica alla fine in una maniera crudele. Ho visto fortune farsi e altre disfarsi, e ho sempre osservato che un lavoro quasi altrettanto difficile occorre per conservare la proprietà, che per acquistarla; che questa conservazione implica astinenza ed economia, e che in definitiva, la sorte del proprietario buon amministratore, saggio, economo non è al disopra di quella del lavorante che, a parità di reddito, dimostra lo stesso spirito di previdenza e d’ordine. Consumo integrale della rendita e conservazione della proprietà sono cose che si escludono; per conservare, il proprietario è obbligato a risparmiare, capitalizzare, estendersi, cioè fornire sempre più spazio e latitudine al lavoro, in altri termini, rendergli in capitali ciò che ne riceve in prodotti. Nelle previsioni del legislatore il proprietario non è più degno d’invidia che di pietà, e l’uomo che sa rendersi utile, che comprende come il lavoro faccia parte integrante del nostro benessere, e ogni consumo abusivo e disordinato conduce in seguito dolore e rimorsi, che vede la proprietà, passando di mano in mano, compiere la sua legge senza riguardo per il proprietario, che essa uccide appena le si mostri infedele; questo uomo, dico, se non considera in sé che il consumatore, e s’egli non aspira che alla giustizia, non desidera e neanche compiange la proprietà.

È il cattivo uso della rendita che, ben più che i barbari, ha rovinato la società romana e spopolato l’Italia.

È questo abuso che ha preparato nel Medioevo la spoliazione della nobiltà, di cui il credito fu quindi lo strumento. È ancora la medesima non intelligenza della proprietà che causa tutti i giorni tante rovine e trasporta incessantemente da uno all’altro la proprietà. Così, dal primo momento della sua evoluzione, la teoria della rendita acquista una certezza matematica, ineluttabile: la legge è imperiosa, guai a chi non sa riconoscerla!

La rendita, come l’eredità, è fondata in ragione e in diritto; essa non è un privilegio che bisogna pensare a distruggere, è una funzione che si tratta di rendere universale. Gli abusi di consumo che le si rimproverano e di cui non è che il mezzo, non possono esserle attribuiti: essi vengono dal libero arbitrio dell’uomo e cadono sotto il biasimo del moralista; l’economia sociale non se ne deve occupare. Il disordine qui accusa l’uomo, l’istituzione è irreprensibile.

Qui tocchiamo il secondo aspetto della questione.

Se la rendita è l’onorario della proprietà, è un’esazione sulla coltura; conferendo una retribuzione senza lavoro, essa deroga a tutti i princìpi dell’economia sociale sulla produzione, sulla ripartizione e sullo scambio.

L’origine della rendita come della proprietà è, per così dire, extraeconomica: essa poggia sopra considerazioni di psicologia e di morale, che non concernono la produzione della ricchezza; è un ponte gettato su di un altro mondo in favore del proprietario e sul quale è proibito al colono di seguirlo. Il proprietario è un semi-dio, il colono non è altro che un uomo.

È là, cioè in questa opposizione logica, come noi dimostreremo più tardi, il vero abuso! La contraddizione inerente alla proprietà. Ma, come già abbiamo appreso, questa contraddizione è l’annuncio di una prossima conciliazione, ed è ciò che stiamo per provare anticipando di un periodo o due sulla storia e facendo immediatamente conoscere il destino ulteriore della rendita.

Poiché, nella aggiudicazione fatta al proprietario dalla società, di un reddito perpetuo, l’interesse del padrone è in senso inverso di quello del fittavolo, nello stesso modo che il valore dello scambio è in senso inverso del valore utile, ne segue che la rendita da pagare al proprietario si stabilisce, con una serie di oscillazioni, in una formula d’equilibrio. Che cos’è che dal punto di vista elevato dell’istituzione il fittavolo deve al proprietario? Quale deve essere la quota della rendita? Appare già che il problema della rendita è pur sempre, sotto una forma nuova, il problema del valore.

La teoria di Ricardo risponde a questa questione.

All’inizio della società, quando l’uomo, nuovo sulla terra, non aveva davanti a sé che l’immensità delle foreste, e la terra era vasta e l’industria cominciava a nascere, il reddito doveva essere nullo.

La terra, non ancora abbellita dal lavoro, era un oggetto d’utilità; non era ancora un valore di scambio. Era comune, non sociale. A poco a poco la moltiplicazione delle famiglie e il progresso dell’agricoltura fecero sentire il pregio della terra. Il lavoro venne a dare al suolo il suo valore: di là nacque la rendita. Quanto più, con la stessa quantità di servizi, un campo potè rendere in frutti, tanto più fu stimato; così la tendenza dei proprietari fu sempre quella di attribuirsi la totalità dei prodotti del suolo, meno il salario del fittavolo, cioè meno le spese di produzione.

Dunque la proprietà viene dopo il lavoro per levargli tutto ciò che nel prodotto sorpassa le spese reali. Il proprietario adempiendo un dovere mistico e, rappresentando in faccia al colono la comunità, il fittavolo altro non è più, nelle previsioni della Provvidenza, che un lavoratore responsabile che deve rendere conto alla società di tutto ciò che raccoglie in più del suo salario legittimo; e i sistemi di affitto e di mezzadria, contratti di soccida, contratti enfiteutici, ecc., sono le forme oscillatorie del contratto che si stipula a nome della società fra il proprietario e il fittavolo. La rendita, come tutti i valori, è soggetta all’offerta e alla domanda; ma, come pure tutti i valori, la rendita ha la sua misura esatta, la quale è espressa a beneficio del proprietario e a pregiudizio del lavoratore, della totalità del prodotto fatta deduzione delle spese di produzione.

Per essenza e destinazione, la rendita è dunque uno strumento di giustizia distributiva, uno dei mille mezzi che il genio economico mette in opera per giungere all’eguaglianza. È un immenso catasto eseguito contraddittoriamente da proprietari e fittavoli, senza collisione possibile, in un interesse superiore, e il cui risultato definitivo deve essere d’eguagliare il possesso della terra fra i coltivatori del suolo e gli industriali. La rendita, in una parola, è quella legge agraria tanto desiderata, che deve rendere tutti i lavoratori, tutti gli uomini, possessori eguali della terra e dei suoi frutti. Ci bisognava questa magia della proprietà per prendere al colono l’eccedenza del prodotto ch’egli non può fare a meno di considerare come suo, e di cui si crede esclusivamente l’autore.

La rendita, o per meglio dire la proprietà, ha schiacciato l’egoismo agricolo e creata una solidarietà che nessuna potenza, nessuna divisione della terra mai avrebbe fatto nascere. Con la proprietà, l’eguaglianza fra tutti gli uomini diventa definitivamente possibile; la rendita operando fra gli individui come la dogana fra le nazioni, tutte le cause, tutti i pretesti di ineguaglianza scompaiono, e la società non aspetta altro che la leva destinata a dare l’impulso a questo movimento. Come al proprietario mitologico succederà il proprietario autentico? Come distruggendo la proprietà, gli uomini diventeranno tutti proprietari? Tale è d’ora in poi la questione da risolvere, una questione insolubile senza la rendita.

Il genio sociale non procede come gli ideologi e con sterili astrazioni; non si dà pensiero né di interessi dinastici né di ragione di Stato né di diritti elettorali né di teorie rappresentative né di sentimenti umanitari o patriottici. Personifica o realizza sempre le sue idee: il suo sistema si sviluppa in una sequela d’incarnazioni e di fatti, e per costituire la società, s’indirizza sempre all’individuo.

Dopo la grande epoca del credito, conveniva riattaccare l’uomo alla terra; il genio sociale istituisce la proprietà. Dopo si trattava di eseguire il catasto del globo; invece di pubblicare a suon di tromba un’operazione collettiva, mette alle prese gli interessi individuali, e dalla guerra del colono e dell’uomo di rendita risulta per la società il più imparziale arbitrato. Oggi, ottenuto l’effetto morale della proprietà, resta da fare la distribuzione della rendita. Guardatevi dal convocare assemblee primarie, dal chiamare i vostri oratori e i vostri tribuni, dal rinforzare la vostra politica e, con questo apparecchio dittatoriale, spaventare il mondo. Una semplice mutualità di cambio, aiutata da qualche combinazione di banca, basterà... Per i grandi effetti i più semplici mezzi; questa è la legge suprema della società e della natura.

La proprietà è il monopolio elevato alla seconda potenza; è, come il monopolio, un fatto spontaneo, necessario, universale. Ma la proprietà ha il favore dell’opinione pubblica, mentre il monopolio è guardato con disprezzo; noi possiamo inferire, da questo nuovo esempio, che come la società si stabilisce con la lotta, nello stesso modo la scienza non cammina che spinta dalla controversia. È così che la concorrenza è stata di volta in volta esaltata e maltrattata; che l’imposta, riconosciuta necessaria dagli economisti, è sgradita agli economisti; che la bilancia del commercio, le macchine, la divisione del lavoro, hanno eccitato di volta in volta l’approvazione e la maledizione pubblica. La proprietà è sacra, il monopolio è riprovevole: quanto vedremo la fine dei nostri pregiudizi e delle nostre inconseguenze?

3. – Come la proprietà si depravi

Con la proprietà, la società ha realizzato un pensiero utile, leale, per altro fatale: ora voglio provare che, obbedendo a una necessità invincibile, essa si è gettata in una ipotesi impossibile. Credo di non avere dimenticato o rimpicciolito nessuno dei motivi che hanno presieduto allo stabilimento della proprietà; oso anzi dire, che ho dato a questi motivi un insieme e un’evidenza fino a questo momento sconosciuti. Che il lettore supplisca, del resto, a ciò che involontariamente avrò potuto omettere: accetto anticipatamente tutte le sue ragioni, e non mi propongo in nessun modo di contraddirvi.

Ma che in seguito mi dica, con la mano sopra la coscienza, ciò che può replicare alla controprova che vado a fare.

Senza dubbio la ragione collettiva, obbedendo all’ordine del destino che gli prescriveva, con una serie di istituzioni provvidenziali, di consolidare il monopolio, ha fatto il suo dovere: la sua condotta è irreprensibile, e io non l’accuso. È il trionfo dell’umanità sapere riconoscere ciò che c’è in essa di fatale, come il più grande sforzo della sua virtù e di sapervisi sottomettere. Se dunque la ragione collettiva, istituendo la proprietà, ha eseguito il suo compito, essa non merita biasimo; la sua responsabilità è al coperto. Ma questa proprietà, che la società, forzata e costretta, se oso così dire, ha messo alla luce, chi ci garantisce che durerà? Certo la società non l’ha concepita dall’alto, e non ha potuto aggiungervi, levare o modificare nulla. Conferendola all’uomo, ha lasciato alla proprietà le sue qualità e i suoi errori, non ha preso alcuna precauzione né contro i suoi vizi costitutivi né contro le forze superiori che possono distruggerla. Se la proprietà in se stessa è corruttibile, la società non ne sa niente, e non vi può fare niente. Se questa proprietà è esposta ad attacchi di un principio più potente, la società non può nulla. Come mai, in effetti, la società rimedierà al vizio della proprietà, poiché la proprietà è figlia del destino? e come mai la proteggerebbe contro una idea più alta, quando essa stessa non sussiste che per la proprietà, né conosce niente al disopra della proprietà? Ecco dunque qual è la teoria proprietaria.

La proprietà è, di necessità, provvidenziale; la ragione collettiva l’ha ricevuta da Dio e l’ha data all’uomo. Se frattanto la proprietà è corruttibile per sua natura, o attaccabile da una forza maggiore, la società è irresponsabile; e chiunque, armato di questa forza, si presenterà per combattere la proprietà, la società gli deve sottomissione e obbedienza.

Si tratta dunque di sapere, primo, se la proprietà sia in sé cosa corruttibile e che dia presa alla distruzione; in secondo luogo se mai esiste in qualche parte, nell’arsenale economico, uno strumento che la possa vincere.

Tratterò la prima questione in questo paragrafo; cercheremo ulteriormente il nemico che minaccia d’inghiottire la proprietà. La proprietà è il diritto d’usare e di abusare, in una parola, il dispotismo. Non che il despota abbia l’intenzione di distruggere la cosa, non è ciò che si deve intendere per diritto d’usare e di abusare. La distruzione per la distruzione non si presuppone da parte del proprietario, si ammette sempre, qualunque uso faccia del suo bene, che vi sia un motivo di convenienza e di utilità.

Parlando di abuso, il legislatore ha voluto dire che il proprietario ha il diritto di sbagliarsi nell’uso dei suoi beni, senza che possa mai essere molestato per questo cattivo uso, senza che sia responsabile del suo errore. Il proprietario è sempre tenuto ad agire nel suo maggiore interesse; e appunto allo scopo di lasciargli maggiore libertà nel perseguimento di questo interesse, la società gli ha conferito il diritto di usare e di abusare del suo monopolio. Sin là dunque il diritto di proprietà è irreprensibile.

Ma ricordiamoci che questo diritto non è stato concesso solo riguardo all’individuo; nell’esposizione dei motivi della concessione esistono delle considerazioni tutte sociali; il contratto è sinallagmatico fra la società e l’uomo. Questo è talmente vero, talmente dichiarato anche dai proprietari, che ogni qualvolta si viene ad attaccare il loro privilegio è in nome, e solamente in nome della società che essi lo difendono. Ora, il dispotismo proprietario dà soddisfazione alla società? In caso contrario, essendo illusoria la reciprocità, il patto sarebbe nullo, e prima o poi, o la proprietà o la società perirebbero. Reitero dunque la mia domanda. Il dispotismo proprietario adempie al suo obbligo verso la società? Il dispotismo proprietario usa da buon padre di famiglia? È egli, per sua essenza, giusto, sociale, umano? Ecco la questione. Ed ecco che rispondo senza temere smentita.

Se è indubitabile, dal punto di vista della libertà individuale, che la concessione della proprietà sia necessaria, dal punto di vista giuridico la concessione della proprietà è radicalmente nulla, perché implica dalla parte del concessionario certi obblighi che è in sua facoltà compiere o non compiere.

Ora, in virtù del principio che ogni convenzione fondata sull’adempimento di una condizione non obbligatoria non obbliga, il contratto tacito di proprietà, passato fra il privilegiato e lo Stato, ai fini che abbiamo precedentemente stabiliti, è manifestamente illusorio; esso si annulla per la non-reciprocità, per la lesione di una delle parti. E siccome, in fatto di proprietà, l’adempimento dell’obbligazione non può essere esigibile senza che la concessione stessa sia per ciò solo revocata, ne segue che c’è contraddizione nella definizione e incoerenza nel patto. Se i contraenti si ostinassero a mantenere il patto, la forza delle cose s’incaricherebbe di provare loro che fanno opera inutile: malgrado tutto, la fatalità del loro antagonismo riconduce fra essi la discordia.

Tutti gli economisti segnalano gli inconvenienti che ha per la produzione agricola lo sminuzzamento del territorio. D’accordo in questo con i socialisti, essi vedrebbero con gioia una coltivazione in grande che, operando sopra una larga scala, applicando i processi potenti dell’arte, e facendo importanti economie sopra il materiale, raddoppierebbe, quadruplicherebbe forse il prodotto. Ma il proprietario esclama: Veto, io non voglio. E siccome è nel suo diritto, siccome nessuno al mondo conosce il mezzo di cambiare questo diritto altrimenti che con l’espropriazione, e l’espropriazione è il niente, il legislatore, l’economista, il proletario, retrocedono con orrore davanti all’ignoto, e si contentano di salutare da lontano le messi auspicate. Il proprietario è, per carattere, invidioso del bene pubblico; non potrebbe purgarsi da questo vizio che perdendo la proprietà.

La proprietà è dunque un ostacolo al lavoro e alla ricchezza, un ostacolo all’economia sociale; solo gli economisti e i legulei si meravigliano di ciò. Io cerco come potrei farlo entrare nella loro testa in un solo colpo, senza frasi... Non è forse vero che siamo poveri, avendo ciascuno soltanto 56 centesimi e mezzo da spendere al giorno?

– Sì, questa è la risposta di Chevalier.

Non è vero che un migliore sistema agricolo economizzerebbe nove decimi sulle spese di materiale, e darebbe quadruplo prodotto? – Sì, è la risposta di [Arthur] Young.

Non è vero che vi sono in Francia 6 milioni di proprietari, 11 milioni di quote fondiarie, e 103 milioni di parcelle di terreno? – Sì è la risposta di Dunoyer.

Dunque mancano 6 milioni di proprietari, 11 milioni di quote fondiarie e 123 milioni di parcelle; per fare in modo che l’ordine regni nell’agricoltura, e invece di 56 centesimi e mezzo per testa e al giorno avere 2 franchi e 25 centesimi, ciò che ci renderebbe tutti ricchi.

E perché questi 140 milioni di opposizioni alla ricchezza pubblica? Perché l’accordo nel lavoro distruggerebbe l’incanto della proprietà; perché fuori della proprietà il nostro occhio non ha visto niente, il nostro orecchio niente inteso, il nostro cuore niente compreso; perché infine noi siamo proprietari.

Supponiamo che il proprietario, per una liberalità cavalleresca, ceda all’invito della scienza, permetta al lavoro di migliorare e di moltiplicare i suoi prodotti. Un bene immenso ne risulterà per i giornalieri e i campagnoli, le cui fatiche, ridotte alla metà, si troveranno ancora, per l’abbassamento del prezzo delle derrate, pagate il doppio.

Ma il proprietario: sarei ben stupido, dice, se abbandonassi un beneficio così netto. Invece di cento giornate di lavoro non ne pagherò che cinquanta: non è il proletario che approfitterà, ma io. – Allora, osservate voi, il proletario sarà ancora più disgraziato di prima, poiché gli mancherà il lavoro una volta di più. – Questo non mi riguarda, soggiunge il proprietario: uso del mio diritto. Che gli altri si ammassino dei beni, se possono, che vadano in un’altra parte del mondo a cercare fortuna, fossero essi delle migliaia e dei milioni! Ogni proprietario nutre, in fondo al cuore, questo pensiero omicida. E siccome per la concorrenza, il monopolio e il credito l’invasione si estende sempre, i lavoratori si trovano continuamente eliminati dal suolo: la proprietà è lo spopolamento della terra. Così la rendita del proprietario, combinata col progresso dell’industria, cambia in abisso la fossa scavata sotto i piedi del lavoratore dal monopolio; il male si aggrava col privilegio. La rendita del proprietario non è più il patrimonio dei poveri, voglio dire quella porzione del prodotto agricolo che resta dopo che le spese della coltura sono state compensate, e che doveva sempre servire come nuova materia d’usufrutto al lavoro, secondo la bella teoria che ci mostra il capitale accumulato come una terra senza posa offerta alla produzione, e che, più la si lavora, più sembra estendersi. La rendita è diventata per il proprietario il pegno della sua lubricità, lo strumento delle sue solitarie gioie. E notate che il proprietario che abusa, colpevole davanti alla carità e alla morale, sta senza rimprovero davanti alla legge, è inattaccabile in Economia Politica. Consumare la propria rendita! che c’è di più bello, di più nobile, di più legittimo? Nell’opinione del popolo come in quella dei grandi, il consumo improduttivo è la virtù per eccellenza del proprietario. Tutti gli imbarazzi della società provengono da questo egoismo indelebile.

Per facilitare l’utilizzazione del suolo, e mettere le differenti località in relazione fra loro, una strada, un canale è necessario. Già la traccia è fatta; si sacrificherà un lembo da questa parte, una piccola fetta dall’altra; qualche ettaro di cattivo terreno, e la via è aperta.

Ma il proprietario: non voglio, esclama con la sua voce rimbombante; e davanti a questo formidabile veto, il pretore altre volte non osava passare oltre. Alla fine, lo Stato ha osato replicare: voglio! Ma che esitazioni, che spavento, quale timore prima di prendere questa risoluzione eroica! quanti arbitri, quanti processi! Il popolo ha pagato caro questo colpo di autorità, da cui i promotori furono ancora più storditi che i proprietari. Si stava per stabilire un precedente, le cui conseguenze parevano incalcolabili!... Si promise che dopo avere passato questo Rubicone, i ponti sarebbero rotti, che si finirebbe là. Fare violenza alla proprietà, quale presagio!

L’ombra di Spartaco sarebbe apparsa meno terribile.

Nelle profondità di un suolo per natura poco fertile, il caso, e quindi la scienza, nata dal caso, scoprono tesori di combustibile. È un regalo gratuito della natura, deposto sotto il suolo dell’abitazione comune, e di cui ciascuno ha diritto di reclamare la sua parte. Ma arriva il proprietario, il proprietario a cui la concessione del suolo è stata fatta solamente in vista della coltura. Non passerete, dice; non violerete la mia proprietà! A questa intimazione inaspettata, grande disputa fra i dotti. Gli uni dicono che la miniera non è la stessa cosa che la terra arabile e, deve appartenere allo Stato; gli altri sostengono che il proprietario ha la proprietà al di sopra e al disotto, Cuius est solum, eius est usque ad [coelum et ad] inferos.

Se il proprietario, nuovo Cerbero posto a guardia degli oscuri regni, può mettere l’interdizione sull’entrata, il diritto dello Stato non è che una finzione. Converrebbe ritornare all’espropriazione: dove mai ciò condurrebbe? Lo Stato cede: “Affermiamolo arditamente – dice per bocca di Dunoyer, appoggiato da Troplong – non è più giusto e più ragionevole dire che le miniere siano proprietà della nazione, che non lo fosse una volta il pretendere ch’esse erano proprietà del re. Le miniere fanno essenzialmente parte del suolo. È con perfetto buon senso che la legge comune ha detto che la proprietà del disopra implica quella del disotto. Dove si farebbe cessare, in effetti, la separazione?”.

Dunoyer è in pena per poca cosa. Chi dunque impedisce di separare la miniera dalla superficie, nello stesso modo che si separa qualche volta, in una successione, il pianterreno dal primo piano? Questo è ciò che benissimo fanno i proprietari dei terreni carboniferi nel dipartimento della Loira, dove la proprietà delle profondità è stata quasi dappertutto separata dalla proprietà superficiale, e si è trasformata in una specie di valore circolante, come le azioni di una società anonima. Chi impedisce ancora di considerare la miniera come una terra nuova, per la quale necessita un cammino di dissodamento?... Ma che! Napoleone, l’inventore del giusto mezzo, il principe dei dottrinari, ha voluto altrimenti; il consiglio di Stato, Troplong e Dunoyer applaudono: non ha più da tornarvi sopra. Una transazione ha avuto luogo sotto non so quali insignificanti riserve: i proprietari sono stati assicurati dalla munificenza imperiale: come hanno corrisposto a questo favore?

Ho avuto più di una volta occasione di parlare della coalizione delle miniere della Loira. Vi ritorno per l’ultima volta. In quel dipartimento, il più ricco del reame nella situazione delle coste carbonifere, il lavoro fu dapprima condotto nel modo più dispendioso e più assurdo. L’interesse delle miniere, quello dei consumatori e dei proprietari, esigeva che l’estrazione fosse fatta d’accordo: non vogliamo, hanno ripetuto durante non so quanti anni i proprietari. E perciò si sono fatta una concorrenza orribile, di cui la devastazione delle miniere ha pagato le prime spese. Erano nel loro diritto? Certo, giacché si vede lo Stato considerare pessima cosa che ne siano usciti.

Infine i proprietari, per lo meno la maggior parte, sono giunti ad intendersi; essi si associano. Senza dubbio hanno ceduto alla ragione, a motivi di conservazione, di buon ordine, d’interesse generale e di privato tornaconto. D’ora in poi, i consumatori avranno il combustibile a buon mercato, i minatori un lavoro regolare e il salario garantito. Quale scoppio di acclamazioni nel pubblico! quali elogi nelle accademie! che decorazioni per questo bel sacrificio! Nessuno s’informerà se la riunione è conforme al testo e allo spirito della legge, che proibisce di riunire le concessioni; non si vedrà che il vantaggio della riunione, e si saprà ben provare che il legislatore non ha né voluto né potuto volere altra cosa che il benessere del popolo: Salus populi suprema lex esto [Cicerone].

Inganno! Non è la ragione che seguono i proprietari coalizzandosi: essi non si sottomettono che alla forza. A misura che la concorrenza li inabissa, si schierano dalla parte del vincitore, e accelerano con la loro massa schiacciante la disfatta dei dissidenti. Poi, l’associazione si costituisce in un monopolio collettivo; il prezzo della merce aumenta, per il consumo; il salario è ridotto, per il lavoro. Allora il pubblico si lagna; il legislatore pensa ad intervenire; il cielo minaccia un colpo di folgore; il Foro invoca l’articolo 419 del Codice penale che proibisce le coalizioni, ma permette a ogni monopolizzatore di associarsi e non prescrive alcuna misura per il prezzo delle merci; l’amministrazione fa appello alla legge del 1810 che, volendo favorire l’usufrutto, dividendone tuttavia le concessioni, è piuttosto favorevole che contraria all’unità; e gli avvocati provano con memorie, sentenze, argomenti, gli uni che la coalizione è nel suo diritto, gli altri che la coalizione non è nel suo diritto. Intanto il consumatore dice: è giusto che paghi le spese dell’aggiotaggio e della concorrenza? è giusto che ciò che è stato dato per niente al proprietario nel mio più grande interesse mi venga così caro?

Che si stabilisca una tariffa! Non ne vogliamo, rispondono i proprietari. E io sfido lo Stato a vincere la loro resistenza, altrimenti che con un colpo di autorità, ciò che non è risolvere alcuna cosa; oppure con una indennità, ciò che è abbandonare tutto.

La proprietà è asociale, non solo nel possesso, ma anche nella produzione. Padrona assoluta degli strumenti di lavoro, essa non rende che prodotti imperfetti, fraudolenti, detestabili. Il consumatore non è più servito, è derubato del suo denaro. – Non avreste potuto, si dice al proprietario rurale, aspettare qualche giorno a cogliere questi frutti, a mondare questo frumento, a seccare questo fieno, mettere acqua in questo latte, pulire le vostre botti, avere cura dei vostri raccolti, abbracciare meno e fare meglio? Siete sovraccarico: rimettete una parte dei vostri retaggi. – Che stupido! risponde con un’aria scaltra il proprietario. Venti jugeri mal tenuti rendono sempre più che dieci che occuperebbero lo stesso tempo, e raddoppierebbero le spese. Col vostro sistema, la terra nutrirebbe il doppio d’uomini: ma che cosa me ne importa che vi siano più uomini? Si tratta della mia entrata. Quanto alla qualità dei miei prodotti, essi saranno sempre abbastanza buoni per quelli che li mangiano. Voi vi credete abile, mio caro consigliere, e non siete che un ragazzo. A che servirebbe essere proprietario, se non si vendesse che ciò che merita di essere esposto in vendita, e a giusto prezzo ancora?... Io non voglio.

Ebbene, direte voi, che la polizia faccia il suo dovere!... La polizia! Dimenticate che la sua azione comincia appunto quando il male è compiuto. La polizia, invece di sorvegliare la produzione, aspetta il prodotto; dopo avere permesso al proprietario di coltivare, raccogliere, fabbricare senza coscienza, essa si presenta per fare man bassa sulla frutta verde, spargere le terrine di latte mescolato, le botti di birra e di vino adulterate, gettare in mezzo alla strada le carni proibite: il tutto con gli applausi degli economisti e del popolaccio, che vogliono si rispetti la proprietà, ma non soffrono che lo scambio sia libero. Barbari! è la miseria del consumatore che provoca lo spaccio di queste impurità. Perché se non potete impedire al proprietario di male agire, impedite al povero di vivere male? Non è meglio per lui avere la colica piuttosto che morire di fame?

Dite a questo industriale che è una cosa vile, immorale, speculare sulla miseria del povero, sulla inesperienza di ragazzi e ragazze: non vi capirà nemmeno. Provategli che con una sovrapproduzione temeraria, con imprese mal calcolate, compromette con la propria fortuna, l’esistenza dei suoi operai; che se il suo interesse non lo scuote, quello di tante famiglie, legate attorno a lui, merita considerazione; che con l’arbitrio dei suoi favori egli crea attorno a sé lo scoraggiamento, la servilità, l’odio. Il proprietario si offende: non sono io il padrone? dice parodiando la leggenda; e perché sono buono per qualcuno, pretendente fare della mia bontà un diritto per tutti? È giusto che io renda conto a chi deve obbedirmi? Questa casa è mia; di ciò che è giusto che faccia per la direzione dei miei affari, io solo sono giudice. I miei operai non sono i miei schiavi? Se le mie condizioni loro dispiacciono, trovino di meglio, vadano pure. Sarò il primo a complimentarli. Eccellentissimi filantropi, chi dunque vi impedisce di aprire delle fabbriche? Fate, date l’esempio: invece di questa vita deliziosa che conducete predicando la virtù, mettete su una fabbrica, mettetevi all’opera. E si veda alla fine per mezzo vostro l’associazione sulla terra! Quanto a me, respingo con tutte le mie forze una tale servitù. Dei soci! piuttosto la bancarotta, piuttosto la morte!

Così la proprietà separa uomo da uomo cento volte di più che non faccia il monopolio. Il legislatore, con un intento eminentemente sociale, aveva creduto dare al possesso più forti garanzie; ed ecco si trova ad avere levata al lavoratore persino la speranza, garantendo al monopolista, a perpetuità, il frutto quotidiano delle sue rapine. Quale grande proprietario non abusa della sua forza per violentare il piccolo? Quale sapiente, costituito in dignità, non ricava un lucro dalla sua influenza e dal suo patronato? Quale filosofo, accreditato nei consigli, non trova mezzo, sotto pretesto di traduzione, revisione o commentario, di trarre partito dalla filosofia? Quale ispettore di scuola non è mercante di sillabari? L’economia politica è essa pura da ogni commercio di azioni, e la religione da ogni simonia? Ho avuto l’onore d’essere capo di stamperia, vendendo una dozzina di catechismi, cinque fogli in 12°, trenta soldi. Dopo, il vescovo del luogo si è assunto il monopolio dei libri di religione, e il prezzo del catechismo è salito da 15 centesimi a 40: monsignore realizza ogni anno sopra questo solo articolo, un utile netto di 50.000 franchi. La tale questione è stata messa a concorso dall’Accademia solo per dare l’occasione di un trionfo al signor tale; la tale composizione ha ottenuto il premio perché veniva dal signor tale, che professa le buone dottrine, cioè esercita l’arte della bassa adulazione presso i signori tali, tali, tali. La scienza titolata sbarra il cammino alla scienza ignobile; la quercia obbliga la canna a farle riverenza; la religione e la morale si utilizzano per privilegio, come il gesso e il carbone fossile; il privilegio giunge fino al premio della virtù, e le corone decretate nel teatro Mazzarino, per l’incoraggiamento della gioventù e il progresso della scienza, non sono più che l’insegna della feudalità accademica.

E tutti questi abusi di autorità, queste concussioni, queste brutture provengono, non dall’abuso illegale, ma da un uso legale, legalissimo della proprietà. Senza dubbio il funzionario, il cui controllo è necessario per il libero passaggio di una merce, o l’accettazione di una fornitura, non ha il diritto di guadagnare su questo controllo. Non è così che essi si comportino. Un simile atto ripugnerebbe alla virtù degli agenti dell’autorità, cadrebbe sotto la vendetta del Codice penale, e non me ne occuperei. Ma colui il quale approva, non può niente approvare più volentieri che ciò che sa fare, poiché la sua approvazione è necessariamente in ragione delle sue capacità. Ora, siccome non è interdetto agli ispettori e ai controllori dell’autorità di fare da se stessi ciò che sono incaricati di approvare presso gli altri, e a più forte ragione di prendere parte e di interessarsi a ciò che deve essere sottomesso alla loro approvazione, e siccome in ogni specie di servizio, il salario e il beneficio sono legittimi, ne segue che la missione attribuita, per esempio, all’università e ai vescovi, di approvare o di disapprovare certe opere, costituisce a profitto dei vescovi e degli universitari un monopolio. E se la legge, contraddicendosi essa stessa, pretende d’impedirlo, la forza delle cose più potente della legge lo riconduce senza posa, e invece di un Governo, non abbiamo più che la venalità e la finzione...

Un povero operaio avendo la moglie con i dolori del parto, la levatrice, alla disperazione, fece chiedere l’assistenza di un medico. – Ci vogliono 200 franchi, disse il medico, o non mi muovo. – Mio Dio! risponde l’operaio, la mia casa non vale 200 franchi; converrà dunque che mia moglie muoia, oppure che noi andiamo nudi, il bimbo, lei e io?

Questo ostetrico, che Dio lo remuneri! era ciò non pertanto un degno uomo, vigilante, malinconico e dolce, membro di più società dotte e caritatevoli: sul suo camino aveva un bronzo raffigurante Ippocrate, che rifiuta i regali di Ataserse. Era incapace di contristare un fanciullo, e si sarebbe sacrificato per il suo gatto. Il suo rifiuto non veniva da durezza, era tattica. Per un medico che intenda gli affari, l’abnegazione ha il suo periodo: acquistata la clientela, una volta fatta la reputazione, bisogna riservarsi per i ricchi che pagano, e salvo le occasioni di pompa, si evitano gli indiscreti. Dove s’andrebbe, se si dovessero senz’altro guarire i malati a torto e a traverso? Il talento, la reputazione sono proprietà preziose che conviene utilizzare, non sprecare.

Il fatto che ho citato è dei più benigni; quali orrori, se penetrassi a fondo in questa materia medica! E non mi si dica che vi sono delle eccezioni; eccettuo tutti quanti. Io faccio la critica della proprietà, non degli uomini. La proprietà, in Vincenzo da Paola come in Arpagone, è sempre atroce; e fino a che il servizio della medicina sia organizzato, il medico sarà quel che sono il dotto, l’avvocato, l’artista; sarà un essere degradato dal suo proprio titolo, dal titolo di proprietario.

È ciò che non capì quel giudice, troppo uomo dabbene, per i suoi tempi, che, cedendo all’indignazione della sua coscienza, ardì un giorno esprimere un pubblico biasimo sulla corporazione degli avvocati. Era una cosa immorale, secondo lui, scandalosa, la facilità con la quale questi signori accolgono ogni sorta di cause. Se questo biasimo, partito dall’alto, fosse stato sostenuto e commentato dalla stampa, era fatta, può darsi, per il mestiere di avvocato. Ma l’onorevole compagnia non poteva perire per un biasimo, del pari che la proprietà non può morire per una diatriba, né tampoco la stampa scoppiare per il proprio veleno. D’allora in poi la magistratura non è solidale con la corporazione degli avvocati? Non è, come questa, istituita dalla e per la proprietà? Che diverrebbe Perrin-Dandin, se gli fosse proibito giudicare? e su che si litigherebbe senza la proprietà? L’ordine degli avvocati si è dunque sollevato; il giornalismo, l’avvocatura della penna, è venuta in soccorso all’avvocatura delle parole: il tumulto è andato mormorando e ingrossando, fino a che l’imprudente magistrato, organo involontario della coscienza pubblica, ebbe fatto ammenda onorevole verso il sofisma, e ritrattata la verità che per lui s’era fatta spontaneamente chiara.

Un giorno, un ministro annuncia che vuole riformare il notariato. – Non vogliamo essere riformati, gridano i notai. Non siamo gli uomini del cavillo; parlate agli avvocati. Il notaio è per eccellenza l’uomo probo e senza rimorso. Estraneo all’usura, custode dei depositi, interprete fedele della volontà dei morenti, arbitro imparziale in tutti i contratti, il suo studio è il santuario della proprietà. Ed è in lui che la proprietà sarebbe violata! No. No... E il Governo, nella persona del suo ministro, ebbe uno scacco.

Io vorrei, dice timidamente un altro, rimborsare i creditori ai quali pago il 5% di interessi, e sostituirvene altri a cui non pagherò che il 4%. – Come? gridano con spavento quelli che hanno rendite. Gli interessi di cui voi parlate sono rendite; essi sono stati costituiti come rendite; e quando voi proponete di ridurli, è come se proponeste una espropriazione senza indennità.

Espropriate, se questo vi garba; ma ci vuole una legge, più l’indennità anticipata. È noto che il denaro perde continuamente del suo valore; quando 10.000 franchi di rendita oggi non valgono più di 8.000 al tempo dell’iscrizione; quindi, per una conseguenza irrefutabile, toccherebbe all’uomo di rendita, la cui proprietà diminuisce tutti i giorni, domandare un aumento dell’entrata, per conservare la sua rendita, poiché questa rendita non rappresenta un capitale metallico, ma un immobile, proprio allora si parla di conversione! La conversione è la bancarotta! E il Governo convinto, da una parte di avere il diritto, come ogni debitore, di liberarsi col rimborso, ma incerto, dall’altra parte, sulla natura del suo debito e intimidito dallo schiamazzo dei proprietari, non sa che decidere.

Così la proprietà diventa più asociale a misura che si distribuisce su un più grande numero di teste. Ciò che sembra dovere addolcire, umanizzare la proprietà, il privilegio collettivo, è precisamente ciò che mostra la proprietà nel suo orrore: la proprietà divisa, la proprietà impersonale, è la peggiore delle proprietà. Chi non si accorge oggi che la Francia si copre di grandi compagnie più terribili, più avide di bottino, che le bande famose da cui il bravo [Bertrand] du Guesclin liberò la Francia!...

Guardiamoci dal prendere per associazione la comunità della proprietà. Il proprietario-individuo può ancora mostrarsi accessibile alla pietà, alla giustizia, all’onta; il proprietario-corporazione è senza ritegni, senza rimorsi. È un essere fantastico, inflessibile, sciolto da ogni passione, e da ogni amore, che opera nel circolo della sua idea come la macina che nel suo giro di rivoluzione schiaccia il grano.

Non è già divenendo comune che la proprietà può diventare sociale, non si rimedia alla rabbia facendo mordere tutti quanti. La proprietà finirà con la trasformazione del suo principio, non con la compartecipazione indefinita. Ed è perciò che la democrazia, o sistema della proprietà universale, che alcuni uomini, tanto intrattabili quanto ciechi, si ostinano a predicare al popolo, è impotente a creare la società.

Di tutte le proprietà la più detestabile è quella che ha per pretesto il talento.

Provate a un artista, col paragone dei tempi e degli uomini, che l’ineguaglianza delle opere di arte, nei differenti secoli, proviene soprattutto dai movimenti oscillatori della società, dal cambiamento delle credenze e dallo stato degli spiriti; che quanto vale la società, tanto vale l’artista; che fra lui e i suoi contemporanei esiste una comunità di bisogni e d’idee, dalla quale risulta il sistema delle loro obbligazioni e dei loro rapporti, talmente che il merito come il salario può essere sempre rigorosamente definito, che verrà un tempo in cui essendo scoperte le regole del gusto, le leggi dell’invenzione, della composizione e dell’esecuzione, l’arte perderà il suo carattere divinatorio e cesserà d’essere il privilegio di qualche natura eccezionale: tutte queste idee sembreranno all’artista eccessivamente ridicole.

Ditegli: avete fatto una statua, e mi proponete di acquistarla. È quello che voglio. Ma questa statua, per essere veramente statua e perché io ne paghi il prezzo, deve riunire certe condizioni di poesia e di plasticità, che al solo aspetto io saprei scoprire, quantunque non abbia mai visto statue, e mi senta del tutto incapace di farne una. Se queste condizioni non sono adempiute, qualsiasi difficoltà avete vinta, per quanto superiore alla mia professione appaia la vostra arte, voi avete fatto un’opera inutile. Il vostro lavoro non vale niente: esso non raggiunge il suo scopo, e non serve che ad eccitare il mio rammarico manifestando la vostra impotenza. Non è un paragone tra voi e me che si tratta di stabilire; è un paragone fra il vostro lavoro e il vostro ideale. Mi domanderete, dopo questo, quale prezzo dovete pretendere in caso di riuscita? Vi rispondo che questo prezzo è di necessità proporzionato alle mie facoltà, e determinato come parte proporzionale alle mie spese. Ora, qual è questa proporzione? Giusto l’equivalente di ciò che vi sarà costata la statua.

Se fosse possibile che l’artista a cui si terrebbe un simile discorso ne sentisse la forza e la giustezza, la ragione allora si sostituirebbe in lui all’immaginazione; comincerebbe a non essere più artista.

Ciò che dispiace particolarmente a questa classe di uomini è che si osi mettere a prezzo il loro talento. A sentirli, i pesi e le misure sono incompatibili con la dignità dell’arte; questa smania di tutto mercanteggiare è il segno di una società in decadenza, nella quale non si produrranno più capolavori, perché non si sa riconoscerli. Ed è su questo che vorrei illuminare lo spirito degli uomini d’arte, non per mezzo di ragionamenti e di teorie, che essi non potrebbero seguire, ma per mezzo di un fatto.

All’ultima esposizione, 4.200 oggetti di arte sono stati inviati da circa 1.800 artisti. Portando a 300 franchi in media, il valore commerciale di ciascuno di questi oggetti (statue, quadri, ritratti, intagli, ecc.), si è certi di non restare molto al disotto della verità. Sia dunque un valore di un milione e 260 mila franchi, prodotto da 1.800 artisti. Supponete la spesa per marmo, tela, dorature, cornice, modelli, studi, esercizi, meditazioni, ecc., a 100 franchi in media e il lavoro a tre mesi, restano nette 240.000 franchi, ossia 466,65 franchi a testa per 90 giornate. Ma, se si riflette che i 4.200 articoli inviati all’esposizione, e di cui quasi metà sono stati eliminati dalla commissione, formano, a giudizio degli autori stessi, il meglio e il più bello della produzione artistica durante l’anno; che una grande parte di questi prodotti consiste in ritratti, la cui ricompensa, tutta di affezione, sorpassa di molto il prezzo corrente degli oggetti d’arte; che una quantità considerevole dei valori esposti non si è venduta; che fuori di questa fiera una moltitudine di fabbricanti lavorano a prezzi molto inferiori che all’esposizione; che osservazioni analoghe si applicano alla musica, alla danza e a tutte le categorie dell’arte: si troverà che il salario medio dell’artista non giunge a 1.200 franchi, e che per la popolazione artistica, come per l’industriale, il benessere si esprime con la formula schiacciante di Chevalier: cinquantasei centesimi per giorno e per testa. E siccome la miseria emerge di più per il contrasto, e la funzione dell’artista è tutta di lusso, è passato in proverbio, che nessuna miseria è eguale alla sua: Si est dolor [similis], sicut dolor meus!...

E perché questa eguaglianza, davanti all’economia sociale, dei lavori d’arte e d’industria? È che fuori della proporzione dei prodotti, non c’è ricchezza, e l’arte, espressione sovrana della ricchezza che è essenzialmente eguaglianza e proporzione, è per questo ugualmente il simbolo dell’eguaglianza e della fraternità umana.

Invano l’orgoglio si rivolta e crea dappertutto le sue distinzioni e i suoi privilegi: la proporzione resta inflessibile. I lavoratori sono fra loro solidali, e la natura s’incarica di punire le loro infrazioni. Se la società consuma in cose di lusso il 5% del suo prodotto, essa occuperà a questa produzione il ventesimo dei suoi lavoratori. La parte degli artisti nella società sarà dunque necessariamente eguale a quella degli industriali. Quanto alla ripartizione individuale, la società l’abbandona alle corporazioni; la società che realizza tutto per l’individuo, niente fa per l’individuo senza il suo consenso. Quando un artista preleva per lui solo cento parti sulla retribuzione generale, vi sono novantanove dei suoi confratelli che si prostituiscono per lui o che muoiono sulla paglia: questo calcolo è così certo, così vero, come una liquidazione della borsa.

Che gli artisti lo sappiano dunque: non è, come essi dicono, il droghiere che mercanteggia, è la necessità stessa che ha fissato il prezzo delle cose. Se in qualche epoca, i prodotti dell’arte sono stati in rialzo, come ai tempi di Leone X, degli imperatori romani e di Pericle, ciò dipendeva da cause speciali di favoritismo che hanno cessato d’esistere. Era l’oro della cristianità, il tributo delle indulgenze, che pagava gli artisti italiani; era l’oro delle nazioni vinte che, sotto gli imperatori, pagava gli artisti greci; era il lavoro degli schiavi che li pagava sotto Pericle. L’eguaglianza è venuta: o forse le arti liberali vogliono ricondurre la schiavitù, e rinunziare al loro nome?

Il talento è d’ordinario l’attributo di una natura sgraziata, in cui la disarmonia delle attitudini produce una specialità straordinaria, mostruosa. Un uomo che non avendo mani scriva col ventre, ecco l’immagine del talento. Così noi nasciamo tutti artisti: la nostra anima, come il nostro viso, si allontana sempre più o meno dal suo ideale; le nostre scuole sono stabilimenti ortopedici in cui dirigendo la crescita, si correggono le deformità della natura. Ecco perché l’insegnamento tende di più in più all’universalità, cioè all’equilibrio dei talenti e delle conoscenze; perché anche l’artista non è possibile se non circondato da una società in comunione di lusso con lui. In materia di arte, la società fa quasi tutto: l’artista è ben più nel cervello dell’amatore che nell’essere mutilato che eccita la sua ammirazione. Sotto l’influenza della proprietà, l’artista, depravato nella sua ragione, dissoluto nei suoi costumi, pieno di sprezzo per i suoi confratelli, la cui propaganda lo fa valere, venale e senza dignità, è l’immagine impura dell’egoismo. Per lui il bello morale non è che affare di convenzione, materia da figure. L’idea del giusto e dell’onesto passa sul suo cuore senza prendervi radice; e di tutte le classi della società, quella degli artisti è la più povera in animi forti e in nobili caratteri. Se si ordinassero le professioni sociali, secondo l’influenza ch’esse hanno esercitato sulla civiltà con l’energia della volontà, la grandezza dei sentimenti, la potenza delle passioni, l’entusiasmo della verità e della giustizia e astrazione fatta dal valore delle dottrine, i preti e i filosofi apparirebbero al primo rango; verrebbero dopo gli uomini di Stato e i capitani; poi i commercianti, gli industriali, i lavoratori; finalmente, gli scienziati e gli artisti.

Mentre il prete, nella sua lingua poetica, si guarda come il tempio vivente di Dio; mentre il filosofo dice a se stesso: opera in modo tale che ciascuna delle tue azioni possa servire da modello e da regola: l’artista rimane indifferente al significato della sua opera; non cerca di personificare in essa il tipo che vuole esprimere; ne fa astrazione; tira profitto dal bello e dal sublime, e non l’adora; mette Cristo sulla tela, ma non lo porta, come S. Ignazio, sul suo petto.

Il popolo, il cui istinto è sempre tanto sicuro, conserva la memoria dei legislatori e degli eroi; ma si dà poco pensiero del nome degli artisti. E per grande tempo, nella sua rozza innocenza, non sente per essi che repulsione e disprezzo, come se avesse riconosciuto in questi miniatori della vita umana gli istigatori dei suoi vizi, i complici della sua oppressione. Il filosofo ha messo nei suoi libri questa diffidenza del popolo per le arti di lusso; il legislatore le ha denunciate al magistrato; la religione obbedendo allo stesso sentimento le ha colpite con i suoi anatemi. L’arte, cioè il lusso, il piacere, la voluttà, sono le opere e le pompe di Satana, che gettano il cristiano nell’eterna dannazione. E senza volere incolpare una classe di uomini che la corruzione generale ha reso tanto stimabile quanto qualunque altra, e che dopo tutto usa dei suoi diritti, oso dire che il mito cristiano è giustificato. Più che mai l’arte è un oltraggio perpetuo alla miseria pubblica, una maschera alla crapula. A causa della proprietà, ciò che c’è di meglio nell’uomo diventa incessantemente ciò che l’uomo ha di peggio, corruptio optimi pessima [Gregorio Magno].

Lavorate, ripetono senza posa al popolo gli economisti, lavorate, risparmiate, capitalizzate, diventate a vostra volta proprietari. Come se essi dicessero: operai, siete le reclute della proprietà. Ciascuno di voi porta nel suo sacco la verga che serve a correggerlo, e che può servirgli un giorno a correggere gli altri. Elevatevi col lavoro fino alla proprietà, e quando avrete gustato della carne umana, non vorrete più altra carne, e vi compenserete delle vostre lunghe astinenze.

Cadere dal proletariato nella proprietà! dalla schiavitù nella tirannia, cioè, secondo Platone, sempre nella schiavitù! Quale prospettiva!

Eppure è necessario, la condizione dello schiavo non è più tollerabile. È necessario camminare, affrancarsi dal salario, diventare capitalista, diventare tiranno! È necessario, capite voi, proletari? La proprietà non è punto una cosa d’elezione nell’umanità, è l’ordine assoluto del destino. Non sarete liberi, che dopo esservi riscattati, con l’assoggettamento dei vostri padroni, dalla servitù che essi fanno pesare sopra di voi.

In una bella domenica d’estate, il popolo delle grandi città lascia la sua oscura e umida dimora, e va a cercare l’aria vigorosa e pura della campagna. Ma che! non c’è più campagna! La terra, divisa in mille parti chiuse, e attraversata da lunghe gallerie, la terra non si trova più; l’aspetto dei campi non esiste per il popolo delle città che al teatro e al museo; gli uccelli soli contemplano dall’alto dell’aria il paesaggio reale.

Il proprietario, che paga molto caro una casetta sopra questa terra fatta a lembi, gode, egoista e solitario, del lembo di zolla che chiama sua campagna: eccettuato quest’angolo, egli è espatriato dal suolo come il povero. Quanti possono vantarsi di non avere mai visto la loro terra natale! Bisogna andare lontano, nel deserto, per ritrovare questa povera natura, che noi violiamo in una maniera brutale, in luogo di godere, casti sposi, dei suoi divini abbracci.

La proprietà, che doveva renderci liberi, la proprietà, ci fa dunque prigionieri. Che dico? ci degrada, rendendoci servi e tiranni gli uni degli altri.

Si sa bene ciò che sia il salariato? Lavorare sotto un padrone geloso dei suoi pregiudizi tanto e più che del suo comando; la cui dignità consiste sopratutto nel volere, sic volo, sic iubeo [Giovenale], e nel non spiegarsi mai; che sovente si tiene in disistima, e si schernisce! Non avere per sé alcun pensiero, studiare senza posa il pensiero degli altri, non conoscere altro stimolante che il pane quotidiano e il timore di perdere un impiego!

Il salariato è un uomo a cui il proprietario che riceve i suoi servizi tiene questo discorso: ciò che avrai da fare non ti riguarda per niente: non hai da controllarlo, non ne rispondi. Ogni osservazione è interdetta, nessun profitto è sperabile fuori del tuo salario, nessun rischio da correre, nessun biasimo da temere.

Così si dice ai giornalisti: prestateci le vostre colonne, e anche, se questo vi conviene, il vostro ministero. Ecco qui quel che dovete dire, ed ecco qui ciò che dovete fare. Qualunque cosa pensiate delle nostre idee, dei nostri fini e dei nostri mezzi, difendete sempre il nostro partito, fate valere le nostre opinioni. Questo non può compromettervi, non deve inquietarvi; il carattere del giornalismo è l’anonimo. Ecco qui, per i vostri onorari, diecimila franchi e cento abbonamenti. Vi va? E il giornalista, come il gesuita, risponde sospirando: bisogna ch’io viva.

Si dice agli avvocati: questo affare presenta del pro e del contro; è una partita di cui sono deciso a correre il rischio, e per la quale ho bisogno di un uomo della vostra professione. Se questo non siete voi, sarà un vostro confratello, un vostro rivale; vi sono mille franchi per l’avvocato che vince il mio processo, cinquecento franchi se lo perde. E l’avvocato deve inchinarsi con rispetto, dicendo alla sua coscienza che mormora: bisogna ch’io viva.

Si dice ai preti: ecco del denaro per trecento messe. Non dovete inquietarvi sulla moralità del defunto: è forse probabile ch’egli non vedrà mai Dio, essendo morto nell’ipocrisia, con le mani piene dell’altrui bene, e maledetto dal popolo. Questi non sono affari vostri: noi paghiamo, voi celebrate. E il prete, levando gli occhi al cielo: amen, dice, bisogna ch’io viva.

Si dice ai fornitori: abbiamo bisogno di 30 mila fucili, 10 mila sciabole, mille quintali di piombo, cento barili di polvere. Ciò che se ne può fare non vi riguarda punto; è possibile che tutto questo passi al nemico; ma vi saranno 200 mila franchi di guadagno. È giusto, risponde il fornitore: a ciascuno il suo mestiere, conviene che tutto il mondo viva!...

Fate il giro della società; e dopo avere accertato l’assolutismo universale, avrete riconosciuto l’indegnità universale. Quale immoralità in questo sistema di servilismo! Quale degradazione in questo meccanismo!

Più l’uomo s’avanza verso la tomba, più il proprietario si mostra inconciliabile. Questo è ciò che il cristianesimo ha figurato nel suo mito spaventevole dell’impenitenza finale.

Spiegate a quel vecchione libidinoso e devoto che la governante che si propone di avvantaggiare a pregiudizio dei parenti è indegna delle sue cure; che la chiesa è abbastanza ricca, e che un onest’uomo, non ha bisogno di preghiere; che la sua parentela è povera, laboriosa, onesta; che vi sono dei bravi giovani da educare, delle giovani fanciulle da dotare, che lasciando loro la sua fortuna, egli si assicura la loro riconoscenza, e forma la fortuna di più generazioni; che è nello spirito della legge che i testamenti servano all’unione e alla prosperità delle famiglie. Non voglio! risponde seccamente il proprietario. E lo scandalo dei testamenti sorpassa l’immoralità delle fortune. Ora, cercate di modificare questo diritto di dare in appannaggio e di trasmettere, che è uno smembramento dell’autorità sovrana, e ricadrete all’istante nel monopolio. Cambiate la proprietà in usufrutto, la rendita in pensione vitalizia; sostituite al dispotismo proprietario l’assolutismo dello Stato, e allora di due cose l’una: o ritornando alla proprietà feudale e inalienabile, arrestate la circolazione dei capitali e fate retrocedere la società; o cadete nella comunità, nel niente…

La contraddizione proprietaria non finisce per l’uomo al testamento, essa passa all’associazione. Il morto prende il vivo, dice la legge; così la funesta influenza della proprietà passa dal testatore all’erede.

Un padre di famiglia lascia, morendo, sette figli, allevati da lui nell’antica magione. Come si opererà la trasmissione dei suoi beni? Due sistemi si presentano, provati volta a volta, corretti, modificati, ma sempre senza successo. Il dubbioso enigma è ancora da risolvere.

Sotto il diritto di primogenitura, la proprietà è devoluta al primogenito: i sei altri fratelli ricevono il corredo, e sono espulsi dal dominio paterno. Morto il padre, essi sono stranieri sulla terra, senza avere e senza credito. Dall’agiatezza passano senza transizione alla povertà: fanciulli, avevano nel padre un nutritore; fratelli, non possono vedere nel loro primogenito altri che un nemico... Tutto è stato detto contro il diritto di primogenitura: vediamo il rovescio del sistema.

Con l’eguaglianza di divisione, tutti i figli sono chiamati alla conservazione del patrimonio, alla perpetuità della famiglia. Ma come possedere in sette ciò che basta appena per uno? La vendita ha luogo, la famiglia erede è spossessata. È uno straniero che mediante denaro si trova erede. Invece del patrimonio ciascun figlio riceve denaro, con novantanove probabilità contro una di non avere ben presto più niente. Fino a che il padre fu in vita, vi era una famiglia; ora non vi sono più che avventurieri. Il diritto di primogenitura assicurava per lo meno la perpetuità del nome. Era per il vecchio una garanzia, che il monumento fondato dai suoi padri e conservato con le sue mani, resterebbe nella sua discendenza.

L’eguaglianza di divisione ha distrutto il tempio della famiglia; non vi sono più dèi penati. Con la proprietà sedentaria i civilizzati hanno trovato il segreto di vivere nomadi: a che cosa è servita l’eredità?

Supponiamo che invece di vendere la successione, gli eredi la dividano. La terra è smembrata, troncata, scavata. Si piantano limiti, si scavano fossi, si alzano siepi, si fa un semenzaio di processi e di odi. La proprietà fatta a pezzi, l’unità è rotta: da qualunque lato la si guarda, la proprietà mette capo alla negazione della società, alla negazione del suo fine.

Così la proprietà che doveva consumare l’unione santa dell’uomo e della natura, non è che una infame prostituzione. Il sultano usa e abusa del suo schiavo; la terra è per lui uno strumento di lussuria...

Io trovo qui più che una metafora, scopro una profonda analogia.

Che cosa nei rapporti dei sessi distingue il matrimonio dal concubinato? Tutti quanti sentono la differenza di queste due cose; pochi sarebbero in grado di renderne conto, tanto la questione è divenuta oscura, per la licenza dei costumi e la sfrontatezza dei romanzi.

E la progenitura? Si vedono commerci illeciti produrre tanto e così bene quanto le unioni legittime più feconde. È la durata? Molti celibi tengono 10 e 20 anni una signora che dapprima umiliata e avvilita soggioga a sua volta e avvilisce il suo indegno amante. Per altro la perpetuità del matrimonio può benissimo da obbligatoria diventare facoltativa, col mezzo del divorzio, senza che il matrimonio perda niente del suo carattere. La perpetuità è il voto dell’amore e la speranza della famiglia, senza dubbio; ma essa non è punto essenziale al matrimonio: essa può sempre, senza offendere il sacramento, essere, in certi casi, interrotta. È infine la cerimonia nuziale, quattro parole pronunciate davanti un assessore e un prete? Quale virtù può avere una tale formalità per l’amore, la costanza, la devozione?

Marat, come Jean-Jacques, aveva sposato la sua governante nei boschi, in faccia al sole. Il sant’uomo aveva contrattato in buona fede, e non dubitava che la sua alleanza non fosse così decente e rispettabile come se fosse stata contrassegnata dal Municipio. Marat nell’atto più importante della vita, aveva pensato, a proposito, di fare senza l’intervento della repubblica: egli metteva, seguendo le idee di Louis Blanc il fatto naturale al disopra della convenzione. Chi dunque impedisce che ci regoliamo tutti come Marat? E che significa questa parola matrimonio?

Ciò che costituisce il matrimonio, è che la società vi è presente, non solo all’istante delle promesse, ma sin tanto che dura la coabitazione degli sposi. Solo la società, dico io, riceve per ciascuno degli sposi il giuramento dell’altro; solo essa dà dei diritti, poiché solo essa può rendere questi diritti autentici; e con l’apparenza di imporre soltanto doveri reciproci ai contraenti, essa stipula in realtà per se medesima. “Noi siamo uniti in Dio, dice Tobia a Sara, prima di esserlo fra di noi; i figli dei santi non si possono unire come le bestie e i barbari”. In questa unione consacrata dal magistrato, organo visibile della società, e in presenza di testimoni che la rappresentano, l’amore è supposto libero e reciproco, e la posterità prevista come nelle unioni fortuite; la perpetuità dell’amore è augurata, provocata, ma non garantita; la voluttà stessa è permessa, tutta la differenza, ma questa differenza è un abisso, è che nel concubinato l’egoismo solo presiede alla unione, mentre nel matrimonio l’intervento della società purifica questo egoismo.

E vedete le conseguenze. La società, che vendica l’adulterio e punisce lo spergiuro, non riceve la lagnanza del concubinario contro la sua concubina: tali amori non la riguardano più che gli accoppiamenti dei cani, foris canes et impudichi! Essa se ne scosta con disgusto. La società rigetta la vedova e l’orfano del concubinario, e non li ammette alla successione; ai suoi occhi la madre è prostituta; il figlio, bastardo. Come se essa dicesse all’una: vi siete data senza di me; vi potete difendere e provvedere senza di me. All’altro: vostro padre vi ha generato per suo piacere, non mi piace di adottarvi. Colui che fa ingiuria al matrimonio non può reclamare la garanzia del matrimonio: tale è la legge sociale, legge rigorosa, ma giusta, che spettava solo all’ipocrisia socialista, a quelli che vogliono nello stesso tempo l’amore casto e l’amore osceno, di calunniare.

Questo sentimento dell’intervento sociale nell’atto più personale e più volontario dell’uomo, questo rispetto indefinibile di un Dio presente, che aumenta l’amore rendendolo casto, è per gli sposi una sorgente di affezioni misteriose, fuori di là sconosciute. Nel matrimonio, l’uomo è amante di tutte le donne, perché nel matrimonio solo egli sente il vero amore, che l’unisce simpaticamente a tutto il sesso; ma non conosce che la sua sposa, e non conoscendo che essa, l’ama di più, perché, senza questa esclusione carnale, il matrimonio sparirebbe, e l’amore con esso. La comunità platonica, ridomandata con un accrescimento di agevolezza dai riformatori contemporanei, non dà l’amore, essa non presenta che il caput mortuum; perché in questo comunismo di corpi e di anime, l’amore, non determinandosi, resta allo stato di astrazione e di sogno.

Il matrimonio è la vera comunità degli amori e il tipo di ogni possedimento individuale. In tutti i suoi rapporti con le persone e con le cose, l’uomo non contratta veramente che con la società, cioè, in definitiva, con se stesso, con l’essere ideale e santo che vive in lui. Distruggete questo rispetto dell’io, della società, questo timore di Dio, come dice la Bibbia, che è presente in tutte le nostre azioni, in tutti i nostri pensieri, e l’uomo, abusando della sua anima, del suo spirito, delle sue facoltà, abusando della natura, l’uomo imbrattato e contaminato, diventa, per una degradazione irresistibile, libertino, tiranno, miserabile.

Ora, nello stesso modo che con l’intervento mistico della società, l’amore impuro diventa amore casto, e la fornicazione disordinata si trasforma in un matrimonio tranquillo e santo; così, nell’ordine economico e nelle previsioni della società, la proprietà, la prostituzione del capitale, non è che il primo momento di un possesso sociale e legittimo. Fin là il proprietario abusa più che non goda; la sua felicità è un lubrico sogno: egli stringe, non possiede. La proprietà è sempre quell’abominevole diritto del signore che fece insorgere di già il servo oltraggiato, e che la rivoluzione francese non ha potuto abolire. Sotto l’impero di questo diritto, tutti i prodotti del lavoro sono immondi; la concorrenza è un mutuo eccitamento alla crapula; i privilegi accordati al talento sono il salario della prostituzione.

Invano, con la sua politica, lo Stato vorrebbe obbligare i padri a riconoscere i figli, e a dare un nome ai frutti scandalosi delle loro opere. Il marchio è indelebile; il bastardo, concepito nell’iniquità, annunzia la turpitudine del suo autore. Il commercio non è più che un traffico di schiave destinate, queste al piacere dei ricchi, quelle al culto della Venere popolare; e la società un vasto sistema di senseria in cui ciascuno, scoraggiato dell’amore, l’onesto uomo perché il suo amore è tradito, l’uomo delle buone fortune perché la varietà degli intrighi è un supplemento dell’amore, si precipita e si avvolge nell’orgia.

Abuso! gridano i giuristi, perversità dell’uomo. Non è la proprietà che ci rende avidi e cupidi, che risveglia le nostre passioni, sono i nostri vizi, al contrario, che insozzano e corrompono la proprietà.

Bramerei tanto che mi si dicesse, che non è il concubinato che insozza l’uomo, ma è l’uomo che, per le sue passioni e i suoi vizi, insozza e corrompe il concubinato. Ma, dottori, i fatti che io denuncio sono essi o no, dell’essenza della proprietà? Non sono essi, dal punto di vista legale, irreprensibili e posti al sicuro da ogni azione giudiziaria? Posso deferire al giudice, fare comparire davanti ai tribunali questo giornalista che prostituisce la sua penna per denaro? Questo avvocato, questo prete, che vendono all’iniquità, l’uno la sua parola, l’altro le sue preghiere? Questo medico che lascerà perire il povero, se il povero non deposita prima l’onorario ch’egli esige? Questo vecchio satiro che defrauda i suoi figli per una cortigiana? Posso impedire una vendita che cancellerà la memoria dei miei padri, e renderà la loro posterità senza avi, come se fosse di ceppo incestuoso o adulterino?

Posso costringere il proprietario, senza risarcirlo, al di là di ciò che possiede, cioè senza rovinare la società, a prestarsi ai bisogni della società?...

La proprietà, voi dite, è innocente del delitto del proprietario; la proprietà è in sé buona e utile: sono le nostre passioni e i nostri vizi che la depravano.

Così, per salvare la proprietà, voi la distinguete dalla morale! Perché non distinguerla subito dopo dalla società? È tale infatti il ragionamento degli economisti.

L’economia politica, dice Rossi, è in sé buona e utile; ma non è la morale; essa procede, astrazione fatta da qualsiasi moralità; sta a noi non abusare delle sue teorie, approfittare dei suoi insegnamenti, secondo le leggi superiori della morale. È come se dicesse: l’economia politica, l’economia della società non è la società; l’economia della società procede facendo astrazione da ogni società; sta a noi non abusare delle sue teorie, approfittare dei suoi insegnamenti, secondo le leggi superiori della società. Che caos!

Io sostengo non solo con gli economisti che la proprietà non è né la morale, né la società; ma ancora che essa è per suo principio direttamente contraria alla morale e alla società, come l’economia politica è antisociale, perché le sue teorie sono diametralmente opposte all’interesse sociale.

Stando alla definizione, la proprietà è il diritto d’usare e di abusare, cioè il dominio assoluto, irresponsabile, dell’uomo sulla sua persona e sui suoi beni. Se la proprietà cessasse d’essere il diritto di abusare, essa cesserebbe d’essere la proprietà. Io ho preso i miei esempi nella categoria degli atti abusivi permessi al proprietario. Nulla si fa che non sia di una legalità, di una proprietà irreprensibile? Il proprietario non ha forse il diritto di dare il suo bene a chi gli pare e piace, di lasciare bruciare il suo vicino senza gridare al fuoco, di fare opposizione al bene pubblico, di scialacquare il suo patrimonio, di usufruire dell’operaio e di vessarlo, di mal produrre e di mal vendere? Il proprietario può essere giudizialmente costretto a ben usare della sua proprietà? Può essere disturbato nell’abuso? Che dico io? La proprietà, precisamente perché è abusiva, non è forse per il legislatore tutto ciò che c’è di più sacro? Si conosce una proprietà di cui la polizia determinerebbe l’uso, reprimerebbe l’abuso? E non è evidente, infine, che se si volesse introdurre la giustizia nella proprietà, si distruggerebbe la proprietà; come la legge, introducendo l’onestà nel concubinato, ha distrutto il concubinato?

La proprietà, per principio e per essenza, è dunque immorale: questa proposizione è d’ora innanzi indubbia per la critica. Per conseguenza, il codice, che, determinando i diritti del proprietario, non ha riservato quelli della morale, è un codice d’immoralità; la giurisprudenza, questa pretesa scienza del diritto, la quale non è altro che la collezione di rubriche proprietarie, è immorale. E la giustizia, istituita per proteggere il libero e pacifico abuso della proprietà; la giustizia, che ordina di prestare manforte contro coloro che vorrebbero opporsi a questo abuso; che affligge e marchia d’infamia chiunque ha appena osato pretendere di riparare gli oltraggi della proprietà, la giustizia è infame. Che un figlio, soppiantato nell’affezione paterna da una indegna concubina, distrugga l’atto che lo disereda e lo disonora, risponderà davanti alla giustizia. Accusato, convinto, condannato, andrà in galera a fare ammenda onorevole verso la proprietà, mentre la prostituta sarà entrata in possesso. Dov’è dunque qui l’immoralità? dov’è l’infamia? non è dalla parte della giustizia? Continuiamo a svolgere questa matassa, e sapremo presto tutta la verità che cerchiamo. Non solo la giustizia, istituita per proteggere la proprietà, anche abusiva, anche immorale, è infame; ma la sanzione penale è infame, la polizia è infame, il boia e il patibolo sono infami. E la proprietà, che abbraccia tutta questa serie, la proprietà, da cui è uscita questa odiosa razza, la proprietà è infame.

Giudici armati per difenderla, magistrati il cui zelo è una minaccia permanente: vi interrogo. Che cosa avete visto nella proprietà, che abbia potuto in tal modo soggiogare la vostra coscienza e corrompere il vostro giudizio? Quale principio, superiore senza dubbio alla proprietà, più degno del vostro rispetto, ve la rende sì preziosa? Allorché le sue opere la dichiarano infame, come mai la proclamate santa e sacra? Quale considerazione, quale pregiudizio vi spinge?

È forse l’ordine maestoso delle società umane, che non conoscete, ma di cui supponete che la proprietà sia il saldissimo fondamento?

No, perché la proprietà, così com’è, è per voi l’ordine stesso, mentre d’altra parte è provato che la proprietà è di sua natura abusiva, cioè disordinata, anti-sociale.

È la Necessità o la Provvidenza, di cui non comprendete le leggi, ma di cui adorate i disegni? – No, poiché per l’analisi fatta, la proprietà essendo contraddittoria e corruttibile è per questo stessa una negazione della Necessità, una ingiuria alla Provvidenza.

È una filosofia superiore che considera dall’alto le miserie umane, e che cerca di fare nascere il bene dal male? – No, poiché la filosofia è l’accordo della ragione e dell’esperienza, e dal giudizio della ragione come da quello dell’esperienza la proprietà è condannata. Sarebbe forse la religione? Può darsi!...

4. – Dimostrazione dell’ipotesi di Dio per mezzo della proprietà

Se non esistesse Dio, non vi sarebbero affatto proprietari; questa è la conclusione dell’economia politica.

E la conclusione della scienza sociale è questa: La proprietà è il delitto dell’Essere supremo. Non c’è per l’uomo che un solo dovere, una sola religione, rinnegare Dio: Hoc est primum et maximum mandatum [Matteo].

È provato che lo stabilimento della proprietà fra gli uomini non è stata faccenda d’elezione e di filosofia: la sua origine, come quella della dignità regia, come quella delle lingue e dei culti, è tutta spontanea, mistica, in una parola, divina. La proprietà appartiene alla grande famiglia delle credenze istintive, che, sotto il manto della religione e dell’autorità, regnano dappertutto ancora sulla nostra orgogliosa specie. La proprietà, in una parola, è essa stessa una religione; essa ha la sua teologia, l’economia politica; la sua casistica, la giurisprudenza; la sua mitologia e i suoi simboli nelle forme esteriori della giustizia e dei contratti. L’origine storica della proprietà, come di ogni religione, si nasconde nelle tenebre. Interrogata su se stessa, essa risponde col fatto della sua esistenza, essa si spiega con leggende, e dà delle allegorie per prove. Infine la proprietà come ogni religione, è sottomessa alla legge dello sviluppo. Così la si vede via via semplice diritto d’uso e di abitazione, come presso i Germani e gli Arabi; possessione patrimoniale, inalienabile a perpetuità, come presso gli Ebrei; feudale ed enfiteutica come al Medioevo; assoluta e messa in circolazione a volontà del proprietario, tale quasi come la conobbero i Romani, e noi l’abbiamo oggi. Ma già, la proprietà, pervenuta al suo apogeo, volge verso la propria fine; attaccata dall’accomandita, dalle nuove leggi d’ipoteche, dall’espropriazione per causa d’utilità pubblica, dalle innovazioni del credito agricolo, dalle nuove teorie sull’affitto, ecc., il momento s’avvicina, in cui essa non sarà che l’ombra di se stessa. [Vedi: Troplong, Contract de Louage, tomo I, dove sostiene solo contro tutti i giuristi a lui anteriori e contemporanei, e con ragione, secondo noi, che nell’affitto l’affittuario acquista un diritto sulla cosa, e che l’affitto dà luogo a un’azione reale, e nello stesso tempo personale].

A questi tratti generali, non si può disconoscere il carattere religioso della proprietà.

Questo carattere mistico e progressivo si mostra soprattutto nell’illusione singolare che la proprietà cagiona ai suoi propri teorici, e che consiste in ciò che più si sviluppa, si riforma, e si migliora la proprietà, più se ne affretta la rovina, e s’immagina sempre di credervi di più allorché in realtà vi si crede di meno: illusione, del resto, comune a tutte le religioni.

È così che il cristianesimo di S. Paolo, il più filosofo degli apostoli, non è già più il cristianesimo di S. Giovanni, la teologia di S. Tommaso d’Aquino non è la stessa di quella di Agostino e di Atanasio; e il cattolicesimo di [Louis] Bautain, Bouchez e Lacordaire, non è più il cattolicesimo di [Louis] Bourdaloue e di Bossuet. La religione per i mistici moderni che s’immaginano di ingrandire le vecchie idee, mentre le soffocano, non è quasi più che la fraternità umana, l’unità dei popoli, la solidarietà e l’armonia nella gestione del globo. La religione è soprattutto l’amore, sempre l’amore. Pascal si sarebbe scandalizzato delle aspirazioni erotiche dei devoti del nostro tempo. Dio, nel secolo XIX, è l’amore più puro; la religione è l’amore; la morale, ancora l’amore. Mentre per Bossuet il dogma era tutto, perché dal dogma dovevano scaturire la carità e le opere di carità; la carità è messa dai moderni in primo piano, e il dogma si riduce ad una formula per se stessa insignificante, e che trae tutto il suo valore dal suo contenuto, cioè, l’amore o, per meglio dire, la morale.

E perciò i veri nemici della religione, quelli che in tutti i tempi lavorarono di più alla sua rovina, furono sempre quelli che l’interpretarono con più zelo, cercandovi un senso filosofico, e sforzandosi di renderla ragionevole, secondo il voto di S. Paolo, uno dei primi che si posero a quest’opera impossibile dell’accordo della ragione con la fede. I veri nemici della religione, sono questi quasi-razionalisti, che pretendono ricondurla a ciò che essi chiamano suoi princìpi, senza accorgersi che la spingono verso la tomba, e che sotto pretesto di affrancare la religione dalla lettera che uccide, cioè dal simbolismo che è sua essenza, e d’insegnarla secondo lo spirito che vivifica, in altri termini secondo la ragione che dubita, e la scienza che dimostra, acconciando senza posa la tradizione, travestendo la fede, torcendo il senso delle scritture, arrivano, per una degradazione insensibile del dogma, alla negazione formale del dogma.

La religione, dicono questi falsi logici, sulla fede di un’etimologia di Cicerone, la religione è il legame dell’umanità; mentre invece dovrebbero dire: la religione è il segno, l’emblema della legge sociale. Ora, cancellandosi quest’emblema tutti i giorni sotto lo stropiccìo della critica, non resta che l’aspettativa di una realtà, che la scienza positiva solo può determinare e raggiungere.

Così la proprietà, una volta che si è cessato di difenderla nella sua brutalità originale, e si parla di disciplinarla, di sottometterla alla morale, di subordinarla allo Stato, in una parola di socializzarla, la proprietà pericola, perisce. Perisce, perché è progressiva; perché la sua idea è incompleta e la sua natura non ha nulla di definitivo; perché è il momento principale di una serie il cui insieme solo può dare una idea vera, in una parola perché è una religione. Ciò che si ha l’aria di conservare e che in realtà si insegue sotto il nome di proprietà, non è più la proprietà; è una forma nuova di possedimento senza esempio nel passato, e che ci sforziamo di dedurre dai princìpi o motivi presunti della proprietà, per effetto di quella illusione di logica, che ci fa sempre supporre all’origine o al fine di una cosa ciò che conviene cercare nella cosa stessa, la sua significazione e la sua portata.

Ma se la proprietà è una religione, e se, come ogni religione, è progressiva, come ogni religione ha il suo oggetto proprio e specifico. Il cristianesimo e il buddismo sono le religioni della penitenza, o dell’educazione dell’umanità, il maomettismo è la religione della fatalità; la monarchia e la democrazia sono una sola e medesima religione, la religione dell’autorità; la filosofia stessa è la religione della ragione. Che cos’è dunque questa religione particolare, la più tenace delle religioni, che deve trascinare tutte le altre nella sua caduta e tuttavia non perirà che l’ultima, alla quale di già i suoi seguaci non credono più, la proprietà?

Siccome la proprietà si manifesta con l’occupazione e l’usufrutto; ha per scopo di fortificare e d’ingrandire il monopolio col dominio e l’eredità; a mezzo della rendita raccoglie senza lavoro, con l’ipoteca compromette senza cauzione; è refrattaria alla società; la sua regola è il piacere, e deve perire per la giustizia; la proprietà è la religione della forza.

Le favole religiose ne fanno testimonianza. Caino, il proprietario, secondo il Genesi, conquista la terra con la sua lancia, l’attornia di pioli, se ne fa una proprietà, e ammazza Abele, il povero, il proletario, figlio come lui di Adamo, l’uomo, ma di casta inferiore, di condizione servile. Queste etimologie sono istruttive: dicono di più con la loro semplicità che non tutti i commentari. [Quin, piolo, lancia, giavellotto; qaneh, latino canna, canna, giunco, materia del giavellotto; qanah, circondare di pioli, acquistare: ainé, essere geloso come il proprietario che si chiude. – Baï, avverbio di negazione; belimah, niente del tutto, nulla; baïa, logorarsi, invecchiare, venire a niente; habal, svanire; habel, uomo da niente, da nulla]. Gli uomini hanno sempre parlato la stessa lingua; il problema dell’unità del linguaggio è dimostrato dall’identità delle idee che esso esprime; ed è ridicolo disputare sulle varianti di suoni e di caratteri.

Così, secondo la grammatica, come secondo la favola e l’analisi, la proprietà, religione della forza, è nello stesso tempo religione della servitù. Secondo che s’impadronisca a mano armata, o proceda per esclusione e monopolio, essa genera due specie di servitù: l’uno, il proletariato antico, risultato del fatto primitivo della conquista o della divisione violenta di Adamo, l’umanità, in Caino e Abele, patrizi e plebei; l’altro il proletariato moderno, la classe operaia degli economisti, prodotta dallo sviluppo delle fasi economiche, che tutte si riassumono, come s’è visto, nel fatto capitale della consacrazione del monopolio col dominio, l’eredità e la rendita.

Ora, la proprietà, cioè, nella sua espressione semplice, il diritto della forza, non poteva a lungo conservare la sua rozzezza originale; dal primo giorno cominciò a comporre la sua fisionomia, a contraffarsi, a dissimularsi sotto una moltitudine di cambiamenti. Arrivò a un punto che il nome di proprietario, sinonimo, nel principio, di brigante e di ladro, è diventato alla lunga, per la trasformazione insensibile della proprietà, e per una di quelle anticipazioni dell’avvenire frequenti nello stile religioso, precisamente il contrario di ladro e di brigante. Ho raccontato in un’altra opera questa degradazione della proprietà: vado a riprodurla con qualche sviluppo.

Il furto dell’altrui bene si esercita con una infinità di mezzi, che i legislatori hanno con cura distinti e classificati, secondo il grado di brutalità o di finezza, come se avessero voluto ora punire e ora incoraggiare il ladrocinio. Così si ruba assassinando sulla pubblica via, isolatamente e in banda, per rottura, scalata, ecc., per sottrazione semplice, per falso in scrittura pubblica o privata, per fabbricazione di false monete.

Questa specie comprende tutti i ladri che esercitano senz’altro mezzo che la forza o la frode aperta: banditi, briganti, pirati, ladri di terra e di mare. Gli antichi eroi si gloriavano di questi nomi onorevoli, e consideravano la loro professione tanto nobile quanto lucrosa.

Nembrot, Teseo, Giasone e i suoi Argonauti, Jefte, Davide, Caco, Romolo, Clodoveo e i suoi successori Merovingi, Roberto il Guiscardo, Tancredi d’Altavilla, Boemondo e la maggior parte degli avventurieri normanni, furono briganti e ladri. Il brigantaggio fu tutta l’occupazione, il solo mezzo d’esistenza dei nobili nel Medioevo; è ad esso che l’Inghilterra deve tutte le sue colonie. Si conosce l’odio dei popoli selvaggi per il lavoro; l’onore, ai loro occhi, non sta nel produrre, ma nel prendere.

Possa tu coltivare un campo! si dicono essi fra loro in forma di maledizione. Il carattere eroico del ladro è espresso in questo verso di Orazio, parlando di Achille: Jura negat sibi nata, nihil non arrogat armis; e con queste parole del testamento di Giacobbe, che gli Ebrei applicano a Davide, e i cristiani misticamente a Cristo: Manus eius contra omnes [Genesi]. Questa disposizione alla rapina è stata in ogni tempo inerente al mestiere delle armi; e se Napoleone ha perduto a Waterloo, si può dire che pagava il fio dei brigantaggi dei suoi eroi.

Ho dell’oro, del vino e delle donne, con la mia lancia e il mio scudo, dice ancora il generale Brossard.

Oggi il ladro, il forte armato della Bibbia, è perseguitato come i lupi, le iene; la polizia ha ucciso la sua nobile industria; ai termini del Codice egli è soggetto, secondo la sua specie e qualità, a pene afflittive e infamanti, dalla reclusione fino alla ghigliottina. Il diritto di conquista, cantato da Voltaire, non è più tollerato: le nazioni sono diventate le une in faccia alle altre, a questo riguardo, di una suscettibilità estrema. Quanto all’occupazione individuale, fatta al di fuori di una concessione o concorso dello Stato, non se ne vede più esempio.

Si ruba per truffa, abuso di confidenza, lotteria e gioco. Questa seconda specie di furto fu stimata a Sparta e approvata da Licurgo con l’intendimento di aguzzare lo spirito, e di eccitare il genio dell’invenzione presso i giovani. È la categoria di Dolone, di Sinone, di Ulisse, dei Giudei antichi e moderni, da Giacobbe fino a Deutz, degli Zingari, degli Arabi e di tutti i selvaggi. Il selvaggio ruba senza rossore e senza rimorso, non perché sia depravato, ma perché è ingenuo. Sotto Luigi XIII e Luigi XIV non si era disonorati truffando al gioco: ciò faceva parte delle regole, le oneste persone non si facevano scrupolo di correggere, per mezzo d’uno scaltro artificio, gli oltraggi della fortuna.

Ancora oggi, in tutti i paesi, è un genere di merito molto considerato presso i contadini nell’alto e nel piccolo commercio, di saper fare un affare, ciò che vuol dire gabbare la gente.

La prima virtù della madre di famiglia è di saper rubare a quelli che le vendono o che essa occupa, risparmiando senza posa sul salario e sul prezzo; e se noi non siamo tutti figli di civette, come diceva Paul-Louis [Courier], noi siamo per lo meno figli di mariuole.

È noto con quale pena il Governo si è rassegnato all’abolizione delle lotterie; perdeva una delle sue più care proprietà. Non sono ancora passati 60 anni che la confisca ha cessato di disonorare le nostre leggi; in ogni tempo il primo pensiero del magistrato che punisce, come quello del brigante che assassina, fu di spogliare la vittima. Tutte le nostre imposte, tutte le nostre leggi di dogana, hanno per punto di partenza il furto.

Il furbo, il truffatore, il ciarlatano, quegli che parla in nome di Dio, o che rappresenta la società, come colui che vende amuleti, fa sopratutto uso della destrezza della sua mano, della solidità del suo spirito, del prestigio dell’eloquenza, e di una grande fecondità d’immaginazione. Il suo talento consiste nel sapere a proposito eccitare il desiderio. Così il legislatore, volendo mostrare la sua stima per il talento e la gentilezza, ha creato al di sotto della categoria dei crimini, ove non si fa uso che di viva forza e di agguato, e che conduce seco le pene più terribili, la categoria dei delitti, passibili solo di pene correzionali, non infamanti. Che curioso spiritualismo!

Si ruba con l’usura.

Questa specie odiosa in altri tempi alla Chiesa, e punita severamente ancora ai nostri tempi, non si distingue dal prestito ad interesse, una delle più energiche risorse della produzione, e forma la transizione fra i furti proibiti e i furti autorizzati. Così dà luogo, per la sua natura equivoca, a una quantità di contraddizioni nelle leggi e nella morale, contraddizioni molto abilmente usufruite dalle persone di legge, di finanza e di commercio.

Così l’usuraio che presta al 10% sopra ipoteca incorre in un’ammenda enorme, se è scoperto; il banchiere che percepisce lo stesso interesse, non a titolo di prestito, ma a titolo di commissione, è protetto da un privilegio reale. Sarebbe troppo lungo enumerare tutti i furti che si commettono dalla finanza: ma basta dire, che presso tutti i popoli antichi, la professione di cambista, banchiere, gabelliere o appaltatore era reputata poco onorevole. Oggi i capitalisti che mettono i loro fondi sia sullo Stato, sia nel commercio, all’interesse perpetuo del 3, 4, 5%, cioè, che percepiscono in più del premio legittimo del prestito un interesse molto minore di quello dei banchieri e usurai, sono il fiore della società. È sempre lo stesso sistema: la moderazione nel furto forma la nostra virtù.

Si ruba con la costituzione di rendita, l’affitto, la pigione, la locazione.

La rendita considerata nel suo principio e nel suo destino, è la legge agraria, per la quale tutti gli uomini devono diventare proprietari garantiti e inamovibili dal suolo; quanto alla sua importanza, rappresenta la porzione di frutti che eccede il salario del produttore, e che appartiene alla comunità. Durante il periodo d’organizzazione, questa rendita è pagata al proprietario, a nome della società che si manifesta sempre con l’individualizzazione come si spiega con i fatti.

Ma il proprietario fa di più che pigliare la rendita, ne gode da solo; non rende nulla alla comunità, non ne dà conto ai suoi compagni, divora, senza mettervi niente del suo, il prodotto del lavoro collettivo. E sempre furto, furto legale, se si vuole, ma furto effettivo.

C’è furto nel commercio e nell’industria, tutte le volte che l’imprenditore trattiene all’operaio qualche cosa sul salario, o percepisce una riduzione in più di ciò che gli deve.

Ho provato, trattando del valore, che ogni lavoro deve lasciare un eccedente; in modo che supponendo il consumo del lavoratore sempre lo stesso, il suo lavoro dovrebbe creare, al di là della sussistenza, un capitale sempre più grande. Sotto il regime della proprietà, l’eccedente del lavoro essenzialmente collettivo passa, intero, come la rendita, al proprietario: ora, fra questa appropriazione mascherata e l’usurpazione fraudolenta di un bene comunale, dov’è la differenza?

La conseguenza di questa usurpazione è che il lavoratore, la cui parte nel prodotto collettivo è senza posa confiscata dall’imprenditore, è sempre in perdita, mentre il capitalista è sempre in guadagno; che il commercio, il cambio di valori essenzialmente eguali, non è più che l’arte di comperare a 3 franchi ciò che ne vale 6, e di vendere a 6 franchi ciò che ne vale 3; e che l’economia politica, che sostiene ed esalta questo regime, è la teoria del furto, come la proprietà, il cui rispetto mantiene un simile stato di cose, è la religione della forza. È giusto, diceva recentemente Blanqui all’Accademia delle Scienze morali in un discorso sulle coalizioni, che il lavoro partecipi alle ricchezze che ha prodotto. Se dunque non vi partecipa è una ingiustizia; e se è ingiustizia, è ladrocinio, e i proprietari sono ladri. Parlate dunque chiaro, economisti!...

La giustizia, al primo uscire dalla comunità negativa, chiamata dagli antichi poeti età dell’oro, è dunque il diritto della forza. In una società che nasce all’organizzazione, l’ineguaglianza delle facoltà risveglia l’idea del valore; questa conduce all’idea di proporzione fra il merito e la fortuna; e siccome il primo e il solo merito allora riconosciuto è la forza, è il più forte, aristos (superlativo di arés, forte, nome proprio del Dio Marte) colui che, essendo il più meritevole, il migliore aristos, ha diritto alla più grossa parte; e se questa parte gli è rifiutata, naturalmente se ne impadronisce. Di là ad arrogarsi il diritto di proprietà su tutte le cose non c’è che un passo.

Tale fu il diritto eroico, conservato, per lo meno nei ricordi, presso i Greci e i Romani, fino agli ultimi tempi delle loro repubbliche. Platone, nel Gorgia, introduce un tal Callicle che, con ragioni speciose, sostiene il diritto della forza, mentre Socrate, difensore dell’eguaglianza, tou isou, lo confuta con maggiore eloquenza che logica.

Narrasi del grande Pompeo, che arrossiva volentieri, e che intanto gli scappò detto un giorno: Perché dovrei rispettare le leggi quando porto le armi? Questo tratto dipinge l’uomo, in cui l’ambizione e la coscienza sono in lotta, e che cerca di giustificare la sua passione con una massima eroica, un proverbio da ladro.

Al diritto della forza succedette il diritto dell’astuzia, il quale altro non è che una degradazione del primo, e una nuova manifestazione della giustizia: diritto detestato dagli eroi, che non vi brillano e vi perdono troppo. La storia conosciuta di Edipo e della Sfinge, è un’allusione a questo diritto della sottigliezza, in virtù del quale il vincitore è padrone, come in guerra, della vita del vinto.

L’attitudine a ingannare un rivale con insidiose proposte parve meritare anche essa la sua ricompensa; ma per una relazione che palesava già il vero sentimento del giusto, e che intanto altro non era che una incongruenza, i forti vantarono sempre la buona fede e la semplicità, mentre gli abili sprezzavano i forti, chiamandoli bruti e barbari.

In quel tempo, il rispetto della parola, e l’osservanza del giuramento erano di un rigore letterale più che logico: Uti lingua noncupassit, ita ius esto, come la lingua avrà parlato così sarà il diritto, dice la legge delle 12 tavole. La ragione nascente s’attacca meno al fondo che alla forma; essa sente per istinto che la forma, il metodo, fanno tutta la sua certezza. L’astuzia, diciamo meglio, la perfidia, informò quasi tutta la politica dell’antica Roma. Tra gli altri esempi Vico cita questo portato anche da Montesquieu: i Romani avevano assicurato ai Cartaginesi la conservazione dei loro beni e delle loro città, impiegando con astuzia la parola civitas, che significa la società, lo Stato. I Cartaginesi, al contrario, che avevano inteso la città materiale, urbs, si erano messi a rialzare i loro baluardi e furono attaccati, per causa di infrazione al trattato, dai Romani, che, seguendo in questo il diritto eroico, non credettero iniquo, dopo aver ingannato i loro nemici con un equivoco, sostenere una guerra ingiusta. La diplomazia moderna non ha nulla cambiato a queste antiche abitudini.

Nel furto, quale la legge l’interdice, la forza e l’astuzia sono impiegate sole e senza accessori. Nel furto autorizzato, esse si trasformano sotto una utilità qualunque di cui si servono come strumento per spogliare la vittima.

Il ricorso diretto alla violenza e alla furberia, è stato presto a unanimità respinto; è questo accordo dei popoli a rinunziare alla forza che costituisce e distingue la civiltà. Nessuna nazione è giunta ancora a liberarsi del furto, mascherato in lavoro, talento e possesso.

Il diritto della forza e il diritto dell’astuzia, celebrati dai rapsodi nei poemi dell’Iliade e dell’Odissea, ispirarono le repubbliche greche, e riempirono del loro spirito le leggi romane, dalle quali sono passate nei nostri costumi e nei nostri Codici.

Il cristianesimo nulla ha cambiato: il cristianesimo, essendosi atteggiato a religione ostile, fin da principio, alla filosofia, e disprezzatrice della scienza, non poteva non accogliere tutto ciò che fosse secondo l’essenza religiosa. È così che, dopo aver fatto professione d’eguaglianza e di senso comune in Matteo e Paolo, raccolse a poco a poco attorno a sé le superstizioni che aveva prima proscritte: il politeismo, il dualismo, il trinitarismo e la magia, la negromanzia, la gerarchia, la monarchia, la proprietà, tutte le religioni e abominazioni della terra.

L’ignoranza dei Pontefici e dei Concili, in tutto ciò che riguarda la morale, ha eguagliato quella del foro e dei pretori; e questa ignoranza profonda della società e del diritto è ciò che ha perduto la Chiesa e che disonora per sempre il suo insegnamento. Del resto, l’infedeltà è stata generale; tutte le sette cristiane hanno disconosciuto il precetto di Cristo; tutte hanno errato nella morale, perché erravano nella dottrina; tutte sono colpevoli di proposizioni false, piene di iniquità e di omicidio. Domandi perdono alla società, questa Chiesa che è detta infallibile, e che non ha saputo conservare il deposito; le sue sorelle, pretese riformate, si umilino... e il popolo, disingannato, ma clemente, provvederà.

Così la proprietà, il diritto convenzionale, tanto differente dalla giustizia quanto l’eclettismo differisce dalla verità, e il valore dei listini prezzi, si costituisce per una serie di oscillazioni fra i due estremi dell’ingiustizia, la forza brutale e l’astuzia perfida, fra le quali i contendenti si fermano sempre a una convenzione. Ma la giustizia viene al seguito del compromesso; la convenzione esprimerà presto o tardi la realtà; il diritto vero si scioglie ben presto dal diritto sofistico e arbitrario; la riforma si opera per la lotta dell’intelligenza e della forza; e a questo vasto movimento, il cui punto di partenza è nelle tenebre della selvatichezza, e che si estingue il giorno in cui la società s’elevi all’idea sintetica del possesso e del valore; a quest’insieme di trasformazioni e di rivoluzioni istintivamente compiute, e che cerca la sua soluzione scientifica e definitiva, io do il nome di religione della proprietà.

Ma se la proprietà, spontanea e progressiva, è una religione, essa è come la monarchia e il sacerdozio, di diritto divino.

Similmente l’ineguaglianza delle condizioni e delle fortune, la miseria, è di diritto divino; lo spergiuro e il furto sono di istituzione divina: l’usufrutto dell’uomo da uomo è affermazione, manifestazione di Dio. I veri deisti sono i proprietari; i difensori della proprietà sono tutti gli uomini che credono in Dio; le condanne a morte e alla tortura, che essi eseguono gli uni sopra gli altri in seguito a malintesi sulla proprietà, sono sacrifici umani offerti al Dio della forza. Quelli, al contrario, che annunciano la prossima fine della proprietà, che provocano con Gesù Cristo e Paolo l’abolizione della proprietà; che ragionano sulla produzione, il consumo e la distribuzione delle ricchezze, sono gli anarchici, e gli atei; e la società che marcia visibilmente all’eguaglianza e alla scienza, la società è la negazione continua di Dio.

Dimostrazione dell’ipotesi di Dio con la proprietà, e necessità dell’ateismo per il perfezionamento fisico, morale e intellettuale dell’uomo, tale è lo strano problema che ci resta da risolvere. Poche parole basteranno: i fatti sono conosciuti, la nostra prova è fatta.

L’idea dominante del secolo, l’idea oggi più comune e più autentica è l’idea di progresso. Dopo [Gotthold] Lessing, il progresso, divenendo la base delle credenze sociali, fa nello spirito la stessa parte che altre volte ha fatto la rivelazione, che si direbbe da esso negata, mentre non fa in realtà che tradurla.

Il latino revelatio, come il greco apokalypsis, significa, parola per parola, sviluppo, progresso: ma l’antichità religiosa vedeva questo sviluppo in una storia raccontata, prima dell’evento, da Dio stesso, mentre la ragione filosofica dei moderni la vede nella successione dei fatti compiuti. La profezia non è l’opposto, essa è il mito della filosofia della storia.

Lo sviluppo dell’umanità, tale è dunque, ma con una coscienza di più in più larga, la più profonda e più comprensiva nostra idea; sviluppo del linguaggio e delle leggi; sviluppo delle religioni e delle filosofie; sviluppo economico e industriale; sviluppo della giustizia, per la forza, l’astuzia e le convenzioni; sviluppo delle scienze e delle arti. E il cristianesimo, che abbraccia ogni religione, che si oppone a ogni filosofia, che si appoggia da una parte sulla rivelazione, dall’altra sulla penitenza, cioè che crede all’educazione dell’uomo mediante la ragione e l’esperienza, il cristianesimo, nel suo complesso, è il simbolo del progresso.

In faccia a quest’idea sublime, feconda e altamente razionale del progresso, persiste e sembra ravvisarsi ancora un’altra idea, gigantesca, enigmatica, impenetrabile ai nostri strumenti dialettici, come sono al telescopio le profondità del firmamento: è l’idea di Dio.

Che cosa è Dio?

Dio è, ipoteticamente parlando, l’eterno, l’onnipotente, l’infallibile, l’immutabile, lo spontaneo; in una parola, l’infinito in ogni facoltà, proprietà e manifestazione.

Dio è l’essere in cui l’intelligenza e l’attività, elevate a una potenza infinita, diventano adeguate e identiche alla fatalità stessa: Summa lex, summa libertas, summa necessitas. Dio dunque è per essenza antiprogressista, antiprovvidenziale: Dictum factum, ecco il suo motto, la sua sola e unica legge. E come in lui l’eternità esclude la provvidenza, così pure l’infallibilità esclude la percezione dell’errore, e per conseguenza la percezione del male: Sanctus in omnibus operibus suis. Ma Dio, per la sua qualità di infinito in tutti i sensi, acquista una specificazione propria, per conseguenza una possibilità d’esistenza risultante dalla sua opposizione all’essere finito, progressivo e provvidenziale, che lo conosce come suo antagonista. Dio, in una parola, non avendo nel suo concetto niente di contraddittorio, è possibile, bisogna verificare questa ipotesi involontaria della nostra ragione.

Tutte queste nozioni ci sono state fornite dall’analisi dell’essere umano, considerato nella sua costituzione morale e intellettuale, esse si sono presentate, in seguito a una dialettica irrefutabile, come il postulato necessario della nostra natura contingente, e della nostra funzione sul globo.

Più tardi, ciò che abbiamo dapprima riconosciuto come semplice possibilità di esistenza, si è elevato, per la teoria del dualismo irriducibile e della progressione degli esseri, all’importanza di una probabilità. Abbiamo constatato che il fatto, d’ora innanzi acquisito alla scienza, di una creazione progressiva, che si svolge su una sostanza dualista, e la cui ragione e l’ultimo termine ci sono già dati, implicava alla sua origine un altro fatto, quello di un’essenza infinita in spontaneità, efficacia e certezza, di cui tutti gli attributi, per conseguenza, sarebbero inversi di quelli dell’uomo.

Resta dunque da mettere in luce questo fatto probabile, questa esistenza sine qua non che la ragione esige, che l’osservazione suggerisce, ma che niente ancora ci dimostra, e che, in tutti i casi, la sua infinità e la sua solitudine ci tolgono ogni speranza di comprendere. Resta da dimostrare l’indimostrabile, da penetrare l’inaccessibile, da mettere, in una parola, sotto lo sguardo dell’uomo mortale, l’infinito.

Questo problema, irrisolvibile a primo colpo d’occhio, contraddittorio nei termini, si riduce, se ci si prende la pena di riflettervi, al teorema seguente, nel quale ogni contraddizione scompare: fare l’equazione fra la fatalità e il progresso, in tal modo che l’esistenza infinita e l’esistenza progressiva, adeguate l’una all’altra, ma non identiche, e al contrario inverse, che si penetrano, ma non si confondono, servendosi reciprocamente di espressione e di legge, ci appaiono a loro volta, così come lo spirito e la materia che le costituiscono, ma su un’altra dimensione, come due facce inseparabili e irriducibili dell’essere.

Si è visto, e abbiamo avuto cura di farlo più di una volta notare, che nella scienza sociale le idee sono tutte egualmente eterne ed evolutive, semplici e complesse, aforistiche e subordinate. Per una intelligenza trascendente, non c’è nel sistema economico né principio né conseguenza né dimostrazione né deduzione: la verità è una e identica, senza condizione di concatenamento, perché essa è verità dappertutto, sotto una infinità di aspetti, e in una infinità di teorie e di sistemi.

È solamente nell’esposizione didattica che la serie delle proposizioni si manifesta. La società è come un sapiente che, avendo la scienza posta nel suo cervello, l’abbraccia nel suo insieme, la conosce senza inizio né fine, la prende simultaneamente e distintamente in tutte le sue parti, e trova in ciascuna evidenza e priorità eguale. Ma questo stesso uomo se vuole produrre la scienza è costretto a svolgerla in parole, proposizioni e discorsi successivi, cioè a presentare come una progressione ciò che gli appare come un tutto indivisibile.

Così le idee di libertà, di eguaglianza, di tuo e di mio, di merito e demerito, di credito e di debito, di servo e di padrone, di proporzione, di valore, di concorrenza, di monopolio, d’imposta, di cambio, di divisione del lavoro, di macchine, di dogane, di rendita, d’eredità, ecc., tutte le categorie, tutte le opposizioni, tutte le sintesi indicate dall’origine del mondo nel vocabolario economico, sono contemporanee nella ragione. E tuttavia per costituire una scienza che sia accessibile, queste idee hanno bisogno di essere disposte secondo una teoria che ce le mostri generandosi tra loro e che abbia il suo principio, il suo mezzo e la sua fine. Per entrare nella pratica e realizzarsi in una maniera efficace, queste stesse idee devono posarsi in una serie di istituzioni oscillanti, accompagnate da mille accidenti imprevisti, e da lunghi tentativi. In una parola, come nella scienza si ha la verità assoluta e trascendentale e la verità teorica, così nella società si ha nello stesso tempo fatalità e provvidenza, spontaneità e riflessione e la seconda di queste due potenze lavora costantemente a soppiantare la prima, ma non fa sempre in realtà che il medesimo lavoro.

La fatalità è dunque una forma dell’essere e dell’idea: la deduzione, il progresso, un’altra forma.

Ma fatalità, progresso, sono astrazioni di linguaggio ignote alla natura, in cui tutto è realizzato o non lo è. Esistono dunque nell’umanità l’essere fatale e l’essere progressivo, inseparabili, ma distinti, opposti, antagonisti, sempre irriducibili.

Quali creature dotate di una spontaneità irriflessiva e involontaria, sottomesse alle leggi di un organismo fisico e sociale, ordinato per tutta l’eternità, immutabile nei suoi termini, irresistibile nel suo insieme, e che si compie e si realizza mediante sviluppo e crescita; in quanto viviamo, diventiamo grandi e moriamo, lavoriamo, scambiamo, amiamo, ecc., noi siamo l’essere fatale, in quo vivimus, movemur et sumus. Noi siamo la sua sostanza, la sua anima, il suo corpo, la sua figura, allo stesso titolo, e nè più né meno che gli animali, le piante e le pietre.

Ma in quanto osserviamo, riflettiamo, apprendiamo e operiamo in conseguenza, sottomettiamo a noi la natura e diventiamo padroni di noi stessi, siamo l’essere progressivo, siamo uomini. Dio, natura naturans, è la base, la sostanza eterna della società; e la società, natura naturata, è l’essere fatale in perpetua emissione di se stesso. La fisiologia rappresenta, quantunque imperfettamente, questa dualità, nella sua distinzione così conosciuta della vita organica e della vita di relazione. Dio non esiste solo nella società; ma solo nella società Dio è conosciuto, per la sua opposizione con l’essere progressivo; è la società, è l’uomo che con la sua evoluzione fa cessare il panteismo originale, ed è per ciò che il naturalista, il quale si immerge e si assorbe nella fisiologia e nella materia, senza studiare mai né la società né l’uomo, perde a poco a poco il sentimento della divinità. Tutto è Dio per lui, cioè, non c’è Dio.

Dio e l’uomo, diversi di natura, si distinguono dunque per le loro idee e i loro atti, in una parola, per il loro linguaggio.

Il mondo è la coscienza di Dio. Le idee o i fatti di coscienza in Dio sono l’attrazione, il movimento, la vita, il numero, la misura, l’unità, l’opposizione, la progressione, la serie, l’equilibrio: tutte queste idee conosciute e prodotte eternamente, per conseguenza senza successione, previdenza né errore. Il linguaggio di Dio, i segni delle sue idee, sono tutti gli esseri e i loro fenomeni.

Le idee o i fatti di coscienza presso l’uomo sono l’attenzione, il paragone, la memoria, il giudizio, il ragionamento, l’immaginazione, il tempo, lo spazio, la causalità, il bello e il sublime, l’amore e l’odio, il dolore e la voluttà. Queste idee, l’uomo le produce per segni specifici: lingue, industria, agricoltura, scienze e arti, religioni, filosofie, leggi, governi, guerre, conquiste, cerimonie allegre e funebri, rivoluzioni, progressi.

Le idee di Dio sono comuni all’uomo, che viene da Dio come la natura; che non è altro che la coscienza della natura; che prende le idee di Dio per princìpi materiali di tutte le sue, e converte nel suo essere, e s’assimila incessantemente la sostanza divina. Ma le idee dell’uomo sono straniere a Dio, che non comprende il nostro progresso, e per cui tutti i prodotti della nostra immaginazione sono mostri, sono nulla. È per ciò che l’uomo parla la lingua di Dio come la propria, mentre Dio è impotente a parlare la lingua dell’uomo; e nessuna conversazione, nessun patto fra essi è possibile. È per ciò che tutto quanto nell’umanità viene da Dio, si arresta a Dio o ritorna a Dio, è ostile all’uomo, nocivo al suo sviluppo e alla sua perfezione.

Dio crea il mondo, scaccia, per così dire, l’uomo dal suo seno, perché è potenza infinita, e sua essenza è generare eternamente il progresso Pater ab ovo se videns patrem, sibi gignit natum, dice la teologia cattolica. Dio e l’uomo sono dunque necessari l’uno all’altro, e l’uno dei due non può essere negato senza che l’altro sparisca nello stesso tempo. Che sarebbe il progresso, senza una legge assoluta e immutabile? Che sarebbe la fatalità, se essa non si svolgesse al di fuori? Supponiamo, cosa impossibile, che l’attività in Dio cessi a un tratto: la creazione rientra nell’esistenza del caos; essa ritorna allo stato di materia senza forma, di spirito senza idee, di fatalità inintelligibile. Dio cessa di agire, Dio non è più.

Ma Dio e l’uomo, malgrado la necessità che li incatena, sono irriducibili; ciò che i moralisti hanno chiamato, con una pia calunnia, la guerra dell’uomo contro se stesso, non è, in fondo, che la guerra dell’uomo contro Dio, la guerra della riflessione contro l’istinto, la guerra della ragione che prepara, sceglie e temporeggia, contro la passione impetuosa e fatale, eccone la prova irrecusabile. L’esistenza di Dio e dell’uomo è provata dal loro antagonismo eterno: ecco ciò che spiega la contraddizione dei culti, che ora supplicano Dio di risparmiare l’uomo, di non indurlo in tentazione, come Fedra che scongiura Venere di strappare dal suo cuore l’amore d’Ippolito; ora domandano a Dio la sapienza e l’intelligenza, come il figlio di Davide salendo sul trono, come facciamo ancora noi nella nostra messa dello Spirito Santo.

Ecco ciò che spiega, infine, le guerre civili e di religione, la persecuzione fatta alle idee, il fanatismo dei costumi, l’odio per la scienza, l’orrore del progresso, cause prime di tutti i mali che affliggono la nostra specie.

L’uomo, come uomo, non può mai trovarsi in contraddizione con se stesso: egli non sente molestia e strazio che dalla resistenza di Dio che è in lui. Nell’uomo si riuniscono tutte le spontaneità della natura, tutte le istigazioni dell’essere fatale, tutti gli dèi e i demoni dell’universo. Per sottomettere queste potenze, per disciplinare quest’anarchia, l’uomo non ha che la sua ragione, il suo pensiero progressivo; ed ecco ciò che costituisce il dramma sublime, le cui peripezie formano, nel loro insieme, la ragione ultima di tutte le esistenze. Il destino della natura e dell’uomo è la metamorfosi di Dio: ma Dio è inesauribile, e la nostra lotta eterna.

Non siamo dunque sorpresi se tutto ciò che fa professione di misticità e di religione, tutto ciò che rileva o si reclama proveniente da Dio, tutto ciò che si sforza di retrogradare verso l’ignoranza primitiva, tutto ciò che preconizza la soddisfazione della carne e il culto delle passioni, si mostra partigiano della proprietà, nemico dell’uguaglianza e della giustizia. Siamo alla vigilia di una battaglia in cui tutti i nemici dell’uomo saranno congiurati contro di lui, i sensi, il cuore, l’immaginazione, l’orgoglio, l’accidia, il dubbio: Astiterunt reges terrae adversus Christum!... La causa della proprietà è la causa delle dinastie e dei sacerdoti, della demagogia e del sofisma, degli improduttivi e dei parassiti. Nessuna ipocrisia, nessuna seduzione sarà risparmiata per difenderla. Per trascinare il popolo, si comincerà per impietosirsi della sua miseria; si ecciterà in lui l’amore e la tenerezza, tutto ciò che può illanguidire il coraggio e piegare la volontà, si eleverà al disopra della riflessione filosofica e della scienza il suo fortunato istinto. Poi gli si celebreranno le glorie nazionali; si riscalderà il suo patriottismo; gli si parlerà dei suoi grandi uomini, e poco a poco al culto della ragione, sempre proscritta, si sostituirà il culto degli usufruttuari, l’idolatria degli aristocratici.

Il popolo, come la natura, ama realizzare le sue idee: alle questioni teoriche, preferisce le questioni di persone. Se esso si rivolta contro Ferdinando, è per obbedire a Masaniello. Gli bisogna un Lafayette, un Mirabeau, un Napoleone, un semidio.

Non accetterà la sua salvezza da un commesso, a meno che egli non sia vestito da generale. Così vedete come il culto degli idoli prosperi! Vedete i fanatici di Fourier e del buon Icaro, grandi uomini che vogliono organizzare la società, e non hanno mai potuto stabilire una cucina; vedete i democratici, che fanno consistere la grandezza e la virtù in un successo alla tribuna, sempre pronti a correre sul Meno, come gli Ateniesi a Cheronea, alla voce di qualche Demostene, che il giorno prima avrà ricevuto l’oro da Filippo, e così getterà il suo scudo nella battaglia.

Delle idee, dei princìpi, dell’intelligenza dei fatti compiuti nessuno se ne occupa; sembra che ne abbiamo già troppo della saggezza antica. La democrazia pensa a Rousseau, i dinastici e i legittimisti sognano Luigi XIV; i borghesi rimontano fino a Luigi il Grosso; i preti non s’arrestano che a Gregorio VII, e i socialisti a Gesù: è c’è chi retrocederà più lontano. In questo abbassamento universale, lo studio non è più, come il lavoro parcellare, che una maniera di abbrutirsi; la critica si riduce ad insipida arlecchinata; ogni filosofia muore.

È proprio ciò che abbiamo visto, alcuni mesi or sono, quando, per non citare che questo solo esempio, un dotto, amico del popolo, che fa professione d’insegnare la storia e il progresso, in mezzo a un diluvio di frasi elegiache e ditirambiche, non ha saputo esprimere sulla questione sociale che questo giudizio degno di compassione: “Quanto al comunismo, una parola basta. L’ultimo paese in cui la proprietà sarà abolita, è precisamente la Francia. Se, come diceva qualcuno di questa scuola, la proprietà è il furto, vi sono qui venticinque milioni di proprietari che non si lasceranno spogliare domani”.

L’autore di questa scempiaggine è Michelet, professore al Collegio di Francia, membro dell’Accademia di scienze morali e politiche; e il qualcuno a cui fa allusione, sono io. Michelet poteva indicarmi per nome senza ch’io arrossissi: la definizione della proprietà è mia, e tutta la mia ambizione è di provare, che ne ho capito il senso e l’estensione.

La proprietà è il furto, non si dicono, in mille anni, due sentenze come questa. Io non ho altro di bene sulla terra che questa definizione della proprietà: ma la considero più preziosa che i milioni di Rothschild, e oso dire che essa sarà l’avvenimento più considerevole del Governo di Luigi-Filippo.

Ma chi dunque ha detto a Michelet, che la negazione della proprietà implichi di necessità il comunismo? Come mai sa egli che la Francia è l’ultimo paese del mondo in cui la proprietà sarà abolita? Perché, invece di venticinque milioni di proprietari, non ha egli detto trentaquattro? Dove ha visto che accusassimo le persone, come accusiamo le istituzioni?

E quando aggiunge che i venticinque milioni di proprietari che possiede la Francia non si lasceranno spogliare domani, chi gli dà il diritto di supporre che vi sia bisogno, per questo, del loro consenso? In cinque linee Michelet ha avuto il talento d’essere cinque volte assurdo; ci teneva senza dubbio a realizzare la predizione che ho fatto altre volte contro chiunque tenterà per l’avvenire di difendere la proprietà. Ma che rispondere a un uomo che, dopo 40 anni di studi sulla storia, è venuto, per tutta scienza, a predicare al secolo decimonono l’affrancamento mediante l’Istinto? Altri disputi pure con Michelet: quanto a me lo rinvio alla cronologia.

XII. Nona epoca. La comunione

Al mio amico [François] Villegardelle, comunista.

Mio caro Villegardelle,

Ho ricevuto, ciascuna a suo tempo, le sue due ultime pubblicazioni, e ringrazio.

Ho letto Accord des intérêts dans l’association, et besoins des communes, [Paris 1844], col piacere che doveva procurarmi il suo spirito sottile, il suo pensiero vivo e leggero, la sua espressione sempre scettica e arguta. Che altro cercare, infatti, in uno scritto comunista, se non l’immaginazione e il talento dello scrittore?

Ciò che mi ha colpito nella Histoire des idées sociales [avant la révolution française, Paris 1846] è il titolo seguente: I Socialisti moderni, prevenuti e oltrepassati dagli antichi pensatori e filosofi. Io trovo in questo, lo confesso, molto meno malizia che ingenuità. Che bella raccomandazione per la nostra causa! Prego di fare sapere a un pubblico, informato delle idee di progresso, che l’invenzione s’affievolisce fra noi, a misura che la civiltà si sviluppa sulla base proprietaria, e proclamare, sui tetti, cosa vera, del resto, che il socialismo è in decadenza da Platone e Pitagora in poi. E quale avvertimento per il lettore in capo a una pubblicazione comunista! Lei ha frequentato il falansterio, mio caro Villegardelle, ed è così poco abile!...

Ma mi piace molto il nome di utopia che date in generale a ogni progetto di riforma, concepito in senso contrario alla proprietà. In fatto e in diritto il socialismo, protestando eternamente contro la ragione e la pratica sociale, non può essere niente, è nulla. Al contrario di questi impedimenti al libero commercio, di cui gli economisti sperano trionfare col tempo e che ritornano sempre, il socialismo non viene mai. Non è la sua ora; è condannato a un perpetuo aggiornamento.

Io mi congratulo, mio caro Villegardelle, di questa fortunata scoperta.

Lei dice ancora, e con infinita ragione, a mio avviso, che il pubblico riattacca tutti i rami del socialismo all’antico tronco della comunione. È per questo che lei stesso, dopo aver esaminato dapprima l’utopia di Saint-Simon e più tardi quella di Fourier, trovando che questa gente o non erano in buona fede, o s’arrestavano a metà strada, si è fatto comunista. Contro che, infatti, si sono sollevati in ogni tempo i riformatori? Contro la proprietà. Ora la negazione della proprietà, è il comunismo.

Il più povero icariano può, come un Aristotele, arrivare a questa conseguenza, e la vostra attuale professione di fede dipende interamente dalla fatalità di questo ragionamento.

Perché dunque, lei pensa senza dubbio, perché io, che protesto così altamente contro la proprietà, non imito il vostro esempio? E come mai, malgrado la negazione la più decisa, mi trovo ancora il meno avanzato dei socialisti moderni, i quali tutti sono meno avanzati che gli antichi? Demolire la proprietà era bello, sublime: ma respingere in seguito, a nome di non so qual metafisica, la comunità, si poteva mai dare cosa più inconseguente? Da sei anni persisto in questa dichiarazione ambigua: che devo rispondere al socialismo sconcertato e diffidente?

La ringrazio, mio caro Villegardelle, di avere riconosciuto altamente la mia non solidarietà in faccia al comunismo. La mia giustificazione diverrà più facile, tanto più che ne trovo tutti gli elementi nelle vostre opere. È lei stesso che lo dice; il socialismo, o la comunità, decade in maniera continua, decade perché è un’utopia, cioè niente. Il socialismo se ne va a misura che la società viene, che essa afferma e realizza le sue idee intime e prende posizione nell’esperienza; nello stesso modo che la proprietà si modifica a misura che il legislatore scopre le leggi del giusto, e la pura essenza dell’umanità si manifesta. Ecco ciò che il socialismo e l’economia politica hanno constatato di volta in volta, e che noi accettiamo, lei e io, da uno come dall’altra.

Io sono dunque comunista, come lei, mio caro Villegardelle, ma solo per ipotesi, e in quanto nego la proprietà. Abbattuta la proprietà, si tratta di verificare l’ipotesi comunista. Trovando allora che il comunismo è, come la proprietà, in decadenza continua; che esso è utopistico, cioè uguale a niente, che ogni qualvolta esso tenta di riprodursi, si risolve in una caricatura della proprietà, sono forzato, per essere d’accordo con me stesso, fedele alla ragione come all’esperienza, di concludere contro la comunità, come ho fatto per l’innanzi contro la proprietà; e se mi trovo ora il meno avanzato dei socialisti, è perché esco dall’utopia, mentre essi vi restano.

Questa duplice negazione procede da errore o da cavillo?

Credo fermamente, mio caro Villegardelle, che la natura stessa della società è così fatta; e non dispero di convincerla, per poco che lei voglia discendere con me dalla sublimità degli oracoli socialisti all’esame pratico delle cose. Si ricordi solamente che quando espongo le mie ragioni, non è la mia opinione che sostengo; ma lei stesso che spiego, è il suo titolo che giustifico, sono le sue insinuazioni e le sue maldicenze che concilio con la sua professione di fede. Noi viviamo su due menzogne!... È strano, giacché passo la mia vita a dimostrare questa contraddizione della nostra natura, che proprio io sia accusato di contraddizione!

1. – La comunione deriva dall’economia politica

La prima cosa che mi ha messo in guardia contro l’utopia comunista, ma di cui i partigiani più o meno accusati di questa utopia non si curano, è che la comunità è una delle categorie dell’economia politica, di questa pretesa scienza che il socialismo ha per missione di combattere, e che definisco la descrizione delle consuetudini proprietarie. Come la proprietà è il monopolio elevato alla sua seconda potenza, così la comunità non è altra cosa che l’esaltazione dello Stato, la glorificazione della polizia. E come lo Stato è diventato, nella quinta epoca, reazione e monopolio, così pure, nella fase in cui noi siamo pervenuti, il comunismo appare per dare scaccomatto alla proprietà.

Il comunismo riproduce, dunque, ma su un piano inverso, tutte le contraddizioni dell’economia politica. Il suo segreto consiste nel sostituire l’uomo collettivo all’individuo in ciascuna delle funzioni sociali, produzione, scambio, consumo, educazione, famiglia. E siccome questa nuova evoluzione non concilia e non risolve mai niente, essa termina fatalmente, al pari delle precedenti, con l’iniquità e con la miseria.

Così il destino del socialismo è affatto negativo: l’utopia comunista, sortita dal lato economico dello Stato, è la controprova del costume egoistico e proprietario! Da questo punto di vista essa non manca, è vero, di una certa utilità: serve alla scienza sociale, come serve alla filologia l’opposizione di niente a qualche cosa.

Il socialismo è una logomachia: sono sorpreso che gli economisti non se ne siano accorti. La comunione, come la concorrenza, l’imposta, la dogana, la banca è di competenza dell’economia politica; la comunità è al fondo della teoria della divisione del lavoro, della forza collettiva, delle spese generali, delle società anonime e in accommandita, delle casse di risparmio e di assicurazione, delle banche di circolazione e di credito, ecc., la comunione, in una parola, è dappertutto, come lo spazio, ed è nulla.

Tutte le utopie socialiste, dall’Atlantide di Platone fino all’Icaria di [Ètienne] Cabet, nel loro più stretto significato, si riducono a questa sostituzione, di un’antinomia con un’altra antinomia. Il merito, in tutte, quanto all’invenzione, è zero; l’abbellimento non è che un insignificante accessorio; e per ciò che riguarda la decadenza della facoltà utopistica segnalata presso gli autori, essa viene unicamente dalle correzioni che l’esperienza loro impone, e che sono tante apostasie da parte loro. Del resto, questi scrittori, di cui non ho riguardo di disconoscere le intenzioni, sono tutti insipidi plagiari degli economisti, proprietari travestiti che, mentre l’umanità sale penosamente la montagna in cui deve trasfigurarsi, si danno l’originalità di ridiscenderla.

Ed è per questo che diventerei comunista? Ma ciò sarebbe gettarmi nel chimerico per sfuggire l’impossibile, e per paura di Loyola, abbracciare Cagliostro.

2. – Definizione di ciò che è proprio e di ciò che è comune

Se mai uomo ha molto meritato dal comunismo, è sicuramente l’autore del libro pubblicato nel 1840, sotto questo titolo: Che cos’è la proprietà? Avversario della proprietà più che alcun altro, più di tutti ho il diritto di esprimere un’opinione sulla possibilità di un’organizzazione comunista. Conveniamo dunque sui fatti e sui termini e procediamo per ordine.

È con rammarico, mio caro Villegardelle, che alle questioni più delicate della società, mescolo senza posa le forme angolose della metafisica; e questa pesante e scolastica andatura che ricorda un certo personaggio di Molière, sembra, tanto a me, quanto a lei, ridicola. Mentre la sua intelligenza più fervida coglie al volo le idee più rapide, io sono, per mia disgrazia, di più tardo intendimento. L’intuizione e la spontaneità mi mancano; l’improvvisazione è nulla in me, e il mio spirito non può fare un passo senza le grucce del ragionamento.

Il sole, l’aria e il mare sono comuni: il godimento di questi oggetti presenta il più alto grado di comunismo possibile! Nessuno può piantarvi dei confini, dividerli e delimitarli. Si è notato, non senza ragione, che l’immensità della distanza, la profondità impenetrabile, l’instabilità perpetua, solo loro avevano potuto sottrarli all’appropriazione. Tale e così grande è la forza di questo istinto che ci spinge alla divisione e alla guerra! Il risultato dunque di questa prima osservazione, cosa preziosa per la scienza, è che la proprietà è tutto ciò che si definisce, la comunità tutto ciò che non si definisce!... Quale può essere, dopo questo, il punto di partenza del comunismo?

I grandi lavori dell’umanità partecipano a questo carattere economico delle potenze della natura. L’uso delle strade, delle piazze pubbliche, delle chiese, musei, biblioteche, ecc., è comune. Le spese per la loro costruzione sono fatte in comune, benché la ripartizione di queste spese sia lungi dall’essere eguale, ciascuno contribuendovi in ragione precisamente inversa della sua fortuna. Da dove si vede, cosa preziosa a notare, che eguaglianza e comunità non sono la stessa cosa!... Certi economisti pretendono pure che i lavori d’utilità pubblica dovrebbero essere eseguiti dall’industria privata, più attiva, secondo essi, più diligente e meno cara; tuttavia non si è d’accordo su questo punto. Quanto all’uso degli oggetti, resta invariabilmente comune; non è mai venuta a nessuno l’idea che questa sorta di cose dovessero essere appropriate.

I soldati mangiano la zuppa in comune, ricevono la razione del pane e della carne, ricevono a parte il fornimento di cui ciascuno è, per ciò che lo riguarda, responsabile. La sala di pulizia e la camerata, l’esercizio e le manovre sono pure comuni. Se qualcuno di essi riceve un dono dalla famiglia, un’anticipazione dal sensale che l’ha venduto, egli non è punto obbligato di farne parte ai suoi camerati. La vita militare, di un comunismo abbastanza pronunciato, è qua e là macchiata di certi tratti di appropriazione. È così che, in un ristorante dove mangiano cento persone, i commensali si toccano e ciò non pertanto sono isolati. Da ciò io deduco quest’altro principio, che la comunità la quale non va oltre la materia, non è comunità. Per trionfare del comunismo, basta che mi separi mentalmente da ciò che mi circonda; fatto grave, e che dà serie inquietudini per l’avvenire dell’utopia!

La vita dei conventi era di un comunismo più profondo. Là, il dormitorio, il refettorio, la preghiera, il lavoro, tutti i beni acquistati e conquistati, erano comuni. Secondo un passo spesso citato degli Atti degli Apostoli e lo spirito generale delle istituzioni cenobite, il colmo della perfezione era l’intero distacco, la disappropriazione assoluta. Si possono leggere nelle Vite dei padri del deserto gli esercizi ai quali si sottomettevano per arrivare a questo ideale. Ma, per una contraddizione degna di nota, certi istitutori di comunità, come San Pacomio e Sant’Antonio, erano arrivati, a forza di perfezionarsi nel distacco, a isolare i fratelli, cioè a fare rinascere, dalla rinuncia comunistica, l’individualità. Il che fece dare ai fratelli così disciplinati il nome di monaci o solitari. Nuova osservazione più inquietante ancora: la comunità arriva all’egoismo.

Il matrimonio è, di tutti gli stati, quello che offre maggiori risorse per una comunione. Ma, per un caso particolare, questa attitudine del matrimonio per la vita comune tiene essenzialmente alla distinzione dei sessi, in modo che l’identità completa d’organizzazione sembra meno vantaggiosa al sistema. Ciò che lo conferma è che la specie di comunità formata dal matrimonio, e che si designa sotto il nome di famiglia, esclude essenzialmente qualunque persona estranea, sopportando appena, accanto al marito, alla moglie e ai figli, i padri e le madri dei congiunti, il che ha fatto passare in proverbio che l’affezione discende ma non rimonta. Così la comunione non sarebbe applicabile che in una certa misura, e lungi d’essere il principio formatore della società, non rappresenterebbe nella società che una parte secondaria; per lo meno, tale è la testimonianza della teoria e della pratica matrimoniale. In conseguenza di quest’idea il legislatore ha distinto nei contratti di matrimonio il regime dotale da quello di comunione e, in quest’ultimo, ha specificato ancora diversi gradi di comunismo. Quale è dunque la misura di applicazione del principio comunista? Ecco ciò che è indispensabile conoscere e che nessuno ancora ha saputo dire.

Infine, il matrimonio ha fornito l’occasione di distinguere la comunione dall’associazione, talmente che due sposi, perfettamente uniti di cuore e d’intelligenza, possono essere nello stesso tempo separati di beni; comunisti quanto all’abitazione e alle cose domestiche, associati per il loro commercio. Che tutto questo sia più o meno regolare o abusivo, non è ciò di cui si tratta in questo momento; l’importante per noi è di vedere come mai la vita sociale oscilla tra i suoi estremi, la proprietà e la comunione, cercando, a quel che pare, un terzo termine tanto lontano dal socialismo quanto dall’economia politica.

Negli stabilimenti d’educazione per i due sessi i pasti, le ore di lavoro e di ricreazione sono comuni. Ma, e ciò è più grave di tutto quanto abbiamo avuto di già l’occasione d’osservare, il lavoro è individuale; se esso non fosse individuale, l’educazione sarebbe nulla.

Tutti quanti sanno ciò che era la lettura, cioè l’insegnamento nelle case religiose. Per compiere questo dovere, un solo libro bastava, un solo lettore. Nel sistema della rivelazione, la fede venendo da udito, fides ex auditu, l’intelligenza resta passiva; l’istruzione è comune al più alto grado. Il comunismo si esprime allora col silenzio. Il superiore, organo del pensiero in alto, parla; il neofita ascolta e obbedisce. La perfezione dell’istituto religioso consiste nell’inculcare al soggetto una dottrina uniforme, nel presentarla sempre negli stessi termini e con le stesse formule, nel dirigere il suo spirito, se per caso vi si manifestasse qualche turbamento, in modo di farlo arrivare invariabilmente alla conclusione prevista. È questo lo spirito di disciplina comunista che si è così scioccamente rimproverato ai Gesuiti, in ciò discepoli fedeli della tradizione cattolica e scrupolosi osservatori della regola essenziale a ogni comunione, a ogni religione.

Che differenza nelle nostre scuole! Dalla scuola primaria fino alla normale non si cessa d’esercitare gli allievi a lavorare soli. Se qualche volta si dà a tutti la stessa composizione, si esige che ciascuno la tratti a parte e in concorrenza; s’incomincia a far pensare il giovane da se stesso; insegnandogli il fondo comune della scienza, si esige ch’egli se l’appropri; si eccita la sua facoltà inventiva; lo si provoca, per così dire, all’egoismo del genio, alla proprietà delle opinioni. E più la sua erudizione imberbe acquista forme originali, personali, faziose, più si applaude ai suoi successi, più si è lieti di avere prodotto un uomo. I parenti e i maestri gioiscono di non avere perduto il loro tempo, e si dice di questo allievo, le cui idee temerarie sconvolgeranno, forse, un giorno, la comunità, che egli ha saldato le spese della sua gioventù.

Ora, man mano che l’educazione da letteraria e scientifica diventa ancora più professionale, è chiaro che con questa smania di fare dei giovani tanti uomini originali, capaci d’iniziativa e di scoperta, ci si allontana sempre più dal principio comunista, e invece di lavoratori fraternamente uniti, non avremo alla fine che sudditi ambiziosi e indomabili caratteri. Richiamo su questa spaventosa questione le meditazioni dei pensatori comunisti.

A misura che avanziamo in questa rapida inchiesta, vediamo che gli uomini hanno mescolato in proporzioni molto diverse, nelle loro istituzioni politiche, religiose, industriali, militari e pedagogiche i princìpi di proprietà e di comunità. E tutto questo si è fatto spontaneamente, ora per necessità, ora per egoismo, si direbbe anche, qualche volta per caso, almeno senza intenzione apprezzabile.

Così, i salariati dallo Stato, ricevendo il loro salario dalla comunità che riceve i loro servizi, vivono ciascuno a parte, malgrado i vantaggi che essi potrebbero trovare a riunirsi. La vita di famiglia, sì cara, sì onerosa, è preferita dagli improduttivi, che intanto con i loro salari fissi avrebbero più facilità di unire le loro spese che non gli operai, la cui paga è precaria e ineguale. Può darsi che un giorno i salariati dello Stato s’intenderanno per centralizzare i loro consumi, frattanto è certo che ad essi ripugna, come a tutti quanti, il regime comunista, e che considerano la vita di famiglia come la più piacevole di tutte. Ciò può essere effetto sia di un temperamento depravato e barbaro, come di un sentimento di dignità e di nobiltà; ammetto a questo riguardo le congetture, aspettando di trovare ragioni sufficienti per emettere un giudizio.

L’uomo che abbiamo visto nel periodo della sua educazione, nel compimento dei suoi doveri civili e religiosi e nell’esercizio delle funzioni pubbliche, semi-comunista, l’uomo diventa nell’industria, nel commercio, nell’agricoltura, affatto proprietario. Produce, cambia e consuma in una maniera esclusivamente privata, e non conserva che rare relazioni con la comunità. Per effetto di un istinto irresistibile e di un pregiudizio affascinatore che risale ai tempi più lontani della storia, ogni operaio aspira ad intraprendere, ogni compagno vuole diventare padrone, ogni giornaliero sogna di fare fortuna, come altra volta ogni plebeo di diventare nobile. E notate una cosa che deve eccitare la vostra impazienza tanto quanto mi stupisce; non c’è nessuno che ignori lo svantaggio dello smembramento, le gravezze della vita domestica, l’imperfezione della piccola industria, i danni dell’isolamento. La personalità è più forte di tutte le considerazioni; l’egoismo preferisce i rischi della lotteria all’assoggettamento della comunità, ride dei teoremi dell’economia politica.

Insomma, la comunione ci coglie all’origine e s’impone fatalmente di fronte alle grandi potenze della natura.

Quanto alla sua essenza, la comunione ripugna alla definizione; non è la stessa cosa che l’eguaglianza; non è vincolata in alcun modo alla materia e dipende tutta dal libero arbitrio; si distingue dall’associazione e s’avvicina all’egoismo. Appena l’industria comincia a nascere e il lavoro produce i suoi primi abbozzi, la personalità entra in lotta con la comunione, che ci appare sin di allora, sulla soglia domestica e persino al letto coniugale, di già imperfetta e crollante. Più tardi la troveremo incompatibile con una educazione liberale e vigorosa; infine, essa declina rapidamente nelle funzioni salariate e sparisce tutt’affatto nel lavoro libero. Tutto questo risulta dalla necessità delle cose tanto quanto dalla spontaneità della nostra natura: gli economisti l’avevano riconosciuto da lungo tempo.

“È proprio nello spirito della società umana, esclama a ragione Dunoyer, sopprimere ogni individualità, ogni esistenza collettiva intermediaria, lasciando sussistere soltanto una grande esistenza generale nella quale tutte le altre vengono di necessità ad inabissarsi? Come conciliare la libertà, che non pertanto si pretende difendere, con questa concentrazione violenta? Come anche conciliare con questa concentrazione i progressi e l’unità che si vuole ottenere? Non esitiamo a dirlo, se vi sono cose che devono essere compiute dalla grande unità sociale o nazionale, ve ne sono altre in molto maggior numero che devono essere fatte da unità collettive di un ordine inferiore, da unità dipartimentali, da unità comunali, da unità di associazioni industriali e commerciali, dalle numerose unità di famiglia, e soprattutto dalle unità isolate, dalle innumerevoli unità individuali. Non basta che una grande nazione, per essere veramente grande e veramente una, sappia agire nazionalmente; conviene ancora, e prima di tutto, che gli uomini, di cui essa si compone, siano attivi ed esperimentati come individui, come famiglie, come associazioni, come comunità di abitanti, come province.

Più essi hanno acquistato valore sotto questi diversi aspetti, più ne hanno come corpi di nazione.

Invito il socialismo a meditare su queste parole, nelle quali vi è più filosofia, più vera scienza sociale che in tutti gli scritti degli utopisti.

Quanto ai vantaggi speciali della vita in comune, ecco quale sembra essere, su questo punto, l’opinione generale:

Data l’eguaglianza di benessere, se il lavoro, il cambio, il consumo si effettuano in una completa indipendenza, la condizione è giudicata la migliore possibile;

Se il lavoro è eseguito in comune mentre il consumo resta privato, la condizione resta di già meno buona ma ancora sopportabile; è quella della maggior parte degli operai e funzionari subalterni;

Se tutto è reso comune, lavoro, cose domestiche, entrata e spesa, la vita diventa insipida, faticosa e odiosa.

Tale è il pregiudizio anticomunista, pregiudizio che nessuna educazione scuote, che si fortifica anzi con l’educazione, senza che si possa scoprire come questa educazione potrebbe cambiare di principio; pregiudizio, infine, di cui i comunisti paiono tutti imbevuti, come i proprietari. Come spiegare, senza questo, le loro esitazioni? Chi dunque impedisce loro di realizzare fra essi la loro idea, e che è ciò che essi aspettano? Per sottomettere la mia ragione al principio comunista io non domando che una prova: mi si mostrino due famiglie, mariti, mogli, figliuoli, che vivano insieme confuse in una perfetta comunità.

Ma il comunismo non capisce se stesso: il comunismo ha ancora da capire quale deve essere la sua parte nel mondo. L’umanità, come un uomo ebbro, esita e barcolla fra due abissi: da una parte la proprietà, dall’altra la comunione; la questione è di sapere come essa traverserà questo valico, dove la testa è presa da vertigini e i piedi sfuggono. Che rispondono su ciò gli scrittori comunisti?

3. – Posizione del problema comunista

Alcuni discepoli di Cabet, avendo inteso parlare dell’esistenza e della possibilità di una scienza sociale, scrissero un giorno al maestro per pregarlo di esporre il dogma comunitario scientificamente. Trovarono che il romanzo Icaria, del pari de La Città del Sole o del falansterio nulla aveva di scientifico. Cabet rispose loro nel “Le Populaire” del novembre 1844:

“Il mio principio è la fratellanza.

“La mia teoria è la fratellanza.

“Il mio sistema è la fratellanza.

“La mia scienza è la fratellanza”.

Cabet commentava quindi questa litania: era commovente, era sublime.

La fratellanza! Ecco dunque, secondo Cabet, il fondo, la forma e la sostanza dell’insegnamento comunista. È giusto riconoscerlo, Cabet, come Saint-Simon e Fourier, è capo-scuola. San Paolo, rispondendo ai giudici increduli che lo interrogavano sulla sua dottrina, diceva loro con una stupenda ironia: “Io non so che una cosa, Gesù crocifisso”. Cabet parla come san Paolo, dice ai suoi neofiti: “Io non so che una cosa, la fratellanza”.

Ignoro se i cittadini che si erano permessi di interrogare così a bruciapelo Cabet, sono stati soddisfatti dalla sua risposta, ma posso dire che la loro questione era almeno molto razionale. Essi sentivano, senza dubbio per averlo inteso da lei, mio caro Villegardelle, che “il possesso individuale ha in ogni società il suo impiego più o meno limitato, e che il diritto di usare come quello di abusare può essere tollerato a riguardo delle cose commestibili e tutt’affatto personali all’individuo”. Essi domandavano dunque e molto sensatamente, pare, qual è la linea di divisione che separa le cose comuni dalle cose proprie o personali, e come si deve procedere in questa separazione, in quanto, come lei dice in altro luogo: “Il diritto di possesso esclusivo ha i suoi limiti, che del resto possono essere più stretti che non si creda generalmente, senza disturbare la libertà degli individui, o piuttosto al fine di assicurare la libertà del maggior numero”. La comunità del possesso ha anche i suoi limiti, che possono essere egualmente ristretti senza disturbare la libertà del maggior numero, o piuttosto al fine di assicurare la libertà di ciascuno. Quale dunque è il limite della comunione e del possesso individuale? Ecco cosa si domandava a Cabet.

Ma ecco precisamente una domanda cui Cabet non poteva rispondere senza mentire al suo principio e senza abbandonare la sua bandiera. Se la comunione è macchiata o penetrata dal possesso individuale, se è limitata dalla proprietà, cessa di essere comunione; e si domanda, in virtù di quale principio si opererà questa mescolanza o questa compenetrazione, e su quale teoria se ne fisseranno le proporzioni o le quantità. Così Cabet si è mostrato profondo diplomatico, opponendo ai curiosi questo rifiuto di spiegazioni: il mio principio, la mia teoria, il mio sistema, la mia scienza, il mio metodo, la mia dottrina, ecc., è la fratellanza. Cabet non aveva da dire altro che questo; e io rimarco con quale potenza d’occhio e quale fortuna d’espressione egli l’ha trovato al primo colpo.

Ora, a questa parola Fratellanza, che contiene tante cose, sostituite, con Platone, la Repubblica, che non dice meno, oppure con Fourier, l’Attrazione, che dice ancora di più; oppure con Michelet l’Amore e l’Istinto, che comprendono tutto, oppure con altri, la Solidarietà, che riunisce tutto; oppure infine, con Louis Blanc, la Grande forza d’iniziativa dello Stato, sinonimo della onnipotenza di Dio; e voi vedrete che tutte queste espressioni sono perfettamente equivalenti, di modo che Cabet, rispondendo dall’alto del suo “Le Populaire” alla domanda che gli era stata fatta, “la mia scienza è la Fratellanza”, ha parlato per tutto il socialismo. Noi proveremo, infatti, che tutte le utopie socialiste, senza eccezione, si riducono all’enunciato così corto, così categorico, così esplicito di Cabet: la mia scienza, ecc., è la fratellanza; sicché chiunque osasse aggiungervi una sola parola di commento, cadrebbe tosto nell’apostasia e nell’eresia; ciò che vuol dire che né Platone né gli Gnostici né i primi Padri né i Valdesi né Moro né Campanella né Babeuf né Owen né Saint-Simon né Fourier né il loro continuatore Cabet sono in grado, con l’aiuto del loro principio, di spiegare la società e molto meno ancora di imporle delle leggi.

Ma come mai, fra tutte queste espressioni: Fratellanza, Amore, Attrazione, ecc., che pretendiamo essere di eguale forza, Cabet ha preferito la prima?

Questo merita una spiegazione.

4. – La comunione prende il suo fine per il suo principio

La prima cosa a cui deve lavorare la comunione, come pure la religione, è di soffocare lo spirito di controversia col quale nessuna istituzione è sicura e definitiva. Io consiglio dunque Cabet, allorché avrà ricevuto dalle mani del popolo le redini dello Stato, e tutti i partiti si saranno fusi sotto la sua dittatura paterna, di cambiare il sistema di educazione universitaria, questo sistema abominevole, dove i giovani apprendono a diventare dottori, interrogatori, argomentatori senza pietà e senza misericordia.

Si domanda perché Cabet, spiegando il principio sociale agli economisti di Nantes, non abbia detto, per esempio: il mio sistema è l’amore, ecc.; in una parola, perché abbia scelto la fratellanza? Ora, affinché Cabet non s’immagini che io lo voglia sorprendere e che a sproposito voglia fare del sincretismo e replicare: il mio sistema sono tutte queste cose nello stesso tempo, l’amore, l’attrazione, l’istinto, la fraternità, ecc., proverò che la definizione contenuta ne “Le Populaire” del novembre 1844 procedeva da una concezione trascendentale, che conteneva da sola, non solo la scienza comunitaria, ma tutta la scienza socialista, e che con una infinità di ragioni Cabet ha detto: mio principio, mio sistema, mia scienza è la Fratellanza.

Se, come avete benissimo scorto, mio caro Villegardelle, sin dai tempi favolosi la comunione è progressivamente sparita dalle istituzioni umane, è dimostrato da questo fatto che la comunione, sia che la si studi in Platone, sia che la si preferisca in Moro, nella Basiliade o nell’Icaria, è una forma che non si può stabilire e conservare da se stessa, e che ha bisogno di qualche cosa, come chi dicesse di un principio che la faccia vivere. Questo ingrediente, questo lievito vivificatore, secondo Cabet, è la fratellanza. Ma come mai la fratellanza genera la comunione? È qui che appare la scienza profonda del socialismo.

Se interrogo i diversi riformatori sui mezzi di cui essi si propongono di fare uso per la realizzazione delle loro utopie, tutti mi rispondono, in una sintesi unanime: per rigenerare la società e organizzare il lavoro, bisogna rimettere agli uomini che possiedono la scienza di questa organizzazione la fortuna e l’autorità pubblica. Sopra questo dogma essenziale tutti quanti d’accordo: si ha universalità di opinioni. Gli interminabili appelli delle sette socialiste alla borsa dei loro avventori partono da quest’idea. Ma perché i riformatori, divenuti padroni degli affari, usino con efficacia del potere, conviene dare a questo potere una grande forza d’iniziativa: sistema di Blanc. Ora, a quale condizione il potere acquista la sua più grande forza? alla condizione d’essere costituito democraticamente o in repubblica: sistema di Platone, di Rousseau, del “National”, ecc. La riforma politica è il preliminare obbligato della riforma sociale. Ma perché la democrazia piuttosto che la monarchia costituzionale, piuttosto che un Senato di aristocratici? Perché, gli uomini essendo solidali, conviene renderli politicamente e giuridicamente eguali: sistema dei Solidali-Uniti, istituiti, credo, da [Antoine] Cherbuliez. Da dove viene che gli uomini sono solidali? dal fatto che vivono sotto l’impero di una legge comune che avvince l’uno all’altro tutti i loro movimenti: l’attrazione, sistema di Fourier. Cos’è questa attrazione che conosciamo solo da ieri? È precisamente l’amore, è la carità che conosciamo da lungo tempo: sistema di Michelet. Come avviene che gli uomini si amino e si odino, si attirino e si respingano vicendevolmente come i poli di una calamita? È che tutti gli uomini sono fratelli: sistema di Cabet.

La fratellanza, tale è dunque il fatto primordiale, il grande fatto naturale e cosmico, fisiologico e patologico, politico ed economico al quale si riattacca, come l’effetto alla sua causa, la comunione. L’analogia delle parole, ecco il metodo, la teoria, la dialettica del socialismo. Lei può dire, mio caro Villegardelle, se le dodici passioni cardinali e la serie di gruppi contrastati vi aggiungono qualche cosa. Si potrebbe trovare, forse, per questa serie di parole vuote, un maggior numero di mezzi termini; quello che è certo, è che essa finisce sempre alla fratellanza, la quale ci è sempre manifestata dalla differenza delle specie umane, principio e fondamento dell’unità del genere. La fratellanza o la morte! ecco ciò che Robespierre avrebbe spiegato alla Francia se i proprietari della Convenzione lo avessero lasciato fare; ecco ciò che Cabet, erede di questo grand’uomo, ha letto in caratteri fiammeggianti nel libro dei destini. Nessuno, fra gli utopisti antichi e moderni, ha penetrato più addentro nei segreti della scienza.

Come mai dunque, con questa intelligenza meravigliosa delle cause prime, seconde e finali; come mai, con questa abilità senza pari a infilare delle frasi, il socialismo non è mai riuscito ad altro che ad inquietare il mondo, senza poter rendere gli uomini né migliori né più fortunati? Infine, se l’economia politica ha potuto essere giudicata dalle sue opere, il socialismo corre grande pericolo oggi di essere valutato in ragione della sua impotenza; importa dunque renderci conto della sterilità dell’utopia, così come noi abbiamo fatto per le anomalie della pratica.

Per chiunque ha riflettuto sul progresso della socialità umana, la fratellanza effettiva, quella fratellanza del cuore e della ragione, che sola merita le cure del legislatore e l’attenzione del moralista, e di cui la fratellanza di specie è la semplice espressione carnale; questa fratellanza, dico, non è punto, come credono i socialisti, il principio dei perfezionamenti della società, la regola delle sue evoluzioni: essa ne è lo scopo e il frutto. La questione non è sapere come mai, essendo fratelli di spirito e di cuore, noi vivremo senza farci la guerra e divorarci scambievolmente: questa non sarebbe una questione; ma come mai, essendo fratelli per natura, diventeremo anche tali per i sentimenti; come mai i nostri interessi, invece di dividerci, ci uniranno. Ecco ciò che il semplice buon senso rivela a ogni uomo che l’utopia non ha reso miope. Come già abbiamo dimostrato col quadro delle contraddizioni economiche avendo lo sviluppo delle istituzioni civilizzatrici per risultato inevitabile di gettare la discordia nelle passioni, d’infiammare negli uomini l’appetito concupiscente e l’appetito irascibile, e di fare di “questi angeli di Dio tante bestie feroci”, accade che povere creature destinate al piacere, all’amore, si lacerano in furiosi combattimenti, si fanno orribili ferite; e non è cosa facile porre fra essi le basi di un trattato di pace. Come dunque sarà distribuito il lavoro? qual è la legge dello scambio? qual è la sanzione della giustizia? dove comincia il possesso esclusivo, dove finisce? sin dove si stende la comunione? dove finisce? in quale proporzione questo elemento fa parte dell’organismo collettivo, sotto quale forma e secondo quale legge? come mai, in una parola, diventeremo fratelli? Tale è, nello stesso tempo, la questione prima e lo scopo finale della comunione.

Così la fratellanza, la solidarietà, l’amore, l’eguaglianza, ecc., non possono risultare che da una conciliazione degli interessi, cioè da una organizzazione del lavoro e da una teoria dello scambio. La fratellanza è il fine, non il principio della comunione, come lo è di tutte le forme di associazione e di Governo; e Platone, Cabet e quelli che in seguito a queste due sommità del socialismo, invece di insegnarci le leggi della produzione e dello scambio, ci chiedono potere e denaro, entrando nell’utopia con la fratellanza, la solidarietà e l’amore, tutta codesta gente, dico, prende l’effetto per la causa, la conclusione per il principio; essi cominciano, come dice il proverbio, la loro casa dagli abbaini. Ancora una volta, chi impedisce ai socialisti di associarsi fra essi se la fratellanza basta? c’è bisogno per questo di un permesso del ministro, di una legge delle Camere? Un sì commovente spettacolo edificherebbe il mondo e non comprometterebbe che l’utopia: questa devozione sarebbe forse al disopra del coraggio dei comunisti?

Ecco, senza che essi fossero in grado di rendersene conto, ciò che sentivano in fondo al cuore i cittadini che osarono interrogare Cabet. Ma fu pure con una grande superiorità di tattica che il maestro loro rispose: Il mio principio è la fratellanza; perché, senza questo rovesciamento, non v’era più comunismo. Cabet era sicuro che, dopo questo colpo decisivo, non gli si sarebbe domandato quale fosse il principio della fratellanza, poiché sarebbe stato gettarsi in un seguito di questioni all’infinito, e ormai conveniva farla finita.

5. – La comunione è incompatibile con la famiglia, immagine e prototipo della comunione

Abbiamo esposto l’origine della comunità, come essa si manifesti nella civiltà, quale problema gli sia dato da risolvere e di quale dialettica sappia fare uso. Vediamo adesso di mostrarla all’opera, all’esposizione della sua utopia.

È provato, da una parte che, come la comunità di certe cose è fisicamente necessaria, egualmente la comunità di certe altre è fisicamente impossibile.

Ed è per altro accertato che l’invasione della proprietà e la conservazione delle istituzioni comuniste che in piccolissimo numero sopravvissero alla selvatichezza primitiva, furono il risultato di certe disposizioni di spirito e di temperamento, come pure di certe necessità economiche nelle quali la speculazione non è entrata assolutamente per niente. Fu soltanto dopo molti secoli d’esperienza e di mature riflessioni che l’antagonismo della proprietà e della comunione si determinò in un modo preciso, e si videro certi uomini, elevandosi al disopra delle considerazioni volgari e calpestando, questi lo spirito che aveva suscitato le istituzioni nuove, quelli le reminiscenze dell’età dell’oro, cominciare a combattere sistematicamente l’una o l’altra tendenza, e pretendere, i primi, che conveniva ricondurre alla comunione tutto ciò che ne era uscito; i secondi, che si doveva seguitare ad appropriarsi di tutto quanto poteva essere appropriato. Di là, due utopie contraddittorie: quella della comunione che fuggiva sempre, e quella della proprietà che ingrandiva senza posa. Mai la proprietà fu ciò che essa aspirava a diventare, intera e assoluta; né mai la comunione fu completa; il vero comunista, come il vero proprietario, è un essere ideale.

Sicuramente, sono favorevole al comunismo allorché suppongo in esso il desiderio di spingere il suo principio, nell’applicazione, fino ai limiti del possibile; ma questo non basta a una ragione severa. Che cosa è il possibile? chi lo determinerà, fra la comunione che obbliga e la personalità che obbliga nello stesso tempo? Chi mi proverà ch’io devo, in qualche caso, cedere all’uno piuttosto che all’altro, e come lo si proverà? Per quanto comunista io sia, non mi abbisogna sempre un principio per riconoscere quali sono le cose di cui l’appropriazione o la comunione ripugna? Di allora, non è vero che la comunione non è niente da se stessa, non altrimenti che la proprietà, poiché ha bisogno di un principio che la costituisca, che la determini?

Veniamo ai fatti. Io comincio da quello fra tutti che l’opinione generale considera come lo scoglio della comunione, la famiglia.

Un giornale comunista, “L’Umanitaire”, si era pronunciato nettamente per la comunità delle donne. Cabet dichiarò ch’egli manteneva, provvisoriamente, il matrimonio e la famiglia, riservando, senza respingerla né ammetterla, la questione di comunità. [Constantin] Pecqueur, dalla sua parte, si pronuncia senza secondi fini per la monogamia; e io la credo troppo mediocre compagno, mio caro Villegardelle, in venerem segnes nocturnaque bella [Virgilio], per supporre che lei esiga di più. Non ho diritto di meravigliarmi di questo disaccordo? Pecqueur, nell’articolo sul matrimonio, è meno comunista che Cabet, che lo è meno de “L’Umanitaire”, il quale è certamente il più logico di tutti. A chi devo credere? Se non consulto che il ragionamento, più un certo appetito ghiottone molto pronunciato fra i socialisti, sto con “L’Umanitaire” contro la famiglia e il matrimonio. Se poi rifletto che la promiscuità dei sessi distrugge l’amore, sono costretto ad ammettere in suo favore un’eccezione che ne trascina mille altre. Ed eccomi sviato, gettato senza difesa in balia dell’arbitrio. I comunisti non si possono già riunire in una idea comune! Essi sono, come i nostri rappresentanti politici, divisi in moderati e in ultra. Vi è fra essi una sinistra, una destra e dei dottrinari! Chi dunque è il Guizot della comunità?

I comunisti più ragionevoli, più pratici e per conseguenza meno avanzati, e lei, mio caro Villegardelle, è di questo numero, credono tirarsi d’impaccio nella questione matrimoniale osservando che la comunione cade sulle cose, non sulle persone, Omnia communia, dite voi come Carpocrate, non omnes communes.

Bisogna confessare che Platone, il vostro grande rivelatore, e gli gnostici, e i manichei, e i sansimoniani e Fourier, che credettero possibile condire con un po’ di varietà la monotonia del matrimonio, furono poveri ragionatori se dimenticarono a questo punto l’inviolabilità dell’io! Ma, pensavano essi, fare all’amore, è un bene, il più grande dei beni per molta gente; e là sta precisamente la difficoltà. Se devo rispetto alla persona della donna, come mai può essa rifiutarmi la comunità della cosa? Non sono io suo fratello? non è essa mia sorella? Considerate, vi prego, l’importanza che ha per me una soluzione, e riflettete sulle conseguenze, ve le prometto inflessibili. Come la comunione sarà applicata in materia di amore, e quale sarà, nei rapporti dei sessi, la legge delle convenienze? Potrà, in alcun caso, esservi crimine o delitto, e perché?

Un uomo, presso i primi cristiani, che tutti dicevano di avere sposato una bella donna, che non conduceva mai in chiesa, fu accusato d’egoismo. Egli si scusò e confuse i calunniatori mettendo la sua donna a discrezione della comunità. Ora, se la comunità poteva costringere il marito, essa poteva costringere pure la donna; il primo venuto poteva anche, nell’assenza della comunità, esigere da questa donna il dovere... fraterno e, dietro suo rifiuto, farsi giustizia con le sue proprie mani. Nel comunismo può esservi mai violenza, seduzione, incesto o adulterio? Pensate, ancora una volta, che su tutto questo mi necessita la prova e la prova della prova.

Se abbracciate nella sua pienezza il principio platonico e vi dichiariate per l’intera comunione dei sessi, eccovi costretto a rendere obbligatoria la cosa più libera del mondo, l’amore, e a rimpiazzare la prostituzione con la violenza. Dove è allora la fratellanza, l’urbanità, la mutua affezione?

Se fate la riserva che il consenso delle persone dovrà sempre precedere il godimento, la comunione non è più che facoltativa; cadiamo nelle preferenze, nella venalità, nell’accaparramento. Poligamia per gli uni, agamia per gli altri, tradimento per tutti; è il regime attuale organizzato sotto un altro nome da Fourier. Le sette socialiste che ammettono la comunione facoltativa dei sessi sono ancora le stesse che, imitando la civiltà, mantengono il diritto del talento e del capitale o, in ultima analisi, il diritto della forza. Ineguaglianza nella divisione dei beni, ineguaglianza nella divisione degli amori: ecco ciò che vogliono questi riformatori ipocriti, per i quali la giustizia, la ragione, la scienza sono nulla, purché essi comandino agli altri e se la godano. Sono, insomma, dei partigiani mascherati della proprietà: cominciano dal predicare il comunismo, poi confiscano la comunità a profitto del loro ventre.

Infine, se mantenete l’inviolabilità del matrimonio, create per questo solo, in seno della grande comunità, una comunità nuova, imperium in imperio, mettete sul trono la famiglia, e come attributi inseparabili della famiglia, il regime domestico, la proprietà, l’eredità, tutta una serie d’incompatibilità e di contraddizioni.

La comunità, dite voi, cade sulle cose, non sulle persone. È, permettete che lo dica, un gioco di prestigio. La comunità o comunione delle persone ha luogo per l’intermediario delle cose; a meno che gli uomini non si mangino, la comunione si stabilisce fra essi con l’uso degli stessi oggetti. Così, la comunione della mia camera, del mio letto, dei miei vestiti, ottenuta malgrado la mia volontà, rende la mia persona comune, cioè, nel linguaggio della Bibbia, l’imbratta e l’opprime. È lo stesso di tutto ciò che riguarda il mio lavoro, le mie affezioni, i miei piaceri. Io sono tanto più puro, più libero, più inviolato, quanto più sono con i miei simili in comunione lontana, come, per esempio, in comunità di suolo, in comunità di paese o di lingua. Al contrario, mi sento tanto più profano e meno degno, quanto più essi sono con me in comunità prossima, come al modo di Platone. In amore, osservate voi, il consenso reciproco è necessario: è su questo principio che è fondata la comunione degli sposi. Ora, se questa donna, che è mia, si comunica anche volontariamente a un altro; se, nel tempo che essa si prostituisce, è a parte del mio letto e dorme sul mio seno, non è vero che essa mi prostituisce e mi disonora? Foeda lupanaris tulit ad pulvinar odorem! [Giovenale]. Null’altro che la morte della colpevole può vendicarmi di un tale affronto, e se la comunità l’autorizza io insorgo contro la comunità. L’alito dell’uomo, dice il conte [Joseph] de Maistre, è mortale al suo simile, fisico o morale; la comunità delle donne è l’organizzazione della peste. Lungi da me, comunisti! la vostra presenza è un fetore, la vostra vista mi disgusta.

Passiamo presto sulle costituzioni dei sansimoniani, fourieristi e altri prostituiti, che si fanno forti di accordare l’amore libero col pudore, la delicatezza, lo spiritualismo più puro. Triste illusione di un socialismo abietto, ultimo risveglio della crapula in delirio. Date, con l’incostanza, sfogo alla passione, presto la carne tiranneggia lo spirito; gli amanti non sono più l’uno per l’altro che strumenti di piacere: alla fusione dei cuori succede il prurito dei sensi, e tutta la voluttà consiste in un fregamento. Non c’è bisogno, per giudicare queste cose, d’esser passato, come Saint-Simon, per le prove della Venere popolare.

O niente comunità, o niente famiglia, perciò niente amore: bisogna finire là.

Con la famiglia, che tutto ci mostra essere l’elemento organico della società, la personalità dell’uomo prende il suo carattere definitivo, acquista tutta la sua energia e volge all’egoismo. Non è già l’esempio isolato di un Regolo, o di qualche pazzo che s’intitola apostolo e che abbandona i suoi figli e la moglie, che scemerà l’autorità del fatto. L’uomo che fa stipite diventa tosto, per la paternità stessa, concentrato e feroce: è nemico dell’universo; i suoi simili gli paiono tutti stranieri, hostes. Il matrimonio e la paternità, che sembrano dovere aumentare nell’uomo l’affezione del prossimo, non fanno che animare la sua gelosia, la sua diffidenza e il suo odio. Il padre di famiglia è più attaccato al guadagno, più spietato, più asociale del celibe; come quei devoti che, a forza di amare Dio, arrivano a detestare gli uomini. È che non ce n’era troppo di quest’energia di volere e d’egoismo nel padre di famiglia per proteggere l’infanzia di quelli che dovranno succedergli un giorno, e continuare dopo lui la serie delle generazioni. Un giorno non basta per formare un uomo, ci vogliono anni, penosi lavori, e lunghi risparmi. L’uomo è in lotta per la sua sussistenza con la natura, e per l’avvenire dei suoi figli con la società tutta intera.

La comunità, dite voi, distruggerà quest’antagonismo. Come vi perverrà se essa non può fare altro che distruggere la famiglia, e per conseguenza la specie, o tollerare la famiglia, dissolvente della comunità?

Il carattere anticomunista, ho quasi detto antisociale della famiglia, si mostra in tutto il suo candore nei ragazzi e nelle donne. Io ho visto i figli del proprietario sdegnare i giochi della loro età e starsene in disparte piuttosto che avere alcunché di comune con i figli dell’operaio, come se il sole che rischiara il manovale offuscasse lo splendore delle nobili razze. Quanto alle donne, è una verità volgare ch’esse non aspirano a maritarsi che per diventare sovrane di un piccolo Stato ch’esse chiamano la loro famiglia. Togliete alla donna la cura della famiglia, oggetto della sua amministrazione pacifica, punto di partenza delle sue escursioni conquistatrici e da quel momento essa non ha più ragione di restarvi fedele, e cessa di appartenervi. Il matrimonio, avendo perduto il suo attributo esteriore, diventa per la donna un’astrazione, un legame fortuito che, non appoggiandosi su nulla di reale, si dissolverà al primo disgusto. La comunione, buona tutto al più per le prostitute e le religiose, è antipatica alla madre di famiglia. Fra la massaia comune e la cortigiana, la differenza non è che nell’espressione; la stessa parola, nell’antichità, serviva a designare l’una e l’altra. [Zonah (ebraico e caldaico), ostessa e donna pubblica].

In Icaria (è con piacere sempre nuovo che io ritorno a Cabet), ogni casa, con cortile e giardino, è occupata da una famiglia. Ecco dunque, con un tratto di penna, tre eccezioni alla regola: 1° Separazione della famiglia; 2° separazione del domicilio; 3° separazione dell’azienda domestica. Questo non è tutto. Dei quattro pasti che Cabet fa fare agli icariani (Fourier ne prometteva sette), due si fanno nel laboratorio, sono la merenda e la colazione; il terzo ha luogo in comune al ristorante della repubblica; il quarto, colazione della sera, si fa in famiglia. Perché questa distinzione? perché dei pasti di confraternita, dei pasti civili e dei pasti domestici? Perché non mangiare sempre in comune, o sempre in particolare? Voi vi decidete per la consumazione privata? Siccome i piaceri della casa dipendono soprattutto dal talento della donna, e l’arte di godere non è meno difficile di quella di produrre, così, chi avrà una massaia eccellente, troverà presso di lei, a uguale rendita, il doppio di benessere e di gradimento. Le condizioni non saranno dunque più eguali; e ciò sarà dunque giusto? Se voi state per l’affermativa, vi domando allora perché non applicherete al lavoro la stessa regola che date al consumo, dacché, dopo tutto, consumo e produzione sono la stessa cosa; perché, in una parola, il benessere di ciascuno non sarebbe in ragione della sua diligenza a produrre, come della sua abilità a godere?

Ma questa conseguenza di un’eccezione sì imprudentemente fatta sarebbe l’abolizione della stessa comunione. Dunque, bisogna rientrare nella regola e, per conservare la vita comune, proscrivere la vita privata?... Ma vi ricordo che allora la comunità passa dalle cose alle persone; che con questo sistema di livellamento tutti quanti diventano schiavi e impuri; e vedo elevarsi contro di voi un nemico terribile, la Libertà! Avremo soppresso le dogane, i dazi di consumo e tutte le barriere; bruciato i titoli di proprietà, rovesciati i recinti, tolti i vincoli alle eredità, distrutto tutto ciò che impacciava la libertà, e poi non potremo riunirci per lavorare, parlare o bere, in numero di meno di venti persone, eccetto che nel palazzo della repubblica, sotto l’occhio della guardia civica della repubblica! Desidero vedervi presto dittatori, patriarchi anche, se volete; ma vi sfido a mettere la vostra teoria in esecuzione.

Che servirebbe dire: la comunità, o il socialismo, non è responsabile degli errori di Cabet, se è dimostrato che tutti quelli che parlano diversamente da lui ragionano intanto sempre come lui? Nel falansterio, per esempio, il lavoro si compie in comune, fuori dell’iniziativa individuale, poiché, invece di proprietari, non vi sono che azionisti; invece di imprenditori, dei semplici esecutori; invece di cantanti, dei coristi.

L’abitazione è comune, la famiglia comune, i pasti comuni, nonostante la tolleranza dei gabinetti particolari; il matrimonio resta facoltativo, esposto a tutti gli accidenti dello spergiuro e dell’incostanza. Altri utopisti distruggono le città, isolano le famiglie sulla terra come gli asceti della Tebaide, aggiungono a ogni famiglia un piccolo podere che essa coltiva e di cui deve rendere conto. Altri ancora preferiscono porre la popolazione in vaste capitali, da dove le squadre di lavoratori si slanciano con la locomotiva su tutti i punti del territorio. Tutto questo, più o meno ragionato, più o meno comunista e sociale, non ha il diritto di occuparci; è chiaro che il metodo, la scienza non c’entrano assolutamente per niente.

A quale grado di abbassamento intellettuale dobbiamo essere pervenuti, perché la critica si creda obbligata, nell’anno 1846, di smuovere tutto questo letamaio! Ma, pazienza! queste miserie sono la sozzura di cui la società si purifica nelle fiamme della controversia. Se la canfora, la salsapariglia, il mercurio, diventati per l’arte del farmacista gli agenti più preziosi della sanità pubblica onorano per sempre il genio medico, la critica degli errori umani, l’arte di guarire le cancrene intellettuali, può avere pure il suo valore, per assurdo che sia del resto il pregiudizio, per quanto disgustosa si manifesti l’utopia.

6. – La comunione è impossibile senza una legge di riparto, ed essa perisce mediante il riparto

Con la comunione perisce dunque la famiglia, e con la famiglia sparirebbero i nomi di sposo e di sposa, di padri e di madri, di figli e di figlie, di fratelli e di sorelle; le idee di parentela e di alleanza, di società e di domesticità, di vita pubblica e di vita privata, si dileguano; tutto un ordine di relazioni e di fatti sparisce. Il socialismo, in qualunque maniera si esprima, arriva fatalmente a questa semplicità! Strana teoria, che invece di spiegare le idee, di determinare i rapporti, di formulare i diritti, princìpi delle obbligazioni, li abroga! Il comunismo non è la scienza, è l’annichilimento!

Il dotto autore dell’Icaria accorda, per certi casi, il permesso di mangiare a casa, in famiglia, il pranzo fornito dagli osti e cantinieri della repubblica. Perché mai non permettere a ogni famiglia di cuocere i suoi alimenti, invece di inviarglieli tutti preparati dall’officina comune? La comunione dipende forse dalla carne cotta o dalla carne cruda? Dal pasticcio caldo o dal pasticcio freddo? Oppure vi sarebbe un qualche motivo di economia? In questo caso, dirò al legislatore: fatemi il mio conto e datemi, in natura e a mia scelta, un valore eguale a quello del pasto. Che ci sarebbe da ridire?

Eccoci dunque giunti ai conti correnti, alle necessità di una regola di ripartizione e di valutazione dei prodotti, ciò che vuole dire alla dissoluzione della comunione. Infatti, ogni conto corrente si bilancia col dare e avere, in altri termini, col tuo e mio; ogni ripartizione è sinonimo di individualismo. Say aveva ragione di dire che le ricchezze naturali che restano comuni non vanno distribuite, nel senso economico della parola, e che se così si facesse di tutti i prodotti della natura e del lavoro, il valore venale sarebbe nullo, le conseguenze che ne derivano sparirebbero con esso, non vi sarebbe più economia politica. Così i comunisti non ripartiscono affatto; la loro scienza non giunge fin là: essi ragionano. È una nuova categoria della scienza sociale che aboliscono: valore, cambio, uguaglianza, giustizia, compravendita, commercio, circolazione, credito, ecc. Il comunismo, per sussistere, sopprime tante parole, tante idee, tanti fatti, che i soggetti formati dalle sue cure non avranno più bisogno di parlare, di pensare, di agire; ma saranno ostriche attaccate una vicino all’altra, senza attività né sentimento, sullo scoglio... della fratellanza! Che filosofia intelligente e progressiva è mai il comunismo!

Tuttavia, in una comunità ben ordinata, si dovranno conoscere con esattezza e per ogni specie di prodotto, i bisogni del consumo e i limiti della produzione. La proporzione dei valori è la condizione suprema della ricchezza, tanto per le società comuniste che per le società fondate sulla proprietà; e se l’uomo rifiuta di tenere i suoi conti, la fatalità calcolerà per lui e non lascerà passare alcun errore. Ogni corporazione industriale dovrà dunque fornire un contingente proporzionato al suo personale e ai suoi mezzi, deduzione fatta di sinistri e avarie; reciprocamente, ogni manifattura e maestranza riceverà dagli altri centri di produzione le sue forniture d’ogni genere, calcolate alla stregua dei suoi bisogni. Tale è la condizione sine qua non del lavoro e dell’equilibrio; è, avrebbe detto Kant, l’imperativo categorico, il comando assoluto del valore.

Così noi avremo da stabilire, almeno per i laboratori, le corporazioni, le città e province, una contabilità. Perché questa contabilità, espressione pura della giustizia, non si applicherebbe agli individui del pari che alle masse? Perché la ripartizione, cominciata con i grandi corpi dello Stato, non discenderebbe alle persone? O forse i lavoratori hanno meno bisogno di giustizia della società? Perché arrestarsi nella determinazione del diritto, quando, per rendere questa determinazione completa, non resta che una suddivisione? Qual è la ragione di questo capriccio? Risponderò per voi, in quanto non osereste confessarlo. È che, con una simile contabilità, essendo tutti quanti liberi, non vi sarebbe più comunità. Che cos’è, in effetti, una comunità dove il lavoro individuale si valuta e il consumo per testa si conta?

Così la comunità, come ogni società di commercio, non può dispensarsi dall’avere dei libri; ma essa non apre conti che alle corporazioni, essa non ne ha per le persone. Un poco di giustizia è necessaria, molta è funesta. La repubblica farà i suoi inventari; ma sarà un delitto contro la sicurezza dello Stato stabilire il bilancio di un cittadino! La nazione e le province faranno i loro scambi secondo le leggi assolute del valore; ma chiunque tentasse di applicare a se medesimo e agli altri questo principio stesso, sarebbe considerato come falso monetario e punito con la morte. Personificando in sé la giustizia sociale, avrebbe abolito la comunione!

Il socialismo non conta, si rifiuta di contare. Né più né meno dell’economia politica esso afferma l’incommensurabilità del valore. Senza questo, comprenderebbe che ciò che rintraccia attraverso le sue utopie è dato dalla legge dello scambio; cercherebbe la formula di questa legge; e, come la teologia, dopo che ha scoperto il senso dei suoi miti, come la filosofia dopo che ha costruito la sua logica, il socialismo! avendo trovato la legge del valore, conoscerebbe se stesso e cesserebbe di esistere. Il problema della ripartizione non è stato, fino a ora, attaccato di fronte da nessuno scrittore socialista: la prova è che tutti hanno concluso, come gli economisti, contro la possibilità di una regola di ripartizione. Gli uni hanno adottato per divisa: a ciascuno secondo la sua attitudine, a ogni attitudine secondo le sue opere, ma si sono ben guardati dal dire né quale fosse, secondo essi, la misura dell’attitudine né quale fosse la misura del lavoro. Gli altri hanno aggiunto al lavoro e alla attitudine un nuovo elemento di valutazione, il capitale, altrimenti detto il monopolio; e hanno così provato una volta di più che non erano altro che vili plagiari della civiltà, benché tanto si facciano notare per le loro pretense all’imprevisto. Infine, si è formata una terza opinione che, per sfuggire a queste transazioni arbitrarie, sostituisce alla ripartizione la razione e prende per epigrafe: a ciascuno secondo i suoi bisogni nella misura delle risorse sociali. Con ciò il lavoro, il capitale e il talento si trovano eliminati dalla scienza; nello stesso tempo, la gerarchia industriale e la concorrenza sono soppresse; poi la distinzione dei lavoratori in produttivi e improduttivi, essendo tutti pubblici funzionari, si dilegua; la moneta è definitivamente proscritta, e con essa ogni segno rappresentativo del valore; il credito, la circolazione, la bilancia del commercio non sono più che parole prive di senso sotto questo regno della fratellanza universale!

E io conosco della gente di vero merito che si lascia illudere da questa semplicità del nulla!...

Lei l’ha detto, mio caro Villegardelle, la comunione è il termine fatale del socialismo! Ed è per questo che il socialismo non è niente, non è mai stato niente, non sarà mai niente; la comunione è la negazione nella natura e nello spirito, la negazione al passato, al presente e al futuro.

7. – La comunità è impossibile senza una legge d’organizzazione e perisce mediante l’organizzazione.

Niente di più facile da fare che un piano di comunismo.

La repubblica è padrona di tutto: distribuisce i suoi uomini, dissoda, lavora, costruisce dei magazzini, delle case, dei laboratori; fabbrica palazzi, officine, scuole; fabbrica tutte le cose necessarie al vestirsi, al nutrimento, all’abitazione; dà l’istruzione e lo spettacolo, il tutto gratis, a quanto si crede, e nella misura delle sue risorse. Ciascuno è operaio nazionale e lavora per conto dello Stato che non paga nessuno, ma che si prende cura di tutti quanti, come un padre di famiglia fa dei suoi figli. Tale è, più o meno, l’utopia di questo eccellente Cabet, utopia tolta, con leggere modificazioni, dai pensatori greci, egizi, siriaci, indiani, latini, inglesi, francesi, americani, riprodotta con varianti da Pecqueur, e verso la quale gravita, suo malgrado, ma niente affatto contro sua voglia, il rappresentante della nostra giovane democrazia, Louis Blanc. Semplice e perentorio com’è, non si può negare che questo meccanismo ha per lo meno il vantaggio di essere alla portata di tutti quanti. Onde si scorge, leggendo gli autori, che essi non si aspettano opposizione che sulle ore di lavoro, la scelta dei costumi e altri dettagli di fantasia, che non fanno, aggiungono essi, niente al sistema.

Ma questo sistema, così semplice, a dire degli utopisti, diventa, tutto a un tratto di una inestricabile complicazione, se si riflette che l’uomo è un essere libero, refrattario alla polizia e alla comunità, e che ogni organizzazione violatrice della libertà individuale perirà per opera della libertà individuale. Così si vede, nelle utopie socialiste, l’appropriazione ritornare sempre e, senza rispetto per la fratellanza, disturbare l’ordine comunitario.

Si è visto Cabet permettere, la sera, la cena in famiglia. A questa concessione Cabet ne aggiunge un’altra: la domenica tutti sono liberi! Ciascuno pranza dove vuole, in casa, al ristorante, in campagna, ad libitum. Come una buona e indulgente madre, il legislatore di Icaria ha sentito la necessità di sciogliersi di tempo in tempo dal rigore comunistico, ha voluto ricordare ai cittadini che non sono solamente fratelli, ma anche persone. La domenica egli dà loro la libertà!

Cabet fa di più: a riguardo dell’agricoltura, riabilita il piccolo usufrutto, stavo per dire la piccola proprietà. In Icaria, l’agricoltore, fittavolo della repubblica, abita solo con la moglie e i suoi figli in una casupola col suo angolo di terra. Io so che un buon numero di comunisti riprovano questo sistema, sul quale gli economisti neanche essi sono d’accordo. Ma io sostengo che, se Cabet è eretico, tutti i suoi detrattori lo sono egualmente. Non si può ammettere che vi sia fra essi differenza di princìpi ma solo differenza di forma. Proviamo dunque, per tagliare corto, che ogni organizzazione, comunista o no, implica necessariamente libertà e individualità del lavoro, nello stesso modo che ogni ripartizione implica proporzionalità e individualità di salario, ciò che porta sempre all’impossibilità della comunità.

Il primo e il più potente espediente dell’organizzazione industriale è la separazione delle industrie, altrimenti detta, divisione del lavoro. La natura, con la differenza dei climi, ha preludiato a questa divisione e ne ha determinato a priori tutte le conseguenze, il genio umano ha fatto il resto. L’umanità soddisfa i propri bisogni applicando questa grande legge di divisione, dalla quale nascono la circolazione e lo scambio. Di più, è da questa divisione primordiale che i differenti popoli ricevono la loro originalità e il loro carattere. La fisionomia dei gruppi umani non è, come si potrebbe credere, un tratto indelebile conservato dalla generazione, è una impronta della natura, capace solo di sparire per l’effetto dell’emigrazione e il cambiamento delle abitudini. La divisione del lavoro non agisce dunque semplicemente come organo di produzione, esercita una influenza essenziale sullo spirito e il corpo; è la forma della nostra educazione come del nostro lavoro. Sotto tutti questi rapporti si può dire che è creatrice dell’uomo come pure della ricchezza, che è necessaria all’individuo tanto quanto la società, e che, a riguardo del primo come della seconda, la divisione del lavoro deve essere applicata con tutta la potenza e l’intensità di cui è suscettibile.

Ma, applicare la legge di divisione è fomentare l’individualismo, è provocare la dissoluzione della comunità; è impossibile sfuggire a questa conseguenza. In effetti, poiché in una comunità ben diretta la quantità di lavoro da fornire per ogni industria è conosciuta, e il numero dei lavoratori è parimenti conosciuto e che per altro il lavoro non si esige da ciascuno, se non come condizione di salario, e garanzia di fronte a tutti, quale ragione avrebbe la comunità di resistere a una legge di natura, di restringerne l’azione, d’impedirne l’effetto? E che si potrebbe rispondere al cittadino che venisse a fare questa proposta al Governo: “La somma dei servizi da fornire dal gruppo di cui io faccio parte è 1000; il numero dei giorni di lavoro per l’annata è di 300; noi siamo 500 compagni; io prendo l’impegno e provo con la memoria qui annessa che la mia proposizione non può che essere vantaggiosa, in ogni modo, alla repubblica; m’impegno, sotto cauzione della parte che mi spetta nel consumo generale, a fornire giorno per giorno, mese per mese, anno per anno, secondo le convenienze del Governo, la frazione, aumentata di un decimo, del lavoro collettivo che può essermi assegnato, e domando in cambio di diventare libero, a mio rischio e pericolo, e di lavorare da solo”.

Questo cittadino, venendo a domandare l’emancipazione del lavoro e obbligandosi a pagare la decima della libertà, sarebbe dichiarato sospetto? La libertà individuale dovrebbe forse essere proscritta a nome della libertà generale, la quale si compone della somma delle libertà individuali? Quale sarebbe il motivo di questa proscrizione? Libertà, delizia della mia esistenza, senza di cui il lavoro è tortura e la vita una lunga morte! È per te che l’umanità combatte dall’origine, è per il tuo regno che noi siamo occupati a questa nuova e grande rivoluzione. Saresti tu dunque la morte della coscienza sotto il dispotismo della società e, per paura di perderti, bisognerà che tutti i giorni io t’immoli?

Si dirà che la libertà del lavoro non si può accordare perché implica l’appropriazione, e con l’appropriazione il monopolio, l’usura, la proprietà, l’usufrutto dell’uomo da parte dell’altro uomo?

Replico che, se la libertà genera questi abusi, è per mancanza di una legge di scambio, di una costituzione del valore e di una teoria di ripartizione che mantiene fra i consumatori l’eguaglianza, fra le funzioni l’equilibrio. Ora, chi è che si oppone alla ripartizione? e chi è che respinge con tutte le sue forze la teoria del valore e la legge dello scambio? il comunismo. In modo che il comunismo respinge la libertà del lavoro, perché gli occorrerebbe una legge di ripartizione, e rigetta in seguito la ripartizione al fine di conservare la comunità del lavoro: che discorso sconclusionato!

Organizzazione del lavoro, divisione o libertà del lavoro, separazione delle industrie, tutti questi termini sono sinonimi. Ora la comunità perisce per la separazione delle industrie; dunque la comunità è essenzialmente inorganica, non può esistere, non rinascerà sulla terra che dalla disorganizzazione. Come mai concepire una separazione delle industrie che non separi gli operai, una divisione del lavoro che non divida gli interessi? Come mai, senza responsabilità, e per conseguenza senza libertà individuale, assicurare l’efficacia del lavoro e la fedeltà del rendimento? Il lavoro, dite voi, sarà diviso, il prodotto solo sarà comune. Circolo vizioso, petizione di principio, logomachia, assurdità. Ho provato sempre che il lavoro non poteva essere diviso senza che il consumo lo fosse; in altri termini, che la legge di divisione implicava una legge di ripartizione, e che questa ripartizione, procedendo per dare e avere, sinonimo di tuo e di mio, era distruggitrice della comunità. Così l’individualismo esiste fatalmente in seno della comunità, nella distribuzione dei prodotti e nella divisione del lavoro: qualsiasi cosa faccia, la comunità è condannata a perire; non ha che la scelta di abdicare fra le mani della giustizia, risolvendo il problema del valore, oppure di creare, sotto il manto della fratellanza, il dispotismo del numero invece del dispotismo della forza.

Tutto ciò che il socialismo ha messo fuori, dalla morte di Caino fino alle fucilate di Rive-de-Gier, su questo grande problema della organizzazione, non è altro che un grido di disperazione e d’impotenza, per non dire una declamazione da ciarlatano. Nessuno, oggi più di ieri, né nel socialismo né nella parte proprietaria, ha risolto le contraddizioni della economia sociale; e tutti questi apostoli di organizzazione e di riforma, non faccio che riferire qui quello su cui abbiamo mille volte convenuto, mio caro Villegardelle, sono utilizzatori della credulità pubblica, scontando, a nome della scienza avvenire, il beneficio di una verità vecchia come il mondo, e di cui non sanno nemmeno articolare il nome.

Il produttore sarà egli libero o no nel suo lavoro? A questa domanda così semplice, il socialismo non osa rispondere: da qualunque parte si volga è perduto. La divisione del lavoro è avvinta con un legame indissolubile alla ripartizione matematica dei prodotti, la libertà del produttore all’indipendenza del consumatore. Togliete la divisione del lavoro, la proporzionalità dei valori, l’uguaglianza delle fortune, e il globo, capace di nutrire dieci miliardi d’uomini ricchi e forti, basta appena a qualche milione di selvaggi; togliete la libertà, e l’uomo non è che un miserabile forzato, che trascina fino alla tomba la catena delle sue speranze deluse; togliete l’individualismo delle esistenze, e fate dell’umanità un grande polipaio. Ma, affermate la divisione del lavoro, e la comunità sparisce con l’uniformità; affermate la libertà, e i misteri della politica cadono con la religione dello Stato; affermate l’organizzazione, e la comunità delle persone non è più che uno spaventevole incubo.

La comunità con la divisione del lavoro, la comunità con la libertà, la comunità con l’organizzazione, gran Dio! è il caos con gli attributi della luce, della vita e dell’intelligenza. E domandate perché non sono comunista! Consultate, di grazia, il dizionario dei contrari, e saprete perché non sono comunista.

8. – La comunità è impossibile senza la giustizia, e perisce per la giustizia

Il non-io, diceva un filosofo, è l’io che si obietta, che si oppone a se stesso e si prende per un altro, il soggetto e l’oggetto sono identici: A uguale ad A.

Questo principio, che serve di base a tutto un sistema di filosofia, e che nella speculazione si può ancora considerare come vero, è anche il punto di partenza della scienza economica, il primo assioma della giustizia distributiva. In quest’ordine d’idee A è uguale ad A, cioè il lavoro realizzato è matematicamente uguale al lavoro pensato; per conseguenza, il salario dell’operaio è uguale al suo prodotto, la consumazione uguale alla produzione. Ciò è vero così dell’individuo che scambia con altri produttori, come del lavoro collettivo che non scambia che con se stesso, come dell’uomo sequestrato dai suoi simili e che diventa allora egli solo tutta l’umanità. Il salario nel lavoratore collettivo è uguale al prodotto; conseguentemente i prodotti di tutti i lavoratori sono uguali fra loro, e i salari ancora uguali: là è il principio dell’eguaglianza delle condizioni e delle fortune.

Così l’eguaglianza, nell’uomo collettivo, non è altro che l’eguaglianza del tutto alla somma delle parti; si stabilisce in seguito, a mezzo della libertà, fra le corporazioni industriali e le classi dei cittadini; si costituisce infine, lentamente e con oscillazioni infinite, fra gli individui. Ma l’uguaglianza deve essere alla fine universale, perché ogni individuo rappresenta l’umanità, ed essendo l’uomo uguale all’altro uomo, il prodotto deve diventare, fra tutti, uguale al prodotto.

Tale non è il punto di vista della comunità. La comunità ha orrore delle cifre, l’aritmetica le è mortale. Essa non ammette che la legge dell’universo, omnia in pondere et numero, et mensura, sia pure la legge della società; la comunità, in una parola, non accetta l’eguaglianza e nega la giustizia.

Quale è dunque il principio a cui dà la preferenza? Secondo Cabet, la fratellanza. Bisogna che io confessi, questa scempiaggine conta fra i suoi apologisti uomini di molta minore innocenza dell’onorevole Cabet.

L’eguaglianza e la giustizia, a quel che assicurano questi profondi teorici, non sono che rapporti di proprietà e di antagonismo che devono sparire sotto la legge di amore e di devozione. In questo nuovo stato, dare è sinonimo di ricevere; la fortuna consiste nel prodigarsi; all’emulazione degli egoismi succede l’emulazione delle abnegazioni. Tale è l’idea superiore del socialismo, idea che è nostro dovere approfondire, in quanto, grazie a quest’idea superiore, perdiamo tutte le idee inferiori di giusto, e ingiusto, di diritto e di dovere, di obbligazione e di danno, ecc. ecc. Da idea superiore in idea superiore finiremo per non avere più idee.

È evidente che l’uomo primitivo, lasciato alle sue inclinazioni materiali, prova mediocremente quell’amore mistico per il prossimo che Gesù Cristo stesso, secondo Pierre Leroux, non avrebbe che imperfettamente conosciuto, e che i comunisti hanno preso per base della loro dottrina. Lo stato di guerra è lo stato primordiale dell’era umana. Prima di amarsi fra loro, gli uomini cominciarono col divorarsi; il sacrificio del prossimo precede sempre il sacrificio per il prossimo; l’antropofagia e la fratellanza sono i due estremi dell’evoluzione economica. Aggiungiamo che ogni individuo riproduce nella vita e in ogni istante della vita questa duplice parte dell’umanità.

Così la fratellanza, con la quale si esprime in noi il trionfo dell’angelo sul bruto, è meno un sentimento spontaneo che un sentimento sviluppato, frutto dell’educazione e del lavoro. Qual è dunque il sistema di educazione della fratellanza? È strano che siamo ancora ridotti ad indirizzarci questa questione dopo tante omelie fraterne.

Gli economisti ragionano come se la fratellanza dovesse nascere unicamente dalla persuasione. Gesù Cristo e gli apostoli predicavano la fratellanza: si predica a noi la fratellanza. Siate fratelli, ci si dice, perché altrimenti voi sareste nemici; la vostra scelta non è libera. La fratellanza o la morte! Davanti a questo dilemma l’uomo non ha mai esitato, ha scelto la morte.

È colpa sua?

Mi è impossibile comprendere come mai la convinzione che ho della necessità di una cosa possa diventare la causa efficiente di questa cosa. Io sono libero, non perché l’eccellenza della libertà mi è provata, benché questa dimostrazione abbia potuto servire a farmi volere la libertà, ma perché riunisco le condizioni che fanno l’uomo libero. Egualmente, gli uomini passeranno dalla discordia all’armonia, non solo in virtù della conoscenza che avranno acquistata del loro destino, ma grazie alle condizioni economiche, politiche e altre che nella società costituiscono l’armonia. Alla voce del Cristo, l’umanità trasalì di amore e pianse di tenerezza; un santo fervore s’impadronì delle anime: era un effetto di reazione, il risultato di un lungo spossamento. Questa emozione fu di corta durata. Le discordie cristiane sorpassarono gli odi dell’idolatria; la fratellanza si dissipò come un sogno, perché nulla essendo previsto per sostenerla, mancò, a dire il vero, di alimento. La situazione è ancora la stessa; la fratellanza, oggi come sempre aspetta per esistere un principio che la produca; il socialismo pensa forse che basti, per adempiere a questa condizione, predicare la fratellanza?

Così fabbrichiamo sul vuoto; periamo miseramente in vista della terra promessa, che vogliamo raggiungere attraverso gli spazi, invece di seguire la via prescritta e andare di tappa in tappa. La fratellanza non esiste, questo è universalmente riconosciuto, e il socialismo, invece di cercarne gli elementi, s’immagina che gli basti parlare. Che la fratellanza sia, dice... Ma la fratellanza non può essere.

Alcuni, prendendo la forma della fratellanza per la fratellanza stessa, assicurano che la convenienza, il buon costume, i sentimenti che ispirano un’educazione generosa, i costumi gentili e affettuosi delle generazioni future, non permettono di supporre che vi sia chi, abusando della confidenza sociale, tradisca la legge della devozione e della fratellanza. Costoro assomigliano agli economisti che, rimpiazzando il numerario con biglietti, il pegno con il segno, immaginano di avere abolito l’uso del numerario. Ma i biglietti non valgono se non in quanto sono garantiti; così, l’urbanità, la convenienza, le proteste di devozione, non hanno valore che a condizione di una ipoteca che le sostenga; ora mi si dica dunque dov’è quest’ipoteca! Ciò che fa nascere l’amicizia, la stima, la confidenza, la premura, è la certezza della reciprocità, cioè il sentimento della dignità e dell’indipendenza personale, di un benessere individualmente e legittimamente acquistato. La piaggeria dei conventi, da dove la religione aveva avuto cura di escludere ogni sentimento di personalità e di proprietà, costituiva forse la fratellanza? Quei fratelli erano per se stessi troppo poca cosa perché potessero avere stima gli uni per gli altri; e lo si è potuto vedere, con l’esempio delle comunità religiose, dove l’umiltà e l’abnegazione erano di regola, che la degradazione dell’io trascina sempre alla rovina della carità. Tale fu il grande errore di quegli istitutori di ordini a cui Dio dia pace in considerazione del loro buon volere, ma il cui sistema è d’ora innanzi condannato. La grossolanità, la poltroneria, la crapula dei frati sono da secoli passate in proverbio: tutti questi vizi delle comunità religiose, di quelle anche che avevano fatto del lavoro la parte essenziale della loro disciplina, procedettero dalla falsa teoria che cerca la fratellanza fuori della giustizia.

Alla testimonianza della storia, la teoria aggiunge le sue prove.

Perché una società di lavoratori possa fare a meno della giustizia e sostenersi unicamente per lo sforzo delle affezioni, una cosa sarebbe necessaria, senza di cui la fratellanza perirebbe all’istante, cioè, l’infallibilità e l’impeccabilità individuale. Un uomo progetta di pubblicare un libro. Chi farà le anticipazioni di carta, di composizione, di stampa, di legatura, di vendita, di spedizione? La comunità senza dubbio, poiché tutto appartiene alla comunità, e tutti gli strumenti di lavoro, tutte le materie prime, tutti i prodotti e i benefici sono della comunità. Ma la comunità, stampando questo scritto, si espone a una spesa inutile: chi la garantirà? Si chiameranno dei censori per l’esame dei manoscritti? La stampa allora non è più libera. Si sottometterà la stampa al voto? Questo suppone che i votanti conoscano il libro che si tratta precisamente di fare ad essi leggere. Si aspetterà che l’autore abbia raccolto un numero sufficiente di abbonati? Noi rientriamo nel sistema della vendita e dello scambio, del dare e dell’avere, nella negazione della comunità.

Che difficoltà indissolubili! quali contraddizioni! Se la comunità è prudente, essa deve esigere per se stessa una garanzia, cioè riconoscere un possesso fuori di sé e pronunciare la sua propria dissoluzione. Se l’autore è veramente leale e affezionato, deve assumere sopra di sé solo la responsabilità della sua opera, cioè separarsi, per devozione, dalla comunità. Ma di questa devozione stessa come mai potrebbe attuarla se non possiede nulla, né in lui, né fuori di lui, che possa sacrificare e dare?

Nemo dat quod non habet, è il Vangelo, è Gesù Cristo stesso che lo dice. Se non avete messo niente, non potete prendere niente, e di tutti gli uomini, il più capace di sacrificio non è il comunista, è, bisogna che dia come nuova una verità così triviale? è il proprietario.

La comunità arriva dunque, per tutte le sue vie, al suicidio. Costituita sul tipo della famiglia, essa si dissolve con la famiglia; non potendo fare a meno del riparto, perisce per la ripartizione; forzata a organizzarsi, l’organizzazione la uccide. Infine, la comunità suppone il sacrificio; e, sopprimendo nello stesso tempo la materia e la forma del sacrificio, ben lungi dal potere costituire la serie necessaria alla sua esistenza, non può nemmeno porre il primo termine della sua evoluzione.

Datemi qualche cosa che s’accordi con qualche cosa, una idea il cui oggetto si comprenda, un fatto che si analizzi e ch’io possa intendere, e riconoscerò questo fatto, sottoscriverò quest’idea. Ma che volete che dica di una comunità la quale non si concepisce che nel niente, non si concilia che col niente, non sussiste che per il niente?

9. – La comunità eclettica, non intelligente e inintelligibile

Come abbiamo detto non c’è niente nell’utopia socialista che non si ritrovi nell’uso proprietario, conformemente al principio della scuola: Nihil est in intellectu, quod prius non fuerit in sensu. Il socialismo non possiede niente che gli sia proprio; ciò che lo distingue, lo costituisce, lo fa essere ciò che è, è l’arbitrio e l’assurdità dei suoi prestiti.

Che cos’è la comunità? È l’idea economica dello Stato spinta fino all’assorbimento della personalità e dell’iniziativa individuale. Ora, il comunismo non ha compreso la natura e la destinazione dello Stato. Impadronendosi di questa categoria allo scopo di dare a se stesso corpo e aspetto, non ha preso dell’idea che la parte reazionaria; si è manifestato nella sua impotenza, prendendo per tipo di organizzazione industriale l’organizzazione della polizia. Lo Stato, esso dice, dispone sovranamente del servizio dei suoi impiegati, che in cambio nutre, alloggia e pensiona; dunque lo Stato può pure esercitare l’agricoltura e l’industria, nutrire e pensionare tutti i lavoratori. Il socialismo, più ignorante mille volte dell’economia politica, non ha visto che, facendo rientrare nello Stato le altre categorie del lavoro, per questo solo esso cambiava i produttori in improduttivi; non ha compreso che i servizi pubblici, precisamente perché sono pubblici, o eseguiti dallo Stato, costano molto di più di ciò che valgono; che la tendenza della società deve essere di diminuirne incessantemente il numero, e che, ben lungi dal subordinare la libertà individuale allo Stato, è lo Stato, la comunità, che bisogna sottomettere alla libertà individuale.

Il socialismo ha proceduto egualmente in tutti i suoi plagi. La famiglia gli offriva il tipo di una comunità fondata sull’amore e l’affetto; tosto esso si è vantato di trasportare la famiglia, come l’industria e l’agricoltura, nello Stato; e la distinzione delle famiglie ha fatto luogo alla comunità di famiglia, come la distinzione dei monopoli aveva fatto luogo alla comunità del monopolio.

Che vi era mai nella famiglia prima che il socialismo l’avesse assorbita nell’indivisione? Vi era il matrimonio, l’unione dell’uomo con se stesso tramite la separazione dei sessi, la società nella solitudine, un dialogo in un monologo. Era la consumazione della personalità umana.

Il socialismo non vi ha visto che una deroga al suo principio, argomentando dalla lascivia dei selvaggi e dalla frequenza degli adulteri in una civiltà in crisi, ha rimediato a tutto sopprimendo il matrimonio e rimpiazzando l’inviolabilità dell’amore con la licenza degli accoppiamenti.

Repressa così la personalità dell’uomo, nell’amore e nel lavoro, il cammino sembrava facile all’organizzazione del lavoro e alla ripartizione dei prodotti.

Organizzare, distribuire il lavoro, che c’è di più facile? Senza dubbio la divisione del lavoro è anticomunista, essa raggruppa, in un grado, piccolo quanto si voglia, le funzioni a gruppi e, nei gruppi, gli individui. Senza dubbio ancora la comunità sarebbe più perfetta se potesse evitare una simile distribuzione. Ma questo inconveniente dell’appropriazione del lavoro sparirà nella distribuzione dei prodotti. Nessuno potendo attribuirsi esclusivamente il possesso degli strumenti del lavoro né i prodotti del lavoro né la loro circolazione né la loro distribuzione, la comunità resta intatta, e tutte le cure del Governo consistono nel produrre di più e con le minori spese possibili.

Ma, aveva osservato l’economia politica, il problema della divisione del lavoro non consiste solo nel realizzare la più grande somma di prodotti, consiste ancora nel realizzare questa quantità senza pregiudizio fisico, morale o intellettuale per il lavoratore. Ora, è provato che l’intelligenza del lavoratore è tanto più proclive all’idiotismo quanto il lavoro è maggiormente diviso; e reciprocamente, che più cose l’uomo abbraccia nelle sue combinazioni, riportando sulle altre i disgusti dell’esecuzione e la cura dei dettagli, più la sua ragione si fortifica, più il suo genio si eleva e domina. Come dunque conciliare la necessità di una divisione parcellare con lo sviluppo integrale delle facoltà, sviluppo che per ogni cittadino è un diritto e un dovere, e per tutti una condizione di eguaglianza; ma sviluppo che, esaltando la personalità, è la morte del comunismo?

A questo punto, il socialismo si è mostrato così povero logico come disprezzabile ciarlatano. Alla divisione parcellare ha aggiunto il taglio delle sezioni gettando parcelle su parcelle, incisioni su incisioni, la discordia sulla noia, il tumulto sull’insipidità. Esso non vuole che i lavoratori aspirino tutti a diventare generalizzatori e sintetici; ma riserva questa distinzione per le nature privilegiate di cui ha fatto ora degli usufruenti alla maniera dei proprietari. A ciascuno secondo la sua attitudine, a ogni attitudine secondo le sue opere; tra poco degli schiavi, i primi saranno come gli ultimi e gli ultimi come i primi. Il socialismo non ha visto, o piuttosto ha troppo visto che la divisione del lavoro era lo strumento del progresso e dell’eguaglianza delle intelligenze nello stesso tempo che del progresso e dell’eguaglianza delle fortune; esso respinge con tutte le sue forze questa eguaglianza che gli ripugna, perché sostituisce al sacrificio obbligatorio il sacrificio libero; ed è per questo che ora pone la capacità al disopra del lavoro parcellare, ora la rigetta al disotto. In Icaria come in Platone, come nel falansterio, dappertutto infine nei libri socialisti, la scienza e l’arte sono trattate come specialità e corpi di mestieri; in nessuna parte si vedono apparire come facoltà che l’educazione deve sviluppare in tutti gli uomini. Lei conosce il socialismo, mio caro Villegardelle, nella sua esperienza personale come pure nei suoi libri. Renda testimonianza alla verità: crede esso all’eguaglianza delle intelligenze? Il socialismo, che esige la devozione, vuole forse l’eguaglianza delle condizioni? Ha riscontrato nel socialismo, parlo del socialismo dogmatico, altra cosa fuorché vanità e stupidaggine? Dica se io calunnio.

Il socialismo non pertanto ha fatto una scoperta, quella del lavoro attraente.

L’economia politica, rivelandosi al mondo come scienza d’osservazione e d’esperienza, aveva dapprima proclamato la santità del lavoro. Contro l’autorità delle religioni, aveva detto che il lavoro non era punto una maledizione di Dio, ma una condizione di vita così necessaria per noi quanto il mangiare e il bere, l’amore, il gioco e lo studio. Le opere di Say, [Antoine] Destutt de Tracy, [Joseph] Droz, Smith, ecc., sono piene di questa idea. L’economia politica è la protesta del pensiero filosofico in favore del lavoro contro l’inerzia barbaresca e la mitologia giudaica. Di là ne seguiva, e gli economisti l’hanno molto bene scorto, che il lavoro, necessario alla società e all’uomo, fortificando lo spirito e il corpo, custode dei costumi e della salute, produttore della ricchezza, del progresso e manifestazione dell’attività umana, non aveva in sé a parte subjecti, niente di affliggente, e che se qualche volta si trovava accompagnato da fatica e da disgusto, questo proveniva unicamente dalla qualità delle cose, a parte rei, alle quali si applica il lavoro, o da una mancanza di misura nell’esecuzione. La divisione parcellare e l’uniformità di azione che ne è il seguito, così energicamente segnalate dagli economisti, sono esempi ben conosciuti del lavoro divenuto ripugnante. Che bisognava dunque fare? Sopprimere o coprire ciò che la materia del lavoro poteva offrire di sgradevole e dirigere gli esercizi in modo che soddisfacessero nello stesso tempo il corpo e lo spirito. Invece di questo, il socialismo ha inventato il lavoro attraente.

Dapprima il lavoro, reso piacevole e più facile, con l’estrema divisione, si cambierà in una festa perpetua con la musica, il canto, le conversazioni galanti, la lettura, la corta durata delle sedute, le evoluzioni e le giostre. Tale è il regime stabilito in Icaria da Cabet, d’accordo in questo con tutti i grandi maestri, Platone, Campanella, [Gabriel] Mably, [Étienne] Morelly, Fourier, ecc. Il socialismo, che conosce a meraviglia le sue bestie, procura loro ogni sorta di ricreazione; fa col lavoro come quelli che danno serenate a mezzanotte, sotto le finestre della nuova sposa, risvegliando, col suono dei loro strumenti, i suoi sensi assopiti. A questi piaceri diversi, “La fraternité”, numero di gennaio 1845, aggiunge la considerazione annessa al lavoro, più la mutua sorveglianza. È chiaro che il socialismo non domanderebbe di meglio che sbarazzarsi del lavoro, e che nell’impossibilità assoluta in cui si trova di arrivare a questo ideale del lavoro attraente, lo compendia, lo diminuisce, lo varia, lo addolcisce, lo acconcia, finalmente lo rende obbligatorio sotto pena di censura e di prigione! Che formidabili geni sono gli inventori del lavoro attraente!

Ma, cari maestri, poiché siete così in vena di imitazione, prendete dunque nota di ciò che sto per dirvi e che è vecchio come il mondo: il lavoro, come l’amore, di cui è una forma, porta in sé la sua attrattiva; non ha bisogno né di corte sessioni né di musica né di confabulazioni né di processioni né di dolci propositi né di rivalità né di guardie di città ma solo di libertà e d’intelligenza; ci interessa, ci piace, ci appassiona, per l’emissione di vita e di spirito che esige, e che il suo più forte ausiliario è il raccoglimento, come il suo più grande nemico è la distrazione. Pubblicate dappertutto, per l’incoraggiamento dell’infingardaggine e l’edificazione dell’ozio, che, ben lungi dal dovere mai diminuire, la somma del lavoro per ciascuno di noi aumenta senza posa. Annunciate infine, che dal lavoro, come dal matrimonio, la personalità dell’uomo è incessantemente portata al suo maximum d’energia e d’indipendenza, ciò che elimina l’ultima probabilità del comunismo. Tutte queste verità sono l’ABC della scienza economica, la filosofia pura del lavoro, la parte meglio dimostrata della storia naturale dell’uomo.

Il socialismo, con queste utopie di devozione, di fratellanza, di comunità, di lavoro attraente, è ancora al disotto dell’antagonismo dei proprietari che si vanta di distruggere, e che intanto non cessa di copiare!

Il socialismo, a ben comprenderlo, è la comunità del male, l’imputazione fatta alla società delle colpe individuali, la solidarietà fra tutti dei delitti di ciascuno. La proprietà, al contrario, per la sua tendenza, è la distribuzione commutativa del bene e la nonsolidarietà del male, in quanto il male proviene dall’individuo. Da questo punto di vista, la proprietà si distingue per una tendenza alla giustizia che non si incontra nella comunità. Per rendere non solidali l’attività e l’inerzia, creare la responsabilità individuale, sanzione suprema della legge sociale, fondare la modestia dei costumi, lo zelo del bene pubblico, la sottomissione al dovere, la stima e la confidenza reciproche, l’amore disinteressato del prossimo, per assicurare tutte queste cose, il denaro, quest’infame denaro, simbolo della ineguaglianza e della conquista, è uno strumento cento volte più efficace, più incorruttibile e più sicuro di tutte le preparazioni e di tutte le droghe comuniste.

I declamatori hanno parlato della moneta come lo scrittore di favole parlava della lingua: gli hanno attribuito nello stesso tempo tutti i beni e tutti i mali della società: è il denaro, hanno detto gli uni, che costruisce le città, che vince le battaglie, che fa il commercio, che incoraggia i talenti, che remunera il lavoro e che regola i conti della società. È il denaro, l’ingordigia del denaro, auri sacra fames [Virgilio], hanno replicato gli altri, che è il fermento di tutti i nostri vizi, il principio di tutti i nostri tradimenti, il segreto di tutte le nostre bassezze. Se questo elogio e questo biasimo fossero veri, l’invenzione della moneta, la più stupenda, secondo Sismondi, la più fortunata, secondo la mia opinione, che abbia fatto il genio economico, presenterebbe all’analisi una contraddizione; dovrebbe, per conseguenza, essere rigettata e rimpiazzata da una concezione superiore, più morale e più vera. Non è vero che i metalli preziosi, il numerario e la carta moneta non sono causa né di bene né di male; la vera causa è nell’incertezza del valore, la cui costituzione ci appare simbolicamente nella moneta come la realizzazione dell’ordine e del benessere, e la cui oscillazione irregolare, negli altri prodotti, è il principio di ogni spoliazione e di ogni miseria. Il denaro, il primo valore socialmente determinato, si mostra dunque, fino al giorno della costituzione generale dei valori, dalla quale deve nascere per ogni lavoratore la garanzia perfetta del lavoro e del salario, come l’organo più perfetto della solidarietà del bene e della non solidarietà del male, in altri termini, della responsabilità individuale e della giustizia.

Volete che prenda confidenza nel lavoro, nella diligenza, nella delicatezza dei miei fratelli. Non c’è bisogno di organizzare una politica, di creare uno spionaggio mutuo, per altro ingiurioso, impossibile. Fate che per ognuno di noi il benessere risulti esclusivamente dal lavoro, in modo che la misura del lavoro diventi l’esatta misura del benessere, e che il prodotto del lavoro sia come una seconda e incorruttibile coscienza, la cui testimonianza punisca o remuneri, secondo il merito o il demerito, ogni azione dell’uomo. Compilate una scala o quadro comparativo dei valori che mostri nello stesso tempo le oscillazioni anteriori e le oscillazioni future, tramite cui il produttore possa sempre dirigere le sue operazioni nel modo più vantaggioso, senza mai temere né sovrapproduzione né disastro.

Date, infine, a tutti i valori un’espressione comune, dedotta dal paragone con uno di essi, e che serva di misura per tutte le transazioni. In tali condizioni il lavoratore, lasciato a se stesso, e godendo della più completa indipendenza, dà la più perfetta garanzia.

E si prendano pure tutte le misure di previdenza e di carità che esige l’infermità della natura e che l’onore dell’umanità comanda, non si sarà fatto altro che supplire con l’amore ciò che avrebbe rifiutato di diritto; e chi dunque penserà d’impedirlo? Ma si ricordi che un tale supplemento tira tutta la sua moralità, e per conseguenza la sua possibilità, dalla ricognizione antecedente del diritto, e che senza la giustizia, senza una esatta definizione del tuo e del mio, la carità diventa una esazione e la fratellanza è impossibile.

Il regno del denaro è la transizione a questa democrazia dei valori, fondamento della giustizia e della fratellanza. Il denaro e le istituzioni di credito che esso genera, elevando alla dignità di numerario i valori industriali, hanno fatto ribassare la cifra della criminalità; il denaro e le istituzioni di credito, aprendo dappertutto lo scambio e facilitando la circolazione, hanno diminuito le sorti aleatorie, e aumentato, con la sicurezza, la benevolenza e l’affetto...

Perché Dio, invece di creare l’uomo, un individuo, ha messo al mondo l’umanità, una specie? Questo interessa il filosofo, a qualunque opinione appartenga. Ora, il comunismo non può rispondervi, perché dal suo punto di vista la creazione dell’umanità è assurda.

L’autore d’Icaria il quale, sia pregiudizio di cattolicesimo, sia rispetto per il costume dell’Europa, ha conservato, a imitazione di Fénelon, la monogamia nella sua repubblica, ha compensato questa eccezione con altri punti. Cabet crea dappertutto l’immobilità, scaccia la spontaneità e la fantasia. L’arte della modista, quella del chincagliere, del decoratore, ecc., sono anticomunitarie. Cabet prescrive, come Mentore, l’invariabilità del costume, l’uniformità della mobilia, la simultaneità degli esercizi, la comunità dei pasti, ecc., ecc. Dopo questo, non si capisce perché, in Icaria, esisterebbe più di un uomo, più di una coppia, il buon uomo Icaro, o Cabet e sua moglie. Perché tutta questa gente? perché questa interminabile ripetizione di marionette tagliate e vestite allo stesso modo? La natura, che non tira i suoi esemplari come gli stampatori, e che, ripetendosi, non fa mai due volte la stessa cosa, fa nascere, per produrre, l’essere progressivo e previdente, milioni di miliardi d’individui diversi, e da questa infinita diversità risulta per essa un soggetto unico, l’uomo. Il comunismo impone dei limiti a questa varietà della natura. Egli gli dice, come l’Eterno all’Oceano: tu verrai sin qui, non andrai più lontano. L’uomo della comunità, una volta creato, è creato per sempre... Non è così che il fourierismo ha preteso immobilizzare la scienza? Ciò che Cabet fa per, il costume, Fourier l’aveva fatto per il progresso: quale dei due merita di più la riconoscenza dell’umanità? Per arrivare a questi fini con maggiore certezza, l’icariano regola lo spirito pubblico, prende le sue misure contro le idee nuove. In Icaria c’è un giornale comunale, uno provinciale e uno nazionale; è, come nella Chiesa, un catechismo, un vangelo, una liturgia. La libertà di pensiero è il diritto di fare proposte all’assemblea.

L’opinione della maggioranza è reputata opinione pubblica, nello stesso modo che nelle nostre Camere la ragione si conta, ma non si discute. Il giornale, stampato a spese dello Stato, è distribuito gratis, rende conto delle deliberazioni, fa conoscere la cifra della minoranza, analizza le sue ragioni dopo che tutto è detto. I libri di scienza e di letteratura sono fatti e pubblicati per delegazione; la pubblicità non è ammessa per niente altro. In effetti, tutto appartenendo alla comunità, nessuno avendo niente di proprio, la stampa di un libro non autorizzato è impossibile. Di allora in poi, che si avrebbe a dire? Ogni idea faziosa si trova dunque arrestata nel suo nascere, e noi non avremo mai dei delitti di stampa: è l’ideale della politica preventiva. Così, il comunismo è condotto dalla logica all’intolleranza delle idee. Ma, misericordia! L’intolleranza delle idee come l’intolleranza delle persone, è l’esclusione, è la proprietà!... La comunità è la proprietà! Ciò non si capisce più, e non pertanto è indubitabile, lo vedrete.

Di tutti i pregiudizi non intelligenti e retrogradi, quello che i comunisti accarezzano di più è la dittatura. Dittatura dell’industria, dittatura del commercio, dittatura del pensiero, dittatura nella vita sociale e nella vita privata, dittatura dappertutto, tale è il dogma librato, come la nuvola sul Sinai, sopra l’utopia icariana. La rivoluzione sociale Cabet non la concepisce come effetto possibile dello sviluppo delle istituzioni e del concorso delle intelligenze; quest’idea è troppo metafisica per il suo gran cuore. D’accordo con Platone e tutti i rivelatori, d’accordo con Robespierre e Napoleone, d’accordo con Fourier, questo dittatore della scienza sociale, che nulla ha lasciato da scoprire; d’accordo infine con Blanc e la democrazia di Luglio, che vuole procurare la felicità del popolo suo malgrado e dare al potere la più grande forza d’iniziativa possibile, Cabet fa venire la riforma dal consiglio, dalla volontà, dall’alta missione di un personaggio, eroe, messia e rappresentante degli Icariani. Cabet si guarda bene di fare nascere la legge nuova dalle discussioni di un’assemblea regolarmente uscita dall’elezione popolare, mezzo troppo lento e che comprometterebbe tutto. Gli abbisogna un uomo. Dopo avere soppresso tutte le volontà individuali, le concentra in una individualità suprema che esprime il pensiero collettivo, e come il motore immobile di Aristotele, dà l’impulso a tutte le attività subalterne. Così, dal semplice sviluppo dell’idea si è invincibilmente condotti a concludere che l’ideale della comunità è l’assolutismo. E invano si direbbe che quest’assolutismo sarà transitorio, poiché se una cosa è necessaria un solo istante, lo diventa per sempre, la transizione è eterna.

Il comunismo, prestito disgraziato fatto dall’abituale regime proprietario, è il disgusto del lavoro, la noia della vita, la soppressione del pensiero, la morte dell’io, l’affermazione del nulla. Il comunismo, nella scienza come nella natura, è sinonimo di nichilismo, d’indivisione, d’immobilità, di notte, di silenzio; è l’opposto del reale, il fondo nero su cui il Creatore, Dio di luce, ha dipinto l’universo.

10. – La comunità è la religione della miseria

Riguardo la religione, e per rendere a ciascuno la giustizia che gli è dovuta, considero come un dovere di dichiarare qui che in fatto d’opinioni religiose non conosco nessuno più puro e più irreprensibile dell’autore della Storia delle idee sociali, il continuatore di Morelly, il traduttore di Campanella; e che è impossibile esprimersi sul conto di Dio con più libertà e meno prevenzione di quanto lei, mio caro Villegardelle. Ne segue con ciò che il comunismo sia esente da superstizione?

La comunità, lei l’ha riconosciuto, mio caro Villegardelle, è in progresso; cioè, più i tempi della comunità si allontanano, più gli utopisti che la ricordano si sforzano, con incessanti modificazioni, di farla ritornare; come i teorici della proprietà, a misura che l’esperienza la condanna, si sforzano di migliorarla e di renderla accomodante. Così, la retrogradazione del comunismo non è, per così dire, marcata che in teoria; il progresso della proprietà, al contrario, si esprime nello stesso tempo nella teoria e nella pratica. Ma, mentre c’è progresso, c’è pure necessariamente trasformazione, innalzamento dell’idea positiva e sintetica, per conseguenza eliminazione dell’idea mitologica, abolizione della fede religiosa. Dato questo primo carattere, è impossibile non riconoscere nella comunità come nella proprietà una religione.

I fatti vengono in appoggio di questo legittimo pregiudizio.

Una spessa nebbia di religiosità pesa oggi su tutte le teste riformiste, sia che predichino la riforma per conservare meglio, come i dinastici e gli economisti, sia che vogliano distruggere tutto per tutto ricreare nuovamente, come i comunisti. Il suo amico Cabet, mettendo in ridicolo il paradiso e il Padre Eterno, vanta la fratellanza come l’essenza della religione, chiamandola celeste e divina; e abbiamo visto quale profondo mistero è per lui la fratellanza. Pecqueur, che dichiara empie tutte le religioni positive (cos’è una religione negativa?) chiama la sua comunità Repubblica di Dio. Abbiamo in seguito i neocristiani e gli anticristiani; questi, secondo P. Leroux, sono i sansimoniani e i fourieristi. La democrazia semi-comunista somiglia alla confessione di Robespierre, Dio e l’immortalità dell’anima. “Le National”, organo avanzato del giusto mezzo, fa delle omelie sugli interessi spirituali del popolo: ed è la questione in cui esso mostra meno spirito. Gli economisti si rifugiano in seno alla fede, che interpretano e modificano secondo il senso delle teorie malthusiane; i magistrati rendono grazie a Dio dell’elezione sovrannaturale e provvidenziale di Pio IX, protestando la loro devozione alle libertà galliche; l’opposizione dinastica e il partito conservatore, e Lamartine fra i due, non respirano che religione e pietà; l’università dice il suo Credo, e si pretende più fedele della Chiesa; si dice anche che l’uomo rosso si mostri di nuovo alle Tuileries;


Bacia la terra e poi su la pentita

testa mette un cappel da gesuita.


La comunità è dunque una religione; ma quale religione?

In filosofia, il comunismo non pensa né ragiona; ha orrore della logica, della dialettica e della metafisica; non apprende, ma crede. In economia sociale, il comunismo non conta né calcola; non sa né organizzare né produrre né ripartire; il lavoro gli è sospetto, la giustizia gli fa paura. Indigente per se stesso, incompatibile con ogni specificazione, ogni realizzazione, ogni legge; prende a prestito le sue idee dalle più vecchie tradizioni vago, mistico, indefinibile; predica l’astinenza in odio del lusso, l’obbedienza per paura della libertà, il quietismo in orrore della previdenza; è la privazione dappertutto, la privazione sempre. La comunità, lassa e snervante, povera d’invenzione, povera d’esecuzione, povera di stile, la comunità è la religione della miseria. Ho menzionato il lusso. L’economia politica non aveva dato niente di preciso a questo riguardo, perciò l’utopia non aveva niente da prendere, e Cabet si è trovato alla sprovvista. Cabet dunque, nuovo Alessandro, tagliando il nodo gordiano, ha preso bravamente il suo partito, ed ha proscritto il lusso. Non più lusso! abbasso le mode e le acconciature! Le donne porteranno piume artificiali, i diamanti saranno rimpiazzati da pezzi di vetro, i ricchi tappeti, i mobili preziosi, come i cavalli e le vetture, apparterranno allo Stato, il che non farà nascere gelosia. Il costume sarà regolato, una volta per tutte, dal Consiglio sovrano. Gli abiti, tagliati su una ventina di modelli, saranno elastici come la gomma per attagliarsi bene e conservare in ogni tempo la giusta misura. Perché perdere il lavoro e la fortuna pubblica con queste fantasie indecenti, create per l’orgoglio e la corruzione?... Così ragionano Pitagora, Licurgo, Platone, Zenone, Diogene, Gesù e gli Esseni, gli Gnostici e gli Ebionisti, Seneca, tutti i padri, tutti i moralisti, i Trappisti, gli owenisti, ecc., ecc., ecc.

Bisogna dire pertanto che, sulla questione del lusso, la tradizione socialista non è mai stata unanime. Qualcuno ha fatto scisma, come gli epicurei, da cui sono discesi i sansimoniani, autori della riabilitazione della carne, e i fourieristi, partigiani del lusso e della lussuria, in omni modo, genere et casu. Costoro hanno trovato una tattica migliore, più attraente e più lucrosa, promettere ai neofiti in ricchezza, lusso e sontuosità, piaceri, magnificenza, tutto ciò che quelli minacciano di fare con la modestia e la mediocrità. Questa scissione non ha niente di sorprendente, ce ne voleva per tutti i gusti e, da una parte come dall’altra, non si rischiava nulla. Le sottoscrizioni verrebbero sempre; si poteva anche lusingarsi d’ottenere, tanto il mondo è bestia, gli onori della critica!...

L’errore del socialismo, sia epicureo che ascetico, relativamente al lusso, proviene da una falsa nozione del valore. Secondo la legge di proporzione dei prodotti, il lusso è una espressione puramente relativa che serve a designare gli oggetti ai quali la produzione arriva in ultimo luogo e che entra in più piccola quantità nella composizione della ricchezza. Data questa nozione elementare di economia sociale, è così assurdo parlare di rendere il lusso comune e facile, come il volerlo interdire, poiché da una parte si disconosce la serie dei valori, il che porta a una mistificazione; dall’altra si mutila questa serie, e si ritorna a decretare la miseria.

Ciò che imbarazza gli avversari del lusso, e a cui i suoi apologisti non hanno risposto che disertando la fratellanza e ponendovi il più intrattabile egoismo, è la maniera in cui si farà la distribuzione. In una società dove tutte le persone sono uguali e non possono avere niente di proprio, un’acconciatura di diamanti, un braccialetto di perle sarebbe un oggetto che, non potendo dividersi, creerebbe per il proprietario un privilegio nuovo, una specie di aristocrazia. Ora, ciò che noi diciamo delle pietre preziose, si può dire di mille altre cose: il lusso, benché abbia per principio la rarità, è nella sua varietà infinito. Come si può tollerare in una comunità un simile abuso? E intanto, lo domando a voi tutti che ridete dell’inettitudine comunitaria, come mai, se il cielo vi avesse chiamati a fare la costituzione degli icariani, avreste risolto il problema? Pensate alla civetteria delle donne, alla galanteria dei giovani, al desiderio sfrenato di piacere che invade tutte le anime, e che, seppure non è di già la proprietà, ha bisogno, per essere soddisfatto, della proprietà. Certo, se i diamanti non costassero di più dei grani di vetro, il buon Icaro non ne avrebbe rifiutato a nessuno; ma i gingilli rari e difficili, quale soggetto inestinguibile di pretese, di gelosie, di discordie! Ne abbandonate la distribuzione alla lotteria? È fomentare il contrabbando; i chincaglieri, gli orefici, le modiste, artigiani di lusso e di perdizione, da ogni parte sollecitati, formeranno presto una corporazione anticomunista. Il solo mezzo di salvezza è l’interdizione; le ricchezze della impura Babilonia saranno gettate alle fiamme o confiscate per servire alle parate della repubblica.

Vi era però un mezzo, facile e semplice, d’uscire d’imbarazzo, era, di adottare il sistema della ripartizione invece della distribuzione in natura, per equivalenze. Ogni lavoratore, dando il suo prodotto, riceve un Buono di..., valore ricevuto da lui in merci, e diventa, per questo mezzo, solo arbitro del proprio consumo; è evidente che allora, variando la spesa secondo i gusti, la ripartizione degli oggetti di lusso si opera da se stessa, e senza nessuna invidia, perché tutto si paga e non c’è preferenza per nessuno. Se la moda si attacca a un oggetto, il rialzo ne segue subito, e siccome la società colpisce quest’oggetto di un diritto fiscale, il lusso diventa un principio di economia. Tale è, in fondo, lo spirito dei diritti di concessione, di amministrazione, di circolazione e di spaccio relativamente ai prodotti vinicoli e industriali. Dappertutto, quando guardiamo da vicino, si mostra nella società la tendenza all’equilibrio, tendenza sempre contrariata e soffocata dall’inerzia comunista e dall’anarchia proprietaria.

Disgraziatamente, a questo sistema di ripartizione che la moneta, da tempo immemorabile, ha reso così popolare, la comunità non può avere ricorso, senza dilaniarsi, come Catone, con le proprie mani. Ogni misura del valore è l’espressione pura dell’individualità, la dichiarazione ufficiale dell’appropriazione: la moneta è l’atto mortuario del comunismo.

La comunità è la religione della miseria, gli utopisti sono forzati di convenirne, gli economisti l’insegnano ad alta voce.

“Ho mostrato nel mio Cours d’économie politique [Paris, 1838-1854], dice Rossi, come ogni famiglia d’operai potrebbe migliorare la sua condizione con un sistema equo di soccorsi mutui e di spese in comune; ecco ciò che ragionevolmente si può domandare allo spirito di associazione e di fratellanza. In questi limiti (nei limiti dell’indigenza), l’esempio delle comunità religiose, dei monasteri è buonissimo a proporre. L’isolamento è funesto per quelli che hanno pochissimo da spendere, per quelli che non possono raccogliere le loro provvigioni all’ingrosso e in tempo utile, e non possono consacrare molte cure, molto tempo alla loro economia domestica. La moltiplicazione delle aziende domestiche, per i poveri, è uno sbaglio; e, senza pensare a una vita assolutamente comune, la quale non conviene a uomini che hanno donne e fanciulli, e tenderebbe a distruggere lo spirito di famiglia, vi è una comunità parziale, una comunità di acquisti, di provvigioni, di riscaldamento, di pasto, di soccorsi, che non ha niente d’impossibile né d’immorale, e che non oltrepassa tuttavia, per le sue combinazioni, l’intelligenza delle classi laboriose. Se, invece di prestare orecchio alle stravaganze degli uomini, ai sistemi, si prendesse consiglio solo dall’equità e dal buon senso naturale, si potrebbero moltiplicare ed estendere senza pena i risultati di già realizzati in quest’ordine di fatti. Ciò non fa rumore, non desta schiamazzi, e non ha bisogno, per compiersi, di un Giosuè che arresti il corso della società; ma tali sono le vie che non conducono alla Corte di assise né a Charenton. Costituendo associazioni volontarie, temporanee, di cinque, sei, dieci famiglie, più o meno, per mettere in comune non il loro lavoro, non la vita intera, non ciò che c’è di più personale nell’uomo e di più intimo nella famiglia, ma una parte dei guadagni, delle spese, del consumo, della vita domestica materiale ed esteriore, in una crisi, di soccorsi mutui, non si creerebbe solo per i lavoratori un mezzo di benessere, ma un mezzo d’educazione e di moralità...”.

L’avete dunque inteso? La comunità, come applicazione della teoria di riduzione delle spese generali non è ammissibile che nei limiti della miseria, non è buona che per il povero; ancora non vi deve mettere né il suo lavoro né la sua vita intera né la sua famiglia né la sua libertà né il suo guadagno, ma solo una parte della sua spesa. Ma, una volta arrivati all’agiatezza col risparmio, fuggite la comunità, perché la comunità è la forma del proletariato.

Sì, Rossi è nel vero quando raccomanda ai poveri, e solo ai poveri, di mettersi in comune per certe spese; dà ad intendere che se il principio della riduzione delle spese è uno strumento potente di economia, è, in uguale misura, uno strumento invincibile di miseria. Chi non vede, in effetti, che questa teoria, quest’arte di ridurre indefinitamente il prezzo delle cose, non è altro, nel sistema della comunità, come in quello della proprietà, che la negazione stessa della ricchezza?

Ciò che la società cerca nella riduzione delle spese è l’economia del prezzo di rendita, non per motivo di accumulazione sterile, ma in vista di una creazione nuova, cioè di una produzione e di un consumo sempre più grande. La proprietà, al contrario, non ci vede che un mezzo d’estendere indefinitamente il suo dominio esclusivo e geloso, e di creare attorno ad essa il deserto e il vuoto. È ciò che ha dato luogo alla distinzione del prodotto netto e del prodotto lordo: il primo, che esprime il beneficio, cioè l’esclusione proprietaria; il secondo, che indica il benessere collettivo. Così i proprietari dell’agro romano, di cui Sismondi ha fatto una così lamentevole pittura, e che potrebbe nutrire trecento o quattrocentomila abitanti, hanno trovato che c’è più profitto per essi a lasciare la terra a pascolo che a farla lavorare; come gli industriali, il loro tornaconto consiste nel fare senza operai. Essi non si prefiggono il problema: far produrre e consumare il più possibile, dal più grande numero possibile di uomini, ciò che è veramente il problema economico; prendono per regola questa massima antisociale: realizzare il più grande prodotto netto possibile, cioè, eliminare attorno a sé il lavoro e il salario. La comunità, impadronendosi di quest’usanza proprietaria, col fanatismo che la distingue, ragiona esattamente come la proprietà; non vede nella teoria della riduzione delle spese che un mezzo di diminuire il lavoro per tutti quanti, senza accorgersi che una simile diminuzione non avrebbe mai termine e porterebbe necessariamente all’inazione, all’indigenza assoluta.

L’omnibus a colpo sicuro è un veicolo economico, tutt’affatto nel gusto comunista. Supponiamo la società abbastanza ricca per dare a ogni famiglia un cavallo e una carrozza; quale sarebbe la ragione d’esistenza, e che significherebbe l’economia dell’omnibus? Non è evidente che, malgrado la sua utilità relativa, l’omnibus, sostituito alla vettura particolare, lungi d’essere un progresso della ricchezza indicherebbe, al contrario, una diminuzione di ricchezza? Ora, ecco giustamente ciò che fa il comunismo. Prendendo dalla proprietà i suoi sofismi, vi dice: Perché tutte queste cose domestiche, ognuno ha una pendola, un orologio d’oro, armadi, sedie, tavole, quadri, incisioni, biblioteche, stufe, lampade e candelieri, vasellame e batteria di cucina, biancheria per sei mesi, abiti e mantelli di ricambio, gioielli e utensili d’ogni specie? Perché questa profusione, questo spreco? Mentre, se viviamo in comunità, avremo un orologio superbo che suonerà maestosamente nel cenacolo le ore in falso bordone, specchi risplendenti come a teatro, una tavola di cinquecento coperti, una pentola di trenta ettolitri e le sedute della Convenzione con le vittorie della Repubblica dipinte a olio sui muri!...

Buona gente, come vi si burla con la scusa di emanciparvi: perché chincaglieri, orologiai, fonditori, incisori, ebanisti, elettricisti, vetrai, stampatori, modiste...? perché il lavoro se proscrivete la ricchezza? perché il genere umano? o piuttosto, perché la comunità? non siete, senza di essa, abbastanza sprovvisti, abbastanza miserabili?...

Sono lungi dall’avere esaurite le mie rimostranze contro il comunismo. Non ho detto niente del soccorso inatteso che esso presta in questo momento alla cospirazione anglo-economista contro la libertà industriale dei popoli: da una parte, la Democrazia pacifica, che non vede nell’abolizione delle barriere altro che un incamminamento al falansterio; dall’altra, “Le Populaire” che racconta alle sue pecorelle l’invito fatto a Cobden da Luigi Filippo, e trae da questo fatto, minaccioso per l’indipendenza della nostra patria, la conclusione che si avvicina il giorno in cui i potenti e i ricchi faranno qualche cosa per la classe operaia...

Ma non potrei tutto riferire; per altro, ciò che ho detto basterà per la teoria. Quanto ai fatti e alle gesta del socialismo, tanto nel nostro secolo che nei secoli precedenti, rinuncio ad intrattenerla, mio caro Villegardelle. Il compito sarebbe al disopra della mia pazienza, e sarebbe svelare troppe miserie, troppe turpitudini. Come critico, avendo dovuto procedere alla ricerca delle leggi sociali per la negazione della proprietà, appartengo alla protesta socialista; sotto questo rapporto non ho niente da negare delle mie prime asserzioni, e sono, grazie a Dio, fedele ai miei antecedenti. Come uomo di realizzazione e di progresso, ripudio con tutte le mie forze il socialismo, vuoto d’idee, impotente, immorale, adatto solo a fare dei minchioni e dei truffatori. Non è così che esso si mostra da venti anni, annunziando la scienza e non risolvendo alcuna difficoltà; promettendo al mondo la fortuna e la ricchezza, ed esso stesso non sopravvivendo che d’elemosina e divorando, senza niente produrre, enormi capitali? Per me, lo dichiaro in presenza di questa propaganda sotterranea, che invece di cercare la luce aperta e di sfidare la critica, si caccia nell’oscurità dei vicoli; in presenza di questo sensualismo sfrontato, di questa letteratura fangosa, di questa mendicità senza freno, di questa imbecillità di spirito e di cuore che comincia a guadagnare una parte dei lavoratori, io sono puro dalle infamie socialiste, ed ecco, in due parole, su tutte le utopie d’organizzazione passate, presenti e future, la mia professione di fede e il mio criterio:

Chiunque, per organizzare il lavoro, fa appello al potere e al capitale ha mentito, in quanto l’organizzazione del lavoro deve essere la decadenza del capitale e del potere.

XIII. Decima epoca. La popolazione

1. – Distruzione della società mercé la generazione e il lavoro

“Epiterse, padre d’Emiliano, retore, navigava dalla Grecia in Italia su un vascello carico di diverse merci e molti viaggiatori, e verso sera, cessato il vento presso le isole Echinade, che sono fra la Morea e Tunisi, fu la nave portata presso i Paxi. Stando là abbordata, dormendo alcuni dei viaggiatori, altri vegliando, altri bevendo e mangiando, fu dall’isola di Paxo udita una voce di qualcuno che altamente chiamava Thamoun; al qual grido tutti furono spaventati. Questo Thamoun era il pilota, nativo dell’Egitto, ma non conosciuto di nome, fuorché da qualcuno dei viaggiatori. Fu una seconda volta udita questa voce che chiamava Thamoun con un grido orribile. Nessuno rispondeva, ma tutti restando in silenzio e trepidazione, per la terza volta fu udita questa voce più terribile di prima. Poi Thamoun rispose: ‘Sono qui, che mi chiami, che vuoi tu ch’io faccia?’. Allora fu quella voce più altamente udita, dicendo e comandando che quando sarebbe a Palodi, pubblicasse e dicesse che Pan, il gran Dio, era morto! Udite queste parole, diceva Epiderse, tutti i marinai e viaggiatori furono sbalorditi e grandemente spaventati, e fra loro deliberando che cosa fosse meglio, se tacere, o pubblicare ciò che era stato comandato, disse Thamoun la sua opinione essere questa: avendo il vento in poppa, passare oltre senza dire una parola; quando invece il mare fosse in calma, fare sapere ciò che essi avevano udito. Quando dunque furono presso le Palodi, avvenne che essi non avessero né vento né corrente. Dunque, Thamoun, montando a prora, e volgendo la vista verso terra, disse, come gli era stato comandato, che Pan, il grande, era morto. Non aveva ancora terminato quest’ultima parola quando si intesero grandi sospiri, grandi lamenti e spaventi in terra, non di una sola persona ma di molte assieme. Questa nuova, perché molti erano stati presenti, fu presto divulgata a Roma. E mandò Tiberio Cesare, allora imperatore di Roma, a cercare questo Thamoun. E, dopo averlo inteso parlare, prestò fede alle sue parole. E, studiando con dotte persone che allora erano alla sua corte e a Roma in buon numero, chi fosse questo Pan, trovò dai loro rapporti che era stato figlio di Mercurio e di Penelope, come prima avevano scritto Erodoto e Cicerone nel terzo libro della Natura degli Dei. Tuttavia lo interpreterei come quel gran Salvatore dei fedeli, che fu in Giudea ignominiosamente ucciso per l’invidia e l’iniquità dei pontefici, dottori e sacerdoti della legge mosaica. E non mi sembra interpretazione da rifiutarsi. A buon diritto, può egli essere in lingua greca detto Pan. Egli è il nostro tutto, tutto ciò che siamo, tutto ciò che viviamo, tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che speriamo, è lui, in lui, da lui, per lui. È il buon Pan, il grande Pastore che, come attesta il pastore appassionato Corydon, non solo sente amore e affezione per le sue capre, ma anche per i pastori. Alla cui morte furono pianti, sospiri, disperazioni e lamenti in tutta la macchina dell’universo: cielo, terra, mare, inferno. A questa interpretazione aggiunge valore il tempo. Questo buonissimo, questo grandissimo Pan, nostro unico Salvatore, morì in Gerusalemme regnando in Roma Tiberio Cesare”.

Chi crederebbe che questo ammirevole racconto, fatto con un tono così grave e terminato con una riflessione così pia, esca dalla penna di Rabelais che ne aveva preso lo spunto da Plutarco? Ma chi potrebbe disconoscere, nell’applicazione fatta a Gesù Cristo dell’oracolo gridato da Thamoun, l’emblema della società messa a morte dai suoi eterni nemici, il monopolio e l’utopia, e in questo stesso Thamoun, l’uomo i cui scritti hanno seminato di più lo spavento e fatto dubitare maggiormente della Provvidenza, Malthus?

La storia antica è la figura della storia moderna, come Cristo è la personificazione dell’umanità. Quando la società portata, come il vascello di Thamoun, dalla barbarie nella civiltà dai soffi economici, dopo aver traversato l’arcipelago proprietario, viene a perdersi sui bassifondi del comunismo, Malthus è il pilota che ci grida: la società muore, la società è morta! Le anime che piangono il Dio Pan, perché esse non hanno ancora ricevuto la fede della sua risurrezione, sono tutti i nostri scrittori e i nostri oratori, espressioni viventi dell’umanità, organi dei suoi presentimenti e dei suoi dolori: Lamennais, Lamartine, Michelet; sono i nostri economisti, i nostri politici e i nostri mistici: Sismondi, Blanqui, [Eugène] Buret, Guizot, Thiers, [Louis] Cormenin, O[dilon] Barrot, Bouchez, i reverendi padri [Xavier de] Ravignan e Lacordaire, monsignori di Lione e di Chartres, Eugène Sue, ecc., ecc.

Sì, davvero, la società volge verso la fine. Pan, il gran Dio, è morto; le ombre degli eroi si lamentino e i loro inferni ne fremino. Pan è morto, la società cade in dissoluzione. Il ricco si ritira nel suo egoismo e mette alla luce del giorno il frutto della sua corruzione; il servo corrotto e abbietto cospira contro il padrone: non più dignità nel ricco, non più modestia nel povero, fedeltà da nessuna parte. Il savio considera la scienza come una galleria sotterranea che lo conduce alla fortuna; non si cura della scienza. L’uomo di legge, dubitando della giustizia, non ne capisce più le massime; il prete non si cura più di convertire, ma si fa seduttore; il principe ha preso per scettro la chiave d’oro, e il popolo, con l’anima esasperata e l’intelligenza offuscata, medita e tace. Pan è morto: ve lo dico io come Thamoun e Malthus. La società è arrivata al punto più basso: troncate i vostri pianti, e noi, anatomisti, a cui è gettato il cadavere, procediamo all’autopsia.

Il fenomeno più chiaro della civiltà, meglio attestato dall’esperienza e il meno compreso dai teorici, è la miseria. Giammai problema fu più attentamente e più laboriosamente studiato. Il pauperismo è stato sottomesso all’analisi logica, storica, fisica e morale; lo si è diviso per famiglie, generi, specie, varietà, come un quarto regno della natura; si è parlato lungamente dei suoi effetti e delle sue cause, della sua necessità, della sua propagazione, del suo destino, della sua misura; se ne è fatta la fisiologia e la terapeutica; i titoli soli dei libri che ne sono stati scritti riempirebbero un volume. A forza di parlarne, si è giunti a negarne l’esistenza, ed è molto se, a seguito di questa lunga investigazione, si è cominciato frattanto ad accorgersi che la miseria appartiene alla categoria delle cose indefinibili, delle cose che non s’intendono. La miseria, come una divinità impenetrabile, ma sempre presente, ha i suoi increduli e i suoi devoti, essa ha pure, e ciò non è quello che serve meno ai suoi progressi, i suoi indifferenti. Strano destino quello dell’uomo, di essere sempre condotto dalla sua ragione a negare quello di cui egli non è informato che tramite il sentimento e i sensi, fosse anche il dolore e la morte! La scuola d’Elea, se la memoria non m’inganna, negava il movimento; gli stoici negavano il dolore; i partigiani della risurrezione e della metempsicosi negano la morte; gli spiritualisti negano la materia; i materialisti negano Dio. Gli scettici hanno preteso beffarsi degli uni e degli altri; ma, malgrado le negazioni e le risa, i mondi hanno continuato il loro corso maestoso attraverso lo spazio; il dolore e la morte non hanno fatto meno vittime, il culto degli dèi non ha ottenuto minori successi. Che i filantropi ridano della miseria, e noi siamo sicuri di una recrudescenza. Tentiamo dunque di decifrare questo geroglifico se non vogliamo attirarci addosso nuovi disastri.

La miseria è l’ultimo fantasma che la filosofia deve eliminare dalla ragione se vuole espellerla dopo dalla società. Ma che cosa è un fantasma? Come mai è possibile coglierlo, spiegarlo, difendersene? Come parlare delle cause, dell’essenza, dello sviluppo, degli accidenti, dei modi di un fantasma?

La miseria è, nell’ordine della società, il male. Ma che cosa è il male? Il male, dice de Lamennais, è il limite. Ora, che cosa è il limite? un concetto dello spirito senza realtà oggettiva. È, come il punto e la linea geometrica, un essere di ragione. Il limite non è niente, perché è esso stesso senza limite, perché la definizione è la sola cosa che non si definisca. Dunque il male, nel sistema di Lamennais, è un’entità logica, un rapporto denudato di sostanza; affermare l’esistenza del male è affermare la realtà di una negazione, la realtà del niente. Come mai spiegare il dolore? Come mai rendere ragione di questa esperienza continua che ci fa gridare e lamentarci, che eccita in noi il disgusto e l’orrore, e sovente anche ci dà la morte? Se il male non è altro che il limite, esso è la determinazione stessa dell’essere; ciò per cui le cose diventano sensibili e intelligibili, e senza di cui non c’è bontà né esistenza; è la condizione suprema delle nostre sensazioni e delle nostre idee, è l’essere necessario; in una parola, il male è il bene. Singolare definizione!

La miseria, secondo Buret, che ha preferito generalizzare meno per cogliere meglio, la miseria è il compenso della ricchezza. Fiat lux! Che dei più abili spieghino ciò se mai lo possono; quanto a me, la mia convinzione è che l’autore non si è compreso egli stesso.

La causa del pauperismo è l’insufficienza dei prodotti, cioè il pauperismo, opinione di Chevalier. La causa del pauperismo è il troppo grande consumo, cioè ancora il pauperismo: opinione di Malthus.

Potrei, all’infinito, moltiplicare i testi senza trarre giammai dagli autori altra cosa che questa proposizione, degna di stare vicino al primo versetto del Corano: Dio è Dio; la miseria è la miseria, e il male è il male. La miseria è qualche cosa di antifilosofico, d’irrazionale, come una religione, che è un fantasma, un mito.

La conclusione è degna di tali premesse: aumentare la produzione, restringere il consumo e mettere al mondo meno figli: in una parola, essere ricchi e non poveri: ecco, per combattere la miseria, tutto ciò che ci sanno dare quelli che l’hanno meglio studiata; ecco le colonne d’Ercole dell’economia politica!...

Ma, sublimi economisti, dimenticate che, aumentare la ricchezza senza accrescere la popolazione, è cosa tanto assurda quanto il volere ridurre il numero delle bocche aumentando il numero delle braccia. Ragioniamo un poco, di grazia, poiché, senza ragionare, finiremo col perdere il senso comune. La famiglia è il cuore dell’economia sociale, l’oggetto essenziale della proprietà, l’elemento costitutivo dell’ordine, il bene supremo verso cui il lavoratore dirige tutta la sua ambizione, tutti i suoi sforzi. È la cosa senza di cui cesserebbe di lavorare. Invece di essere cavaliere d’industria e ladro, subisce il giogo della vostra politica, paga le vostre imposte, si lascia legare, spogliare, scorticare vivo dal monopolio, s’addormenta rassegnato nelle sue catene e, per i due terzi della sua esistenza, simile al Creatore, di cui si è detto che è paziente perché è eterno, non sente più l’ingiustizia commessa contro la sua persona. Senza famiglia, non c’è società, non c’è lavoro; invece di questa subordinazione eroica del proletariato alla proprietà, una guerra di bestie feroci: tale è, secondo il postulato economico, la nostra prima posizione. E se voi non ne scoprite in questo momento la necessità, permettetemi che vi rimandi alle teorie del monopolio, del credito e della proprietà.

Intanto, lo scopo della famiglia è la progenie. Questa progenie è l’effetto necessario dello sviluppo vitale dell’uomo. È in ragione della forza acquistata e, per così dire, accumulata nei suoi organi dalla gioventù, dal lavoro, dal benessere. Dunque, è una conseguenza inevitabile della moltiplicazione delle sussistenze, l’aumento della popolazione; dunque, infine, la proporzione relativa delle sussistenze, lungi di accrescersi per l’eliminazione delle bocche inutili, tenderebbe invincibilmente a diminuire, se è vero, come spero di dimostrarlo ben presto, che una simile eliminazione non possa effettuarsi se non mediante la distruzione della famiglia, oggetto supremo, condizione sine qua non del lavoro.

Così la produzione e la popolazione sono l’uno all’altro effetto e causa; la società si sviluppa simultaneamente in virtù dello stesso principio, in ricchezza e in uomini; dire che bisogna cambiare questo rapporto, è come se, in un’operazione dove il dividendo e il divisore crescessero e diminuissero sempre in ragione eguale, si parlasse di raddoppiare il quoziente. Che cosa pretendete? Che i giovani cessino di fare all’amore; che il proletario non si mariti che a cinquant’anni, o meglio mai, e che la famiglia sia un privilegio? In questo caso, prendete efficaci misure per la guardia delle vostre proprietà, raddoppiate il numero dei vostri soldati, aumentate il numero delle ragazze pubbliche, create dei premi per la prostituzione, spingete alla poligamia, alla fanerogamia o anche alla sodomia, a tutte le specie di amori che il pregiudizio riprova ma che la scienza deve accogliere in considerazione della loro sterilità. Se con la famiglia, è impossibile arrestare il progresso della miseria, per la ragione stessa che è impossibile arrestare il progresso della ricchezza: questi due termini sono congiunti l’uno all’altro con l’indissolubile legame del matrimonio, c’è contraddizione a volerli separare. Così la miseria è una cosa mistica e necessaria, una cosa di cui noi non concepiamo né la presenza né l’assenza; il male come il bene è uno dei princìpi dell’universo: eccoci nel manicheismo!

Ma, infine, come si esprime il male nella società? Qual è la formula della miseria? Malthus, appoggiandosi su una massa di documenti autentici, ha provato, in primo luogo, che la popolazione, se non incontrasse alcuno ostacolo, come per esempio, la mancanza di sussistenze, potrebbe facilmente raddoppiare ogni 25 e anche ogni 18 anni; Say raccorciò ancora questo periodo; trovò che la popolazione, se nulla la reprimesse, triplicherebbe ogni 25 anni.

Rossi esprime la stessa idea con questa elegante formula: “Se uno produce due e i nuovi prodotti hanno ciascuno la stessa forza produttiva che aveva la prima unità, due produrranno quattro, quattro produrranno otto, e così di seguito. Astrattamente parlando, Malthus poneva dunque un principio incontestabile”.

Accanto a questo primo fatto, ormai fuori di dubbio, Malthus ne pone un altro non meno certo: ed è che, mentre che la popolazione tende ad accrescersi secondo la progressione geometrica 2, 4, 8, 16, 32, ecc., la produzione delle sussistenze aumenta solo secondo la progressione aritmetica 1, 2, 3, 4, 5, 6, ecc., ciò che conduce invincibilmente a questa conclusione: in ogni paese, una parte della popolazione perisce incessantemente per mancanza di pane.

Malthus, avendo preteso che bastava solo enunciare questa seconda proposizione perché essa fosse immediatamente dimostrata, ed essendosi dispensato in conseguenza di farne la prova, vado a supplire al suo silenzio, mostrando come la progressione aritmetica delle sussistenze 1, 2, 3, 4... è il corollario della progressione geometrica della popolazione 2, 4, 8, 16, 32, 64...

Da cosa dipende la generazione di un uomo? Dall’emissione di un germe, emissione che il genitore è incessantemente eccitato a permettere, che non esige da lui alcuno sforzo, che, tutto al contrario, è il bene supremo della sua vita, lo scopo del suo lavoro, il bisogno del suo destino. Ma, fino al giorno in cui sarà capace di provvedere da se stesso alla sua sussistenza, questo germe costerà, per le spese di incubazione, allattamento, nutrizione, ecc., durante un periodo di dieci, quindici, venti e anche venticinque anni, 12, 15, 20 e anche 50% di ciò che consumano i suoi autori. Ora, ammettendo che la stessa coppia conduca a termine, quattro, sei, dieci o dodici figli, ne segue, con una evidenza matematica, e senza che vi sia bisogno di mettere su una statistica immensa, di compulsare i racconti dei viaggiatori e di sfogliare le cronache, che il benessere di questi sposi diminuirà del 12, 15, 20, 30, 50 e anche 80%.

E siccome ciascuno dei figli, appena sortito dalla scuola e liberatosi dal tirocinio, è in grado di fare per suo proprio conto ciò che aveva fatto suo padre; siccome tutti i suoi desideri, tutti i suoi voti lo spingono a questa imitazione; siccome l’astinenza non avrebbe altro risultato che distogliergli il cuore dal lavoro e fargli perdere lo spirito d’ordine e di economia, ne risulta che la procreazione degli uomini guadagna, guadagna incessantemente terreno sulla produzione della ricchezza, la quale resta sempre, sempre indietro, e la potenza di sviluppo dell’umanità per la generazione e la sua potenza di sviluppo per il lavoro sono fra esse come le progressioni:

l, 2, 4, 8, 16, 32, 64, 128, 256...

1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9...

Malthus, lo ripeto, isolava una dall’altra queste due progressioni, o almeno non mi è mai parso che ne comprendesse nettamente la solidarietà e l’identità, e a tale difetto, nell’interesse della sua teoria, era utile supplire. I fatti, di più, cioè la miseria umana manifestata sotto mille forme spaventevoli, terribilis visu formae, fame, guerra, peste, malattia, disfatta, ecc., confermano tutti i giorni, come lo prova con immensa erudizione Malthus, l’esattezza di questa legge. Si vide mai enigma, finzione o fantasma esprimersi con una tale energia e dimostrarsi con una potenza di fatti così irresistibile?

Nell’ordine della società come in quello della natura, la miseria è dunque cosa fatale; volere preservarsene è volere che la legge dei logaritmi cambi a nostra convenienza e che l’aritmetica cessi d’essere una verità. Essendo le due progressioni unite l’una all’altra per un rapporto necessario, esprimendo in fondo la stessa idea, traducendo lo stesso fatto, la stessa legge eterna decretata dal cominciamento: crescete e moltiplicatevi, è inevitabile che, se lasciamo agire la natura, cadiamo nella miseria per la sovrapproduzione dei figli; e se resistiamo alla natura o se la inganniamo con sostitutivi illusori, dapprima ci sottraiamo al nostro più imperioso destino, in breve tempo prendiamo in orrore la famiglia e con essa il lavoro, e così precipitiamo in una serie infinita di mali.

Ecco, nella sua espressione la più chiara e la più oscura, la più decisiva e la più disperante, il mito finale dell’economia politica, la corona della proprietà, l’allegoria del lavoro e della famiglia. L’umanità si consuma e perisce per l’esercizio delle sue facoltà vivifiche; se potesse esservi un termine al suo suicidio, essa cesserebbe d’esistere.

Quando la teoria economica, seguendo da lungi l’esperienza, ha pronunciato la parola miseria, ha espresso con questa parola la legge intima del nostro sviluppo, l’essenza del nostro essere, la forma della nostra vita. Accrescimento rapido della popolazione, accrescimento più lento delle sussistenze, sono le due facce di una stessa idea, di un solo e unico fenomeno. È la formula misteriosa di una legge tanto certa, quanto tutte quelle che presiedono ai movimenti dei corpi celesti, di una legge, per conseguenza, inflessibile e senza misericordia come un’equazione di algebra. Da questo punto di vista, le lamentele del miserabile e i palliativi del filantropo ci sembrano puerili, meschini! La fatalità ci fa vivere, la fatalità ci trasporta; il piacere che essa ci dà, se lo fa pagare; cosa mai importa gridare e gemere? e che vogliono da noi questi economisti che, incapaci di cogliere il legame delle loro idee, ora ci dicono di produrre di più, ora ci raccomandano di mettere al mondo meno figli, come se queste forme della generazione umana non fossero irrevocabilmente incatenate l’una all’altra, e che vi fosse vantaggio a rimpiazzare con la miseria della nostra previdenza la miseria che risulta dall’imprevidenza della natura!...

Ma, mi si dirà, senza dubbio non ci sarebbe niente da replicare alla duplice legge di Malthus, e noi non eleveremmo alcun lamento, adoreremmo in silenzio il decreto della fatalità economica, se questa ineguaglianza dello sviluppo in popolazione e in ricchezza fosse di una irreprensibile certezza, e se portasse il carattere di una idea completa e definitiva come conviene a una idea vera; se questa legge, in una parola, non fosse un’evidente contraddizione. Ora, il principio di Malthus cade manifestamente nel caso di tutte le antinomie; e secondo i vostri propri princìpi, secondo la teoria dei contrari reputata infallibile, l’antagonismo del progresso nella popolazione e nella produzione prova unicamente, che esiste un principio d’equilibrio, e che questo principio spetta alla scienza scoprirlo.

L’uomo solo fra gli animali, per distinzione più gloriosa, sarebbe stato creato lavoratore; la Provvidenza gli avrebbe comandato di possedere la terra, di organizzarsi in più famiglie; la fortuna sarebbe stata posta per lui nell’esercizio di questa duplice funzione del lavoro e dell’amore; in modo da potere aumentare incessantemente la sua energia, di moltiplicare i suoi mezzi, di sviluppare la sua fecondità industriale e di dare sfogo a tutte le sue simpatie; e quando giunge a realizzare queste promesse magnifiche, la Provvidenza, che mai non mentisce, si cambierebbe tutto a un tratto in una delusione orribile! Per gustare la felicità, l’umanità, come Saturno, dovrebbe divorare i suoi figli! L’amore andrebbe troppo in fretta, il lavoro troppo lentamente! L’organismo sociale sarebbe così falsamente regolato, così mal conosciuto, che l’uomo non potrebbe sostenersi che con l’esaurimento continuo della sua carne e del suo sangue! Dovrebbe perire per vivere, a meno che non preferisca astenersi di riprodursi, ciò che è sempre perdita e miseria! La morte sarebbe il gran maggiordomo dell’economia politica, incaricato di ristabilire l’equilibrio fra la popolazione e le sussistenze, e di sottomettere le opere dell’amore alla misura delle opere del lavoro, il numero delle creature ragionevoli alla proporzionalità dei lavori? Chi dunque impediva alla natura, chi impediva alla Provvidenza, aumentando a nostro vantaggio la fecondità della terra, di limitare nello stesso tempo la fecondità della nostra specie, e con un freno posto a tempo utile nella nostra facoltà genitale, arrestare questa deplorevole rovina?...

Ma, vi replica il materialista utilitario, questa legge di morte che domina l’uomo e il bruto e che vi rivolta, non è altro che la grande evoluzione della natura figurata dalla trinità indiana, Brama, Šiva, Visnù; il Creatore, il Distruttore, il Riparatore; evoluzione riconosciuta autentica dalla scienza, e che, emanando direttamente dal dualismo eterno e irriducibile, non ha più sintesi da sperare. La vostra speranza è dunque senza fondamento, l’antinomia resta qui senza soluzione. La creazione è un vasto campo di battaglia dove la vita è gettata in pasto alla vita e rinasce perpetuamente dalla morte. Il regno vegetale, piantato sul regno inorganico, che assorbe e assimila senza posa, fornisce a sua volta alla sussistenza del regno animale, le cui innumerevoli specie avrebbero presto denudata la terra, se non fossero incessantemente distrutte le une dalle altre e dall’uomo. L’uomo a sua volta non avendo niente al disopra di lui, né angelo né demone che lo mangi, si divora da se stesso. L’antropofagia è la sanzione della legge naturale, ed è per procurarne il compimento che la Provvidenza ha istituito il monopolio e lo Stato, garantito la proprietà e sottomesso gli umani a un ordine gerarchico che permette ai forti di consumare i deboli, senza pericoli e senza rimorsi.

Così, tutto esce dalla sostanza infinita, tutto vi rientra; l’atto per cui si effettua l’emissione degli esseri viventi è la generazione; l’atto per cui rientrano nel serbatoio comune gli elementi che l’organizzazione incatena è la morte. Perché mormorare contro questa legge?

Se i nostri lamenti potessero essere intesi, dopo aver ottenuto per tutti il vantaggio di una vecchiaia fortunata, dovremmo domandare ancora una vita e una freschezza perpetua; essendo il perire per decrepitezza una cosa, in realtà, tanto spiacevole e inconcepibile quanto perire per miseria. Ma non può essere così: l’immortalità, con la facoltà di moltiplicare all’infinito, è cosa assurda; e quanto al prolungamento della vita fino ai confini dell’estrema vecchiaia, siccome essa esigerebbe l’aggiornamento di passioni, che non consentono dilazione, è incompatibile con la nostra costituzione e comprometterebbe la nostra esistenza. Il sangue dei miserabili che la Provvidenza ha votato all’olocausto è il cemento dell’edificio sociale, l’olio che fa girare sulle sue ruote il meccanismo umano. Coronate di fiori e di nastri la fronte delle vittime, applaudite al loro sacrificio, alla grazia del loro trapasso; ch’esse ottengano morendo il giusto tributo della vostra ammirazione e dei vostri elogi. Ma guardatevi dal volerle levare dall’altare, perché se si stancassero di morire, siete voi che dovreste morire al loro posto.

Voi dite: la Provvidenza, invece di assassinarci, non poteva sospendere, raffrenare questo ardore genitale?... Imprudenti, che domandate l’evirazione del lavoratore! Quale prodotto ne ricavereste dopo aver strappato dal suo corpo e dalla sua anima la sorgente stessa dell’attività e del genio? Perdereste presto, per lo scoraggiamento dell’operaio, il beneficio di una produzione più grande e, senza diminuire l’intensità della miseria, compromettereste l’esistenza della specie. Ascoltate, a questo proposito, quanto ci dice il maestro [Malthus]: “La passione è forte e generale, ed è probabile che sarebbe insufficiente, se mai venisse a diminuire. I mali che contiene sono l’effetto necessario di questa generalità e di questa energia. Tutto ci spinge a credere che il fine del Creatore è stato di popolare la terra; ma pare che questo fine non poteva essere raggiunto che dando alla popolazione un accrescimento più rapido delle sussistenze. E poiché la legge di accrescimento che abbiamo riconosciuta non ha sparso troppo rapidamente gli uomini sulla faccia del globo, è abbastanza evidente che essa non è sproporzionata al suo oggetto. Il bisogno di sussistenza non sarebbe certo abbastanza pressante e non darebbe abbastanza sviluppo alle facoltà umane se la tendenza che ha la popolazione di crescere rapidamente, senza misura, non ne aumentasse l’intensità”.

Ignoro quale effetto produrranno sullo spirito del lettore queste diverse considerazioni. Quanto a me, dichiaro che, dal punto di vista dell’economia politica e al punto cui siamo pervenuti, avendo, da una parte, la proprietà che ci sgozza, dall’altra la comunità che ci affoga, non trovo assolutamente niente da rispondere. I fatti parlano troppo alto perché sia a chiunque permesso di farsi illusioni: la miseria esiste, cioè la sussistenza è insufficiente e il numero delle bocche da nutrire troppo grande. Ciò è incomprensibile, ma insomma è così. Ciò che abbiamo aggiunto non è che il commentario. Così dunque, l’Essere infinito, procedendo alla creazione, si è trovato di contro un ostacolo insuperabile; e noi, l’essere progressivo e previdente, sopportiamo la pena della sua impotenza. La necessità non ha potuto liberarsi dal caso, l’ordine si conserva col disordine; gli esseri organizzati non godono, come il mondo inorganico, della perpetuità del movimento; e, benché non vi sia contraddizione nell’idea di un benessere permanente, per una inesplicabile infermità della natura, questa permanenza è impossibile. La nostra gioia si alimenta di pianti; la garanzia del nostro benessere è la miseria.

Che questo contrasto sembri implicare per la ragione la necessità di un accordo, non lo si nega; ma questo accordo, questa condizione in cui il bene e il male si risolverebbero in un fatto superiore, dove scoprirlo? come concepirlo? E che cosa possiamo immaginare al di là di questo dualismo: soffrire o godere, essere o non essere? La felicità e il dolore, come l’io e il non-io, come lo spirito e la materia, sono i due poli del mondo al di sopra dei quali non vi è più sintesi né idea, poiché senza di essi il mondo stesso non esiste. Se è così perché ancora cerchiamo il segreto del nostro destino? Perché il lavoro, e quale può essere la nostra speranza! Nostro destino è la miseria, il nostro lavoro è miseria, la nostra speranza è la miseria.

Il socialismo non ha compiuto che metà del suo compito; dopo avere abolito, come cause di miseria, il denaro, la concorrenza, il monopolio, il matrimonio, la famiglia, la proprietà, la libertà e la giustizia, invece di arrestarsi a questa ipocrisia di comunità, doveva proscrivere ancora il lavoro e predicare la disperazione; il socialismo ha per dogma finale il suicidio. Se è una legge dell’umanità svilupparsi sempre nell’industria, nella scienza e nell’arte, è pure una necessità per l’uomo di suggellare col suo sangue ogni passo nel percorso; è una necessità che subisca una morte sempre più amara che gli faccia espiare la delicatezza dei suoi sentimenti, la vivacità delle sue affezioni, la fecondità dei suoi lavori, la profondità del suo entusiasmo, la gioia delle sue voluttà; una morte che, prendendo tante forme quante ne ha la vita, colpisca l’uomo nel cuore, nei sensi e nella ragione e l’annienti per milioni di volte. La morte! Ecco l’ultima nostra ragione, ecco il fine del mondo!... Finis est hominis sicut iumenti.

Ora, se è unicamente per morire che siamo stati tratti dal niente, dove era la necessità per noi, per l’universo, di uscirne? La creazione! la vita, la necessità, la Provvidenza, Dio e l’uomo, tutto è assurdo.

Che ragionamenti da sciocco! riprendono a questo proposito gli economisti cristiani, che demenza empia!

Sì, dicono essi, la fine dell’uomo sulla terra è come quella dei bruti, e la legge di Malthus non fa eccezione alcuna per nessuno. Ma questa legge non abbraccia che la vita presente; la nostra vera vita non è di questo basso mondo. Codesta imperfezione del nostro destino, che ci fa comparire e sparire, distribuendo inegualmente i beni e i mali, e colpendo la specie come l’individuo, non è e non può essere altra cosa che la prova, la preparazione, il preludio di una vita ulteriore. Abbiamo la garanzia della parola di Colui che non mente, e che ha messo in fondo alle nostre viscere, col desiderio della felicità, il presentimento dell’immortalità. La permanenza dell’anima dopo l’ultimo sospiro, la resurrezione in un mondo migliore, ecco il complemento della natura, lo scopo della vita, la giustificazione della Provvidenza. Come accetterei con amore, come abbraccerei con trasporto questa consolante utopia, se fosse possibile, non dico farmene vedere qualche cosa, ma solo renderla accessibile alla mia ragione!

Ma che può esserci fuori dell’universo, fuori della serie delle creature? Dove volete che ponga questo mondo di felicità, se il mondo di maledizione di cui faccio parte eguaglia l’infinito? Dove trovare un tempo fuori del tempo, uno spazio fuori dello spazio, una ragione fuori della necessità? Come mai concepire un bene che il dolore non irrita, non stimola più? Come mai figurarmi una immortalità che implica la separazione assoluta dell’io e del non-io, la scissione della materia e dello spirito, e che urta tutti i princìpi del mio intendimento? L’ipotesi della immortalità dell’anima rovescia i fondamenti della certezza. Come mai, infine, una prova così chiara dell’impotenza divina qual è la creazione di cui faccio parte, diventerebbe per me il pegno di un rinnovamento inintelligibile fondato su un’esistenza impossibile?

Accrescimento della popolazione secondo una progressione geometrica; aumento delle sussistenze secondo una progressione aritmetica, questo teorema è così ben dimostrato come tutti quelli dell’algebra. In una parola, l’economia politica ha pronunciato il decreto di morte dell’umanità, condannato la Provvidenza, dimostrato l’errore della necessità, stigmatizzato la natura. Ecco ciò che la ragione mi spinge a confessare, ciò che i miei sensi mi fanno vedere, toccare, sentire. Tutto ciò che si tenta di dirmi per addolcire la mia pena non serve che a renderla più pungente; e la mia desolazione rinasce più profonda da tutte le ragioni immaginate per vincerla. Dunque l’economia politica ha calunniato; e come mai stabilirlo? Dove trovare argomenti che la confutino quando la legge dei numeri la giustifica? Testimonianze che la smentiscano, quando sono dalla sua parte i fatti?... Oppure la natura, la necessità. Dio e l’uomo non sono che i sogni del nulla; l’universo è un incubo.

Che inconcepibile logica in questa notte! Quale filosofia in questa morte!

Tenterò un’ultima analisi, non fosse che per godere, come il colpevole condannato al supplizio, della lettura della mia sentenza. Cerco come se potessi trovare ancora, come se esistesse un tribunale dove fosse possibile appellarsi agli aforismi della scienza, alla testimonianza di cento secoli, a un fatto che al di dentro mi ghermisce e al di fuori mi schiaccia. In spem contra spemi! Fortificati, disgraziato, contro la disperazione. L’economia politica mi ha ingannato tante volte, le devo questa prova di diffidenza. C’è lì sotto del mistero, e basta che l’economia politica se ne tiri fuori, perché io ritorni alla carica. L’economia politica ha bisogno che la morte le venga in aiuto; non sarebbe il caso che essa stessa venga qui in aiuto alla morte? Ora, se la morte, priva di questo ausiliario, dà indietro solo di un passo, chi sa mai quale vantaggio la morte mi darebbe su di essa con questa retromarcia?

L’economia politica ci dice: non posso darvi del pane a tutti, perché venite più presto di quanto potrei servirvi. Vi sono molti chiamati ma pochi eletti!

Prima di scusarsi sul troppo grande numero dei bambini da nutrire, è necessario che l’economia politica provi che ha fatto il suo dovere.

Noi siamo votati alla morte, bene! L’economia politica non avrebbe per caso preparato, sollecitato, accelerato la nostra esecuzione? Questa miseria che le serve a palliare i suoi falli, non sarebbe in parte opera sua opera? Is fecit cui prodest [Seneca]. L’economia politica è interessata a farci perire, l’economia politica ha mentito.

2. – La miseria è opera dell’economia politica

Non so ancora che cosa sia la miseria, ma sono certo di una cosa, ed è che essa anticipa sulla produzione e ci colpisce prima che la sterilità del lavoro l’autorizzi. Questo fatto, così ben provato quanto nessun altro di quelli riferiti da Malthus, è il solo che voglio opporre alla teoria di questo scrittore; mi basterà per rovesciarla da cima a fondo.

Distinguo dapprima, nell’esistenza dell’umanità, due periodi principali: lo stato selvaggio, essenzialmente stazionario, o l’uomo che non conosce il lavoro, vive solo dei prodotti naturali del suolo e della carne cruda degli animali; e la civiltà, essenzialmente progressiva, o l’uomo, diventato industrioso, che, trasformando la materia, vive del prodotto delle sue mani. Nel primo periodo, la miseria, cioè la diminuzione delle provvisioni e la mancanza degli oggetti di prima necessità, ha per causa diretta e immediata l’ozio, l’inerzia generale delle facoltà dell’uomo. Siccome era possibile, se non eliminare, per lo meno aggiornare, con un lavoro produttivo, questa miseria nata dall’inerzia; siccome arriva molto tempo prima che l’uomo, impossessandosi delle forze naturali, abbia loro fatto rendere ciò ch’esse sono suscettibili di dare; è chiaro che una tale miseria è prematura, che essa anticipa l’ora legittima e per conseguenza, è anormale. E poiché nello stato selvaggio l’apatia dell’uomo è permanente, vi è permanenza anche nell’anticipazione, e per conseguenza nell’anomalia della miseria.

Ecco ciò che l’economia politica direbbe, e con tutta ragione, per sua difesa, se noi l’accusassimo d’essere causa della miseria che uccide e decima i popoli selvaggi. È possibile, risponderebbe, che un po’ più tardi, e malgrado l’energia e l’intelligenza dei suoi sforzi, la miseria riafferri l’uomo civilizzato; ma fintanto che non avrà fatto tutto ciò che dipende da lui per allontanarla, fino a che col suo lavoro non avrà messo, per così dire, la Provvidenza in mora, l’uomo non ha il diritto di accusare la scienza e di profferire un lamento. Soffre di una disgrazia che è un suo proprio fatto, contro il quale la natura e la Provvidenza protestano. In meno di un secolo, gli europei degli Stati Uniti hanno creato più ricchezza e benessere che tutti gli indigeni di questo vasto continente durante milioni di anni; e siccome la nuova popolazione degli Stati Uniti non ha cessato di raddoppiare e raddoppia ancora ogni venticinque anni, si può dire che questa popolazione, per la sua prodigiosa attività, ha fatto più fortunati che la barbarie dei Pellerossa non avesse creato miserabili. I tesori di ricchezza e di fortuna che nascondeva l’America valevano la pena che l’uomo se ne impadronisse; e se, durante trenta secoli si è astenuto, non sta all’economia politica, più che alla Provvidenza, risponderne.

C’è dunque, nella miseria umana, una parte che, senza ingiustizia, non si può rigettare sulla natura, e che, nonostante la rapidità delle generazioni, proviene esclusivamente dall’inerzia dell’uomo.

Si tratta attualmente di sapere se la miseria che coglie il civilizzato non sia anche, come la miseria del selvaggio, necessariamente e sempre prematura; se non è vero che essa anticipa la sua ora legittima, e che abbia per causa unica, non già l’assenza del lavoro, ma un vizio d’organizzazione del lavoro. In questo caso, accadrebbe al civilizzato quello che accade al selvaggio: la sua miseria apparterrebbe a lui solo; non potrebbe accusarne la natura, qualora non avesse egli stesso fatto il necessario e resa evidente con la sua diligenza la necessità di soccorrerlo. Se fosse vero che, come la miseria del selvaggio dipende solo dalla indolenza delle sue facoltà, anche la miseria del civilizzato avesse per causa unica una mancanza d’ordine, potrebbe darsi allora che in uno stato di organizzazione perfetta, non solo la miseria fosse ritardata di nuovo per qualche tempo, ma che esistesse una virtù specifica atta a ristabilire il livello tra la popolazione, senza che la prudenza umana avesse bisogno d’intervenire in alcun’altra maniera e, con un artificio qualunque, rimettere l’equilibrio.

Si sente l’importanza per l’umanità di verificare questa ipotesi. Se una tale ipotesi diventasse una verità, la miseria, sia quella che proviene dall’inerzia dell’uomo, come quella che ha per causa i vizi della organizzazione industriale, si troverebbe definitivamente eliminata, e il problema del nostro destino, il problema del destino del mondo si presenterebbe sotto tutt’altro aspetto. Ora, questa importante verifica, noi l’abbiamo fatta in questa opera, il cui sottotitolo: Filosofia della miseria, ne richiama sufficientemente lo spirito.

Il lavoro, abbiamo detto, è il principio della ricchezza, la forza che crea, misura e proporziona i valori. Misurare e proporzionare è distribuire: il lavoro porta dunque in sé una tale potenza d’equilibrio e nello stesso tempo di fecondità, che può assicurare l’uomo contro ogni rischio di spoliazione. Ma, per diventare efficace, il lavoro ha bisogno di determinarsi e di definirsi, cioè di organizzarsi, poiché, come abbiamo osservato più volte, non c’è per le cose che una condizione di efficacia e di durata, come non c’è, per le idee, che una condizione d’intelligibilità e di manifestazione, cioè d’essere definite. Fino a che il lavoro non è definito, fino a che la sua organizzazione non ha ricevuto l’ultima mano, è una forza vaga e sterile, una idea inintelligibile.

Quali sono dunque gli organi del lavoro? In altri termini, quali sono le forme per le quali il lavoro umano produce e costituisce il valore e scaccia la miseria? Risulta manifesto oggi che lavoro e miseria sono opposti fra loro come ordine e disordine, giustizia e spoliazione, esistenza e nulla.

Ora di queste forme o categorie del lavoro, abbiamo fatto l’enumerazione e data la critica. Esse sono: la divisione del lavoro, le macchine, la concorrenza, il monopolio, lo Stato o l’accentramento, il libero scambio, il credito, la proprietà e la comunità. È risultato dalla nostra analisi che, se il lavoro possiede in se stesso i mezzi di creare la ricchezza, questi mezzi, per l’antagonismo che è loro proprio, sono suscettibili di diventare tante cause nuove di miseria; e come l’economia politica non è altra cosa che l’affermazione di questo antagonismo; è provato nello stesso modo che l’economia politica è l’affermazione e l’organizzazione del pauperismo. La questione non è dunque più di sapere come il lavoro scaccerà la miseria primitiva, essa è da lungo tempo scomparsa; ma come noi elimineremo il pauperismo che risulta dal vizio proprio del lavoro o, per meglio dire, dalla falsa organizzazione del lavoro, dall’economia politica.

Al primo momento dell’evoluzione industriale appare la divisione o separazione delle industrie. La terra cessa di essere vuota e vaga; essa si copre di lavoratori e per l’appropriazione si feconda. Il lavoro acquista con la divisione una fecondità soprannaturale; ma, nello stesso tempo, per la maniera con cui si effettua questa divisione, il lavoro abbrutendo l’operaio, decade rapidamente e non rende più che un valore insufficiente.

Dopo avere stimolato il consumo con l’abbondanza dei prodotti, lo abbassa con la tenuità dei salari: invece di scacciare la miseria, la riconduce. La divisione del lavoro agisce sull’essere collettivo, come le industrie nocive su quelli che le esercitano: procurando l’abbondanza, essa li avvelena, e dopo averli incitati alla vita, li ripiomba nella morte.

Qui dunque la miseria è il vizio proprio del lavoro. Non è né la natura né la Provvidenza che fa difetto, è il costume economico che manca di equilibrio; esso solo bisogna accusare, e con tanta maggiore ragione che nulla dimostra come la contraddizione risultante dalla divisione parcellare non possa essere vinta da una più alta combinazione.

L’economia politica stessa l’ha sentito, ed è perciò che si è affrettata a chiamare in suo aiuto un nuovo organo, le macchine.

Col soccorso delle macchine aggiunto alla divisione centomila lavoratori, abitando un cantone di cinquanta leghe quadrate, producono più che non facciano un miliardo di selvaggi i quali, non avendo che le loro unghie per grattare la terra, le loro mani per cogliere una preda e i loro piedi per raggiungerla, avrebbero bisogno ancora per sussistere di una superfice di terreno dieci volte più grande di quella del globo. E siccome il limite delle invenzioni industriali è immenso, è certo ancora che da questa parte il lavoro gode di una fecondità illimitata, suscettibile, per conseguenza, di accelerarsi in un grado sconosciuto!

Sembra dunque che le macchine vadano a riparare il deficit causato dalla divisione e trionfare della miseria. Ma non è vero. Con le macchine comincia la distinzione di padroni e di salariati, di capitalisti e di lavoratori. L’operaio, che la meccanica doveva trarre dall’abbrutimento dove l’aveva ridotto il lavoro parcellare, sprofonda sempre più: perde col carattere umano la libertà e cade nella condizione di strumento. Il benessere aumenta per i capi, la miseria per i subalterni; la distinzione delle caste comincia e una tendenza mostruosa inizia, quella che consiste, moltiplicando gli uomini, nel volere fare senza uomini. Così il tormento universale si aggrava: annunciata di già dalla divisione parcellare, la miseria entra ufficialmente nel mondo; a partire da questo momento essa diventa l’anima e il nerbo della società.

È dunque la sovrapproduzione degli uomini che causa la miseria, o questa non è piuttosto il risultato di una falsa manovra? Il lavoro non manca, poiché su tutti i punti il bisogno di sussistere e per conseguenza di lavorare, si fa sentire, e l’offerta del lavoro è sorpassata dalla domanda. Le sussistenze non mancano più, poiché da ogni parte si sentono lamenti sul sovrappiù dei prodotti, che si sviliscono per mancanza di sbocchi, perché mancano persone che li paghino, mancano i salariati. Dunque l’umanità, rivestendo la sua barbarie vagabonda di forme civilizzatrici, non ha fatto che cambiare la miseria della sua inerzia con la miseria delle sue combinazioni: l’uomo perisce per la divisione del lavoro che decupla le forze, e per la meccanica che le centuplica, come periva già per il sonno e l’ozio. La causa prima del suo male è sempre in lui; ed è questa causa che bisogna vincere prima di gridare contro il destino.

Alle sue tendenze aristocratiche, la società oppone la libertà, la concorrenza. Che cosa avviene allora? Non perdiamolo di vista: quelli che hanno preso cura di istruirci di questo sono gli economisti, gli apostoli della miseria. La concorrenza, emancipando il lavoratore, produce un accrescimento di ricchezza incalcolabile. Si è visto, a seguito di una rivoluzione che aveva avuto la libertà per oggetto, la miseria, presso un popolo numeroso, ricacciata per tutta una generazione. Prova allora, farò osservare agli economisti, che la miseria venuta con le macchine, dopo l’istituzione del capitale e del salariato, non era invincibile, come la miseria generata dalla divisione parcellare e repressa fino a un certo punto dalla meccanica, non aveva niente di fatale. Più avanziamo, più la miseria ci appare con un carattere di contingenza e di anomalia, con delle intermittenze e degli aumenti che fanno testimonianza, non della inumanità della natura, ma della nostra malaccortezza.

Cos’è, in effetti, la concorrenza, considerata dall’alto, nelle masse? È una forza, per così dire, tutta metafisica, per la quale i prodotti del lavoro diminuiscono senza posa di prezzo o, ciò che è lo stesso, aumentano in quantità continuamente. E, siccome le risorse della concorrenza, come pure i miglioramenti meccanici e le combinazioni distributive sono infinite, si può dire ancora che la potenza produttiva della concorrenza, in intensità e in estensione, è senza limiti.

Una cosa da considerare soprattutto, è che, per la concorrenza, la produzione delle ricchezze prende decisamente il vantaggio sulla procreazione degli uomini, ciò che fa del rapporto stabilito da Malthus fra il progresso delle sussistenze e il progresso della popolazione un controsenso economico, una teoria presa a rovescio.

Io invoco, su questo punto, tutta l’attenzione del lettore.

Per la concorrenza, ogni produttore è forzato a produrre sempre a condizioni migliori, cioè sempre più che il consumatore non domandi e per conseguenza, fornire ogni sera garanzia alla società per la sussistenza del giorno dopo. Come mai dunque, in un simile sistema, è possibile che la somma delle sussistenze cada al disotto dei bisogni della popolazione?

Supponiamo che due uomini isolati, senza strumenti, disputando alle bestie il loro misero nutrimento, rendano un valore eguale a 2. Che questi due miserabili cambino regime e uniscano i loro sforzi per la meccanica che ne risulta e l’emulazione che viene in seguito il loro prodotto non sarà più 2, sarà 4, perché ciascuno non produce più solo per sé, ma anche per il suo compagno. Se il numero dei lavoratori è raddoppiato, la divisione diventando, in ragione di questo raddoppio, più profonda di prima, le macchine più potenti, la concorrenza più attiva, essi produrranno 16; se il loro numero è quadruplicato, 64. Questa moltiplicazione del prodotto per la divisione del lavoro, le macchine, la concorrenza, ecc., è stata dimostrata molte volte dagli economisti; è la parte positiva della loro teoria, il punto sul quale essi sono tutti unanimi, ma che la pratica non potrà mostrare tale quale la teoria lo fa sperare, fino a quando la società, con un’ultima riforma, non avrà risolto le sue contraddizioni.

Dunque, se la potenza di riproduzione genitale della specie umana si esprime con la progressione 1, 2, 4, 8, 16, 32, 64, ecc., la potenza di riproduzione industriale dovrà esprimersi con la progressione 1, 4, 16, 64, 256, 1024, 4096. In altri termini, in una società organizzata, la produzione si accresce come il quadrato del numero dei lavoratori. È l’economia politica stessa che ce lo insegna: tutti i suoi libri ne sono pieni, e se Malthus, preoccupato di una idea fissa, quella del raddoppiamento della popolazione, l’aveva scordato, perché i suoi confratelli non se ne sono mai ricordati? È evidente che il rapporto di accrescimento determinato da Malthus fra la popolazione e le sussistenze non può intendersi che per una società inorganica, dove l’industria, cioè la divisione, la meccanica, la concorrenza, il cambio, ecc., sono assolutamente nulli; dove la forza collettiva non esiste: e non già per una società ingranata, fondata sulla separazione delle industrie e sullo scambio, e dove ogni uomo, producendo per milioni di consumatori, è servito a sua volta da milioni di produttori. È così che bisogna intendere ciò che certi agronomi, e in seguito a loro certi socialisti pecoroni, hanno voluto significare per quadruplo prodotto. Non è vero che un paese la cui popolazione e il grado di sviluppo sono dati, possa produrre il doppio, il triplo, il quadruplo di ciò che esso produce. Il prodotto è necessariamente in ragione della produzione, la quale determina a sua volta il grado di divisione, la forza delle macchine, l’attività della circolazione, ecc. Ma ciò che è vero, ciò che la scienza riconosce e dimostra, è che, se l’accrescimento della produzione è doppio, l’accrescimento della popolazione è quadruplo, e questo all’infinito per così lungo tempo che la società obbedirà alle leggi economiche, e in così larga misura che la superficie del globo consentirà questo accrescimento.

Disgraziatamente, l’antagonismo delle istituzioni economiche non permette che producano senza collisione il loro effetto; da lì gli errori riguardo il lavoro, da lì le sorprese della miseria. Così, la concorrenza per la sua parte positiva e sociale ha lo scopo di ridurre indefinitamente il prezzo delle cose e per conseguenza di aumentare senza posa la somma dei valori e di mettere la produzione in avanzo della popolazione; ma, per la parte negativa ed egoistica, la concorrenza spinge da ricchezza a povertà, poiché la riduzione di prezzo che ritrae da una parte non va che ai vincitori mentre dall’altra parte lascia i vinti senza lavoro e senza risorse. La concorrenza, dice la teoria, deve arricchire tutto il mondo. Ma, per l’imperfezione dell’organismo sociale, la pratica prova che là dove la concorrenza è diventata generale, vi sono per l’appunto tanti disgraziati quanti arricchiti: è ciò di cui è impossibile dubitare dopo la critica che abbiamo fatto.

Ciò che bisogna accusare qui è il vizio proprio dell’istituzione, l’insufficienza dell’idea. È, d’ora innanzi, provato come questa necessità della miseria che sempre ci ha fatto piombare nella costernazione, non assoluta; è, come dice la scuola, una necessità di contingenza. Contro ogni probabilità, la società soffre di quella cosa stessa che doveva fare la sua salute. Sempre la miseria è prematura, sempre il pauperismo è anticipato; al contrario del selvaggio a cui la miseria viene dall’inerzia, essa viene a noi dall’azione, e il nostro lavoro aumenta senza posa la nostra indigenza. E gli economisti, prima di accusare la necessità, comincino per riformare i loro usi: Medice cura te ipsum [Luca]. Che bisogno c’è di continuare in questo capitolo, in cui deve bastarmi di esprimere una conclusione generale per fare rientrare tutta la mia opera? Ho mostrato come la società cerchi di formula in formula, di istituzione in istituzione, questo equilibrio che le sfugge, e sempre, a ogni tentativo, faccia crescere in proporzione eguale il lusso e la miseria. Una volta pervenuta alla comunità, la società si ritrova al punto di partenza: l’evoluzione economica è compiuta, il campo della investigazione è esaurito. Non avendo potuto essere stabilito l’equilibrio, non resta speranza che in una soluzione integrale che, sintetizzando le teorie, renda al lavoro la sua efficacia e a ciascuno dei suoi organi la sua potenza. Sin là il pauperismo resta così invincibilmente attaccato al lavoro, come la miseria lo è all’ozio, e tutte le recriminazioni contro la Provvidenza non provano che la nostra imbecillità.

Singolare economia questa nostra, in verità, dove la miseria risulta continuamente dall’abbondanza, dove l’interdizione del lavoro è una conseguenza perpetua del bisogno di lavorare! Se, per un decreto del sovrano, cinquecentomila parassiti, cancellati tutto a un tratto dalla lista degli improduttivi, fossero rinviati ai laboratori e all’aratro, invece di un aumento di benessere noi avremmo un aumento d’indigenza. Vi saranno, per la classe degli improduttivi, cinquecentomila persone senza impiego e senza rendita; per la classe degli imprenditori, proprietari e capi d’industria, cinquecentomila pratiche di meno da servire; per la classe dei lavoratori, già così moltiplicata, e il cui salario è così basso, cinquecentomila concorrenti in più. Ribasso di prezzo nella mano d’opera, aumento nella massa dei prodotti e restrizione del mercato: per il proletariato, progresso di astinenza e di servitù; per la proprietà progresso di lusso e di orgoglio: tali sarebbero le conseguenze di una riforma che la ragione ci addita come una misura di salute pubblica. Saremo più poveri precisamente perché saremo diventati più ricchi, e si vedrebbero gli economisti che non comprendono niente nei loro discorsi ingarbugliati, accusare l’imprudenza dei matrimoni, l’inopportunità degli amori, che so io? la gagliardia degli sposi!

Invano i fatti si spingono, si accumulano e gridano da ogni parte contro l’economia politica; sembra che gli scrittori che li riferiscono, li sviluppano e li commentano non abbiano occhi che per non vedere, orecchie per non sentire, intelligenza per dissimulare la verità. La proprietà, l’usura, l’imposta, la concorrenza, le macchine, la divisione parcellare abbassano la popolazione prima che essa sovrabbondi: l’economista, occupato solo da ciò che diventerebbero un milione di uomini, i quali non avessero per vivere che la razione di cinquecentomila, non si domanda perché cinquecentomila non possano vivere con ciò che basterebbe a un milione. Sotto Giovanni il Buono, la Francia contava 12 milioni di abitanti; sotto Luigi XIV, 16 milioni; sotto Luigi XVI, 25 milioni; oggi, 34 milioni. È certo che in tutte queste epoche vi sono stati poveri, una immensa quantità di poveri; le leggi atroci contro i poveri ne rendono testimonianza. Ora, per quale di queste epoche si può dire che la società francese avesse esaurito i suoi mezzi? La Francia, dieci secoli fa, poteva centuplicare la sua produzione; il Terzo Stato non era sospettato di pigrizia: da dove è venuto il pauperismo?

È l’America che ha fornito agli economisti gli esempi più lampanti del raddoppiamento e anche del triplicamento della popolazione in 26 anni. Ora, se da un secolo o un secolo e mezzo la popolazione è raddoppiata e triplicata negli Stati Uniti ogni 25 anni, è chiaro che la produzione ha almeno raddoppiato e triplicato nello stesso periodo; e si può dire che in questo lasso di tempo la popolazione non ha fatto che seguire la produzione. Come mai Malthus, che ha così bene esposto il progresso della popolazione americana non ha egualmente studiato le cause che, nelle altre circostanze, impediscono o sospendono il progresso parallelo delle sussistenze?

Risponde l’economista: il caso degli Stati Uniti è eccezionale, l’America era un paese vergine.

Paese vergine! Ma il paese era sfruttato dagli Irochesi e dagli Uroni, che, prima della scoperta, andavano già, come facciamo noi oggi, più veloci in progenitura che in ricchezza, e che, semplici cacciatori, erano da lungo tempo miserabili, là dove degli Europei industriosi non hanno ancora cessato, moltiplicandosi, di arricchirsi.

Paese vergine! Dite piuttosto che, grazie all’assenza di una gerarchia industriale, grazie all’eguaglianza dei coloni americani, protetta dagli intervalli delle foreste, e che comincia già ad affacciarsi sotto l’azione dei nostri processi economici, il lavoratore, godendo dappertutto della integrità del suo prodotto, facendo opera sempre utile, ha potuto diventare e conservarsi ricco, malgrado il raddoppiamento in 18 anni. L’esempio dell’America non dimostra solo ciò di cui l’umanità, in fatto di popolazione, è capace; esso mostra ancora sin dove può andare la potenza dell’uomo in fatto di produzione; perché questo parallelismo, laggiù così evidente, così autentico, non ha potuto sostenersi da allora in poi? Non si tratta tanto qui della rapidità del progresso quanto del progresso parallelo.

Paese vergine! Certo, non è con l’incendio di quelle foreste eterne che ha vissuto e si è moltiplicato il pioniere inglese, svizzero, tedesco; ma col lavoro; col lavoro, dapprima convenevolmente diviso, poi fornito poco a poco di capitali e di macchine, aumentato di valore per la circolazione e non ancora divenuto sterile a causa del parassitismo e del monopolio. Una prova di ciò, è che l’economia politica, importata dall’Europa, essendosi messa a funzionare un po’ troppo presto in quel paese, dove la terra e lo spazio non mancano a nessuno, il lavoro si pagava da se stesso senza passare per la servitù del capitale, l’impresa del banchiere e la sorveglianza della polizia, onde il popolo ha dovuto lasciare andare l’economia politica e fare girare solo i suoi ingranaggi. Il credito è andato in basso, le banche sono saltate, il capitale usufruttuario è stato inghiottito, e l’americano ha continuato a fare, col lavoro e l’eguaglianza, la sua fortuna. Senza dubbio, verrà un giorno in cui questo meraviglioso progresso andrà di un passo meno agile, ma senza dubbio altresì allora la popolazione, senza freno e senza miseria, rallenterà spontaneamente il suo sforzo, a meno che l’economia politica, la teoria dell’instabilità e del furto non venga a rompere quest’accordo.

Da cinquant’anni, osserva Buret, e dopo di lui Fix, la ricchezza nazionale in Francia si è quadruplicata, mentre la popolazione è cresciuta solo della metà. In questo modo, la ricchezza avrebbe marciato dieci volte più presto che la popolazione; da dove viene che, invece di ridursi proporzionalmente, la miseria è cresciuta?

Non confondete, ci dirà l’economista, la ricchezza con le sussistenze. La ricchezza si compone di tutto ciò che, essendo il prodotto del lavoro, ha per l’uomo un valore qualunque, di piacere come pure di alimentazione.

Le sussistenze sono la parte di questa ricchezza che serve più particolarmente in sostegno della vita. Ora, è a questa porzione della ricchezza che bisogna riferire la progressione aritmetica di Malthus. Distinzione ridicola, rifiutata anticipatamente dalla teoria della proporzionalità dei valori. Le sussistenze sono necessariamente in rapporto con le altre parti della ricchezza, ed è rigorosamente vero dire che, se da cinquant’anni la rendita della Francia ha quintuplicato, la Francia consuma cinque volte di più. Nella società, tutti i valori si misurano, cioè si acquistano gli uni con gli altri, si sostengono reciprocamente. La produzione degli oggetti di lusso prova precisamente che le sussistenze sono in quantità sufficiente, poiché, in definitiva, è con delle sussistenze che questo lusso è stato pagato, come queste sussistenze a loro volta sono state pagate con denaro o altri valori. Si è avvertito che da cinquant’anni il prezzo delle cose di prima necessità si sia relativamente accresciuto? Al contrario, il prezzo relativo è diminuito; e se le sussistenze mancano al popolo, come il vino, la colpa non è del vignaiolo né dei vigneti, poiché il vignaiolo si lamenta di non potere vendere; la colpa è dell’economia politica.

Chi non vede, del resto, che componendosi il benessere dell’uomo di abbondanza e di varietà, ciò che noi chiamiamo lusso, non è in fondo che un vero risparmio? Il selvaggio che vive di carne cruda e di qualche bevanda schifosa, terminerà in un mese il raccolto di una lega quadrata; il civilizzato, il cui vitto esige un milione di cose che non conosce l’uomo dei boschi, vivrà su quattro ettari. Il suo lusso può sussistere in uno spazio tre o quattromila volte più piccolo di quello che occorre alla nudità del selvaggio.

Il lusso può definirsi fisiologicamente: l’arte di nutrirsi per la pelle, per gli occhi, per le orecchie, per le narici, per l’immaginazione, per la memoria; l’indigenza è, al contrario, la vita ridotta a una funzione unica, quella dello stomaco. Persino l’arte culinaria, che Seneca, nella sua assurda iperbole, chiamava l’arte della gola, moltiplicando sotto mille forme la nostra nutrizione e insegnandoci a mangiare meglio, è divenuta in realtà per noi una sorgente di economia. La cucina è, dopo il lavoro, il nostro più prezioso ausiliario contro il bisogno, è precisamente perché il proletario non consuma abbastanza che si mette a carico una grande famiglia.

Ho dunque il diritto di insistere sulla mia questione: come mai, essendosi la nostra ricchezza quadruplicata, la popolazione non essendosi accresciuta che del 50%, vi sono ancora fra noi dei poveri? Mi si risponda, prima di prendersi pensiero della posterità e di cercare quale numero di abitanti potrà contenere il globo!...

La tassa dei poveri era in Inghilterra:

Nel 1801 di 4.078.891 franchi sterline per 8.872.950 abitanti.

Nel 1818 di 7.870.801 franchi sterline per 11.978.875 abitanti.

Nel 1833 di 8.000.000 franchi sterline per 14.000.000 abitanti.

È vero, dopo questo, che il pauperismo si sviluppa? E la prova che queste cifre, per altro ufficiali, hanno il senso che si dà loro, è che, dal 1833, si è tentato di applicare in Inghilterra la teoria di Malthus, cioè di lasciare perire quelli che non possiedono né rendita né salario; che una prima conseguenza di quest’idea è stata la creazione delle case di forza e finalmente la riforma della legge dei cereali, cioè la riduzione arbitraria del prezzo del pane. Si è immaginato che la soppressione violenta di un monopolio poteva essere di grande effetto per il sollievo della miseria; l’avvenire dirà ciò che racchiudeva di ragionevole e di utile questa prodigiosa riforma. Ma gli economisti, la maggior parte fautori della lega, hanno dovuto riconoscere implicitamente che la miseria aveva altre cause che la soverchia produzione dei figli; poiché hanno cominciato, finiscano dunque di redigere il bilancio delle spoliazioni esercitate dal monopolio!

Ho letto in un articolo del “Journal des Économistes” (gennaio 1846), sul movimento della criminalità in Francia, che il numero dei crimini e dei delitti d’ogni specie è stato:

per il periodo 1826-28 88.751

per il periodo 1829-31 96.083

per il periodo 1832-33 106-149

per il periodo 1835-37 121.221

per il periodo 1838-40 146.062

per il periodo 1841-43 151.624

L’autore di questa interessante statistica conclude in questi termini: “Il numero dei crimini e dei delitti aumenta dunque in una maniera rapida e accelerata. Così, mentre l’aumento medio annuale della popolazione non è che di 5 su 1.000, e tende a rallentare, l’aumento medio, annuale su 1.000 si eleva a:

5,7 per i crimini e delitti contro la cosa pubblica;

7,8 per i crimini e delitti contro i costumi;

3,0 per i crimini e delitti contro le persone;

5,6 per i crimini e delitti contro le proprietà:

5,4 per le contravvenzioni, oltre i delitti forestali, il cui numero è incalcolabile;

3,7 per i suicidi.

Mentre l’aumento della popolazione tende a rallentare, il numero dei crimini e dei delitti tende ad aumentare, e questo aumento non è particolare alla Francia; esso è anzi minore in Francia che in molti paesi vicini”.

I crimini e i delitti, come il suicidio, le malattie e l’abbrutimento, sono le porte per dove esce la miseria. Secondo le cifre ufficiali, l’accrescimento medio della popolazione essendo 5 per 1.000, quello della criminalità della somma totale è 31,2; ne segue che il pauperismo arriva su di noi sei volte e un quarto, più presto che secondo la teoria di Malthus non la si potesse aspettare: da che viene questa sproporzione?

La stessa cosa si prova in altro modo. In generale, le nazioni occupano, sulla scala del pauperismo, lo stesso rango che sulla scala della ricchezza. In Inghilterra si conta 1 povero su 5 persone; nel Belgio e nel dipartimento del Nord 1 su 6; in Francia 1 su 9; in Spagna e in Italia 1 su 30; in Turchia 1 su 40; in Russia 1 su 100. L’Irlanda e l’America del Nord, l’una e l’altra poste in condizioni eccezionali e affatto opposte, presentano, la prima, la proporzione spaventevole di 1 e anche più su 2, la seconda 1, e forse anche meno, su mille. Così, in tutti i paesi di popolazione agglomerata, dove l’economia politica funziona regolarmente, la miseria si compone esclusivamente del deficit causato dalla proprietà nella classe lavoratrice.

Prima del 1789, il numero dei trovatelli chiusi negli ospedali era di 40.000.

Nel 1800 si elevava a 51.000

Nel 1815 si elevava a 67.966

Nel 1819 si elevava a 99.346

Nel 1834 si elevava a 129.699

Ignoro la cifra del 1846. Il “Journal des Économistes” di quest’anno porta la media annua delle nascite illegittime a 75.870; onde è permesso di concludere, data la progressione di cui sopra, che il numero dei figli naturali attualmente rinchiusi negli ospedali non è minore di 160.000. Dal 1789 al 1846 la popolazione non è aumentata della metà; per contro la ricchezza è quintuplicata, i costumi anche si sono migliorati, e il numero dei figli naturali è quadruplicato! Che cosa vuol dire? Che vi sono 320.000 ragazzi e ragazze a cui, ogni anno, il diritto alla famiglia, ius connubii, è tolto e che le usurpazioni della proprietà, restando la popolazione stazionaria, fanno crescere a vista d’occhio il proletariato.

Ho fatto menzione altrove (Capitolo IV) della diminuzione della statura media osservata dagli economisti. Questo fatto, che non è possibile porre in dubbio, testimonia, non una miseria accidentale, come si produce a seguito di un cattivo raccolto che arresta il lavoro e fa sparire le sussistenze, ma una miseria costituzionale e cronica che colpisce l’intera specie e tocca profondamente tutte le parti del corpo sociale. Certo, c’è qualche cosa qui che solletica vivamente la curiosità e non si spiega affatto col principio di Malthus. Ne seguirebbe che la miseria, non contenta di colpire gli individui senza mezzi e di ritirare i poveri dal numero dei viventi, colpisce la specie nel suo insieme e nella sua vita con una sofferenza solidale, prova ancora una volta che l’umanità muore di un male sconosciuto, di un male che viene da più in alto della mancanza di sussistenze. Qual è questo male? Si oppone a questo fatto il prolungamento della vita media, che abili statistici pretendono di avere constatato. Ho mostrato ciò che questo prolungamento, relativamente al popolo, aveva di illusorio; ora aggiungerò qui una parola che concilia e anche spiega le due osservazioni. Se è vero, come io sostengo, che nella nostra organizzazione proprietaria il pauperismo anticipa continuamente il lavoro, poco importa che questa anticipazione si manifesti con morti immediate e premature, oppure solo con dolori precoci e lungamente sofferti. Sarebbe dunque possibile, ammesso ciò, che la cifra della vita media si sostenga, che si elevi anche e la miseria ingrandisca sempre: si tratta meno qui dell’età dei morti che del tempo che essi hanno vissuto senza malattia. Bisogna ancora che mostriamo agli economisti come leggere le loro statistiche?

Ormai è superfluo accumulare maggiori prove. I fatti sono conosciuti da tutti quanti, ognuno può interrogarli e dedurne le conseguenze. L’anticipazione della miseria, ecco il tratto distintivo del regime proprietario come dello stato selvaggio, il fatto capitale, universale che io oppongo a Malthus e che riduce a nulla la sua teoria.

In base ai dati della scienza, confermati da una massa importante di fatti, mentre la popolazione tende ad accrescersi secondo una proporzione geometrica la cui ragione è 2, la produzione della ricchezza, opera di questa popolazione, tende ad aumentare secondo una progressione geometrica la cui ragione è 4. Nella pratica, al contrario, questo rapporto è rovesciato: mentre la potenza di accrescimento della popolazione si esprime invariabilmente con la progressione geometrica, la potenza di accrescimento della produzione solo si esprime con la serie aritmetica.

Economisti, osate ancora parlarci di miseria! e quando vi si dimostra, con l’aiuto delle vostre stesse teorie, che se la popolazione si raddoppia, la produzione si quadrupla; che in conseguenza il pauperismo non può venire che da una perturbazione dell’economia sociale: invece di rispondere, accusate ciò che è assurdo chiamare in causa, l’eccesso di popolazione!

Ci parlate di miseria! e quando, con le vostre statistiche in mano, vi si fa vedere che il pauperismo s’accresce in proporzione molto più rapida della popolazione, il cui eccesso, secondo voi, lo determina; che, per conseguenza, esiste lì sotto una causa segreta che voi non vedete: fate finta di non capire e non cessate di mettere innanzi la teoria di Malthus.

Vi fate, contro il socialismo, uno scudo di questa potenza di accrescimento della popolazione! e quando noi, uomini di ieri, riprendendo il compito difficile e da voi abbandonato degli A. Smith, dei Ricardo, dei J.-B. Say, di Malthus stesso, sveliamo ai vostri sguardi il principio spoliatore; quando vi dimostriamo che l’umanità è sempre colpita prima che il pane e la terra manchino; quando sviluppiamo in vostra presenza il meccanismo dell’usurpazione proprietaria, della finzione capitalista e del furto mercantile, chiudete i vostri occhi per non vedere, le orecchie per non sentire, il cuore per non cedere alla convinzione! L’iniquità del secolo vi è più preziosa che il diritto del povero, e i vostri interessi di società passano prima di quelli della scienza!

Ebbene! fino a tanto che griderete all’imprudenza e alla popolazione, noi grideremo, da parte nostra, all’ipocrisia e al brigantaggio; vi segnaleremo alla diffidenza dei lavoratori, e sarete voi soli che renderemo responsabili dello sfruttamento che ci assassina e dell’infamia che ci copre. Diremo dappertutto, con un fracasso spaventevole: l’economia politica è l’organizzazione della miseria, e gli apostoli del furto, i provveditori della morte sono gli economisti!

Chi è che sostiene oggi, contro tutti, malgrado la logica e malgrado l’esperienza, l’instabilità del valore, l’incommensurabilità dei prodotti, lo squilibrio delle forze industriali? gli economisti! Chi è che promuove l’ineguaglianza della ripartizione, l’arbitrario dello scambio, l’agguato della concorrenza, l’oppressione del lavoro parcellare, le brusche transizioni delle macchine? gli economisti. Chi è che appoggia la preponderanza dell’ordine improduttivo, la menzogna del libero commercio, la mistificazione del credito, gli abusi della proprietà? gli economisti. Chi è che, ad istigazione dell’Inghilterra, forma una lega per applicare all’universo questo sistema di anarchia, di stupidaggine e di rapina? sempre gli economisti.

Sono loro che, prendendo il linguaggio della moderazione e della pace, osano scrivere: “Non si direbbe che le scuole più opposte cospirino per perdere i lavoratori? Le une li irritano, togliendo loro ogni speranza di un migliore avvenire; le altre li eccitano al disordine con seducenti e perfide teorie. Infine, vi sono uomini che, nello stesso tempo più umani e più saggi, non parlano ai lavoratori né di diritti chimerici né di una necessità fatale: questi uomini non osano o non sanno loro dire tutta la verità intera!”.

Ditela dunque una volta, questa verità, pura e intera, dalla vostra bocca: “I salari possono superare lo stretto necessario; le economie sono possibili al lavoratore. Se soffre in qualche distretto manifatturiero, ve ne sono altri dove vive in una onesta agiatezza. Da dove viene la differenza? da due cause essenziali, principali, da cause più forti di tutte le lagnanze dei neo-economisti e dei sedicenti filantropi. La differenza viene dalla condotta degli operai e dal rapporto della popolazione col capitale circolante”.

Signor Rossi, ve lo dico in verità, il cuore v’inganna; non siete né più prudente né più ardito degli altri; voi tacete la vera causa. Si sviano gli operai! Ciò somiglia alle fazioni di Guizot.

Istruiteci, uomini di scienza, e non saremo sviati; ma state attenti a non dire altro che il vero, perché le vostre reticenze ricadrebbero sulle vostre teste.

La condotta dell’operaio è cattiva! È possibile, e questo viene forse dal fatto che non gli si rende giustizia. E in verità, si tratta della misura del suo salario, e ci parlano della sua condotta!

Dite dunque, infine, maestro, che cosa valgono 14 ore di lavoro al giorno? E se temete di errare sul lavoro dell’operaio, dite, con la mano sul cuore, quanto stimate il vostro? Prenderemo la vostra cifra per regola. Il capitale circolante non è in rapporto con la popolazione! È vero, la proprietà impedisce che il capitale circoli. Come mai circolerebbe, in effetti, se il consumatore è obbligato a pagare 5 ciò che lui stesso ha dato per 4?

“L’operaio che manca di ordine, di economia, di moralità, non lascerà mai i cenci della miseria. Aggiungete a ciò che la popolazione...”. Seguono i consigli di prudenza matrimoniale.

Sempre dei rimproveri, sempre la condotta di questo povero operaio! Tartufo vive dunque tuttora! È perché siamo briganti incapaci e indegni, che i nostri tutori si prendono il nostro avere; e per mostrare come si deve vivere al lavoratore l’ozioso mangia il suo sudore! Cominciate dunque a predicare con l’esempio, missionari di carità e di temperanza. Andiamo pure: i figli lascino le madri e i padri; sia l’età del matrimonio e della prostituzione, sotto pene severe, prolungata per tutto il mondo; si faccia una tariffa per tutti i generi di servizi, dal re fino al facchino; l’interesse del denaro sia ridotto a un saggio legittimo e la rendita della terra ripartita fra tutti! Allora crederemo al genio e alla buona fede degli economisti.

Malthus era sincero allorché, rispondendo alle ipotesi del comunismo di [Alfred] Wallace, Condorcet, Godwin, Owen, e non trovandovi niente che potesse rischiararlo sulla causa immediata della miseria, ritornava senza posa alla sua progressione geometrica, ed esclamava nella sua onesta impazienza: “Ma come, nella comunità, la produzione si terrà al livello della popolazione? Come, senza un ostacolo che gli impedisca di nascere, l’umanità non morirà di fame?”.

È tutt’altra cosa, oggi che abbiamo dimostrato precisamente ciò che Malthus non supponeva, cioè che in una società organizzata, la produzione della ricchezza e delle sussistenze è in progressione più rapida che la popolazione stessa. Bisogna rendere ragione alla miseria, non più, come Malthus, con una tautologia che va a finire in una formula inintelligibile, in un mito; ma, giustificando la consuetudine proprietaria, causa, secondo noi, immediata e sistematica del pauperismo. Si crede indurci al silenzio con questa baggianata malthusiana della progressione aritmetica, perché è piaciuto a tutti i nostri economisti inglesi, francesi, cristiani, materialisti, eclettici di farsene gli elogiatori e i venditori da cinquant’anni in qua?

Ma non abbiamo ancora inteso l’ultimo argomento dei nostri avversari. Non dobbiamo affrettarci a cantare vittoria.

“Perché si parla – dice raddrizzandosi Rossi – dei vizi delle nostre istituzioni, dell’eccessiva ineguaglianza delle condizioni, della fecondità inesauribile del suolo, dei vuoti immensi che restano sulla faccia del globo e che le emigrazioni possono riempire? È evidente che tutto ciò non tocca a fondo la questione, dopo che avremo fatto su tutti questi punti le più larghe concessioni, che ne risulterà mai? Questo solo: che, in più di un paese, altre cause di sofferenza e di disgrazia vengono ad aggiungersi alla colpevole imprevidenza dei padri di famiglia, e che le popolazioni eccessive avrebbero potuto sovente trovare un sollievo temporaneo sotto un Governo migliore, in una organizzazione sociale più equa, in un commercio più attivo e più libero o in un largo sistema di emigrazione. È forse meno vero che, se l’istinto della riproduzione non fosse mai frenato dalla prudenza e da una moralità elevata e difficile, tutte queste risorse sarebbero infine esaurite, e che allora il male sarebbe tanto più sensibile dacché non vi sarebbero più né rimedi temporanei per alleviarlo né palliativi per addolcirlo”.

Tutti gli economisti si accostarono a questo pensiero di Rossi: “Consideriamo – dice l’ultimo editore di Malthus – questa osservazione come capitale. Avviso ai socialisti di tutti i colori. Più si perfezionerà lo stato sociale, e più l’eccesso della popolazione è da temere, a meno che non si rovesci l’asserzione di Malthus”.

Ma voi, che ci promettete l’assistenza del cielo a condizione d’essere saggi, cominciate dunque a praticare le vostre massime. La società è disarmonica, la concessione che avete fatta lo suppone. Rendetele dapprima l’equilibrio e, senza temere di fare un’opera inutile, aspettate ciò che accadrà. Vi siete occupati solo di una congiuntura ipotetica e di cui nessuno è in grado di affermare che si presenti: quella in cui la popolazione sovrabbonderebbe sul globo; e stornate senza posa gli occhi dal male che vi decima. Cominciate a guarire il presente, e se la fede della Provvidenza non è una beffa, prendetevi meno pena del futuro. L’umanità, dite voi, non avrà ottenuto altro che un sollievo temporaneo. Chi ve l’assicura? Come mai sapete che stabilito l’equilibrio nel lavoro, le condizioni di sviluppo dell’umanità, in popolazione e in ricchezza, non saranno cambiate?

Già vi si è fatto vedere che nell’istituzione provvidenziale la produzione cammina più presto della popolazione; è incredibile che, invece di fare lamenti sulla fame, non abbiate pensato a trarre partito da questa legge per la vostra tesi. In effetti, sotto un regime d’eguaglianza, il lavoro andando più in fretta dell’amore, avreste potuto domandare come mai, dopo qualche generazione, la terra sarebbe bastata ad albergare i prodotti e alloggiare tutti quanti? Può darsi che allora, ci saremmo contentati di rispondere: Dio è grande e la Provvidenza fertile in combinazioni. C’è senza dubbio qualche cosa che in questo momento ci sfugge; sarebbe strano che la nostra sfera di attività fosse senza proporzione col nostro potere!... Bisogna dunque che, dopo aver corretto le vostre statistiche, raddrizziamo anche i vostri argomenti?

Così, l’economista che sempre temeva di mancare di pane per la popolazione, rassicurato da questa parte, va ad inquietarsi per l’alloggio. Sì, certo, ci dirà egli, bisogna mettere un confine alla popolazione, poiché c’è un confine all’universo. Col raddoppiamento ogni 25 anni, vi sarebbero, in meno di 5 secoli, un milione di miliardi di uomini sul globo, tenendosi in piedi e toccandosi tutti, riempiendo la terra! Non sarebbe sempre una miseria, miseria più intollerabile della nudità e della fame?...

La questione che avete posta, degnissima sicuramente delle meditazioni del filosofo, non è, come sempre, fra la popolazione e la produzione; essa è fra la popolazione e il mondo. Io prendo atto della vostra rinuncia. Conveniamo dunque, prima di andare più avanti:

– Che il lavoro, avendo sintetizzato e regolato tutti i suoi organi, possiede in se stesso la facoltà di moltiplicare i nostri mezzi d’esistenza in quantità sempre superiore ai nostri bisogni e, per conseguenza, di accrescere incessantemente il nostro benessere, qualunque sia del resto l’accrescimento della popolazione.

– Che la miseria risulta esclusivamente, nello stato di civiltà, dall’antagonismo economico, come in altri tempi, nello stato selvaggio, essa risultava dalla pigrizia.

– Che così non essendo più da temere il pauperismo in una società regolare, la sola questione da risolvere è questa: qual è la legge d’equilibrio fra la popolazione e il globo?

Queste conclusioni e il problema che le determina sono l’atto di decadenza dell’economia politica.

3. – Principio d’equilibrio della popolazione

Il problema della popolazione esigerebbe da solo due volumi; lo spazio mi manca e non posso, senza ingannare il lettore, dare la soluzione. Mi si scusi dunque se, invece di un libro, non riesco a presentare qui che un programma; e possa questo piccolo saggio ispirarne uno più eloquente! Riformista sincero, non penso ad appropriarmi di verità, non cerco discepoli, ma ausiliari.

Il problema della popolazione essendo stato posto dagli economisti fra gli uomini e le sussistenze, la soluzione non poteva essere dubbia: era la morte.

Uccidere o impedire di nascere, per fas et nefas, ecco dove doveva finire, di buon grado o malgrado tutto, la teoria di Malthus; ecco quale doveva essere la pratica delle nazioni, l’antidoto generalmente adottato e preconizzato contro la miseria. Fedele al suo principio di proprietà e di arbitrario, l’economia politica doveva finire, come ogni legislazione fondata sulla proprietà e sull’autorità; dopo avere presentato il suo diploma, spiegato il suo codice, le sue rubriche, le sue formule, le restava da trovare la sua sanzione, e questa sanzione l’ha domandata alla forza.

La teoria di Malthus è il codice penale dell’economia politica.

Che dice, al contrario, l’economia sociale, la vera scienza economica?

Dice che ogni organizzazione deve trovare il suo equilibrio in se stessa e non avere bisogno contro l’anarchia dei suoi elementi né di prevenzione né di repressione.

Risolvete le vostre contraddizioni, stabilite la proporzione dei valori, cercate la legge dello scambio, questa legge che è la giustizia stessa; e scoprirete il benessere, in seguito a questo benessere una legge superiore, l’armonia del globo e dell’umanità...

Mostriamo dapprima come mai, dall’arbitrario economico sul problema della popolazione, sia risultata la corruzione della morale.

Partendo dall’ipotesi che non esiste né legge di proporzione fra i valori, né organizzazione del lavoro né principio di ripartizione, costretta a dire che la giustizia è una parola, l’eguaglianza una chimera, il benessere per tutti gli uomini un sogno paradisiaco la cui realtà non si trova in questo mondo, condotta infine da questi falsi dati a sostenere che il progresso della ricchezza resta sempre indietro al progresso della popolazione, l’economia politica è stata forzata a concludere con la prudenza nell’amore, il ritardo nel matrimonio e tutti i mezzi preventivi e sussidiari sotto pena, aggiungeva, di vedere la natura stessa supplire, con una repressione terribile, alla imprevidenza dell’uomo.

Ora, quali sono, a dire dell’economia politica, questi mezzi di repressione di cui si minacciava la natura?

In prima fila appaiono, nella società proprietaria e in Malthus, suo interprete, la fame, la peste, la guerra, esecutrici delle alte opere della proprietà. Quante persone cristiane e atee, economiste e filantrope, sono convinte che tali sono, in effetti, i riduttori naturali della popolazione! Essi accettano con rassegnazione la giustizia sommaria del destino e adorano in silenzio la mano che li colpisce. È il quietismo della ragione, che sostiene con la sua inerzia gli argomenti dell’egoismo.

Pertanto è manifesto che un equilibrio creato da tali cause denuncia nella società una profonda anomalia.

Ma è precisamente il punto che ci interessa. Perché la fame, la guerra e la peste non possono essere accettate dalla ragione come cause normali, naturali e provvidenziali d’equilibrio? Vale la pena riflettere con noi un minuto sopra cose in apparenza così chiare; dipende da ciò la certezza della teoria che avremo da produrre a nostra volta.

Se è vero che la società è un essere organizzato in cui la vita risulta dal gioco libero e armonico degli organi, senza il soccorso di alcuna pulsione né repulsione esterna, ne consegue che la carestia, le epidemie, i massacri che in ogni tempo decimano la popolazione, ben lungi dall’essere strumenti d’equilibrio, sono al contrario i sintomi di una disarmonia interiore, di una perturbazione dell’economia. La fame e l’ingorgo sono per la società ciò che la consunzione e la sovrabbondanza sono per il corpo umano, e il termine ostacoli di cui si è servito Malthus per caratterizzare questi fenomeni mostra quale falsa idea si facesse di ciò che è organismo, economia e sistema.

Ora, ciò che noi diciamo della fame e degli altri pretesi mezzi di repressione della natura deve applicarsi a tutti i mezzi analoghi con i quali l’uomo si sforza di venire in aiuto alla Provvidenza in quest’opera di distruzione: l’esposizione dei bambini, usata presso tutti i popoli dell’antichità e raccomandata da molti filosofi; l’aborto, l’evirazione, consacrati già dalla religione e dai costumi, e che esistono ancora in Oriente e presso tutti i barbari. Queste costumanze, come i flagelli che sembrano avere servito da modello, non sono che testimonianze dell’anarchia economica; il senso comune e la logica non vogliono vedervi strumenti dell’ordine eterno, mezzi di equilibrio.

Stabiliti questi princìpi, è facile apprezzare il merito dei diversi sistemi di assicurazione immaginati in questi ultimi tempi contro l’eccesso della popolazione e la mancanza di viveri, e quindi determinare in un modo più preciso ancora, il carattere specifico della legge che cerchiamo.

Comincio da Malthus.

Malthus, avendo analizzato le cause naturali che, secondo lui, prevengono o reprimono l’eccesso di popolazione, trovando che di tutte queste cause, le une atroci, le altre immorali, nessuna poteva essere attribuita alla Provvidenza né accettata dalla ragione, si appellò da questa incapacità o da questa violenza inconcepibile della natura al libero arbitrio dell’uomo.

Pretese che era nella dignità come nel destino della nostra specie che essa servisse di Provvidenza a se stessa, che all’uomo spettava di rinserrare nei giusti limiti la sua progenitura. Il ritardo del matrimonio fino al trentesimo o quarantesimo anno, ecco ciò che Malthus, nel candore della sua anima, immaginò più utile, più filosofico e più morale, contro la popolazione e il suo straripare. La repressione dell’amore, la fame del cuore, fu opposta da lui alla fame dello stomaco. È ciò che nel suo casto linguaggio egli chiamò ritegno morale in opposizione a tutte le forme di ritegno fisico, omicide e oscene che rigettava.

Le idee di Malthus sono state adottate dai più illustri fra gli economisti, J. B. Say, Rossi, Droz e tutti quelli che, non trovando uscita alla difficoltà, ponevano sempre l’eroismo della continenza al di sopra delle estasi della voluttà. In fondo non si potrebbe non convenire che la teoria di Malthus non abbia qualche cosa di grande, di elevato, che la rende superiore a tutto ciò che si è proposto dopo, come faremo vedere più avanti. Quanto al presente, abbiamo soprattutto da determinare in che cosa pecca questa teoria.

Suo grande e principale difetto è di essere un freno: questo nome solo ne fa già emergere la contraddizione. La natura spinge l’uomo a una cosa, la società gliene comanda un’altra; se cedo all’amore sono minacciato dalla miseria; se resisto all’amore, non sono meno miserabile; tutta la differenza è dal fisico al morale: da qualunque parte guardi, non scorgo che desolazione e angoscia. È questo un equilibrio?

D’altra parte, ciò che propone Malthus, non è nientemeno che una accusa contro la Provvidenza, un atto di diffidenza verso la natura; mi stupisco che gli economisti cristiani non se ne siano accorti. Non si tratta qui solo di piaceri illegittimi che la religione e la società riprovano, si tratta anche delle unioni permesse. Egli parte da una cosa che tutti i moralisti guardano come la più sicura garanzia dei buoni costumi, il matrimonio dei giovani. D’ora innanzi, con la teoria di Malthus, il matrimonio non è più fatto che per le zitellone cariche di anni e i vecchi satiri; a che serve, con queste nozze arcigne, di sentire a vent’anni i dolci stimoli dell’amore se non è permesso ascoltare la tendenza che quando è sul punto di estinguersi. E quale teoria è mai questa che, con un così triste risultato, pone come principio la necessità di correggere le opere di Dio con la prudenza degli uomini!

Infine, il rimedio di Malthus è impraticabile e impotente. Impraticabile in fatto e in diritto, poiché, da una parte non si può seriamente sperare di mutare i periodi della vita umana, di fare che la gioventù languisca e la vecchiaia rinverdisca; e, d’altra parte, sotto il regime della proprietà, la teoria di Malthus conduce direttamente a fare del matrimonio il privilegio della fortuna... Impotente, poiché se la miseria ha per causa immediata, non, come si è immaginato, l’accrescimento di popolazione, ma i prelevamenti del monopolio, la miseria, sotto un regime come il nostro, non mancherà mai di prodursi, sia che la popolazione avanzi, sia che retroceda. La prova di questa asserzione si trova in ogni pagina di questo libro; ed è inutile ritornarvi sopra. Le contraddizioni della teoria di Malthus, confusamente scorte, ma vivamente sentite, hanno causato uno scatenamento generale. I motivi degli oppositori non furono sempre giudiziosi e ancora meno puri, come si vedrà. Ma l’economia non ebbe che da lagnarsi di se stessa, tanto più che finì per accettare la solidarietà delle turpitudini che il Principio di popolazione doveva abolire e di cui al contrario provocò la recrudescenza.

Per una transizione inevitabile, e che Malthus non aveva previsto, il ritegno morale non è tardato a diventare, sotto la penna e nell’intenzione dei malthusiani più decisi, un freno puramente fisico, pochissimo oneroso al piacere, e che potrebbe tutt’al più causare noia solo al pudore. “Non è provato – dice a questo proposito l’ultimo editore di Malthus – che questa varietà di astinenza che previene la miseria (leggete la popolazione), senza disconoscere le leggi della fisiologia (leggete del piacere), sia immorale”. È in questo senso che il pubblico, il quale in fatto di amore non sottilizza, ha inteso la teoria di Malthus, benché l’onorevole scrittore abbia sempre protestato contro tale interpretazione della sua dottrina.

In effetti, che cos’è la morale? che cos’è l’immoralità? come mai, ciò che è morale nella solitudine sarebbe immorale in un bacio? L’uomo è uno, benché la lingua dei filosofi abbia fatto di lui una duplice astrazione, il corpo e l’anima. Che si astenga dunque, mentalmente o fisicamente, dal procreare, che importa, purché vi sia astinenza, purché soprattutto l’astinenza abbia luogo a tempo? Il morale è sempre nel fisico, il fisico sempre nel morale; una sola cosa in tutto questo è essenziale: non procreare bambini. Turbaris erga plurima, porro unum est necessarium [Luca].

Freno morale, freno fisico: ecco dunque, sulle cause del pauperismo e sui suoi rimedi tutto ciò che hanno saputo dirci, nel XIX secolo, la scienza degli economisti, la morale degli eclettici e la filosofia di quei pudichi universitari, la cui virtù e religione al solo udire il nome di Loyola, mormora e arrossisce! Dopo avere schernito il celibato dei preti e la verginità cristiana, accusandoli di oltraggio alla natura e alla morale, questi ipocriti che non osano più né incoraggiare il matrimonio né raccomandare la continenza, predicano agli amanti, agli sposi, il ritegno... morale! E poi essi gridano contro i gesuiti! Nascondetevi [Tomás] Sanchez, [Tomás] Lemos, [Antonio] Escobar, [Hermann] Busembaum e tu fortunatissimo Liguori, che non conoscesti il vizio se non per reprimerlo e punirlo, l’economia politica vi sorpassa tutti! Una volta, i nostri padri cristiani ponevano nelle loro dimore dei ramoscelli benedetti, invocavano davanti alle sante immagini la misericordia dell’Altissimo contro l’incendio, la grandine, la carestia e la mortalità. Ho recitato, nella mia infanzia, queste preghiere di famiglia; ho visto dappertutto, presso i contadini, l’immagine del Cristo sospesa sopra il letto degli sposi: era il ricorso di un popolo ignorante e fanatico contro i flagelli del cielo e le calamità della terra. Il tempo ha progredito, la ragione si è affrancata, abbiamo appreso che la causa della miseria è l’accrescimento dei fanciulli; invece di quei gingilli della superstizione che attorniavano nel grande giorno la giovane sposa e che dovevano colpire i suoi occhi e riempire il suo cuore, per il resto della vita, ora l’assessore municipale le offrirà, per simbolo del dovere domestico, il preservativo che si usa solo in economia politica e nelle case di tolleranza!... Infamia!

Ragioniamo, anche se l’impurità ci sale fino ai capelli. L’illustre Lavoisier, cercando un rimedio per l’asfissia che uccide nelle fosse delle grandi città il povero vuotacessi, affrontò le maggiori nausee. Se è vero che il ritegno morale, subito diventato ritegno fisico, e risolvendo a suo modo il problema della popolazione, sia una pratica utile alle persone maritate, questa utilità non è minore per le persone libere. Ora (è qui la parte immorale della cosa, non prevista dagli economisti), quando il piacere fosse voluto e ricercato per se stesso senza la conseguenza della progenitura, il matrimonio diventerebbe una istituzione superflua; la vita dei giovani passerebbe in una fornicazione sterile; la famiglia si estinguerebbe, e con la famiglia la proprietà, il movimento economico resterebbe senza soluzione e la società ritornerebbe allo stato barbaro. Malthus e gli economisti morali rendevano il matrimonio inaccessibile, gli economisti fisici lo rendono inutile; gli uni e gli altri aggiungono alla mancanza del pane la mancanza di affetti, provocano la dissoluzione del legame sociale: ed ecco ciò che si chiama prevenire il pauperismo, ecco ciò che s’intende per repressione della miseria. Profondi moralisti! profondi politici! profondi filantropi!

A questa rivelazione inattesa, a questo commentario singolare della teoria di Malthus, l’opinione si è sollevata con più energia di prima. I moralisti si sono espressi con disgusto sulla trappola tesa alla loro buona fede; i socialisti hanno trovato che le modifiche proposte al principio di Malthus erano illusorie. Tutto o niente, hanno gridato. Il ritegno fisico non è che un miserabile inganno, un compromesso senza sicurezza, una contravvenzione alla fisiologia, un oltraggio all’amore. E, in opposizione al giusto mezzo economico, il socialismo ha cominciato a produrre le sue utopie.

Sistema di Fourier. Sterilità artificiale o per ingrassamento.

Questo sistema, che la scienza non si è degnata d’onorare di uno sguardo, offre una petizione di princìpi così spiacevole, che potrebbe fare credere a una beffa da parte dell’autore, se non si sapesse quanto quest’autore prendeva sul serio le sue bizzarrie. Di che si tratta? Di aumentare le sussistenze, la cui insufficienza relativa genera, secondo Fourier, discepolo in questo di Malthus, la miseria. Duplicate e quadruplicate il consumo, dice Fourier: è il mezzo infallibile per sfuggire all’eccesso della fecondità e non morire di fame. Non potete vivere, ci dice fieramente questo grand’uomo, con due pasti, fatene sette, e vi troverete soddisfatti.

È precisamente, come si vede, ciò che domanda l’economista. Ma dov’è il mezzo di raddoppiare e quadruplicare il consumo, il mezzo di lusso, quando si manca del necessario? Qui Fourier presenta la serie dei gruppi contrastanti che, secondo il suo calcolo, deve quadruplicare immediatamente il prodotto. Ma è ormai chiaro oggi che Fourier non ha mai saputo la prima parola delle cose di cui si è accinto a scrivere. Non ha alcuna nozione del valore; non possiede né la teoria della ripartizione né la legge dello scambio; non ha risolto nessuna delle contraddizioni dell’economia politica; non ha supposto il senso di queste contraddizioni; non ha visto che le cause della miseria provenivano tutte dalla preponderanza del capitale e dalla subordinazione del lavoro; anzi, consacra nella sua nota formula: capitale, lavoro, talento, questa preponderanza e questa subordinazione; e la sua scuola ha sempre agito in base a questo dato contraddittorio, invece di cercare l’affrancamento del lavoratore nella sintesi delle antinomie, in un principio superiore al capitale e alla proprietà, essa non ha cessato di implorare la sovvenzione del capitale e il favore del potere. Fourier, infine, non ha conosciuto, come Malthus, la natura del problema che doveva risolvere, quando, invece di collocarlo fra l’umanità e il globo, l’ha collocato fra la popolazione e le sussistenze. Riguardo al quadruplo del prodotto ho mostrato più sopra, con la teoria del progresso della ricchezza, che è uno di quei mille controsensi che pullulano negli scritti della scuola falansteriana, una chiacchiera la cui confutazione recherebbe onta alla critica.

Ma vi è un rimprovero più grave da fare alla soluzione fourierista del problema della popolazione ed è il suo spirito dichiarato d’immoralità, la sua tendenza altamente disorganizzatrice e antisociale. Io non esamino se il metodo d’ingrassamento, che non è altro, secondo me, che la generalizzazione di un caso patologico. La fisiologia non è di mia competenza, per cui ammetto l’ipotesi. Cercando, nel capitolo XI, quale sia la parte e il destino della proprietà, abbiamo scoperto, come suo tratto distintivo e segnalato, la costituzione della famiglia. Il fourierismo si atteggia a difensore della proprietà; ora, non solo il fourierismo non sa niente delle cause e dell’oggetto della proprietà, ma nega queste cause, le vuole abolite. Il fourierismo è la negazione della vita coniugale, elemento organico della proprietà; della famiglia, anima della proprietà; del matrimonio, immagine della proprietà trasfigurata. E perché il fourierismo abolisce tutte queste cose? Perché il fourierismo non ammette che la parte negativa della proprietà; perché, invece del possesso normale e santo manifestato dal matrimonio e dalla famiglia, il fourierismo sollecita con tutti i suoi voti, con tutti i suoi sforzi la prostituzione integrale. È qui tutto il segreto della soluzione fourierista del problema della popolazione. È provato, dice Fourier, che le ragazze pubbliche non diventano madri una su un milione di volte; al contrario, la vita coniugale, le cure domestiche, la castità coniugale favoriscono eminentemente la progenitura. Dunque, l’equilibrio della popolazione è trovato se, invece di unirsi in coppie e di favorire la fecondità con l’esclusione, diventiamo tutti prostituti. Amore libero, amore sterile, è tutt’uno... Perché allora la vita coniugale, la monogamia, la famiglia? Fare del lavoro un intrigo, dell’amore una ginnastica, quale sogno! È quello del falanstero! Il socialismo, come l’economia politica, ha trovato in un colpo, sul problema della popolazione, la morte e l’ignominia. Il lavoro e il pudore sono due parole che bruciano le labbra agli ipocriti dell’utopia, e non servono ad altro che a mascherare agli occhi dei semplicioni l’abiezione delle dottrine. Ignoro fino a qual punto gli apostoli di queste sette hanno coscienza della loro turpitudine, ma non consentirò mai a togliere a un uomo né la responsabilità delle sue parole né la responsabilità dei suoi atti.

Sistema del dottor G. Estrazione del feto o sradicamento dei germi.

Questo processo consiste nel ritirare dalla matrice, con un apparecchio ad hoc, i germi e gli embrioni che vi si fossero impiantati malgrado la volontà dei parenti. In una memoria particolareggiata di cui ho letto il manoscritto e di cui l’autore non può tardare di fare godere il pubblico, il dottor G. prova con ragionamenti dedotti tanto dalla filosofia quanto dall’economia politica, che l’“uomo ha il diritto e il dovere di limitare la sua progenitura”, e che, se può restare su questo soggetto ancora qualche dubbio, non è già sopra il principio ma sopra il modo.

Se ho il diritto, dice il dottor G., di perseverare, per causa di insufficienza di rendita, nella mia condizione di celibe, come pretende Malthus, ho il diritto, per la stessa ragione, se sono maritato, di ritornare al celibato e di astenermi da ogni commercio con la mia donna, come la Chiesa approva, e che ammettono, dopo Malthus, tutti gli economisti.

Se questa astinenza non ha altro merito in sé, che quello di prevenire la generazione e la miseria, può bastare, senza che cessi di pagare il dovere alla mia sposa, una ritirata che prevenga la concezione, come riconoscono i partigiani del ritegno fisico e come, del resto, la logica dimostra.

Ma che cos’è, in se stessa, la concezione? Il passaggio di un animaletto spermatico dell’organo maschile, dove esso è formato, nell’organo femminile, dove si sviluppa. Che io arresti lo sviluppo di questo animaletto dopo o prima la sua introduzione nella matrice, è sempre lo stesso delitto, se il celibato è un delitto; la stessa azione indifferente, innocente, se il celibato è innocente. Ho dunque il diritto e il dovere di prevenire come di reprimere la concezione, se la concezione mi è nociva.

Se è così, la potenza che mi è data sulla mia progenitura all’istante della concezione, la conservo nell’istante che la segue, la conservo il giorno dopo, la settimana seguente, il mese seguente.

Ho potuto non avere alcuna conoscenza del fatto all’istante in cui il fenomeno si è compiuto e malgrado la mia volontà di mettervi ostacolo; ora, il ritardo apportato nella repressione non si può prescrivere, contro il mio diritto, in favore di un embrione... Lascio al lettore la cura di proseguire questo ragionamento.

Il sistema del dottor G., onestissimo uomo del resto, e tanto buon logico quanto uomo di mondo, è seguito clandestinamente a Parigi da chirurghi che se ne fanno una specialità e vi guadagnano delle rapide fortune. Il pugnale di questi assassini va a cercare il feto fino in fondo alla matrice; ucciso o separato dal suo peduncolo il bambino, la natura rigetta da se stessa un frutto morto, e questo si chiama, in linguaggio economico, prevenire l’eccesso di popolazione, e in stile di giornale, nascondere un fallo. Nelle città di provincia, vi sono medici e levatrici che imitano questa industria, fanno commercio di droghe evacuative, secondo il principio di alta economia che è un delitto dare alla luce dei disgraziati, e un obbligo di coscienza limitare il numero dei propri figli. E la polizia, più malthusiana di Malthus, la polizia, che sa scoprire una riunione di 20 operai i quali trattano una questione di salario, chiude gli occhi su questi infanticidi per i quali il magistrato, non meno istruito della polizia sul principio della popolazione, scopre una quantità di circostanze attenuanti.

Il sistema del dottor G. è il complemento obbligato del ritegno morale e fisico degli economisti, nonché della sterilità eretico-bacchica del falansterio. Tutte queste dottrine, ultimo sforzo di un sensualismo disperato, sono connesse e solidali; partono dallo stesso pregiudizio, l’accrescimento di popolazione più rapido in una società regolare che quello delle sussistenze. Quanto ai risultati, essi restano invariabilmente gli stessi: aumento di miseria, di vizio e di delitto; dissoluzione del legame familiare, retrogradazione del movimento economico, proscrizione forzata dei poveri, degli orfani, dei vecchi, di tutte le bocche inutili, giustificazione dell’assassinio, anatema alla fratellanza e alla giustizia.

Sistema delle interruzioni. Si tratta di una precauzione semplicissima, ma sui cui successi non si è d’accordo, che consiste nell’astenersi dal commercio amoroso durante gli otto o quindici giorni che precedono e che tengono dietro al flusso mestruale; perché la donna, fuori del tempo delle regole, è, si dice, naturalmente sterile. Questo genere di astinenza rientra nel gusto della physical restraint. Ignoro fino a qual punto la fisiologia e l’esperienza confermano l’utilità di questo metodo di cui, del resto, devo occuparmi solo dal punto di vista economico.

Dico dunque che gli effetti di una simile pratica sarebbero, riguardo alla società, tutti funesti; riguardo alla miseria, tutti inefficaci come quelli delle precedenti. Con questo mezzo facile di godere senza pagare e di peccare senza essere sorpresi, il pudore non è più che uno stupido e incomodo pregiudizio, il matrimonio una convenzione fastidiosa e inutile. Il rispetto delle famiglie sarà posto sotto i piedi; giovani e ragazze, iniziati dall’infanzia ai dolci misteri, perderanno ben presto la forza dell’anima e la dignità del carattere; costumi sconosciuti, peggiori di quelli degli Haitiani, si stabiliranno nella società civilizzata; il lavoro ribasserà davanti alla speculazione, e la miseria, contro la quale ciascuno avrà creduto di trovare un rifugio in un celibato libidinoso, la miseria, mantenuta dal monopolio, dall’usura, dalla divisione parcellare, dalla ineguaglianza delle funzioni e delle attitudini, vendicherà di nuovo la natura con lo spopolamento del suolo, la sterilità dei capitali e la decadenza della specie. La verità sociale non può trovarsi là: che bisogno abbiamo di andare più in fondo?

Sistema dell’allattamento triennale. [Ch. Loudon, Solution du problème de la population et de la subsistance, soumise à un médecin, Paris 1842].

L’autore di questo sistema comincia col ripudiare le teorie assurde, immorali e barbare di poligamia, poliandria, amore unisessuale, aborto, ecc., delle quali abbiamo fatto in parte l’enumerazione. Condanna, con la legge romana, Accipere aut tueri conceptum est maximum ac praecipuum munus feminarum, ogni ostacolo alla concezione e al parto, e rende omaggio senza riserva al precetto del Genesi: “crescete e moltiplicate e riempite la terra”.

Ponendo per principio che l’accrescimento possibile della popolazione non è l’accrescimento naturale; considerando inoltre che Dio non ha destinato un solo uomo a una sola donna, e viceversa una sola donna per un solo uomo, ciò che, ai suoi occhi, costituisce già una prima e grande restrizione, egli si accinge a dimostrare, con una quantità di autorità e di fatti: 1° che la vita umana si divide in un certo numero di periodi determinati: periodo di gestazione, periodo di allattamento, periodo di crescita, periodo di fecondità, periodo di vecchiaia; 2° che, fra questi periodi, quello di allattamento abbraccia tre anni, durante i quali la donna che allatta è naturalmente sterile per l’antagonismo delle mammelle e dell’utero. Infine, conclude e afferma che, se ogni donna maritata a ventun’anni compiuti allattasse ciascuno dei suoi figli per tre anni, la popolazione, invece di aumentare, tenderebbe piuttosto a decrescere e ad estinguersi.

Quest’opera, di una grande erudizione, e che è stata citata con giusti elogi nella “Revue sociale” di P. Leroux, respira una morale pura, una filosofia elevata, un profondo amore del popolo. Ma il merito dell’autore consiste nel cercare i limiti della procreazione nella procreazione stessa, compiuta secondo le sue leggi e nei suoi periodi naturali.

Niente di più comodo, in effetti, che accelerare la riproduzione degli uomini, sia precedendo l’età morale del matrimonio, sia rinunciando alle fatiche dell’allattamento; come niente di più facile che restringerla sia con l’assassinio, l’infanticidio o l’aborto, sia con la castrazione e il disordine morale. Ma non si tratta qui punto di sovreccitare né di restringere la fecondità: noi cerchiamo se la natura, non essendo più contrariata dai nostri errori, ha provveduto al benessere della nostra specie e si è messa d’accordo con se stessa. Ora, se fosse provato, dice Loudon, da una parte, che il periodo naturale di allattamento è di tre anni, d’altra parte, che vi è antipatia fra le funzioni delle mammelle e quelle dell’utero in modo che la stessa donna non possa, in tutta la sua vita, seguendo le prescrizioni della natura, dare alla luce che tre, o tutt’al più quattro fanciulli, ne seguirebbe che la popolazione, deduzione fatta dei morti prima del matrimonio e durante il periodo di fecondità, diventerebbe stazionaria, e anche, a volontà, retrograda. Tale è l’opinione del Loudon. Né prevenzioni né repressioni né ostacoli. L’equilibrio risulta dalla natura delle cose, senza nessun inconveniente per i costumi e l’economia della società.

Disgraziatamente questa teoria, così razionale nel suo principio, ha l’irreparabile difetto di essere esclusivamente fisiologica e tutt’affatto fuori dell’economia sociale. Senza contare i rimproveri che potrebbero fare a Loudon i suoi confratelli in medicina, e che non sono di nostra competenza, vediamo i vizi da cercare nel suo sistema. Dapprima questo sistema presenta un carattere pronunciato di immoralità e di arbitrarietà in questo senso che, se la legge di allattamento fosse sempre stata osservata, non si comprende come mai, date le conclusioni dell’autore stesso, il genere umano avrebbe potuto accrescersi. Avendo la popolazione trovato di primo acchito il suo equilibrio, non vi era più luogo per essa al progresso. Ma se non vi era luogo al progresso per la popolazione, non vi era maggiormente luogo al progresso per la produzione, ed ecco l’industria, la scienza, l’arte, i costumi, l’umanità arrestati. L’umanità, trattenuta nella sua corsa, non è più l’essere progressivo e provvidenziale: essa resta Dio, cioè bestia. Stabilite la pratica di Loudon all’epoca dell’umanità che più vi aggrada, la civiltà, per virtù dell’allattamento triennale, si arresta tosto e noi diventiamo limitati. Si dirà che è facile rimediare a questo maritandosi più presto riducendo l’allattamento a diciotto mesi? Il progresso sociale non può essere così lasciato all’arbitrio dell’uomo: la nostra libertà deve rinchiudersi nei limiti della fatalità, la nostra natura è di sviluppare, non di sorpassare né di rifare. Peraltro, se i tre anni dell’allattamento sono indispensabili al bambino, voi non potete svezzarlo senza fargli torto, se, al contrario, questi tre anni non sono indispensabili, che cosa diventa la teoria?

Così, non troviamo già più quella legge naturale che a primo aspetto il sistema di Loudon ci faceva sperare, legge che deve agire sola e senza il soccorso dell’uomo, in tutti i momenti della vita sociale e individuale, senza interruzioni né scosse. In questo sistema, come in tutti gli altri, la natura non ha previsto niente, e se l’uomo non interviene a un tratto nel progresso delle sue generazioni, sia con l’astinenza, sia con la sradicazione, sia con le paure, sia con la prostituzione, sia infine prolungando il servizio dell’organo del sistema mammellare a spese dell’organo genitale, la popolazione all’istante trabocca, i viveri mancano, la società si scompiglia e muore! Non è sempre lo stesso sofisma?

E poi, come mai imporre alle donne, la cui funzione sociale ingrandisce di più in più, questa fatica di allattamento interminabile che, per una madre di quattro figli, farà sedici anni di schiavitù, è una schiavitù inutile in gran parte al vigore dei figli? Se l’intelligenza è stata data all’uomo perché si affranchi dall’oppressione dell’animalità, non è forse qui il luogo per interpretare le leggi del suo organismo e di modificarne l’applicazione secondo le leggi più alte della società? Capisco, in un’orda povera e miserabile il prolungarsi del periodo di allattamento; là, il bambino, non potendo prendere nutrimenti troppo grossolani, non ha altra risorsa che il seno della sua nutrice. Ma, col benessere che ci dà il lavoro, col dominio che l’uomo esercita sui bruti, le cui femmine sono per lui così preziose nutrici, la condizione della donna cambia, ed è veramente farla retrocedere fino al bruto, ricondurla a leggi abrogate da sessanta secoli di civiltà. L’allattamento triennale è sempre una miseria sostituita a un’altra miseria; sotto questo rapporto la teoria di Loudon ha pure la sua immoralità.

Notiamo ancora che questa teoria, nata, come tutte le altre, dalla falsa ipotesi di Malthus, non coglie neanche la difficoltà che si propone di risolvere. Supponiamo per un momento il costume dell’allattamento triennale dappertutto stabilito. La popolazione resta stazionaria, questo benissimo; ma la miseria percorre sempre la sua strada, poiché ha per principio, non la popolazione, ma il monopolio, e ancora anticipa incessantemente sulla produzione e il lavoro. Così continuando la miseria a popolare il mondo, si sarebbe ben presto forzati, per riparare le perdite della classe lavoratrice, a favorire la popolazione con la precocità dei matrimoni e l’abbreviazione del periodo di allattamento: ciò che ci mette sempre sottosopra.

Infine, è chiaro che il sistema dell’allattamento triennale lascia ancora più indeciso il problema della popolazione nei suoi rapporti col globo. Di due cose l’una: o, malgrado i tre anni di allattamento, le donne faranno sempre abbastanza figli perché la popolazione si accresca, e in questo caso dove sarebbe il limite di tale accrescimento? Oppure la popolazione resterebbe stazionaria, diventerebbe anche retrograda; ma, allora, tutta l’umanità diventa stazionaria e retrograda, e per questa stazionarietà, per questa retrogradazione i rapporti dell’umanità col pianeta che abita diventano nulli, l’uomo resta prigioniero della terra, ciò è che è assurdo.

In breve, le soluzioni proposte per il problema della popolazione, tanto dai socialisti che dagli economisti, partite da una falsa ipotesi e non appoggiandosi su niente di intimo alla natura e di essenziale all’ordine economico, queste soluzioni sono tutte false, contraddittorie, impraticabili, impotenti, immorali. Che l’uomo scopra, nella sua sfera di attività amorosa, come s’immagina di averlo trovato nella sua sfera di attività industriale, il segreto di godere senza produrre, e noi vedremo nell’amore, nel matrimonio, nella famiglia ciò che abbiamo osservato nel lavoro, nella concorrenza, nel credito e nella proprietà: vedremo l’amore cambiarsi in un’eccitazione spasmodica e nervosa; la promiscuità intrigata succedere alla fedeltà coniugale come l’aggio al cambio; la società corrotta dalle donne come ora è corrotta dal monopolio; il corpo politico in putrefazione: sarebbe finita per l’umanità.

Il problema sussiste dunque intero: a noi pertanto tocca tentare una nuova ricerca.

È dimostrato che l’umanità tende ad accrescersi, in popolazione, secondo una progressione geometrica indefinita.

È provato, d’altra parte, che lo sviluppo di questa stessa umanità, in capitale e in ricchezza, segne una progressione più rapida ancora, di cui ogni termine può essere considerato come il quadrato del numero precedente all’infinito.

Queste due progressioni, parallele e solidali, incatenate l’una all’altra con un legame indissolubile, che funzionano reciprocamente di causa e d’effetto, e che del resto servono ad enunciare una tendenza ben più che non esprimano una verità rigorosa, sono soggette, in ciascuno dei loro termini, allo stesso periodo di tempo.

Constatato questo primo punto, resta da sapere come mai questa tendenza dell’umanità ad accrescersi, tanto in popolazione quanto in prodotto, si limiti da se stessa, poiché è geometricamente impossibile che l’accrescimento si sostenga con la stessa intensità per tutta la durata del mondo, allorché potrebbero bastare due o tre secoli per ingombrare di uomini e prodotti la superfice intera del globo. Ora, se Dio ci ha comandato di crescere e moltiplicarci e di riempire la terra, non ci ha detto di passare i limiti; il tenore del precetto lo indica da solo.

Qual è dunque il limite naturale dell’accrescimento dell’umanità in popolazione e in ricchezza?

Osserviamo dapprima che il periodo nel quale si compie il raddoppiamento della popolazione e il quadruplicamento corrispondente della ricchezza è essenzialmente variabile e che, sotto l’azione di diverse cause di cui non abbiamo ancora da scrutare la legittimità o l’anomalia, essa è stata trovata di volta in volta di 14, di 18, di 20, 25, 50, 100, 500, 1000 anni e al di là.

Ora, appare già che questa mobilità del periodo moltiplicatore contiene la soluzione del problema, poiché, se questo periodo è suscettibile di allungarsi indefinitamente, deve giungere un momento in cui la popolazione e la produzione, aumentando sempre, resteranno stazionarie. La sola cosa che importa, è che la causa che determina l’allungamento del periodo, e in seguito l’immobilità numerica dell’umanità, sia intima all’organizzazione sociale, affrancata da ogni costrizione, repressione e arbitrio, e che risulti dal pieno e libero esercizio delle nostre facoltà. Ciò che importa, è che l’equilibrio che di là deve risultare si faccia sentire, non solo nell’umanità intera, ma in ciascuna delle frazioni dell’umanità: nazione, città, famiglia, individuo; non solo in un’epoca più o meno lontana dell’avvenire, ma in tutte le epoche della storia, in ogni secolo, ogni giorno, ogni minuto della vita sociale e individuale.

Ora, questa causa, ancora sconosciuta, e che, secondo tutte le apparenze, deve essere ciò che c’è di più presente nell’umanità, di più intimo alla società e all’uomo, noi l’avremmo infallibilmente colta se fosse dimostrato che la somma di lavoro, invece di diminuire, aumenta senza posa, non solo in ragione del numero dei lavoratori, ma ancora in ragione stessa del progresso compiuto nell’industria, nella scienza, nell’arte, in modo che l’aumento del benessere non fosse veramente per l’uomo che l’espressione dell’accrescimento del suo compito. E risulterebbe, in effetti, da questo aumento del lavoro, dapprima che il periodo di moltiplicazione dei prodotti allungandosi senza posa, arriva un momento in cui l’umanità, lavorando sempre, non accumula niente, né capitalizza più... La produzione umana sarebbe allora arrivata al suo maximum, poiché questi due termini, popolazione e produzione, sono necessariamente connessi e solidali.

Occupiamoci prima del lavoro.

Il lavoro è il primo attributo, il carattere essenziale dell’uomo. L’uomo è lavoratore, cioè creatore e poeta: emette delle idee e dei segni; rifacendo la natura, produce da sé, vive della sua sostanza; questo è ciò che significa la frase popolare: vivere del suo lavoro.

L’uomo dunque, solo fra gli animali, lavora, dà esistenza a cose che la natura non produce, che Dio è incapace di creare perché gli mancano le facoltà; così come l’uomo, con la specialità delle sue facoltà, non può fare niente di ciò che compie la potenza divina. L’uomo, rivale di Dio, come Dio, non altrimenti da Dio, lavora, parla, canta, scrive, racconta, calcola, fa piani e li esegue, si forma e si dipinge delle immagini, celebra gli atti memorabili della sua esistenza, istituisce anniversari, si irrita per la guerra, provoca il suo pensiero con la religione, la filosofia e l’arte. Per vivere mette in opera tutta la natura; se ne appropria e l’assimila. In tutto quello che fa mette del disegno, della coscienza, del gusto. Ma ciò che è più meraviglioso ancora, è che, per la divisione del lavoro e per lo scambio, l’umanità intera opera come un sol uomo, e che, ciònonostante, ogni individuo, in questa comunità di azione, si trova libero e indipendente. Infine, per la reciprocità delle obbligazioni, l’uomo converte il suo istinto di socialità in giustizia, e per pegno della sua parola s’impone delle pene. Tutte queste cose, che distinguono esclusivamente l’uomo, sono le forme, gli attributi e le leggi del lavoro, e possono essere considerate come una emissione della nostra vita, uno sbocco della nostra anima. Gli animali si agitano sotto l’impero di una ragione che sorpassa la loro coscienza; l’uomo solo lavora, perché egli solo conosce il suo lavoro, mediante l’aiuto della coscienza egli forma la sua ragione. Gli animali che chiamiamo lavoratori, per metafora, non sono che macchine sotto la mano dell’uno dei due creatori antagonisti, Dio e l’uomo. Essi non conoscono niente, e perciò non producono. Gli atti esteriori che sembrano qualche volta avvicinarli a noi, il talento innato in molti bruti di alloggiarsi, di approvvigionarsi, di vestirsi, non si distinguono nelle specie inferiori, quanto alla moralità, dai movimenti della vita organica, essi sono completi e senza perfezionamento possibile. Quale differenza, dal punto di vista della coscienza, possiamo scoprire fra la digestione del baco da seta e la costruzione della sua tela? Di quanto la rondine che cova è inferiore alla rondine che fabbrica?...

Che cos’è dunque il lavoro? Nessuno l’ha ancora definito. Il lavoro è l’emissione dello spirito. Lavorare è spendere la propria vita; lavorare, in una parola, è sacrificarsi, è morire. Che gli utopisti non ci parlino più di sacrificio: il sacrificio è il lavoro espresso e misurato dalle proprie opere...

L’uomo muore di lavoro e di sacrificio, sia che si logori l’anima, come il soldato di Maratona, in uno sforzo di entusiasmo, sia che consumi la sua vita con un lavoro di 50 o di 60 anni, come l’operaio delle nostre fabbriche, come il contadino delle nostre campagne. Egli muore perché lavora; o meglio, è mortale perché è nato lavoratore: il destino terrestre dell’uomo è incompatibile con l’immortalità...

Gli animali non hanno, a ben dire, che una maniera di spendere la loro vita, la quale, del resto, è loro comune con l’uomo: la generazione. In qualche specie, la vita dura fino all’istante della riproduzione; compiuto quest’atto supremo, l’individuo muore; ha passato la sua vita, non ha più ragione di esistere. Nelle specie dette lavoratrici, come le api e le formiche, il sesso è riservato agli individui che non attendono al lavoro: gli operai non hanno sesso. Fra gli animali che l’uomo ha sottomesso, quelli che fa lavorare con lui perdono ben presto il vigore, diventano fiacchi e smunti; il lavoro è per essi come una vecchiaia prematura...

In fin dei conti, il lavoro non è la condizione delle bestie, ed è per questo che, soppresso l’uomo, c’è soluzione di continuità nella natura, mutilazione, sfinimento e in seguito tendenza alla morte.

Nella natura, l’equilibrio si stabilisce con la distruzione. Gli erbivori, i ruminanti, ecc., vivono sul regno vegetale che consumerebbero ben presto se non servissero di pasto ai carnivori, i quali, dopo avere tutto divorato, finirebbero per perire divorandosi gli uni con gli altri. Lo sterminio appare allora come legge di circolazione e di vita nella natura. L’uomo, come animale, è sottomesso alla stessa fatalità; disputa la sua sussistenza alle balene e ai pescecani, ai lupi, alle tigri, ai leoni, ai topi, alle aquile, agli insetti che perseguita e che uccide. Infine, fa la guerra a se stesso e si mangia.

Ma non è così che deve chiudersi il cerchio della vita universale, e tutto ciò che la chimica moderna ci rivela a questo riguardo è un oltraggio alla dignità umana. Non è sotto le forme di sangue e di carne che l’uomo deve nutrirsi della sua propria sostanza: è sotto la forma di pane, è col prodotto del suo lavoro. Hoc est corpus meum. Il lavoro, arrestando le anticipazioni della miseria, mette fine all’antropofagia: al mito feroce e divino succede la verità umana e provvidenziale; l’alleanza è formata dal lavoro fra l’uomo e la natura, e la perpetuità di questa, assicurata dal sacrificio volontario di quello: Sanguis foederis quod pepigit Dominus [Esodo]. Così la tradizione religiosa spira nella verità economica: ciò che annunciava il sacrificio eucaristico di Gesù Cristo e di Melchisedech, ciò che esprimeva prima il sacrificio cruento di Aronne e di Noè, ciò che indicava più anticamente ancora il sacrificio umano della Tauride, l’istituzione moderna del lavoro l’annuncia di nuovo e lo dichiara; l’universo è stato fondato sul principio della manducazione reciproca degli uomini, il che è come dire che l’umanità vive di se stessa.

Ma se l’umanità, vivendo del suo lavoro, vive, per così dire, della sua propria vita, la sussistenza dell’umanità, e per conseguenza la sua forza vitale, è necessariamente proporzionata alla sua missione industriale: ora, qual è la potenza di questa emissione?

Noi tocchiamo il fatto più considerevole di tutta l’economia politica, il più degno di eccitare le meditazioni del filosofo: voglio parlare dell’accrescimento o, per meglio dire, dell’aggravamento del lavoro.

Nello stato di non divisione, allorché il commercio è nullo, e ciascuno produce tutto per sé solo, il lavoro è al suo minimum di fecondità. La ricchezza cresce come il numero degli individui. Allorché la terra non può mantenere che un piccolo numero di abitanti, essa sembra restringersi davanti al barbaro; la popolazione tende incessantemente a sorpassare la produzione, secondo il rapporto indicato da Malthus, e ben presto, toccando da ogni parte i suoi limiti, essa si consuma e muore.

Con la divisione del lavoro, le macchine, il commercio, il credito e tutto l’apparato economico, la terra offre all’uomo risorse infinite. Essa si stende allora davanti a colui che la utilizza; il benessere si estende sulla popolazione. La ricchezza cresce come il quadrato del numero dei lavoratori. Ma, a parte questo duplice movimento della popolazione e della produzione, se ne manifesta un altro, sconosciuto fino a ora dagli economisti, e che il socialismo, a più forte ragione, non ha visto, è, come ho detto, l’aggravio del lavoro.

In una società organizzata, la somma di lavoro, benché sembri diminuire sempre con la divisione, le macchine, ecc., aumenta continuamente, al contrario, per il lavoratore collettivo e per ogni individuo, e questo, per il fatto stesso e in ragione dello sviluppo economico. In modo che, più, con la scienza, l’arte e l’organizzazione, l’industria si perfeziona, più il lavoro aumenta per tutti quanti in intensità e in durata (in qualità e in quantità), più, per conseguenza, la produzione relativa diminuisce. E si arriva a questa conseguenza: nella società, molteplicità di prodotti è sinonimo di moltiplicazione di lavoro.

È ciò che voglio tentare di spiegare.

Ritorniamo, per l’ultima volta, alla teoria di Ricardo.

Siano quattro qualità di terra, A, B, C, D, che producano a uguale spesa e sulla stessa superficie, A 120, B 100, C 80, D 60. È chiaro, se si paragonino fra loro i proprietari di questi quattro differenti terreni, che il primo è ricco, il secondo agiato, il terzo appena se la cava, il quarto è povero. Ma che significa, in rapporto all’uomo collettivo, questa ineguaglianza di fortune? È, da una parte, che la società, a misura che essa ha dovuto passare dalla coltura delle terre di prima qualità alle terre di qualità inferiore, si è realmente impoverita; e, in secondo luogo, per conservare il benessere che aveva dapprima ottenuto coltivando la prima specie di terre, ha poi dovuto inventare dei mezzi di azione che, sulla stessa superficie di terreno, qualunque fosse da allora in poi la qualità del suolo, permettessero di aumentare il prodotto. Ora, non solo la società ha vinto la miseria che le derivava dalla qualità ineguale delle terre, ma ha aumentato ancora il suo capitale e il suo benessere primitivo; ha aumentato questo benessere, non solo per i lavoratori che fecero i primi lavori di dissodamento, ma per tutti quelli che vennero in seguito. Bisogna dunque che l’uomo abbia supplito in debita misura all’inerzia del suolo, che abbia fatto passare nella materia una quantità sempre più grande della propria sostanza; bisogna, in una parola, che abbia fornito sempre maggiore lavoro. In qualunque maniera si consideri la cosa, essendosi il benessere accresciuto malgrado la sterilità crescente della terra e la moltiplicazione dei consumatori, la somma di lavoro si è così necessariamente accresciuta per la società e per ogni individuo, salvo i privilegi e le perturbazioni che restano da dedurre.

L’illusione a questo riguardo, deriva dalle oscillazioni del valore causate dall’introduzione delle macchine, oscillazioni che, apportandoci sempre, dopo una perturbazione momentanea, un accrescimento di benessere, ci sembrano tanti passi fatti verso il riposo, mentre non esprimono in realtà che l’accumulazione del nostro bisogno.

Che cosa, in effetti, è una macchina? Un metodo spiccio di lavoro. Dunque, ogni volta che una macchina è inventata, è perché vi era eccesso di bisogno, imminenza di miseria. Il lavoro non provvedeva più; la macchina viene, ristabilisce l’equilibrio, sovente assorbendo una parte del tempo di riposo. Da questo punto di vista già la macchina prova l’aggravamento della fatica.

Ma che cos’è, ancora una volta, una macchina? (chiamo qui tutta l’attenzione del lettore). Un centro particolare di azione che ha il suo regime, il suo bilancio, il suo personale, le sue spese, ecc., e a cui, direttamente o indirettamente, si subordinano tutti gli altri centri di produzione, di contro a ciascuno dei quali esso è a sua volta in rapporto subalterno. Così, una macchina, nello stesso tempo che è una sorgente di benefici, è causa di dispendio, principio di servitù. Qualsiasi macchina l’industria faccia muovere, il motore è sempre l’uomo: i congegni che costruisce non hanno altra potenza se non quella ch’egli comunica loro, e che è forzato a rinnovare continuamente; e più s’attornia di strumenti, più ragioni si crea di sorveglianza e pena. Che il conduttore, o il macchinista, abbandonino un istante la locomotiva, la meravigliosa vettura di cui uno spirito, come dice il profeta, sembra animare le ruote, spiritus erat in rotis, si arresta all’istante. Cessi un solo giorno il macchinista di visitarne i pezzi, essa non durerà sei settimane; il minatore cessi di fornire il combustibile, mai si muoverà.

Ora, a che tendono, definitivamente, questi sforzi inauditi? Perché tutto questo spiegamento di genio, questo lavoro da gigante? Per ottenere dalla terra le ricchezze che essa ci rifiuta, per rendere feconde regioni prima sterili e mettere in valore terreni della 36a e della 72a qualità. Uno stabilimento industriale è una soccida per la coltivazione di un deserto...

Dunque, se vogliamo, a ogni invenzione nuova, a ogni lavoro di dissodamento, mantenerci nel grado di benessere precedentemente acquistato; se pretendiamo anche di aumentare questo benessere, bisogna di tutta necessità che ciascuno di noi prenda la parte delle spese che la coltivazione delle ultime terre esige; senza questo, colui che da principio si trovava più ricco, il proprietario del terreno A, per esempio, sarebbe ben presto diventato il più povero. Dunque, infine, più noi facciamo progressi in popolazione e in ricchezza, più ancora la nostra fatica si aggrava. Mi rincresce di non poter dare una più elegante formula a una proposizione così vera.

Ho citato (Capitolo IV), come prova dell’accrescimento del lavoro, l’esempio delle strade ferrate, dove si vede il lavoro servile moltiplicarsi in un modo spaventevole. Dirò una parola di ciò che si fa nelle miniere.

Che c’è di più semplice, di meno dispendioso, in apparenza, dell’estrarre carbone fossile da quei vasti depositi che la natura sembra averci preparato come una transizione tra il combustibile vegetale e l’agente universale di calore e di luce che la scienza non ha potuto cogliere ancora, ma al quale converrà ben presto che noi facciamo ricorso se non vogliamo vedere l’avvenire fermarsi davanti a noi. Ora, non appena il lavoro ha attaccato i primi giacimenti, una industria, una scienza, organizzata su proporzioni immense, scaturisce a un tratto. Non posso entrare nei particolari delle operazioni immense e complicate che comporta una miniera; una semplice nomenclatura basta al mio oggetto.

Abbiamo nel personale di una miniera: il direttore, l’ingegnere, il commissionario, il governatore, e poi, picconieri, tiratori, spingitori, toccatori, caricatori, intavolatori, riparatori, cantonieri, incatenatori, palafrenieri, minatori, cavatori, ricevitori di carbone, ricevitori di acqua, macchinisti, fuochisti, operai del gesso, tritatori di pietra, manovali addetti al gesso, carrettieri, fabbriferrai, caricatori di vagoni, manovali, muratori e bagaglioni. Ne dimentico senza dubbio: non ho fatto che prendere questa lista sugli stati di servizio di una miniera della Loira. Ora, aggiungete le industrie che prestano i loro servizi per l’escavazione dei pozzi, la fabbricazione degli utensili, il trasporto dei materiali impiegati all’estrazione e quello del carbone fossile estratto; pensate che per tenere tutta questa gente, divenuta necessaria per la mancanza di combustibile, per fare fronte a tutte queste spese e conservare il benessere precedentemente ottenuto, è stato necessario aumentare, nella stessa proporzione, il reddito agricolo, industriale e commerciale, creare delle nuove industrie, provocare dappertutto maggiori sforzi, nuove spese, e dite, se possibile, di quale enorme quantità ha dovuto accrescersi il lavoro primitivo!...

Va detto di ogni impresa industriale e delle macchine che la rappresentano, lo stesso della terra. Per farla prosperare ci vogliono capitali sempre crescenti, cioè, sotto pena di vedere la ricchezza estinguersi e il benessere svanire, bisogna aumentare senza posa il compito del lavoratore. Immaginarsi che, con l’aiuto delle macchine, noi possiamo, diventando ricchi, sopprimere o ridurre il lavoro, è cercare la perpetuità del movimento là dove essa non può esistere, la perpetuità del movimento negli esseri inerti e soggetti a deterioramento incessante; è supporre effetti più grandi delle loro cause.

E come nella natura niente si crea dal niente, così nell’ordine economico l’uomo non produce se non ciò che trae dal proprio seno; i limiti della vita sono pure i limiti della sua fecondità. [Si sono testé annunziate al mondo scientifico le esperienze di un agronomo inglese, dalle quali risulta che si può duplicare la quantità di ingrasso in un terreno senza ottenere un raccolto sensibilmente più grande. Bisognava vivere nel secolo XIX per avere bisogno di una simile dimostrazione. Non si fabbrica un uomo con la pappa, ci vuole un soggetto, un bambino che la consumi e la digerisca, e ancora in una certa misura. Così, quando si provasse che un uomo rende abbastanza escrementi per riprodurre la sua sussistenza, non si sarebbe più avanti; ci vuole della terra. Seminate del frumento in un letamaio, ne raccoglierete meno che se lo seminate in una terra preparata, anzi, esso varrà meno. Per aumentare il prodotto, bisogna dunque aumentare la superficie coltivabile, bisogna aumentare il lavoro. Gli ingrassi naturali o artificiali non mancheranno mai]. Mettiamo questo in una forma più palpabile. Sia la produzione annuale della Francia valutata dieci miliardi di lire. Prendendo il franco come unità metrica di paragone dei valori, la somma di lavoro per testa è 394. Ora, la produzione essendo più che raddoppiata in cinquant’anni in Francia, mentre la popolazione non è nemmeno cresciuta della metà, ne consegue che la Francia, divenuta quattro volte più ricca, lavora quattro volte di più di cinquant’anni fa. Non è che questo quadruplicamento di lavoro debba intendersi come un numero quadruplo di giornate di lavoro, poiché si deve tenere conto dei progressi dell’industria e della meccanica. Dico che il lavoro è stato quadruplicato tanto in intensità che in durata, che l’aumento è avvenuto nello stesso tempo per l’anima e per il corpo, ciò che non cambia niente alla somma. Le macchine non fanno che abbreviare ed eseguire per noi certe operazioni manuali; esse non diminuiscono il lavoro, ma lo rimuovono; ciò che noi domandavamo ai nostri muscoli è riportato sul cervello. Niente è cambiato al lavoro, se non il modo di azione, il quale dal fisico passa all’intelligenza. Se dunque è dimostrato che l’uomo trionfa incessantemente, per la forza che gli è propria, dell’inerzia crescente della natura, e dell’aumento dei suoi bisogni, è anche dimostrato nello stesso tempo che la somma della sua fatica aumenta sempre.

I fatti abbondano a testimonianza di questo accrescimento continuo del lavoro, e l’indifferenza con la quale noi passiamo loro vicino senza vederli è sempre ciò che mi colpisce di più.

Nei centri industriali come Parigi, Lione, Lille, Rouen, la media del lavoro, quanto alla durata solamente, è da 13 a 14 ore. I padroni, al pari degli impiegati e dei domestici, partecipano a questa fatica da schiavo. Nel commercio soprattutto, non è raro che le sedute arrivino fino a 18 ore. L’infanzia e il sesso debole non sono risparmiati. Il legislatore si è commosso in questi ultimi anni per le spaventevoli fatiche di cui l’industria aggrava i fanciulli e le donne; la stampa non ha saputo vedere negli abusi denunciati dalla tribuna che la cupidigia e la barbarie degli utilizzatori; nessuno ha cercato di rendersi conto della fatalità economica di cui i detti utilizzatori non sono, dopo tutto, che i plenipotenziari. Non si è visto che nella nostra società ad ingranaggi, il lavoro e il capitale non si fermano; che, come questo cresce per l’interesse raddoppiato, egualmente quello si aggrava indefinitamente per la divisione e le macchine. Il lavoro e il capitale, come la creazione e il tempo, sono cose che si rincorrono sempre senza potersi raggiungere; ma viene un’ora in cui né il capitale può accrescersi con l’usura, perché la produzione è troppo lenta, e tale è la causa prima dell’abbassamento progressivo dell’interesse; né il lavoro può diventare più produttivo con la divisione a causa della forza d’inerzia sempre crescente della natura: è l’ora in cui o l’adolescenza fa posto, nell’umanità, alla virilità, o la società anelante, invece di quelle immense oscillazioni che il monopolio e la concorrenza le facevano altra volta descrivere, non risente altro che una vibrazione insensibile; oppure l’eguaglianza freme nell’ineguaglianza stessa e sembra dire alla vita: non andrai più lontano! Usque huc venies, et non procedes amplius, et hic confringes tumentes fluctus tuos... [Giobbe].

Ciò rende più sensibile ancora l’aggravamento del lavoro e anzi non fa, sotto un altro punto di vista, che riprodurlo, sono le esigenze moltiplicate dell’educazione. Nello stesso modo che produzione e consumo sono due termini identici e adeguati, così l’educazione può essere considerata come il tirocinio del lavoro e come il tirocinio del benessere. La facoltà di godere ha bisogno, come quella di produrre, di scienza e d’esercizio; essa non è altro, a ben giudicare, che la facoltà di produrre, e si può giudicare del talento di un uomo e della varietà delle sue conoscenze, dal numero e dalla natura dei suoi bisogni. Per essere all’altezza della vita nella società moderna, ci vuole un immenso sviluppo scientifico, estetico e industriale, a tal segno che, per godere, chi non produce ha bisogno di lavorare quasi tutto quanto, per produrre, deve il produttore. Venticinque anni non bastano più all’educazione del privilegiato; che sarà dunque quando questo privilegiato sarà ridiventato lavoratore?...

Di tutte le classi dei produttori, la meno laboriosa oggi è la classe agricola. È anche quella che arriverà ultima all’eguaglianza. Dappertutto altrove, nel commercio e nell’industria il lavoro è giunto al punto da non potere sopportare il minimo aggravamento. Ma qui però oso dire che l’eguaglianza è imminente, poiché esiste, salvo qualche frazione decimale, fra i lavoratori, e i soli individui che facciano eccezione, padroni, capitalisti, impresari, la parte aristocratica, in una parola, non eccede il 5%. L’abbassamento di queste alte teste non potrebbe essere una difficoltà per nessuno.

Da ogni parte si leva un lamento immenso, lugubre, contro l’eccesso del lavoro; da ogni parte l’operaio si mette in moto per il rialzo del salario e la riduzione delle ore lavorative; cosa perdonabile all’operaio che non sostiene una tesi e non fa che protestare con la forza d’inerzia contro l’abbrutimento e la miseria; ma, cosa deplorevole per gli economisti filantropi, che, predicando la necessità del lavoro, mantengono con le loro stupide condoglianze il disgusto del lavoro, e sembrano dire all’operaio, che essi dovrebbero spingere avanti: basta!

Come mai rimediare alla miseria, se non possiamo produrre di più? Come mai proseguire quest’opera penosa della civiltà senza un accrescimento di ricchezza, cioè senza un aumento incessante di lavoro fisico o intellettuale? Come mai togliere il pauperismo diminuendo la produzione e aumentando il prezzo delle cose? Quando il proletario, eccitato da demagoghi la cui ignoranza sembra un titolo di più alla popolarità, avrà, con lo sciopero, creato la carestia e la miseria, chi pagherà per lui?... Che se, nella situazione estrema in cui ci troviamo, ogni aumento di salario e in seguito ogni diminuzione del prezzo delle cose è diventato impossibile, non è ciò un segno che la rivoluzione è vicina e che la ritirata ci è chiusa?...

Avrei voluto estendermi di più su questo fatto grandioso e veramente profetico dell’aggravamento incessante del lavoro, ma il tempo mi spinge, e se non m’inganno, il lettore aspetta da me piuttosto una soluzione che una dimostrazione formale. La dimostrazione s’incaricherà lui stesso di farla... Se dunque è una legge dell’economia sociale che il lavoro, per il fatto stesso della sua divisione e per il soccorso che riceve dalle macchine, invece di diminuire per l’uomo, s’aggrava sempre; la nostra vita essendo limitata, i nostri anni, i nostri giorni contati, ne segue che sempre più tempo ci è domandato per uno stesso aumento di valore; che il periodo necessario al quadruplicamento della ricchezza e al raddoppiamento della popolazione si allunga indefinitamente, e che si giunge nello stesso tempo in cui la società, marciando sempre, resta stazionaria.

Ma come mai il rallentamento della produzione, prodotto dall’accrescimento del lavoro, si riporta sulla popolazione? È ciò che ci resta da esaminare.

Un primo fatto pare stabilito: la stessa forza, lo stesso principio di vita che presiede alla creazione dei valori, presiede pure alla riproduzione della specie. Il linguaggio primitivo fa fede dell’intuizione dell’umanità a questo riguardo; la stessa parola, nella Bibbia, serve ad esprimere i prodotti del lavoro e della generazione: Istae sunt generationes caeli et terrae, ecco i fatti del cielo e della terra; Hae sunt generationes Jacob, ecco gli atti della vita di Giacobbe, ecc. La lingua francese ha conservata questa metafora nel duplice senso del nome plurale oeuvres, che si dice, come il latino generatio e l’ebraico ialad, del lavoro e dell’amore. La vecchia parola besogner, presa in un senso oscuro, deriva dalla stessa idea. La parentela del lavoro e dell’amore si mostra più profonda ancora in questa frase popolare, che si dice di un essere ebete, stupido, senza gusto e vigore: “Egli lavora senza amore”. E questa metafora è passata fino agli strumenti meccanici del lavoro; il popolo dice canto vivo (spigolo), un taglio vivo; dice di una sega che taglia, di una lima che morde, che essa è un amore...

La conseguenza di quest’idea, tutta d’intuizione e di sentimento, è l’antagonismo naturale del lavoro e dell’amore. La vita dell’uomo, secondo il giudizio spontaneo del popolo, fugge alternativamente per due uscite, di cui l’una si chiude quando l’altra si apre; qui l’esperienza conferma la rivelazione dell’istinto. La facoltà industriale non si esercita che a spese della facoltà prolifica; questo può passare da un aforisma così di fisiologia come di morale. Il lavoro è per l’amore una causa attiva di raffreddamento; è il più potente di tutti gli anti-afrodisiaci, tanto più potente soprattutto, che esso intacca simultaneamente lo spirito e il corpo.

Non ho bisogno di dilungarmi oltre sopra un fatto di una verità così volgare, che si è poco rimarcato perché non se ne è saputo vedere l’importanza nell’economia del mondo. Così Malthus aveva osservato che i selvaggi d’America, conducendo una vita piena di tribolazioni e angosce, sono mediocremente portati all’amore; ma aggiunge che questa frigidità diminuisce rapidamente con l’abbondanza e il riposo. Pertanto Malthus, l’inventore del freno morale, che consacra 40 anni di una vita laboriosa a studiare il problema della popolazione, non pensa a generalizzare un fatto che lo avrebbe condotto alla vera soluzione. Del resto, come mai Malthus avrebbe potuto trarre da questo fatto tutte le conseguenze che vi si trovavano rinchiuse, quando non aveva saputo riconoscere la legge dell’accrescimento del lavoro, e sopra questa legge, la legge del progresso della ricchezza e la sua intima solidarietà col progresso della popolazione?

Ancora, gli economisti hanno rilevato la fecondità singolare della classe indigente; un uomo di vasta dottrina, Auguste Comte, ha anche segnalato questo fenomeno come una delle leggi più rimarchevoli dell’economia politica. Non si aveva cura di rimarcare nello stesso tempo che l’indigenza è per sua natura poco laboriosa, e che il povero, sottomesso a un lavoro meccanico senza alcuna spesa intellettuale, conserva sempre, per misera che sia la sua sussistenza, più forza di quello che non gli abbisogni per assicurare la sua deplorevole posterità.

La castità è compagna del lavoro; la mollezza è l’attributo dell’inerzia. Gli uomini che meditano, i pensatori energici, tutti questi grandi lavoratori, sono di mediocre capacità in servizio dell’amore. Pascal, Newton, Leibnitz, Kant e tanti altri dimenticarono, nelle loro contemplazioni profonde, ch’erano uomini. Il bel sesso li comprende; i geni di questa tempra gli ispirano poca attrattiva. “Lascia le donne”, diceva a Jean-Jacques la gentile veneziana, “e studia le matematiche”. Come l’atleta si preparava ai giuochi del circo con l’esercizio e con l’astinenza, l’uomo di lavoro fugge il piacere, abstinuit Venere et Baccho. Mirabeau morì malgrado la forza della sua costituzione per avere voluto aggiungere le prodezze dell’alcova ai trionfi della tribuna. Ora, se è una legge di necessità che noi diventiamo nel lavoro sempre migliori dei nostri padri, è di necessità eguale che nelle prove di amore riusciamo sempre meno valenti; come mai la popolazione non ne risentirebbe alla lunga di questo inevitabile raffreddamento?

Ma, non si mancherà di dire, eccoci ancora al restringimento, alla repressione, alla mutilazione. Estenuate la natura, e affermate che questo è creare l’equilibrio nell’umanità! Proscrivete presso gli altri i mezzi fisiologici, e ritornate alla fisiologia!... No, non è con un cerchio di ferro, come il toro e il verro, che l’uomo si farà condurre, è con la ragione e la libertà. Sfinito dal lavoro, non farebbe, perdendo la facoltà di amare, che cambiare di miseria. La Provvidenza verso di lui sarebbe sempre colpevole, la natura sempre matrigna. Chi vi garantisce allora l’efficacia della ricetta? Non è il lusso in amore che moltiplica la popolazione, sarebbe piuttosto l’astinenza. Qualche ora di riposo rendono alla natura tutta la sua potenza; troppo lungamente compressa, la passione divampa con maggior furia, e basta all’amore una scintilla per fabbricare un uomo. Non è servito niente a Bernardo, a Girolamo, a Origene, mortificare la loro carne col lavoro, il digiuno, le veglie, la solitudine; questa falsa disciplina ha fatto maggiori impudichi che il riposo, il vivere bene e la conversazione col bel sesso. San Paolo, il vaso d’elezione, non gridava, fra le sue immense fatiche: “Porto un demonio con me che mi molesta...”?

A questa recriminazione appassionata, mi pare di udire le mormorazioni degli Ebrei che gridarono a Mosè nella penuria del deserto: Rendeteci le carni e i pesci d’Egitto, e i suoi cetrioli, e i suoi poponi! La nostra anima è disseccata, non vogliamo più di questa manna!

Consolatevi, anime sensuali, la Provvidenza ha avuto pietà di voi. Volete della carne; avrete della carne fino al disgusto.

Il lettore ci ha senza dubbio prevenuti: non è affatto per una influenza fisiologica e fatale, ma per una impressione di virtù e di libertà che il lavoro deve agire sull’amore. Qualche momento ancora, e la nostra tesi sarà completa.

Nel lavoro, come nell’amore, il cuore si lega col possesso; i sensi al contrario si disgustano. Quest’antagonismo del fisico e del morale dell’uomo nell’esercizio delle sue facoltà produttive e prolifiche è il bilanciere della macchina sociale.

L’uomo, nel suo sviluppo, va senza posa dalla fatalità alla libertà, dall’istinto alla ragione, dalla materia allo spirito. È in virtù di questo progresso che esso si affranca poco a poco dalla schiavitù dei sensi, come dalla oppressione dei lavori penosi e ripugnanti. Il socialismo che, invece di elevare l’uomo verso il cielo lo spinge sempre verso il fango, non ha visto nella vittoria riportata sopra la carne che una causa nuova di miseria; come s’era vantato di vincere la ripugnanza del lavoro, con la distrazione e la divagazione, così ha tentato di combattere la monotonia del matrimonio, non con il culto delle affezioni, ma con l’intrigo e il cambiamento. Per quanto disgusto provi a rimestare queste immondizie, bisogna che il lettore si rassegni: è forse colpa mia, che non ho cura di anime, se, per stabilire qualche verità di senso comune, ho bisogno di stendere tutto l’apparato della logica?

Per il fatto che il lavoro è diviso, esso si specializza e si determina in ciascuno dei lavoratori. Ma questa specificazione o determinazione non deve essere considerata, relativamente al lavoro collettivo, come una espressione frazionaria; sarebbe mettersi dal punto di vista della schiavitù se si adottasse il principio con il quale l’utopia va lavorando di tutta forza alla restaurazione delle caste. Chi dice specialità, dice punto o sommità, l’etimologia lo prova: spiculum, spica, speculum, species, aspicio, ecc. La stessa radicale serve a designare l’azione di appuntare e l’azione di riguardare. Ogni specialità nel lavoro è una sommità dall’alto della quale ogni lavoratore domina e considera l’insieme dell’economia sociale, se ne fa il centro e l’ispettore. Ogni specialità nel lavoro è dunque, per la moltitudine e la varietà dei rapporti, infinita. Ne segue che solo con un sistema di transizioni centralizzate e coordinate nell’industria, nella scienza e nell’arte ogni lavoratore deve apprendere a vincere il disgusto e la ripugnanza al lavoro, non già mediante una varietà d’esercizi senza regola e senza prospettiva.

Nello stesso modo, col matrimonio l’amore si determina e si personalizza; ed è ancora con un sistema di transizioni tutte morali, la purificazione dei sentimenti, e il culto dell’oggetto a cui l’uomo ha consacrato la sua esistenza ch’egli deve trionfare del materialismo e della monotonia dell’amore.

L’arte, cioè la ricerca del bello, la perfezione del vero nella sua persona, nella sua donna e nei suoi ragazzi, nelle sue idee, nei suoi discorsi, nelle sue azioni, nei suoi prodotti, tale è l’ultima evoluzione del lavoratore, la fase destinata a chiudere gloriosamente il cerchio della natura. L’Estetica, e al disopra dell’estetica la Morale, ecco la chiave di volta dell’edificio economico.

L’insieme della pratica umana, il progresso della civiltà, le tendenze della società fanno testimonianza di questa legge; tutto ciò che fa l’uomo, tutto ciò ch’egli ama e odia, tutto ciò che lo affeziona e l’interessa, diventa per lui materia di arte. Egli lo compone, lo pulisce, l’armonizza finché, col prestigio del lavoro, ne fa, per così dire, sparire la materia.

L’uomo non fa niente secondo la natura; è, se oso esprimermi in tale modo, un animale acconciatore. Niente gli piace s’egli non vi apporta modificazioni: tutto ciò ch’egli tocca bisogna che sia da lui aggiustato, corretto, depurato, rifatto. Per il piacere dei suoi occhi egli inventa pittura, architettura, arti plastiche, ornamentazione, tutto un mondo di piccole cose di cui non saprebbe indicare la ragione e l’utilità, ma ciò è per lui un bisogno dell’immaginazione, e così gli piace. Per le sue orecchie, egli corregge la lingua, conta le sillabe, misura i tempi della voce. Poi inventa la melodia e l’accordo, accoppia orchestre alle voci potenti e melodiose, e nei concerti crede di udire la musica delle sfere celesti e il canto degli spiriti invisibili. Che gli serve mangiare solamente per vivere? occorrono al suo cibo delle variazioni, della fantasia, un nuovo genere. Trova quasi molesto nutrirsi; non cede alla fame, transige con lo stomaco. Piuttosto che pascolare il suo nutrimento si lascerebbe morire di fame. L’acqua pura della rocca non è nulla per lui, inventa l’ambrosia e il nettare. Le funzioni della vita che non può giungere a dominare, le chiama vergognose, disoneste, ignobili. Apprende a marciare e a correre. Ha un modo di coricarsi, di levarsi, di sedersi, di vestirsi, di battersi, di governarsi, di farsi giustizia; ha trovato anche la perfezione dell’orribile, il sublime del ridicolo, l’ideale del brutto. Infine si saluta, si testimonia rispetto; ha per la sua persona un culto minuzioso, si adora come una divinità!...

Tutte le azioni, i movimenti, i discorsi, i pensieri, i prodotti, le affezioni dell’uomo portano questo carattere di artista. Ma quest’arte stessa è la pratica delle cose che la rivela, è il lavoro che la sviluppa; in modo che, più l’industria dell’uomo si avvicina all’ideale, più esso stesso si eleva al di sopra delle sensazioni. Ciò che costituisce l’attrattiva e la dignità del lavoro è di creare col pensiero, di affrancarsi da ogni meccanismo, d’eliminare da sé la materia. Questa tendenza, debole ancora nel ragazzo avvolto tutto nella vita sensitiva, più marcata nel giovane fiero della sua forza e della sua destrezza, ma sensibile di già al merito dello spirito, si manifesta di più in più nell’uomo maturo. Chi non si è imbattuto in quegli operai che una lunga assiduità all’opera aveva resi spontaneamente artisti, a cui la perfezione del lavoro era un bisogno imperioso tanto quanto la sussistenza, e che, in una specialità in apparenza meschina, scoprivano tutto a un tratto brillanti prospettive?...

Ora, come l’uomo, per la sua natura di artista, tende a idealizzare il suo lavoro, così è un bisogno per lui d’idealizzare anche il suo amore. Questa facoltà dell’essere, lo penetra in tutto ciò che la sua immaginazione ha di più fino, di più potente, di più incantatore, di più poetico. L arte di fare all’amore, arte conosciuta da tutti gli uomini, la più coltivata, la meglio sentita di tutte le arti, tanto variata nelle sue espressioni quanto ricca nelle sue forme, ha preso il suo più grande sviluppo ai tempi della potenza del cattolicesimo; ha riempito tutto il Medioevo; occupa da sola la società moderna col teatro, i romanzi, le arti di lusso, le quali da quando esistono gli servono da ausiliari. L’amore, infine, come materia d’arte, è il grande, il serio, quasi l’unico problema dell’umanità.

L’amore dunque, non appena si è determinato e fissato col matrimonio, tende ad affrancarsi dalla tirannia degli organi; e questa tendenza imperiosa, di cui l’uomo è avvertito dal primo giorno dalla tepidezza dei suoi sensi e sulla quale tante persone si fanno così miseramente illusione, si esprime col proverbio: il matrimonio è la tomba, cioè l’emancipazione. dell’amore. Il popolo, il cui linguaggio è sempre concreto, ha inteso qui per amore la violenza del prurito, il fuoco del sangue; è questo amore, interamente fisico, che, secondo il proverbio, si estingue nel matrimonio. Il popolo, nella sua castità nativa e nella sua delicatezza infinita, non ha voluto rivelare il segreto del letto nuziale; ha lasciato alla saggezza di ciascuno la cura di penetrare il mistero e di trarre utilità dall’avvertimento...

Esso sapeva non pertanto che il vero amore comincia per l’uomo con questa morte, e che un effetto necessario del matrimonio è che la galanteria si cambi in culto; che ogni marito, qualunque aspetto mostri è, in fondo dell’anima, idolatra; che se esiste fra gli uomini cospirazione ostensibile per scuotere il giogo del bel sesso, è una convenzione tacita per adorarlo; che la debolezza sola della donna obbliga di tempo in tempo l’uomo a ripigliare l’impero; che, salvo queste rare eccezioni, la donna è sovrana, e che là è il principio della tenerezza e dell’armonia coniugale...

È un bisogno irresistibile per l’uomo, bisogno che nasce spontaneamente in lui dal progresso della sua industria, dallo sviluppo delle sue idee, dal raffinamento dei suoi sensi, dalla delicatezza delle sue affezioni, di amare la sua donna come ama il suo lavoro, di un amore spirituale; di aggiustarla, di vestirla, di abbellirla. Più l’ama e più la vuole brillante, virtuosa, elegante; aspira a fare di lei un capolavoro, una dea. Vicino a lei dimentica i suoi sensi, non segue più che l’immaginazione; questo ideale ch’egli ha conosciuto e che crede toccare, ha paura che le sue mani lo sporchino; considera come nulla ciò che altra volta, nell’ardore dei suoi desideri, gli sembrava tutto.

Il popolo ha un orrore istintivo, squisito, di tutto ciò che ricorda la carne e il sangue; l’uso degli eccitanti bacchici e afrodisiaci, così frequenti presso gli orientali, stimolano l’appetito per l’amore, ripugna alle razze civili; è un oltraggio alla beltà, un controsenso dell’arte.

Tali costumi non si producono che all’ombra del dispotismo, con la distinzione delle caste e in aiuto dell’ineguaglianza; essi sono incompatibili con la giustizia...

Ciò che costituisce l’arte è la purità delle linee, la grazia dei movimenti, l’armonia dei toni, lo splendore del colorito, la convenienza delle forme. Tutte queste qualità dell’arte sono ancora gli attributi dell’amore da cui prendono i nomi mistici di castità, pudore, modestia, ecc. La castità è l’ideale dell’amore; questa proposizione non ha più bisogno, d’ora innanzi, che d’essere enunciata per essere subito ammessa. A misura che il lavoro aumenta, siccome l’arte, esce sempre dal mestiere, perde ciò che aveva di ripugnante e di penoso; così pure l’amore, a misura che si fortifica, perde le sue forme impudiche e oscene. Mentre il selvaggio gode da bestia, si diletta nell’ignoranza e nel sonno, il civilizzato cerca di più in più l’azione, la ricchezza, la beltà; egli è nello stesso tempo industrioso, artista e casto.

Pigrizia e lussuria sono vizi prossimi, se non vizi tutt’affatto identici.

Ma l’arte, nata dal lavoro, riposa necessariamente su un’utilità e corrisponde a un bisogno; considerata in se stessa, l’arte non è che la maniera più o meno squisita di soddisfare questo bisogno. Ciò che fa la moralità dell’arte, ciò che conserva al lavoro la sua attrattiva, ne sveglia l’emulazione, ne eccita la foga, ne assicura la gloria, è dunque il valore.

Così, ciò che fa la moralità dell’amore e che ne consuma la voluttà, sono i fanciulli. La paternità è il sostegno dell’amore, la sua sanzione, il suo fine. Ottenuta, l’amore ha compiuto la sua carriera, sparisce, o per meglio dire, si metamorfosa...

Ogni lavoratore deve diventare artista nella specialità che ha scelto e secondo la misura di questa specialità. Similmente, ogni essere nato dalla donna, nutrito, allevato sui ginocchi della donna, figlio, amante, sposo e padre, deve realizzare in sé l’ideale dell’amore, esprimerne successivamente tutte le forme.

Dall’idealizzazione del lavoro e dalla santità dell’amore risulta ciò che il consenso universale ha chiamato virtù, o come chi dicesse la forza (valore) propria dell’uomo, per opposizione alla passione, forza dell’essere fatale, dell’essere divino. Il linguaggio consacra questo rapporto: virtù, latino virtus, da vir, l’uomo; greco, areté o andreia, da ares o aner, l’uomo. I sinonimi sono: latino, fortitudo, da fero, portare, fortis, portatore, robur, quercia e forza; greco, romé, forza impetuosa, vigore naturale. L’ebraico dice: geborrah, da gebar, l’uomo, e per contro, eïal, forza vitale; eïl, maschio degli animali ruminanti, da dove elohim, dio.

La virtù dell’uomo, per opposizione alla forza divina, è dunque il suo affrancamento dalla natura con l’ideale; è la libertà, è l’amore in tutte le sfere dell’attività e della conoscenza. Il contrario della virtù è il brutto, l’impuro, il discorde, lo sconveniente, la vigliaccheria, la costrizione.

È per la virtù (sotto questa parola d’ora innanzi abbiamo una idea) che l’uomo, liberandosi dalla fatalità, arriva gradatamente alla piena possessione di se stesso; e, come nel lavoro l’attrattiva succede naturalmente alla ripugnanza, così, nell’amore, la castità rimpiazza spontaneamente la lascivia. Da questo momento, l’uomo, santificato in tutte le sue potenze, soggiogato dal lavoro, nobilitato dall’arte, spiritualizzato dall’amore, comanda a tutto ciò che nel suo essere è il prodotto della natura, come a tutto ciò che viene dalla ragione e dal libero arbitrio. L’uomo supera via via il dio; la ragione regna sulla passione, e in seguito alla ragione si manifesta l’equilibrio, cioè la serenità, la gioia.

L’uomo non è più allora quello schiavo disonorato che guarda la donna e piange di rabbia; ma è un angelo in cui la castità, lo sdegno della materia, si sviluppa nello stesso tempo della virilità. Come il lavoro servile mette nell’uomo una impotenza desolata e maledetta, così il lavoro libero, reso attraente dalla scienza, dall’arte e dalla giustizia, genera la castità attraente, l’amore; e ben presto, con l’aiuto di questo ideale, lo spirito guadagnando sempre sulla carne, la perfezione dell’amore produce la ripugnanza del sesso...

L’amore, quanto all’opera generatrice, ha dunque il suo limite proprio; la voluttà coniugale ha il suo periodo nella vita umana, come la fecondità e l’allattamento. E in questa nuova evoluzione come in tutte le altre, l’uomo, ministro della natura e vate dei destini, non fa la legge, ma la scopre e l’esegue.

Io divido dunque, col sentimento universale, la vita dell’uomo in 5 periodi principali: infanzia, adolescenza, gioventù, virilità o periodo di generazione, e maturità o vecchiaia. L’uomo, durante il primo periodo, ama la donna come madre; nel secondo, come sorella; nel terzo, come amante; nel quarto, come sposa; nel quinto e ultimo, come figlia.

Questi periodi dell’amore corrispondono ai periodi simili della vita economica: nell’infanzia l’uomo non esiste, per così dire, che allo stato di rampollo o come i materiali per la costruzione e il mantenimento delle macchine. È la speranza, il pegno, pignus, della società. Nell’adolescenza è apprendista; nella gioventù, compagno; nella virilità, padrone; nella maturità, veterano. Inutile aggiungere che questa duplice evoluzione s’intende così della donna come dell’uomo.

Le forme dell’amore, come i gradi nell’industria, sono esclusive e incompatibili, cioè non possono né esistere simultaneamente nello stesso individuo né applicarsi invariabilmente alla stessa cosa, alla stessa persona. Come l’industriale percorre successivamente tutti gli elementi del lavoro, tutte le parti della specialità che l’attira; così non può amare nello stesso tempo, di un amore caratteristico, che sua madre, sua sorella, la sua amante, sua moglie o sua figlia; e la persona che ama a uno di questi titoli, non l’amerà mai a un altro. È la natura stessa che ha stabilito questa legge, ispirandoci per gli amori raddoppiati una certa ripugnanza che ha fatto dare il nome d’incesti, cioè, impurità, falsa determinazione dell’amore. Ogni amore, eliminato da un altro, rientra nella categoria generale dell’amicizia, e si perde nel torrente delle affezioni. L’uomo che sposa la sua amante (caso più ordinario) fa, fino a un certo punto, eccezione alla regola, in questo senso egli ama due volte di seguito, di un amore veramente caratterizzato, la stessa persona; ma non già nel senso che potrebbe vivere con la sua amante come con la propria sposa, ciò che costituisce la specie d’incesto chiamato concubinato o fornicazione semplice, e che è la più grande profanazione della donna; né gli è facoltativo amare in due siti differenti, ciò che costituisce l’adulterio. Del resto, l’amore libero, quest’amore che naturalmente precede l’unione, non ha per conseguenza necessaria il matrimonio; è anche meglio per la società e per le persone che quelli che si maritano abbiano provato diversi amori; e questo basta per distinguere l’amore libero dall’amore coniugale, e riguardarli l’uno e l’altro come incompatibili. Un amore può tenere luogo di tutti gli altri e prolungarsi al di là del termine fissato dalla natura; tale è il celibe, che conserva fino alla vecchiaia il suo amore filiale; tale è pure il padre che, divenuto vedovo prima del tempo, concentra tutte le sue affezioni sulla testa dei suoi figli. L’uomo che non ha conosciuto queste forme di amore, che non ne distingue le gradazioni, che non ne intende le delicatezze, quest’uomo non conosce l’amore; non ne sa che le chiacchiere, ne ragiona come gli scrittori di romanzi. Così il lavoro e l’amore si svolgono nella vita umana in periodi paralleli. Nella prima età l’uomo, tutto dedito alla sensazione e all’istinto, non è ancora impegnato come lavoratore; riceve e non rende, consuma e non produce niente. Sensibile solo all’amore di sua madre, non conosce alcun altro sentimento. L’amicizia stessa l’ignora.

Ben presto incomincia a ragionare sulle sue affezioni; impara le forme dell’urbanità, gli elementi del sapere e del fare; è diventato studente e apprendista; ha dei compagni, la sua anima fresca e dischiusa esala il dolce profumo dell’amore fraterno. A questo periodo grazioso dell’adolescenza succede la gioventù, età poetica dell’emulazione e delle lotte ginnastiche, come dei puri e timidi amori. Quale ricordo, per un cuore d’uomo giunto all’ultima età, di essere stato nella sua verde gioventù il guardiano, il compagno, il partecipe della verginità di una ragazza! Il secolo deride queste vere voluttà; il socialismo e la letteratura romantica hanno messa la nostra generazione in foia; la filosofia dà l’esempio e i belli spiriti femmine servono da matrone.

Ma l’eccesso della licenza è esso stesso una prova di questo bisogno di ideale, fuori del quale non c’è per l’uomo né felicità né dignità. La società sogna la sua metamorfosi in questa folla di descrizioni erotiche, le une risplendenti di purità, le altre eccessive come la passione, ma sempre improntate di una raffinatezza meravigliosa e per conseguenza sempre meno grossolane, meno materiali. Vedete George Sand, martire, a suo modo, del pudore che essa ha gettato sotto i piedi. Cortigiana come Aspasia e panegirista della virtù come Lucrezia, George Sand scrive Jeanne e protesta, con questa reazione del suo genio, contro le basse passioni dei suoi impuri adoratori...

Ma l’ora suona in cui la sposa deve esser data allo sposo...

È il grande periodo del lavoro che comincia, è il momento in cui l’uomo gode della pienezza delle sue facoltà, in cui l’uomo fa vibrare tutte le corde dell’animo, in cui la presenza dei ricordi gli rende sensibili tutte le delizie del cuore.

Figlio, fratello, amante, sposo, presto padre, ama da per tutto, ama a saturazione; la sua vita è piena.

È nel fiore del genio e della beltà: ormai non può più che decrescere.

Appena giunto al colmo dei suoi desideri, l’amore gli sembra perdere un poco della sua devozione e della sua purezza, e tutti i suoi sforzi tenderanno d’ora in poi a ritenere questo ideale che di già scappa!...

Il periodo di fecondità dura da 10 a 15 anni. Dieci anni di pratica coniugale devono bastare per soddisfare un uomo, a meno che la sua intelligenza non declini o il suo cuore non si depravi. In questo caso la passione, invece di ammortizzarsi, rinasce dalla sazietà e cerca nuovi oggetti; il furore sessuale riappare divorante, ed è così che scoppiano quegli uragani che portano l’amarezza e l’onta nelle famiglie. Non più amore, il piacere per il piacere, come l’arte per l’arte. Il marito fa della sua donna una macchina da godimento; Circe presenta a Ulisse la coppa che nello stesso tempo gli rende il vigore e lo cambia in bestia; godere, godere ancora, godere senza fine, tale è la miserabile condizione di quelli che non amano più...

Viene alla fine l’epoca di declino, in cui il sentimento si determina in senso inverso. All’amore coniugale succede, nel cuore del padre di famiglia, in faccia della sua figlia che si fa grande, un sentimento d’inesprimibile tenerezza che scaccia a poco a poco dal cuore di questo padre gli ultimi fumi del piacere. Tutta per la sua famiglia, la madre non ambisce più, dal suo sposo, che il titolo di amica; per una infedeltà novella, colui che preferì una volta, a suo fratello, a suo padre, alla sua tenera madre, lo abbandona a sua volta per il suo figlio adolescente. Ed ecco che perfino la curiosità formidabile dei fanciulli diventa qui una rivelazione: Maxima debetur puero reverentia! [Giovenale]. Alla presenza della loro giovane famiglia, una voce segreta invita gli sposi alla continenza: padri e madri, il pudore ve lo comanda, divezzatevi!...

“L’uomo prima dei 18 anni compiuti, la donna prima dei 15 anni compiuti, non possono contrarre matrimonio”. (Cod. Civ., art. 144).

Il legislatore non si è occupato che di capacità fisica; ha parlato non da sovrano ma da naturalista. E come se avesse timore d’essere ancora in ritardo, aggiunge, art. 145: “È permesso al re di accordare delle dispense”.

Fortunatamente la ragione pubblica e la forza delle cose correggono sopra questo punto l’aberrazione della legge. Si prende moglie quando si è uomo e si guadagna di che vivere; non viene in mente a nessuno che un ritardo, necessario per completare l’educazione e che deve compiere una ricerca piena di attrattive, sia una privazione.

Ora se, relativamente all’epoca del matrimonio, il senso comune non ha creduto che una latitudine data dalla natura fosse un ordine, si può dire che la stessa latitudine, presa in senso opposto, sia una legge, e che vi abbia obbligo per l’uomo, una volta sposato, di esercitare la sua facoltà prolifica fino all’estinzione del calore vitale?...

L’accrescimento possibile della popolazione, dice benissimo Loudon, non è la stessa cosa che il suo accrescimento naturale; pur tuttavia la durata della potenza generatrice non è di necessità la misura della sua azione. Presso gli animali i sessi si fuggono durante la gestazione e l’allattamento; l’uomo ha una legge che gli è propria, legge più in rapporto con la sua dignità, è l’adolescenza dei suoi figli. Ho detto adesso che il rispetto dei figli faceva ai parenti un dovere di astenersi; considerazioni più gravi ancora vengono a confermare questa legge.

Per prima cosa, di fronte ai figli, la giustizia.

L’uomo, prima della pubertà, può rendersi utile; l’educazione non è, propriamente parlando, che uno scambio di lezioni del padrone con i servizi dell’apprendista, servizi che, diventando sempre più grandi, servono nello stesso tempo a ricompensare le cure del padrone e a coprire le anticipazioni dei parenti. Così vuole la ragione popolare che, nel contratto di tirocinio ci rivela i veri princìpi dell’insegnamento. Fin quando il fanciullo non produce niente, la sua sussistenza intera è a carico del padre, non ha davanti a lui alcun diritto, egli non può lagnarsi che gli affianchi degli associati. Ma quando diventa capace di lavoro, dargli dei fratelli al cui mantenimento contribuisce, è esigere da lui più di quello che si è ricevuto, è farlo padre di quelli che non ha generato, è un espellerlo dalla famiglia. C’è dunque un limite naturale, indicato dalla giustizia, alla procreazione dei figli: questo motivo, dedotto dalla teoria del tirocinio, è sovrano.

Da parte degli sposi la castità diventa un dovere imperioso di modestia e d’onestà. È qui soprattutto che bisogna distinguere la legittimità di convenzione dalla legittimità di ragione. Allorché, verso il quarantesimo anno, l’uomo comincia a perdere la poesia e la vivacità di sentimento, la delicatezza, la grazia e la purità di forme che distinsero la sua giovinezza, il canbiamento sopravvenuto in tutto il suo essere gli comanda di rinunziare all’amore. Quando la beltà, che rendeva tutto casto, va cancellandosi, la voluttà si degrada e volge alla turpitudine. Perché l’amore dei vecchi è ridicolo e disgustoso? Perché è privo delle condizioni che lo rendono esteticamente legittimo: realizzato nei sensi flosci, non è più l’amore, ne è la fatica. Che Omero ci mostri Paride ed Elena che dormono insieme sopra il letto sospeso, essi sono belli malgrado il loro adulterio; colpevoli d’ingiustizia, la gioventù, la grazia, lo spirito, sembrano coprirli ancora di un velo d’onestà. Ma Saturno e Rea, Deucalione e Pirra, Davide e Abisag, mi ributtano; il titolo di sposi non giova, essi sono osceni...

L’uomo perde i suoi diritti di marito se l’amore diventa in lui una contraddizione. Che la sua donna gli sia sacra! che essi si riguardino come puri spiriti, in verità, essi non hanno più corpi. Se l’uomo persiste a gustare delle voluttà che la degradazione dei sensi gli interdice, brucerà il resto dei suoi giorni di una fiamma impudica; i suoi amori postumi lo renderanno odioso alla sua donna, faranno arrossire i suoi figli e solleveranno contro di lui lo sprezzo di tutti. La sua vecchiaia licenziosa sarà disonorata. La sua donna, divenuta altera per le sue esigenze vergognose, lo tratterà da schiavo; la sua ragione si estinguerà nell’ignominia.

Giustizia, pudore, dignità, tutto fa qui al padre di famiglia una legge di astinenza. Ora, ciò che la ragione ha previsto, il lavoro, senza attendere l’indebolimento della natura, lo compie. L’uomo presso il quale il lungo lavoro ha sviluppato la virtù, l’uomo in cui l’amore, affrancato dalla tirannia delle passioni, s’identifica col bello, rinunzia da se stesso, senza sforzo e senza rimpianto, con la stessa vaghezza che altra volta glieli rendevano cari, a dei piaceri che offenderebbero la sua delicatezza, e che non hanno più interesse per lui che come un bene riservato ai figli.

Secondo questi princìpi, il matrimonio avendo luogo per l’uomo a 28 anni compiuti, per la donna a 21, l’uso delle nutrici sparirebbe nell’eguaglianza; essendo la durata dell’allattamento ridotta a 15 o 18 mesi, il periodo di fecondità potendo andare da 10 a 15 anni, il numero dei figli usciti da uno stesso matrimonio si eleverebbe difficilmente al di sopra di cinque.

Se si deducano da questo numero:

– Casi di sterilità, vedovanze, ritardi nel matrimonio, accidenti, interruzioni: 1,5

– Morti prima dell’età nubile (la cifra supera oggi di molto il 50%): 2,5

– Celibi: 0.5

– Totale: 4,5

Crescendo in tal modo la popolazione di un decimo per ogni periodo di circa trent’anni, il raddoppio avrà luogo in tre secoli.

Ma il numero delle nascite tende continuamente a decrescere e il periodo di raddoppiamento ad allungarsi, per due ragioni: 1° L’abbreviazione del periodo di fecondità per l’aumento incessante del lavoro e lo sviluppo dei nuovi costumi; 2° Il numero crescente di celibi.

Non è vero, nell’ordine della società, che tutti gli uomini siano predestinati al matrimonio e alla paternità, benché tutti lo siano all’amore. È un privilegio dell’uomo potere vivere col solo sviluppo della virtù e senza perdita per l’amore, in una perfetta verginità. Così, passata che sia la follia amorosa che tormenta la nostra generazione, il numero dei vergini, di quelli, dice il Vangelo, qui se castraverunt propter regnum coelorum, deve aumentare tutti i giorni; e se si domanda quali sono quelli che, avendo la facoltà del matrimonio, consentiranno al sacrificio del celibato, io rispondo senza esitare: quegli stessi che oggi vivono nel libertinaggio. Il celibato, viziato nei suoi motivi e nelle sue cause, ridiventerà onorevole e puro; tale è la legge dei contrari, legge che per noi è la parola stessa del destino.

Il cristianesimo ha avuto il presentimento di questo avvenire quando ha esaltato la verginità al disopra di tutte le virtù e ne ha fatto un obbligo preciso per i suoi preti. In questo, come in tante cose, il cristianesimo è stato profetico; era la spontaneità sociale che, a istigazione del popolo, si esprimeva per la bocca dei papi, attendendo che la riflessione parlasse essa stessa negli scritti dei filosofi. Il cristianesimo ha prodotto l’idea dell’amore casto, del vero amore; esso ha conosciuto la donna, non come l’associata né l’eguale dell’uomo, ma come parte indivisa dell’associazione umana: os ex ossibus meis, et caro de carne mea. Esso ha distinto l’amore coniugale dagli altri amori; mentre l’indiano lo confondeva con l’amore fraterno, l’arabo lo abbassava al disotto del concubinato con la poligamia e la servitù, e il romano lo assimilava all’amore paterno nella legge che faceva entrare la madre nella successione per una parte eguale a quella di ciascuno dei suoi figli. Il cristianesimo insomma ha rivelato al mondo la forma più pura dell’amore nella verginità volontaria, la quale non è altro, secondo l’insegnamento della Chiesa, che l’unione mistica dell’anima col Cristo, cioè uno sposalizio perpetuo.

Che cos’è, in effetti, ciò che l’uomo adora nella madre, nella sorella, nell’amante, nella sposa, nella figlia? È se stesso, è l’ideale dell’umanità che gli appare sotto le forme più seducenti e più tenere. La mitologia e il linguaggio ce lo rivelano. L’uomo ha effeminato tutte le virtù; ha votato loro un culto, non come a degli dèi, ma a delle dee. Temi, Venere, Igea, Pallade, Minerva, Ebe, Cerere, Giunone, Cibele, le Muse, cioè la giustizia, la beltà, la santità, la saggezza, l’eloquenza, la gioventù, l’agricoltura (l’economia politica degli antichi), la fedeltà coniugale, la maternità, le scienze e le arti! Il sesso di questi nomi e di queste divinità mostra meglio di ogni analisi e di ogni testimonianza ciò che in tutti i tempi la donna è stata per l’uomo.

Ora, vi sono anime in cui il senso estetico e l’amore che ne deriva è così vivo e puro che non hanno, per così dire, bisogno di alcuna immagine o realtà per cogliere l’ideale umano ch’esse adorano, o piuttosto questo ideale si rivela dappertutto, egualmente ai loro occhi, come diceva di se stesso il celebre David, la bruttezza per esse non esiste; la loro anima è troppo alta, la loro intelligenza troppo pura, perché esse la scorgano. Fénelon, Vincenzo de Paoli, santa Teresa, tante vergini e tanti santi! Per questi cuori eletti, uno sposo, una sposa, i figli sono cose superflue; le forme visibili dell’amore sono al disotto di essi, sono ritratti che li tormentano più che non li aiutino; essi godono dell’amore senza reazione. Tutto il genere umano sostituisce padri e madri, fratelli e sorelle, sposi e spose, figli e figlie. Ogni altra unione sarebbe per loro una degradazione, un supplizio.

Se si pretende sottilizzare, ritorno indietro, a quella formidabile legge dell’aggravamento del lavoro, e prego che mi si dica ciò che avverrà di questo irresistibile progresso che, spingendoci con una forza vittoriosa ad aumentare senza posa il nostro capitale e il nostro benessere, aggiunge sempre qualche istante al nostro compito, qualche grano al nostro carico. Di due cose l’una: o l’umanità deve diventare con il lavoro una società di santi, oppure, col monopolio e la miseria, la civiltà non è che una immensa priapea. Al passo con cui vanno le cose, e a meno di una riforma che cambi integralmente le condizioni del lavoro e del salario, ogni aumento di fatica e, per conseguenza, ogni accrescimento di ricchezza, ci sarà ben presto diventato impossibile. Molto tempo prima che la terra ci manchi, la nostra produzione si arresterà; il pauperismo e il delitto cresceranno sempre.

Nella maggior parte dei paesi civilizzati, la media del lavoro è già di dodici ore. Ora, perché la popolazione si raddoppi, occorre alla società una produzione quadrupla. È possibile che questo quadruplicamento abbia luogo nella nostra società ineguale, con le spoliazioni del monopolio e la tirannia della proprietà? Che se questo aumento di lavoro e di ricchezza, nelle condizioni attuali dell’economia sociale, è impossibile, è di tutta necessità che il lavoratore, se si vuole che renda di più, esca dalla servitù. Ma, per affrancare il lavoratore dall’oppressione in cui lo tiene la barbarie delle sue facoltà, bisogna disciplinarlo con l’educazione, nobilitarlo col benessere, elevarlo con la virtù. Ora, che cos’è la virtù? che cos’è il bello? che cos’è la disciplina? che cos’è il lavoro? Noi giriamo in un cerchio; ma questo cerchio è quello dell’umanità, è quello della Provvidenza. L’umanità stabilisce il suo equilibrio con l’utile, col bello, col giusto e il santo; la questione presentata dall’Accademia: “Quale influenza i progressi e il gusto del benessere materiale esercitano sulla moralità dei popoli”, è risolta con ogni altra; vi è identità fra il benessere e la virtù.

XIV. Riassunto e conclusione

Si è detto di Newton, per esprimere l’immensità delle sue scoperte, che aveva rivelato l’abisso dell’ignoranza umana. Non si tratta qui di Newton, e nessuno può rivendicare nella scienza economica una parte eguale a quella che la posterità assegna a questo grand’uomo nella scienza dell’universo. Ma oso dire che c’è qui più di ciò che ha indovinato Newton. La profondità dei cieli non eguaglia la profondità dell’intelligenza, in seno alla quale si muovono meravigliosi sistemi. Si direbbe una regione nuova, sconosciuta, che esiste fuori dello spazio e del tempo, come i regni celesti e le dimore infernali, e sulla quale il nostro occhio piomba, con una muta ammirazione, come in un abisso senza fondo.

Non secus ac si quis penitus vi terra dehiscens
Infernas reseret sedes et regna recludat
Pallida, Dìs invisa, superque immane barathrum
Cernatur, trepidentque immisso lumine Manes.
(Virgilio, Eneide, lib. VIII)

Si spingono, si urtano, si bilanciano forze eterne; si svelano i misteri della Provvidenza e i segreti della fatalità appaiono allo scoperto. È l’invisibile che si fa visibile, l’impalpabile reso materiale, l’idea diventata realtà, e realtà mille volte più meravigliosa, più grandiosa che le più fantastiche utopie.

Sino a ora non vediamo, nella sua semplice formula, l’unità di questa vasta macchina, la sintesi di questi giganteschi ingranaggi, dove si tritano il benessere e la miseria delle generazioni e che formano una creazione nuova, ci sfugge ancora. Ma già sappiamo che nulla di ciò che si passa nell’economia sociale ha esempio nella natura; siamo costretti, per fatti senza analogie, ad inventare senza posa nomi speciali, creare una nuova lingua. È un mondo trascendente, i cui princìpi sono superiori alla geometria e all’algebra, le cui potenze non derivano né dall’attrazione né da alcuna forza fisica, ma si servono della geometria e dell’algebra come di strumenti subalterni, e prendono per materiali le potenze stesse della natura; un mondo, infine, libero dalle categorie di tempo, spazio, generazione, vita e morte, dove tutto sembra nello stesso tempo eterno e fenomenale, simultaneo e successivo, limitato e illimitato, ponderabile e imponderabile... Che dirò di più? è la creazione stessa presa, per così dire, sul fatto! E questo mondo che ci appare come una favola, che rovescia le abitudini giudiziose e non cessa di smentire la ragione; questo mondo che ci avviluppa, ci penetra, ci agita senza che possiamo vederlo altrimenti che con lo spirito, toccarlo a segni, questo mondo strano è la società, siamo noi! Chi ha visto il monopolio e la concorrenza, se non per gli effetti, cioè per segni? Chi ha toccato il credito e la proprietà? Che cos’è la forza collettiva, la divisione del lavoro e il valore? E pertanto, che cosa di più forte, di più certo, di più intelligibile, di più reale che tutto questo? Guardate da lontano quel carro tirato da otto cavalli sopra un terreno battuto e condotto da un uomo vestito all’antica; non è che una massa di materia mossa su quattro ruote da una forza animale. Non scoprite là, in apparenza, che un fenomeno di meccanica determinato da un fenomeno di fisiologia, al di là del quale non vedete più niente. Penetrate di più: domandate a quest’uomo ciò che fa, ciò che vuole, dove va, in virtù di quale pensiero, di quale titolo fa girare questa vettura, e allora vi mostrerà una lettera, sua autorità, sua provvidenza, come egli stesso è la provvidenza del suo equipaggio. Voi leggerete in questa lettera ch’egli è vetturino, che in questa qualità opera il trasporto di una certa quantità di merci, a tanto secondo il peso e la distanza; che deve fare il suo trasporto per la tale strada e nel tale tempo, sotto pena di ritenuta sul prezzo del servizio; che questo servizio implica, dalla parte del vetturino, responsabilità delle perdite e avarie provenienti da altre cause che da forza maggiore e dal vizio proprio degli oggetti; che nel prezzo di vettura è compresa o non è compresa l’assicurazione contro gli accidenti imprevisti, e mille dettagli che sono lo scoglio del diritto e il tormento dei giureconsulti. Quest’uomo, in una carta grande come la mano, vi rivela un ordine infinito, mescolanza inconcepibile d’empirismo e di ragione pura, e che tutto il genio dell’uomo, assistito dall’esperienza dell’universo, sarebbe stato impotente a scoprire, se l’uomo non fosse uscito dall’esistenza individuale per entrare nella vita collettiva.

In effetti, di queste idee di lavoro, valore, cambio, circolazione, consumo, responsabilità, proprietà, solidarietà, associazione, ecc., dove sono i tipi? chi ne ha forniti gli esempi? cos’è questo mondo metà materiale, metà spirituale, metà necessità, metà finzione? cos’è questa forza chiamata lavoro che ci trascina con tanta maggiore certezza, quanto più ci crediamo liberi? cos’è questa vita collettiva che ci brucia con una inestinguibile fiamma, causa di gioie e tormenti? Finché viviamo, siamo, senza avvederci, e secondo la misura delle nostre facoltà e la specialità della nostra industria, delle molle che pensano, delle ruote che pensano, dei rocchetti che pensano, dei pesi pensanti, ecc., di una immensa macchina che pensa pure e che va da sola. La scienza ha per principio l’accordo della ragione e dell’esperienza, ma non crea né l’una né l’altra. Ed ecco, al contrario, che ci appare una scienza nella quale niente ci è dato a priori, né dall’esperienza né dalla ragione; una scienza dove l’umanità trae tutto da se stessa, noumeni e fenomeni, universali e categorie, fatti e idee; una scienza che, invece di consistere semplicemente, come ogni altra scienza, in una descrizione ragionata della realtà, è la creazione stessa della realtà e della ragione!

Così, l’autore della ragione economica è l’uomo; il creatore della materia economica è l’uomo; l’architetto del sistema economico è ancora l’uomo. Dopo aver prodotto la ragione e l’esperienza sociale, l’umanità procede alla costruzione della scienza sociale nella stessa maniera delle scienze naturali; accorda insieme ragione ed esperienza che si è da se stessa date, col più inconcepibile prodigio, mentre tutto in essa viene dall’utopia, i princìpi come gli atti, essa non perviene a conoscersi che previa esclusione dell’utopia.

Il socialismo ha ragione di protestare contro l’economia politica e di dire: non è altro che una consuetudine. E l’economia politica ha ragione di dire del socialismo: non è che un’utopia senza realtà né applicazione possibile. Ma l’uno e l’altra negando a volta a volta il socialismo, l’esperienza dell’umanità, l’economia politica, la ragione dell’umanità; tutte e due mancano delle condizioni essenziali della verità umana.

La scienza sociale è l’accordo della ragione e della pratica sociale. Ora, sarà concesso al nostro secolo di contemplare nel suo splendore e nella sua armonia sublime questa scienza, di cui i nostri maestri non hanno scorto che rare scintille!...

Dobbiamo proprio sperare, in questo momento in cui il ciarlatanesimo e il pregiudizio si dividono il mondo! Non è l’incredulità che abbiamo da combattere, ma la presunzione. Cominciamo dunque a constatare che la scienza sociale non è ancora fatta, che è ancora allo stato di vago presentimento.

“Malthus – dice il suo eccellente biografo C[harles] Comte – aveva la convinzione profonda che esistono in economia politica princìpi i quali non sono veri se sono rinchiusi in certi limiti; egli vedeva le principali difficoltà della scienza nella combinazione frequente di cause complicate nell’azione, nella reazione degli effetti e delle cause le une sulle altre, e nella necessità di mettere limiti o di fare eccezioni a un grande numero di proposizioni importanti”.

Ecco ciò che pensava Malthus dell’economia politica, e l’opera che pubblichiamo in questo momento non è che la dimostrazione della sua idea. A questa testimonianza ne aggiungiamo un’altra non meno degna di fede. In una delle ultime sedute dell’Accademia delle Scienze Morali, Dunoyer, da uomo veramente superiore, che non si lascia abbagliare né dall’interesse di una consorteria né dallo sdegno che ispirano avversari ignoranti, faceva la stessa dichiarazione pareggiando in candore ed elevatezza Malthus.

“L’economia politica, che ha un certo numero di princìpi assicurati, che riposa sopra una massa considerevole di fatti esatti e di osservazioni ben dedotte, non pare ancora pervenuta a essere una scienza ferma. Non si è completamente d’accordo né sul campo dove devono estendersi le sue ricerche né sull’oggetto fondamentale che devono proporsi. Non si è d’accordo né sull’insieme dei lavori che abbraccia né sui mezzi ai quali lega la potenza dei suoi lavori né sul senso preciso che bisogna dare alla maggior parte delle parole di cui è formato il suo vocabolario. La scienza, ricca di verità particolari, lascia infinitamente a desiderare nel suo insieme e, come scienza, essa pare lontana ancora dall’essere costituita”.

Rossi va più in là di Dunoyer, e formula il suo giudizio sotto forma di un biasimo indirizzato ai rappresentanti moderni della scienza.

“Ogni pensiero di metodo pare oggi abbandonato nella scienza economica, e tuttavia non vi è scienza senza metodo”. (Rendiconto di Rossi del Corso di Whateley). Blanqui, Wolowski, Chevalier e tutti quelli che hanno dato uno sguardo, anche poco profondo, all’economia delle società, parlano in uguale modo. E lo scrittore che ha meglio apprezzato il valore delle utopie moderne, Leroux, scrive a ogni pagina della “Revue sociale”: “Cerchiamo la soluzione del problema del proletariato; cerchiamo senza posa, fin quando l’avremo trovato. Ecco l’opera della nostra epoca!...”. Ora, il problema del proletariato è la costituzione della scienza sociale. Ormai soltanto gli economisti di corta vista e i socialisti fanatici per i quali la scienza si riassume in una formula: lasciate fare, lasciate passare, oppure, a ciascuno secondo i suoi bisogni nella misura delle risorse sociali, si vantano di possedere la scienza economica.

Da cosa dipende questo ritardo della verità sociale che mantiene l’illusione economista e dà credito alle operazioni dei pretesi riformatori? La causa, secondo noi, è nella separazione, molto antica, della filosofia e dell’economia politica.

La filosofia, cioè la metafisica, o, se si preferisce, la logica, è l’algebra della società; l’economia politica è la realizzazione di quest’algebra. È ciò che non videro né J.-B. Say, né Bentham, né tutti quelli che, sotto il nome di economisti e di utilitaristi, posero la scissione nella morale e insorsero quasi nello stesso tempo contro la politica e la filosofia. E pertanto, quale controllo più sicuro la filosofia, la teoria della ragione, poteva desiderare se non da loro, cioè la pratica dalla ragione? E reciprocamente, quale controllo più certo la scienza economica poteva desiderare delle formule della filosofia? La mia speranza più cara è che i maestri delle scienze politiche si troveranno nelle fabbriche e nelle banche, come oggi i nostri più abili costruttori sono tutti uomini formati da un lungo e penoso tirocinio...

Ma a quale condizione può esistere una scienza?

Alla condizione di riconoscere il suo campo di osservazione e i suoi limiti, di determinare il suo oggetto, di organizzare il suo metodo. Sopra questo punto l’economista si esprime come il filosofo; le parole di Dunoyer sembrano letteralmente estratte dalla prefazione di [Théodore] Jouffroy alla traduzione di Reid.

Il campo d’osservazione della filosofia è l’io, il campo d’osservazione della scienza economica è la società, cioè ancora l’io. Volete conoscere l’uomo? studiate la società; volete conoscere la società? studiate l’uomo. L’uomo e la società si servono reciprocamente di soggetto e d’oggetto; il parallelismo, la sinonimia delle due scienze è completo. Ma che cos’è questo io collettivo e individuale? Qual è questo campo d’osservazione dove si manifestano fenomeni così strani? Per scoprirlo vediamo gli analoghi.

Tutte le cose che pensiamo ci sembrano esistere, succedersi o disporsi dentro tre capacità trascendenti, fuori delle quali non immaginiamo e non concepiamo assolutamente nulla, e sono: lo spazio, il tempo e l’intelligenza.

Come ogni oggetto materiale è concepito necessariamente nello spazio, e come i fenomeni, legati gli uni agli altri da un rapporto di causalità, ci paiono seguirsi nel tempo, così le rappresentazioni puramente astratte sono rapportate a un ricettacolo particolare che chiamiamo intelletto o intelligenza.

L’intelligenza è, nella sua specie, una capacità infinita come lo spazio e l’eternità. Là si agitano dei mondi, degli innumerevoli organismi con leggi complicate, con effetti variati e imprevisti; uguali per la magnificenza e l’armonia ai mondi seminati dal Creatore attraverso lo spazio, agli organismi che brillano e si estinguono nella durata. Politica ed economia politica, giurisprudenza, filosofia, teologia, poesia, lingue, costumi, letteratura, belle arti; il campo di osservazione dell’io è più vasto, più fecondo, più ricco da sé solo che il duplice campo di osservazione della natura, lo spazio e il tempo.

L’io dunque, come il tempo e lo spazio, è infinito. L’uomo e ciò che è il prodotto dell’uomo costituiscono, con gli esseri che sono gettati attraverso lo spazio e i fenomeni che si succedono nei tempi, la triplice manifestazione di Dio. Questi tre infiniti, espressioni infinite dell’infinito, si penetrano e si sostengono l’un l’altro, inseparabili e irriducibili; lo spazio o l’estensione non concependosi senza il movimento il quale implica l’idea di forza, cioè una spontaneità, un io.

Le idee delle cose che si presentano nello spazio formano per l’immaginazione dei quadri; le idee con le quali collochiamo gli oggetti nel tempo si svolgono in storie; infine, le idee o rapporti che non cadono sotto la categoria né del tempo né dello spazio e che appartengono all’intelletto, si coordinano in sistemi. Quadro, storia, sistema, sono dunque tre espressioni analoghe, o piuttosto omologhe, con le quali facciamo intendere che un certo numero di idee si presenta allo spirito come un tutto simmetrico e perfetto. È perciò che queste espressioni possono, in certi casi, prendersi l’una per l’altra, come abbiamo fatto al principio di quest’opera allorché l’abbiamo presentata come una storia dell’economia politica, non più secondo la data delle scoperte, ma secondo l’ordine delle teorie.

Concepiamo dunque, e non può essere diversamente, una capacità per le cose di pensiero puro o, come dice Kant, per i noumeni, nello stesso modo che ne concepiamo un’altra per le cose sensibili o fenomeni.

Ma lo spazio e il tempo non sono nulla di reale, sono due forme impresse all’io dalla percezione esteriore. Similmente, l’intelligenza non è niente di reale, è una forma che l’io impone a se stesso, per analogia, a seguito delle idee che l’esperienza gli suggerisce. Quanto all’ordine di acquisizione delle idee, intuizioni o immagini, ci sembra che cominciamo da quelle i cui tipi o realtà sono compresi nello spazio; che noi continuiamo arrestando, per così dire, al volo le idee che il tempo trasporta, e che infine scopriamo tutto a un tratto, tramite le percezioni sensibili, le idee o concetti, senza modello esteriore, che ci appaiono in questo fantasma di capacità che chiamiamo intelligenza. Tale è il progresso del sapere; partiamo dal sensibile per elevarci all’astratto; la scala della ragione ha il piede sulla terra, attraversa il cielo e si perde nelle profondità dello spirito.

Rovesciamo frattanto questa serie, e figuriamoci la creazione come una caduta delle idee dalla sfera superiore dell’intelligenza nelle sfere inferiori del tempo e dello spazio, caduta durante la quale le idee, originalmente pure, avranno preso un corpo o substratum che le realizza e le esprime. Da questo punto di vista tutte le cose create, i fenomeni della natura e le manifestazioni dell’umanità ci appariranno come una proiezione dello spirito, immateriale e immobile, sopra un piano ora fisso e diritto, lo spazio, ora inclinato e mobile, il tempo.

Le idee, eguali fra esse, contemporanee e coordinate nello spirito, sembrano gettate confusamente, sparpagliate, localizzate, subordinate e consecutive nell’umanità e nella natura, formanti dei quadri e delle storie senza rassomiglianza col disegno primitivo, e tutta la scienza umana consiste nel ritrovare in questa confusione il sistema astratto del pensiero eterno. Con una restaurazione di questo genere i naturalisti hanno ritrovato i sistemi degli esseri organizzati e non organizzati; e con lo stesso processo abbiamo tentato di ristabilire la serie delle fasi dell’economia sociale che la società ci fa vedere isolate, incoerenti, anarchiche. Il compito che abbiamo intrapreso è veramente la storia naturale del lavoro, secondo i frammenti raccolti dagli economisti; e il sistema che è risultato dalla nostra analisi è vero allo stesso titolo che i sistemi delle piante scoperte da Linneo e da [Antoine] Jussieu, e il sistema degli animali da [Georges] Cuvier.

L’io umano manifestato dal lavoro, tale è dunque il campo di esplorazione dell’economia politica, forma concreta della filosofia. L’identità di queste due scienze, o, per meglio dire, di questi due scetticismi, è stata rivelata in tutto il corso di questo libro. Così, la formazione delle idee è apparsa nella divisione del lavoro come una divisione delle categorie elementari; poi abbiamo visto la libertà nascere dall’azione dell’uomo sulla natura e, in seguito, prodursi tutte le relazioni dell’uomo con la società e con se stesso. Infine, la scienza economica è stata, nello stesso tempo, un’ontologia, una logica, una psicologia, una teologia, una politica, un’estetica, una simbologia e una morale...

Riconosciuto il campo della scienza e operata la sua delimitazione, abbiamo riconosciuto il metodo. Ora, il metodo della scienza economica è lo stesso della filosofia; l’organizzazione del lavoro, secondo noi, non è altro che l’organizzazione del senso comune...

Fra le leggi che costituiscono questa organizzazione abbiamo notato l’antinomia.

Ogni pensiero vero, abbiamo osservato, si posa in un tempo e due momenti. Ciascuno di questi due momenti essendo la negazione dell’altro, e tutti e due non dovendo sparire che sotto una idea superiore, ne segue che l’antinomia è la legge stessa della vita e del progresso, il principio del moto perpetuo. In effetti, se una cosa, in virtù della potenza d’evoluzione che è in essa, si rifà precisamente di tutto ciò che perde, ne segue che questa cosa è indistruttibile e il movimento che la sostiene eterno! Nell’economia sociale, quello che la concorrenza è occupata senza posa a fare, il monopolio è occupato senza posa a disfarlo; ciò che il lavoro produce, il consumo lo divora; ciò che la proprietà si attribuisce, la società se ne impadronisce; e di là risulta il movimento continuo, la vita dell’umanità.

Se una delle due forze antagoniste è impacciata, se l’attività individuale, per esempio, soccombe sotto l’autorità sociale, l’organizzazione degenera in comunismo e termina al niente. Se, al contrario, l’iniziativa individuale manca di contrappeso, l’organismo collettivo si corrompe e la civiltà si trascina sotto un regime di caste, di iniquità e miseria.

L’antinomia è il principio dell’attrazione e del movimento, la ragione dell’equilibrio, è essa che produce la passione e che decompone ogni armonia e ogni accordo...

Viene in seguito la legge di progressione e di serie, la melodia degli esseri, legge del bello e del sublime. Togliete l’antinomia, il progresso degli esseri è inesplicabile; dov’è la forza che genererebbe questo progresso? Togliete la serie, il mondo non è più che una baruffa di opposizioni sterili, una ebollizione universale, senza scopo e senza idea...

Quando anche queste speculazioni, per noi verità pura, apparissero dubbie, l’applicazione che ne abbiamo fatta sarebbe ancora di un’utilità immensa. Volendo ben riflettere, non vi è un solo momento della vita in cui lo stesso uomo non affermi e non neghi nello stesso tempo gli stessi princìpi e le stesse teorie, con più o meno buona fede senza dubbio, ma pure con ragioni sempre plausibili che, senza calmare affatto la coscienza, bastano per fare trionfare la passione e spargere il dubbio nello spirito. Lasciamo dunque, se si vuole, la logica, ma è nulla l’avere rischiarata la duplice faccia delle cose, l’avere appreso a diffidare del ragionamento, il sapere come mai, più un uomo ha esattezza nelle idee e destrezza nel cuore, più corre il rischio di dire corbellerie e assurdità? Tutti i nostri malintesi politici, religiosi, economici, ecc., vengono dalla contraddizione inerente alle cose, e quella è ancora la sorgente da dove sgorgano nella società la corruzione dei princìpi, la venalità delle coscienze, il ciarlatanesimo delle professioni di fede, l’ipocrisia delle opinioni...

Qual è, al presente, l’oggetto della scienza economica?

Il metodo stesso ce lo indica. L’antinomia è il principio dell’attrazione e dell’equilibrio nella natura; l’antinomia è dunque il principio del progresso e dell’equilibrio nell’umanità, e l’oggetto della scienza economica è la giustizia. Considerata nei suoi rapporti puramente oggettivi, i soli di cui si occupa l’economia sociale, la giustizia ha per espressione il valore. Ora, che cos’è il valore? è il lavoro realizzato.

“Il prezzo reale di ciascuna cosa – dice Smith – ciò che costa realmente a colui che vuole procurarsela, è il valore e la pena che bisogna imporsi per ottenerla... Ciò che si acquista col denaro o merci è acquistato dal lavoro; come pure, ciò che acquistiamo col sudore della fronte. Questo denaro, queste merci contengono il valore di una certa quantità di lavoro che scambiamo con ciò che è supposto allora contenere il valore di una quantità eguale di lavoro. Il lavoro è stato il primo prezzo, la moneta pagata per l’acquisto primitivo di tutte le cose. Non è con l’oro, con l’argento, ma col lavoro che tutte le ricchezze del mondo sono state acquistate originariamente, e il loro valore, per quelli che le possiedono e che cercano di cambiarle contro nuove produzioni, è precisamente eguale alla quantità di lavoro ch’esse mettono in grado di procurare o di garantire”.

Ma, se il valore è la realizzazione del lavoro, esso è nello stesso tempo il principio di paragone degli oggetti fra di loro; da ciò la teoria di proporzionalità che domina tutta la scienza economica, e alla quale si sarebbe elevato Smith, se fosse stato nello spirito del suo tempo proseguire, con l’aiuto della logica, un sistema di esperienze.

Ma, come mai si manifesta nella società la giustizia? In altri termini, come mai si stabilisce la proporzionalità dei valori? J.-B. Say lo ha detto: con un movimento oscillatorio fra il valore di utilità e il valore di scambio.

Qui appare nell’economia politica, nei riguardi del lavoro, suo padrone e spesso suo carnefice, il principio arbitrale.

All’inizio della scienza, il lavoro, sprovvisto di metodo, senza intelligenza del valore, balbettando appena le sue prime prove, fa appello al libero arbitrio per costituire la ricchezza e fissare il prezzo delle cose; da questo momento le due potenze entrano in lotta, e la grande opera dell’organizzazione sociale inizia. Lavoro e libero arbitrio sono ciò che più tardi noi chiameremo lavoro e capitale, salariato e privilegio, concorrenza e monopolio, comunità e proprietà, plebe e nobiltà, Stato e cittadino, associazione e individualismo. Per chiunque ha ricevuto le prime nozioni della logica è evidente che tutte queste opposizioni, eternamente rinascenti, devono essere eternamente risolte; ora, è ciò che non vogliono capire gli economisti a cui il principio arbitrale inerente al valore sembra refrattario a ogni determinazione, ed è, a causa dell’orrore per la filosofia, che si causa il ritardo, così funesto alla società, della scienza economica.

“Sarebbe tanto assurdo – dice [John] Mac Culloch, – parlare di un’altezza e di una profondità assolute, quanto di un valore assoluto”.

Gli economisti dicono tutti la stessa cosa, e si può giudicare da questo esempio, quanto siano lontani dall’intendere la natura del valore e il senso delle parole di cui si servono. L’espressione assoluto porta con sé l’idea di integralità, di perfezione o pienezza, di precisione e esattezza. Una maggioranza assoluta è una maggioranza giusta (metà più uno), non è già una maggioranza indefinita. Nello stesso modo il valore assoluto è il valore preciso dedotto dal paragone esatto dei prodotti fra loro: nulla vi è al mondo di così semplice. Ma ne risulta questa conseguenza capitale, che i valori, misurandosi l’un l’altro, non devono oscillare per caso; tale è il voto supremo della società, tale è il significato dell’economia politica stessa, che non è altro, nel suo insieme, se non il quadro delle contraddizioni la cui sintesi produce infallibilmente il valore vero.

Così la società si stabilisce poco a poco con una specie di ondulazione fra la necessità e l’arbitrario, e la giustizia si costituisce col furto. L’eguaglianza non si produce nella società come un livello inflessibile; è, come tutte le grandi leggi della natura, un punto astratto al di qua o al di là del quale il fatto oscilla senza posa, descrivendo archi più o meno grandi, più o meno regolari. L’eguaglianza è la legge suprema della società; ma non è già una forma fissa, è il centro di una infinità di equazioni. È così che l’eguaglianza ci è apparsa dalla prima epoca dell’evoluzione economica, la divisione del lavoro; e tale essa si è manifestata costantemente dopo la legislazione della Provvidenza. Smith, che sopra quasi tutti i grandi problemi dell’economia sociale ebbe una specie di intuizione, dopo avere riconosciuto il lavoro come principio del valore e descritto gli effetti magici della legge di divisione, osserva che, nonostante l’aumento di prodotto risultante da questa divisione, il salario del lavoratore non aumenta; ma spesso, al contrario, diminuisce, perché il beneficio della forza collettiva non va a favore del lavoratore, ma del padrone. “I profitti, si dirà forse, non sono altra cosa che un nome differente dato ai salari di una specie particolare di lavoro, il lavoro di ispezione e di direzione... Ma questi profitti sono di una natura differente dal salario, si regolano sopra princìpi differenti e non sono per nulla in rapporto con la quantità e la natura di questo preteso lavoro di ispezione e di direzione. Essi si regolano per intero sul valore del capitale impiegato, e sono più o meno forti, in proporzione alla grandezza di questo capitale... Così il prodotto del lavoro non appartiene per intero all’operaio, ma bisogna che questo ne faccia parte al proprietario”.

Ecco, ci dice freddamente Smith, come stanno le cose: tutto per il padrone, nulla per l’operaio. Chiamate questo ingiustizia, spoliazione, furto, l’economista non se ne immischia. Il proprietario che spoglia gli sembra in tutto ciò tanto automatico quanto il lavoratore spogliato. E la prova che non meritano l’uno e l’altro né invidia né pietà, è che i lavoratori non reclamano se non quando muoiono di fame; né mai capitalista, imprenditore o proprietario, sia durante la loro vita, sia in punto di morte, hanno sentito il minimo rimorso. Che si accusi la coscienza pubblica ignorante e falsata; può darsi che si abbia ragione, può darsi che si abbia torto. Smith, ciò che vale meglio di ogni vana declamazione, si limita a rendere conto dei fatti.

Così, designando fra i lavoratori un privilegiato, nazareno inter fratres tuos, la ragione sociale ha personificato la forza collettiva. La società procede per miti e allegorie; la storia della civiltà è un vasto simbolismo. Omero compendia la Grecia eroica; Gesù Cristo è l’umanità sofferente che aspira, affaticandosi in una lunga e dolorosa agonia, alla libertà, alla giustizia, alla virtù; Carlo Magno è il tipo feudale; Orlando, la cavalleria; Pietro l’Eremita, le crociate; Gregorio VII, il papato; Napoleone, la rivoluzione francese. Così, l’imprenditore industriale che coltiva un capitale con un gruppo di lavoratori, è la personificazione della forza collettiva di cui egli assorbe il profitto, come il volano di una macchina immagazzina la forza. È veramente l’uomo eroico, il re del lavoro. L’economia politica è tutta una simbolistica, la proprietà è una religione.

Seguiamo Smith, le cui idee luminose, sparse in un oscuro guazzabuglio, sembrano una deuterosi della rivelazione primitiva: “A misura che il suolo di un paese diventa proprietà privata, i proprietari, come tutti gli altri uomini, amano raccogliere dove non hanno seminato, ed ecco domandano un affitto anche per i prodotti naturali della terra. Così si stabilisce un prezzo addizionale sul legno delle foreste, sull’erba dei campi e sopra tutti i frutti naturali della terra, che, quando erano posseduti in comune, non costavano all’operaio che la pena di coglierli, e ora gli costano di più. Bisogna che paghi per avere il permesso di raccoglierli, cioè che paghi al proprietario una porzione di ciò che raccoglie o di ciò che produce, senza di lui, col suo lavoro”.

Ecco il monopolio, ecco l’interesse dei capitali, ecco la rendita! Smith, come tutti gli illuminati, vede e non comprende; racconta e non ha intelligenza. Parla sotto l’ispirazione di Dio, senza sorpresa e senza pietà, e il senso delle sue parole è per lui lettera morta. Con quale sangue freddo egli racconta l’usurpazione proprietaria! fino che la terra non sembra buona a niente, fino che il lavoro non l’ha ancora mobilizzata, fecondata, utilizzata, messa in valore, la proprietà non ne fa nessun caso. Il calabrone non si posa sui fiori, ma si abbassa sugli alveari. Ciò che il lavoratore produce gli è tosto tolto; l’operaio è come un cane da caccia nelle mani del padrone. Uno schiavo, oppresso dal lavoro, inventa l’aratro. Con un pezzo di legno duro e tirato da un cavallo egli apre il suolo, lo rende capace di produrre 10 volte, 100 volte di più. Il padrone, a colpo d’occhio, comprende l’importanza della scoperta; si impadronisce della terra, si appropria della rendita, si attribuisce perfino l’idea e si fa adorare dai mortali per questo magnifico regalo. Marcia a pari con gli dèi; sua moglie è una ninfa, è Demetra e lui è Trittolemo. La miseria inventa e la proprietà raccoglie. Bisogna che il genio resti povero; l’abbondanza lo soffocherebbe. Il più grande servizio che la proprietà abbia reso al mondo è questa afflizione perpetua del lavoro e del genio.

Ma che fare di questi mucchi di grano? Che povera ricchezza è mai quella che il capo divide con i suoi cavalli, con i suoi buoi, con i suoi schiavi! Non vale la pena d’essere ricco se tutto il vantaggio consiste nel potere rodere qualche pugno di più di riso e d’orzo!...

Una vecchia, avendo masticato del grano con la sua bocca sdentata, si accorge che la pasta inacidisce, fermenta, e che, cotta sotto la cenere, dà un nutrimento incomparabilmente migliore del frumento crudo o abbrustolito. Miracolo! Il pane quotidiano è scoperto. – Un altro, avendo chiuso in un vaso di terra dell’uva abbandonata, sente il mosto bollire come sopra una fiamma, il liquore rigetta le sue impurità, brilla rubicondo, generoso, immortale. È il giovane Bacco, il figlio prediletto del proprietario, un garzone caro agli dèi che l’ha trovato. Ciò che il padrone non potrebbe divorare in qualche settimana, un anno gli basterà per berlo. La vigna, come la messe, come la terra, è ora nelle mani del proprietario.

Che fare di questi innumerevoli velli di cui ogni anno apporta un così largo tributo? Quando il proprietario elevasse il suo letto all’altezza del tetto, quando raddoppiasse trenta volte la sua tenda sontuosa, questo lusso inutile non farebbe che attestare la sua impotenza. Egli rigurgita di beni e non può goderne: che derisione!

Una pecoraia, lasciata nuda per l’avarizia del padrone, raccoglie sui cespugli qualche fiocco di lana. Torce questa lana, la allunga in fili eguali e fini, li riunisce sopra una lancia, li raddoppia e si fa una veste soffice e leggera, più elegante mille volte delle pelli rappezzate che coprono la sua sdegnosa padrona. È Aracne, la tessitrice, che ha creato questa meraviglia! Tosto il padrone comincia a tessere il pelo delle sue pecore, dei suoi cammelli e delle sue capre; egli dà alla moglie un branco di schiave che filano e tessono sotto i suoi ordini. Non è più Aracne, l’umile serva, è Pallade, la figlia del proprietario, che gli dèi hanno ispirato e la cui gelosia si vendica su Aracne facendola morire di fame.

Quale spettacolo, questa lotta incessante del lavoro e del privilegio, il primo creando il tutto dal niente, l’altro arrivando sempre per divorare ciò che non ha affatto prodotto! – Il destino dell’uomo è una marcia continua. Bisogna che lavori, che crei, moltiplichi, perfezioni sempre e sempre. Lasciate il lavoratore godere della sua scoperta, egli si addormenta sulla sua idea, la sua intelligenza non avanza più. Ecco il segreto di quell’iniquità che colpiva Smith, e contro la quale per altro il flemmatico storiografo non ha trovato una parola di rimprovero. Egli sentiva, benché non potesse rendersene conto, che là c’era il dito di Dio; che, fino al giorno in cui il lavoro riempie la terra, la civiltà ha per motore il consumo improduttivo, e che con la rapina si stabilisce insensibilmente fra gli uomini la fratellanza.

Bisogna che l’uomo lavori! È per questo che, nei consigli della Provvidenza, il furto è stato istituito, organizzato, santificato! Se il proprietario si fosse stancato di prendere, il proletario si sarebbe tosto stancato di produrre, e la selvatichezza e l’orrida miseria sarebbero state alla porta. Il Polinesiano che non ama la proprietà e che gode in una completa comunità di beni e amori, perché mai lavorerebbe? La terra e la beltà sono di tutti, i ragazzi di nessuno; che gli parlate a fare di morale, di dignità, di personalità, di filosofia e di progresso? E, senza andare tanto lontano, il Corso, che sotto i suoi castagni trova per sei mesi il vitto e il domicilio, perché volete che lavori? Che gli importano la vostra coscrizione, le vostre ferrovie, la vostra tribuna, la vostra stampa? Di che cosa ha bisogno fuorché di dormire quando ha mangiato le sue castagne? Un prefetto della Corsica diceva che, per civilizzare quest’isola, bisognava abbattere i castagni. Un mezzo più sicuro è quello di appropriarsene.

Ma già il proprietario non è più abbastanza forte per divorare la sostanza del lavoratore; esso chiama i suoi favoriti, i suoi buffoni, i suoi luogotenenti, i suoi complici. È ancora Smith che ci svela questa formidabile congiura: “A ogni trasformazione nuova di un prodotto, non solo il numero dei prodotti aumenta, ma ogni profitto susseguente è più grande di quello che precede, perché il capitale, da cui procede, è necessariamente sempre più grande. Difatti, mentre il rialzo dei salari opera sul prezzo della merce, come l’interesse semplice nell’accumulazione di un debito, il rialzo dei profitti opera come l’interesse composto. Se, per esempio, nella fabbrica di tele i salari degli operai, come i pettinatori di lino, le filatrici, i tessitori, ecc., venissero tutti ad aumentare di due denari al giorno, diventerebbe necessario elevare il prezzo di una pezza di tela solo di tante volte due denari quanti operai sono stati impiegati, moltiplicando il numero degli operai per il numero delle giornate. In ciascuno dei differenti gradi di manodopera che subirebbe la merce, quella parte del prezzo, che si risolve in salari, rialzerebbe solo nella progressione aritmetica di questo rialzo di salari. Ma, se i profitti di tutti i differenti padroni che impiegano questi operai aumentassero del 5%, la parte del prezzo che si risolve in profitti si eleverebbe, in ciascuno dei differenti gradi della manodopera, in ragione progressiva di questo rialzo del saggio del profitto e in progressione geometrica. Il padrone dei pettinatori di lino chiederebbe, vendendo il suo lino, un accrescimento del 5% sul valore totale della materia e dei salari accresciuti ai suoi operai. Il padrone delle filatrici domanderebbe un profitto addizionale del 5%, tanto sul prezzo del lino pettinato anticipato quanto sull’ammontare del salario delle filatrici. Infine, il padrone dei tessitori domanderebbe pure il 5% tanto sul prezzo da lui anticipato del filo di lino quanto sui salari dei suoi tessitori...”.

Ecco la descrizione nel vivo della gerarchia economica, cominciando da Giove-Proprietario e terminando allo schiavo. Dal lavoro, dalla sua divisione, dalla distinzione tra padrone e salariato, dal monopolio dei capitali, sorse una casta di signori terrieri, finanzieri, impresari, borghesi, mastri e contro-mastri, che lavorano a consumare rendite, a raccogliere usure, a spremere il lavoratore, e soprattutto ad esercitare il Governo, la forma più terribile dell’usufrutto e della miseria. L’invenzione della politica e delle leggi è esclusivamente dovuta alla proprietà. Numa ed Egeria, Tarquinio e Tanaquilla, come Napoleone e Carlo Magno, erano nobili. Regum timendorum in proprios greges, reges in ipsos imperium est Iovis, dice Orazio. Si direbbe una legione di spiriti infernali accorsi da ogni parte dell’inferno per tormentare una povera anima. Tiratelo per la catena, impeditegli il sonno e il nutrimento; colpitelo, bruciatelo, attanagliatelo, nessun riposo, nessuna pietà! Se il lavoratore fosse risparmiato, se gli facessimo giustizia, non resterebbe nulla per noi, noi periremmo.

Oh Dio! Quale delitto ha dunque commesso questo infelice perché tu lo abbandoni a guardiani che gli distribuiscono i colpi con una mano così liberale, e la sussistenza con una mano così avara?... E voi, proprietari, verghe scelte dalla Provvidenza, non passate la misura prescritta, perché la rabbia è salita al cuore del vostro servo e i suoi occhi sono rossi di sangue.

Una rivolta dei lavoratori strappa agli spietati padroni una concessione. Giorno fortunato, viva l’allegria! il lavoro è libero.

Ma quale libertà, giusto cielo! La libertà per il proletario è la facoltà di lavorare, cioè di farsi spogliare ancora, o di non lavorare, cioè di morire di fame! La libertà non giova che alla forza: con la concorrenza il capitale schiaccia dappertutto il lavoro e converte l’industria in una vasta coalizione di monopoli. Per la seconda volta la plebe lavoratrice è alle ginocchia dell’aristocrazia; essa non ha né la possibilità e neanche il diritto di discutere il suo salario.

“I padroni – dice l’oracolo – sono dappertutto e in tutti i tempi in una lega tacita ma costante e uniforme per non elevare i salari al disopra della misura esistente. Violare questa regola è un atto da falso fratello. E, in forza di una legislazione abominevole, questa lega è tollerata, mentre le coalizioni degli operai sono punite severamente”.

E perché questa nuova iniquità, che l’inalterabile serenità di Smith non ha impedito di dichiarare abominevole”? Forse una così patente ingiustizia era anch’essa necessaria, forse, senza questa preferenza di persone, la fatalità sarebbe stata in errore e la Provvidenza in scacco? Troveremo modo di giustificare, col monopolio, questa politica parziale del genere umano? Perché no, se vogliamo elevarci al di sopra del sentimentalismo sociale e considerare dall’alto i fatti, la forza delle cose, la legge intima della civiltà?

Che cos’è il lavoro? Che cos’è il privilegio?

Il lavoro, l’analogo dell’attività creatrice, senza coscienza di se stesso, indeterminato, infecondo, fino a che l’idea, la legge non lo penetra, il lavoro è il crogiolo in cui si elabora il valore, la grande matrice della civiltà, principio passivo o femmina della società.

Il privilegio, emanato dal libero arbitrio, è la scintilla elettrica che decide l’individualizzazione, la libertà che realizza, l’autorità che comanda, il cervello che delibera, l’io che governa. Il rapporto del lavoro e del privilegio è dunque un rapporto da femmina a maschio, da sposa a sposo. Presso tutti i popoli l’adulterio della donna è sempre parso più riprovevole di quello dell’uomo; esso è stato sottomesso di conseguenza a pene più rigorose. Quelli che, arrestandosi all’atrocità delle forme, dimenticano il principio e non vedono che la barbarie esercitata verso il sesso, sono politicanti da romanzo, degni di figurare nei racconti dell’autrice di Lelia. Ogni indisciplina degli operai è somigliante all’adulterio commesso dalla donna. Non è evidente allora che, se lo stesso favore da parte dei tribunali accogliesse il lamento dell’operaio e quello del padrone, il legame gerarchico, fuori del quale l’umanità non può vivere, sarebbe rotto, e tutta l’economia della società rovinata?

Giudicate ora dai fatti. Paragonate la fisionomia d’uno sciopero col procedimento di una coalizione di imprenditori: là, diffidenza del buon diritto, agitazione, turbolenza; al di fuori grida e fremiti, al di dentro terrore, spirito di sottomissione e desiderio di pace. Qui, al contrario, risoluzione calcolata, sentimento della forza, certezza del successo, sangue freddo nell’esecuzione. Dove dunque si trova, a vostro avviso, la potenza? dove il principio organico? dove la vita? Senza dubbio, la società deve a tutti assistenza e protezione; non patrocino qui la causa degli oppressori dell’umanità; che la vendetta del cielo li schiacci! Ma bisogna che l’educazione del proletario si compia.

Il proletario è Ercole che giunge all’immortalità col lavoro e la virtù; ma che farebbe Ercole senza la persecuzione di Euristeo?

Chi sei tu? domandava il papa san Leone ad Attila, allorché questo distruttore di nazioni venne a piantare il campo davanti a Roma. – Io sono il flagello di Dio, rispose il barbaro. – Noi riceviamo, riprese il papa, tutto ciò che ci viene da Dio; ma tu, guardati bene dal fare cosa alcuna che non ti sia comandata!

Proprietari, chi siete voi?

Cosa strana, la proprietà, attaccata da ogni parte in nome della carità, della giustizia, dell’economia sociale, non ha mai saputo rispondere per sua giustificazione che queste parole: Io sono perché sono. Io sono la negazione della società, la spoliazione del lavoratore, il diritto dell’improduttivo, la ragione del più forte, e nessuno può vivere se io non lo divoro. Questo spaventevole enigma ha fatto disperare le intelligenze più sagaci.

“Prima dell’appropriazione delle terre e dell’accumulazione dei capitali il prodotto intero del lavoro apparteneva all’operaio. Non vi era né proprietario né padrone a cui dovesse farne parte. Se questo stato fosse continuato, il salario del lavoro sarebbe aumentato con tutto quell’accrescimento della potenza produttiva al quale dà luogo la divisione. Prodotte con piccole quantità di lavoro, le proprietà sarebbero state acquistate con quantità sempre minori”.

Così dice Smith, e aggiunge il suo commentatore: “Posso ben comprendere come mai il diritto di appropriarsi, sotto il nome di interesse, profitto o affitto, il prodotto di altri individui, diventi un alimento alla cupidigia; ma non posso immaginare che, diminuendo la ricompensa del lavoratore per aggiungerla all’opulenza dell’uomo ozioso si possa accrescere l’industria o accelerare il progresso della società in ricchezza”.

La ragione di questo prelevamento che né Smith né il suo commentatore hanno scorta, noi vogliamo ridirla, affinché la legge inesorabile che governa la società umana sia di nuovo e per l’ultima volta messa in luce.

Dividere il lavoro, non è altro che una produzione di pezzi; perché ci sia valore, ci vuole una composizione. Prima dell’istituzione della proprietà, ciascuno è padrone di attingere dall’oceano l’acqua onde trae il sale per i suoi alimenti, di cogliere le olive da cui estrarrà il suo olio, di raccogliere i minerali che contengono il ferro e l’oro. Ciascuno è libero ancora di cambiare una parte di ciò che ha raccolto con una quantità equivalente delle provvigioni fatte da un altro; fin là non usciamo dal diritto sacro del lavoro e della comunità della terra. Ora, se ho il diritto di fare uso, sia col mio lavoro personale, sia con lo scambio, di tutti i prodotti della natura, e se il possesso così ottenuto è legittimo, ho anche il diritto di fare, con gli elementi diversi che mi procuro col lavoro e con lo scambio, un prodotto nuovo che è mia proprietà e di cui ho diritto di godere ad esclusione di ogni altro. Posso, per esempio, col sale da cui ricaverei la soda, e dall’olio che traggo dall’olivo e dal sesamo, fare una composizione per pulire la biancheria e che sarà per me, dal punto di vista della nettezza e dell’igiene, di un’utilità preziosa. Posso anche riservarmi il segreto di questa composizione e, per conseguenza, trarne, col mezzo dello scambio, un profitto legittimo.

Ora, quale differenza c’è, sotto il rapporto del diritto, fra la fabbricazione di un’oncia di sapone e quella di un milione di chilogrammi? La quantità più o meno grande cambia qualche cosa alla moralità dell’operazione? Dunque la proprietà, come il commercio, come il lavoro, è un diritto naturale di cui niente al mondo può togliere l’esercizio.

Ma per il fatto stesso che compongo un prodotto che è mia proprietà esclusiva, come lo sono le materie che lo costituiscono, ne segue che un laboratorio, una utilizzazione d’uomini è da me organizzata; che lucri si accumulano nelle mie mani a detrimento di tutti coloro che entrano in rapporto di affari con me, e che se desiderate sostituirmi nell’impresa, naturalmente stipulerò per me stesso una rendita. Possederete il mio segreto, fabbricherete al posto mio, farete andare il mio mulino, mieterete il mio campo, vendemmierete la mia vigna, ma alla quarta, terza o metà parte.

Tutta questa catena è necessaria e indissolubile, non c’è là sotto né serpente né diavolo; è la legge stessa delle cose, il dictamen del senso comune. Nel commercio la spoliazione è identica allo scambio; e, ciò che veramente sorprende, è che un regime come questo non è giustificato solo dalla buona fede delle parti, ma è comandato dalla giustizia.

Un uomo acquista da un suo vicino carbonaio un sacco di carbone, dal droghiere una quantità di zolfo venuto dall’Etna. Fa un miscuglio al quale aggiunge una porzione di salnitro venduto dal droghiere. Da tutto questo risulta una polvere esplosiva di cui 100 libbre basterebbero a distruggere una cittadella. Ora, io vi domando, il boscaiolo che ha carbonizzato il legno, il pastore siciliano che ha raccolto lo zolfo, il marinaio che ne ha effettuato il trasporto, il commissionario che da Marsiglia ne ha fatto di nuovo la spedizione, il mercante che l’ha venduto, sono essi complici della catastrofe? Esiste fra essi la minima solidarietà, non dico solamente nell’impiego, ma nella fabbricazione di questa polvere?

Ora, se è impossibile scoprire il minimo nesso di azione fra gli individui diversi che, ciascuno per la sua parte, hanno cooperato alla produzione della polvere, è chiaro, per la stessa ragione, che non c’è maggiormente connessione e solidarietà fra loro relativamente ai benefici della vendita, e che il guadagno che può risultare dal suo uso appartiene così esclusivamente all’inventore, come il castigo di cui egli potrebbe diventare meritevole in seguito a delitto o imprudenza. La proprietà è identica alla responsabilità; non si può affermare questa senza accordare nello stesso tempo quella.

Ma ammirate lo sragionamento della ragione! Questa stessa proprietà, irreprensibile nella sua origine, costituisce nel suo esercizio una iniquità flagrante, e ciò senza che vi si aggiunga alcun elemento che la modifichi, ma per il solo sviluppo del principio.

Consideriamo nel loro insieme i prodotti che l’industria e l’agricoltura apportano al mercato. Questi prodotti, come la polvere e il sapone, sono tutti, a un grado qualunque, il risultato di una combinazione i cui materiali sono stati tratti dal magazzino generale. Il prezzo di questi prodotti si compone invariabilmente dapprima dei salari pagati alle differenti categorie di lavoratori, in secondo luogo, dei profitti esatti dagli imprenditori o capitalisti. Di modo che la società si trova divisa in due classi di persone: 1° gli imprenditori, capitalisti e proprietari che hanno il monopolio di tutti quanti gli oggetti di consumo; 2° i salariati o lavoratori che non possono dare di queste cose che la metà di ciò ch’esse valgono, ciò che rende loro il consumo, la circolazione e la riproduzione impossibili.

Invano Smith ci dice: “La semplice equità esige che quelli che vestono, nutrono e alloggiano tutto il corpo della nazione abbiano nel prodotto del proprio lavoro una parte sufficiente per essere essi stessi passabilmente nutriti, vestiti e alloggiati”.

Come mai potrebbe tutto ciò farsi, a meno di uno spossessamento dei monopolisti? E come mai impedire il monopolio se esso è un effetto necessario del libero esercizio della facoltà industriale? La giustizia che vorrebbe stabilire Smith è impraticabile nel regime della proprietà. Ora, se la giustizia è impraticabile, se essa diventa anche ingiustizia, e se questa contraddizione è intima alla natura delle cose, a che serve parlare ancora di equità e umanità? Forse la Provvidenza conosce l’equità, o la fatalità è filantropa? Non è alla distruzione del monopolio e nemmeno del lavoro che dobbiamo tendere; ma con una sintesi che la contraddizione del monopolio rende inevitabile a fargli produrre nell’interesse di tutti i beni che esso riserva a qualcuno. Fuori di questa soluzione la Providenza resta insensibile alle nostre lacrime; la fatalità segue inflessibilmente la sua strada e, mentre disputiamo, gravemente assisi, sul giusto e l’ingiusto, il Dio che ci ha fatti contraddittori come lui, nei nostri pensieri, contraddittori nei nostri discorsi, contraddittori nelle nostre azioni, ci risponde con uno scoppio di risa.

E questa contraddizione essenziale delle nostre idee, realizzandosi mediante il lavoro ed esprimendosi nella società con una gigantesca potenza, fa accadere tutte le cose in senso inverso di ciò ch’esse devono essere a dà alla società l’aspetto di una tappezzeria vista a rovescio o di un animale supino. L’uomo, con la divisione del lavoro e con le macchine, doveva elevarsi gradualmente alla scienza e alla libertà; invece con la divisione, con la macchina, si abbrutisce e si rende schiavo. L’imposta, dice la teoria, deve essere in ragione della fortuna e, tutto al contrario, l’imposta è in ragione della miseria. L’improduttivo deve obbedire e, per un’amara derisione, l’improduttivo comanda. Il credito, secondo l’etimologia del suo nome e secondo la sua definizione teoretica, è il fornitore del lavoro; nella pratica esso l’opprime e l’uccide. La proprietà, nello spirito della sua prerogativa più bella, è l’estensione della terra e, nell’esercizio di questa stessa prerogativa, la proprietà è l’interdizione della terra.

In tutte le sue categorie l’economia politica riproduce la contraddizione dell’idea religiosa. La vita dell’uomo, afferma la filosofia, è un affrancamento perpetuo dall’animalità e dalla natura, una lotta contro Dio. Nella pratica religiosa, la vita è la lotta dell’uomo contro se stesso la sottomissione assoluta della società a un essere superiore. Amate Dio con tutto il cuore, ci dice il Vangelo, e odiate l’anima per la vita eterna; precisamente il contrario di ciò che ci comanda la ragione...

Non spingerò più lontano questo riassunto. Giunto al termine della corsa, le mie idee fanno ressa in tale moltitudine e veemenza che già ci vorrebbe un nuovo libro per raccontare ciò che scopro e, a dispetto della convenienza oratoria, io non vedo altro mezzo di finire che arrestarmi bruscamente.

Se non m’inganno, il lettore deve essere convinto per lo meno di una cosa, ed è che la verità sociale non può trovarsi né nell’utopia né nella pratica; che l’economia politica non è la scienza della società, ma essa contiene i materiali di questa scienza nello stesso modo in cui il caos, prima della creazione del mondo, conteneva gli elementi dell’universo; che per arrivare all’organizzazione definitiva, che pare essere il destino della nostra specie sul globo, non resta che fare l’equazione generale di tutte le nostre contraddizioni.

Ma quale sarà la formula di questa equazione?

Ormai ci è permesso di intravederla: deve essere una legge di scambio, una teoria di mutualità, un sistema di garanzie che risolva le forme antiche delle nostre società civili e commerciali e soddisfi a tutte le condizioni d’efficacia, di progresso e di giustizia che ha segnalato la critica; una società non più solamente convenzionale ma reale; che cambi la divisione parcellare in strumento di scienza; che abolisca la servitù delle macchine e prevenga le crisi derivanti dalla loro apparizione; che faccia della concorrenza un beneficio e del monopolio una sicurezza per tutti; che, per la potenza del suo principio, invece di domandare credito al capitale e protezione allo Stato, sottometta al lavoro il capitale e lo Stato; che, con la sincerità dello scambio, crei una vera solidarietà fra i popoli; che, senza interdire l’iniziativa individuale, senza proibire il risparmio domestico, riconduca incessantemente alla società le ricchezze che l’appropriazione distoglie; che, con questo movimento di uscita e di entrata dei capitali, assicuri l’equivalenza politica e industriale dei cittadini e con un vasto sistema d’educazione pubblica procuri, elevando sempre il loro livello, l’eguaglianza delle funzioni e l’eguaglianza delle attitudini; che con la giustizia, il benessere e la virtù, rinnovando la coscienza umana, assicuri l’armonia e l’equilibrio delle generazioni; una società, in una parola, che, essendo nello stesso tempo organizzazione e transizione, sfugga al provvisorio, garantisca tutto e non impegni nulla.

La teoria della mutualità o del mutuum, cioè dello scambio in natura, la cui forma più semplice è il prestito di consumo, è, dal punto di vista dell’essere collettivo, la sintesi delle due idee di proprietà e di comunità; sintesi così antica come gli elementi che la costituiscono, poiché essa non è altra cosa che il ritorno della società alla sua pratica primitiva attraverso un dedalo di invenzioni e di sistemi, il risultato di una meditazione di sei mila anni su questa proposizione fondamentale: A uguale ad A.

Tutto si prepara oggi per questa restaurazione solenne, tutto annuncia che il regno della finzione è passato e che la società va a rientrare nella sincerità della sua natura. Il monopolio si è gonfiato fino ad eguagliare il mondo; ora, un monopolio che abbraccia il mondo non può rimanere esclusivo, bisogna che si repubblicanizzi oppure che scoppi. L’ipocrisia, la venalità, la prostituzione, il furto, formano il fondo della coscienza pubblica; ora, a meno che l’umanità non apprenda a vivere di ciò che l’uccide, bisogna credere che la giustizia e l’espiazione s’avvicinano...

Già il socialismo, sentendo venire meno le sue utopie, s’attacca alle realtà e ai fatti; ride di se stesso a Parigi, discute a Berlino, a Colonia, a Lipsia, a Breslavia; freme in Inghilterra, tuona dall’altra parte dell’Oceano, si fa uccidere in Polonia, aspira al Governo a Berna e a Losanna. Il socialismo, penetrando le masse, è diventato tutt’altro; il popolo s’impensierisce poco delle scuole, domanda il lavoro, la scienza, il benessere, l’eguaglianza. Poco gl’importa il sistema, purché la cosa vi si trovi. Ora, quando il popolo vuole qualche cosa, e non si tratta più per lui che di sapere come mai potrà ottenerla, la scoperta non si fa attendere: preparatevi a vedere discendere la grande mascherata...

Che il prete si metta alla fine nello spirito che il peccato è la miseria, e che la vera virtù, quella che ci rende degni della vita eterna, è di lottare contro la religione e contro Dio; – che il filosofo, abbassando il suo orgoglio, supercilium philosophicum, apprenda da parte sua che la ragione è la società, e che, filosofare, è mettere all’opera le proprie mani; – che l’artista si sovvenga che altre volte discese dall’Olimpo nella stalla del Cristo, e che da questa stalla s’elevò a un tratto a splendori sconosciuti; che, come il cristianesimo, il lavoro deve rigenerarlo; – che il capitalista pensi che l’argento e l’oro non sono valori veridici; che per la sincerità dello scambio tutti i prodotti, elevandosi alla stessa dignità, ogni produttore avrà nella sua propria casa una zecca e, come la finzione del capitale produttivo ha operato la spoliazione dell’operaio, così il lavoro organizzato riassorbirà il capitale; – che il proprietario sappia ch’egli non è che il collettore delle rendite della società, e che se ha potuto già, col favore della guerra, mettere l’interdetto sul suolo, il proletario può, a sua volta, con l’associazione, mettere l’interdetto sui raccolti e fare cadere la proprietà nel vuoto; – che il principe e il suo orgoglioso corteggio, i suoi militari, i suoi giudici, i suoi consiglieri, i suoi Pari, e tutto l’esercito degli improduttivi, si affrettino a gridare Grazie! al lavoratore e all’industriale, perché l’organizzazione del lavoro è sinonimo della subordinazione del potere, e dipende dal lavoratore abbandonare l’improduttivo alla sua indigenza, e fare perire il potere nell’onta e nella fame... Tutte queste cose accadranno, non come novità impreviste, insperate, effetto subitaneo delle passioni del popolo o dell’abilità di qualche uomo, ma per il ritorno spontaneo della società a una pratica immemorabile, momentaneamente abbandonata, e c’è il suo perché...

L’umanità, nel suo cammino oscillante, gira incessantemente sopra se stessa; i suoi progressi non sono che il ringiovanimento delle sue tradizioni; i suoi sistemi, tanto opposti in apparenza, presentano sempre lo stesso fondo visto da lati differenti. La verità, nel movimento della civiltà, resta sempre identica, sempre antica e sempre nuova; la religione, la filosofia, la scienza, non fanno che tradirsi. Ed è precisamente ciò che costituisce la provvidenza e l’infallibilità della ragione umana; ciò che assicura, nel seno stesso del progresso, l’immutabilità del nostro essere; ciò che rende la società nello stesso tempo inalterabile nella sua essenza e irresistibile nelle sue rivoluzioni; e che, estendendo continuamente la prospettiva, mostrando sempre da lontano l’ultima soluzione, fonda l’autorità dei nostri misteriosi presentimenti.

Riflettendo sopra queste lotte dell’umanità, mi ricordo involontariamente che, nel simbolo cristiano, alla Chiesa militante deve succedere nell’ultimo giorno una Chiesa trionfante, e il sistema delle contraddizioni sociali m’appare come un ponte magico gettato sul fiume dell’oblio...

Appendice I. Di un certo Proudhon, di alcuni imbecilli e di altre cose

Nel mondo dei fantasmi, quello abitato dalle ideologie che – per intenderci – si scambiano fra di loro e si fanno scambiare volentieri per cose reali, in questi ultimi tempi [1978], c’è stato un gran scompiglio.

Qualche imbecille ha parlato di “nuova proposta analitica che viene a contrapporsi alle proposte leniniste e marxiste”, riferendosi alle stupidaggini dette da Craxi, altri – più in fondo alle vicende del palazzo dei fantasmi – hanno parlato di svolta ideologica elaborata non da Craxi, il quale, beato lui, naviga nelle nebbie della più bieca ignoranza, ma da un gruppo di sociologi vicini al partito socialista.

Non è mancato chi ha anche indicato, all’interno di questo gruppo, qualche sociologo di maggior merito, definendolo “un onesto riformista e un buon conoscitore del pensiero anarchico e libertario”, affermazione che farebbe ridere se non suonasse tragica.

Ma, andiamo con ordine.

La rispolveratura di Proudhon fa parte, come anche gli imbecilli comprendono, di una proterva manovra di potere del Partito Socialista che, inviato qualche suo lacchè nel palazzo dei fantasmi, lo ha incaricato, nel più breve tempo possibile, di mettergli in piedi un impianto ideologico da servire come base per una contrapposizione all’incerto marxismo del Partito Comunista e all’incredibile pasticcio liberal-cattolico-protezionista della Democrazia Cristiana. Il lavoro richiesto non era difficile, anche perché elementi precedenti indicavano (come vedremo meglio più avanti) che lacchè del partito socialista erano andati per i fatti loro, di tanto in tanto, a far visita al palazzo (non si sa mai, la cosa può sempre tornare utile per faccende di stretto sapore pecuniario, come: carriere, prebende, riconoscimenti, sovvenzioni ed altre amenità).

Fatto il suddetto lavoro, questa brava gente, non trovando ostacolo alcuno (quel palazzo, come ognuno sa, è incustodito e chiunque vi può accedere con facilità, basta saper leggere e buttar giù qualche frase in discreto italiano), fatto questo lavoro, i nostri amici socialisti, con in testa – tanto per non fare nomi – quel degno Pellicani (onesto riformista e buon conoscitore del pensiero anarchico e libertario), sono tornati dal loro padrone e gli hanno messo in bocca le parole del nuovo credo: Proudhon, gigante del passato, è ancora in grado di ergersi contro Marx, altro gigante del passato.

Apriti cielo! Andare a ripescare proprio Proudhon, affermano subito i lacchè al servizio del Partito Comunista, dopo che Marx lo aveva definito “piccolo borghese e bottegaio”. Anche gli anarchici si sono subito risentiti, e tirando fuori dal dimenticatoio i propri ricordi – chi mai si era interessato negli ultimi anni di tale Proudhon, in fondo in fondo considerato anarchico ma con tante e tali pregiudiziali che era meglio lasciar perdere? – (qualcuno dei compagni si è anche risentito facendo una conferenza sul problema di Proudhon oggi) ed hanno rivisitato il loro castello dei fantasmi (non si sa mai), insistendo poi sul copyright: “su questo le mani le avevamo messo prima noi”, riformista o rivoluzionario che sia stato, Proudhon è nostro, la storia ce lo ha dato (grazie all’avallo marxista) e guai a chi ce lo tocca.

Da canto loro, i lacchè del Partito Socialista, asciugandosi il muso lordo del sangue dei lavoratori, hanno affermato che i comunisti non avevano nulla da ribattere su Proudhon, rifacendosi a Marx, in quanto non solo avevano rinnegato il marxismo ma avevano accettato strade riformiste che il riformista Proudhon non avrebbe per nulla disdegnato. Riguardo agli anarchici, insistevano, togliendosi con cura qualche pezzetto di carne dei lavoratori rimasto loro tra i denti, nemmeno loro avevano di che lamentarsi in quanto “in un certo senso Craxi si è comportato come Errico Malatesta negli anni venti quando, pur dicendosi per l’unione delle sinistre contro il fascismo, insisteva nel sottolineare le differenze di principio esistenti fra anarchici e comunisti”.

Tutta questa odiosa faccenda ha l’aria di assomigliare ad un teatrino di campagna, quello che spesso viene messo in piedi nelle piazze di paese. Le marionette, dai colori vivaci, si alternano sulla minuscola scena, ma le mani dei pupari che danno loro vita sono sempre le stesse: ora viene messo giù un personaggio e un altro entra in scena, ora quest’ultimo viene rigettato nel buio per far posto a quello che prima era stato accantonato.

La sostanza delle cose, la vita vera e palpitante, resta nascosta agli spettatori, seduti sulle panche di legno o in piedi, ed è bellissimo guardare tante facce di bambini col naso per aria e a bocca aperta immedesimarsi in quelle vicende, farle proprie, parteggiare ora per questo ora per quel personaggio, magari dolendosi dei guai dell’uno e rallegrandosi delle gioie dell’altro.

Noi di “Anarchismo” che avevamo avuto l’impudenza di pubblicare nel 1975 l’opera economica fondamentale di Proudhon, tra il gelido silenzio di quasi tutti i compagni anarchici (ma cosa andate a ripescare questa roba ormai sorpassata?), in questi ultimi due mesi [1978] abbiamo visto esaurirsi la tiratura di quel volume che, prima, si vendeva malissimo; dimostrazione, ove ce ne fosse bisogno, del processo automatico di trasformazione dell’ideologia in merce, processo che il capitale realizza per il fatto stesso dell’esistenza del mercato, senza star lì a prendere le distanze se si è anarchici o socialisti. Il nostro volume era sul mercato (e non dimentichino i nostri compagni lettori che uno dei motivi – e non fra gli ultimi – della nostra collana di classici è proprio quello di fare libri per venderli), e l’ondata ideologica messa in movimento dai messeri del Partito Socialista lo ha trasformato in merce appetibile.

Riguardo alle umoristiche vicende del dibattito sulla posizione teorica di Proudhon e sulla sua contrapposizione a Marx non è molto importante soffermarsi. Tutti lo stanno facendo, che senso avrebbe ribattere qui il chiodo? Lo ha fatto Berti, definito dai compagni della rivista “A”, “sicuramente uno dei più preparati storici del movimento” (foto a fianco), che cosa potrei aggiungere di nuovo?

Lo hanno fatto quegli altri, gli imbecilli lacchè al servizio del Partito Socialista, lo ha fatto l’“onesto riformista” Pellicani, che, a dire il vero, tempo fa mi aveva inviato una lettera richiedendomi – per recensione – il libro di Proudhon da noi pubblicato e altri volumi della stessa collana – lettera che ho cestinato, mandando a quel paese questo “buon conoscitore del pensiero anarchico”: che li comprasse nelle librerie i nostri libri.

Lo hanno fatto tanti altri, da Valiani a Salvadori, giù, giù fino ai liberali. I fascisti sono rimasti un poco interdetti, poi hanno, evidentemente con virile atto di coraggio, deciso che loro non si riconoscevano nelle tesi di Proudhon, nemmeno in quelle della Pornocrazia. E si sono messi l’anima in pace.

Osservando bene, l’operazione condotta dagli sgherri di Craxi non è altro che una grande cortina di fumo, diretta a nascondere il progressivo schiacciamento del partito tra i due colossi della reazione imperante. Un modo come un altro di strillare forte, qualsiasi cosa, anche parole inconsulte, per farsi sentire dalla gente. Una specie di vano dibattersi di chi non sa più nuotare perché paralizzato dalla paura. Se dovesse cessare questa paura cesserebbero anche le chiacchiere su Proudhon.

Il condensato che delle posizioni teoriche di Proudhon è stato fatto non ha senso alcuno, essendo prodotto dai servitori di un potere ad esclusivo beneficio di quest’ultimo. L’operazione ricorda quella fatta da Mussolini e da Gentile. Il primo incaricò indirettamente il secondo di realizzare al più presto una certa base filosofica e una giustificazione logica per il fascismo. A dire il vero non poteva scegliere meglio: professionista il Gentile lo era veramente, di quella bravura tecnica che rende gli uomini privi di scrupoli ancora più pericolosi. E il filosofo siciliano si mise al lavoro, fece la sua brava visita al castello dei fantasmi e fornì al suo duce e padrone lo stretto indispensabile per giustificare “teoricamente” la dittatura fascista. Insieme al collega tedesco, quel Rosenberg a cui fu commissionata più o meno la stessa operazione, Gentile trovò la fine che meritava.

Come mai, mi chiedo, invece di darsi da fare per ficcare una pallottola nel bel mezzo della fronte ai corrispondenti (in sedicesimo) nostrani e contemporanei di simili predecessori, squallide figure oscillanti dalla socialdemocrazia al cattolicesimo, dal comunismo autoritario allo stalinismo di rigetto; come mai, a questa masnada di traditori della causa dei lavoratori, si continua a dar credito, facendoli parlare nei nostri convegni, nelle nostre assemblee, invitandoli a “dire la loro” nei nostri giornali?

È significativo che chi consente a questi traditori di parlare fianco a fianco degli anarchici, avverte una specie di disagio, tanto che i compagni responsabili di simili “leggerezze” sentono il bisogno di affiancare al nome di questa gente epiteti “qualificanti” come: “onesto riformista”, “profondo conoscitore dell’anarchismo”, “storico del sindacalismo” e faccende del genere.

Intendiamoci bene. Con queste osservazioni non voglio per nulla dire che gli anarchici, in quanto “portatori della verità”, devono stare attenti alle contaminazioni, evitando di “parlare” con gli altri, sul piano culturale e scientifico. Non si tratta di tenere le nostre cose nel chiuso delle nostre chiese, tendenza contro cui mi sono sempre battuto, e anche coloro che non condividono le mie posizioni non possono non darmene atto. Il fatto è che bisogna avere il coraggio di dichiarare fino in fondo che il dialogo e la democrazia sono mistificazioni, che facendo parlare i traditori dei lavoratori non si accresce il patrimonio culturale, perché l’unico patrimonio del genere è quello che le lotte degli sfruttati vanno accumulando ogni giorno, non le stupidaggini che su quelle lotte uomini di cultura asserviti al potere vanno dicendo di tanto in tanto.

Illudersi che la partecipazione di questi meschini lacchè del potere, in un modo qualsiasi possa tornare utile agli sfruttati, è illusione tragica che rispecchia, sul piano ideologico, quell’altra illusione che, sul piano pratico, si chiama fronte popolare, collaborazione con le “forze” della sinistra.

Volendo, per un attimo, scendere più da vicino verso le cose fatte da Proudhon, non si può tacere come tutta la sua opera sia stata una immane lotta contro quelle che oggi definiremmo destra e “sinistra”, una lotta a volte contraddittoria, perché contraddittoria è la realtà, specie quando ci si rifiuta di fare intervenire un principio astrattamente consolidante, quale quello fissato nel meccanismo dialettico hegeliano-marxista. Ora, Proudhon, ai suoi tempi, non era per nulla lo sconosciuto che oggi appare. Era al centro di un movimento politico che non solo continuò molto tempo dopo di lui, travagliando anche le vicende domestiche dello stesso Marx (ricordare la presenza in famiglia di Longuet), ma era egli stesso un lottatore, non un visionario perduto fra le sue carte, un dottrinario che intende consegnarsi senza reagire ai denti da topo di un qualsiasi Pellicani o Sciacca. Per andare a far visita ad un amico era capace di farsi a piedi Parigi-Lione e, non trovandolo, rifarsi, sempre a piedi, lo stesso tragitto. Era un uomo che lavorò seriamente in vita sua, da operaio manuale, da tipografo e da operaio intellettuale, trovando sempre il modo – forse alcune volte confusamente – di attaccare lo sfruttamento e i suoi artefici. Era un uomo che fino all’ultimo, vecchio e sfibrato dal carcere e dalle persecuzioni, pur con le cautele letterarie che ritenne opportuno usare, attaccò ancora una volta il potere, dichiarandosi senza mezzi termini dalla parte del popolo.

Un suo famoso intervento, prima della prigione, all’Assemblea Nazionale, il 31 luglio 1848, raccolse gli insulti unanimi dell’assemblea, dai legittimisti reazionari ai progressisti repubblicani, ai comunisti autoritari. Il suo attacco contro la destra e contro la “sinistra” – attacco contemporaneo su due fronti, l’unico attacco possibile per un anarchico conseguente – e la sua affermazione della “necessità di una reale costituzione sociale che renda superflua qualsiasi costituzione politica”, furono respinti con 691 voti su 693 e con un provvedimento di biasimo contro di lui.

Ma, chiaramente, non sono queste le cose che possono essere recepite da gente della risma di Pellicani, Settembrini, Salvadori. E i compagni anarchici che intervengono nel problema, adesso, debbono far chiarezza immediata; primo, sulla posizione strumentale (e quindi controrivoluzionaria) di questa gente; secondo, sulle analisi che ancora oggi sono valide nell’opera di Proudhon, analisi che devono essere fatte valere indipendentemente dal contributo (ripeto, sempre strumentale) dei vari soloni marxisti, cripto-marxisti, cattolici o proudhoniani che imperano nelle università, che appestano le biblioteche, che infestano i giornali di regime.

Fare un campionario di queste possibili analisi è certamente inutile, per compagni anarchici preparati come sono quelli che si occupano dell’argomento. Comunque, se dovessi lavorarci io, mi dedicherei alle analisi di Proudhon sul rapporto politica-società, sul confederalismo (da non confondersi con il federalismo), sul rapporto confederalismo e sindacalismo, sull’astensionismo, sulle classi, sul rapporto contadini-operai, sulla borghesia, sui processi dialettici, sulla storia e via discorrendo.

E questo non mi sembrerebbe un “utilizzo” di Proudhon oggi, nel senso dell’operazione portata a compimento da Craxi e accoliti, ma un contributo al patrimonio di idee del movimento rivoluzionario, contributo che, però, può essere realizzato soltanto dai rivoluzionari stessi e non da rimestatori di cadaveri.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” nn. 23-24, 1978, pp. 260-263 e anche in Alfredo M. Bonanno, Chi ha paura della rivoluzione?, seconda ed., Catania 1986, pp. 50-55]

Appendice II. Che cos’è l’economia?

Che cos’è l’economia? Ponendosi questa domanda i più si aspettano una risposta. In sostanza non è possibile dare questa risposta, eppure è utile porsi lo stesso la domanda.

Prigionieri come siamo al momento della formazione capitalista che ci ospita tanto vale guardarsi attorno per capire meglio quello che ci imprigiona, anche se al momento non possiamo vedere nemmeno una traccia di quella trasformazione radicale che desideriamo in quanto rivoluzionari e anarchici.

Mettendo da parte la quasi totalità dei problemi tecnici che la scienza economica cerca di approfondire – vedremo in queste paginette che in effetti non li metteremo del tutto da parte – resta pur sempre la condizione di bisogno in cui ci troviamo. Tutti abbiamo bisogno di alcuni beni per la nostra vita. I beni sono oggetti che soddisfano i nostri bisogni. Un paio di scarpe è un bene e qualcuno lo deve produrre. Ragionamento terra terra ma ineccepibile. La disagevolezza del camminare al freddo senza scarpe è un senso di pena profonda che ingenera il bisogno delle scarpe.

Dietro queste affermazioni così ragionevoli si nascondono alcuni aspetti importanti che di regola sfuggono all’attenzione immediata. Non tutti i bisogni che dobbiamo soddisfare sono necessari. La gran parte di essi hanno natura indotta, cioè il meccanismo produttivo non si limita solo a costruire oggetti di consumo ma anche il bisogno di consumare gli oggetti che vuole produrre e dalla cui produzione trae un guadagno. Questa produzione aggiuntiva costituisce oggi la quasi totalità della produzione nel suo complesso, per cui possiamo affermare che produrre l’oggetto stesso è solo una piccola parte dello sforzo produttivo, se la commisuriamo a quanto viene investito nel produrre prima il bisogno da soddisfare con quell’oggetto.

Il bene in se stesso, l’oggetto che indossiamo o che mettiamo sotto i denti, diventa pertanto qualcosa di marginale, qualcosa di così poco importante che alla fine può anche sparire. La produzione di oggetti virtuali rende più agevole e meno costosa la fabbricazione del bisogno relativo che quegli oggetti rende possibili in veste di beni di consumo. L’importanza della virtualizzazione produttiva solo in questi ultimi anni viene capita meglio perché solo adesso si colgono i movimenti di interrelazione che si mettono in atto tra meccanismo produttivo del bene virtuale e meccanismo produttivo del bisogno di quello stesso bene, la struttura di queste due produzioni ha caratteristiche sociali che a loro volta sono anch’esse in relazione di reciproco scambio. Il capitalismo moderno investe sempre di più nella costruzione di una società in cui la raffinazione del bisogno si dettaglia in modelli estetici standardizzati ma suddividibili all’infinito, mentre la risposta produttiva a questa domanda variegata (simbolo ma non sostanza di una maggiore libertà) si può facilmente evadere con costi produttivi sempre meno impegnativi.

Ma questo indirizzo il capitalismo non sa bene come controllarlo, come non sa controllare fino in fondo qualsiasi cosa a cui mette mano. Questo limite tecnico dovrà essere tenuto presente nella lettura del presente scritto perché ne costituisce uno dei motivi conduttori. La carota del guadagno immediato – le teorie marginaliste non sono mai morte – guida il capitalismo di oggi come quello di cento anni fa. Oggi tutti sappiamo che una potente riduzione del costo del lavoro si ha fabbricando in Thailandia o in Cina i prodotti che prima si fabbricavano poniamo in Europa. Il capitalista persegue questa possibilità di maggiore lucro fino in fondo, cioè fino a quando il valore marginale ottenuto dividendo il costo per la quantità della produzione non tornerà ai livelli di partenza, fino a quando insistere nel produrre in quei paesi significherebbe fabbricare a prezzi uguali a quelli europei.

Molti hanno dedotto da questo ragionamento – in linea con i classici – che qui si nasconde un meccanismo regolativo interno al capitalismo, e che la tendenza produttiva di una economia globale è quella verso l’equilibrio. Vedremo che le cose non stanno così.

Non stanno così per il medesimo motivo per cui non si poteva (e non l’abbiamo mai fatto) accettare l’ipotesi marxista di un procedere verso la contraddizione conclusiva, la grande crisi che avrebbe segnato l’avvento della società comunista. A me pare che non ci sia nulla di deterministico nella realtà e che la società, con tutte le sue cosiddette leggi, quindi anche quelle cosiddette economiche, si muova attraverso processi in gran parte imprevedibili e inspiegabili, e che tutte le volte che mettiamo mano a previsioni e spiegazioni queste sono sempre fatte sulla base di presupposti assoluti, in altre parole teorie fondate su una credenza o una fede, più che su elementi provvisti di una qualche oggettività.

Il capitale, nervi e sangue del capitalismo, non è una quantità di ricchezza ben determinata, ricchezza che cresce se utilizzata bene o decresce se male impiegata. Il capitale è un flusso, un movimento di reddito. Capire questo concetto è importante per i rivoluzionari. Immaginiamo che uno possieda un milione di Euro in banconote o l’equivalente in un bene rifugio come l’oro. Se seppellisce in giardino questi oggetti è come se non li possedesse. Solo utilizzandoli essi hanno un valore, quindi il loro significato economico comincia proprio nel momento in cui essi si muovono, escono dalla loro immobilità che li azzera e entrano in relazione con l’universo produttivo. Ma in questo momento essi devono correre dei rischi, modificarsi, diventare molteplicità di beni e improbabilità di ricavi. È stato detto che tutto il sangue della storia è stato versato per assicurare al capitale un reddito medio del tre per cento, ed è affermazione esatta. Il redditiere non chiede altro, un modesto tre per cento, per assicurare un raddoppio del suo capitale in vent’anni, più o meno il lasso di tempo di una generazione.

Ma i gestori della formazione produttiva, i veri e propri capitalisti, vogliono andare oltre questo tre per cento, e nel fissare un tasso appetibile non hanno limiti. Per fare ciò devono correre maggiori rischi. Forse in loro è rimasto qualcosa del modello corsaro alla Francis Drake, forse non sono tipi che amano troppo le regole, forse sono squali affamati, non lo so, certo è che si buttano su qualsiasi preda possa garantire il tasso di rendimento maggiore. È ovvio che queste regole da rispettare non sono soltanto quelle stampate sui vari codici, ci sono anche quelle che riguardano il rispetto dei propri simili, degli animali e della natura. Nella sua aggressività il capitalista non solo calpesta le regole dei codici ma anzi alla negazione di queste arriva solo dopo che ha calpestato la dignità umana, la vita degli animali, l’anima della natura. Facendo in poco tempo quattro conti ci si rende conto che non si può dare vita a nessuna attività considerevolmente redditizia senza quella che è stata definita l’accumulazione di partenza. Il risparmio, anche il più occhiuto, non basta. Solo l’attacco agli altri, ai diritti degli altri, alla loro vita, ai beni e alle regole della convivenza, possono rendere possibile questa accumulazione. Non c’è un capitalista che non abbia alle sue spalle assassinii, stupri, riduzione in schiavitù, sfruttamento di minori, fino alla banale evasione fiscale.

Ecco perché la meta dell’equilibrio è un sogno illuminista che non può realizzarsi nelle condizioni produttive del capitalismo. Se il capitalista – per tornare all’esempio precedente – trova più conveniente produrre in Cina, non vorrà aspettare, prima di interrompere questo processo economico, che si esaurisca l’utilità marginale relativa, cioè che le quantità di prodotto abbiano raggiunto un costo tale da rendere antieconomico continuare a produrre in Cina, egli solleciterà altre strade, cercherà di scarnificare altri paesi, ridurre all’osso altre strutture sociali, snaturare altre culture e altre popolazioni, per raggiungere il massimo livello di interesse per il suo capitale. Con questo sarà sempre legato a un intervento aggressivo, in collaborazione con le strutture militari e specificamente poliziesche che lo sostengono a livello nazionale e internazionale. Con questo creerà sempre di più situazioni di conflitto per dissodare nuovi terreni più proficui allo sfruttamento, e ciò tenendo nel minimo conto le vite umane (non solo degli aggrediti ma anche dei propri servitori), i costi in termini di inquinamento e sfruttamento irrazionale delle risorse del pianeta, ecc.

L’ingordigia del capitalismo non è però dettata dalla passione dei capitalisti, ma da un ragionamento legato al processo produttivo stesso. In altri termini, al contrario del redditiere, il capitalista non può aspettare, vuole realizzare il massimo profitto nel più breve tempo possibile, nella sua logica fin quando c’è da lucrare una differenza è assurdo non farlo. Quello che possiamo identificare come l’utile immediato per il singolo capitalista, entra però in conflitto con l’utile a medio e a lungo termine del capitalismo nel suo insieme. E qui si annida un altro aspetto della contraddizione di cui parlavamo prima.

Ma indirizziamo diversamente verso il medesimo punto del ragionamento.

Lo sfruttamento è legato al lavoro, ma non perché i lavoratori dovrebbero ricevere l’intero valore dei prodotti. Se mai nella storia c’è stato un momento in cui questa equazione (cioè l’equivalenza tra lavoro e prodotto in termini di valore) è stata fondata non lo è di certo oggi. Il lavoro non è la sola sostanza valorificante. E nemmeno il capitale. La maggior parte del processo di valorizzazione, in termini capitalisti, oggi è data dal carico simbolico che il prodotto subisce. Riducendo all’osso la maggior parte dei prodotti si resta al di sotto del loro significato oggettivo, cioè della loro possibilità d’uso. Le fabbriche di automobili non producono mezzi di locomozione ma simboli, segni di appartenenza a congregazioni diverse. Le industrie di abbigliamento fanno lo stesso, contraffazioni comprese. Se una rivoluzione economica desse oggi nelle mani dei lavoratori le loro industrie automobilistiche e le loro macchine essi non saprebbero cosa farsene. Se qualche geniale economista progettasse una riforma sociale in cui il valore prodotto dovrebbe andare al produttore non si potrebbe capire cosa dare a quest’ultimo in quanto non si ha nessuna possibilità di arrivare a una determinare del valore se non in termini di prezzo di mercato, ma questo prezzo comprende, in massima parte, il valore simbolico che sarebbe inesatto accreditare al lavoratore, se non forse per la parte che lui stesso personalmente contribuisce a tenere in vita.

L’estraniamento del produttore di fronte a se stesso, se si preferisce l’antica alienazione, deriva dal non riconoscersi più nella propria condizione lavorativa. È il mondo del lavoro che è esploso polverizzandosi in un numero infinito di pezzi. Spezzata la coesione di classe, sia pure con tutti i limiti di una volta, il proletario non è più tale, si schiera subito dalla parte della sopravvivenza, cerca di barcamenarsi, di sopravvivere, di vedere l’altro proletario come un potenziale nemico non più come un fratello. In questo la riorganizzazione produttiva, basata sulle isole o sulle catene modificabili, gli offusca sempre più le idee. La flessibilità gli rende morbida la schiena, nulla lo lega più al contesto produttivo che non sentendolo proprio non lo avverte più neanche come nemico. Lo stesso capitalista, nella concretezza della vicinanza produttiva, cioè nella veste dei capi e dei capetti, è scomparsa. Oggi il controllo del lavoro è affidato ai lavoratori stessi, agli incentivi di cottimo (chiamati diversamente), al considerare ogni reparto della fabbrica, reciprocamente, come fornitore e cliente di tutti gli altri reparti, ecc.

Per avere un’idea più semplice del problema occorre tenere presente che il problema centrale dell’economia è il valore. Tutto si riduce a un calcolo sulle grandezze. Il capitale è dato da un flusso di ricchezza, ma questa si ridurrebbe a nulla se non si potesse quantificare. Va bene che chi possiede un panino e non lo mangia ma lo sotterra è come se non possedesse nulla, ma deve avere pure un’idea di quello che possiede, altrimenti non comprenderebbe in che rapporto sta quel panino con gli altri beni di cui il bisogno o l’occasione gli propone la presenza. Il capitalismo suggerisce il prezzo come valore del bene. Si tratta oggi del sistema più comune di valorizzazione (non sarebbe sbagliato parlare di valorizzazione universale), ed ha pretese oggettive. È facile capire che queste pretese sono infondate. Senza approfondire molto la questione (abbastanza complessa) una variazione del prezzo può avvenire perché si modifica l’indicazione monetaria oppure cresce o diminuisce la quantità disponibile del bene. Più quantità c’è di quel bene e più il prezzo si abbassa, e viceversa. Ma il prezzo può anche muoversi in relazione a tutto quello che il produttore intraprende per incrementare la domanda del bene in questione. Oggi questo secondo problema, essendo la maggior parte della produzione ormai virtualizzata, è più importante. Aggiungendo la complicazione del rapporto dei prezzi a livello internazionale si capisce come a causa dei cambi la formazione dei prezzi non è mai un processo capace di indicare il valore di un bene. Anche in paesi cosiddetti democratici i prezzi non sono mai fissati esclusivamente dalle quotazioni di mercato.

Mille azioni intervengono sul prezzo. La cupidigia dello Stato, che impone le proprie tasse percependo una parte considerevole in modo diretto su alcuni beni, per esempio (importante) la benzina, o indiretto attraverso le imposte sul reddito. Poi la cupidigia del capitalista che cerca di trasferire sul prezzo (quindi sul consumatore) tutti i suoi costi aggiunti, oltre a ogni variazione anche provvisoria che viene così fatta diventare definitiva. Molti costi di fondo, derivanti da disperati tentativi di frenare il disfacimento delle risorse naturali del pianeta, entrano nel prezzo pur appartenendo a forme produttive parallele e quindi dando vita a interrelazioni di costi che finiscono per raddoppiarsi o triplicarsi. In conclusione non c’è nulla di più incerto della formazione del prezzo. Ciò rende qualsiasi calcolo economico una pura illusione in quanto non c’è modo di fissare in maniera attendibile il valore dei beni.

Poiché il meccanismo del mercato non è attendibile, come per altro qualsiasi altra struttura posta in atto dal capitalismo, si è pensato di prendere come unità di misura il valore d’utilizzo del singolo bene. Ma la considerazione dell’utilità è un fatto individuale, essa varia infatti a seconda della situazione sociale e culturale del singolo. È un po’ la stessa storia del desiderio. Ognuno vuole soddisfare i propri desideri nella massima misura possibile, ma per fare questo deve conoscere i suoi desideri e questa conoscenza è legata alla propria storia personale, alla propria condizione sociale e culturale. L’affermazione che la cosa più importante della vita è fare quello che si desidera potrebbe così ridursi a qualcosa di veramente misero, in contrapposizione (fittizia) col sacrificio in nome di un ideale qualsiasi, sia pure l’internazionalismo proletario.

Trattandosi di un bene che si consuma subito, in un certo momento ognuno di noi sa dire dentro limiti accettabili, quanto è intensa questa sua preferenza nei riguardi di un altro bene, ma quando si tratta di un bene che viene usato a lungo, il problema non è di facile soluzione. Inoltre non si deve dimenticare che partendo dal valore d’utilizzo si ha davanti solo il costo del prodotto ma non le sue singole componenti, cioè in che modo i fattori produttivi hanno contributo alla formazione di quel costo. Oggi più che mai il valore d’utilizzo è di gran lunga impossibile da praticare se si tiene conto che alcuni beni hanno un valore semplicemente simboli e assolvono alla soddisfazione di bisogni costruiti ad arte. Nella maggior parte dei casi tutti noi fissiamo un valore d’utilizzo quando ci confrontiamo con un valore monetario (o di scambio), ma lo fissiamo come termine di paragone, come elemento che contribuisce alla scelta, senza con questo riuscire ad incidere sulla realtà normativa del prezzo. Siamo di fronte a circostanze tanto perverse che nessun prezzo tende alla ipotetica condizione di equilibrio studiata per il mercato dall’economia. Facciamo l’esempio di una disoccupazione elevata. Una diminuzione dei salari potrebbe far pensare a un aumento dell’occupazione mentre invece c’è buona probabilità che essa causi un aumento della disoccupazione o addirittura un collasso dell’economia di mercato proprio a causa della diminuzione della domanda conseguente alla riduzione delle linee salariali.

Da queste riflessioni si trae la deduzione che un mercato razionale, puramente o prevalentemente economico, non esiste. L’incidenza istituzionale sulla formazione dei prezzi è oggi tanto forte da potersi parlare di economia controllata. Se a questo si aggiunge la legislazione sociale, il ruolo sia pure di retroguardia dei sindacati, l’istruzione, la ricerca e tutto il resto, si può parlare di una programmazione indiretta dei prezzi, una forma di miglioramento dell’esperienza triste e deprimente accumulata nei vecchi paesi a socialismo reale. Non si può infine parlare di una netta distinzione tra beni privati e beni pubblici, per cui alcuni pretendono fissare il mercato concorrenziale per i primi e, ovviamente, non per i secondi. Molti dei cosiddetti beni pubblici, come la sicurezza nazionale per fare un esempio, hanno connotazioni private, o ricadono nell’ambito della produzione privata (la polizia deve essere dotata di strumenti come auto, computer, pistole, ecc.), e viceversa. L’incertezza domina sovrana in queste materie. Non c’è concetto più evanescente di quello di mercato, eppure è da esso che dipende la nostra vita quotidiana così come l’hanno impostata i capitalisti.

Il valore di cui abbiamo discusso si materializza, sotto l’aspetto di scambio, nella versione monetaria, cioè si presenta di solito come prezzo in moneta. Tutti sanno cos’è la moneta ma pochi si rendono conto delle sue implicazioni. Oggi la condizione comune della circolazione monetaria è quella simbolica, cioè della moneta segno. Non mette conto ricordare le fasi storiche in cui ci sono stati dei rapporti più o meno di eguaglianza tra moneta cartacea e il suo corrispettivo in oro, oggi tutti prendono con fiducia in pagamento un pezzo di carta monetaria perché sanno di poterlo cedere con pari facilità. Si tratta di un comune consenso garantito dalla forza coercitiva dello Stato. Una garanzia indiretta è data dalla produzione complessiva del paese (o del gruppo di paesi) dove quella moneta circola e di cui essa costituisce il valore (simbolico) di scambio.

L’inflazione si ha proprio quando il quantitativo di moneta in circolazione supera il corrispettivo della quantità di merci in circolazione (che dovrebbe rappresentare) e, viceversa, quando la produzione cresce e la disponibilità di mezzi di pagamento resta ferma (o diminuisce) si ha una strozzatura economica che è quello che il capitalismo teme di più. È ovvio che la ricchezza di un paese non è costituita dalla quantità di moneta in circolazione ma dalla quantità di beni. La moneta è soltanto un segno. Le esportazioni di beni fatta poniamo negli USA dalle ditte italiane e pagate in dollari fanno entrare in Italia una moneta che rappresenta una vera e propria ricchezza, essa stessa in quanto insieme di pezzi di carta, e ciò perché i beni relativi non esistono più nel paese ma si trovano all’estero. Per evitare confusione gli specialisti chiamano “divisa” questa moneta con cui gli Stati pagano le esportazioni nazionali. Questi ragionamenti semplificati seguono qui la sola teoria monetaria quantitativa che ormai è stata allargata da tante altre considerazioni le quali non le tolgono del tutto il suo significato di fondo.

Ma la moneta è anche una merce (di scambio), cioè una merce particolare che assolve al compito di consentire scambi ad alta velocità in condizioni capitaliste di produzione e consumo. Quindi c’è una richiesta di moneta per fare pagamenti. La maggior parte di questa moneta richiesta viene messa a disposizione dal sistema delle banche che per entrare in possesso di questa moneta pagano un prezzo (interesse). Il rischio che lo Stato ha di dovere continuare a stampare moneta facendo con ciò lievitare i prezzi è limitato da questa raccolta di denaro che è fatta dal sistema bancario, il quale guadagna la differenza tra l’interesse pagato a chi deposita e quello incassato da chi chiede un prestito. Un’accelerazione produttiva della formazione sociale causa uno sviluppo enorme delle banche come è quella che vediamo nell’epoca in cui viviamo.

La formazione di un tasso medio di interesse è un fattore di equilibrio per il sistema produttivo, ma è anche questo un punto di grande incertezza. Vi incidono negativamente l’insieme frastagliato del panorama creditizio, l’impossibilità di distinguere tra breve e media scadenza, il livello generale dei prezzi, il grado di disoccupazione del lavoro, la stessa psicologia della gente (in questo momento con la vicenda Euro in corso di svolgimento quest’ultimo elemento è di grande importanza). Oggi si è allargato moltissimo l’intervento finanziario nella formazione del tasso di interesse attraverso la creazione di riserve obbligatorie per le banche, le manovre del tasso ufficiale di sconto, la gestione del debito pubblico. Le borse trattando beni immateriali come le azioni, le obbligazioni, ecc., sono ormai un elemento portante dal sistema produttivo e vengono considerate dalle riflessioni economiche più avanzate come qualsiasi altra parte del mercato.

 


[2007]

 


[Pubblicato in Alfredo M. Bonanno, Dissonanze, seconda ed. in un solo volume, Trieste, 2015, pp. 107-119]


Titolo dell’opera originale: Systéme des contradictions économiques, Paris 1846
Prima edizione: novembre 1975
Seconda edizione: marzo 2016