Titolo: Dove andare, cosa fare?
Note: Opuscoli provvisori N. 78
Prima edizione: maggio 2015
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Nota introduttiva

Mettere la scienza al servizio della rivoluzione. Concetto tipicamente bakuninista. Non che, di per sé, sia errato, tutt’altro, è che suona troppo deterministico. La scienza del suo tempo? Forse, che nemmeno di quella ci si poteva fidare. Basta pensare alle imbarcate che quei vecchi rivoluzionari presero per la statistica.

Oggi meno che mai.

L’economia? Ma che scienza è? Non la si può definire in questo modo nemmeno con i paraocchi in dotazione ai pazienti asinelli soggiogati al carro. Eppure ci sono tanti compagni che pensano, non voglio qui fare velo alle mie personali responsabilità, di poterne sviscerare i misteri. Possiamo discutere per anni, quanto volete, sul modo di fare funzionare in modo autogestito una fabbrica senza avanzare di un millimetro sulla strada della rivoluzione. Più o meno come il problema di autogestire una barricata o uno scontro di piazza contro la polizia. Molte cose si possono fare, alcune attengono alle sottigliezze tecniche della guerriglia, ma non è questo il punto. La rivoluzione è altra cosa.

Con tutto ciò, nello scritto di Bakunin, che proponiamo alla riflessione (non alla semplice lettura) dei compagni, non ci sono solo l’entusiasmo e l’ingenuità, c’è anche un fondamento diverso, c’è la necessità della conoscenza, dell’approfondimento – anche senza farsi illusioni –, c’è la sollecitazione alla ricerca dei mezzi per approfondire la realtà e quindi rendere possibile, e più incisiva, l’azione. Ecco la chiave di lettura idonea per queste pagine.

Perfino l’entusiasmo per la filosofia, travolgente ben al di là delle rigidità da vecchio hegeliano che ci si sarebbe potuto aspettare, non disturbano, anzi, con i tempi che corrono...


Trieste, 17 maggio 2014

Alfredo M. Bonanno

* * * * *

Certamente, sostenere che le cose siano veramente così come io le ho esposte non si conviene a un uomo che abbia buonsenso, ma sostenere che o questo o qualcosa simile a questo debba accadere, ebbene questo mi pare che si convenga e che metta conto di arrischiarsi a crederlo, perché il rischio è bello! E bisogna che, con queste credenze, facciamo l’incantesimo a noi medesimi, ed è per questo che io da un pezzo protraggo il mio mito.

Platone

Nota introduttiva

Mettere la scienza al servizio della rivoluzione. Concetto tipicamente bakuninista. Non che, di per sé, sia errato, tutt’altro, è che suona troppo deterministico. La scienza del suo tempo? Forse, che nemmeno di quella ci si poteva fidare. Basta pensare alle imbarcate che quei vecchi rivoluzionari presero per la statistica.

Oggi meno che mai.

L’economia? Ma che scienza è? Non la si può definire in questo modo nemmeno con i paraocchi in dotazione ai pazienti asinelli soggiogati al carro. Eppure ci sono tanti compagni che pensano, non voglio qui fare velo alle mie personali responsabilità, di poterne sviscerare i misteri. Possiamo discutere per anni, quanto volete, sul modo di fare funzionare in modo autogestito una fabbrica senza avanzare di un millimetro sulla strada della rivoluzione. Più o meno come il problema di autogestire una barricata o uno scontro di piazza contro la polizia. Molte cose si possono fare, alcune attengono alle sottigliezze tecniche della guerriglia, ma non è questo il punto. La rivoluzione è altra cosa.

Con tutto ciò, nello scritto di Bakunin, che proponiamo alla riflessione (non alla semplice lettura) dei compagni, non ci sono solo l’entusiasmo e l’ingenuità, c’è anche un fondamento diverso, c’è la necessità della conoscenza, dell’approfondimento – anche senza farsi illusioni –, c’è la sollecitazione alla ricerca dei mezzi per approfondire la realtà e quindi rendere possibile, e più incisiva, l’azione. Ecco la chiave di lettura idonea per queste pagine.

Perfino l’entusiasmo per la filosofia, travolgente ben al di là delle rigidità da vecchio hegeliano che ci si sarebbe potuto aspettare, non disturbano, anzi, con i tempi che corrono...


Trieste, 17 maggio 2014

Alfredo M. Bonanno

Dove andare, cosa fare?

Se ci si fosse chiesto, in tutto il tempo trascorso dalla rivolta di Dicembre[1] fino ad oggi: Cos’è un rivoluzionario russo? saremmo stati obbligati a rispondere: Un uomo molto spesso giovane, che ha costantemente degli slanci e che vuole agire, ma che non arriva mai a niente, un ragionatore che non cessa di perorare, che si evolve come nel suo giardino fra tutte le storie, sociali o non, possibili e immaginabili, ma che non arriva a metterne in pratica una sola, in una parola, un uomo sempre in meditazione o sul punto d’intraprendere qualcosa, ma che non riesce a portare, non diciamo a termine, ma neanche all’abbozzo un atto reale.

In queste condizioni, si dirà, un uomo candido all’eccesso! Sì, in effetti, candido, ma attaccato dal nostro governo con un accanimento che non utilizzerebbe se si trattasse di un volgare malfattore. Senza la minima ragione apparente, il governo incarcera questi singolari rivoluzionari a dozzine, a centinaia, senza il più piccolo indizio di colpevolezza e senza la minima prova, li tiene in prigione per mesi, per anni interi e poi invia la maggior parte di essi in esilio come misura amministrativa, per essere tranquillo, li condanna ad una morte lenta nelle vicinanze del circolo polare. E se si trova una disgraziata carta compromettente, in sostanza un libro dei più insignificanti o proibito, sono anni di bagno in Siberia.

O, altrimenti, dei martiri? Sì, dei martiri ma nello stesso tempo degli scioperati nel senso che in rare, molto rare eccezioni, non uno di essi è riuscito, non solo a intraprendere ma ad osare concepire una vera azione rivoluzionaria.

Questo sentimento della loro dissolutezza, o per parlare più civilmente, del loro candore, deve rendere insopportabili ai nostri martiri le pesanti prove della prigione, dell’esilio e del bagno. Il numero di questi martiri cresce di giorno in giorno. Il governo ha dunque ragione: i nostri giovani si abbandonano ad un gioco che non ha niente d’innocente. I giochi di questo genere non durano, d’altronde, mai per molto tempo, ci si stanca presto ed essi non saprebbero resistere a tali tipi di persecuzioni. Il candore della nostra gioventù rivoluzionaria inesperta nasconde dunque una passione che va sempre più ampliandosi. E là dove esiste una tale passione, si avrà l’azione.

Il martire passivo, degno solamente dei fanatici religiosi, ha finito per ributtare ai nostri giovani rivoluzionari. Ed essi si domandano se è necessario rovinare la propria vita per delle inezie esponendosi alle persecuzioni governative. Non è preferibile rinunciare alle volgari ciance rivoluzionarie, all’agitazione insensata e senza scopo e organizzare meglio possibile la propria esistenza prendendo come punto di partenza l’attuale ordine delle cose ma non allo scopo di abolirlo?

Questa soluzione avrà senz’altro degli amatori. Un folto numero di giovani sono diventati, o piuttosto, si sono detti rivoluzionari senza rendersi ben conto essi stessi del come e del perché, la maggior parte lasciandosi trascinare dalla corrente, dalla moda o dalla vanità, o spinti dalle deduzioni che, ragionatori, essi hanno tratto dai princìpi astratti che hanno generalmente tanto potere sulla gioventù: a forza di ciarlare hanno abbracciato la causa della rivoluzione e, per semplice soggezione, davanti ai loro compagni continuano a chiamarsi rivoluzionari, diciamo piuttosto che si sforzano di farsi passare per tali ed anche di superare gli altri con lo splendore e l’estrema veemenza delle loro convinzioni. Ma non resistono per molto tempo alla prova e quando si presenta loro la possibilità di fare marcia indietro, ritornano immancabilmente nel campo degli sfruttatori universali e felici del genere umano.

Ma s’inquietano parecchi che questa possibilità sia offerta a tutti. In Russia, si può dire – e pensiamo che là vi è una circostanza estremamente felice – [...].

In uno sforzo disperato bisognava saltare questo abisso e fu allora che la nostra gioventù, sufficientemente convinta dall’esperienza dell’inutilità dei suoi tentativi e dei suoi mezzi, decise di andare al popolo. Fu un atto di coraggio difficile e salutare. Non si trattava più di una fantasia o di una dissertazione teorica, ma l’inizio di un lavoro attivo, il primo passo decisivo e in più del tutto pratico, verso l’azione rivoluzionaria. Andare al popolo significa rigettare la società da molto tempo condannata teoricamente, ma che bisogna adesso sotto tutti i rapporti ripudiare rinunciando a tutti i suoi vantaggi, a tutte le sue abitudini e a tutti i suoi beni; rinunciando a questa possibilità corruttrice, ma nello stesso tempo gradevole di relazioni e di vita mondana, rinunciando alla raffinatezza deleteria delle forme che, quasi sempre, non dissimulano nient’altro che odiose menzogne, egoismo cinico e negazione grossolana di ciò che si può qualificare come umano, nobile e magnifico, verso le quali gli individui nati ed educati in questa società, per quanto poco gusto prendano a questo veleno, si abituano di regola così radicalmente, vi si familiarizzano così intimamente che rinunciare a queste “forme” piene di seduzione costituisce per loro una vera prova.

Di più, occorre inoltre e soprattutto rinunciare a questa pretensione inetta, sapiente, dall’alto della quale gli individui che si considerano istruiti, guardano il popolaccio ignorante. Essi si credono chiamati ad istruire il popolo. Ma cosa potrebbero insegnargli? A leggere e a scrivere? Cosa utile; è spiacevole che il governo abbia preso ogni provvedimento più efficace per impedire di istruire il popolo. E dopo il leggere e scrivere? Le scienze positive e naturali: matematica, meccanica, astronomia, fisica, chimica, psicologia e così via? Nessuno nega l’importanza di queste scienze, ma anche se si lasciano da parte i provvedimenti governativi che ostacolano la diffusione di qualsivoglia scienza tra il popolo, non è evidente che tutte queste discipline gli sono assolutamente inaccessibili e quindi inutili? Il popolo non è preparato a studiarle e non ha il tempo di interessarsi ad esse. Certo, la meccanica, la chimica potrebbero fornirgli nuovi mezzi di distruzione per combattere le forze governative una volta che siano saggiamente organizzate. Lo potrebbero se avesse a sufficienza tempo libero e soldi per dedicarsi, sia ad esperienze costose, sia allo studio di questi mezzi. Per quanto riguarda le scienze cosiddette morali: filosofia, storia, diritto, filologia, sono talmente impregnate di menzogna teologica e metafisica che non si può ancora dare loro il nome di scienze. Quanto alla scienza sociale, la scienza dell’economia e dell’organizzazione libera della masse popolari, essa è ancora praticamente inesistente. Tutto quello che si possiede, è una critica più o meno approfondita dell’attuale sistema sociale. Che sotto questo sistema il popolo vive male, malissimo, quest’ultimo non ha bisogno della scienza per saperlo, e riguardo quello che deve fare e come deve organizzarsi per stare bene, la scienza non glielo ha mostrato. Quindi cosa si insegnerebbe al popolo?

Non disprezziamo per niente la scienza, sapendo come tutti che la scienza, l’attitudine e l’aspirazione ad acquisirla sono precisamente le qualità che differenziano l’uomo dagli altri animali. Diciamo solo che chi vuole interessarsi ad essa, deve rinunciare all’attività rivoluzionaria, perché la scienza non è compatibile con questa. La scienza assorbe l’uomo interamente, la rivoluzione lo stesso, esse non possono dunque dividerselo. Inoltre, i loro metodi sono talmente differenti che il fatto di occuparsi seriamente dell’una mette l’uomo nell’impossibilità assoluta di consacrarsi all’altra. Ciò ci fa comprendere perché ogni volta che gli scienziati hanno tentato di prendere parte all’azione rivoluzionaria, sono stati pietosi rivoluzionari e, la maggior parte del tempo, reazionari matricolati.

Bisognava, con uno sforzo disperato, saltare quest’abisso[2] ed allora la nostra gioventù, sufficientemente convinta dall’esperienza della vanità dei tentativi e dei suoi mezzi, risolvette di andare verso il popolo. Diciamo che questo è un salutare atto di coraggio ma, nello stesso tempo, estremamente difficile. Non si tratta più di un capriccio, di un gioco da ragazzi o di una maniera bizantina di ragionare, né, tantomeno di una dissertazione teorica ma di un fatto reale e, per sovrappiù, di una importanza tale che lo si può chiamare storico. Si tratta perlomeno dell’inizio dell’azione pratica, il primo passo decisivo verso una vera azione rivoluzionaria.

Abbiamo detto che questo atto di coraggio è estremamente difficile; sì, in effetti è difficile da un doppio punto di vista: dal punto di vista di ciò che si sono decisi a lasciare, come dal punto di vista di ciò cui vogliono legarsi.

Dato che fra la società e il popolo vi è un abisso, non ci si può avvicinare al popolo in altro modo se non rinunciando completamente e una volta per tutte alla società, a tutti i suoi legami, a tutte le affinità morali, a tutti i sentimenti, a tutte le idee o abitudini e a tutti i vantaggi materiali di questa società; rinunciare a tutte le forme sociali della vita civilizzata, così dolci, attraenti, seducenti benché impregnati di menzogna e benché nascondano per la maggior parte un cinico egoismo e la negazione più grossolana di tutto ciò che può essere qualificato umano, nobile e magnifico. Ma gli individui nati in questa società privilegiata, avendo ricevuto la sua educazione o vissuto alcuni anni al suo contatto, si impregnano a tal punto della sofisticatezza deleteria delle relazioni e della vita mondana, familiarizzano così intimamente con essa che rigettare questo mondo per infilarsi irrimediabilmente nel mondo grossolano dell’esistenza sempre miserabile e dappertutto accasciata del popolo, costituisce una cosa veramente rara. Teoricamente questo può sembrare facile, in realtà è estremamente difficile.

Ma questa difficoltà negativa inerente al completo rifiuto della società non è niente comparata all’altra difficoltà positiva derivante dalla reale fusione col popolo.

Come andare al popolo? In qual modo avvicinarglisi, guadagnare la sua fiducia, e cosa fare in mezzo ad esso?

Alcuni – constatiamo d’altronde con grande soddisfazione che diminuiscono sempre più – si credono ancora chiamati ad istruire il popolo e si dispongono per benino a dividere con esso le loro conoscenze insegnandogli tutte le discipline. Questi signori, libro in mano, sono veramente incorreggibili, si interessano sempre molto più a se stessi che alla scienza; non conoscono e non ascoltano che se stessi, si accontentano della loro ombra, uniforme e solitaria, non vedono e non comprendono niente dell’ambiente che li circonda; pubblicano un giornale dal titolo “Vpered!” mettendovi tutte le loro energie e consolandosi come dei vecchi bambini.

Si consolano, poveretti, e consolano tutti i loro simili; convincono il popolo che è necessario conoscere tutte le scienze, dall’a b c all’aritmetica, dall’aritmetica ai calcoli differenziali, dai calcoli differenziali alla sociologia, per diventare un popolo felice e libero e che, fintanto che non avrà appreso tutto questo, dovrà restare tranquillo sui banchi di scuola senza pensare affatto a rivoltarsi. Costoro chiamano il vantare tali insanità “muovere gli spiriti”. C’è da morire dal ridere.

Ma lasciamo i pedanti ed i vanitosi sapienti così come i ciarlatani a corto di conoscenze. Indirizziamoci agli uomini di buona fede persuasi che bisogna istruire il popolo prima di parlargli di libertà. Facciamo loro notare che non hanno ancora superato l’abisso che separa, come abbiamo visto più in alto, il popolo dalla società e che essi continuano a vivere, a pensare e ad agire da questo lato dell’abisso, nella società, imbottiti di tutti i pregiudizi spregevoli o alteri che questa nutre contro il popolo.

Dopodiché domandiamo loro ciò che hanno intenzione, e con quali mezzi, di insegnare al popolo. Vogliono semplicemente insegnargli l’a b c, cioè a leggere, scrivere e far di conto, aggiungendovi un po’ d’istruzione generale e un po’ meno ancora di storia fittizia della Russia? In poche parole, ciò che si insegna nelle nostre scuole primarie là dove queste esistono. Certo saper leggere e scrivere è una cosa più che utile, anzi indispensabile, per il popolo. Ma constatiamo ciò: 1° benché si permetta, d’altronde molto superficialmente, di sviluppare in modo rudimentale le facoltà mentali del popolo, l’a b c preso separatamente non è ancora scienza ma solamente una porta aperta sulla scienza; 2° per insegnare a leggere e a scrivere a settanta milioni di individui, i mezzi e le forze di cui dispongono questi uomini di buona fede sono lontani dall’essere sufficienti. Per raggiungere con successo questo scopo bisognerebbe, nelle circostanze presenti, sotto l’attuale regime politico ed economico dell’Impero russo, impiegare una notevole quantità della totalità delle risorse pubbliche e, inoltre, ottenere il parere favorevole del governo, poiché una così vasta impresa consistente nel dare l’insegnamento primario a tutto un popolo non è cosa che possa essere portata avanti in silenzio. Ma tutti sanno che le risorse dello Stato russo vanno a imprese e ad affari che non hanno niente a che vedere con l’istruzione del popolo e che il governo, non solo non dà il parere favorevole ma, al contrario, ha emesso le più severe ordinanze e continua a prendere le misure più attente e più efficienti per proibire alle persone che non sono abilitate, cioè che non sono funzionari o incaricati dalle autorità ad istruire il popolo, ogni intromissione nell’insegnamento.

E d’altronde dobbiamo riconoscere che, dal suo punto di vista, il governo ha ragione. Si deve augurare che il popolo resti in questo stato di obbedienza cronica e continui a portare senza inciampare tutti i fardelli che gli piace gettare sulle sue spalle. È necessario quindi che il popolo non possa mai conoscere i suoi diritti né la sua forza e che resti eternamente accasciato dal sentimento della sua impotenza e dalla credenza nel diritto unico e nella potenza invincibile dello zar. Ma la maggioranza dei giovani che hanno offerto gratuitamente i loro servizi per istruire il popolo si sono prefissati, come si sa – e ciò torna a loro onore – un primo scopo: affrancare il popolo dai pregiudizi dello Stato. Insieme all’a b c, si son messi ad insegnargli i suoi diritti e a dimostrargli che la forza reale non risiede nello Stato ma in se stesso e che gli è sufficiente volere, o meglio ancora, sollevarsi come un sol uomo, perché i suoi aguzzini, oppressori, sanguisughe, fossero mandati al diavolo. È questa un’indubitabile verità che nessun governo può digerire ed allora è completamente naturale ed anche, dal punto di vista dello Stato, legittimo e lodevole che il nostro governo abbia iniziato col decretare la chiusura delle scuole nel giorno di domenica, che abbia preso in seguito misure rigorose ed efficaci per porre termine ad una propaganda così pericolosa per l’esistenza dello Stato.

Cosa fare dunque? Possibilmente alcuni diranno che ci si dovrebbe, per i primi tempi, limitare ad insegnare solamente a leggere e a scrivere al popolo astenendosi da ogni propaganda rivoluzionaria. Il governo allora, rendendosi conto delle buone intenzioni e dell’innocuità di questo insegnamento, cesserebbe di contrastarlo. La cosa è abbastanza dubbiosa, ma ammettiamo che tutto avvenga in tal modo, e dopo? “E dopo, ci risponderanno i riformatori pacifici e ben intenzionati, il popolo, essendo un po’ evoluto grazie all’insegnamento ricevuto, finirà per prendere, a poco a poco, coscienza dei suoi diritti e della sua forza”.

Questi signori credono che il fatto di saper leggere e scrivere possa dare al popolo un orientamento rivoluzionario. Se così fosse, senza alcun dubbio il popolo tedesco, il più istruito d’Europa, sarebbe anche il più libero. Ma chi dunque non si è ancora reso conto che le amare parole di [Ludwig] Boerne, pronunciate nel 1830, restano fino ad oggi più vere che mai: “Gli altri popoli sono talvolta schiavi ma noi Tedeschi siamo sempre servili”, cioè schiavi volontari, schiavi per convinzione. Ci sembra che quest’esempio basti perché la si finisca col dissertare sulla forza rivoluzionaria che salterebbe fuori dalle nozioni elementari di lettura e scrittura.

Lo ripetiamo, l’istruzione è una cosa preziosa e assolutamente necessaria ad ogni nazione. Ma si è al supremo grado dell’assurdità credendo che i milioni di individui che formano il popolo russo possano, al momento attuale, nella loro presente situazione, acquistare questa istruzione o che questo popolo avendo subitaneamente appreso, per non so quale miracolo, a leggere e a scrivere, non avrebbe bisogno d’altro per conquistare la capacità, la prospettiva e la forza di compiere la rivoluzione che lo salverebbe.

E se tutto ciò è giusto per ciò che riguarda le nozioni elementari, cosa dire per quanto riguarda la scienza? Con quali mezzi, dove e quando insegnerete al nostro popolo miserabile, accasciato, affamato, schiacciato, la geometria, la trigonometria, l’algebra, i calcoli differenziali, la meccanica, l’astronomia, la fisica, la chimica, la filosofia? Sembra sia sufficiente porre queste domande per mostrare l’assurdità dell’impresa. E ancora la maggior parte fra voi [di coloro che vogliono istruire il popolo], e possiamo dire i migliori, almeno dal punto di vista rivoluzionario, conoscono solo superficialmente tutte queste scienze, come le insegneranno? E se essi stessi devono completare le loro conoscenze prima di accostarsi al popolo, a colpo sicuro si può dire che non vi si avvicineranno mai.

Che non si arrivi a credere che noi condanniamo o disprezziamo la scienza. Sappiamo bene che la capacità e l’aspirazione di conquistarla, cioè di farsi un’idea sistematica del mondo esistente, sono le principali qualità che differenziano l’uomo dagli altri animali. Ma diciamo che colui che sente una vocazione particolare per la scienza se è portato irresistibilmente verso di essa deve consacrarvisi interamente e rinunciare all’attività rivoluzionaria. Non rifiuteremo la nostra stima più profonda a quest’uomo – e uomini del genere, autentici sapienti, produttivi, che aprono nuovi domini alla scienza, ve ne sono sempre troppo pochi; riconosciamo in effetti i lati positivi che un tale uomo apporta all’umanità, ma chiediamo ch’egli non si mischi in alcun modo alla nostra causa rivoluzionaria per la quale non può fare niente se non delle stupidaggini o delle cose pregiudizievoli. Se si tratta di un uomo giusto e onesto, se dentro di lui batte un cuore generoso e le sue occupazioni scientifiche non hanno soffocato la sua compassione per la condizione umiliante delle masse lavoratrici, può simpatizzare col movimento rivoluzionario, così come faceva Kant quando insegnava la filosofia e le matematiche a Königsberg, ma per la salute della rivoluzione e per la sua che non s’immischi nell’azione rivoluzionaria.

La scienza esige che l’uomo si dia ad essa interamente, l’azione rivoluzionaria anche. Questi due mondi, l’uno teorico, l’altro pratico, sono ugualmente vasti e non possono dividersi uno stesso individuo. Per sovrappiù, i loro metodi sono molto differenti. Nella scienza devono regnare e primeggiare la critica e il dubbio. Nell’azione rivoluzionaria invece, insieme ad una fredda analisi degli uomini e delle situazioni, sono evidentemente necessarie la volontà e la fede appassionata senza le quali niente è possibile. Questa differenza di metodi e le abitudini che comportano ci spiegano la ragione per cui ogni volta che i sapienti hanno preso parte alla rivoluzione, sono stati dei pietosi rivoluzionari e alla fine sono divenuti, per la maggior parte, dei veri reazionari.

Parliamo qui dei veri sapienti e non dei ciarlatani della scienza che a guisa dell’onorevole editore del “Vpered!”, spirito comparatore e collezionatore prolisso e laborioso di fatti e di idee per la maggior parte contraddittori, estranei gli uni agli altri e senza uno solo che gli sia proprio, sono sterili tanto per la causa rivoluzionaria che per la scienza

“Cosa, ci si domanderà, consigliate ai nostri giovani rivoluzionari di non apprendere niente del tutto e addirittura, dimenticando tutto ciò che sanno, di divenire dei completi ignoranti per essere più a livello del popolo?”. Affatto, non consigliamo questo. Al contrario diciamo leggete, istruitevi in ogni minuto che l’azione rivoluzionaria vi lascia poiché è ad essa, beninteso, che dovete consacrare la più grande parte del vostro tempo; sviluppate quanto possibile le vostre conoscenze nello stesso tempo estendete ed affermate le vostre facoltà intellettuali sforzatevi di accrescere questa cosa preziosa che è l’attitudine a generalizzare i problemi e i fatti sociali, esattamente l’attitudine di cui il popolo difetta e che dovete apportargli in cambio di ciò che esso dà a voi. Siate uomini istruiti con buone e numerose conoscenze, ma non dei sapienti. Questi studiano la scienza per la scienza. Voi dovete studiare per la rivoluzione e tenere sempre presente di trarre da ogni nuova conoscenza acquisita il massimo profitto per la causa rivoluzionaria. Per esempio, se siete meccanici, ingegneri, fisici o chimici, occupatevi di scoprire nuovi procedimenti di distruzione che daranno al popolo il mezzo di lottare contro le forze dello Stato meglio organizzate. In una parola, ciò che i nostri politecnici fanno nell’interesse dell’industria, voi dovete farlo in quello della causa rivoluzionaria.

Ed ora cosa diremo delle scienze aventi per oggetto di sviluppare l’individuo nella società e che i francesi chiamano scienze morali in opposizione alle scienze fisiche? Cosa diremo della filologia, dell’estetica, della statistica, della storia e, infine, della nuova scienza detta sociale? Quali vantaggi queste possono apportare al popolo al momento attuale? La filologia, beninteso, non ne apporterà alcuno; e poi, è il momento di parlare di filologia quando il popolo non ha né il mezzo né il tempo per imparare semplicemente a leggere e a scrivere! Si può dire altrettanto dell’estetica e gridare con Proudhon: “Date prima pane al popolo, poi potrete parlargli della bellezza”. La metafisica è la sorella minore e l’ereditiera della teologia, ha per oggetto materie irreali fittizie, create dall’immaginazione e dal pensiero astratto dell’uomo astrazioni, ombre, fantasmi in nome dei quali si è turbato e spaventato il popolo per meglio assoggettarlo. In tal modo niente è più contrario alla libertà e al bene del popolo che la metafisica; quanto alla vera, all’autentica filosofia che si fonda sullo studio concreto e il più possibile completo di tutti i fenomeni naturali e sociali e che ricostituisce nel pensiero l’effettiva evoluzione del mondo reale – la scienza delle scienze, la regina delle scienze – questa filosofia si trova ancora nella prima fase della sua gestazione. Essa è quindi completamente inaccessibile al popolo e non può dargli alcuna utilità. L’economia politica, così come viene insegnata nelle università ed esposta nelle opere di alcuni economisti borghesi di ieri e di oggi, prendendo come base lo statuto codificato del diritto di proprietà e prendendo dalla teologia e dalla metafisica ciò che l’una e l’altra dicono falsamente sulla pretesa avversione istintiva dell’uomo per qualsiasi lavoro e della miseria – o del randello – necessari per obbligarlo a lavorare, arriva naturalmente alla conclusione che la situazione attuale delle masse popolari è perfettamente normale e legittima e che tutti gli Stati d’Europa, almeno i più civilizzati fra essi, avanzano rapidamente sulla strada del benessere e del progresso del popolo.

Tutto sommato non si può negare che l’economia politica è, almeno per la metà, una scienza molto positiva e che, come tale, non sia parecchio utile. Il suo oggetto è dei più positivi: la produzione e la ripartizione delle ricchezze; essa ci mostra in effetti, con rigorosa esattezza, una meravigliosa chiarezza e una precisione per così dire matematica, partendo da una moltitudine di fatti economici di ieri e di oggi, come si è sviluppata e si sviluppa ai nostri giorni la cosiddetta ricchezza nazionale degli Stati, indicandoci nello stesso tempo le cause che favoriscono questo sviluppo o che lo contrariano. Il suo errore, ma errore considerevole e si può dire fatale, risiede in ciò che, sotto l’influsso della teologia, della metafisica e della giurisprudenza che cercano naturalmente di deificare tutto ciò che è esistito e esiste, essa ha tratto dalle false deduzioni del passato e del presente contro l’avvenire. Invece di contentarsi di studiare in modo più modesto, ma infinitamente più utile, la storia critica dello sviluppo della produzione e della distribuzione delle ricchezze fino ai nostri giorni, ha voluto essere una scienza assoluta, in tal modo ha risolto che tutto ciò che è esistito e esiste, esisterà sempre o dovrà esistere.

In tal modo ha condannato per l’eternità alla miseria, all’umiliazione o ai lavori forzati, innumerevoli milioni di proletari. E li ha condannati con cognizione di causa, in quanto, con un’argomentazione matematica, è arrivata essa stessa alla terribile conclusione che la pretesa prosperità dello Stato e la moltiplicazione della fortuna pubblica ha e deve necessariamente avere per effetto una concentrazione sempre più grande di questa fortuna nelle mani di un numero di privilegiati in costante diminuzione a detrimento di milioni e milioni di individui. Questo significa: ricchezza mostruosa per alcune centinaia di individui da una parte; dall’altra parte vita da galeotti per altri; e al centro, alcune dozzine, anzi può essere alcune centinaia di migliaia di vili creature vendute e devote anima e corpo alle oligarchie finanziarie che le nutrono con le briciole cadute dalla loro sontuosa tavola e le utilizzano per tosare e condurre il gregge popolare. Ecco l’ultima parola dell’economia politica, e questa parola è stata oggi trasformata in realtà dai grandi uomini di Stato del genere del principe Bismarck e altri; ciò spiega tutto il senso dello Stato moderno, protettore onnipotente nello stesso tempo che servitore dei monopoli economici.

Non vi è alcun dubbio che gli uomini che oggi abbracciano la causa del popolo hanno il più grande interesse a conoscere queste ultime deduzioni della scienza economica, se non altro perché queste conoscenze risparmieranno loro gli errori scoraggianti in cui cadono frequentemente gli spiriti ben intenzionati che ancora oggi immaginano che si possa, tramite associazioni cooperative di produzione e di consumo, banche popolari o società di mutuo soccorso, arrivare senza rivoluzione e senza la distruzione degli attuali regimi, ad una soluzione pacifica della questione sociale.

Ma per aver familiarità con queste deduzioni, non c’è bisogno di essere un sapiente economista. Basta leggere una o due recenti opere di economia od anche semplicemente alcuni dei principali discorsi e opuscoli di Lassalle, il volgarizzatore più felice e coscienzioso della scienza economica di questi ultimi anni o, meglio ancora, seguire con un po’ d’attenzione gli avvenimenti che ogni giorno si svolgono sotto i nostri occhi, per convincersi dell’incontestabile verità delle summenzionate deduzioni e questo con non meno legittima ed inattaccabile ragione del comune mortale che pur ignorando l’astronomia è oggi certo che non è il sole che gira attorno alla terra, ma la terra attorno al sole. Se per verificare tutti i sistemi che, per abitudine, sono diventati per noi degli assiomi, dobbiamo rifare l’enorme lavoro compiuto dagli spiriti che li hanno scoperti, o ulteriormente sviluppati, si può essere certi che schiacciati dall’enormità di questo compito impossibile, non arriveremmo nemmeno alla più semplice di queste verità.

È evidente che, al momento attuale, la scienza economica non esiste per il popolo. Questo non ne ha d’altronde alcun bisogno, almeno adesso. Senza il soccorso di alcuna scienza, il nostro popolo sa, per un’amara esperienza, che le sue condizioni di esistenza sono pessime e che la sua situazione è tale che lavorando dieci volte di più non sarebbe più ricco, più felice, né più libero, eccezione fatta, può essere, per alcuni fortunati, contadini agiati o campagnoli piccolo-borghesi che sono riusciti con espedienti leciti e sopratutto illeciti a passare dai ranghi disgraziati della moltitudine asservita a quelli degli sfruttatori e oppressori. Il nostro popolo sa tutto questo senza conoscere l’economia politica; quindi non ha alcun bisogno di questa scienza.

Si può dire altrettanto della statistica così strettamente legata all’economia politica e che sta a questa come l’anatomia e la patologia stanno alla fisiologia. Come l’economia politica, la statistica, nella sua forma attuale, è una scienza per le classi privilegiate, alla ricchezza, all’evoluzione e al benessere delle quali essa s’interessa, accordando poca attenzione alle masse laboriose. Il suo principale oggetto è lo Stato: rapporti di forze militari, marittime e terrestri dei differenti paesi, situazione delle loro finanze, debiti pubblici, incassi e spese dei bilanci, bilancio delle importazioni ed esportazioni, movimento del commercio interno ed estero, tendenza della produzione manifatturiera ed agricola, vie di comunicazione di ogni specie, numero di fabbriche, di università ed altri istituti d’insegnamento, perfino di scuole primarie, ripartizione della popolazione per nazionalità e per religione, indice di crescita demografica, durata media della vita, indice e importanza relativa della criminalità, ecc.; ecco i principali materiali che la statistica utilizza per riempire i suoi grafici. Quanto alle condizioni reali dei milioni di proletari che portano sulle loro spalle accasciate la gloria, la grandezza, la potenza e la ricchezza di questi Stati e tutto il peso del progresso morale e materiale delle classi privilegiate; quanto alla miseria senza uscita delle masse, alla loro vita da galera, alla loro involontaria ignoranza sistematicamente mantenuta dai ministeri dell’Educazione, alle innumerevoli privazioni che portano alle malattie e alla morte precoce, non troverete quasi niente di tutto questo nelle migliori opere di statistica; e se, dopo lunghe e minuziose ricerche, finirete per scoprire, perduti in un’opera di parecchi volumi, alcuni fatti che, fino ad un certo punto, mettono a nudo, per così dire contro la volontà del suo sapiente autore, lo stato miserabile delle masse popolari, ciò non sarebbe ancora sufficiente per trarne delle conclusioni definitive. È chiaro che i signori statistici distolgono deliberatamente la loro attenzione e quella dei loro lettori da questi fatti. Solamente in un paese questi sono stati messi in rilievo con tutta la coscienza e l’ampiezza volute, precisamente in Inghilterra. Là, grazie a delle commissioni parlamentari che assolvono onestamente i compiti che sono stati loro affidati, è stata infine rivelata, nel rapporto pubblicato per ordine del Parlamento, la spaventosa miseria del proletariato. Questo ha molto contribuito a fortificare il movimento operaio in Inghilterra.

Qualificheremo di benefattori dell’umanità e di veri amici del popolo gli studiosi statistici che, rigettando la pubblicità insopportabile e sterile fatta intorno ai grandi Stati e ai loro guadagni ufficiali e privilegiati, si daranno allo studio, sotto tutti i punti di vista, della reale situazione delle masse popolari, e che, in un’opera scritta in un linguaggio semplice e resa accessibile a tutti dal suo basso prezzo, dal suo stile, dalla chiarezza e dalla sua logica, spiegheranno questa terribile situazione agli occhi del mondo civilizzato.

È chiaro che un’opera di questo genere dovrà essere scritta più che per il popolo, il quale nella sua grande maggioranza non potrà leggerla, per la moltitudine di spiriti indecisi o non ancora determinati, sebbene onesti, delle classi privilegiate; ci sembra che la lettura di questo libro sarebbe sufficiente per incitarli ad andare verso il popolo, non solo per dividere con esso una amara sorte, ma per spingerlo alla rivolta, unica possibilità di vita.

D’altronde l’apparizione di un simile libro potrebbe avere sullo stesso popolo se non un’influenza immediata e diretta, almeno un effetto a catena. Una delle nostre conoscenze italiane, un mezzo sapiente, spirito relativamente giusto, ma estremamente moderato, e che si è molto occupato di questi problemi, ci ha dichiarato che, comparando la durata media della vita del proletariato delle città, e soprattutto del proletariato rurale, con quella delle classi privilegiate della Lombardia, era arrivato a risultati così spaventosi che ebbe paura a pubblicarli. Alla nostra domanda: “Perché?” rispose: “Il popolo si sarebbe certamente rivoltato”.

Sarebbe vano attendersi di trovare subito uno statistico di questo genere, nello stesso tempo benefattore e sapiente, e il cui spirito geniale fosse capace di abbracciare la reale situazione di tutto un popolo e avere il coraggio, la volontà, l’onestà di mostrarla in tutta la sua crudezza. Del resto, perché attendere questo sapiente? Una grande opera può essere rimpiazzata da una quantità di piccole monografie di cui ognuna traccerebbe e spiegherebbe nei minimi dettagli la vita di un angolo del nostro immenso paese, di una provincia, di un distretto, di un cantone, di un borgo, di un villaggio, anzi di una isba, tenendo, bene inteso, sempre e soprattutto in vista le sofferenze, le privazioni, il lavoro, la paura, la speranza, il pensiero intimo o la fantasia della laboriosa popolazione delle città e delle campagne. Tutto questo fornirebbe dei preziosi materiali per la statistica rivoluzionaria della terra russa e sarebbe effettivamente l’inizio di una scienza completamente nuova, viva e veramente popolare.

Al momento attuale, grazie alla paterna sollecitudine del nostro governo, una folla di giovani capaci e devoti alla nostra causa sono dispersi in tutte le parti e in tutti gli angoli e in tutti i cantucci della Russia. “... Dalla provincia di Perme a quella della Tauride, Dai freddi scogli della Finlandia all’ardente Colchide. Dallo scosso Kremlino alla grande muraglia dell’immobile Cina”[3] – Ivi compresa evidentemente tutta la Siberia – vivono in un pesante isolamento e in un ozio forzato ancora più penoso, i nostri amici. Tagliati dal loro mondo di origine e gettati in un mondo straniero, sprovvisti di qualsiasi mezzo d’esistenza e lasciati all’arbitrio dei loro tutori di polizia e dei loro galeotti, essi non sanno cosa incominciare, come incominciare e cosa fare. Sin dall’inizio, e a scapito di ogni altra attività, ognuno di essi può incaricarsi di studiare fino nei minimi dettagli, sia dal punto di vista intellettuale e morale che da quello materiale, il luogo in cui si trova segregato. Così facendo, abbiamo detto, l’attenzione si porterà principalmente sulla vita dei lavoratori, ma non si perderanno nemmeno di vista le altre classi dell’universo burocratico che hanno una influenza così diretta sulle sorti del proletariato.

In questo studio non tralasciate nessun dettaglio. I dettagli che si ripetono quotidianamente sono molto spesso più importanti e più degni di nota dei fatti rilevanti, dei quali, beninteso, nemmeno uno deve sfuggire alla vostra attenzione. Studiando fino nelle minuzie la vita materiale della gente semplice che vi circonda, occupatevi di penetrare il fondo del loro animo, le loro abitudini collettive sul piano intellettuale e morale, i diversi rapporti fra la famiglia e la società, così come la segreta ragione delle loro attitudini riguardo gli altri corpi sociali e le autorità. Cosa pensano dei loro diritti e delle loro umiliazioni che chiaramente non mancano in nessuna parte della Russia? Cosa vogliono, sperano e attendono qualcosa? Cosa? Che dicono e che pensano dello zar nei confronti del quale l’attitudine del nostro popolo sarà modificata in meglio da quando il nostro Imperatore Alessandro II, che regna felicemente, ha cominciato ad affrancarlo? Siamo convinti che la fede nello zar, in questi ultimi tempi, si è considerevolmente affievolita in seno al popolo.

Conosciamo molto da vicino la via e la maniera di pensare degli altri corpi sociali per indovinare approssimativamente ciò che l’individuo, preso in un ambiente determinato, penserà, dirà e farà in certe condizioni. Non possiamo dire altrettanto delle nostre popolazioni urbane e soprattutto rurali perché il segreto del loro pensiero, delle loro rappresentazioni e dei loro sentimenti ci sfugge. Scoprire la sorgente segreta della loro vita intellettuale e morale, comprendere il processo del pensiero popolare, sapere ciò che pensa, in quale modo lo pensa, ciò che spera e vuole il popolo russo, ecco il principale e, diciamolo, l’unico oggetto della scienza viva e rivoluzionaria del nostro tempo. Quando ne avremo preso coscienza, saremo incomparabilmente più forti. [Il manoscritto s’interrompe qui].


[Tratto da M. Bakunin, Opere complete, Stato e Anarchia. Dove andare, cosa fare?, vol. IV, tr. it., Catania 1977, pp. 243-254]

Di Bakunin si muore

Riprendiamo la lettera del compagno Varagnolo di Chioggia, pubblicata sul n. 34 (1976) di “Umanità Nova”, in cui veniva sviluppata una fondatissima tesi critica riguardo la pubblicazione di “classici” anarchici e commemorazioni di pensatori anarchici (Bakunin in primo luogo), per dichiarare, subito, che siamo pienamente d’accordo con quanto scrive il compagno pur essendo, anche noi, editori di classici dell’anarchismo. E l’essere d’accordo con chi attacca il fatto stesso di editare dei classici e continuare ad editarli, ci sembra argomento di non trascurabile riflessione. Per noi, pubblicare la collana “Classici dell’anarchismo”, è stata una decisione non facile. Da un lato avevamo il problema di evitare “santificazioni” di cui riconosciamo pienamente la pericolosità, dall’altro ritenevamo giusto fornire ai compagni (ed anche ai compagni più giovani) certi strumenti non facilmente reperibili in italiano. Si è cercato di uscire dall’alternativa col fornire libri, ormai ritenuti classici dell’anarchismo, con una nota introduttiva diretta a collocarne, criticamente, il contenuto nella situazione politica presente, perché quelle antiche pagine potessero prendere significati concreti d’azione e non restassero semplici modelli apodittici.

In questo modo, abbiamo cercato di stringere al massimo, in note bio-bibliografiche, le notizie storiche, per collocare l’indagine politica in primo piano, onde, con tutti i limiti insiti nelle nostre possibilità analitiche, ricondurre la lettura del “classico” a quella vivacità programmatica che riteniamo indispensabile. E quando ci siamo macchiati del grosso peccato di dare inizio alla pubblicazione delle Opere complete di Bakunin, abbiamo premesso al primo volume già uscito, al secondo che uscirà a giorni e così a tutti i successivi, un’introduzione che, trascurando deliberatamente problemi di collocazione storico-temporale, affronta la validità e i limiti dell’opera di Bakunin oggi, per noi, per tutti coloro che sono impegnati nella lotta politica e sociale. E se di Bakunin, giustamente, si può anche morire, si può, se è ben colto il momento della riflessione, trovare spunto vitale di non trascurabile riflessione su problemi vicini a noi più di quanto si creda. Che non è tutta una questione di rifiuto della metafisica e di accettazione della scienza, come non è tutta una questione di droghe pesanti che fanno sfigurare il buon vecchio vino come droga popolare del secolo scorso. Alcuni problemi, come quello delle classi, del rapporto minoranze-masse, della concezione dello Stato, dell’essenza strutturale del potere, degli aspetti controrivoluzionari del partito autoritario, ecc., sono problemi ben vivi anche per noi e, certamente, da non potersi guardare con sufficienza.

Quindi il nostro sforzo editoriale è stato innanzitutto l’invito ad una lettura critica dei classici. Questo il motivo per cui abbiamo pubblicato una Appendice per ogni volume, appendice che raggiunge dimensioni notevoli nei volumi dedicati a Bakunin, che ci consente di penetrare all’interno di certe realtà storiche che pur ormai definitivamente segnate dal trascorrere del tempo, presentano una chiara persistenza di certi elementi costanti. E da quanto si è detto ci sembra giusto trascorrere brevemente a parlare di un problema più ampio e di maggiore importanza, il problema del senso della storia. Siamo d’accordo con quanto dice il compagno Varagnolo riguardo la mistificazione della cultura di massa, riguardo il destino di Marx e Lenin, di Lévi-Strauss e Marcuse, e siamo pure d’accordo sul pericolo di ritrovarci Bakunin nel supermarket debitamente impacchettato per andare a finire nel cestello della spesa. Siamo d’accordo nel considerare con sospetto gli anarco-bibliotecari, affettuosi e simpatici compagni, quando non pretendono di racchiudere l’anarchismo, tutto intero, dentro le loro formule e codificazioni. Siamo d’accordo sulla negazione di qualsiasi catechismo e non giuriamo su nessuna frase di Bakunin, di Malatesta e compagnia. Ma il problema del senso della storia deve essere risolto, pena un vago attivismo legato a situazioni transitorie che dettano – con apparente realismo – regole di condotta che poi finiscono nell’improvvisazione e nell’ottusità.

E non c’è dubbio che la storia deve essere considerata come svolgimento, quindi riportata all’interno di una prospettiva che possiamo definire di “progresso”. Tagliare questa prospettiva significa ripiombare nella storia divisa in due parti ben distinte: da un lato i buoni e dall’altro i cattivi, visione dicotomica che finirebbe per costringerci ad una necessaria alleanza col PCI – poniamo – in nome della lotta in comune che svolgiamo contro la reazione. Ma, se la storia è svolgimento, e non è, come insegnavano i maestri idealisti, svolgimento dello spirito assoluto, è svolgimento dell’uomo e dei suoi rapporti con i suoi simili in diverse realtà, che poi sono le sole cose che si svolgono, essendo la storia un nome piuttosto generico per indicare l’insieme dei rapporti umani. E questo svolgersi è anche un lento maturarsi, un incontrare problemi e lottare per risolverli, un attaccare il potere e uscirne magari sconfitti ma certi di avere fatto un passo avanti, un accettare i piccoli progressi – anche se non propriamente rivoluzionari – perché anche essi entrano nel gioco gigantesco di quei rapporti che conducono l’uomo alla liberazione, una vicenda di avanzate e ritorni, di vittorie e sconfitte.

Non, quindi, un sicuro affrontamento tra due contendenti dai campi ben delimitati, che si guardano negli occhi e sanno dove colpire: ma il blocco degli sfruttati che attacca quello degli sfruttatori e, in mezzo alla mischia, il gioco sottile dei secondi che utilizzano una parte dei primi assoldandoli e gettandoli nella lotta contro i propri fratelli, mentre il resto è accolto, con mille fraintendimenti, all’interno di un gioco di consenso e di acquiescenza. E se il poliziotto col suo mitra custodisce le ricchezze della banca, l’altro proletario, quello che acquista la macchina a rate e incrementa quelle ricchezze, nell’incapacità di individuare con chiarezza il proprio nemico, finisce spesso per fare gli interessi degli sfruttatori.

Ciò non significa che nella storia si possano verificare momenti in cui gli interessi degli sfruttati collimano con quelli degli sfruttatori, significa solo che l’immensa massa di fatti che chiamiamo storia è costantemente un problema da decifrare, perché in essa nulla è chiaro, nulla assume l’aspetto della contrapposizione netta. È per questo che riteniamo necessario ricostruire continuamente le esperienze del passato, illuminandole, cosa ancora più interessante per noi, con le riflessioni dei rivoluzionari antiautoritari che quelle esperienze vissero e cercarono di comprendere.


[Pubblicato su “Umanità Nova”, anno 56, n. 40, 7 novembre 1976, pp. 6-7, a firma: La redazione di “Anarchismo”. Ripubblicato su “Senza Titolo” n. 4, autunno 2009, pp. 80-84 e in Alfredo M. Bonanno, Michail Bakunin. Contro la storia, vol. II, Trieste 2013, pp. 635-639]

Annotazioni

L’avventatezza è caratteristica della gioventù. Con l’avanzare dell’età si diventa prudenti. Perché non è accaduto questo a me che adesso [2010] scrivo queste righe da vecchio in un carcere greco? Non lo so. Non tutti seguono questa parabola di cautela, molti rimangono fedeli all’avventatezza giovanile. Molti sono morti prima di essere vissuti. Così va il mondo. La vita è un movimento continuo che richiede l’accettazione del pericolo, altrimenti si racchiude in un nocciolo di sicurezza sempre più asfittico, sempre più soffocante e più piccolo. L’apparenza è perfettamente in grado di fare sembrare questo cimitero una scintillante platea di mimi e di pagliacci. Non sono caduto in questa trappola. Ecco perché ogni notte l’ospite inatteso si siede ai piedi del mio letto. Aspetta.

L’esperienza della diversità non è un contenitore riempito di qualcosa, sia pure le parole, a volte gioiose a volte tristi, della rammemorazione. La qualità non può essere arredata, nemmeno quando si pone al cospetto della quantità e il contrasto non può essere più evidente. Leggere le segnature di Bakunin rinvenute nelle mie escursioni nella foresta dell’oltrepassamento possono essere esperienze più o meno accidentali, perfino fastidiose, a volte, in ogni caso non hanno alcun diritto di essere poste, in quanto parole, al cospetto dei miserrimi accadimenti sperimentati nella quantità, non ci sono paragoni e ogni scala di valori finisce per scadere nel nulla. Là, lontano o vicino, questo non lo so, c’è la segnatura, un’esperienza diversa occasionata da Bakunin, una sorta di mano tesa attraverso il tempo, contro il tempo, contro il tempo perché contro lo spazio, nessun punto di coordinazione, e la segnatura sono io stesso, libero finalmente dei miei obblighi di conoscenza e di adeguamento a quei limiti di coerenza e distinzione che i ritagli che mi stanno a fianco, odoranti ancora di biblioteca, impongono con la loro burbera riottosità. Sembrerebbe un dibattermi concitato e astioso, non lo è. La libertà senza limiti è muta, non ha parola o regole, è l’assoluto indifferente a se stesso, eppure è attraverso la parola che la sperimento, qui e ora, prigioniero di queste regole e nello stesso momento capace di volare via, lontano dalla sicura e confortante modificazione. Spezzo nettamente, con la tecnica del fare che ho imparato così bene nell’ambito produttivo, l’impronta rinvenuta nel sentiero, la identifico appartenente ad un corpo complesso e articolato, storiograficamente provvisto delle opportune credenziali, ma contemporaneamente a questo corpo estranea. Un sogno utopico o un passo avanti? Oppure, peggio ancora, una banale riforma della logica dell’a poco a poco? Non è possibile rispondere a queste domande. L’indifferenza e l’estraneità della segnatura, la sua stessa non consanguneità con i paralipomeni di cui abbiamo discusso, non sono altro che sapere diverso dal mio, da quello che sono stato educato a considerare tale, che così cataloga la segnatura senza darsene pensiero più del dovuto. Il mio sapere antico, se lo guardo bene, mi sembra riconfortante e positivo, mentre la segnatura mi appare subito inquietante e negativa, ma è proprio qui che nasce l’origine della sua appartenenza al sentiero nella foresta, è qui che rintraccio pienamente la traccia scavata nel percorso diverso, dove mi inoltro con tanta difficoltà. L’eterna qualità non posso possederla, ma posso coglierla.


[Pubblicato in Alfredo M. Bonanno, Michail Bakunin. Contro la storia, vol. II, Trieste 2013, pp. 641-643]

Organizzazione anarchica e lotta armata

Per la prima volta tradotta in italiano la “Lettera ad uno svedese” (August Sohlman), risulta essere uno stimolante scritto del grande rivoluzionario anarchico, molto attuale almeno nei riguardi del difficile problema dell’organizzazione specifica.

Il testo (M. Bakunin, Organizzazione anarchica e lotta armata, Edizioni “La Fiaccola”, Ragusa 1978), tradotto e curato da Gianni Landi, che ne ha firmata l’Introduzione, è molto esplicito su due argomenti: la funzione creatrice della distruzione (argomento caro in particolare al giovane Bakunin) e la funzione di stimolo della minoranza agente.

E alla costruzione di questa “minoranza” egli dedica la maggior parte dei suoi sforzi, convinto che si tratti della costruzione dell’unico esercito che sia possibile contrapporre alla “Santa Alleanza dei re contro la libertà”. Con l’esercito della rivoluzione sarà possibile fare insorgere il popolo, “prepararlo ovunque all’insurrezione simultanea”.

Ma, per arrivare a ciò sarà pur sempre necessaria un’organizzazione segreta, “alcuni centinaia di giovani di buona volontà”. Scrive l’estensore dell’introduzione su questo argomento: «Quest’ultima frase non deve però essere intesa come un velato avallo ai diversi cartelli della lotta armata, dal più stalinista (Brigate Rosse) al più libertario (Azione Rivoluzionaria), perché se è vero che i compagni di lotta armata stanno dimostrando con i fatti e non con le parole che un gruppo di uomini decisi può disarticolare uno Stato, e un’economia, è altrettanto fuori dubbio che soltanto una azione di massa può abbatterlo. Questo non vuol dire che dobbiamo delegare alle “masse” ogni iniziativa e che questo diventi un comodo paravento al nostro opportunismo, ma nemmeno si può pensare che la costruzione di un Partito combattente o di un’organizzazione di “armati” possa costituire, in questa fase della guerra di classe, una indicazione politica». (Ib., pp. 9-10).

Giuste considerazioni che trovano conferma nelle analisi di Bakunin e nelle preoccupazioni che le dettarono a suo tempo. Non c’è dubbio che la rivoluzione è una faccenda molto complessa, non c’è dubbio che non è sempre facile mantenere i “sacri” princìpi dell’incontaminata fede, non c’è dubbio che le necessità dello scontro possono spingerci se non ad accettare alleanze spurie almeno a lasciare in vita coesistenze da sottomettere a rigorosa vigilanza, e non c’è dubbio che tutto questo finisce per turbare gli spiriti deboli e i sottili metafisici sempre “puliti” nell’astratta atmosfera delle idee. Ma la violenza è fatto doloroso, grave, che richiede l’assunzione di gravi responsabilità. Lottare per la rivoluzione può condurci davanti a decisioni che richiedono un grande coraggio. Non tanto per quello che riguarda la nostra vita, o per certe azioni che possono essere più o meno poste, per il modo in cui saremo capaci di affrontare la repressione; quanto per trovare il fondamento morale delle nostre azioni. Attaccare i nemici degli sfruttati a livello teorico è facilissimo, e tutti i “progressisti” sono più o meno d’accordo, ma quando questo attacco si concretizza in azioni precise, quando si uccidono alcuni di questi responsabili, quando si distruggono alcuni strumenti dello sfruttamento, quando si annientano alcune centrali del dominio di classe; davanti al polverone melodrammatico alzato dagli strumenti di informazione del regime, molti compagni si sentono in dubbio. Tutti pieni di fuoco pochi minuti prima, tutti disponibili per mettere a soqquadro il mondo, si sentono assaliti dai dubbi e dai ripensamenti, dai distinguo morali che non hanno fondamento una volta che si sia accertata – e la storia non può darci smentita alcuna in questo senso – la responsabilità degli sfruttatori.

Non sarebbe inutile, per i compagni, riflettere, ancora una volta, su questo argomento, anche rileggendo le pagine di Bakunin, argomento che va ben oltre un superficiale “realismo rivoluzionario” e che, pur non smentendo l’importanza fondamentale del momento etico nella condotta dello scontro di classe, individua i limiti precisi di questo momento nella responsabilità degli sfruttatori che da sempre sono stati i “padroni della Storia”.


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 19, 1978, pp. 40-41 e in Alfredo M. Bonanno, Michail Bakunin. Contro la storia, vol. II, Trieste 2013, pp. 673-675]

Annotazioni

L’organizzazione resta legata alla metodologia e alla visuale della fattività, ed è qui che la devo cogliere, con tutte le sue limitazioni, strumento e mai scopo in se stessa, obiettivo da usarsi, quindi provvisto di una intrinseca utilità. Sono costretto, in questo modo, a distinguere i problemi organizzativi della rivoluzione anarchica da quello che quest’ultima può essere per me, che la vivo sulla mia pelle, nel momento del mio personale coinvolgimento. Da questo particolare osservatorio non distinguo niente, non posso mettermi a discettare sul mondo che ho lasciato alle spalle, quando mi sono inoltrato nella foresta. La qualità non ha fattività utilizzabili se non indirettamente, attraverso il piegarsi dell’esperienza diversa alle limitatezze della parola rammemorante.

Sono io che critico la dimensione superficiale e provvisoria del mondo, guardando nel profondo di me stesso, dove la qualità non abbisogna di quel riconoscimento che mi sento costretto a conferirle una volta che la colloco altrove. L’abbandono mi porta di fronte a me stesso come me stesso, non come fondamento originario di me stesso. Non c’è un demone meridiano che mi sollecita a venire fuori, verso la realtà di un mondo meschino e variegato, sarebbe un benefattore meridiano, un sensale di matrimoni, non uno sconvolgitore di esistenze. L’abbandono mi rende possibile l’intuizione di parte, l’esperienza diversa nella qualità. Questo è il vero demone.

Pretendendo dire tutte le conseguenze dell’organizzazione non si arriva mai a cogliere il senso profondo della rivoluzione anarchica, in quest’ultima c’è sempre qualcosa di assolutamente altro, estraneo, questo qualcosa, a tutte le esperienze quotidiane che possiamo fare nell’ambito della produzione coatta. Dire questa contraddizione è impossibile, nemmeno queste parole ci riescono, difatti non hanno la pretesa di dirla, anche se si pongono come tentativo di analizzare la segnatura che viene fuori dagli scritti di Bakunin.


[Pubblicato in Alfredo M. Bonanno, Michail Bakunin. Contro la storia, vol. II, Trieste 2013, pp. 677-678]

[1] Bakunin si riferisce alla rivolta dei decabristi del 1825.

[2] Qui mancano delle pagine, in esse Bakunin parlava apparentemente dell’abisso che separa la gioventù russa di quest’epoca dal popolo.

[3] Citazione del poema di Puškin Ai detrattori della Russia.

 
 

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