Titolo: Manuale scientifico a uso degli increduli
Sottotitolo: Seconda edizione riveduta e corretta
Note: Pensiero e azione N. 36
Prima edizione:
vol. I settembre 2001
vol. II ottobre 2001
Seconda edizione in un unico volume: maggio 2015
SKU: pensiero-000036
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Introduzione alla seconda edizione

Chi sono gli increduli? Coloro che non accettano l’autorità costituita, non per una questione di principio, che ciò sarebbe ancora atteggiamento incongruo di accettazione dell’autorità, ideologismo bello e buono, come si è convenuto di chiamarlo, ma che non accettano perché vogliono lottare nel concreto, al di là degli aspetti formali e dei massimalismi buoni per tutte le stagioni. Una critica negativa? Sì. Anche questo. Ma ancora più oltre. Nella critica negativa c’è la coscienza del coinvolgimento che si mostra, come coscienza che sta diventando diversa. Questo mostrare indica due lontananze, una è quella del fare e una quella dell’agire, non sono più prigioniero, ma non sono ancora libero. Mostro qualcosa di evidentemente diverso, ma trattengo qualcosa che so antico e che avevo pensato di lasciare dietro le spalle. Porgo e trattengo, dimostro negato e riconfermo nella sua costituzione il di già affermato. La mia parola, che da sempre ha indicato il fare, ora ne indica i limiti e le contraddizioni, e così riporta alla superficie, col proprio negare, una vita diversa da sé come parola, una vita che non solo indica la realtà del fare ma ne sottolinea i limiti. Prometto di non essere più schiavo della chiarezza, ma è promessa non fatta solo di parole bensì di concretezza, e questa concretezza sono io. Mi avvolgo nel mantello di combattimento e non mi sposto dal punto dove ho piantato la nuova posizione. Molte sono le visioni che mi trattengono nell’ambito della sicurezza e della garanzia, ma alcune brecce si stanno aprendo, svelano una prospettiva differente, anche se non sono loro a dire la parola decisiva ma è proprio il mio coinvolgimento, il peso del mio non essere più al sicuro. Così sono incredulo, prima di tutto a me stesso. Il riferimento a quello che c’è ora di nuovo di fronte a me, se questo qualcosa è veramente nuovo, è sempre difficoltoso. Quello che mi sta davanti lo dovrei vedere con gli occhi del fare, ma quegli occhi sono diventati ciechi, non ho più la fede nella chiarezza che mi sorreggeva, ora guardando indietro, tutto mi pare difficoltoso e grossolano. Mi rendo conto che ciò di cui mette importanza parlare è la trasformazione, ma non c’è trasformazione davanti a me, c’è solo solitudine e silenzio. La voce dell’uno tarda a farsi sentire, essa è udibile soltanto quando ho di già intrapreso il viaggio, però adesso mi colgo ancora in procinto di salpare, e tutto sembra fermo nel mio nuovo cogliere, fermo e incantato. C’è nell’aria di certo una essenzialità nuova, ma può essere per ora solo una conseguenza del sovrapporsi degli strati intuitivi su quelli percettivi logicamente collaudati. Nell’intimo di questa nuova prospettiva intravedo quello che mi sembra l’uno che è, so che non è possibile, che al massimo è della qualità che posso ipotizzare, ma l’attimo che vivo mi coglie a sua volta di sorpresa e mi spinge lontano, acuisce il mio sguardo e mi sembra di cogliere lidi remoti dove fioriscono fiori che mai muoiono. Qui la vecchia storia magniloquente si interrompe e compare la quiete dell’abbandono. Non è una questione di profilo, scendo al di sotto, vado più a fondo, sanguino e faccio sanguinare. L’intuizione è un cogliere un movimento che sta al di là dell’assenza, che non collima col mondo e con le sue regole. La critica ha sollevato la notte contro l’apparente luce del mondo e quindi non si tratta di nuove immagini che si sostituiscono alle vecchie, ma avvicinamenti che incidono sulla carne, ormai in gioco completamente, non emancipazioni cognitive ma pratica incisione dell’essenziale. Ormai la vecchia parola tace, o dicendo non dice nulla. Di certo continuo a parlare, ma il dubbio critico, prima, e l’intuizione nell’abbandono, poi, allentano la forza delle mie parole. La consistenza dell’altro è adesso davanti a me, non regna più nell’assenza. Sono io che devo ripercorrere segnali nuovi per avvertire nuove sensazioni. La qualità non si conserva dietro un bastione, anzi non ho più nulla da conservare in questo momento, l’apertura mi ha condotto in un territorio la cui desolazione azzera il senso stesso di conservazione. Non so più come determinare una correlazione ma vengo spinto avanti dove non ci sono più fatti e quindi nemmeno oggetti, non c’è più niente da nascondere e niente da deviare. La qualità brucia proprio per la sua evidenza. Spengo la coerenza di antica data, le ammuffite giaculatorie, i ritorcimenti da sanculotto tardivo. Affrontare la nuova condizione intuitiva richiede un atteggiamento diverso dalla vecchia coerenza. Non è più in gioco il coraggio avventuroso delle barricate. Questo ha portato a termine il suo compito e ora non è più essenziale. Forse non lo è mai stato fino in fondo, perché ho visto deboli reagire da forti e forti rivelarsi pecore, ma ora non ha più una sua necessità, il nuovo coraggio è modesto e quasi si nasconde, non ostenta forza e supremazia, non vuole possedere. Nella diversità non c’è modo di commisurare la propria condizione di coerenza con i canoni di giudizio precedentemente scelti. Se la libertà è assoluta mancanza di vincoli solo gli imbecilli possono pensare di essere liberi mantenendosi sempre adeguati alle proprie scelte, che si sono consolidate in modificazioni riconoscibili senza bisogno di bandiere o divise. Il coraggio di cui parlo va oltre, si integra nell’essere profondo di ognuno di coloro che hanno coinvolto se stessi. Non è una questione fisica, il coinvolgimento, non è il semplice mettere a rischio se stessi, ma è mettere a rischio l’essenza più intima di se stessi, la scorza che mi caratterizza deve andare via risolutamente. Nella diversità il mio agire è trasformativo, mi mette a nudo, non accetta quantificazioni e riconoscimenti, io nasco a una nuova vita dove non c’è rendimento che possa essere calcolato. Intuisco quello che mi sta davanti perché intuisco me stesso. Ho visto persone millantarsi coraggiose e poi cedere davanti al proprio ostacolo vero, che faceva loro intuire fino in fondo la parte debole di cui erano fatte. Non l’avevano mai capito e adesso, in lacrime, ne raccoglievano i pezzi e speravano di riuscire a nasconderli agli altri. Ma a se stessi non potevano nasconderli. La risolutezza dell’azione è l’intuizione di come si è veramente nella propria essenza più intima, se si è o meno coraggiosi. Qui è la fine di ogni rappresentazione. Nell’intuizione colgo quindi non solo l’interno remoto, la desolazione, ma anche quella parte di me stesso che ho tenuto profondamente nascosta dentro di me. Non voglio saperla questa parte, non voglio conoscerla, essa mi fa paura, ma coinvolgendomi nell’azione compiutamente l’intuisco e mi trovo ad affrontare per primo il mio proprio fantasma. Mettendo da parte questo fantasma posso andare avanti perché la volontà stessa ha fatto un passo indietro, si è messa da parte. Sono allo sbaraglio e il vento colpisce in modo nuovo il mio viso. Questo mi entusiasma, l’avventura non sta nel diverso che è fuori di me, ma in quello che ora ho scoperto dentro di me, nel mio nuovo viso radioso, nello schiudersi del mio modo di essere che magari per anni è rimasto accanto al caminetto a rimuginare sulla propria sicurezza e su quella del mondo. Il coinvolgimento è adeguato alla condizione intuitiva, produce un accrescimento via via più intenso della capacità di cogliere e fissa i segni del nascondimento critico in una grammatica che non ha più nulla del coercitivo, del normativo contesto della produzione. Da questo momento le catene vengono dimenticate, vado avanti nell’azione, nel sereno del cielo e nell’oscurità della notte. Niente di tutto questo mi fa paura, sono io che impongo le mie nuove regole che escludono il dominio se non su me stesso. Poi, anche questo tenere a distanza la volontà si esaurisce e il reciproco riferimento non ha più la luce consueta. L’agire mi trae fuori dal mondo che ho creato e mi allontana dall’avvedutezza di ciò che restava nascosto per paura di mettersi a rischio. Arrivo nella cosa e formo una unità nuova, indivisibile nella sua profonda essenza qualitativa, ed è la mia presenza che solleva manifestamente la qualità, senza che sia possibile più separare l’atto dall’agito o dall’agente. Sono io la qualità non l’attore che la fa venire alla luce. Tutte queste distinzioni, traslate dal fare, spariscono, e con esse le mie preoccupazioni scientifiche. Trionfa l’incredulità e non è più un atteggiamento né ideologico né di metodo, sono io, così come sono e nient’altro. Non c’è bisogno di armarmi di tutto punto per difendere quello che sono, e il motivo è semplice, non sono un punto di vista, sono e basta.

Con buona pace di tutti i perplessi.

Trieste, 10 febbraio 2014

Alfredo M. Bonanno

Parte Prima

“Al giorno d’oggi, le scienze fisiche ci conducono in campi nuovi con metodi nuovi, e ciò equivale a dire che l’oggetto e il soggetto sono, l’uno attraverso l’altro, in stato di innovazione. Quali saranno le conseguenze umane, le conseguenze sociali di una simile rivoluzione epistemologica? Ecco un altro problema che noi non dobbiamo prendere in considerazione. È già difficile misurare la portata psicologica delle profonde modificazioni dell’intellettualismo. L’intellettualismo, specie quello che si sviluppa nella forma di un nuovo spirito scientifico, si localizza in una comunità (cité) intellettuale molto chiusa e ristretta. C’è di più. Nello stesso spirito dello scienziato, oggi, il pensiero scientifico si separa dal pensiero comune. Lo scienziato è un uomo dotato di due comportamenti. E questa divisione, che spesso passa inosservata, altera tutte le discussioni filosofiche. Essa ha contro di sé le facili dichiarazioni filosofiche dell’unità e dell’identità dello spirito. Gli stessi scienziati, quando spiegano la loro scienza a degli ignoranti, o quando l’insegnano a degli allievi, si sforzano di porre in continuità la conoscenza scientifica e la conoscenza comune”.

(Gaston Bachelard, Le rationalisme appliqué)

Introduzione alla prima edizione

Che partire da un rifiuto del complesso culturale di ciò che oggi definiamo “scienza” sia punto di forza irrinunciabile, è fuori discussione. Ma questo rifiuto sgomento può aspirare a un fondamento che non sia soltanto una vana e tautologica affermazione di principio? Che una scienza, “rivista” dal punto di vista rivoluzionario, sia in grado di assumersi altri compiti e quindi articolarsi in vista di differenti obiettivi, è cosa di cui oggi può sembrare inutile discutere.

Il fatto è che abbiamo perso la capacità di approfondire argomenti che non trovano nell’ambito immediato la propria giustificazione logica ed etica, ponendosi come hortus conclusus. Ma, forse, non è soltanto una questione di pratica argomentativa. Interrogare il futuro ci fa un po’ paura, per cui preferiamo porre domande al presente, anzi a quella parte del presente che più ci minaccia con le sue incognite e le sue prospettive poco comprensibili. Da sempre abbiamo ritenuto opportuno sostituire una teoria molto elaborata a un pensiero nudo e crudo, quindi abbiamo perso l’abitudine di pensare.

In quale modo potrebbe trovare collocazione positiva per l’uomo una scienza che abbia vissuto l’impatto rivoluzionario fino in fondo, che sia stata pertanto sconvolta nelle ragioni stesse del suo sviluppo, che abbia abbandonato le vecchie solitudini marginali e depressive? Ma non è una questione di dettaglio quella che qui si pone, quanto di moventi morali, di ambiente sociale all’interno del quale la coscienza individuale può trovare quelle forme ideali in grado di suggerirle un differente ethos, impensabile nelle attuali condizioni, all’interno delle quali questa riflessione è condotta nelle presenti righe. Darsi una dirittura di pensiero è un bisogno estetico, occorrerebbe vivere la bellezza in modo più diretto, guardare in faccia la vita. Ci sono altri modi per autoregolarsi, ma questi messaggi provengono da troppo lontano e, quando ci arrivano vicini, li guardiamo come stranieri di passaggio. La stupidaggine non è quello che lo stupido fa, ma quello che gli piacerebbe fare.

In condizioni diverse, diverse sarebbero le connessioni tra etica e società, per cui a certi corposi desideri corrisponderebbero comportamenti non più in contrasto con la vita, ma al contrario capaci di realizzare quest’ultima fino in fondo senza perplessità, mentre ora ogni desiderio è filtrato all’interno di uno schema rigido e corpulento che lo traduce in compito sociale minacciando così di ucciderlo in quanto desiderio e di ripresentarlo come dovere. Fiori appassiti su un tavolo di marmo. Il pensiero per un filosofo è il modo corrente con cui giustifica di fronte agli altri i propri errori. Invece nel pensiero egli dovrebbe lasciarsi andare alle estreme conseguenze, evitando di offrire materiali in difesa di possibili soluzioni approntate in vista dell’ottenimento di uno scopo soltanto, la propria sopravvivenza.

L’automodificazione nella scienza è modulo costante, ma non è che un’apparenza strutturale, nel senso che il gioco logico (bene esposto e sostenuto da Popper) che garantisce contro l’incongruità sistematica dei metodi, finisce per fare svanire nel nulla ogni possibile coerenza etica dei risultati. Dichiarata defunta l’antica vis dormitiva si sono scoperte molte virtutes dormitivae, e questo si è dichiarato “vero” progresso scientifico. Possiamo pertanto parlare di una vera infondatezza logica della scienza, salvo a indicare come fondante una logica dell’a poco a poco che invece serve solo a rendere comprensibile (fino a un certo punto) i processi di accumulazione e riorganizzazione dei dati e nient’altro.

Nelle condizioni attuali la necessità distruttiva ci appare quindi come un rifiuto di questa logica dell’aggiustamento, un insolente rifiuto reso necessario dalle condizioni in cui ci troviamo. Questa affermazione, di una necessità della distruzione, non è però un principio fondante universalmente valido, una norma dell’agire che sia in grado di funzionare come un imperativo categorico in base al quale rendere legittime le proprie pretese morali e contrastare una realtà demoralizzata e infelice. Ma, nello stesso tempo, questa rinuncia a vedere nella distruzione un principio fondante, non conclude nel senso storicistico che potrebbe sembrare logico ricavare, una forma appena diversamente modulata di servitù. Non è la storia che deve esalare l’autorizzazione a farci considerare inaccettabile il mondo in cui viviamo, di cui la scienza è l’elemento essenziale, il motore nemmeno tanto nascosto. Non è una questione di epoca storica, in quanto non ci fu mai un’età dell’oro ricca di bambinoni correggeschi coperti di borotalco, o un’epoca che la cura e l’amore per la tradizione potrebbero far tornare in vita. Il futuro ci presenterà combinazioni altrettanto scombinate e caduche che il passato, solo che l’agire distruttivo delle attuali condizioni del mondo potrebbe concorrere, in maniera più o meno determinante, a realizzare assetti più favorevoli alla vita umana, specialmente a quelle esplosioni di desiderio e di creatività che oggi quando si presentano vengono immediatamente spazzate via. Non occorreranno gli arcangeli, e il loro sconfinato orgoglio, per ribellarsi.

Quello che potrebbe accadere in un migliore futuro è la possibilità che non venga più schiacciata la vita in nome di un’arcigna norma a priori fissata una volta per tutte a partire dal primo filo di barba, come in un interno di Hogarth. Un giudizio incondizionato è sempre l’apertura di una istruttoria contro la libertà, prevede comportamenti e deviazioni, quindi premi e condanne, prevaricazioni e sofferenze. Abbondano le prove dell’efficacia di simili rimedi, convincenti, naturalmente per coloro che non ne hanno bisogno.

È il concetto stesso di sistema che deve essere rimesso in discussione, la pretesa di stabilire punti fermi – logicamente concordanti – tali da garantire giudizi contegnosamente incondizionati, cioè previsioni aventi la caratteristica di leggi non sottoposte a variazioni incontrollabili. Questo ideale, prodotto dalla ragione pratica, ha immolato milioni di donne e di uomini al proprio funzionamento, da ognuno ritenuto assoluto, cioè assolto da qualsiasi errore o deformazione. Il sistema di pensiero è obbligato a partire dal proprio fondamento logico ad aprire così uno spazio incolmabile tra la forma incondizionata, presupposta assoluta, e la vita nella sua imprevedibile realtà. Di regola la buona educazione suggerisce di badare solo all’essenziale. Ciò comporta inoltre una cristallizzazione di quello che la condizione principale che si vive come oppressione e violenza finisce per imporre. Ogni desiderio dissonante viene in contrasto con i valori dominanti, i quali lo circondano e lo soffocano sospingendolo al margine, dove il calcolo della convenienza suggerisce di non mettersi a rischio e di rinunciare. Un consiglio da back seat drivers.

Per essere ricondotto al margine, il desiderio deve essere riconosciuto non solo come elemento perturbante del sistema, ma anche a questo estraneo, di provenienza altra. Le brave persone non desiderano, possiedono. Un pensionato, amico di San Bartolomeo, possiede la propria pensione. L’universo delle norme considerate di universale accettazione (validità) non rinviene in se stesso questo elemento, quindi si accalca a proporre una serie di modificazioni per produrlo (sarebbe meglio dire ri-produrlo) in maniera adeguata all’insieme delle norme valide nel sistema. Ora, se queste norme, assolutizzate, vengono considerate provenienti da una condizione non assoluta ma storicamente relativa, esse potrebbero avere in sé, anonimamente, l’antico riflesso di una presenza desiderante, poi trascinata via verso la codificazione. In pratica è quello che accade. Non c’è sistema etico che non comprenda in sé esuberanti residui non assolutizzati completamente, assorbiti con un movimento produttivo che ho a volte definito di secondo momento. Si tratta quasi sempre di pulsioni irrazionali che – come l’inquietudine – vengono riconosciute operative all’interno del sistema, ma con pericolose modalità eversive. L’immaginazione scompone e ricompone continuamente queste tracce, essa trascina con sé la realtà facendola meno noiosa, pur restando un meccanismo sempre uguale a se stesso. Di regola basta questo semplice riconoscimento, attuato sulla base dei riferimenti e delle rigide corrispondenze che alimentano l’insieme del sistema, per fare prendere alla coscienza incerta, contezza del pericolo che corre e farla rientrare in sé come dentro un paesaggio di Millet, cioè farle accettare il controllo come male minore.

L’azione di recupero repressivo diventa sempre più dettagliata e penetrante, non manca mai il tocco di une charmante personne, man mano che il sistema etico imperante si rende conto delle difficoltà del singolo a cedere di fronte alle proprie richieste desideranti. Andrebbe ridotto lo spazio di incondizionatezza che si è aperto di fronte al singolo, le sue cosiddette possibilità che a volte si allargano al massimo contrastando con le necessità regolative. Questo contrasto si ripresenta costantemente in tutte le formazioni storiche e non è una caratteristica dell’epoca in cui viviamo, se si eccettua il fatto che quest’ultima ha trovato la giustificazione per parlare di volontà generale nella propria condizione di paura. Così Piero Martinetti: «Noi possiamo riassumere la dottrina di Schopenhauer sulla morte e sull’immortalità nei seguenti quattro punti: 1) Non vi è una perpetuità della nostra personalità empirica, che è una creazione del nostro intelletto: essa non è che una forma transitoria ed è assurdo sperare nella sua continuazione indefinita. Né di ciò dobbiamo dolerci, perché essa è qualche cosa di miserabile: “alla coscienza empirica non va unita soltanto la colpa, ma anche tutti i mali che sono conseguenza inevitabile di questo regno dell’errore, del caso, della malvagità e della follia ed infine anche la morte”. 2) Ma nello stesso tempo possiamo essere sicuri che vi è in essa un nucleo indistruttibile, che noi non possiamo rappresentarci adeguatamente, perché la nostra rappresentazione è inseparabile dalle forme del tempo, dello spazio e della causa e ciò che è eterno è superiore a queste forme. Questo substrato metafisico è posto da Schopenhauer qualche volta come alcunché di impersonale, a cui tutte le individualità sono indifferenti. Ad ogni modo però esso non è qualche cosa di inconscio: che anzi la coscienza. empirica è rispetto ad esso solo una limitazione, un sogno. “La mia fantasia si compiace spesso nel pensiero che la vita mia e quella di tutti gli uomini non siano che i sogni d’uno spirito eterno, sogni brutti e belli, ed ogni morte un risveglio”. 3) Fra la personalità empirica e la volontà universale vi è una realtà intermedia: la personalità intelligibile, l’Idea. “Solo le Idee, non gli individui, hanno una vera realtà”. Essa è come il filo che collega tutti i sogni successivi, tutte le vite empiriche dell’individuo; con la morte essa riprende la sua libertà e sceglie liberamente, per quanto sotto l’influenza della vita anteriore, l’esistenza successiva. 4) Nella successione delle vite la volontà può giungere (alla fine di un’esistenza) alla sua negazione, cioè alla liberazione. È l’identificazione con l’Idea nella sua purezza, è il passaggio definitivo ad una coscienza migliore, della quale le vite empiriche sono soltanto frammenti ed accenni. Noi rabbrividiamo dinanzi alla morte perché essa ci sembra una ricaduta in quelle tenebre dalle quali veniamo: ma quelli che giungono alla liberazione si trovano “in una luce, di fronte alla quale la nostra luce del sole non è che ombra”». (Schopenhauer, Milano 1944, p. 19). Ogni sistema ha in sé sufficiente necessità di coordinazione per non consentire alla distruzione desiderante un procedere troppo in avanti nella disgrazia delle strutture istituzionali. Anche nei casi in cui il caos o l’entusiasmo sono stati presi in considerazione come obiettivo del movimento sociale specifico – per esempio con Eliogabalo o con Müntzer – era pronto un modello sostitutivo in cui ruoli invertiti venivano considerati in grado di garantire persistenza alla struttura sociale nel suo insieme. Si invidiano le possibili abiezioni, mai i comportamenti coerenti, questi, al massimo, si ammirano quando gli altri ci stanno ad ascoltare.

Ma, come per la distruzione non potevamo ridurci a considerarla fondamento assoluto di ogni processo sociale, così per la corrusca assolutizzazione sistematica non possiamo affermare che proceda sempre allo stesso modo e quindi, pervenendo allo stesso obiettivo (la persistenza del sistema), diventi fondamento. Chi considera necessaria la distruzione non accetta un fondamento assolutizzante (né positivo né negativo), quindi è l’idea stessa di fondamento che viene frustrata. Riflettendo sulla coerenza, insiste Johann Eduard Erdmann: «1. Come Descartes, ma nella direzione opposta, Spinoza va dal principio della sua filosofia a quello per mezzo del quale esso viene propriamente superato (aufgehoben) come unità dell’Essere formale e oggettivo; questo principio era l’unica sostanzialità di Dio. Ma proprio per suo mezzo Spinoza viene spinto a farla cadere. Per pensare la sostanza come il solo vero essere, ogni negazione, ma quindi anche ogni determinatezza, deve venire esclusa. Però così ciò che da essa è escluso diventa ciò che non è più in essa, quindi non più in alio. Però l’essere determinato, è in sé o sostanziale. Non solo è difficile, come Spinoza riconosce, ma addirittura impossibile non prendere le modificazioni come cose esistenti per se stesse. Esse stesse mutano per lo spirito che le considera, per questo esso le muta. Come in generale ciò che è stato escluso accanto a ciò che esclude, così dunque si esclude l’essere determinato accanto all’Essere infinito; proprio come Parmenide era stato costretto a porre il Non-essere, escluso dall’Essere, accanto a questo. 2. Proprio come il suo, or ora rammentato, predecessore ellenico, Spinoza cercò di salvare il suo panteismo facendo della considerazione dell’Essere come infinito e uno la sola retta considerazione razionale, e, invece, di quella che lo frammenta una mera opinione (par. 36,3) o immaginazione. Però, in quanto egli spiega l’immaginazione come quella che presenta molti spiriti e molte idee divise tra loro, egli si muove in un circolo continuo: l’immaginazione riduce a frammenti, ed è essa stessa conseguenza della frammentazione. Egli non si libera dalla molteplicità delle essenze indipendenti; e per nascondere la contraddizione in cui così viene a cadere, distingue il suo panteismo e individualismo (monismo e pluralismo) col quatenus: che, non senza spirito, Herbart ha chiamato la parola magica, la quale in Spinoza ha reso tutto possibile. 3. A causa di questo andirivieni di due diverse specie di intuizione, a coloro i quali fanno di Spinoza un modello di consequenziarietà formale, ossia di coerenza senza contraddizione, non è restato altro che considerare un lato soltanto del suo pensiero come la sua vera dottrina, e ignorare invece gli altri come conseguenza o adattamenti di un diverso atteggiamento. Quest’ultimo caso si è avuto quasi senza eccezione con le proposizioni antipanteistiche, finché K. Thomas (Spinoza als Metaphysiker, Königsberg 1840) non ha fatto il tentativo inverso, di porre l’atomismo come peculiare dottrina dello Spinoza, e di affermare che il panteismo (e così certo quasi tutto il primo libro dell’Etica) non era in lui qualcosa di serio, ma era solo dovuto alla preferenza dei panteisti cartesiani. Questa paradossale dottrina ha in ogni caso portato il vantaggio che dopo di essa si è cominciato a vedere meglio cosa sia quella consequenziarietà di Spinoza, tanto apprezzata da Jacobi in poi. In questo si potrebbe trovare che la consequenziarietà di Spinoza non consiste nel restar fermi a ciò che una volta è stato detto, ma nel trarre da ciò tutte le conseguenze, anche quelle che sono in contrasto con i punti di partenza. Come Descartes, con l’unica sostanzialità di Dio alla quale egli pervenne, ha dato a Spinoza il tema del suo pensiero, così questi, in quanto partendo da essa è stato respinto dal considerare le essenze singole come sostanziali, ha dato al periodo successivo il suo tema: di modo che come egli si è posto di fronte a Descartes, quello si è posto di fronte a Spinoza: esso tiene fermo solo il punto al quale egli è giunto». (Grundriss der Geschichte der Philosophie, vol. II, ns. tr., Berlin 1896, pp. 81-83).

Che ne dobbiamo fare dell’immenso patrimonio culturale che abbiamo accumulato? Come affrontare le contrapposizioni che si sono sviluppate all’interno di questo patrimonio? Siamo obbligati a considerare queste ultime contrapposizioni senza possibilità di sbocco positivo e quindi concludere soltanto per la distruzione, ma non osiamo farlo?

Per tanto tempo siamo andati alla ricerca di un fondamento morale incondizionato, un “selvoso mento d’accarezzare”, un giudizio pratico traducibile in un dover essere immediato, in una facilmente comprensibile (accettabile) obbligazione. Questa velleitaria intenzione ci ha portati a facilitare la realtà, a produrre schemi e sistemi di norme schematiche simili a occhiaie vuote, ritagliando con la forbice repressiva tutto quello che non ci andava a genio. La filosofia ha viaggiato a lungo in questa direzione: Ad esempio Kuno Fischer: «La dottrina di Spinoza è il sistema della natura pura. In questa dottrina tutto è natura: Dio è l’infinita, attiva natura, il mondo come eterna conseguenza di Dio è la natura effettuale; gli attributi sono le eterne e infinite forze della natura, le cose singole sono le transeunti apparenze della natura, gli Spiriti sono nature pensanti, i corpi [nature] estese. Che cosa, in questo sistema, non sarebbe natura? L’ordine razionale è quello necessario per natura. Ciò che contrasta con la necessità e la possanza della natura, contrasta con la ragione. Ciò che è impossibile nella connessione delle cose secondo la legge di natura, è impossibile in genere, non esiste in verità, ma solo sul piano dell’opinione; cioè, non nella natura delle cose ma nelle confuse idee della nostra immaginazione. Perciò Spinoza nega l’autocoscienza (universale e indeterminata), la personalità, la libertà. Non le nega come panteista, ma come naturalista. Ma il naturalismo non esaurisce la peculiarità della dottrina di Spinoza. Dio vale come ordine eterno, questo come natura e quest’ultima come indipendente dai condizionamenti della conoscenza umana, la quale deriva essa stessa dalla natura delle cose. Ma la conoscenza chiara può seguire solo dalla conoscenza chiara. Se le cose non fossero concepite chiaramente e distintamente fin dall’eternità, l’ordine delle idee non sarebbe necessario ed eterno quanto l’ordine delle cose, e quindi non sarebbe possibile nello spirito umano una conoscenza delle cose. La compiuta e vera conoscenza delle cose è l’ordine e la connessione delle idee; questo ordine è una necessaria ed eterna conseguenza del pensiero divino, quindi ordine naturale. Spinoza concepisce la conoscenza come natura o la natura tale che comprende in sé la perfetta conoscenza delle cose (come necessaria ed eterna conseguenza della sua essenza). In altre parole: egli presume la conoscenza come fondata e compiuta nella natura delle cose. Questa presupposizione costituisce il carattere dogmatico della sua dottrina. Aristotele come Spinoza concepisce l’ordine delle cose come natura; per ambedue le cose sono immagini necessarie e naturali, però il principio attivo è per Aristotele il fine, per Spinoza invece la mera causalità. La dottrina di Spinoza è il sistema della causalità pura. In questa dottrina tutto è natura e la natura è qui, in tutte le sue determinazioni, totalmente causale nel senso della causa efficiente: Dio è causa efficiente, gli attributi sono le forze efficienti originarie, le cose sono effetti, la loro totalità è un effetto necessario ed eterno, le loro singole apparenze sono effetti casuali e transeunti; l’insieme di tutte le facoltà è la natura efficiente, la natura come causa; l’insieme di tutte le cose è la natura effettuata, la natura come effetto. Il fondamento in base al quale Spinoza negò la libertà, non stava nel fatto che egli identificasse Dio con l’eterno ordine cosmico, ma nel fatto che egli identificasse l’ordine cosmico con la natura. Anche Fichte ha concepito Dio come ordine cosmico, eppure non ha escluso la libertà. Il fondamento in base al quale Spinoza nega i fini non consiste nell’identificazione di Dio con l’ordine cosmico, e neppure dell’ordine cosmico con la natura, bensì della natura con la causalità efficiente. Anche Aristotele ha concepito l’ordine delle cose come natura, ma non ha escluso i fini: al contrario. Solo qui si decide e completa il carattere dello spinozismo, solo nel concetto della causalità pura Spinoza diventa se stesso, solo in questo concetto si forma quel rigido sistema che, unico nel suo genere tra gli altri, sta nella sua piena ed esclusiva peculiarità. Solo una volta nel mondo il sistema della causalità pura è stato afferrato con simile chiarezza, e sviluppato con simile solidità. Infatti la filosofia classica dell’antichità e la teologia cristiana del Medioevo avevano davanti agli occhi, nei loro sistemi, l’uomo; quella pensava l’uomo come scopo della natura, questa pensava la redenzione dell’uomo come fine della provvidenza divina. Bacone e Descartes, i fondatori della filosofia moderna, hanno affermato la causalità senza negare completamente e in ogni senso la validità dei fini. Leibniz, che viene dopo Spinoza, introduce di nuovo nella filosofia il concetto di fine per spiegare le cose, e lo giustifica accanto alla causalità, non solo con la stessa, ma con maggiore importanza. Kant innalza il concetto di fine attraverso il primato della ragion pratica al sommo valore. Così fra tutti i filosofi Spinoza è l’unico che respinge completamente il concetto di fine senza perciò negare l’originarietà del pensiero e della conoscenza: egli è stato l’unico filosofo, e forse l’unico uomo, che abbia preso e mantenuto saldamente l’opposto di questo concetto: la mera causalità, come unico criterio della sua conoscenza, della sua intuizione del mondo e della vita». (Spinozas Leben, Werke und Lebre, ns. tr., Heidelberg 1946, pp. 560-564).

In effetti, anche i più smagati fra noi, si ritrovano in possesso di un’obbligazione il cui smaltimento è difficile, a volte tanto più rigida quanto più la lontananza dalle condizioni di già assolutizzate va crescendo nel corso delle quotidiane opzioni dell’esistenza. È sorprendente il fatto di come ci troviamo prigionieri di strepitosi legami formali, senza il rispetto dei quali ci sentiamo malmenati, o almeno in possesso di una ridotta capacità di rispettare le intenzioni etiche da noi avanzate, intenzioni che rifiutiamo di considerare formali, ma che invece individuamo come sostanziali, cioè provviste di un rapporto immediato con le cose che ci contrastano, opprimendoci e controllandoci senza nessuna necessaria intermediarietà simbolica.

La nostra estraneità a un sistema fondato su norme repressive, quindi in primo luogo a una scienza che sostiene questo sistema e che da esso viene alimentata e condizionata, la nostra estraneità, dicevo, non può costituire un fondamento assoluto, pur restando la nostra obbligazione scelta (alcuni dicono) liberamente, ancora lì, palpabile ma non individuabile. La nuova scienza risolve problemi (a suo dire), riproponendoli in modo più aggravato. Così Maurice Comfort: «Nei suoi scritti sul metodo scientifico, il Dr. Popper ha trattato la questione del criterio della demarcazione fra teorie scientifiche, da un lato, e teorie non-scientifiche (pseudoscientifiche o metafisiche), dall’altro. È comunemente ammesso che una teoria è scientifica solo se può essere provata dall’esperienza. Egli rilevò che il poter essere provata equivale al poter essere falsificata. Non basta, pertanto, poter descrivere i tipi di esempi che confermerebbero una teoria; è necessario poter descrivere qual sorta di esempio potrebbe falsificarla. “Il criterio dello stato scientifico di una teoria è la sua falsificabilità”. (Congetture e confutazioni, tr. it., Bologna 1972, p. 67). Questo punto, valido e importante, può essere apprezzato se si riflette sul fatto che per provare un qualcosa è essenziale avere un criterio di fallimento. Se si ha soltanto una vaga idea di ciò che è richiesto per superare la prova, ma non si ha una chiara idea di ciò che porterebbe al fallimento, allora è possibile far sì che quasi tutto superi la prova e che la prova sia buona e valida. O se la prova è così strutturata che qualsiasi cosa può superarla, non è affatto una prova. Questo, insiste il Dr. Popper, vale per le teorie scientifiche. “È facile ottenere delle conferme, o verifiche, per quasi ogni teoria – se quel che cerchiamo sono appunto delle conferme [...]. Ogni controllo genuino di una teoria è un tentativo di falsificarla, o di confutarla. La controllabilità coincide con la falsificabilità”. (Ib., p. 668). È del tutto possibile, come lui ed altri hanno rilevato, che certe teorie ingegnose si mascherino sotto il titolo di scienza mentre di fatto sono non-scientifiche – per il fatto che sono state costruite in modo da essere incapaci di falsificazione. Esse sono così costruite che qualsiasi cosa avvenga si adatta bene alla teoria, e niente, pertanto, può falsificarla. Qualcuno ha insinuato che alcune teorie freudiane possono essere di questo tipo. Freud disse che ogni uomo desidera uccidere il proprio padre e sposare la propria madre. Se un uomo obietta che in realtà non intende fare niente di simile, Freud risponde che costui non è ovviamente cosciente di avere un tale desiderio, perché questo desiderio è stato represso. E in generale, qualunque cosa un uomo desideri o faccia consapevolmente, si può sempre dimostrare che ciò può essere collegato, e non è incompatibile col suo complesso di Edipo inconscio. Ma questo fatto pone la teoria freudiana fuori dei confini della scienza. Essa non è una teoria scientifica, bensì una teoria non-scientifica. È un “dogmatismo rinforzato”, costruito o rinforzato in modo da essere non falsificabile e non confutabile. Queste considerazioni suggerirono al Dr. Popper la felice idea di escogitare una confutazione definitiva del marxismo. Altri hanno per molto tempo tentato invano di citare dei fatti che potessero confutare le teorie sociali di Marx. Nessuna meraviglia che non abbiano avuto successo, giacché queste teorie sono state concepite in modo da essere inconfutabili – e questo le confuta! Se le teorie sociali marxiste fossero inconfutabili in questo senso, esse sarebbero effettivamente non-scientifiche. Ma il fatto che una teoria non sia stata falsificata non implica che essa sia non-scientifica perché non-falsificabile. Per esempio, la legge della conservazione dell’energia (la prima legge della termodinamica) è universalmente considerata come una legge scientifica genuina e ben controllata; ma non è stata falsificata. Noi potremmo dire benissimo che genere di cose potrebbero accadere se la legge della conservazione dell’energia venisse meno; il fatto è che essa resiste e quelle cose non accadono. Similmente, possiamo benissimo dire che genere di cose potrebbero accadere se la legge fondamentale formulata da Marx come dominante lo sviluppo sociale venisse meno; fatto sta che essa resiste, e tali cose non accadono. Sfortunatamente per la confutazione, il marxismo non è inconfutabile. Le sue leggi fondamentali, come quelle della termodinamica, corrispondono al modo in cui le cose di fatto vanno. Ciò che esse vietano che avvenga, non avviene mai. Il Dr. Popper dice, a ragione, che “ogni teoria scientifica ‘valida’ è una proibizione: essa preclude l’accadimento di certe cose”. (Ib., p. 66). Pertanto, una legge scientifica “valida” o “genuina”, in quanto distinta da una legge pseudoscientifica, si può esprimere nella forma: “Questo e quest’altro non può accadere”. Per esempio, la prima legge della termodinamica ci dice “Non puoi costruire macchine del moto perpetuo”, e la seconda legge ci dice “Non puoi costruire macchine che siano efficienti al cento per cento”. Questo modo di formulare le leggi mette molto bene in evidenza il loro valore pratico. Così le leggi della termodinamica istruiscono i tecnologi delle macchine circa i limiti della possibilità pratica entro i quali essi possono operare (queste leggi, infatti, furono scoperte anzitutto in rapporto alla costruzione di macchine a vapore). Una macchina non può correre senza combustibile, e il compito d’un progettista è di costruire una macchina in cui l’energia del combustibile venga convertita in lavoro nel modo più efficiente possibile. Ciò consente una gamma molto ampia ma non illimitata di possibilità per la costruzione di macchine. Ma, ovviamente, se uno ha progettato una macchina che va senza combustibile, o che è efficiente al cento per cento (sarebbe una specie di macchina da fiaba), ciò falsificherebbe le leggi della termodinamica – e i tecnologi dovrebbero sottoporre le loro idee a un nuovo e radicale ripensamento. Nessuno si aspetta che ciò accada, ma lo si può immaginare (cioè si può descrivere in fiabe). Le leggi della termodinamica sono quindi falsificabili, ma non falsificate. È per questo, senza dubbio, che esse vengono considerate leggi veramente “valide”. Allo stesso modo, anche le leggi fondamentali formulate da Marx come dominanti lo sviluppo sociale “precludono l’accadimento di certe cose”. Esse dicono che deve esserci sempre una certa specie di corrispondenza tra le forze di produzione e i rapporti di produzione. Ciò permette che entro i limiti di questa corrispondenza si dia ogni specie di cose, ma preclude la possibilità che si vada fuori di questi limiti. Dal punto di vista dell’azione sociale, quindi – ovvero di ciò che il Dr. Popper chiama “social engineering” –, dice che cosa è possibile e che cosa non è possibile. Per esempio, è possibile usare tutte le risorse della tecnologia moderna per il benessere umano, ma non senza ricostituire i rapporti di proprietà in corrispondenza col carattere sociale della produzione – non è possibile combinare un tale uso delle risorse con la proprietà capitalistica e col profitto capitalistico. Ciò che il marxismo “preclude che avvenga” si può immaginare che avvenga – di fatto, in molti paesi democratici i principali partiti politici mettono in mostra simili immaginazioni ad ogni tornata di elezioni generali; ma ciò non accade mai. Se un ininterrotto sviluppo economico dovesse conciliarsi con l’impresa capitalistica e col profitto capitalistico, la teoria di Marx verrebbe allora falsificata – proprio come se si costruisse una macchina del moto perpetuo verrebbero falsificate le leggi della termodinamica». (The Open Philosophy and the Open Society. A Reply to Dr. Karl Popper’s Refutations of Marxism, ns. tr., London 1968, pp. 18-21). Un controllore liberamente scelto (se stesso, nel caso che ci occupa) non è uno dei controllori più efficaci? Non c’è dubbio che le cose stanno così. La paura può essere chiamata in molti modi ma, ne varietur, non scema d’intensità se la si ricaccia indietro caricandone ideologicamente un qualsiasi strato sociale. Lo si prova con i più alti risultati in termini di accettazione ottenuti dal metodo democratico di convincimento nei riguardi di tutti i metodi autoritari a carattere coercitivo. Con questo controllore si può venire a patti, sempre dal punto di vista dell’erosione di margini oggettivi nella intenzione di fondo, quella fondata sull’autonomia del giudizio. La richiesta può essere quella di un maggiore spazio operativo nei riguardi di una soddisfazione interna, cioè dell’insieme dei desideri, anche i più perigliosi. Non si tratta del piacere personale vero e proprio, ma del desiderio che è sogno e fantasia ripiegati su se stessi e sottoposti alla riflessione e alla formulazione concettuale.

Questo elemento, cioè la proposta implicita di un ammorbidimento, funziona in ogni caso, anche nell’assolutizzazione di un giudizio morale incondizionato, solo che in quest’ultima eventualità quasi sempre il desiderio non contrasta con la norma etica, no problem, ma si riassume in quest’ultima, anzi in essa trova il massimo della soddisfazione. Precisa William James: «Nella mia mente e nella vostra, però, le parti della sostanza originaria del mondo scartate e quelle accolte sono in gran parte le stesse. La razza umana, considerata globalmente, è generalmente d’accordo su ciò di cui può avere notizia e a cui può dare un nome. E, fra le parti considerate, facciamo la nostra scelta in maniera pressoché eguale sia per l’accentuazione e la preferenza sia per la subordinazione e lo scarto. C’è tuttavia un caso assolutamente straordinario in cui non si trovano due persone che facciano la stessa scelta. Ciascuno di noi divide l’universo intero in due parti e la maggior parte degli interessi di ognuno di noi si riferisce all’una o all’altra di queste parti; solo che ciascuno traccia una linea di divisione fra esse in un punto diverso. È sufficiente che dica che tutti chiamiamo le due parti con gli stessi nomi, ossia me e non me, rispettivamente, perché si capisca subito quello che voglio dire. Questa specie assolutamente singolare e unica di interesse che ogni mente umana sente per quelle parti del creato che chiama me o mie, può costituire un enigma morale, ma è certo un fatto fondamentale per la psicologia. Nessuna mente può avere per il me del suo vicino lo stesso interesse che ha per il proprio. Il me del vicino si disperde insieme a tutto il rimanente delle cose in una massa estranea, di fronte alla quale il mio me si staglia con sorprendente rilievo. Anche il verme calpestato, come dice Lotze, contrappone le sue pene a tutto il resto dell’universo, quantunque non abbia nessun chiaro concetto di sé e di ciò che l’universo può essere. Esso è per me una semplice parte del mondo; per lui, questa semplice parte sono io. Ciascuno di noi taglia in due il mondo in un punto diverso». (Aspetti essenziali del pragmatismo, tr. it., Lecce 1967, pp. 58-59). Chi accetta un sistema etico lo fa perché in esso si rassicura, perché si sente protetto contro le paure della vita, difficilmente rinuncia a quel guscio che presume inviolabile per dare spazio a pulsioni eversive, per quanto spesso si metta in posa nell’allure opportuna. È difatti il sistema etico che garantisce contro le inquietudini e non spetta a queste rimetterlo in discussione, salvo il caso di una non adeguatezza del sistema stesso a svolgere il proprio compito istituzionale.

Suggerire al sistema un progetto modificativo atto a soddisfare anche i desideri eversivi, cioè quelli che non brillano all’interno del sistema, è un compito praticamente impossibile perché ogni sforzo del genere resta immerso nell’ambito sociale che è retto dal sistema stesso e che quel sistema riproduce. Il cerchio si chiude qui in maniera inaccessibile. Il rapporto tra desiderio e volontà è univoco, è sempre la seconda che condiziona il primo e la volontà è prodotto sociale che regge la coscienza in modo puntigliosamente rigido. Ancora James: «Nelle verità dipendenti dalla nostra azione individuale, la fede fondata sul desiderio è quindi certamente un elemento legittimo e forse necessario. A questo punto, però, si dirà che finora si è trattato solo di fatti umani puerili, i quali non hanno alcun rapporto con i grandi problemi cosmici, come, per esempio, con la questione della fede religiosa. Esaminiamo dunque tale questione. Le religioni si differenziano talmente nei loro particolari, che discutendo il problema religioso, è giocoforza tenersi sulle generali. Che cosa si intende per ipotesi religiosa? La scienza ci dice che le cose sono; la morale ci dice che certe cose sono migliori di certe altre; la religione ci dice essenzialmente due cose. Primo, che le cose migliori sono le cose eterne, le cose più alte, le cose che mettono l’ultima pietra, per così dire, all’edificio dell’universo e dicono l’ultima parola. “La perfezione eterna” – questa frase di Charles Secrétan mi pare che esprima bene la prima affermazione della religione, affermazione che, come è naturale, non può essere verificata scientificamente in alcun modo. La seconda affermazione della religione è che, se crediamo alla verità della prima affermazione, siamo già molto migliori. Esaminiamo ora gli elementi logici di questa situazione, considerando il caso che l’ipotesi religiosa sia realmente vera in tutti e due i suoi punti. (Naturalmente dobbiamo cominciare con l’ammettere questa possibilità. Il dover discutere o meno questo problema comporta una scelta viva. E se per qualcuno di voi la religione è ipotesi priva di ogni possibilità viva di essere vera, questi non ha bisogno di occuparsene ulteriormente. Io parlo solamente per gli altri). Noi vediamo allora, anzitutto, che la religione si presenta come una scelta importante. Sappiamo che per mezzo della fede ci acquistiamo fin d’ora un certo bene vitale e che, invece, se non crediamo, lo perdiamo. La religione, inoltre, è una scelta inevitabile, per il valore di quel bene. Non possiamo evitare la decisione, restando scettici e aspettando lumi ulteriori, poiché, se anche in questa guisa evitiamo l’errore nel caso che la religione non sia vera, invece, nel caso che sia vera, perdiamo quel bene con altrettanta certezza che se avessimo addirittura deciso di non credere affatto. È come se uno esitasse all’infinito a chiedere in moglie una donna, perché non è perfettamente sicuro che, quando l’avrà condotta nella sua casa, sarà un angelo. Non si escluderebbe, in questo modo, da quella particolare possibilità angelica in guisa altrettanto decisa che se egli sposasse un’altra donna? Lo scetticismo, insomma, non serve per evitare la scelta: esso è scelta di un particolare tipo di rischio. Meglio rischiare la perdita della verità che la possibilità dell’errore – questa è la posizione precisa di colui che non ammette la fede. Questi mette in gioco la sua posta allo stesso modo del credente; e si schiera contro l’ipotesi religiosa proprio allo stesso modo che il credente si schiera a favore dell’ipotesi religiosa contro la mancanza di fede. Perciò, predicarci lo scetticismo come un dovere fino a quando non si sia trovata “la prova sufficiente” della religione equivale a dirci che, innanzi all’ipotesi religiosa, è più saggio ed è meglio cedere al timore che essa non sia altro che un errore, anziché cedere alla speranza nella sua verità. Non si tratta, dunque, dell’intelletto contro tutte le passioni, ma, invece, dell’intelletto unito a una passione, che vuole imporre la sua legge. Ma da che cosa è garantita, in verità, la suprema saggezza di codesta passione? Inganno per inganno, quale prova esiste che l’inganno della speranza sia di gran lunga peggiore dell’inganno del timore Per conto mio, questa prova non la vedo e rifiuto di obbedire all’ingiunzione dello scienziato di seguire il suo tipo di scelta in un caso in cui, come in questo, la mia posta è talmente importante da autorizzarmi a scegliere il tipo di rischio che preferisco. Se la religione è vera e le sue prove sono ancora insufficienti, io non voglio, per il semplice fatto che mi imponete il vostro divieto (cosa nella quale, in fin dei conti, mi pare che dovrei entrarci un poco anch’io), non voglio, dico, perdere l’unica possibilità che ho nella vita di mettermi dalla parte dei vincitori – in quanto questa possibilità dipende, ovviamente, dalla mia disposizione a correre il rischio di agire come se il mio bisogno passionale di prendere il mondo religiosamente sia profetico e giusto. Tutto ciò nell’ipotesi che esso possa essere realmente giusto e profetico e che, anche per noi che stiamo discutendo sull’argomento, la religione, costituisca un’ipotesi viva, suscettibile di essere vera». (Ib., pp. 107-108). Desiderare significa voler desiderare, non ci sono vie privilegiate, salvo il cimentarsi nell’estrema avventura della diversità, ma la coscienza riesce solo con grande difficoltà a iniziarsi a questa apertura. In ogni caso qui mi interessa soffermarmi soltanto sull’agitarsi dei residui del desiderio nell’ambito dell’immediatezza, cioè nei processi quotidiani nei quali il mondo propone le sue dissimulazioni con maniacale continuità. La scienza organizza la conoscenza di questi processi e rifiuta di accettare altro. Quando pretendo di cogliere di sorpresa la volontà, suggerisce al più presto possibile un ritorno all’ordine. Trattandosi di reciproca sfiducia non c’è modo di superarne gli ostacoli.

Una vita sociale basata sul desiderio libero equivarrebbe a una volontà libera, quindi a un controsenso. Solo chi non aspira a qualche utilità più o meno precisa, può non aver paura del controsenso. Non c’è libertà nella volontà, pertanto non c’è nemmeno nel desiderio. Malgrado le affettazioni correnti non possiamo desiderare liberamente, allo stesso modo in cui non possiamo voler vivere liberamente. Volere la libertà è formulazione contraddittoria. Non in modo diverso Heidegger: «Nel suo stadio preparatorio, l’analitica esistenziale dell’Esserci ha come suo tema conduttore la costituzione fondamentale di questo ente, l’essere-nel-mondo. Il suo obiettivo immediato è la scoperta fenomenica della struttura unitaria e originaria dell’essere dell’Esserci, in base alla quale si costituiscono ontologicamente le sue possibilità e le sue maniere di “aver da essere”. Finora la caratterizzazione fenomenica dell’essere-nel-mondo ha preso in esame il momento strutturale del mondo e il problema del Chi di questo ente nella sua quotidianità. Ma già nello schizzo dei compiti dell’analisi fondamentale preparatoria dell’Esserci fu dato qualche cenno orientativo sull’in-essere come tale, esemplificato concretamente da quel suo modo che è la conoscenza del mondo. La delineazione anticipata di questo importante momento strutturale aveva il preciso intento d’impostare sin dall’inizio l’analisi dei singoli momenti nell’orizzonte dell’unità articolata della struttura e di evitare ogni rottura ogni disarticolazione del fenomeno unitario. Si tratta ora di riprendere l’interpretazione del fenomeno dell’in-essere tenendo presenti i risultati delle analisi particolareggiate intorno al mondo e al Chi. Questo esame più approfondito dell’in-essere non ha solo lo scopo di una rinnovata più sicura ispezione fenomenologica della totalità delle strutture dell’essere-nel-mondo, ma anche quello di aprire la via alla determinazione dell’essere originario dell’Esserci stesso, la Cura. Ma l’analisi dell’essere-nel-mondo che mai potrà aggiungere a quanto fu già detto a proposito dei rapporti essenziali dell’esser-presso il mondo (prendersi cura), del con essere (aver cura) e dell’esser se-Stesso (Chi)? Resta in ogni caso la possibilità di perfezionare e allargare l’analisi, mediante la caratterizzazione comparativa delle modificazioni del prendersi cura e della sua visione ambientale preveggente, dell’aver cura e del rispettivo “riguardo”; resta inoltre la possibilità di porre in maggior risalto la diversità fra l’Esserci e l’ente non conforme all’Esserci, mediante un’esplicazione più approfondita dell’essere di ogni ente intramondano possibile. In questa direzione restano ancora molte cose da fare. Per vari aspetti ciò che è stato detto finora è certamente ancor bisognoso di integrazione in vista del compito di una trattazione esauriente dell’a priori esistenziale di un’antropologia filosofica. Ma la presente indagine non si propone questi compiti. Il suo intento è ontologico-fondamentale. Se a tal fine facciamo oggetto di ricerca tematica l’in-essere, non miriamo affatto all’annullamento dell’originarietà del fenomeno, facendolo derivare da altri, cioè annullandolo in un’analisi di tipo scompositivo. Tuttavia l’indeducibilità di un fenomeno originario non esclude una molteplicità di caratteri costitutivi del suo essere. Se questi caratteri sussistono, saranno per ciò stesso esistenzialmente cooriginari. Il fenomeno della cooriginarietà è stato sovente disconosciuto dall’ontologia a causa della tendenza metodologicamente incontrollata alla deduzione di ogni molteplice dalla semplicità di una “causa prima”. Come dev’essere orientata la caratterizzazione fenomenica dell’in-essere come tale? La risposta potrà esser trovata solo se terremo ben fermo ciò che risultò dal primo esame fenomenologico del fenomeno: l’in-essere è recisamente diverso dall’esser-semplicemente-dentro di una semplice-presenza “in” un’altra; l’in-essere non è una qualità di un soggetto semplicemente-presente, prodotta o annullata in esso dalla semplice-presenza del “mondo”. L’in-essere è un modo di essere essenziale di questo ente stesso. Che sarà allora questo fenomeno se non è l’incontro fra un soggetto e un oggetto semplicemente-presenti? L’interpretazione si avvicinerebbe già abbastanza al fenomeno se intendesse l’Esserci come l’essere di questo “fra”. Tuttavia un’impostazione che si imperni sul “fra” finirebbe per condurre fuori strada. Essa è infatti carente quanto alla determinazione ontologica degli enti tra i quali c’è” questo rapporto di “fra”. Il “fra” è già assunto come risultato della convenientia fra due semplici-presenze e come prodotto di essa. Questa impostazione sbriciola il fenomeno e poi tenta di ricostruirne l’unità senza successo. E ciò perché, non solo manca il “cemento”, ma è stato rotto, anzi, mai scoperto, il “modello” in base al quale la ricostruzione dovrebbe aver luogo». (Essere e tempo, tr. it., Torino 1978, pp. 221-224). Non posso volere la libertà perché volere qualcosa è sempre di un qualcosa legato che si ha voglia. Qualcosa di libero esiste certamente, e di questo posso avere voglia, ma solo perché quel qualcosa di libero è libero soltanto in parte, è un residuo di libertà, ed è di questo residuo che ho voglia. Non c’è nessun fil rouge. Della libertà non ho voglia, quindi nemmeno desiderio. Nel caso in cui, astrattamente, questo si dovesse verificare si tratterebbe di un arzigogolo dell’intelletto, un’astrazione che mi sono proposto, nient’altro. Praticamente la libertà è sperimentabile mettendomi del tutto in gioco, quindi ribaltando non solo quello che voglio nel suo contrario, ma anche quello che penso sia qualcosa di diverso, il mio desiderio di libertà. Ancora non sono state tratte tutte le conclusioni da queste ipotesi di lavoro.

Un ragionamento simile lo possiamo seguire per l’affinità che è scelta proiettata verso l’altro, cioè diretta a mantenersi nell’ambito del giudizio etico assolutizzato se in questo ambito si resta, oppure diretta altrove, ma in quest’ultimo caso si tratta di un altrove del tutto diverso che non vale identificare con opera di rammento, in una sorta di istinto di socievolezza. La vita sociale si basa sui processi cristallizzati all’interno di cui funzionano (più male che bene) parecchi residui di compassione, gratitudine, amore, dedizione, ecc., elementi di un quadro istituzionale che utilizza queste forme, originariamente estranee, come leganti suppletivi, forme di coesione che saldano la plastica del rapporto istituzionalizzato.

Lo stesso per quel che riguarda la verità. Partire dal vero è possibile per il rivoluzionario? Una passata generazione di arrugginiti uomini dabbene non solo pensava di sì, ma ipotizzava che fosse la sola cosa possibile, nel senso duplice che non altro poteva fare e che soltanto lui (per l’appunto, il rivoluzionario) poteva farlo. Se la scelta distruttiva è fissata come indispensabile di fronte alle condizioni in cui viviamo, vuol dire che essa si fonda su di un esatto rispecchiamento di queste condizioni. Il rivoluzionario conosce gli intrecci segreti del mondo che lo ospita, ha svelato in maniera perentoria a se stesso e anche agli altri (a chi ha voluto ascoltarlo) queste trame nascoste, e ora agisce distruggendo. Discorso che sembra ineccepibile, fino a un certo punto. In una riflessione su Bergson, apparentemente lontana dal nostro problema, Léon Husson scrive: «Dobbiamo ora definire l’illusione costituzionale dell’ottica intellettualistica: il procedimento che applica all’interiorità metodi fatti per realtà meccaniche. La reazione naturale dell’intelligenza davanti ai problemi consiste nello smembrare i propri oggetti per capirli; o, come dice Descartes, a suddividere le questioni. Ma questo atteggiamento corrisponde al momento primitivo della scoperta, e il pensiero euristico tende, ovunque sia possibile, a volgersi in pensiero didattico: dappertutto, se si può dir così, il pensiero tende a dottrinalizzarsi. E come l’analisi delle difficoltà è relativa al sapere che si cerca, così la ricomposizione della realtà è relativa alla scienza che si è trovata. La mente, in possesso della scienza costituita, adotta istintivamente solo gli atteggiamenti più riposanti, e si distende fino ad esaurire il movimento acquisito, secondo un ordine di esposizione che va dal più al meno. Accade, allora, che la preoccupazione di spiegare porti il pensiero didattico a procedere, apparentemente, dal meno al più, o dalla parte al tutto; ma questa sintesi dottrinale è una smentita solo illusoria alla legge dei meccanismi economici che domina la scienza compiuta. Infatti gli elementi da cui essa parte, e che ricompone, non rappresentano, psicologicamente, un vero minus rispetto al tutto che essa finge di ricostituire. Perché le parti di un tutto siano realmente parti, ossia, perché siano pensate come parziali e, di conseguenza, perché la loro totalizzazione rappresenti un vero ampliamento psicologico, un dilatarsi del pensiero, occorrerebbe che la loro antecedenza, nel movimento di sintesi, fosse non solo ideale, ma cronologica, e precedesse assolutamente il composto. Ora, le parti smembrate sono più astratte del tutto e provengono esse stesse, all’interno della scienza compiuta, da un’analisi precedente; o, meglio, più che “parti” concrete sono elementi elaborati, derivati, astratti con la riflessione da una totalità primitiva, nel corso del procedimento problematico. Le parti si ottengono dividendo spazialmente i tutti, e riproducono la complicazione del tutto. Ma gli elementi sono termini di un’analisi intellettuale e purificante, che segue le articolazioni logiche delle cose. Il nostro pensiero cerca di raggiungere, per quanto può, elementi semplici, puri ed omogenei, allo scopo di lavorare su di essi in tutta tranquillità: perché, nonostante la loro formale purezza, essi rappresentano un lungo sforzo antecedente, e ciò stesso spiega il carattere estensivo e inerte della tecnica combinatoria, con cui il pensiero li mette insieme. Il movimento di sintesi, che presiede al loro raggruppamento, completa un’analisi riduttrice e, pertanto, riforma una totalità già nota. Si può dunque ben dire che l’intelligenza è pensiero degli elementi perché parte dagli elementi, e si trova a proprio agio solo là dove, essendo riuscita a ridurre le cose in parti elementari, in concetti o in atomi indivisibili, non ha più da far altro che manipolare elementi. Così procedono, ad esempio, l’evoluzionismo di Spencer o l’associazionismo, che ricompongono il tutto con elementi tardivi e artificiali, e sostituiscono alle cose concrete ciò che l’Introduzione alla metafisica chiama “l’equivalente intellettuale” della realtà. È la preoccupazione manifestata anche dalle psicologie “atomistiche”, come quella di Condillac o di Taine, e, in generale, da tutti i sistemi che si propongono di ricomporre il tutto con elementi semplici: sensazioni trasformate o sollecitazioni nervose. Tale è del pari (in un dominio dove il pensiero degli elementi ha buon gioco) l’ideale che contrappone a una fisica concreta, che ancora rispetta le qualità e gli individui, una fisica secondo cui le sillabe delle cose si riducono a stoicheía omogenei; la natura intera non sarebbe che una grande “panspermia”, cioè un magazzino di semi tutti simili, in cui non ci sarebbe che da metter le mani per ricostituire i corpi; e la scienza diverrebbe un riposante gioco mentale. Quanto alla filosofia, essa non sarebbe, a sua volta, che un’Ars combinatoria, un divertirsi a ricombinare elementi già noti. Per disgrazia, o, meglio, a cagione di questa struttura mentale, la cui funzione rivela certe debolezze, e che si rispecchia negli strumenti che mette a disposizione del nostro pensiero, il nome stesso di “intelligenza” designava a un tempo, nel nostro parlare contemporaneo, la potenza di riflessione, che rende possibile la conoscenza distinta, e la funzione di analisi, in cui tale potenza si sviluppa quando si applica alla materia. Se, dunque, ci si fosse posto a priori il problema che il filosofo era costretto a risolvere praticamente per esprimere la sua dottrina, si sarebbero potuti prendere in considerazione due modi di procedere, che avevano entrambi l’inconveniente di presentare la questione sotto un solo aspetto. Il primo consisteva nel riservare il nome di intelligenza alla funzione concettuale-discorsiva della mente; il secondo nel conservare a questo nome il suo significato più generale, salvo a distinguere due forme, o due applicazioni dell’intelligenza: quella che si limita a decomporre gli oggetti e a ricomporli, combinando elementi distinti, e quella che usa tale potere di composizione e scomposizione solo per prepararsi a cogliere l’unità complessa dell’oggetto e illuminarne, successivamente, i diversi aspetti che su di essa si fondano. Nel primo caso l’intuizione si opponeva all’intelligenza, mostrando in essa il prolungamento della sensibilità e ciò aveva il vantaggio di segnare vigorosamente la necessità e la direzione dello sforzo che si impone alla filosofia. Ma occorreva sottintendere che l’intuizione presuppone, come l’intelligenza, uno sforzo di riflessione che non è possibile all’uomo se non con l’ausilio dell’analisi; e cioè che essa è, in fondo, nel significato della parola a cui si è rinunciato, una forma di intelligenza. Nel secondo caso occorreva rappresentare l’intelligenza come una facoltà puramente formale, che ha bisogno di una materia per esercitarsi, e che può trovare tale materia, sia nei dati sensibili, sia nei dati della coscienza; e poiché il primo tipo di dati ci appare inferiore a tale facoltà, che li trascende, mentre il secondo troppo spesso è presentito, più che colto chiaramente da essa, e perciò la stimola e la oltrepassa, così si era condotti a farne una facoltà intermedia tra la sensazione, che è un’intuizione infraintellettuale, e l’intuizione propriamente detta, che è sovraintellettuale. Con ciò si stringeva, forse, molto più da vicino il contorno della nostra struttura mentale, ma si rischiava, in compenso, di soggiacere all’equivoco, in un clima di pensiero che collocava l’ideale dell’intelligibilità nelle scienze positive. Abbiamo cercato di mostrare, o piuttosto – dato che, pur essendo già persuasi che l’antintellettualismo bergsoniano fosse relativo a una particolare concezione dell’intelligenza, tuttavia eravamo lontani dal prevedere tale risultato preciso all’inizio della ricerca – abbiamo finito col mostrare che Bergson ha scelto il primo modo d’espressione; ma che non ha potuto attenervisi con rigore, e che il secondo si delinea alla fine del IV capitolo dell’Evoluzione creatrice, nonché in parecchi saggi posteriori, accolti in La pensée et le mouvant, nelle Deux sources e negli stessi passi in cui se ne scosta di più, attraverso qualche testo in cui non ha potuto evitare di adoperare la parola “intelligenza” in senso lato». (L’intellectualisme de Bergson, ns. tr., Paris 1947, pp. 223-224). C’è qualcosa che non funziona. Qualunque rispecchiamento della realtà è esso stesso una interpretazione, con buona pace di Stalin e compagni. Non c’è modo di dire la verità, neanche con la sobrietà dell’attacco e della distruzione. L’azione in sé non contiene nessun noumeno indefettibile. Aperta, non c’è niente al suo interno che non era annunciato all’esterno, nessuna essenza si rivela attraverso di essa, nessun crisma di verità originaria. Solo l’intento di agire con l’azione realizza il coinvolgimento, di cui l’azione è soltanto un momento, un elemento della vita che non è possibile isolare, se non con intenti metodologicamente quantitativi, intenti che uccidono quel nucleo di verità che l’incontro tra azione e attore aveva realizzato. Ci sono uomini che agiscono e altri che si immaginano di agire, come ci sono coraggiosi e pusillanimi, corpi e ombre, realtà e fantasie. Nessuno coglie la verità restando fuori dell’azione, ma agendo quello che aveva stretto fra le mani, nel momento esatto del coinvolgimento, non dura nel tempo, subito fugge via, e il riferirsi a quel momento separato, ha più della nostalgia che della realtà. Viceversa, come ho mostrato nel Trattato delle inutilità, il coinvolgimento non si esaurisce nella singola azione ma diventa modo di essere, diventa la vita vissuta veramente, che non si chiama fuori dell’azione sostituendola con residui e surrogati, o ricorrendo a opportune protesi in caso di pericolo. In questo modo non si possiede la verità, ma dalla verità si è posseduti, allo stesso modo di come il dio dell’ebbrezza rendeva ebbri. Il percorso della negazione critica, circoscritto al reperimento, che rimane quello del mondo sottoposto a dissezione, possiede una vitalità intima che deve salvarlo dall’incupimento e dal semplice rifiuto. Scavare in un mondo parallelo produce un rumore simile a quello da cui ci si vuole allontanare, e la paura finisce per svilupparsi nei due sensi, nessuno sa che sta succedendo nella galleria sconosciuta e parallela. Mancano fili conduttori per farsi strada nello sfacelo, la critica non può essere il risvolto picaresco del mondo dell’ordine e dell’annientamento. Se questo non accade la critica negativa si limita a testimoniare la possibilità di un mondo rovesciato, una specie di contemplazione aristocratica delle rovine del vecchio mondo. Il rifiuto di andare oltre, l’impossibilità di trovare il coraggio necessario al coinvolgimento, mi incupisce. Le mie forze si arrendono di fronte a una massificazione delirante. Lì finisce la critica. Aleksandr Vvedenskij: “Arde l’astro dell’assurdo, l’unico che non abbia fondo”.

Se vogliamo coinvolgerci in pieno nella nostra vita dobbiamo viverla, cioè fare tutto quello che il nostro essere, quello che siamo, ci propone come possibilità. Il movimento verso la cosa, si voglia o meno ammetterlo, compresi la ricognizione degli strumenti produttivi e la critica negativa, costituiscono un viaggio, e del viaggio hanno il desiderio di conoscere e la paura di allontanarsi troppo dal conosciuto. Il battello va per mari ignoti, raggiunge terre sconsolate dove le parole non risuonano, dove solo un suono remoto muove l’aria rarefatta della desolazione. È colpa insistere? Non credo, è condizione diversa, animo che non concede tregua alla paura, rifiuto dell’adagiarsi nel guanciale della sicurezza. Con quale occhi guarderei il mondo oggi, alla soglia avanzata della mia vecchiaia, se fossi rimasto in banca a lavorare per mezzo secolo? Non certo con gli occhi blu che mi riempiono il cuore. Il destino si sarebbe abbattuto in altro modo su di me, mi avrebbe attutito i desideri, tagliato le ali, sterilizzato i lombi, mi avrebbe convinto a non sporgermi per guardare nell’abisso dell’assenza, ci sono tanti altri orizzonti pacifici dove riposare gli occhi senza lasciarsi distrarre dai cumuli di cadaveri che stanno sotto e che stornando il capo si dimenticano facilmente. La caccia irrefrenabile dell’ignoto sarebbe stata cavata fuori dai miei occhi e dal mio cuore, e sarei stato dissuaso da mille stupide comodità dal fissare il mio stesso occhio mortale nell’immensa qualità che spazia nella solitudine della cosa. Ora, questa nostra vita non ci dice altro che il nostro destino, e noi siamo quello che siamo, coscientemente e non come semplice lasciarci vivere, solo quando costruiamo questo nostro destino attraverso il coinvolgimento dell’agire. Poiché sprecare la propria unica vita è buttarsi via, rinunciare a diventare quello che si è, fino all’inverosimile conferma che ci arriverà dal futuro, ne concludo che siamo di fronte a una norma etica universale, vivere, ma non solo vivere, piuttosto vivere fino in fondo quello che si è. Questa norma suggerisce il passo successivo verso l’apertura alla diversità. Come norma non può fare di più in quanto è circoscritta al funzionamento di una società di considerevoli realizzazioni in termini di varie libertà, pur non potendo considerarsi una società libera nel vero senso del termine.


In navigazione, primi di aprile 2002

Alfredo M. Bonanno

* * * * *

“Gli scienziati ritengono inutile una preparazione metafisica: essi dichiarano di accettare anzitutto le lezioni dell’esperienza, se lavorano nelle scienze sperimentali, e i princìpi dell’evidenza razionale, se lavorano nelle scienze matematiche. Per loro, il tempo della filosofia non giunge che dopo il lavoro effettivo; essi concepiscono la filosofia delle scienze come un bilancio dei risultati generali del pensiero scientifico, cioè come una collezione di fatti importanti. E poiché la scienza non è mai compiuta, la filosofia degli scienziati risulta allora sempre più o meno eclettica, sempre aperta e precaria. Anche se i risultati positivi appaiono, in qualche modo, debolmente coordinati, essi possono venir consegnati così come sono, cioè come stati del pensiero scientifico, a detrimento dell’unità che caratterizza il pensiero filosofico. Per lo scienziato, la filosofia delle scienze appartiene ancora al regno dei fatti. Da parte loro i filosofi, giustamente consapevoli del potere coordinatore delle funzioni spirituali, giudicano sufficiente una riflessione sulla coordinazione dei pensieri, senza preoccuparsi troppo del pluralismo e della varietà dei fatti. Certo, i filosofi possono essere in disaccordo fra loro sulla ragione di quella coordinazione e sui princìpi della gerarchia sperimentale. Alcuni possono spingersi tanto avanti nell’empirismo da credere che la normale esperienza oggettiva basti a spiegare la coerenza soggettiva. Ma non si è filosofi se non si prende coscienza, a un determinato momento della riflessione, della coerenza e dell’unità del pensiero, e non si formulano le condizioni della sintesi del sapere. Ora, è sempre in funzione di quella unità, di quella coerenza e di quella sintesi che il filosofo pone il problema generale della conoscenza. La scienza gli si offre allora come una raccolta particolarmente ricca di conoscenze ben fatte e ben legate. In altre parole, il filosofo chiede alla scienza semplicemente degli esempi per provare l’attività armonica delle funzioni spirituali, ma crede di avere, all’infuori e prima della scienza, il potere di analizzare tale attività. Così gli esempi scientifici sono sempre evocati, mai sviluppati. Talvolta, addirittura, essi sono commentati seguendo princìpi che non sono princìpi scientifici, e in tal modo danno origine a metafore, analogie e generalizzazioni. Troppo spesso, sotto la penna del filosofo, la Relatività degenera in relativismo, l’ipotesi in supposizione e l’assioma in verità primitiva. In altri termini, tenendosi al di fuori dello spirito scientifico, il filosofo crede che la filosofia delle scienze possa limitarsi ai princìpi delle scienze, ai temi generali, o ancora, se si limita strettamente ai princìpi, egli crede che la filosofia delle scienze abbia il compito di collegare i princìpi scientifici ai princìpi di un pensiero puro che potrebbe disinteressarsi dei problemi dell’applicazione effettiva. Per il filosofo, la filosofia delle scienze non appartiene mai completamente al regno dei fatti”.

(Gaston Bachelard, La philosophie du non)

“L’utilizzazione dei sistemi filosofici in campi lontani dalla loro origine spirituale è sempre un’operazione delicata, spesso un’operazione deludente. Così trapiantati, infatti, i sistemi filosofici diventano sterili o ingannevoli; essi perdono la loro efficacia di coerenza spirituale, efficacia che è sensibile solo quando li si rivive nella loro reale originalità, con la scrupolosa fedeltà dello storico, fiero di pensare ciò che non si penserà mai due volte. Bisognerebbe allora concludere che un sistema filosofico non deve essere utilizzato per fini diversi da quelli che si prefigge. Sicché la più grande colpa contro lo spirito filosofico sarebbe proprio quella di misconoscere tale intima finalità spirituale che dà vita, forza e chiarezza a un sistema filosofico. In particolare, se si cercano di chiarire i problemi della scienza con l’ausilio della riflessione metafisica, cioè se si pretende mischiare teoremi e filosofemi, ci si trova davanti alla necessità di applicare una filosofia inevitabilmente finalista e chiusa a un pensiero scientifico aperto. Si corre il rischio, in tal modo, di scontentare tutti: gli scienziati, i filosofi e gli storici”.

(Gaston Bachelard, La philosophie du non)

Capitolo I

In linea di principio scienza vuol dire conoscenza nel significato più ampio, ma, chiarendo meglio, con il termine scienza bisogna intendere una conoscenza particolarmente adatta a includere in se stessa un metodo di controllo che garantisca, dentro certi limiti, l’attendibilità dei risultati ottenuti.

Spogliando la scienza dalle sue coperture metafisiche, teologiche e ideologiche, nei limiti in cui questa operazione è oggi possibile, si vede con chiarezza che il concetto di verità, col quale vengono qualificati i risultati della conoscenza che è specifica della scienza, è meglio sostituirlo col concetto di attendibilità o, se si preferisce, di validità, di approssimazione e simili. Sul miraggio di una scienza metafisica afferma Jacques Maritain: «È necessario ricordare quanto diverso sia il significato del bergsonismo dall’altro punto di vista: dal punto di vista, detto oggettivo, dalla dottrina giudicata in se stessa, percepita dall’esterno rispetto alla mente che l’ha concepita, ma dall’interno rispetto al suo valore filosofico intrinseco? Indichiamo soltanto, qui, che per sfuggire al meccanicismo Bergson prende la decisione di sacrificare l’intelligenza e di sacrificare l’essere; che identifica, contraddittoriamente, la sostanza e il movimento, facendo del tempo che scorre la stoffa medesima delle cose; e che nega alla ragione la capacità autentica di cogliere il vero (fuori del dominio della fisica matematica); che distrugge, così, contro la sua intenzione, la verità alla sua stessa radice, e che le tesi spiritualistiche che vuole restaurare perdono, nella sua dottrina, e la loro solidità e il loro significato proprio. La libertà si confonde con la contingenza e con la spontaneità; l’unità del composto umano è messa in pericolo, senza che la distinzione essenziale tra il corpo e l’anima sia stabilita veramente; l’uomo, al contrario di ciò che si crede di mostrare, non può differire se non per grado dagli altri vertebrati; l’immortalità dell’anima non è se non una sorta di perpetuazione fisica dello slancio vitale; non c’è creazione propriamente detta, non distinzione reale tra i corpi, non differenza assoluta tra Dio e il mondo; infine, la natura divina e gli attributi divini svaniscono, e solo il nome del Dio creatore si conserva. In generale, le parole sole sono conservate, il loro contenuto intellettuale si dissolve, sostituito da immagini fuggevoli. A che cosa attribuire questo nichilismo di fatto, certamente contrario alle intenzioni del filosofo? Sembra che Bergson abbia fatto troppo credito alla filosofia moderna, concedendole che l’intelligenza metta capo inevitabilmente al meccanicismo e che la scienza metafisica non sia altro che un miraggio; che si sia, così, privato lui stesso dell’organo e della tecnica indispensabili e che, pertanto, non abbia potuto avanzare, se non a tastoni, verso la luce amata, presentita ma non vista. Si spiegherebbe così il carattere stranamente contingente della sua dottrina, che sembra aver la scelta, nei momenti più importanti, tra due direzioni opposte: non si sarebbe potuta volgere, infatti, verso il monismo formale così come verso un dualismo, del resto più apparente che reale? Verso una metafisica della creazione propriamente detta così come verso una teoria dell’evoluzione ipostatizzata? Verso il panteismo dichiarato così come verso un teismo del resto illusorio? Comunque sia, le tesi essenziali del bergsonismo e il suo significato reale – i princìpi metafisici che lo fissano nell’universo del pensiero – si trovano, rispetto alle verità della philosophia perennis, in un’opposizione anche troppo manifesta e irriducibile. E, tuttavia, notiamo bene: se torniamo al punto di vista di cui parlavamo all’inizio, e cerchiamo di considerare la dottrina bergsoniana non in se stessa, bensì in rapporto alle condizioni particolari e contingenti in cui fu concepita, allora questi princìpi oggettivamente fondamentali apparirebbero piuttosto come conseguenze, necessità estrinseche, servitù, per dir così, a cui il filosofo si vede costretto a rassegnarsi; e i principi della dottrina, da quel punto di vista, si troverebbero piuttosto in una intuizione chiarissima della vanità del materialismo meccanicistico, in una tendenza costante verso la filosofia della vita e dello spirito. Si è condotti, così, a distinguere due bergsonismi: un bergsonismo di fatto e un bergsonismo di intenzioni, non assolutamente incompatibili (per lo meno, finché il secondo resti allo stato di mera intenzione), ma realmente diversi e, in realtà, di senso contrario, poiché il primo è destinato a distruggere ciò che il secondo desidera edificare». (La philosophie bergsonienne, ns. tr., Paris 1948, pp. 312-313).

Se la conoscenza comprende un campo molto più vasto di quello specifico della scienza, in quanto include l’esperienza della vita quotidiana, allo stesso modo, il metodo di qualificazione dei risultati conseguiti dalla scienza non è in sostanza molto diverso dal metodo del senso comune che rende qualificati i risultati dell’esperienza della vita quotidiana. Si può dire, infatti, che l’uomo della strada non ragiona né meglio né peggio dello scienziato, è afflitto dalle stesse limitazioni oggettive, ed è tormentato – quasi sempre a sua insaputa – dalle stesse deformazioni ideologiche. Scrive Ernst Mach: «Il mondo consiste di colori, suoni, calori, pressioni, spazi, tempi, ecc., che noi ora non chiameremo né col nome di sensazioni né con quello di fenomeni perché nell’uno e nell’altro termine è già implicita una teoria unilaterale e arbitraria. Li chiameremo semplicemente elementi. Inquadrare il flusso di questi elementi è lo scopo proprio della scienza. Fin tanto che, senza considerare il nostro proprio corpo, noi ci occupiamo della dipendenza reciproca di quei gruppi di elementi che costituiscono corpi estranei, uomini e animali compresi, noi siamo dei fisici. Per esempio, indaghiamo la modificazione del colore rosso di un corpo, modificandone l’illuminazione. Non appena prendiamo ad analizzare, invece, la particolare influenza su quel colore rosso, degli elementi che costituiscono il nostro corpo, entriamo nel campo della psicologia fisiologica. In considerazione di ciò diamo a tutti gli elementi, nella misura in cui dipendono da quella porzione particolare [del campo di percezione], il nome di sensazioni. Che il mondo è nostra sensazione è, in questo senso, fuor di dubbio». (Populär-Wissenschaftliche Vorlesungen, ns. tr., Leipzg 1903, pp. 203-204). La pulizia che si rende necessaria per i concetti chiave della vita di ogni giorno, in balia dell’opera deformante dei mezzi d’informazione di massa, è altrettanto necessaria per i concetti scientifici sottoposti a un tipo diverso, e più raffinato, di disturbo.

Per il momento ci interessa indicare qui i più importanti procedimenti di qualificazione dei risultati della scienza. Diciamo subito che in questo elenco non è compreso il procedimento sostenuto dal marxismo e ciò per il semplice motivo che non è un procedimento a sé, riducendosi, nella migliore elaborazione, a una ripetizione del procedimento descrittivo. Vedremo più avanti la reale portata dell’analisi marxista su questo argomento.

1) Procedimento dimostrativo. I risultati ottenuti sono posti al termine di una catena di affermazioni legata da regole logiche, che costituisce un sistema più o meno compiuto. Aristotele all’inizio dei Primi Analitici scrive: «Occorre dire, anzitutto, quale oggetto riguardi ed a quale disciplina spetti la presente indagine, che essa cioè riguarda la dimostrazione e spetta alla scienza dimostrativa». (Organon, Primi analitici, 15) E Platone: «Le opinioni vere [cioè la scienza], per tutto il tempo in cui stanno ferme, sono un bel possesso e producono ogni bene, ma non vogliono star ferme per molto tempo e fuggono dall’anima umana, sicché non valgono molto, finché qualcuno non riesce a legarle con un ragionamento causale». (Menone, 98). Descartes trova in «[...] quelle lunghe catene di ragionamenti tutti semplici e facili di cui i geometri sono soliti servirsi per pervenire alle loro più difficili dimostrazioni» un metodo nuovo per riesaminare tutte le «cose suscettibili di cadere sotto la conoscenza umana». (Discorso sul metodo, tr. it., Torino 1960, p. 46). Kant ripropone il procedimento ad un livello più completo: «[...] l’unità sistematica è l’unico elemento che possa trasformare la conoscenza comune in scienza – traendo cioè un sistema da un semplice aggregato di conoscenze». (Critica della ragione pura, tr. it., Torino 1957, p. 806). Conclude Hegel: «Deve sorgere il bisogno di produrre una totalità del sapere, un sistema della scienza. Solo a questo patto la molteplicità dei rapporti si libera dall’accidentalità, in quanto essi ricevono il loro posto nell’insieme della totalità oggettiva del sapere e raggiungono la loro oggettiva compiutezza». (Scienza della logica, I, 5). E, più recentemente, a conclusione delle fortune “sistematiche” della scienza, così Hermann Cohen: «La categoria del sistema, come categoria dell’oggetto, è la categoria della natura. Da essa viene perciò determinato il concetto dell’oggetto come oggetto della scienza matematica della natura». (Logik der reinen Erkenntnis, ns. tr., Berlino 1914, p. 339). Questo procedimento è ormai fortemente svalutato. Esso, attraverso l’idea di “sistema”, pretendeva dare qualificazione non soltanto ai risultati della ricerca ma anche ai procedimenti singoli che avevano reso possibile la ricerca, fino ai singoli concetti. È facile comprendere che, in questo modo, un concetto che altrove aveva un significato, all’interno del sistema ne assumeva un altro, determinando conseguenze notevoli nella qualificazione dei risultati che venivano fortemente impregnati dalle premesse metafisiche.

2) Procedimento descrittivo. Ribalta le pretese del procedimento dimostrativo. Non parte da un sistema di idee generale e a priori, ma dall’indagine sui singoli fenomeni. Nel Discorso preliminare dell’Enciclopedia J. Le Rond d’Alembert scrive riferendosi a Newton: «Questo grande genio vide che era tempo di bandire dalla fisica le congetture e le ipotesi vaghe, o almeno di non darle che per quel che valevano, e che questa scienza doveva essere unicamente sottomessa all’esperienza ed alla geometria». (Discorso preliminare all’Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri (1751-1772), Antologia italiana a cura di A. Pons, vol. I, Milano 1966, p. 49). E più avanti, nello stesso Discorso, non è senza significato che lo stesso d’Alembert riferendosi al Sistema del mondo di Newton, scriva tra parentesi «non voglio dire infatti il suo Sistema, ma la sua Teoria del Mondo». (J. Le Rond d’Alembert, op. cit., pp. 49-50), lasciando chiaramente vedere, anche a livello terminologico, il rifiuto per ogni genere di sistema, rifiuto che caratterizza lo spirito illuministico.

Comte imposta la teoria della scienza positiva sul rifiuto della ricerca delle cause: «[Bisogna] considerare tutti i fenomeni come soggetti a leggi naturali invariabili, la cui scoperta precisa e la cui riduzione al minimo numero possibile sono lo scopo di tutti i nostri sforzi, mentre consideriamo come assolutamente inaccessibile e priva di senso la ricerca di quelle che si chiamano cause». (Cours de philosophie positive, vol. I, ns. tr., Paris 1830, pp. 26-27). La caratteristica più evidente di questo modo di pensare non è tanto il determinismo che può anche essere alimentato dal precedente procedimento dimostrativo, quanto l’economicismo. La formulazione più chiara in questo senso è quella di Mach: «Ogni scienza deve sostituire o risparmiare i fatti copiandoli o costruendone modelli nei pensieri, i quali sono appunto copie di cui possiamo disporre più facilmente che dei fatti stessi, e che li possono rappresentare per noi vantaggiosamente sotto più di un aspetto. Questa funzione economica della scienza, che ne penetra tutta quanta l’essenza, appare chiara già alle riflessioni più generali su di essa. Una volta compreso il principio economico scompare dalla scienza ogni misticismo». (Die Mechanik in ihrer Entwicklung, ns. tr., Leipzig 1921, p. 457). Allo stesso modo Richard Avenarius scriveva: «Per una finalità si deve però richiedere che essa risponda a una doppia serie di esigenze. Non solo un’organizzazione che opera adeguatamente secondo fini deve poter eseguire in generale il compito che le è proprio, ma, in secondo luogo, essa deve effettuarne l’esecuzione con lo sforzo relativamente più piccolo, ovvero i mezzi relativamente più ristretti, che sono possibili nelle condizioni poste di volta in volta al suo operare». (Philosophie als Denken der Welt gemäss dem Prinzip der kleinsten Kraftmasses, ns. tr., Berlino 1917, pp. 11-12). Su questo punto ha notato Adam Schaff: «La questione è posta chiaramente e senza riserve: le cose sono simboli concettuali, “complessi di sensazioni”. Non le cose, ma le sensazioni sono elementi del mondo. Il termine “elemento” rivela cosi il suo contenuto: elemento equivale di fatto a percezione sensibile. E la filosofia che concepisce il reale come totalità o complesso delle sensazioni, è l’idealismo soggettivo. Nella stessa direzione si muove la riflessione di Avenarius, che prende come punto di partenza l’“esperienza” come ciò in cui il soggetto e l’oggetto trapasserebbero l’uno nell’altro. Nell’esperienza l’“io”, è sempre legato a ciò che è intorno ad esso: questo rapporto reciproco prende il nome di “coordinazione principale”. Secondo il punto di vista da cui ci poniamo, ossia a seconda che consideriamo l’elemento di esperienza in rapporto con l’“io” ovvero isolatamente, in assoluto, abbiamo a che fare con un fenomeno psichico o fisico. Di conseguenza, come per Mach, la suddivisione dei fenomeni in fisici e psichici non è obiettiva». (La teoria della verità nel materialismo e nell’idealismo. Questioni generali, tr. it., Milano 1959, p. 217).

Ancora oggi il procedimento descrittivo trova larga accettazione nel mondo scientifico. Così uno dei teorici più noti, Richard B. Braithwaite: «La funzione di una scienza è di stabilire leggi generali che riflettano il comportarsi di eventi empirici o degli oggetti di cui si occupa la scienza in questione e di fornire previsioni attendibili di eventi ancora sconosciuti”. (La spiegazione scientifica, tr. it., Milano 1966, p. 7). La caratteristica di questo procedimento di qualificazione è data quindi dal rifiuto del sistema e dalla riduzione delle leggi scientifiche a semplici enunciati di fenomeni che si svolgono in un dato modo. Il procedimento dimostrativo invece aggiungeva alla legge scientifica un qualcosa in più della semplice generalizzazione, sebbene non riuscisse a spiegare cosa fosse questo qualcosa in più al di là di un rinvio “fideistico” alla capacità normativa del sistema scientifico nel suo complesso. Da un’altra angolazione: «È assurdo considerare la mente semplicemente dal punto di vista dell’organismo umano, individuale; poiché, quantunque essa abbia qui il suo centro, essa è essenzialmente un fenomeno sociale; anche le sue funzioni biologiche sono anzitutto sociali. L’esperienza soggettiva dell’individuo deve essere messa in relazione con le attività naturali, sociobiologiche del cervello allo scopo di fornire un’accettabile spiegazione della mente davvero possibile; e ciò può essere fatto solo se si riconosce la natura sociale della mente. La povertà dell’esperienza individuale nell’isolamento dai processi dell’esperienza sociale – nell’isolamento dal suo ambiente sociale – dovrebbe, inoltre, essere evidente. Dobbiamo considerare la mente, dunque, come qualcosa che nasce e si sviluppa all’interno del processo sociale, all’interno della matrice empirica delle interazioni sociali. Dobbiamo, cioè, approfondire l’esperienza individuale dal punto di vista degli atti sociali che comprendono le esperienze dei singoli individui separati in un contesto sociale in cui questi individui interagiscono. I processi di esperienza che il cervello umano rende possibili. sono resi possibili solo per un gruppo di individui interagenti; solo per gli organismi individuali che sono membri d’una società; non per l’organismo individuale che sia isolato dagli altri organismi individuali». (G. H. Mead, Mind, Self, and Society, ns. tr., Chicago-London 1970, p. 133).

3) Procedimento fallibilista. Sebbene questa posizione sia stata sviluppata ed accettata anche da altri studiosi è a Karl Popper che si deve la sua formulazione migliore. In una lettera del 1933, che Popper manda all’editore della rivista “Erkenntnis” si legge: «Possiamo, in modo perfettamente coerente, interpretare le leggi naturali o le teorie sulla natura come asserzioni genuine parzialmente decidibili, come asserzioni, cioè, che per ragioni logiche non sono verificabili ma, in modo asimmetrico soltanto falsificabili: sono asserzioni che si controllano sottoponendole a tentativi sistematici di falsificarle». (La lettera si trova ora in Logica della scoperta scientifica, tr. it., Torino 1970, pp. 343 e sgg. La citazione è a p. 346). Sottolinea Emanuele Severino: «La scienza moderna è la forma più potente di dominio perché è la forma più potente di previsione. La previsione anticipa una visione, che ancora non esiste perché o non esiste ancora l’oggetto della visione, oppure perché ancora non esistono le condizioni che consentono a tale oggetto di diventare visibile. La previsione si costituisce non solo in rapporto al non esistere ancora della visione, ma in rapporto a una visione che, nel prevedere, è concepita come qualcosa che, prima o poi, incomincerà ad esistere. La previsione si costituisce cioè all’interno dell’esperienza del divenire del mondo, cioè all’interno del processo in cui incominciano ad esistere gli oggetti della visione (o le condizioni che li rendono visibili). E la visione è ciò che il linguaggio scientifico chiama “verificazione” o “falsificazione” della previsione». (Legge e caso, Milano 1980, p. 15). Questa proposta che sarà il cavallo di battaglia dei socialdemocratici e liberali fautori del nuovo corso scientifico, cioè del tentativo di adeguare la struttura della scienza alle nuove esigenze del capitale, viene considerata dallo stesso Popper come un “accordo o convenzione” (Logica della scoperta scientifica, op. cit., pp. 17-18) capace di fare discutere ragionevolmente sui problemi che interessano gli epistemologi, gli scienziati e tutti i ricercatori, facendo in modo che venga utilizzato e inglobato qualsiasi contributo critico. Eccolo in un altro testo fondamentale per la comprensione del suo pensiero: «Il criterio dello stato scientifico di una teoria è la sua falsificabilità, o confutabilità, o controllabilità. L’atteggiamento dogmatico, infatti, è chiaramente legato alla tendenza a verificare le nostre leggi, o schemi, cercando di applicarli e di confermarli, anche a costo di trascurare le confutazioni; mentre l’atteggiamento critico è pronto a cambiarli, a controllarli, a confutarli e a falsificarli, se possibile. Ciò suggerisce che l’atteggiamento critico è identificabile con l’atteggiamento scientifico, e l’atteggiamento dogmatico con quello che abbiamo denominato pseudoscientifico». (Congetture e confutazioni, tr. it., Bologna 1972, p. 90). Il concetto di anomalia è ampliato da Popper nei riguardi del valore che a esso è stato sempre attribuito dalla tradizione scientifica. Egli fissa lo scopo della scienza non nell’evitare gli asserti falsi, ma nel tentare di ampliare la propria capacità di risolvere i problemi. Quindi egli suggerisce di non concepire le anomalie come capaci di obbligare lo scienziato a lasciare da parte come errata una teoria, in quanto esistono dati empirici inconciliabili dal punto di vista logico con la teoria stessa. Per le posizioni attuali della scienza, che ho altrove definito “socialdemocratiche”, le anomalie non hanno come diretta conseguenza l’abbandono della teoria, ma sviluppano dubbi su di essa, insomma danno vita a obiezioni significative, anche se non sempre in grado di distruggere fino in fondo una teoria. È necessario quindi, sempre secondo Popper e i suoi seguaci, creare una gradazione delle anomalie basata sulla loro “importanza cognitiva” nei confronti della teoria in oggetto. Tenendo conto del rapporto che l’anomalia ha con le altre teorie rivali dello stesso settore di ricerca. L’inconciliabilità epistemologica e logica non può costituire l’unica natura delle anomalie, difatti esistono molti problemi empirici che, ammissibili a partire da una teoria, mettono in dubbio lo stesso la sua pregnanza empirica. Ammettendo quanto sopra, cioè tenendo conto questo specifico rapporto tra anomalia e teoria, dobbiamo allargare l’anomalia anche a queste ultime particolarità. Si tratta di eventualità logiche che si verificano quando una data teoria non ha la capacità, pur essendo in linea con i risultati dell’osservazione della realtà, di dare conto di un problema che invece è affrontato con risultati più efficaci e utili da una teoria rivale dello stesso dominio. Non si accettano più ricerche sulla “verità”, soltanto quelle sulla “utilità”, ma alla fine ci si ritrova con due concetti molto vicini se non del tutto simili, solo che l’utilità è concetto molto più duttile e meno carico ideologicamente. Conclude quindi Popper: «Ammettiamo allora di esserci deliberatamente imposti di vivere in questo nostro mondo sconosciuto; di adeguarci ad esso meglio che possiamo; di trarre vantaggio dalle occasioni che possiamo trovarvi; e di spiegarlo, se è possibile, e per quanto possibile, (ma non occorre presumere che lo sia) con l’aiuto di leggi e teorie esplicative. Se è questo il compito che ci siamo imposti, allora non vi è procedimento più razionale del metodo per prova ed errore – per congetture e confutazioni, che consiste nel proporre coraggiosamente delle teorie; nel far di tutto per mostrare che esse sono erronee, e nell’accoglierle provvisoriamente se i nostri tentativi critici non hanno successo». (Ib., pp. 92-93).

4) Procedimento dell’anarchismo metodologico. Si fonda quasi esclusivamente sulle ricerche condotte da Paul Karl Feyerabend. La metodologica dell’allievo di Popper critica il razionalismo positivista di cui il maestro è notevole rappresentante in quanto questo «[...] [dà] un quadro inadeguato dello sviluppo anteriore della scienza e la ostacola nel suo sviluppo futuro». (Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, tr. it., Milano 1979, p. 146). Continua Feyerabend: «Senza “caos” non c’è conoscenza. Senza una frequente rinuncia alla ragione non c’è progresso. Idee che oggi formano la base stessa della scienza esistono solo perché ci furono cose come il pregiudizio, l’opinione, la passione; perché queste cose si opposero alla ragione; e perché fu loro permesso di operare a modo loro». (Ibidem). Non è difficile scorgere i limiti di questa concezione che, contrariamente a quanto hanno fatto diversi studiosi di filosofia delle scienze, non vanno ricercati nelle contraddizioni di una tesi che ripesca la storia, il passato, le teorie abbandonate e tutto quello che era stato considerato “superato”; quanto nel fatto che si pretende sempre, restando all’interno di una struttura di ricerca scientifica sottoposta al dominio degli sfruttatori, migliorare la ricerca stessa, senza tenere presente che la cosa è impossibile se non si inserisce in un’azione di lotta diretta a sconfiggere gli sfruttatori in uno con il loro dominio scientifico e la loro “visione” di che cosa sia la scienza. A queste accuse Feyerabend risponde: «Esistono miti, esistono i dogmi della teologia, esiste la metafisica, e ci sono molti altri modi di costruire una concezione del mondo. È chiaro che uno scambio fecondo fra la scienza e tali concezioni del mondo non scientifiche avrà bisogno dell’anarchismo ancora più di quanto ne ha bisogno la scienza bisogno la scienza. L’anarchismo è quindi non soltanto possibile, ma necessario tanto per il progresso interno della scienza quanto per lo sviluppo della nostra cultura nel suo complesso». (Ib., p. 147). La conclusione è che le teorie non si possono mai falsificare in modo definitivo in quanto i fatti che dovrebbero confutarle, a loro volta, poggiano su altre teorie che occorrerebbe falsificare, e così via verso un perverso infinito logico.

Nessuno di questi “procedimenti di qualificazione” fornisce una chiave sicura e insospettabile di attendibilità, rinviando tutti (anarchismo metodologico compreso) a una affermazione o riaffermazione del vecchio mito della verità sia pure nelle nuove vesti del moderno riformismo (approssimazione, sistemazione, aggiustamento, risoluzione di problemi, miglioramento, progresso, ecc.).

Facciamo adesso un ragionamento diverso, e un diverso approfondimento. La scienza mi appare sempre più remota e nemica, troppo patrocinante quella tecnologia che sta prendendoci alla gola. L’avventura nell’azione, lo stesso, mi appare sempre più ostacolata se non proprio impedita del tutto. Dovunque si gira lo sguardo appaiono le tracce del nemico, tracce che si concretizzano proprio nei segni tangibili dell’apparato tecnico-scientifico, come la bava lasciate da una gigantesca lumaca. Ha scritto Renato Cristin, riflettendo sull’impostazione di Heidegger riguardo il problema della tecnica: «Per definire il fenomeno, Leibniz usa spesso l’immagine dell’arcobaleno, che ne rivelerebbe il carattere evanescente ed effimero, ma consistente: “i corpi [...] non sono altro che fenomeni reali [...] come l’arcobaleno”. Il fenomeno sarebbe un manifestarsi fuggevole: su questa piattaforma linguistica l’idea “fenomenologica” di fenomeno occupa un posto importante, esercita una critica e al tempo stesso una ripetizione. Il fenomeno come arcobaleno rinvia a un orizzonte su cui possa stagliarsi, che lo racchiuda e lo faccia risaltare. La coppia sostanza-fenomeno dovrebbe quindi essere pensata entro uno sfondo globale, da cui possa emergere la, ragione d’essere delle cose. Alla base di questo intreccio Leibniz aveva posto il principio di ragion sufficiente, nel quale si concentrano un problema logico ed uno ontico. Di questa connessione Heidegger è convinto: ritiene addirittura che qui Leibniz abbia superato la logica in direzione dell’ontologia e che dunque il principium rationis sia un “principio d’essere”. Husserl pensa invece che le due aree confinino con una dimensione che finirà per assorbirle: la soggettività trascendentale. L’orientamento eidetico husserliano sembra riprendere la direzione gnoseologica della monadologia, mentre per Heidegger la monade assume nietzschianamente i contorni di un “centro di forza” da cui balza fuori l’impulso all’esistenza, l’energia dell’existentificans. Ma alle spalle di questa differenza si trova una comune valutazione del principio di ragione: il principio dell’essere non va inteso, come in Leibniz, nel senso di ragione che determina l’essere, ma significa ragione propria dell’essere. Che per Heidegger l’essere sia epoca in cui l’essere è, mentre per Husserl sia l’essere della coscienza, questo è un fatto secondario, cioè successivo alla loro interpretazione del principio dell’essere come genitivo soggettivo. Questo significa che l’esistenza concreta è presente anche in Husserl, sia pure in forma non sviluppata, e che quindi comprenderne l’entità può aiutarci a capire meglio la topologia dell’essere heideggeriana. In questo senso sembra diminuire anche il divario gnoseologico. Se per Heidegger la logica leibniziana deriva dalla metafisica e quindi dall’ontologia, per Husserl la logica pura è intuizione categoriale, conoscenza che deriva dall’esistenza della correlazione fra soggetto e oggetto. In Leibniz “l’impossibilità della conoscenza racchiude in sé l’impossibilità dell’esistenza”. In questa relazione, per quanto ponga in primo piano l’esistere, Heidegger scorge il germe della moderna riduzione del mondo a immagine, a res di cui disporre: cioè dell’affermarsi della “soggetti(vi)tà” del soggetto, secondo cui “l’ente è ente come oggetto per una coscienza” e in cui l’esistenza viene oggettivata. Il destino stesso della nostra epoca sarebbe il viaggio verso la tecnoscienza, verso il dominio della “volontà di volontà”, verso l’Atomzeitalter. Di questa ineluttabile corsa Leibniz sarebbe il maggiore responsabile, anche se indiretto, colui che l’ha resa possibile, poiché “la perfezione della tecnica è solo l’eco della pretesa alla profectio, cioè alla completezza della fondazione”. Il principio di ragione assorbirebbe il mondo assoggettandolo in un rapporto di pura calcolabilità, quindi va smascherato come segue: “ogni cosa vale allora e solo allora come essente, se è garantita al rappresentare come se fosse un oggetto calcolabile”. Il fenomeno, l’arcobaleno diventa così objectum sottomesso alla volontà di potenza e conoscenza. La forza interpretativa di questa lettura eccede talvolta i limiti di una esegesi corretta, ma Heidegger vuole portare in superficie ciò che Leibniz non ha detto, addirittura ciò che non ha pensato: l’essere, nudo, al di là di ragioni causalistiche. Paradossalmente, secondo Heidegger, la grandezza leibniziana risiederebbe nella deformazione rappresentativa e calcolante che il fenomeno subisce nel reddere rationem. Una grandezza che include in forma germinale, ma pienamente visibile, il senso onto-teologico dell’età moderna. Una grandezza negativa che tuttavia, seguendo la traccia dell’infinitesimale, può condurre l’essenza autentica del destino dell’essere a manifestarsi. “Cum Deus calculat et cogitationes exercet, fit mundus”, aveva scritto Leibniz: ecco la ragione delle cose. Siamo in presenza di uno dei più alti tentativi di fondare l’onto-teologia. Da questo punto di vista fenomeno e sostanza si risolvono nell’armonia prestabilita, ispirata alla scientia Dei». (“La monade, l’eco, l’arcobaleno. Heidegger, Husserl e il concetto leibniziano di sostanza”, in “Aut aut”, 1981, pp. 255-256).

La coscienza immediata, diventando sempre più profondamente conoscitrice dei propri limiti, avvicinandosi a diventare coscienza diversa, non per questo butta a mare quello che è riuscita a conquistare. Lo utilizza come strumento. Sa che è ingannevole, come ogni strumento, ma non rinuncia a esso. Quello che è resta sul fondo, monito tremendo, come a significare che non tutto può essere ribaltato, che non c’è medicina che guarisca completamente, ma possibili consolazioni transitorie. La visione benevola dell’inganno, cioè il possesso, alla fine resta sconfitta, ed è meglio così. Solo pochi ricercano la sconfitta pura e semplice, e costoro la vedono anche attraverso la conquista che fa velo e appanna gli occhi. Ciò prova che il fare è fantasma, ma non solo fantasma, perché allora sarei sempre in preda a un sogno che mi impedirebbe di vedere la sconfitta all’orizzonte connessa con la vittoria, la perdita con il possesso. Vedrei solo una catena ininterrotta di illusioni perfettamente compenetrate e inesorabilmente capaci di ingannarmi.

Perché la sconfitta mi indica la via verso la qualità? Perché in caso contrario resterei per sempre prigioniero della produzione che mi fa possessore di illusioni e remoti fondamenti muti e inaccessibili. Potrei ritrovarmi, come tanti minchioni, ricchi solo di beni che andranno via senza lasciare traccia. La perdita ricercata e non sofferta come accidente o sopruso, è negazione della volontà che cerca solo di garantire il possesso e la potenza di controllo. Con grande perspicacia Karl Jaspers: «Nella sua inseità l’essere della trascendenza non dipende da me, ma come tale, non è accessibile. Questa via d’accesso va bene solo per le cose nel mondo. Della trascendenza, invece, io percepisco solo quel tanto che riesco ad essere, per cui, se perdo le forze, la trascendenza si offusca nella sua presenza in sé costante, se vengo meno al punto da ridurmi all’esserci di una mera coscienza in generale, la trascendenza svanisce, se invece la colgo, essa è per me l’essere che sussiste da sé, e che, senza di me, rimane quello che è. Come gli organi di senso devono essere integri per poter percepire la realtà del mondo, così il se-stesso dell’esistenza possibile deve essere presente per poter essere colpito dalla trascendenza. Se sono esistenzialmente sordo, in nessun oggetto posso udire il linguaggio della trascendenza. Pertanto non posso penetrare nella scrittura cifrata con un’indagine o con una sintesi e un’interpretazione razionale, ma, valendomi di tutto questo come materiale, posso penetrarvi solo attraverso la dinamica della vita esistenziale. L’esperienza del primo linguaggio esige immediatamente che l’esistenza possibile intervenga col proprio se-stesso. L’esperienza che offre non può essere avvicinata e dimostrata in termini identici per tutti, ma può essere raggiunta attraverso la libertà. Essa non è l’arbitraria immediatezza dell’esperienza vissuta, ma il riflesso dell’essere attraverso la cifra. Se tutto può diventare cifra, allora l’essere-cifra sembra qualcosa d’arbitrario. Se invece possiede verità e realtà, allora deve essere verificabile. Nell’orientazione nel mondo la verifica è nel fatto che sono in grado di render qualcosa percepibile o logicamente vincolante, e che, in generale, posso costruire e produrre qualcosa. Nella chiarificazione dell’esistenza la verifica è nel modo con cui tratto con me e con gli altri, è nella sicurezza che possiedo in me stesso attraverso l’incondizionatezza del mio agire e attraverso moti che avverto interiormente nello slancio, nell’amore, nell’odio, nel mio isolamento e nel naufragio. Ma così non posso verificare direttamente la verità della cifra, perché questa, nella sua formulazione oggettiva, è un gioco che non ha alcuna pretesa di validità e quindi non ha bisogno di alcuna giustificazione, anche se per me non è un semplice gioco. Nel leggere la cifra mi assumo una responsabilità dovuta al fatto che la lettura avviene unicamente attraverso il mio me-stesso, la cui possibilità e veridicità mi si rivelano nel modo di eseguire la lettura. Anche la verifica non avviene con altro criterio che non sia il mio me-stesso che si riconosce nella trascendenza della cifra. La lettura della scrittura cifrata si realizza dunque nell’azione interiore, dove io, nel tentativo di sottrarmi alla caduta sempre incombente, mi raccolgo in me stesso e sperimento la decisione che da me scaturisce; ma questo processo, in cui divento me stesso, si realizza unitamente all’ascolto della trascendenza, senza cui sarebbe impossibile. Nella mia azione, nella resistenza, nel successo, nel naufragio, nello smarrimento, e infine nel mio pensiero che comprende tutto questo e nello stesso tempo lo condiziona, realizzo quell’esperienza in cui percepisco la cifra. Ciò che lì accade e io faccio è simile a un domandare e a un rispondere. Posso trarre indicazioni da quanto mi succede solo se instauro con esso una relazione. La lotta che intraprendo con me e con le cose è una lotta per la trascendenza che, in questa immanenza, mi appare come cifra. Penetro nella presenza sensibile dell’esperienza effettiva del mondo, nell’azione reale con le sue alternative di vittoria e di sconfitta, perché questo solo è il campo in cui posso ascoltare ciò che è. Sarebbe follia pensare che l’essere sia ciò che tutti possono sapere. Che cosa furono gli uomini, che cosa considerarono trascendenza, come da essa furono animati, quale realtà ritennero autentica, come la vissero interiormente, che cosa amarono, tutto questo non potrà mai essere colto oggi da un singolo individuo. Non c’è un modo in cui l’essere è per tutti. Per chi non è se stesso tutto rimane oscuro. Nella lettura della scrittura cifrata della trascendenza io colgo l’essere che sento mentre lotto per esso. Infatti, solo presso l’essere della trascendenza ho coscienza dell’essere autentico, solo qui trovo la mia pace, che però non è definitiva, perché di nuovo mi afferra l’inquietudine della lotta dove sono solo e come perduto, perché quando non sento più l’essere perdo anche me stesso. L’esistenza filosofica soffre di non potersi mai avvicinare al Dio occulto. Solo se mi dispongo alla lettura della scrittura cifrata questa può rivolgermi la parola. Filosofando resto in sospensione tra la tensione della mia possibilità e il dono della mia realtà. È un rapporto che instauro con me e con la trascendenza, ma che solo rare volte sa tradursi in uno sguardo che penetra l’oscurità. Sembra che la quotidianità si dissolva nel nulla, e dal suo abbandono poco rassicurante, l’uomo parte alla ricerca di un cammino più diretto, alla ricerca di garanzie oggettive e di saldi punti d’appoggio; con la preghiera afferra, per così dire, la mano di Dio, si rivolge all’autorità per scorgervi la divinità in forma personale, come se, in generale, quella fosse l’immagine di Dio che, invece, se ne sta nascosto in una lontananza indeterminata. Contemplazione esistenziale. Nell’abbandono filosofico rimane la contemplazione esistenziale che nasce dalla coscienza assoluta. Essa non è la preghiera che, al limite del filosofare, è filosoficamente inaccessibile e quindi problematica, ma, come fantasia, è lo sguardo dell’esistenza possibile impegnata nella sua lotta attiva, nella chiarificazione del cammino e nel compimento». (Filosofia, tr. it., Torino 1978, pp. 1091-1093). L’infinita prospettiva della qualità si apre alla capacità di rinuncia alla quantità. Il rammemorare è ricordo di qualcosa che non ha limite, anche se si è interrotta a un certo punto. L’esperienza diversa non è separata dalla cosa di cui ha esperienza, come avviene con l’esperienza immediata. Nella cosa sono io stesso la cosa e la qualità di cui la cosa è territorio desolato. Sono io stesso quello che prima era tenuto accuratamente separato dall’assenza in quanto il possesso mi faceva da freno e da velo. Non intraprendo un viaggio portandomi dietro bagagli, ma intuisco che nella cosa il bagaglio sono io stesso e io stesso vengo intrapreso non avendo una volontà che mi governa alle spalle movimenti e indirizzi.

L’esperienza diversa, pure se si conclude nella sconfitta, non è dimenticabile, può sempre essere rammemorata. La povertà di strumenti linguistici, tipici della immediatezza, può ridurla ai minimi termini, ma il timbro che lascia nella modificazione rimane incancellabile. Il massimamente smarrito nella desolazione e l’incerto piede che inciampa nell’apertura, si equivalgono nel fondo che entrambi li ospita nell’uno. Non c’è modo di districarsi in nette separazioni, tutti i movimenti sono continui e si compenetrano uno con l’altro. Rammemorare non equivale a dare voce al canto delle Sirene, è una sequenza precisa e dettagliata di esperienze nell’assenza assoluta di ciò che riempie il mondo della immediatezza. Non c’è bisogno di alimentare la paura che un incanto mi blocchi di fronte all’intuizione che mi rivela il contraltare dell’assenza. Vado avanti, rammemorando, e ripercorro un percorso fatto altrove ma ora valido per quello che chiamo modificazione. L’ombra dell’eterno trasformarsi nell’agire rimanda i suoi riflessi sulla possibilità che il destino mi offre. La mia vita accelera i suoi battiti.

Rammemorare è certo inserito all’interno dei processi conoscitivi, ma non è un fare qualsiasi. Esso è ricordo di ciò che non può essere ricordato perché non mantiene i raccordi con le regole della logica accumulativa, resta al contrario in bilico tra il ricordo e la dimenticanza, tra la consistenza percettiva e l’intuizione inafferrabile tra quantità e qualità. Esso è ordine e negazione dell’ordine. Se fosse solo ricordo non potrebbe fare vivere ciò che non può essere ricordato perché non è figlio della quantità. Il lampo puntuale nella desolazione è al limite del pensabile e dell’impensabile e si riflette nel memorabile e nell’immemorabile. Non posso accumulare la rammemorazione, ma questa può trasformare l’accumulo. Tornare a incidere attraverso la rammemorazione significa negarsi alla continuità della modificazione e negare che ciò ha inevitabilmente con sé un rafforzamento dei residui qualitativi che si trovano nella capacità produttiva. Al di sotto il riferimento all’indifferenza assoluta dell’uno rimette in condizione di riparare l’insoddisfazione e l’incompletezza del meccanismo modificativo. Un bisogno di colore, un bagliore di sole, eppure l’immediatezza annega nell’ombra o nella sontuosa luminosità di un sole falso. Profondamente, il non mai del tutto sondato pensiero di Hegel: «Essere e non essere sono lo stesso; dunque è lo stesso che io sia o non sia, che questa casa sia o non sia, che questi cento talleri siano, o non siano, nel mio patrimonio. Questa conclusione o applicazione di quella proposizione ne cambia completamente il senso. La proposizione contiene le pure astrazioni dell’essere e del nulla; l’applicazione invece ne fa un determinato essere e un determinato nulla. Ma, come si è detto, qui non si parla di un essere determinato. Un essere determinato, finito, è un essere che si riferisce ad altro; è un contenuto che sta in un rapporto di necessità con un altro contenuto, col mondo intiero. Riguardo alla reciproca dipendenza dell’insieme la metafisica poté giungere alla affermazione (sostanzialmente tautologica) che se venisse distrutto un granello di polvere, rovinerebbe l’intiero universo. Se nelle istanze, che vengono fatte contro la proposizione in questione, qualcosa non si mostra indifferente, quanto al suo essere o non essere, ciò non è già a cagione dell’essere o non essere, ma a cagione del contenuto di cotesto qualcosa, per cui viene a connettersi con un altro qualcosa. Quando si presuppone un contenuto determinato, un qualche determinato esistere, questo esistere, essendo determinato, sta in una molteplice relazione verso un altro contenuto. Per quell’esistere non è allora indifferente che un certo altro contenuto, con cui sta in relazione, sia o non sia, perocché solo per via di tal relazione esso è essenzialmente quello che è. Lo stesso accade nel rappresentarsi (in quanto prendiamo il non essere nel senso più determinato del rappresentarsi come opposto della realtà). Nel contesto delle rappresentazioni, l’essere o l’assenza di un contenuto, che viene immaginato come tale che stia in una determinata relazione verso altro, non è indifferente. Questa considerazione contiene quello stesso, che è un momento capitale nella critica kantiana della prova ontologica dell’esistenza di Dio, critica a cui però qui non si guarda se non per ciò che si riferisce alla differenza, che vi si presenta, fra l’essere e il nulla in generale, e l’essere o il non essere determinati. E noto che in quella cosiddetta prova si presupponeva il concetto di un’essenza cui convenissero tutte le realtà, epperò anche l’esistenza, che veniva parimenti ammessa come una delle realtà. La critica kantiana si attaccava principalmente a questo, che l’esistenza o l’essere (che qui si prendono per equivalenti) non sia affatto una proprietà o un predicato reale, non sia cioè un concetto di qualcosa, che possa aggiungersi al concetto di una cosa. Con questo Kant vuol dire che l’essere non è una determinazione di contenuto. Dunque il reale, continua Kant, non contiene più che il possibile; cento talleri reali non contengono nulla più che cento possibili; vale a dire che quelli non hanno nessuna determinazione di contenuto in più di questi. Per un simile contenuto considerato isolatamente è infatti indifferente di essere o non essere. In esso non sta alcuna differenza dell’essere o del non essere; questa differenza non tocca punto, in generale, quel contenuto. I cento talleri non diventano meno, quando non siano, e non diventano più, quando siano. La differenza non può venire che da un’altra parte. “All’incontro, rammenta Kant, nel mio patrimonio v’è più con cento talleri reali, che col loro semplice concetto, o colla loro possibilità. Perocché, trattandosi della realtà, l’oggetto non è soltanto contenuto analiticamente nel mio concetto, ma si aggiunge sinteticamente al mio concetto (che è una determinazione del mio stato), senza che per questo essere fuor del mio concetto, questi stessi cento talleri pensati si trovino minimamente aumentati”. Si presuppongono qui due sorta di stati (per non scostarci dalle espressioni kantiane, che non sono senza una certa imbrogliata goffaggine); l’uno, quello che Kant chiama il concetto, per cui è da intendere la rappresentazione, e l’altro, lo stato patrimoniale. Per l’uno come per l’altro, per il patrimonio come per la rappresentazione, cento talleri sono una determinazione di contenuto, ossia, come si esprime Kant, “vi si aggiungono sinteticamente”. Io come possessore di cento talleri, o come non possessore di essi, oppure anche io in quanto mi rappresento cento talleri, o in quanto non me li rappresento, sono senza dubbio un contenuto diverso. Prendendo la cosa più generalmente: le astrazioni dell’essere e del nulla cessano tutte e due di essere astrazioni, in quanto acquistano un contenuto determinato; l’essere è allora realtà, il determinato essere di cento talleri, e il nulla è negazione, il determinato non essere di cotesti talleri. Questa determinazione di contenuto stessa, i cento talleri, presa astrattamente per sé, è invariatamente nell’uno quel medesimo che è nell’altro. Ma in quanto l’essere si prende poi come uno stato patrimoniale, i cento talleri vengono a trovarsi in relazione con uno stato, e per questo stato una determinatezza tale, qual essi sono, non è indifferente. Il loro essere o non essere non è che mutamento; essi sono stati trasportati nella sfera dell’esser determinato. Quando pertanto contro l’unità dell’essere e del nulla si adduce che non è pur nondimeno indifferente, che questo o quello (i cento talleri) sia o non sia, è un’illusione che questa differenza, che io abbia i cento talleri o non li abbia, noi la rimandiamo semplicemente all’essere e non essere – una illusione, la quale, come si è mostrato, è basata sulla unilaterale astrazione che tralascia il determinato esserci, presente in tali esempi, e si attiene semplicemente all’essere e non essere, come viceversa cambia quell’astratto essere e nulla, che si tratta d’intendere, in un essere e nulla determinato, ossia in un esserci. Soltanto l’esserci contiene la differenza reale dell’essere e del non essere, vale a dire un qualcosa e un altro. È questa differenza reale che sta dinanzi alla rappresentazione, e non già l’astratto essere e il puro nulla, colla loro differenza semplicemente presunta. Come Kant si esprime, “per mezzo dell’esistenza” entra “qualcosa nel contesto dell’intiera esperienza”, “la nostra percezione acquista con ciò un oggetto di più, ma il nostro concetto dell’oggetto non è con ciò accresciuto”. Ciò vuol dire, come risulta dalle spiegazioni date, che per mezzo dell’esistenza, essenzialmente per ciò che qualcosa è una esistenza determinata, esso si trova connesso con altro, e fra l’altro anche con un percipiente. – Il concetto dei cento talleri, dice Kant, non viene accresciuto per il fatto che siano percepiti. Concetto significa qui i già accennati cento talleri quali oggetto di rappresentazione isolata. Ora isolati a questo modo, i cento talleri son certo un contenuto empirico, ma tagliato fuori, senza connessione e senza determinatezza contro altro; la forma dell’identità con sé toglie loro la relazione ad altro, e li rende indifferenti ad esser percepiti, o no. Se non che questo cosiddetto concetto dei cento talleri è un falso concetto. La forma della semplice relazione a sé non appartiene essa stessa a un tal contenuto limitato, finito, ma è una forma di cui esso è rivestito e che gli viene prestata dall’intelletto soggettivo. Cento talleri non sono nulla che si riferisca a sé, ma sono un mutevole e un transitorio». (La scienza della logica, vol. I, tr. it., Bari 1974, pp. 90-94).

La luce è elemento del fare, può avere sfumature diverse, ma nell’illuminare falsifica seguendo la sorte della parola. Le potenzialità descrittive annegano nella modificazione che le riproduce a condizioni accumulabili. L’energia essenzialmente intuitiva, come atrocemente è stata a volte definita, o più semplicemente la messa in sospetto della immediata percezione della realtà, non ha bisogno della testimonianza della luce. Certo, occorre capire a volte la funzione di quello che Goethe chiama buio trasparente, ma non è solo questo. La desolazione della cosa emana una forza che si potrebbe dire debole, confrontata con la volontà che domina l’affollato mondo quantitativo. È l’anima della solitudine che fa sentire la sua voce, e questa voce è il silenzio. Più colgo questa forza debole e più vengo coinvolto in movimenti che non sono io a determinare, non ci sono pingui ragioni o fisionomie, ma nulla, assoluta intensità qualitativa, ed è questa intensità che mi allarga le braccia e mi viene incontro procurandomi quella serie di sensazioni che definisco esperienza diversa. La desolazione è per me uguale all’eccezionale esperienza che precedette alla produzione universale, alla mia stessa creazione del mondo. La sola realtà pensabile, la qualità, vera sostanza, è indicibile, non si assoggetta alla parola se non attraverso il ritualismo rammemorativo che paradossalmente, per me, la fa rivivere nel mondo dove le strutture di massima finiscono per risultare strette. L’inquietudine di fondo resta al suo posto ma si alleggerisce senza diventare una ossessione liturgica che reagisce automaticamente al presentarsi di un avviso di non completamento. I parametri dell’indicibile si ricostituiscono all’interno della parola suggerendo ispirazioni e riscatti inauditi, capaci di esaltare l’assenza più remota, quella dell’uno. Questa lontananza si riverbera nella rammemorazione e a volte rende sontuosa la narrazione e la stessa ripetizione maniacale. Perché c’è qualcosa che nel rammemorare non si vede subito, un segno ignoto che il ritorno mette in evidenza ingannando lo sguardo indagatore freddo e allucinato della conoscenza.

* * * * *

“Se il reale immediato è un semplice pretesto per il pensiero scientifico e non è più un oggetto di conoscenza, bisognerà passare dal come della descrizione al commento teorico. Una siffatta spiegazione prolissa stupirà il filosofo, che vorrebbe sempre che una spiegazione si limitasse a dispiegare (délier) il complesso, a mostrare il semplice nel composito. Ora, il vero pensiero scientifico è metafisicamente induttivo; come mostreremo più volte, esso legge il complesso nel semplice, enuncia la legge a proposito del fatto, la regola a proposito dell’esempio. Vedremo con quale ampiezza le generalizzazioni del pensiero moderno completino le conoscenze particolari. Metteremo in evidenza una sorta di generalizzazione polemica che fa passare la ragione dal perché al perché no. Faremo posto alla paralogia accanto all’analogia, e mostreremo che all’antica filosofia del come se succede, nella filosofia scientifica, la filosofia del perché no. Dice Nietzsche: ‘tutto ciò che è decisivo nasce malgrado. E ciò è vero tanto nel mondo del pensiero quanto nel mondo dell’azione. Ogni nuova verità nasce malgrado l’evidenza, ogni nuova esperienza nasce malgrado l’esperienza immediata’”.

(Gaston Bachelard, Le nouvel esprit scientifique)

Capitolo II

Il meccanicismo determinista assegna alla scienza il mondo reale considerandolo raggiungibile attraverso la percezione dei sensi. Comprende le tendenze oggettiviste, comportamentiste, meccaniciste e diverse altre che a queste si possono ricondurre. Il principio di causa ed effetto è alla base di questa tendenza interpretativa della scienza, principio che presuppone l’idea di ordine della natura. La legge di Newton del moto dei pianeti e il sistema matematico che ne deriva sviluppano la tesi che le condizioni iniziali del sistema solare determinano il suo futuro con assoluto rigore. In questo modo Newton sostituisce al metodo esclusivamente empirico una generalizzazione in grado di prevedere possibili eventi futuri. La formulazione più nota del determinismo meccanicista è quella di Pierre Simon de Laplace: «Un’intelligenza che conoscesse tutte le forze che agiscono in natura ad un dato istante, nonché le posizioni occupate in quell’istante da tutte le cose dell’universo, sarebbe in grado di comprendere in una unica formula i moti dei corpi più grandi altrettanto come dei più leggeri atomi del mondo, purché il suo intelletto fosse sufficientemente capace di sottoporre ad analisi tutti i dati, per essa nulla sarebbe incerto, il futuro come il passato sarebbero presenti ai suoi occhi». (Théorie analytique des probabilités, ns. tr., Paris 1820, Prefazione).

In prevalenza l’analisi scientifica condotta nell’Ottocento subisce l’influenza del determinismo e, in particolare, della sua elaborazione filosofica: il positivismo. In questo modo la scienza diventa la sola conoscenza possibile, il metodo scientifico empirico il solo accettabile, la descrizione dei fatti e dei nessi tra i fatti il solo mezzo per prevedere (“vedere per prevedere”). Esattamente, Emanuele Severino: «La previsione incomincia a dominare il divenire mediante l’evocazione degli immutabili e degli eterni, ossia delle strutture che non sono travolte dal divenire del mondo, ma arginano la sua minaccia e fanno quadrato attorno a ciò che di volta in volta, per gli abitatori dell’Occidente, vale come l’irrinunciabile. Prevedere significa volere che il divenire (il tempo, la storia) si adegui all’ordine previsto; ma questo ordine deve essere immutabile affinché la minaccia del divenire non torni ad essere una possibilità reale». (Legge e caso, op. cit., p. 17). Molte analisi anarchiche sono ancora ferme a questa considerazione del compito della scienza e del pensiero e a questa interpretazione del mondo, e ciò perché furono sviluppate alla fine dell’Ottocento in un clima filosofico positivista ed evoluzionista. Nel senso di una indagine critica su di esse ben poco è stato fatto. A esempio non sono state ben studiate le conseguenze del determinismo di Kropotkin sull’organizzazione del movimento anarchico internazionale prima della rivoluzione russa. La presenza di Kropotkin in Russia dopo la rivoluzione dette maggiore forza e rappresentatività alla componente che si opponeva alla lotta armata contro il sempre più dilagante potere bolscevico.

Il modello della meccanica classica viene preso come punto di riferimento da ogni filosofo e da ogni scienziato. Gli economisti costruiscono le leggi del mercato capitalista sul modello meccanico dell’equilibrio. La matematica fornisce l’abito adatto per essenzializzare l’evidenza delle conclusioni a cui si arriva. I capitalisti sognano l’eternità del loro dominio, i rivoluzionari sognano l’automaticità della loro rivoluzione: ognuno si culla nel mito della scienza e trae conforto dall’attesa. Ben presto, però, questi miti e queste attese verranno sconvolti.

Fin dagli inizi dell’Ottocento la geometria aveva avuto forti scuotimenti sotterranei, conosciuti solo agli specialisti, ma capaci di gettare il panico all’interno della comunità degli scienziati. Le basi della geometria euclidea, ritenute incrollabili per secoli, venivano messe in discussione da altre geometrie parallele, diverse da quella di Euclide e altrettanto logiche, sebbene in radicale disaccordo con quanto i sensi percepiscono immediatamente. Attentamente, riassumeva Gottlob Frege: «Mi sembra ancor più facile estendere la sfera d’azione di questo linguaggio in formule alla geometria. Sarebbe solo necessario aggiungere ancora pochi segni per le relazioni intuitive che in essa ricorrono. In questo modo si otterrebbe una sorta di analysis situs. Potrebbe qui collegarsi il trapasso alla teoria pura del movimento, e inoltre alla meccanica e alla fisica. La stessa scoperta di questa ideografia è già stata utile – mi sembra – alla logica. Io spero che i logici, se non si lasceranno sgomentare dalla prima impressione di stranezza, non mancheranno di dare il loro consenso alle innovazioni cui sono stato spinto da una necessità che è inerente alla materia stessa. Queste divergenze dall’uso tradizionale trovano la loro giustificazione nel fatto che finora la logica è stata sempre troppo strettamente connessa alla lingua e alla grammatica. Io credo, in particolare, che a lungo andare la sostituzione dei concetti soggetto e predicato con gli altri di argomento e funzione, farà buona prova. Si riconosce facilmente come l’interpretazione di un contenuto quale funzione di un argomento sia concettualmente feconda. Dovrebbe inoltre meritare considerazione l’analisi del modo come si connettono uno all’altro i significati delle parole, se, e, non, o, esiste, alcuni, tutti, ecc. L’aritmetica, come ho osservato all’inizio, è stato il punto di partenza del processo concettuale che mi ha condotto alla mia ideografia. Penso pertanto di applicarla in primo luogo proprio a questa scienza, cercando di analizzare ulteriormente i concetti dell’aritmetica, e di trovare una base più profonda alle sue proposizioni. Per ora ho dato notizia, nel terzo capitolo, di qualche passo che sto compiendo in questa direzione. L’ulteriore prosecuzione del cammino indicato, l’illuminazione dei concetti di numero, di grandezza, ecc., debbono formare oggetto di successive ricerche che presenterò immediatamente dopo questo libro». (Logica e aritmetica, tr. it., Torino 1965, pp. 106-108).

Qualcosa di simile accadeva in matematica, dove il concetto di numero veniva denunciato come mistificatorio. In questo modo la matematica inizia la propria revisione che la porta dalla fase di analisi di verità precostituite alla fase di linguaggio capace di approfondire conoscenze formali. Annotano Ludovico Geymonat e Giulio Giorello: «All’autore del presente saggio sembra incontestabile che il largo uso e il grande successo del discorso matematico nelle scienze sperimentali siano la dimostrazione dei risultati che si ottengono aprendo la via, anche in queste scienze, all’esigenza del massimo rigore. Da sempre questa esigenza di rigore ci ha fatto abbandonare il famoso principio di induzione che fino al secolo scorso era parso costituire la base delle scienze dell’esperienza. Un’analisi rigorosa dell’esperienza ci dimostra infatti che essa ci pone sempre di fronte a fenomeni singoli e che, se pretendiamo di generalizzarli, noi compiamo un’operazione che nessun principio logico è in grado di giustificare. Fra la logica che regge la matematica e la cosiddetta logica induttiva vi è un salto incolmabile. Anche se abbiamo osservato innumerevoli volte che un certo processo naturale si svolge sempre secondo determinate regole, nulla ci autorizza ad affermare che altrettanto accadrà in futuro. Se l’esigenza del massimo rigore ci porta, come abbiamo testé riferito, ad abbandonare il principio di induzione, che per secoli era sembrato costituire il “ponte naturale” fra esperienza e teoria, cioè lo strumento principale mediante cui l’esperienza fornisce alle scienze sperimentali i princìpi su cui devono basare le proprie teorie, si apre la domanda seguente: ma allora l’esperienza non insegna proprio nulla allo scienziato, oppure quale insegnamento è in grado di fornirgli? La risposta che all’autore del presente saggio sembra oggi la più attendibile è la seguente: l’esperienza non detta allo scienziato che la interroga alcun principio (alcuna legge, akun modello esplicativo) dei fenomeni studiati, ma glielo suggerisce. Ma che cosa significa il verbo suggerire? A nostro parere esso significa: dare un’indicazione orientativa, che può venire precisata in più modi. Se affermassimo che l’esperienza detta certi risultati alle nostre teorie scientifiche, noi sosterremmo con ciò che queste non hanno altro da fare che registrare tali risultati e costruire su di essi certi complessi di idee connesse fra loro da legami logici ben determinati». (Le ragioni della scienza, Bari-Roma 1986, pp. 14-15).

Ma è certo la fisica la scienza che ha prodotto i risultati più sconvolgenti, procurando il crollo definitivo delle illusioni deterministe. Planck contribuisce a modificare l’idea vecchissima che la natura non procede per salti. Einstein relativizza il tempo e lo spazio che per secoli erano stati considerati come grandezze assolute. Si approfondisce la critica della causalità diffondendo l’uso di analisi statistiche o di approssimazione.

Il punto culminante di questa revisione che la fisica conduce è dato dal principio d’indeterminazione o di Heisenberg. Ecco come viene descritto da Hans Reichenbach: «Essa [la legge trasversale di limitazione di misurabilità o principio d’indeterminazione] stabilisce che i valori contemporanei dei parametri indipendenti non possono venir misurati con un’esattezza tanto grande quanto vogliamo. Possiamo solo misurare una metà di tutti i parametri con il grado voluto di precisione, mentre l’altra metà deve restare parzialmente indeterminata ... [quindi] se i valori dei parametri indipendenti sono conosciuti in modo inesatto, non possiamo aspettarci di essere in grado di fare previsioni rigorose circa le osservazioni future». (I fondamenti filosofici della meccanica quantistica, tr. it., Torino 1954, pp. 22-23).

* * * * *

“Così, noi troveremo una ragione di rinnovamento quasi inesauribile per lo spirito scientifico, una sorta di novità metafisica essenziale, indipendentemente dalle conoscenze che si accumulano e determinano dei mutamenti progressivi nel pensiero scientifico. Infatti, se il pensiero scientifico può giocare su due termini opposti, andando per esempio dall’euclideo al non-euclideo, esso sarà come circondato da un’area di rinnovamento. Ora, chi crede che ciò riguardi soltanto dei mezzi di espressione, dei linguaggi più o meno comodi, darà ben poca importanza a questa fioritura di nuove lingue. Ma chi crede invece, come cercheremo di giustificare, che quelle espressioni sono più o meno espressive, più o meno suggestive, e che conducono a realizzazioni più o meno complete, allora dovrà attribuire un peso tutto diverso a queste matematiche allargate. Insisteremo, pertanto, sul valore dilemmatico delle nuove dottrine come la geometria non-euclidea, la misura non-archimedea, la meccanica non-newtoniana (con Einstein), la fisica non-maxwelliana (con Bohr), l’aritmetica delle operazioni non-commutative (che potremmo chiamare non-pitagorica). Nella conclusione filosofica del nostro lavoro, cercheremo di presentare i caratteri di un’epistemologia non-cartesiana, che ci sembrano consacrare veramente la novità dello spirito scientifico contemporaneo”.

(Gaston Bachelard, Le nouvel esprit scientifique)

Capitolo III

Il concetto più accettato di scienza è oggi di tipo progressista o, per meglio dire, possibilista. Esso ha mantenuto il suo contenuto empirico, ma ha escluso il dogmatismo che si nascondeva sotto gli sviluppi metafisici del positivismo. Gli scienziati di oggi sono per la più gran parte laici e socialdemocratici. Essi ritengono che la scienza non sia un insieme di osservazioni “vere”, per cui una volta fissate non ci si ritorna più sopra, come pure ritengono che la scienza non sia un sistema organico che avanza definitivamente verso uno stato conclusivo. La scienza, per loro, non è conoscenza, nel senso di conquista di una verità, e neppure nel senso di conquista di una verità di seconda categoria come la probabilità. In questo senso le illusioni che lo stesso principio di indeterminazione di Heisenberg lasciava sussistere, e che trovarono alimentazione nelle straordinarie capacità tecniche sviluppate con la manipolazione degli atomi, sono ulteriormente cadute. Così Popper: «Il vecchio ideale scientifico dell’episteme – della conoscenza assolutamente certa, dimostrabile – si è rivelato un idolo. L’esigenza dell’oggettività scientifica rende ineluttabile che ogni asserzione della scienza rimanga necessariamente e per sempre allo stato di tentativo. È bensì vero che un’asserzione scientifica può essere corroborata, ma ogni corroborazione è relativa ad altre asserzioni che a loro volta hanno natura di tentativi. Possiamo essere “assolutamente certi” solo nelle nostre esperienze soggettive di convinzione, nella nostra fede soggettiva». (Logica della scoperta scientifica, op. cit., p. 311).

La scienza oggi si dispone per una più agevole utilizzazione da parte del capitale dei risultati da essa raggiunti e, nello stesso tempo, nel senso di una migliore e più diretta possibilità di condizionamento per quanto riguarda i finanziamenti e i piani di ricerca. Per fare questo le prospettive dogmatiche come quelle del positivismo evoluzionista non erano più idonee. Non per nulla il massimo sviluppo di quel modo di interpretare la realtà corrispose con la fase delle scoperte artigianali e individuali nella scienza e con la fase di sviluppo del dominio del capitale che possiamo definire formale. In una fase ben diversa, come quella presente, con il dominio capitalista che si dirige nel senso di una totalità reale, il modello di ricerca scientifica è quello della grande Università, del grande Istituto, del grande Dipartimento statale, con finanziamenti e progetti controllati dallo Stato.

La ripresa del soggettivismo a cui fa riferimento Popper è possibile perché si annega in quella falsa pretesa del capitalismo di garantire la libertà dell’individuo (e quindi anche dello scienziato). E col soggettivismo viene ripescata anche la metafisica. Infatti la scienza viene considerata come un insieme (non organico) di ricerche, di analisi, di ipotesi, ecc., che trova inizio proprio nella metafisica, cioè nelle formulazioni prime della filosofia. Quindi, secondo i nuovi intendimenti scientifici, la metafisica non va rigettata in blocco, ma criticata e approfondita. Così William James metteva il dito nella piaga: «Naturalmente tutto ciò suona come contraddittorio; ma, poiché i fatti immediati non suonano affatto, ma semplicemente sono, fino a quando non li concettualizziamo e non li chiamiamo con una parola, la contraddizione risulta solo dalla forma concettuale o discorsiva, che si sostituisce alla forma reale. Se, come mostra Bergson, quella forma è sovrapposta solo per ragioni pratiche, allo scopo di farci saltare sopra la vita anziché muovere in essa, e se non può neppure pretendere di rivelarci qualcosa circa quello che l’interna natura della vita è, o dovrebbe essere, noi potremo fare orecchio di mercante a quelle accuse. La decisione di fare orecchio di mercante è la crisi interna, o catastrofe, di cui parlava un discepolo di Bergson. Noi siamo così assoggettati alla tradizione filosofica che tratta il logos, o pensiero discorsivo in generale, come l’unica via alla verità, che ci riesce molto difficile tornare alla vita originaria, non verbalizzata – a qualcosa di più rivelativo – e pensare i concetti come strumenti meramente pratici, come Bergson li considera. È come deporre la nostra orgogliosa maturità mentale e ridiventare infanti innocenti agli occhi della ragione. Ma per quanto difficile sia questa rivoluzione, non c’è altro modo, credo, per afferrare la realtà». (A pluralistic Universe, ns. tr., New York 1958, pp. 272-273). Eppure queste preoccupazioni non sono da considerarsi simili a quelle che correttamente dovrebbero porsi all’attenzione, cioè quelle relative al condizionamento che la struttura di potere esercita sulla conoscenza nel suo formarsi. Tale visione politica è rifiutata dalla maggior parte degli scienziati perché disturberebbe la pace della propria coscienza. Sempre Popper definisce “intollerante e totalitaria” una concezione del mondo che parta dal punto di vista “cospirativo”. Infatti questo punto di vista ammette l’esistenza di una “cospirazione” di forze che cerca di mettere in circolazione idee sbagliate dirette a nascondere la verità. Egli scrive: «È evidente con quale facilità può essere scosso un atteggiamento di tolleranza basato sulla fede ottimistica nella vittoria della verità. Tale fede, infatti, può facilmente diventare una teoria della cospirazione, teoria che sarebbe difficile riconciliare con un atteggiamento di tolleranza». (Congetture e confutazioni, op. cit., p. 19). Questo modo di considerare la verità è tipico della ricerca scientifica attuale. Si pensa che il realismo scientifico possa avere una forma logica e rigorosa di espressione (poniamo attraverso il linguaggio matematico dei computer), per cui si può arrivare a parlare della realtà in modo accumulabile e controllabile. Solo che queste affermazioni sono solo ipotesi che si basano su miti di fondo come l’esistenza oggettiva del reale indipendentemente dalla nostra azione, l’accumulazione progressiva dei dati e dei fenomeni osservabili, il controllo o la misurazione del loro grado di verità. A esempio, Heinrich Rickert: «L’oggetto della conoscenza dev’essere in generale definito non soltanto come un dover essere, ma come un dover essere indipendente da ogni essere e perciò come un dover essere trascendente [...], come un dover essere tanto indipendente da qualsiasi individuo da essere esso a vincolare ogni individuo che voglia giudicare e conoscere. Se conoscere è affermare o riconoscere, solamente ammettendo un dover essere trascendente si può stabilire una differenza tra pensiero vero e pensiero in generale [...]. Veri sono allora i giudizi che riconoscono o affermano un’esigenza trascendente. Così, e soltanto così, gli atti di pensiero diventano più che meri processi psichici, soltanto così diventano conoscenza. La frase come puro complesso di parole non può esser detta vera. Alle parole dev’essere unito piuttosto un “significato”, quello che ha inteso chi l’ha messa per iscritto o l’ha pronunciata, e che io comprendo quando la leggo o l’ascolto. Soltanto questo significato può propriamente essere vero, e in virtù di esso è allora vera la frase che lo racchiude. È perciò il significato che dovrò studiare per trovare l’oggetto della conoscenza. Chiamiamo perciò il significato di una frase o dell’equivalente della frase, che può essere vero, il senso, in opposizione al puro significato delle parole, che può certo divenire pane essenziale di questo senso logico, ma che di per sé non può essere né vero né falso». (Il neocriticismo tedesco, tr. it., Torino 1983, pp. 229-230).

La concezione socialdemocratica di fondo si osserva nel sempre più frequente ricorso al procedimento del controllo e all’ipotesi della eliminazione progressiva degli errori, condizioni considerate indispensabili dalla scienza oggi per costruire un accrescimento della conoscenza e per lottare contro il dogmatismo e contro l’intolleranza. E questo è quanto il dominio reale può desiderare di meglio.

* * * * *

“Un’osservazione, tuttavia, è utile per prevenire equivoci: in queste negazioni non c’è nulla di automatico, e non si dovrà sperare di trovare una sorta di semplice conversione che faccia rientrare logicamente le nuove dottrine nel quadro delle vecchie. Si tratta di una vera e propria estensione. La geometria non-euclidea non contraddice la geometria euclidea; è piuttosto una sorta di fattore aggiunto che permette la totalizzazione, il completamento del pensiero geometrico, l’assorbimento in una pangeometria. Costituita al margine della geometria euclidea, la geometria non-euclidea disegna dal di fuori, con una luminosa precisione, i limiti del vecchio pensiero. Lo stesso accadrà per tutte le nuove forme del pensiero scientifico, che proiettano all’indietro una luce ricorrente sulle oscurità delle conoscenze incomplete. Nel corso del nostro studio, troveremo gli stessi caratteri di estensione, d’inferenza, di induzione, di generalizzazione, di complemento, di sintesi e di totalità: altrettanti sostituti dell’idea di novità. E questa novità è profonda, perché non è la novità di una scoperta (trouvaille), bensì è la novità di un metodo. Di fronte a tale fioritura epistemologica, dovremo dunque seguitare a parlare di una Realtà lontana, opaca, massiccia, irrazionale? Ciò significherebbe dimenticare che il Reale scientifico è già in rapporto dialettico con la Ragione scientifica. Dopo un dialogo che dura da molti secoli fra il Mondo e lo Spirito, non si può più parlare di esperienze mute. Per interdire radicalmente le conclusioni di una teoria, bisogna che l’esperienza ci esponga le ragioni della sua opposizione”.

(G. Bachelard, Le nouvel esprit scientifique)

Capitolo IV

Gli entusiasmi del determinismo vennero esportati con facilità dal campo strettamente metodologico delle scienze cosiddette naturali ai problemi della società. Al contrario, le riflessioni critiche e le preoccupazioni trovarono difficoltà a uscire dalla cerchia degli specialisti.

In effetti queste preoccupazioni non mancavano. Risalendo indietro nel tempo troviamo che esse avevano caratteristiche etiche o filosofiche, come i tentativi fatti dalla Chiesa di frenare lo sviluppo scientifico, considerato un pericolo per la salute dell’anima, o i tentativi delle scuole filosofiche idealiste di respingere le premesse del positivismo evoluzionista in nome del valore assoluto dell’io. Più avanti, invece, col pieno maturarsi dello scontro di classe, altre preoccupazioni vennero a galla. La scienza della società trovava più ampi riconoscimenti, dettati proprio dalla preoccupazione di avere una soluzione definitiva alla questione sociale. La fede positivista non bastava più. Vilfredo Pareto, che era indiscussamente uno dei più brillanti eredi della scuola matematica di economia, successore a Losanna dello stesso fondatore Léon Walras, rinuncia con pubblica dichiarazione a questa prospettiva, con tutte le conseguenze che implicava, e si dedica soltanto agli studi di sociologia. Nelle feste giubilari in suo onore organizzate dall’Università di Losanna nel 1917 Pareto annuncia questo passaggio facendo ossequio formale al progetto di applicare alle «[...] scienze sociali i metodi impiegati nella fisica, nella chimica, nell’astronomia, nella biologia e in altre scienze analoghe». (Citato in G. Braga, Introduzione a V. Pareto, Forma ed equilibrio sociale, Ant. del Trattato di sociologia generale, Bologna 1959, p. IX). In una lettera di qualche anno prima diretta all’amico Adrien Naville scriveva: «Il metodo sperimentale va dalla cosa al nome, che è arbitrario, che è un’etichetta per designare le cose. Vi sono cose abbastanza ben delimitate, quali sono la terra; ve ne sono altre invece vaghe, vaghissime, quali sono i sentimenti. Definirli esattamente è un’impresa altrettanto difficile che dare una forma geometrica alle nuvole spinte dal vento». (Citato da G. Busino, Introduzione a V. Pareto, Scritti sociologici, Torino 1966, p. 42). Certo anche in questi studi, come accadrà per Max Weber e per altri, il mito della scienza resta oggettivamente intatto, ma vengono avanzati interessanti dubbi e perplessità.

Scrive Pareto: «Ogni fenomeno sociale può essere considerato sotto due aspetti, cioè quale esso è in realtà, e quale si presenta allo spirito di certi uomini. Il primo aspetto si dirà oggettivo, il secondo soggettivo. [Allo stesso modo] vi sono azioni che consistono in mezzi appropriati al fine, e che uniscono logicamente i mezzi al fine; ve ne sono altre in cui tale carattere manca. Queste due classi di azioni sono molto differenti secondo che si considerino sotto l’aspetto oggettivo, o sotto quello soggettivo». (Trattato di sociologia generale, vol. I, tr. it., Milano 1964, p. 80).

Più dettagliatamente, Max Weber: «Ogni conoscenza della realtà culturale è sempre una conoscenza da particolari punti di vista». (Il metodo delle scienze storico-sociali, tr. it., Torino 1958, p. 97). E più avanti: «La possibilità di una conoscenza fornita di senso di ciò che per noi è essenziale nella infinita quantità del divenire appare vincolata al costante impiego di punti di vista di carattere specifico, i quali da parte loro possono essere empiricamente constatati e vissuti come elementi di ogni agire umano fornito di senso, ma non già fondati validamente in base al materiale empirico». (Ib., p. 134). Tra una conclusione puramente logica e una valutazione pratica, secondo Weber c’è una grande differenza. Ciò implica l’ipotesi che le prese di posizione ideologiche si possano separare dalla ricerca empirica dei fatti. È ovvio che l’impostazione di Weber è un puro conato teorico, in quanto non c’è modo di frenare, dall’interno, la politicizzazione della scienza o, se si preferisce, la scientificizzazione della politica.

Ma questa critica si ferma qui. Né Pareto né Weber fanno il passo successivo, capace di affermare che la scienza risulta socialmente condizionata nelle sue strutture interne. Questo passo sarebbe stato rivoluzionario e nessuno dei due era in grado di farlo.

Ulteriori approfondimenti verranno poi dai teorici della sociologia della conoscenza i quali, per altro, vivono di già in un diverso clima politico generale, clima che ha visto la formazione, lo sviluppo e lo scacco delle grandi organizzazioni dei lavoratori in Germania. Scrive Karl Mannheim: «Vediamo come non solo la nozione della conoscenza in generale sia dipendente dalle forme dominanti del sapere e dai modi del conoscere che ivi s’esprimono e sono accolti come ideali, ma come il concetto stesso della verità derivi dai tipi di conoscenza già esistenti. Così sulla base di questi gradi intermedi, esiste un fondamentale legame tra [la scienza], le forme dominanti del conoscere e la generale situazione sociale-intellettuale di un’epoca». (Ideologia e utopia, tr. it. Bologna 1957, p. 294). La pretesa di Mannheim è quella di distinguere tra l’ideologia come inganno, nel senso poniamo di cui parla Marx, ideologia come falsa coscienza, dalla ideologia come processo conoscitivo sviluppato dalla sociologia del sapere, un tipo di ideologia che secondo questo autore dovrebbe aiutare la scienza a essere avalutativa, quindi capace di riunire la realtà sotto una totalità interpretativa.

Importanti sono le critiche più recenti rivolte da un punto di vista sociologico alla scienza sempre da studiosi che intendono apportare modificazioni e miglioramenti all’impalcatura di potere su cui essa si basa. Thomas Samuel Kuhn, per esempio, ha avanzato una distinzione tra scienza normale e ricerca scientifica. La maggior parte degli scienziati, la massa di manovra su cui si basa il potere per svolgere i propri progetti di dominio, non è costituita da ricercatori e innovatori, ma da uomini di routine. Scrive Kuhn: «Scienza normale significa una ricerca stabilmente fondata su uno o su più risultati raggiunti dalla scienza del passato; ai quali una particolare comunità scientifica, per un certo periodo di tempo, riconosce la capacità di costituire fondamento della sua prassi ulteriore». (La struttura delle rivoluzioni scientifiche, tr. it. Torino 1972, p 29.) Questa massa di manovra, questa mano d’opera scientifica non è difatti disposta a mettere in questione la propria posizione sociale con l’avanzare ipotesi o teorie pericolose; più facilmente essa è costituita da individui disposti a ubbidire per lo stipendio. Kuhn chiarisce che l’attività normale degli scienziati non si preoccupa di esaminare i motivi di fondo che giustificano i limiti e i perché del loro stesso lavoro. «Il fatto che gli scienziati non si chiedono, o non discutono, che cosa renda legittimo un particolare problema o una particolare soluzione ci induce a supporre che, almeno intuitivamente, essi conoscono la risposta. Ma può anche semplicemente indicare che né la domanda né la risposta sono considerate rilevanti per la loro ricerca». (Ib., p. 68). Ciò nega sia la posizione di Hume che quella di Popper, considerate come concezioni continuistiche della scienza. Per Kuhn la scienza, oppure una sezione di ricerca, una disciplina scientifica, non sono determinati in modo oggettivo dall’accumulazione dei risultati ottenuti o dei problemi chiariti, ma solo da alcuni “paradigmi” in base ai quali ragionano i ricercatori. Un paradigma è dato sia da intuizioni abbastanza comuni a un gruppo di ricercatori, come da regole che essi condividono e che definiscono come metodi. Più recentemente, Ludovico Geymonat e Giulio Giorello: «Ma la realtà della ricerca scientifica sperimentale si rivela ben altrimenti articolata. Nessuna teoria scientifica si limita ad accogliere passivamente i dati dell’esperienza. E del resto è la stessa nozione di dato empirico che va corretta. Quando per esempio affermiamo che un certo apparecchio fisico (sia esso costituito dalla visione diretta o dall’osservazione attraverso un telescopio, un microscopio, ecc.) ci fa scoprire un fenomeno prima sconosciuto (in altri termini: ce ne fornisce dei dati che prima ignoravamo), le cose stanno in realtà così: l’esperienza ci indica una certa direzione lungo la quale noi dobbiamo proseguire le nostre indagini per entrare in contatto più corretto con il fenomeno in esame. Ciò implica che quando osserviamo un fenomeno “nuovo”, a rigore questo si colloca accanto ad altri fenomeni già precedentemente esperiti, sicché non è un unicum privo di relazioni, ossia del tutto isolato. Esso esiste in un certo contesto culturale, ove occupa una posizione che è sempre passibile di precisazioni e integrazioni. Quando parliamo di “dati” questo termine va inteso nel senso che i risultati delle nostre osservazioni non sono creati da noi, ma sono trovati al di là della nostra volontà, sono un “altro dal soggetto”. E aggiungasi che un semplice dato dell’osservazione non è ancora di per se stesso un “dato scientifico”; lo diventerà via via che ne preciseremo i rapporti con altri dati, cioè via via che lo inquadreremo in una teoria, seguendo le indicazioni da esso forniteci. La scienza procede attraverso questa dialettica di registrazione di dati osservativi e di loro elaborazione teorica, ove non si giungerà mai a un punto che conclude definitivamente la ricerca. La presenza nella scienza dei due fattori testé riferiti sta anche alla base della dinamica delle teorie scientifiche, dinamica che non riguarda solo tali teorie ma coinvolge tutta intera la ricerca. Ciò non implica che si neghi l’esistenza di una specifica dinamica delle teorie (in particolare delle teorie matematiche), ma implica che quest’ultima non può venire compresa in tutto il suo complesso significato isolandola dalla dinamica dell’intera scienza. Si pensi per esempio alla dinamica teorica costituita dal trapasso dalla geometria di Euclide a quella di Riemann; ciò che qui si sostiene è che risulterebbe pressoché impossibile comprenderne l’importanza e l’originalità, se non si tenesse conto che ha costituito la premessa indispensabile per la costruzione della teoria generale della relatività einsteiniana. Con ciò non intendiamo certo sostenere che la dinamica delle teorie matematiche sia sempre stata suggerita dalle esigenze delle teorie che hanno per oggetto l’esperienza, ma è fuori dubbio che la dinamica del primo tipo di teorie si è spesso rivelata parallela alla dinamica del secondo tipo, tanto da trovare in essa un punto di appoggio e uno stimolo rilevante. Ne segue che la pretesa di analizzarle una separatamente dall’altra è manifestamente artificiosa e illusoria». (Le ragioni della scienza, op. cit., pp. 15-16).

Ma la tesi sostenuta dalla maggior parte degli addetti ai lavori ribatte alle preoccupazioni di Kuhn in modo da chiudere la strada all’ipotesi di una ingerenza del potere e della struttura politica. Ancora una volta è Popper il teorico più chiaro del nuovo conservatorismo progressista: «Lo scienziato “normale”, come è descritto da Kuhn, è stato male istruito. È stato educato in uno spirito dogmatico: è una vittima dell’indottrinamento. Come conseguenza è diventato ciò che possiamo chiamare uno scienziato applicato in opposizione a quello che chiamerei uno scienziato puro». (La scienza normale e i suoi pericoli, in Aa.Vv., Critica e crescita della conoscenza, tr. it. Milano 1976, p. 123). Ma Popper non chiarisce se questa presenza inquinante che sembra potersi vedere nel concetto di “scienziato applicato” sia di natura ideologica. Più che altro sembra che egli voglia indicare un pericolo generico, qualcosa che si presenti come deturpante il giusto modo di intendere la conoscenza e i processi che presiedono al suo sviluppo e alla sua possibilità di accrescimento. Per esempio, parlando di Ludwig Boltzmann, egli dice che pur essendo stato un seguace di James Clerk Maxwell, non può essere considerato uno “scienziato normale”, in quanto, per tutta la vita fu «[...] un bravo combattente che resisteva alla moda dominante del momento». (Ib., p. 124.). Ma in questo “resistere” non c’è nulla di rivoluzionario, Popper vuole indicare semplicemente l’attività di uno scienziato che non si lascia abbagliare dal mito della verità assoluta, ma che, pur restando in gran parte fedele a una certa concezione di fondo, combatte per trovare ed eliminare eventuali errori. Nulla più di questo.

La scuola di Francoforte darà anche il suo contributo, ma sempre nei limiti di una critica di restauro e di mantenimento: il dominio dell’elite scientifica e il suo rapporto di sudditanza col potere, rapporto da cui deriva un forte inquinamento dell’oggettività della conoscenza, non vengono messi in discussione. Cercando di fare risaltare, nei limiti suddetti, le condizioni concrete e le contraddizioni della società, Theodor Wiesengrund Adorno denuncia il rischio di esaltare in modo assoluto il metodo a prescindere dalla realtà oggettiva su cui viene impiegato. Egli scrive: «L’oggettività della ricerca sociale empirica è propria dei metodi, e non dell’oggetto indagato». (Sociologia e ricerca empirica, in Aa.Vv., Dialettica e positivismo in sociologia, tr. it., Torino 1972, p. 86). La sua conclusione è di tipo materialistico-dialettica e tiene conto delle condizioni contraddittorie causate dall’azione ideologica nella realtà, fatto che nega la possibilità di un’analisi obiettiva in assoluto. Così lo stesso autore: «La totalità non è una categoria affermativa, ma critica. La critica dialettica cerca di aiutare a salvare o a produrre ciò che non appartiene alla totalità, che le si oppone come potenziale di una individuazione che non esiste ancora, che si sta solo formando. L’interpretazione dei fatti guida alla totalità, senza che questa sia essa stessa. Non vi è nessun fatto sociale che non abbia il suo posto e il suo significato in quella totalità». (Ib., p. 21). Importante notare che in questo modo si attacca profondamente la tesi della totalità storica di Marx, fondata prevalentemente sulla nozione di necessità economica. Per Adorno non esiste la possibilità di un corretto dominio dell’uomo sulla natura.

Vicino a questa di Adorno la posizione di Jürgen Habermas. Se le scienze della società sono viste attraverso la lente ristretta delle scienze naturali, si finisce per ridurre il loro contenuto normativo solo a un’analisi dei mezzi, mentre nulla ci viene detto riguardo i fini. Viene, in questo modo, a fissarsi un dualismo tra fatti e decisioni che corrisponde alla distinzione tra conoscere e valutare. Ma ciò mette fuori della scienza tutti i fatti della vita privata e la riduce solo al contenuto delle ricerche sperimentali o riconducibili al quantitativo. Nella metodologia dialettico-materialista, afferma Habermas: «Le condizioni che definiscono le situazioni dell’agire pratico, si comportano come i momenti di una totalità, che non possono essere suddivisi in vivi e morti, in fatti e valori, in mezzi svalutativi e fini dotati di valore senza mancare questa totalità in quanto tale». (Epistemologia analitica e dialettica, in Aa.Vv., Dialettica e positivismo in sociologia, op. cit., p. 184). La critica delle radici remote della conoscenza è essenziale per pervenire ad un’analisi critica della prassi sociale. Ma tra queste due critiche, negative entrambi, si colloca una terza critica, quella dell’ideologia che affonda le sue radici nelle due direzioni. Il sapere e il fare, da Hegel in poi, sono stati sempre più connessi ideologicamente, separarli, o dar conto delle loro connessioni, diventa sempre più urgente.

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“Lungi dal sentire il valore epistemologico fondamentale del giudizio isolato, si pretende spesso d’impedire ogni frammentazione della conoscenza. Si esige una costante integrazione del particolare non soltanto nel generale, ma nell’universale. Il calcolo cartesiano – questa triangolazione della generalità – può soltanto collezionare dei punti di riferimento: esso non sarebbe in grado di sopperire alla conoscenza inventiva e aleatoria, che deve conservare un elemento di libertà (azione nascente) e che non può essere obbligata a sistematizzare tutti i suoi tentativi. La molteplicità e l’eterogeneità delle ipotesi e delle teorie, con le quali si compie un breve cammino e che poi si abbandonano, sono parse uno scandalo della fisica maxwelliana. Il fatto è che ci si augurava, precisamente, una unificazione completa e senza rapporti con le possibilità scientifiche attuali, quasi il mondo, nel suo insieme, fosse un soggetto possibile di esperienza umana. Si tratta dunque di unificazione più che di unità. Questa unificazione, come ogni azione, deve rimanere parziale. Ciò che Kant ha visto nell’atto unificatore dell’“io penso” è ciò che si potrebbe forse chiamare la soggettivazione grammaticale dei predicati multipli. Mentre l’esperienza ci mette in contatto con degli attributi, lo spirito inserisce il soggetto in una collezione più o meno compatta; solo da quel momento tale collezione viene considerata come effettivamente pensata. Essa può dar luogo a un giudizio di verifica che torna, dal soggetto così costituito, ai predicati, e di conseguenza all’esperienza”.

(Gaston Bachelard, Essai sur la connaissance approchée)

Capitolo V

Il marxismo non ha mai sviluppato una vera e propria critica della scienza, ma ha sempre preteso di dare una critica della scienza “borghese”, critica condotta attraverso la giustapposizione della scienza pretesa proletaria, esemplificata dalle ricerche e dalle conoscenze realizzate nei paesi del cosiddetto socialismo reale. Incomparabilmente Fëdor M. Dostoevskij: «Vedete: la ragione, signori, è una bella cosa, non se ne discute, ma la ragione è soltanto ragione e soddisfa soltanto la facoltà raziocinativa dell’uomo, laddove il volere è manifestazione di tutta la vita, ossia di tutta la vita dell’uomo, ragione e sue prurigini comprese. E sebbene la nostra vita, in tale manifestazione, risulti spesso essere molto misera cosa, ma è però sempre la vita, e non già solamente un’estrazione di radice quadrata. Ed è per esempio del tutto naturale che io voglia vivere soddisfacendo a tutte le mie facoltà vitali e non alla sola facoltà raziocinativa, ossia alla ventesima forse parte sull’intera somma delle mie facoltà vitali. Che cosa sa la ragione? La ragione sa soltanto quello che le è riuscito di conoscere (e magari certe cose non le conoscerà mai; questo non è forse edificante, ma perché nasconderselo?), mentre la natura umana agisce tutta intera, con tutto quanto contiene in sé, coscientemente e incoscientemente, e se anche mentisca vive però. Sospetto, signori, che mi stiate guardando con compassione; volete forse ripetermi che un uomo illuminato ed evoluto, insomma quale sarà l’uomo futuro, non può scientemente volere qualcosa di contrario al proprio interesse, e che questa è matematica. Perfettamente d’accordo, è proprio matematica. Ma, ve lo ripeto per la centesima volta, c’è però un caso, un unico caso, in cui l’uomo può di proposito e in piena coscienza desiderarsi addirittura il male, e cose assurde e stupide, stupidissime se volete con questo preciso scopo: avere il diritto di desiderarsi cose stupidissime e non esser tenuto a desiderarne solo d’intelligenti. Perché, quella stupidissima cosa, quel capriccio, può nel fatto, signori, essere al nostro simile piú profittevole di tutto quanto si dà al mondo, specie in certi casi. E, per dir tutto, può essere piú profittevole di qualunque profitto anche nel caso che ci produca un male evidente e che contrasti alle piú corrette conclusioni dei nostri ragionamenti su ciò che è profittevole, e ciò perché in ogni caso ci conserva la cosa più importante e preziosa, ossia la nostra personalità e individualità. E c’è chi afferma che questa è davvero la cosa che l’uomo tiene piú cara; certo la volontà può anche, se vuole, accordarsi colla ragione, specie se di questa non si faccia cattivo impiego e ove se ne usi moderatamente; il quale accordo è cosa utile e persino talvolta lodevole. Ma gli è che spessissimo, e anzi nella maggior parte dei casi, la volontà contraddice apertamente e cocciutamente alla ragione». (Ricordi dal sottosuolo, tr. it., Milano 1975, pp. 48-49).

Qui cercheremo di dar conto della critica di Marx e di altri teorici classici marxisti della scienza, e poi cercheremo di indicare i limiti e la validità dell’affermazione di cui sopra.

Vi sono stati diversi tentativi (Cfr. G. Barletta, Introduzione a Marx-Engels-Lenin, Sulla scienza, Bari 1977), di far passare Marx come precursore dei moderni critici marxisti della scienza. La cosa non ha praticamente fondamento. Per Marx la scienza attraversa ben precise fasi di sviluppo in quanto è una delle forze produttive che intervengono come tecnologia nel processo di produzione complessivo. Quando accade a Marx di far riferimento a un modello di precisione che vorrebbe imitare per le sue ricerche, egli, come tutti in quell’epoca, fa riferimento alle scienze naturali. Nella Prefazione al Primo volume della prima edizione del Capitale scrive: «Il fisico osserva i processi naturali nel luogo dove essi si presentano nella forma più definita e meno offuscata da influssi perturbatori, oppure, quando è possibile, fa esperimenti in condizioni tali da garantire lo svolgimento del processo allo stato puro». (Citato in Marx-Engels-Lenin, Sulla scienza, op. cit., pp. 266-267). Scrivendo ad Annenkov nel 1846 Marx afferma: «Che cosa è dunque la società qualunque sia la sua forma? È il prodotto dell’azione reciproca degli uomini. Sono forse liberi gli uomini di scegliere questa o quella forma sociale? Affatto. Supponete un certo grado di sviluppo delle forze produttive degli uomini, e avrete una corrispondente forma di commercio e di consumo. È superfluo aggiungere che gli uomini non sono liberi signori delle loro forze produttive – che sono la base di tutta la loro storia, – perché ogni forza produttiva è una forza acquisita, è il prodotto di una attività anteriore». (La lettera a Annenkov del 28 dicembre 1846 si trova in Scritti filosofici, tr. it., Roma 1945, pp. 5-6). Nel Capitolo VI inedito del Capitale, pubblicato da appena un decennio [1969] si legge: «La scienza come prodotto intellettuale generale dell’evoluzione sociale appare essa stessa come direttamente incorporata al capitale (e la sua applicazione in quanto scienza al processo di produzione materiale appare come distinta dal sapere e dalle capacità del singolo operaio), e lo sviluppo generale della società, essendo sfruttato dal capitale – e agendo come forza produttiva del capitale – di contro al lavoro, appare a sua volta come sviluppo del capitale, e ciò tanto più in quanto, per la grande maggioranza, gli si accompagna di pari passo uno svuotamento della capacità lavorativa». (K. Marx, Il Capitale, Libro I, cap. VI [inedito], tr. it., Firenze 1969, p. 89).

In un altro brano inedito Marx scrive: «La scienza opera come forza estranea, ostile al lavoro e su di esso dominante; e il suo impiego riposa sulla separazione delle forze spirituali del processo delle conoscenze, nozioni e capacità del singolo operaio, esattamente come l’accumulazione e lo sviluppo delle condizioni di produzione e loro trasformazione in capitale riposano sulla privazione-separazione dell’operaio da queste condizioni». (“Due inediti di Marx”, in “Rassegna sovietica”, n. 4, 1958, pp. 159-160).

E più chiaramente ancora in un altro inedito pubblicato dalla stessa rivista: «Lo sviluppo delle scienze sociali naturali (ed esse formano la base di ogni conoscenza), come ogni scienza avente riferimento al processo produttivo, si svolge di nuovo sulla base della produzione capitalistica che in certa misura crea per la prima volta per le scienze mezzi materiali di indagine, osservazione, sperimentazione. Gli uomini di scienza, in quanto le scienze utilizzano il capitale come mezzo di arricchimento e con ciò stesso divengono mezzo di arricchimento anche per gli uomini che si occupano dello sviluppo della scienza, entrano in concorrenza tra loro nell’intento di trovare applicazione pratica a questa scienza». (Ib., p. 160).

Come si è chiarito prima, la scienza è, secondo Marx, una delle forze produttive. In sostanza, per Marx come per altri teorici socialisti rivoluzionari della sua epoca, si pone la contemporanea accettazione del mito della scienza determinista e l’aspirazione a una società diversa capace di modificare la struttura sociale del dominio, quindi anche della scienza. Saranno, ancora una volta, i continuatori, a partire dalle grosse responsabilità di Engels, a cristallizzare il processo della nuova scienza in scienza proletaria, ottenibile con la semplice applicazione di princìpi metodologici ritenuti rivoluzionari ma sostanzialmente specifici del clima scientifico dell’epoca in cui vennero formulati. In questo modo la legittimità proletaria della nuova scienza verrebbe a essere basata sulla conquista del potere da parte di una minoranza rivoluzionaria: fondamento metodologico che oggi fa ridere ma che condusse diretto alle incredibili affermazioni dell’epoca staliniana.

Lo scritto di Engels Dialettica della natura fornisce le basi della prima grossa sclerotizzazione delle posizioni di Marx. Come l’Antidühring era stato una specie di volgarizzazione per il partito socialdemocratico, quindi una specie di enciclopedia facile in cui tutte le preoccupazioni teoriche dovevano trovare semplice soluzione; così la Dialettica della natura dimostra il suo sostanziale e ingenuo positivismo ottocentesco. «Siamo tutti d’accordo sul fatto che in ogni campo della scienza, nella natura come nella storia, bisognava prendere le mosse dai fatti a noi dati, nelle scienze naturali quindi dalle diverse forme oggettive e di movimento della materia; che quindi i nessi, anche nella scienza teorica della natura, non devono essere introdotti bell’e costruiti nei fatti, ma debbono essere scoperti partendo da essi, e, una volta scoperti, debbono essere dimostrati sperimentalmente, per quanto è possibile». (Dialettica della natura, tr. it. Roma 1967, p. 61). Posizione, come è chiaro, regolare, cioè in linea con le illusioni oggettivistiche della scienza del tempo di Engels. E nell’Antidühring: «L’aver compreso che la totalità dei fenomeni della natura sta in un nesso sistematico, spinge la scienza a dimostrare questo nesso sistematico dappertutto, così nel particolare come nell’insieme». (Antidühring, tr. it., Roma 1968, p. 40).

Il Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo riprende le tesi di Engels dopo che in Che cosa sono gli “Amici del popolo” aveva accennato a un ritorno alle posizioni più originali di Marx sul problema del rapporto tra determinismo e materialismo dialettico. Così scrive: «Essere materialisti vuol dire ammettere la verità obiettiva che ci è rivelata dagli organi dei sensi. Ammettere la verità obiettiva, e cioè la verità indipendente dall’uomo e dal genere umano, vuol dire ammettere, in un modo o nell’altro la verità assoluta». (Materialismo ed Empiriocriticismo. Note critiche su una filosofia reazionaria, tr. it., Roma 1953, p. 120). Nel 1894 Lenin scrive Che cosa sono gli “Amici del popolo”, cioè un anno prima della morte di Engels. Il determinismo meccanico della Dialettica della natura non è ancora prevalso nel pensiero leninista, come accadrà più avanti, nel momento in cui la sconfitta della rivoluzione nel 1905 lo spinge a una accentuazione dell’assorbimento della scienza nella politica. «L’analisi dei rapporti sociali materiali (vale a dire dei rapporti che si formano senza passare attraverso la coscienza degli uomini: scambiando i prodotti, gli uomini entrano in rapporti di produzione, anche senza essere consci che qui si ha un rapporto sociale di produzione) ha subito reso possibile di rilevarne la reiterabilità e la regolarità e di generalizzare gli ordinamenti di diversi paesi in modo da giungere a un unico concetto fondamentale di formazione sociale. Soltanto questa generalizzazione ha permesso di passare dalla descrizione (e dalla valutazione dal punto di vista di un ideale) dei fenomeni sociali all’analisi rigorosamente scientifica di tali fenomeni, individuando, per spiegarci con un esempio, ciò che distingue un paese capitalistico dall’altro e analizzando ciò che è comune a tutti». (Che cosa sono gli “amici del popolo”, in Marx-Engels-Lenin, Sulla scienza, op. cit., pp. 430-431).

Stalin estende direttamente il determinismo sopradescritto a fondamento della prassi politica del partito: «È facile comprendere di quale immensa importanza sia l’estensione dei princìpi del materialismo filosofico allo studio della vita sociale, allo studio della storia della società, di quale enorme importanza sia l’applicazione di questi princìpi alla storia della società, all’attività pratica del partito del proletariato. Se è vero che i legami tra i fenomeni della natura e il loro reciproco condizionamento rappresentano delle leggi necessarie dello sviluppo della natura, vuol dire che l’attività pratica del partito del proletariato deve fondarsi sullo studio di queste leggi». (Questioni del leninismo, tr. it., Roma 1952, p. 655).

Le conseguenze grottesche di questa posizione, indicata nell’URSS con la parola “diamat”, non si sono concluse col periodo staliniano ma persistono ancora [1981] sebbene in modo più attenuato. In sostanza si tratta di utilizzare appieno princìpi metodologici prodotti da quel mondo che viene giustamente considerato borghese e reazionario, e dichiararli, congelandoli, princìpi della scienza proletaria solo perché vengono utilizzati da uno Stato e da un apparato scientifico che si definiscono proletari. Ne consegue che ogni ulteriore approfondimento di quei princìpi, portato avanti dalla scienza (sempre di quel mondo borghese e reazionario) viene considerato una negazione dei risultati ottenuti dal socialismo reale e non un semplice approfondimento e uno sviluppo della metodologia. Questi approfondimenti infatti si aspettano dall’attività stessa dello Stato cosiddetto proletario e della sua burocrazia scientifica, cosa che oggettivamente non risulta possibile dato che, a prescindere da ogni altra cosa, quei princìpi iniziali, trasferiti nella cosiddetta scienza proletaria, vennero dichiarati una volta per tutte verità assoluta. Il “diamat” definisce scienza borghese la scienza dei paesi capitalisti con in testa gli USA, e scienza proletaria la scienza dell’URSS che viene, a sua volta, identificata con le tesi più deterministe di Engels. Gli elementi che spinsero a questa ridicola messa in scena furono: la necessità di fondare scientificamente la teoria del partito del proletariato, la chiusura dovuta alla tesi del socialismo in un solo paese e il movimento stakhanovista.

Il terrorismo teorico di Marx si era infatti limitato a dichiarare “scientifico” il proprio socialismo, contrapponendolo a quello degli utopisti francesi, ma non aveva spiegato con chiarezza il metodo in base al quale questa scientificità rendeva superiore le proprie tesi. In più egli non aveva spiegato se il metodo scientifico da lui sottinteso potesse subire miglioramenti in futuro. Se la costruzione della Seconda Internazionale e del Partito socialdemocratico tedesco poteva essere fatta con gli umanismi di Bernstein e Kautsky, prevedendo una conquista parlamentare del potere. La stessa cosa non poteva valere per il partito rivoluzionario bolscevico che il potere lo aveva conquistato e che lo voleva mantenere. Per Bernstein la scienza pura deve seguire i princìpi metodologici scoperti da Comte, la morale pura i princìpi scoperti da Kant. Su questo punto Kant aveva scritto: «In campo morale la ragione umana, anche nell’intelletto più comune, giunge facilmente a una grande correttezza e completezza. Facile sarebbe infatti mostrare come essa sia perfettamente in grado di distinguere, in tutti i casi che si presentano, che cosa è bene e che cosa è male, che cosa è conforme a dovere e che cosa col dovere contrasta: basta per questo, senza insegnarle assolutamente nulla di nuovo, fare come Socrate: renderla attenta al suo proprio principio, senza che essa abbia bisogno di scienza e di filosofia, per sapere che cosa debba fare se ha da essere onesta e buona, e perfino saggia e virtuosa. Era, del resto, presumibile fin da principio che la conoscenza di ciò che l’uomo è obbligato a fare, quindi anche a sapere, sia alla porta di ogni uomo, anche del più comune». (Fondazione della metafisica dei costumi, tr. it., Milano 1994, Prefazione). Una delle critiche che Bernstein fa a Marx è proprio quella di non avere fatto una distinzione del genere e di avere confuso scienza della natura e scienze dello spirito. Per Kautsky il modello della scienza dovrebbe essere l’evoluzionismo alla Darwin, e la cosiddetta scienza marxista non dovrebbe fare eccezioni. Riguardo le critiche a Marx, Kautsky accetta le tesi di Bernstein. Sebbene tra la Seconda e la Terza Internazionale vi sia continuità logica, esse necessitavano, di fronte a situazioni conflittuali diverse, di strumenti teorici adeguati e quindi anch’essi differenti. Ciò non vuole essere una giustificazione del “diamat”, che a parte le sue tragiche conseguenze sul piano concreto degli eccidi di massa e dei campi di concentramento, fa un poco sorridere, ma vuole indicare le conseguenze ineluttabili a cui va incontro chi si pone nell’ottica del partito rivoluzionario. Tutto gli si sclerotizza davanti, anche il pensiero e la stessa scienza, tutto si trasforma in un modello fisso che deve essere imposto anche con la forza.

Con l’avvento della tesi del socialismo in un solo paese e con il conseguente nazionalismo, strumento indispensabile per vincere la guerra contro Hitler, ma strumento a doppio taglio, l’esaltazione di una scienza nazionale cammina di pari passo con l’esaltazione di una filosofia, una letteratura, un’arte, un cinema, un teatro nazionali. Molto interessante l’elaborazione di Walter Kaufmann: «La più ridicola affermazione di Popper è che i nazisti derivarono il loro razzismo da Hegel. In realtà, i nazisti non derivarono il loro razzismo da Hegel, ed Hegel non fu razzista. I nazisti trovarono un qualche sostegno per il loro razzismo in Schopenhauer, col quale Popper fa continuamente causa comune contro Hegel, e in Richard Wagner, sul quale Popper eccentricamente insinua che fu in parte hegeliano, benché fosse, naturalmente, un devoto discepolo di Schopenhauer. Popper dichiara che un W. Schallmeyer, quando scrisse un saggio premiato nel 1900, “così divenne l’avo della biologia razziale”. Qual era, allora, la posizione dei meglio conosciuti e più influenti Gobineau e Chamberlain e di tanti altri scrittori che pubblicarono le loro opinioni prima del 1900 e furono letti moltissimo e continuamente citati dai nazisti? Popper ci dà un epigramma: “La formula del razzismo moderno non è ‘Hegel+Platone’, ma ‘Hegel+Haeckel’”. Perché Haeckel piuttosto che Bernhard Förster, Julius Langbehn, Stöcker, Chamberlain, Gobineau, o Wagner? Perché non Platone, sulle cui riflessioni sull’allevamento, l’autorità per quanto concerne la razza dominante dei nazisti, il Dr. Hans F. K. Giinther, scrisse un intero libro e l’opuscolo di Günter sulla razza fu venduto in centinaia di migliaia di copie in Germania ed ebbe parecchie edizioni ancor prima del 1933? [...]. E perché Hegel? Decisamente, Hegel non fu razzista; e Popper non adduce alcuna testimonianza per dimostrare che lo fu. Popper, tuttavia, dice: “La transustanziazione dell’hegelismo in razzismo o dello Spirito nel Sangue non altera in maniera radicale la tendenza di fondo dell’hegelismo”. Forse che la transustanziazione di Dio nel Führer non altera in maniera radicale il Cristianesimo? Si può simpatizzare con G. R. G. Mure là dove dice che gli attacchi sempre più violenti e mal informati ad Hegel hanno toccato il capitolo popperiano su Hegel un punto in cui essi diventano “quasi insignificantemente sciocchi”. Ma la familiarità con Hegel è declinata dai recensori dell’edizione originale di The Open Society and Its Enemies, mentre hanno espresso delle riserve circa il trattamento di Platone e Aristotele, in genere non hanno ritenuto opportuno protestare contro il trattamento riservato ad Hegel; e nella bandina dell’edizione inglese Bertrand Russell chiama ora l’attacco a Hegel “mortale” – per Hegel. Fin dal tempo della pubblicazione dell’edizione americana nel 1950, John Wild e R. B. Levinson hanno pubblicato un libro ciascuno per difendere Platone dagli attacchi di Popper e di altri critici che pensano allo stesso modo, e il libro Defense of Plato di Levinson va molto lontano nello smascherare i metodi di Popper. Ma i dieci capitoli di Popper su Platone, benché fallaci, contengono molte osservazioni eccellenti, e il suo libro è così denso di interessanti discussioni che nessuna denuncia potrà relegarlo nel limbo dei libri dimenticati. The Open Society girerà ancora per molto tempo, ed è per questo che il suo trattamento di Hegel merita un capitolo. Ciò che è importante, in ultima analisi, non è il venir meno di un autore, bensì il crescere della popolarità del mito di Hegel e dei metodi dai quali dipende. Per citare ancora una volta 1’Ecce Homo di Nietzsche, “lo mi servo della persona soltanto come una lente di ingrandimento con la quale si può rendere visibile una calamità generale ma crescente, di cui d’altra parte è difficile comprendere il significato”. A Popper deve essere concessa l’ultima parola. E nessun critico della sua opera potrebbe fare alcunché di peggio che citare a proprio vantaggio quel che Popper dice per giustificare la sua critica di Toynbee: “Considero quest’opera degna di ogni rispetto e molto importante [...]. Egli dice molte cose estremamente stimolanti e provocanti [...]. Concordo anche con molte delle tendenze politiche espresse nella sua opera e soprattutto condivido il suo attacco contro il nazionalismo moderno e contro le tendenze tribalistiche e ‘arcaiche’, cioè culturalmente reazionarie, che sono con esso connesse. La ragione per cui, nonostante tutto ciò, scelgo la monumentale opera [...] per denunciarne l’irrazionalità, sta nel fatto che soltanto quando vediamo gli effetti di questo veleno in un’opera di tanto pregio possiamo valutarne a pieno il pericolo”». (From Shahespeare to Existentialism, ns. tr., New York 1960, pp. 126-128).

Il movimento stakhanovista si basò sulla tesi dell’emulazione socialista che era indispensabile per portare a completamento l’industrializzazione dell’URSS. La grottesca conseguenza sarà che la società comunista avrà la caratteristica di essere una società che garantisce il diritto al lavoro non per sé ma per lo Stato.

Il caso più straordinario del diamat fu quello che viene definito il caso Lysenko in cui vennero inventati di sana pianta risultati di esperimenti e imposti con la forza del partito anche all’estero. Il massimo della farsa si ebbe in Francia dove scienziati di valore per il solo fatto di essere legati al Partito comunista si lasciarono andare a incredibili dichiarazioni di meschino servilismo.

Il caso Lysenko, famosissimo esempio di come andavano le cose nell’URSS in un momento in cui la dittatura staliniana dominava incontrastata, riguarda la polemica tra la biologia sovietica rappresentata da Miciurin e la biologia classica di Mendel e Morgan. La prima sviluppava una critica della distinzione tra soma e genoma come era stata impostata dalla biologia classica e portava a sostegno i risultati di esperimenti che però poi si dimostrarono falsi. Questi esperimenti vennero diffusi sia in URSS che all’estero come la prova della vittoria della scienza socialista e anche come la dimostrazione che gli specialisti erano stati sconfitti (Miciurin era un ferroviere in pensione che coltivava piante nel suo orticello). Da notare che è una caratteristica mossa della tecnoburocrazia al potere quella di propagandare la possibilità che un uomo del popolo, un qualsiasi operaio, possa arrivare ai risultati degli specialisti e addirittura dimostrarli infondati: ciò conforta la povera gente e fa meglio sopportare il dominio degli specialisti.

In Occidente l’episodio più clamoroso di asinesca accettazione della propaganda sovietica si ebbe in Francia dove nel 1950 la rivista degli intellettuali del Partito comunista francese, “La Nouvelle Critique” organizzò un incontro su “scienza borghese e scienza proletaria” in onore di Lysenko. Uno degli articoli più clamorosi fu quello di Francis Cohen che scrisse: «Per un comunista Stalin è la più alta autorità scientifica del mondo. Ecco che la questione dell’“argomento di autorità” viene singolarmente rischiarata. Mettere in dubbio un’affermazione fatta in tali circostanze, è mettere in dubbio, contro l’evidenza, l’efficacia, la giustezza, l’unità dello stalinismo. Significa assimilare uno scienziato proletario impegnato nella costruzione del comunismo a uno scienziato borghese, privo di teoria direttrice, irresponsabile». (“Mendel, Lysenko e il ruolo della scienza” in “La Nouvelle critique”, n. 13, febbraio 1950, ns. tr., p. 61).

Anche un matematico di valore come Jean-Toussaint Desanti definiva la scienza sovietica come “scienza staliniana e quindi scienza rigorosa”. Desanti fece parte di una commissione scientifica del Partito comunista francese, costituita apposta nel 1949 per studiare il problema suscitato dalla polemica di Lysenko. Il presidente di questa commissione era Victor Joannes.

Il sopraccitato articolo di Cohen concludeva: «Non può più esserci compromesso ideologico in materia di scienza come in materia di lotta sindacale e di lotta per la pace. La lotta della classe operaia si conduce anche nei laboratori, e la via della vittoria è, in tutti i campi, indicata dai paesi della classe operaia al potere, dal suo partito bolscevico e da Stalin, la guida dei lavoratori e il più grande scienziato dei nostri tempi». (Ib., p. 70).

* * * * *

“Il realista afferma che, di fatto, il corpuscolo – come tutti i corpi – deve avere una grandezza determinata. Un dibattito simile, però, sarebbe un dibattito in cui il realista filosofo si troverebbe a parlare da solo, perché il realista fisico non sarebbe in grado di concepire alcuna misura delle dimensioni del corpuscolo; o meglio ancora, egli nota con assoluta evidenza l’impossibilità di una tale misura, giacché la nozione di strumento, al livello della microfisica, è un’assurdità. Ogni strumento, infatti, è un oggetto della vita comune. Da ultimo, l’ordine di grandezza di un corpuscolo potrebbe essere soltanto inferito, e solo i metodi di inferenza possono allora essere presi in discussione. Correlativamente, se il corpuscolo non ha dimensioni assegnabili, non ha nemmeno una forma assegnabile. In altri termini, l’elemento non ha geometria. Questo fatto deve essere posto alla base della filosofia corpuscolare moderna. È un fatto di grande novità filosofica. La geometria interviene solo nella composizione degli elementi, e solo quando questa composizione è possibile. Dal punto di vista della conoscenza dei fenomeni e delle sostanze, la geometria appare un gioco di punti e di direzioni. Sembra che la composizione susciti delle orientazioni, di cui si può affermare un’esistenza virtuale negli elementi prima della composizione”.

(Gaston Bachelard, La valeur inductive de la relativité)

Capitolo VI

Non esiste una vera e propria critica della scienza fatta dagli anarchici. Come vedremo, quasi sempre gli anarchici si sono limitati a una presa di distanza dalla scienza, affermando utilizzabili i suoi risultati, con opportune cautele, anche dopo la rivoluzione sociale, mentre hanno indirizzato tutte le loro attenzioni verso la posizione degli scienziati e i loro rapporti col vecchio e col nuovo potere. In questa direzione le loro tesi sono quanto mai importanti e attuali. Nel caso in cui, come per Kropotkin, hanno affrontato specificamente il problema del metodo scientifico, prendendo posizione, si sono mantenuti nei limiti che lo sviluppo scientifico della loro epoca consentiva, e non poteva essere diversamente.

Prendiamo due scienziati del secolo scorso, due eminenti scienziati: Kropotkin e Élisée Reclus, ambedue anarchici militanti. La loro concezione della scienza è chiaramente determinista, ma le loro conclusioni rivoluzionarie sono diverse, tengono conto di elementi come l’entusiasmo, la creatività, la distruttività rivoluzionaria, ecc. Sono proprio questi elementi che finiscono per modificare anche l’impostazione teorica da loro data al problema della scienza. Solo che ognuno legge, in fondo, quello che vuole leggere, e non ci si deve meravigliare che almeno uno degli scritti di Reclus (si tratta dello scritto teorico più articolato: L’evoluzione, la rivoluzione e l’ideale anarchico) e molti scritti di Kropotkin (in modo particolare: La scienza moderna e l’anarchia, L’etica, Il mutuo appoggio, Campi, fabbriche e officine) siano stati letti come un invito all’attesa e alla rassegnazione. Da qui conseguenze negative che però si possono imputare fino a un certo punto a Kropotkin (il Manifesto dei sedici costituisce un caso a parte) e a Reclus.

Quest’ultimo scrive: «L’evoluzione è il movimento infinito e continuo di ciò che esiste, la trasformazione incessante dell’universo e di tutte le sue parti, fin dalle origini eterne e lungo tutto l’infinito svolgersi dei tempi. Le vie lattee, il nostro sistema solare, gli oceani, le generazioni di piante, di animali e di uomini, tutto ciò non è che un fenomeno della grande evoluzione. In confronto [ad essa] che cosa sono tutti i piccoli avvenimenti che noi chiamiamo rivoluzioni, – astronomiche, geologiche o politiche? Non altro che vibrazioni quasi inavvertite e, per dir così, delle apparenze!». (L’evoluzione, la rivoluzione e l’ideale anarchico, in Scritti sociali, tr. it., Bologna 1951, p. 85). Così inizia lo scritto teorico più completo di Reclus, ma il suo seguito, il suo armonico svolgimento è tutto un appello all’azione umana, all’impegno rivoluzionario, alla lotta contro lo sfruttamento. E non si tratta di contraddizione. Certo chi ama leggere solo il primo aspetto, il debito dello scienziato Reclus, mette in secondo piano il secondo aspetto, l’entusiasmo del rivoluzionario Reclus. Lo stesso si dica, in modo più ampio, per Kropotkin.

Questi cerca di realizzare un sistema scientifico abbastanza completo, capace di dare spiegazione anche dell’anarchia. Non si tratta soltanto di un riferimento di metodo, ma di una vera e propria sistemazione che, come è facile capire, trova i limiti della scienza ottocentesca. Egli scrive: «L’Anarchia è una concezione dell’universo, basata sull’interpretazione meccanica dei fenomeni, che abbraccia tutta la natura, non esclusa la vita delle società. Il suo metodo è quello delle scienze naturali; e secondo questo metodo ogni conclusione scientifica deve essere verificata. La sua tendenza è di fondare una filosofia sintetica, che si estenda a tutti i fatti della natura, compresa la vita delle società umane e i loro problemi economici, politici e morali». (La scienza moderna e l’anarchia, tr. it., Ginevra 1913, p. 49). Riguardo al metodo egli prende le distanze dalla dialettica a favore del metodo induttivo-deduttivo: «Noi non ammettiamo affatto questo metodo [il metodo dialettico], come del resto non lo riconosce nessuna delle scienze naturali. Per il naturalista moderno, questo “metodo dialettico” appare come qualcosa di molto vecchio, di superato. Nessuna delle grandi scoperte si deve al metodo dialettico. Tutte invece sono frutto del metodo induttivo-deduttivo, il solo veramente scientifico». (Ib., p. 52). Nel suo libro sull’etica Kropotkin afferma di volere esaminare «[...] come sia possibile edificare un’etica scientifica con gli elementi acquisiti a questo scopo dalle ricerche moderne fondate sulla teoria dell’evoluzione». (L’etica, tr. it., II ed., Catania 1972, p. 29). Queste tesi principali, sviluppate in modo organico in moltissime pubblicazioni di alto livello, trasformarono Kropotkin in un punto di riferimento obbligato per gli anarchici, causando indirettamente un’accettazione quasi obbligata delle sue posizioni teoriche, in quanto non si trovava chi osasse sviluppare una critica coerente e altrettanto esauriente. Lo stesso Malatesta, che svilupperà nel 1931 una critica soddisfacente, prima della morte di Kropotkin aveva scritto molto poco sull’argomento. Nel 1913 scriveva: «Noi non siamo anarchici perché la scienza ci dice di esserlo: lo siamo invece, fra le altre ragioni, perché vogliamo che tutti possano godere dei vantaggi e delle gioie che la scienza procura» (“Anarchismo e scienza”, in “Volontà”, 27 dicembre 1913, citato in Errico Malatesta, Vita e idee, a cura di V. Richards, tr. it., Catania 1968, p. 42), che se in poche parole racchiude la contrapposizione tra determinismo e volontarismo, non è certo sufficiente per mettere in difficoltà l’opera di Kropotkin. E di questo Malatesta ammette la fondatezza e riconosce anche la propria responsabilità per non avere fatto prima quelle critiche che sarebbero state necessarie. Nel 1931 Malatesta scrive: «Sarebbe dunque opportuno il sottomettere gl’insegnamenti di Kropotkin ad una critica severa e senza prevenzioni per distinguere ciò che in essi è sempre vero e vivo da ciò che il pensiero e l’esperienza posteriori possono aver dimostrato erroneo. Cosa d’altronde che non riguarderebbe solo Kropotkin, poiché gli errori che si possono rimproverare a lui erano già professati dagli anarchici prima che Kropotkin acquistasse una posizione eminente nel movimento: egli li confermò e li fece durare dando loro l’appoggio del suo talento e del suo prestigio, ma noi, i vecchi militanti, vi abbiamo tutti, o quasi tutti, la nostra parte di responsabilità». (“P. Kropotkin. Ricordi e critiche di un vecchio amico”, in “Studi Sociali”, 15 aprile 1931).

Questo argomento è importante in quanto prova che i pericoli dell’autorevolezza possono, qualche volta, avvicinarsi ai pericoli dell’autorità. Di fronte alle manifestazioni di un più o meno volontario elitismo gli anarchici non so fino a che punto siano anche oggi sufficientemente preparati a resistere. In fondo il bisogno di catechismi, specie se ben fatti e ricchi di scientificità, permane costante. Delegare agli altri, ai compagni più preparati il compito dell’analisi e riservarsi per sé il compito dell’azione (spesso più affascinante e romantica) è un residuo involontario della divisione capitalistica del lavoro. Quando, per motivi contingenti e tecnici, un compagno si viene a trovare in questa situazione, gli altri compagni devono costantemente tenerlo d’occhio, seguire le sue analisi con spirito critico (non con astio gratuito e distruttivo), suggerendo le proprie obiezioni senza paura che risultino ingenue o approssimative. Comunque, dentro i limiti del possibile, i problemi teorici dovrebbero essere affrontati a un livello sufficientemente serio, dal maggior numero di compagni.

Tornando alla critica di Malatesta questi giustamente individua in Kropotkin un seguace di Moleschott, Büchner, Vogt, ecc., e quindi un pensatore rigorosamente legato al meccanicismo determinista. Così continua: «Secondo il suo sistema, la volontà (potenza creatrice di cui noi non possiamo comprendere la natura e la sorgente, come del resto non comprendiamo la natura e la sorgente della “materia” e di tutti gli altri “primi princìpi”) la volontà, dico, che contribuisce poco o molto a determinare la condotta degli individui e delle società, non esiste, non è che un’illusione. Tutto quello che fu, che è e che sarà, tutto doveva, deve e dovrà accadere per una sequela fatale di cause e di effetti di natura meccanica, che non lascia nessuna possibilità di variazione». (Ibidem). Anche Malatesta ammette che l’entusiasmo, l’amore degli uomini, la simpatia per i poveri e gli oppressi erano in Kropotkin ben al di sopra dei limiti del suo sistema scientifico; ma ammette pure che le conseguenze di una simile interpretazione della scienza possono essere gravissime per la rivoluzione sociale. Così molti compagni arrivarono alla conclusione – continua Malatesta – che la «rivoluzione verrà quando sarà il suo tempo, ed è inutile, antiscientifico e perfino ridicolo il volerla fare». (Ibidem).

Da questa critica puntuale di Malatesta al determinismo di Kropotkin esce abbastanza chiaro il pensiero dell’anarchico italiano sul problema della scienza. Solo che anche lui non fa eccezione nell’accettare la scienza come un dato di fatto e nello spostare l’attenzione sull’attività sociale come se si trattasse di due settori nettamente separati: il campo delle scienze della natura e quello delle scienze sociali (cioè dell’attività rivoluzionaria in seno alla società). In fondo l’errore di Kropotkin era stato quello di applicare il meccanicismo alla lotta sociale e alla struttura della società, ma non era stato certo quello di tenere separate la scienza della natura dalla scienza della società. L’unione da lui suggerita era deleteria perché annegava questa nel determinismo cieco di quella; ma una visione diretta a separare i due settori ha pericoli diversi e non meno gravi.

Scrive Malatesta definendo la scienza: «La scienza è la raccolta e la sistemazione di ciò che si sa, o si crede sapere: dice il fatto e cerca di scoprire la legge del fatto, cioè le condizioni nelle quali il fatto necessariamente avviene e si ripete. Essa soddisfa certi bisogni intellettuali ed è nello stesso tempo strumento validissimo di potenza. Mentre indica nelle leggi naturali il limite all’arbitrio umano, accresce la libertà effettiva dell’uomo dandogli modo di volgere quelle leggi a proprio vantaggio. Essa è uguale per tutti e serve indifferentemente per il bene o per il male, per la liberazione come per l’oppressione». (“Scienza e Anarchia”, in “Pensiero e Volontà”, 1 luglio 1925, citato in Errico Malatesta, Vita e idee, op. cit., pp. 45-46). Emerge qui il concetto meccanicistico di oggettività che Malatesta attribuisce alla scienza. Queste parole, che sono state scritte nel 1925, avrebbero forse potuto essere diverse considerando anche il fatto che, come ha notato Fabbri, Malatesta era un uomo molto attento agli svolgimenti teorici del suo tempo in filosofia e in scienza (cfr. Malatesta. L’uomo e il pensiero, Catania 1979, p. 85), ma non lo sono perché gli interessi di Malatesta erano quelli del militante rivoluzionario che crede di poter mettere da parte la posizione teorica per meglio arrivare alle conseguenze pratiche dell’azione. Si tratta di un errore che si può riassumere nelle sue parole: «Si può essere anarchici qualunque sia il sistema filosofico che si preferisce». (“Scienza e Anarchia”, op. cit. p. 45).


Propriamente non si può essere anarchici partendo da basi spiritualiste, idealiste, personaliste e così via: si crederà nel proprio anarchismo, ma questo, di volta in volta, finirà per incontrare non tanto gli ostacoli della propria scelta teorica di fondo, ma gli ostacoli ben più concreti della propria coscienza che quella scelta giustificava e rendeva necessaria. L’anarchismo ha bisogno di una scelta di fondo materialista, ma muore se questo materialismo rinsecchisce nel meccanicismo; ha bisogno di una scelta di fondo scientifica, ma muore se questo fondamento anziché sulla scienza viene collocato sulla fede cieca e acritica in presupposti princìpi assoluti di verità; ha bisogno del pensiero, ma muore se questo pensiero lo soffoca in una coltre inutile di dottrina; ha bisogno dell’azione, ma muore se questa azione lo soffoca in una routine del fare coatto.

Notevole l’analisi di Bakunin che, dopo aver accennato in breve al proprio ossequio formale nei confronti della grandezza della scienza del suo tempo, passa subito a tratteggiare i pericoli del dominio della scienza e degli scienziati in particolare. In Russia, egli scrive, su 80 milioni di abitanti si possono contare sì e no venti scienziati, «[...] e questi venti o trenta scienziati dovrebbero governare il mondo! Si può immaginare un dispotismo più assurdo e più odioso?». (Stato e Anarchia, in Opere Complete, vol. IV, Catania 1977, p. 143). E continua: «Per prima cosa, è probabile che questi trenta scienziati si divoreranno a vicenda; comunque, qualora si accordassero, sarebbe a scapito dell’umanità. Perché lo scienziato è per natura incline alla perversione intellettuale e morale e il suo principale difetto è di sopravvalutare le sue conoscenze, il suo proprio intelletto e di disprezzare tutti coloro che non sanno. Dategli il potere e diventerà un insopportabile tiranno, perché l’orgoglio scientifico è più odioso, più oltraggioso e più oppressivo di ogni altro». (Ibidem). Anche quando la scienza non sarà più l’esclusiva di una classe privilegiata, dopo la rivoluzione sociale, vi saranno sempre poche persone dotate di “testa enciclopedica” capaci di essere “realmente scienziati”. Ed occorreranno – continua Bakunin – molte rivoluzioni perché la scienza diventi veramente “alla portata di tutti”. Nel frattempo: «Noi, rivoluzionari anarchici, difensori dell’istruzione generale del popolo, della sua emancipazione e dello sviluppo più ampio della vita affermiamo, contrariamente ai metafisici, positivisti, scienziati o non, prosternati ai piedi della dea Scienza, che la vita naturale e sociale precede sempre il pensiero, che non è che una delle sue funzioni, ma mai il risultato». (Ib., p. 144).

E con queste parole di Bakunin siamo entrati nel vivo della tematica critica moderna.

* * * * *

“Che il realismo impregni il senso comune, che penetri nelle scienze fisiche e nelle matematiche, che si adatti, al punto da esserne il principio, al linguaggio, ecco dei fatti troppo eterogenei per provare da soli, in ciascuno degli ordini di questioni considerate, l’esistenza di una realtà. Al contrario, questi fatti ci sembrano altrettante tracce di una vera e propria necessità epistemologica che spinge lo spirito a realizzare ciò che si applica a conoscere, e allora la metafora si arricchisce e si avvolge di una sorta di realtà di secondo ordine attraverso lo stesso progresso della conoscenza. Un’ontologia proiettata ci sembra corrispondere, in matematica, a quell’ontologia in qualche modo estratta dall’oggetto che Meyerson ha riconosciuto in tutte le parti delle scienze fisiche. La conoscenza, se non vuole per ciò stesso contraddire il suo principio di arricchimento continuo, non può essere tautologica. E dunque bisogna che essa implichi, volente o nolente, un elemento sconosciuto nel sostantivo che l’analisi pretende di risolvere in predicati. Così si può eliminare il realismo delle nozioni, ammettendo nel tempo stesso, come costante, una progressiva reificazione. Questa ontologia costruttiva non è mai finita, poiché corrisponde a un’azione piuttosto che a una scoperta (trouvaille). L’oggetto è ora assimilato e in qualche modo razionalizzato, cancellato in quanto ostacolo, ridotto dall’analisi alla sua vera natura di nozione? Lo stesso processo costruttivo lo metterà, subito dopo, in rapporto con un nuovo irrazionale. In matematica, la generalizzazione tende ad assorbire i campi vicini al campo primitivo. Dal nostro punto di vista, non è il mondo che vivrebbe di opposizioni e di successive riconciliazioni, bensì è lo spirito stesso nel suo compito epistemologico o creatore. A tutti i livelli della conoscenza, l’opposizione farebbe corrispondere un oggetto, e la reincorporazione di tale oggetto in ciò che è già conosciuto avverrebbe con metodi allargati che cadrebbero, a loro volta, in errore per il sorgere di una nuova opposizione. E via di seguito. Avremo numerose occasioni di riconoscere questo cammino irregolare della conoscenza. Ma fin d’ora esso ci spiega il carattere progressivo dell’esistenza metaforica che abbiamo attribuito all’essere matematico. Se, accanto a una logica deduttiva, si stabilisse una logica costruttiva che procedesse per opposizioni, si potrebbe rendere conto, nei termini di una logica allargata, della tendenza ontologica che percorre la conoscenza in tutti i suoi campi. Siffatta ontologia progressiva non sarebbe che il segno di un’opposizione provvisoria”.

(Gaston Bachelard, Essai sur la connaissance approchée)

Capitolo VII

Non è possibile trasferire in blocco la scienza attuale, sia nel suo aspetto metodologico che nel suo aspetto realizzativo, nella realtà sociale successiva alla rivoluzione. Infatti non basterebbe una modificazione sociale, sia pure profonda e sconvolgente, per proletarizzare la scienza per come essa si è andata stratificando fino ad oggi. Occorre pertanto, fin d’adesso, realizzare una selezione, cioè una separazione di quanto è utile all’uomo da quanto gli è dannoso.

Ma questa selezione deve porsi effettivamente in una prospettiva rivoluzionaria, e non risultare dettata dalla falsa coscienza del dominio (frange democratico-progressiste di oggi) e neppure dall’ideologia del nuovo potere (per esempio, movimento di contestazione post-’68 e rivoluzione culturale cinese).

La prospettiva rivoluzionaria deve potere cogliere due momenti in questo processo di selezione: uno antecedente alla rivoluzione stessa e uno susseguente. La selezione necessaria nel primo momento avrà caratteristiche diverse da quella necessaria nel secondo momento.

Di già nel corso della seconda guerra mondiale le frange democratiche e progressiste, anche indirettamente influenzate dalla posizione ideologica sovietica, arrivano alle seguenti conclusioni:

a) non è possibile una distinzione tra scienza pura e scienza applicata (tecnologia);

b) tutta la scienza risponde a bisogni pratici della società;

c) l’ideale astratto della ricerca scientifica è una credenza capitalista;

d) occorre un controllo sociale sulla scienza;

e) gli scienziati invece di servire il potere dovrebbero partecipare alla costruzione di questo controllo sociale sulla scienza.

L’idea che il potere condizioni in modo irreparabile la scienza diviene corrente subito dopo la seconda guerra mondiale, nel periodo della guerra fredda. Scriveva Max Born nel 1960: «La connessione tra fisica e politica è la tecnica. La politica si basa sulla potenza, la potenza si basa sulle armi, e le armi sulla tecnica». (Il potere della fisica, tr. it., Torino 1962, p. 130). E queste parole di uno dei padri della fisica moderna possono considerarsi come il segno di uno stato d’animo diffuso in molti dei cosiddetti scienziati di sinistra in quel periodo. Ma Bacone aveva scritto: «La scienza e la potenza umana coincidono, perché l’ignoranza della causa fa mancare l’effetto. La natura infatti non si vince se non obbedendo ad essa, e ciò che nella teoria ha valore di causa, nell’operazione ha valore di regola». (Instauratio Magna, Pars secunda: Novum Organum, tr. it., in Scritti filosofici, Torino 1986, p. 552).

Riassumendo queste posizioni critiche si ottengono punti di riferimento che possiamo così indicare:

a) l’azione dello Stato condiziona in modo determinante il sistema organizzativo della ricerca scientifica;

b) l’industria è il settore del capitale più avanzato per quanto concerne il condizionamento della scienza, sia tramite i finanziamenti diretti che tramite propri laboratori di ricerca pura e applicata, come pure tramite le pressioni esercitate sui governi;

c) l’ideologia dominante (liberale, totalitaria, socialdemocratica) è un ulteriore elemento culturale di condizionamento;

d) il tasso di accumulazione del capitale consente piani di ricerca più o meno avanzati sulla base delle necessità di sviluppo del capitalismo, quindi promuove o rallenta lo sviluppo della scienza;

e) la struttura del sistema scolastico, più o meno indirizzata verso gli studi scientifici, a seguito di certi progetti più o meno egemonici del capitale, ha ulteriori conseguenze sulla scienza;

f) i rapporti internazionali, le divisioni in blocchi di attrazione politica, le dipendenze economiche, ecc., hanno altre conseguenze, seguendo da vicino lo sviluppo capitalista di ogni singola nazione;

g) infine il livello dello scontro di classe costringe il capitale a condizionare in un senso o nell’altro la scienza, per poterla usare come elemento di minaccia o di rallentamento a seconda dei casi.

Dopo il ’68 l’autocritica della scienza si sviluppa con maggiore impegno, pur restando più o meno fedele ai canoni precedenti di attacco interno contro il potere. Non vengono chiaramente messi in discussione né il potere dello Stato né il potere della scienza, solo si cerca di meglio selezionare i rapporti tra scienza e Stato allo scopo, chiaramente idealistico, di separare la prima dalle influenze negative del secondo.

Non ci vuole molto per capire come le istanze iniziali del ’68, che per quanto riguarda la critica della cultura in generale avevano caratteristiche rivoluzionarie, siano state stravolte man mano che venivano approfondite e istituzionalizzate anche a seguito dei sempre crescenti interessi di una burocrazia tecnocratica che non solo si fonda sull’uso della scienza ma che ha interesse a sviluppare quest’ultima dentro i precisi canoni della dominazione.

I punti essenziali di questa posizione sono:

a) la scienza è al servizio del capitale, quindi si presenta nello Stato moderno come sapere capitalizzato;

b) il potere della conoscenza significa conoscenza del potere;

c) anziché affrancare l’uomo dalla fatica in quanto tecnologia la scienza lo ha reso schiavo del lavoro meccanizzato;

d) la scienza si fonda sulla menzogna di una ricerca assoluta della verità e, in questo senso, è la degna erede della religione;

e) gli scienziati sono i preti di oggi più conseguenti con i dettati di una fede assoluta nella ragione;

f) l’attuale necessità di mezzi enormi per ogni ricerca scientifica ha reso chiaro il rapporto tra scienza e potere politico.

L’errore di fondo è ben visibile in Eduardo Rothe: «La vecchia talpa rivoluzionaria, che oggi rode le basi del sistema, distruggerà le barriere che separano la scienza dalla conoscenza generalizzata degli uomini storici. Non più idee dal potere dissociato, non più potere alle idee dissociate. L’autogestione da parte delle masse della trasformazione permanente del mondo farà della scienza una banalità alla portata di tutti e non più una verità di Stato». (La conquista dello spazio nell’epoca del potere, in (Auto)critica della scienza, tr. it., Milano 1976, p. 20). In questo linguaggio è evidente il tono dell’ideologia del nuovo potere. L’abbattimento delle barriere viene visto come possibile per chi ha conquistato il potere a seguito della rivoluzione, per cui la scienza, senza più barriere, diventata improvvisamente facile facile, finirebbe per consegnarsi a tutti gli uomini in un felice clima di autogestione. In un opuscolo dal titolo Una scienza per il popolo alcuni ricercatori americani si chiedevano nel 1971: cosa fare? e rispondevano: «[Non abbandonare la ricerca scientifica, perché] la classe dirigente può sempre sostituire Leo Szilard [scienziato atomico che si rifiutò di continuare i suoi studi] con un Edward Teller. Ciò che adesso è necessario, non è una riforma liberale o una dimissione, ma un attacco radicale, una strategia di opposizione. I ricercatori devono trovare dei modi di porre le loro conoscenze al servizio del popolo contro gli oppressori». (B. Zimmerman e al., Una scienza per il popolo, in (Auto)critica della scienza, op. cit., p. 49). Ed è proprio questa illusione populista o, se si vuole, giacobina camuffata, che ripresenta il pericolo di una nuova minoranza di scienziati che costituisca il fondamento del nuovo potere di domani, magari un potere per il popolo, ma sostanzialmente sempre sopra il popolo. La verità è che non tutta la scienza può essere salvata e che occorre procedere a una selezione, adesso non più soltanto interna alla comunità scientifica internazionale, come prodotto spontaneo delle frange progressiste poste sotto la pressione reazionaria; ma volontaria decisa e organizzata dal movimento rivoluzionario in vista della rivoluzione sociale prima, e della situazione che si verificherà dopo, quando il processo rivoluzionario violento sarà in fase di avanzata realizzazione.

Siamo quindi arrivati alla conclusione che la scienza non costituisce un valore assoluto e che sotto la patina della scientificità si nasconde spesso un terrorismo culturale diretto ad imporre scelte di dominio e progetti di sfruttamento.

Si impone quindi un’operazione di selezione, cioè una decisione in merito a quello che può essere salvato della scienza e quello che può tranquillamente lasciarsi alla polvere delle biblioteche, dei musei e dei gabinetti scientifici. Solo che questa scelta, calandosi nello specifico delle varie scienze, presenta delle difficoltà.

Oggettivamente parlando queste difficoltà sarebbero insormontabili se venisse posta la questione nell’astrattezza di valore di ogni singola scienza o di ogni ricerca scientifica, dalla fisica atomica alla filologia, dalla metodologia all’economia, dalla fisiologia alla matematica. Occorre quindi fare chiarezza in due direzioni:

a) la prospettiva rivoluzionaria;

b) l’obiettivo della ricerca. Non tutta la scienza può essere utilizzata come strumento rivoluzionario, affermazione che però subisce modifiche col modificarsi dello scontro sociale.

Nella fase di costruzione della rivoluzione sociale, quando tutti gli sforzi dei rivoluzionari sono diretti ad attaccare il potere, prevale una selezione fortemente strumentale della scienza.

In questa fase quello che chiediamo alla scienza sono informazioni sul nemico di classe. Il massimo valore delle ricerche scientifiche viene raggiunto quando esse forniscono queste informazioni. Man mano che si allontanano, il valore diminuisce, fino a scomparire del tutto e fino a diventare danno, quando le ricerche stesse anziché fornire informazioni al movimento rivoluzionario diventano strumenti per il potere.

In definitiva, quando tutti noi, anche nella lotta quotidiana rivoluzionaria, che spesso si limita alla forma della controinformazione, sviluppiamo analisi che utilizzano ricerche di sociologia, di economia, di storia, di psicologia, ecc., dobbiamo fare attenzione a non dimenticare lo scopo essenziale del nostro lavoro, non la conquista di una cattedra ma l’individuazione del nemico di classe e la messa a disposizione del movimento rivoluzionario nel suo insieme di strumenti sempre più chiari ed efficaci per portare avanti la lotta. Ogni altro utilizzo della scienza, nell’attuale fase dello scontro di classe, è decisamente controrivoluzionario.

Una volta realizzata la rivoluzione sociale o, comunque, una volta dato inizio alle profonde trasformazioni sociali che contraddistinguono un periodo rivoluzionario, dobbiamo mantenere le scelte precedenti? Chiaramente no. Liberata dall’ipoteca dello Stato tutta la scienza ha uguale dignità e identico valore umano. Il metro della utilizzabilità non potrebbe in quella situazione più costituire orientamento di scelta scientifica e di impegno umano, sotto pena di fare scadere la società del futuro, fondata sulla libertà e l’uguaglianza, a livello di una società di contabili e di risparmiatori.

Alcuni settori della scienza avranno pur sempre una fruibilità immediata, dando vita a impieghi direttamente utilizzabili da tutti, altri avranno una fruibilità indiretta e quindi saranno da considerarsi più che altro come espressione dello spirito artistico dell’uomo invece che dello spirito scientifico nel senso vero e proprio, ma non per questo si potranno dire di secondaria importanza o di minor valore.

Di più, nella nuova prospettiva, la conoscenza scientifica per come oggi noi la comprendiamo verrà ad allargarsi ai sentimenti e alle esperienze come l’amore, le emozioni, la bellezza, la creatività, il piacere, la gioia. Oggi queste conoscenze sono escluse dall’arco della conoscenza scientifica, ma dopo avranno pieno diritto a entrarvi, una volta che saranno cadute le barriere tra conoscenze di prima e di seconda categoria. Beneficare qualcuno equivale quasi sempre a farsene un nemico, a meno che la beneficenza non sia occulta e il benefattore non metta in mostra la sua faccia oscena. Conoscere non è necessariamente conoscere il vero, il vero non si può conoscere, ecco perché andare avanti e indietro è il moto pendolare della scienza. L’equivoco del fatto e del vero che si convertono a vicenda è uno dei guai peggiori della filosofica storicista. Trattato da Vico, Croce ne fece un personale guazzabuglio di distinzioni che mi affascinarono da ragazzo, ora non più. Il tragico rigorismo etico di Gentile, ripugnando sotto gli aspetti pratici è più godibile dal punto di vista teorico. L’oscurità della cosa, intuita come desolazione non è di per sé misteriosa. Il mistero è un artificio vero e proprio, ed è facile trovarlo nel fare, dove mille imbecilli si ingegnano a ricoprire di aloni impermeabili i propri esili pensieri. Ogni nemico è un Buddha e ogni Buddha è un nemico. Che sarebbe mai un uomo senza un nemico? Purtroppo molti non sono capaci di individuare questa eterna fonte di confronto e di vitalità che per qualche istante, il tempo di una infuriata. Lontano da chi cerca di imitarmi, da chi considera le mie scelte di vita come un modello da imitare, magari criticandolo in aspetti marginali, lontano dai cosiddetti discepoli. Perché dovrebbe avere un senso un discepolo. Ho conosciuto chi sa tutto di me, di quello che ho scritto e fatto. Ma si tratta di qualcuno che si illude di sapere. Nemmeno io so tutto di me. E i mascheramenti? E le trappole? E i giochi imprevedibili? Da un lato il fare, con il suo apparire fondato e serioso, dall’altro l’agire, la cui esperienza diversa devo realizzare per permettergli di rivivere, cioè trasformarla in apparenza. Pochi doni di passaggio, qualche intenzione su cui insistere tanto a lungo da farla diventare stucchevole. La vita è la scienza che insegna come approfittare degli spiccioli. Il resto è vergognosamente idiota. Il deserto che tanto spaventa mi ha sempre attirato, orienta la solitudine e la desolazione dove la qualità, se c’è, appare quella che è e basta senza bisogno di sostenere una conversazione. Nel deserto è come tornare alle sorgenti del mio essere venuto al mondo, dove posso restare preda soltanto delle mie sensazioni e dove non ci sono discorsi folgoranti e parole decisive. Il deserto verso Damasco non è un vero deserto, una visione sola non basta, un vero deserto le produce in continuazione e nello stesso momento le annulla. Se ci penso sopra, eccomi tornato alla civiltà. La vita e il fare riprendono il sopravvento.

Scomparirà così la figura dello specialista. Oggi, davanti a una scienza parcellizzata, solo raramente un uomo può essere specialista in più di un settore, mai in tutti i settori. Dopo la rivoluzione sociale, cadendo la settorializzazione della scienza, a poco a poco, scomparirà anche lo specialista e, da qui, anche il potere dello specialista.

I problemi potranno essere affrontati collettivamente, contrariamente a quanto avviene oggi, in una situazione scientifica asservita al potere, in cui i problemi (del potere) vengono affrontati soltanto dall’elite tecnocratica.

E da questo grandioso allargarsi dell’orizzonte della conoscenza nascerà la scienza della libertà.

* * * * *

“Inoltre, si dovrà accentuare la minuzia dei riferimenti. Dapprima questa minuzia è, da sola, una ragione di oggettività, poiché, nella ricerca di essa, l’interesse soggettivo si attenua, e, per esempio, un sentimento di dolore richiede una certa quantità di ostilità per svilupparsi. Al contrario, il dettaglio non ferisce e, nel suo esame, come elemento affettivo, si trova soltanto il piacere della curiosità. Questo sentimento è il minimo di affettività necessario per dare impulso all’energia nervosa della conoscenza. Tuttavia, questa convergenza in cui abbiamo trovato il criterio del fatto non è perfetta, e di conseguenza la definizione di fatto deve essere sempre considerata provvisoria. L’errore che ripetutamente ha provocato la verifica, finisce per far corpo con le diverse determinazioni. Sembra allora che l’oggettivazione si indebolisca. Esaminati sottilmente, i predicati conosciuti non si presentano più in un’assoluta fissità; non hanno quell’isolamento aritmetico che la logica attribuisce loro per fini tecnici. Essi sono sempre continuamente quantificati, e ciò equivale a dire che ogni atto di conoscenza è sempre accompagnato da una tacita misura, da un ordinamento all’interno di ogni qualità, insomma da un giudizio epistemologico di valore che fissa il continuo in cui può variare la determinazione, pur restando completamente al riparo dall’errore. In tal modo, realtà e conoscenza sono legate nella loro stessa oscillazione in una reciprocità dinamica. I contorni dell’oggetto si modificano con la conoscenza che li delinea, e i criteri della conoscenza precisa dipendono dall’ordine di grandezza, dalla stabilità dell’apparenza e in qualche modo dall’ordine d’esistenza degli oggetti”.

(Gaston Bachelard, Essai sur la connaissance approchée)

Capitolo VIII

Vivere coinvolgendosi nella propria vita è agire, agire non ha senso senza coinvolgersi nella propria vita per quello che si è e non per quello che gli altri pensano che si sia, oppure per quello che noi stessi pensiamo di poter diventare. Vivere è quindi la norma della vita. Persino la morte è una espressione della vita, perfettamente compiuta (come espressione) nel suicidio. «Noi tendiamo alla morte – scrive Albert Caraco –, come la freccia al bersaglio, e mai falliamo la mira, la morte è la nostra unica certezza e sempre sappiamo di dover morire, quale che sia il luogo, il momento, o il modo. La vita eterna è un nonsenso, l’eternità non è la vita, la morte è la quiete a cui aspiriamo, vita e morte sono legate, chi reclama altro pretende l’impossibile e otterrà in ricompensa solo fumo». (Breviario del caos, tr. it., Milano 1998, p. 9). Vivere è riconoscere un elemento comune con una parte dell’umanità non con tutto ciò che nel cosmo è provvisto di vita, dall’uomo al microrganismo, e questa è una scelta densa di conseguenze. Una parte dell’umanità, quella parte che vive o, almeno, che di tanto in tanto si affaccia alla vita e, per periodi più o meno lunghi, anche a livello di massa, la festeggia nella rivolta. La visione diversa si lascia alle spalle, con incredibile violenza, l’apertura per affrontare una condizione fortemente estraniante, quella della qualità. Questa condizione eversiva è a volte considerata una farsa utopista, un gesto anarchicamente privo di prospettive, ma non è così. In ogni esperienza della qualità c’è un agire che, iniziando individualmente, si ribella per allargarsi a una esperienza sempre più aperta all’assolutamente altro. Il frammento e la parte, l’interstizio, sono occasioni da cui partire per dare vita a emblemi correlati sempre più ampi, che non trovando riscontri e personificazioni iconiche nella desolazione, si avvolgono continuamente in se stessi, intensificandosi fino al punto di rottura. Ogni esperienza diversa è un procedimento che riceve unità dall’esterno qualitativo non dall’interno che manca come prodotto bene identificato ed evidente in se stesso. Nulla è qui possesso o conquista, ogni polittico si separa e si mischia nell’esperienza che lo copre e lo scopre con immancabili interruzioni che non sono né programmabili né ripetibili. La visione diversa è profondamente ossessiva, proprio per questo libera da quella normalità di melassa che mi avvolge nell’immediatezza. Se i valori umani sono i residui che vagano nel mondo come fantasmi, il fantasma vero della qualità, la sua reale e profonda diversità canta il crepuscolo di quei valori quantitativi, cioè non è ancora finito il danno della volontà di controllo e comincia una nuova capacità di capire, nessuna critica alternativa assolutamente libera, nessuna Weltende, nessuna fine del mondo. L’incontenibile intuizione scava gallerie percorribili con somma incertezza, costruisce congiure incomprensibili per aprire percorsi labirintici, uccide e ridà vita ad archetipi che continuavano a schiacciarmi o di cui mi ero liberato. I relitti del mondo in via di distruzione e sempre ricostruito, si ripresentano in rivolta in questi camminamenti dell’intuizione, la retorica dell’acquisto e della conservazione è messa da parte dalla catastrofe incombente, registrata ma non realizzata fino in fondo.

Vivere significa contrarre un accordo con se stesso e con gli altri. La vita ha questo di significativo, che quando è vissuta dilaga fuori di sé, deborda e lambisce i deserti dell’esistenza di tanti uomini grigi che vengono così ancora di più, nella paura, ingrigiti dal loro grigiore, o si risvegliano scuotendosi alla loro vita. «La mia vita non può essere da me circoscritta e rinchiusa entro confini spaziali e temporali che abbiano un significato formalmente organizzante, come posso fare per la vita dell’altro, del mio prossimo». (S. Tagliagambe, Epistemologia del confine, Milano 1997, p. 169). Non c’è coazione giuridica che possa far questo, non ci sono doveri morali o obblighi contrattuali che possano far questo, dove la vita non pulsa, nel codice e nell’accumulo, niente può svegliarla, ma dove qualche residuo si insinua negli interstizi e dove gli uomini continuano a essere inquieti, malgrado le loro reboanti protesi, là qualcosa può accadere. Così Nietzsche: «Dove vita e conoscenza sembrano cadere in contraddizione, non si è mai combattuto seriamente: là menzogna e dubbio erano considerati assurdi. Quei pensatori d’eccezione, come gli Eleati, che nondimeno enunciarono e segnalarono gli opposti degli errori naturali, credevano che fosse anche possibile viverlo, quest’opposto: inventarono il saggio, l’uomo dell’immutabilità, dell’impersonalità, della universalità della contemplazione, uno e tutto al tempo stesso, con una sua capacità di accedere a quella conoscenza rovesciata; essi credevano che la loro conoscenza fosse al contempo anche il principio della vita. Per poter affermare questo tutto, nondimeno, dovevano ingannarsi sulle loro condizioni; dovevano attribuirsi impersonalità e durata immutabile, misconoscere l’essenza di colui che conosce, negare la violenza esercitata dagli istinti nella conoscenza stessa e, soprattutto, concepire la ragione come attività completamente libera e insorta autonomamente; chiudevano gli occhi anche davanti al fatto che erano giunti alle loro formulazioni contraddicendo quanto è valido oppure nel loro anelito alla quiete, alla proprietà esclusiva o al predominio. Una più raffinata evoluzione della rettitudine e della scepsi rese infine impossibile anche questo genere di persone; anche la loro vita e i loro giudizi si rivelarono influenzati dagli istinti e dagli errori basilari di tutta l’esistenza percipiente». (La gaia scienza, 110). Eppure nessuna vita può essere vissuta in se stessa – per come si è detto – quanto in relazione al proprio coinvolgimento nell’agire che la risveglia dal sonno coatto realizzato sul semplice fare produttivo. L’importante non è agire ma fare. Non si può agire direttamente senza essere Dio. Si può agire su quello che si è fatto, senza necessariamente essere Dio. Il fare prepara all’azione, ma può anche involversi in se stesso. In questo caso muore appesantito dal possesso e dal controllo nella palude che mai si rinnova della modificazione. Nella intuizione della cosa il mondo si scolla da me, si separa lasciandomi soltanto una sensazione di mancanza di contenuto, un condensarsi dentro di me di movimenti estranei che non sono in grado di capire ma solo di intuire. Il dominio del mondo, che mi era prima indispensabile, il suo controllo, l’esercizio della mia volontà di potenza, adesso è disgiunto e remoto, ho la disperata consapevolezza di avere messo da parte la tragica attenzione che riservo a tutto quello che viene fatto, al fare in generale. Nella intuizione della cosa, per un attimo sono senza vita, quasi senza respiro. La solitudine mi soffoca. Poi riprendo a vivere, a respirare, ma non è un rinascere, della desolazione della cosa tutto mi è estraneo. Qui constato che il bisogno della qualità era l’estrema tensione della vita, l’obiettivo vero, non la vita stessa come la sperimento nel campo. Il vero tradimento è perdere questa sensazione, questa compenetrazione reciproca con la qualità. Nel mondo la qualità è una mancanza che si avverte a tratti e a tratti scompare. Intuendo, il momento dell’assenza diventa ciò che c’è di più importante, non ha più senso una vita che non cerchi di agire e si lasci al contrario soffocare lentamente dal fare.

Ora, questa possibile apertura ha un significato sociale, cioè propone l’esistenza di separazioni logiche, ma inaccettabili moralmente. Solo l’assoluto non ammette mediazioni. Il fatto che tutti gli uomini sono uguali è una stupidaggine dal punto di vista organico (non ci sono due cose uguali in natura), ma è anche un frammento di provocazione etica. Nessuno può sottrarsi a questa affermazione se vuole vivere la propria vita, perché non è possibile vivere fin quando c’è un solo uomo in qualsiasi parte del mondo che paga con la propria vita, martoriata e negletta, il lusso mio che mi permette di formulare il pensiero suddetto. «La verità non è spettacolo, a cui tutti, sol che ne abbiano un capriccio, possano assistere. No. È nostra creazione, nostra conquista, che addimanda tutte le forze dell’anima e prima di tutto una riforma morale, che ci spogli del nostro naturale egoismo. Giacché l’egoismo non è pure una tendenza pratica: ma è anche una visione teorica del mondo; di un mondo concentrato nell’io particolare; in un io, che non riconosce sé se non in se stesso, e non sente questo sé identico ad ogni altro sé, e il proprio essere intimo identico all’essere universale: visione che è la negazione e l’impedimento insormontabile della scienza, la quale ha per soggetto la mente conscia della propria natura universale, quale ognuno di noi se la forma convivendo in questa vita comune, che è il perenne vivaio dei corpi e delle anime nostre nella loro interezza; ed ha per oggetto l’essere – che non è il nostro piccolo essere, – ma lo stesso essere in se medesimo considerato. Finché ognuno di noi non è tanto buono, da riconoscere gli altri come eguali a lui, finché non perviene al concetto, e quasi al senso di quell’umanità, di quello spirito, che è uno in tutti gli uomini, ed è la mente organo della verità, egli non avrà conquistato quest’organo, né potrà pur sospettare quella verità, che è riserbata soltanto alle buone volontà. La storia dell’umanità procede per gli sforzi continui del volere, che vien liberando se medesimo attraverso le lotte civili, economiche, politiche, religiose, scientifiche, verso l’assoluta libertà della ragione: la cui forma ideale, se in tutto realizzata, segnerebbe la conclusione della storia. Ma, poiché ogni ideale si viene realizzando in una vita infinita, la conclusione non verrà mai; né la perfetta libertà etica sarà mai un fatto, e gli uomini si travaglieranno sempre ad umanizzarsi, a farsi sempre più liberi, con ritmo perpetuo di moralità e di filosofia». (G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Firenze 1975, pp. 124-125). La mia dedizione a questo problema dell’uguaglianza mi conduce alla profonda estensione del concetto apparentemente semplice di vivere la mia vita, mi collega alla società dei miei simili e alle sue ripartizioni infinite e dense di dolore e morte, queste sì individuabili – con alterne vicende – nello scenario della storia. Non è possibile vivere senza l’intuizione felice di queste distinzioni e senza prendere posizione, senza agire per trasformarle lottando, sia pure in dimensioni circoscritte e parziali. Il groviglio immane di relazioni che si riassume nella società resta muto e poco significativo se non viene interrogato sulla base di quello che sto continuando a delineare. Oltre l’utopia che coinvolge col nemico, che illude di portarlo dalla mia parte. La radicale risposta estranea, balbettare parole incomprensibili, non ripestare la stessa acqua nello stesso mortaio. È un’arte nuova quella di prendere l’iniziativa, ancora da imparare. La presenza del nemico come lo stesso uomo che è in me, ecco l’ostacolo su cui si sono infrante tutte le utopie. Non parlo della disuguaglianza ma della differenza nel fare della lotta, nello svilupparsi e nel coinvolgersi dell’azione. Se lo amo, il mio nemico, come mi impone da secoli il cristianesimo, non posso distruggerlo, con lui distruggerei me stesso. La presenza di parole di odio e di vendetta negli sproloqui contro e nei propositi pro, sono in genere esorcismi per tenere a bada questo amante scomodo. Così metto in mostra le mie piume migliori per incutere paura, ma in fondo il mio non è un vero e proprio messaggio di combattimento, ma di riconciliazione. I cimiteri di guerra, con le loro croci allineate da un lato e dall’altro della barricata, mi fanno ogni volta capire che per combattere il nemico ho bisogno di una ferocia più forte di quella il cui risultato ho sotto gli occhi. Il saggio, alla fine, per essere tale, cioè per ammettere di avere, di possedere, un minimo di saggezza, che non sia la semplice polvere depositatasi sulle sue scarpe, deve essere un perdente. Solo un’esistenza fattiva, che non può essere presa a esempio dagli altri, suggerisce spunti interessanti che possono, o meno, e non sempre, risultare spunti di saggezza. Dare un senso alla parola fallimento non è facile. Nella perdita c’è qualcosa di remoto, di nascosto, di misterioso, qualcosa che si rifiuta a ogni genere di progetto. Solo il perdente può dire di avere trovato.

E muto è il continuo rispondere della scienza ai problemi della vita. Muto perché quello che essa vuole garantire è di mantenere unita la struttura sociale perpetuando le differenze nella continua modificazione. «Su questo specchio – e il nostro intelletto è uno specchio – succede qualcosa che mostra con regolarità come ogni volta una determinata cosa segue di nuovo un’altra determinata cosa, – questo, quando lo percepiamo e vogliamo dargli un nome, noi lo chiamiamo causa ed effetto, noi folli! Come se noi qui avessimo compreso e potessimo comprendere una qualsiasi cosa! Infatti non abbiamo veduto nient’altro che le figure di “cause ed effetti”! Ed è proprio questa figuratività che rende anzi impossibile penetrare con lo sguardo in una più essenziale connessione, qual è quella data dalla successione!». (F. Nietzsche, Aurora, 121). Certo, per realizzare ciò, attraverso la tecnologia, suo braccio armato, la scienza ha bisogno di produrre un soddisfacimento relativo dei bisogni dei singoli individui, e ciò allo scopo di non causare pericolose rotture degli armonici equilibri che a tutta prima sembrano caratterizzare una società evoluta. «Dentro la sintesi del pensiero, come dentro ogni sintesi, noi possiamo portare l’analisi. Ma in che modo? L’analisi, bisogna sempre rammentarsene, è l’analisi della sintesi». (B. Croce, Etica e politica, Bari 1956, p. 187). Ma non si può confondere questo programma con la vita, esso è quasi completamente il contrario. E siccome questo programma si traduce in fatti di coscienza e in condizioni che rendono possibile la continuazione di fatti di coscienza simili e coerenti fra loro, esiste una relazione sufficientemente precisa tra scienza e morale, un comune intento nel rendere impossibile la vita. «In noi si trova – scrive Fichte – un impulso verso le cose della natura, per porle in un determinato rapporto con la nostra natura; un impulso che non ha nessuno scopo al di fuori di sé, e che tende a soddisfarsi semplicemente per essere soddisfatto. Il soddisfacimento per il soddisfacimento lo si chiama godimento. Come impulso di autoconservazione e di godimento, l’impulso non è un mio prodotto, ma, come si è detto, un prodotto della natura; esso è dato e non dipende assolutamente da me. Ma, in quanto sentito, in quanto mio, l’impulso diventa per me oggetto della riflessione, e il suo operare in questa regione sta in mio potere; o, più precisamente, esso non opera affatto in questa regione, ma sono io, ad operare o meno in seguito ad esso. Qui ha sede il passaggio dell’essere razionale all’autonomia; qui è il confine netto e determinato tra necessità e libertà». (Sistema di etica, Libro II, par. 9). Quando la scienza si è interessata a queste pulsioni della vita le ha ridotte a “fenomeni”, cioè espressioni oggettivamente catalogabili, per poterli studiare sulla base di metodi altrove perfezionati. Ma la pulsione sessuale, o quella alimentare, l’amore per i figli, l’istinto di difesa, il desiderio di vincere o rivincere, ecc., così come sgorgano dalla vita, non sono catalogabili, mentre la scienza che vorrebbe avvicinarli, dovrebbe condurre un processo indiretto di analisi, allo scopo di coglierli senza sottoporli al metodo mortale dell’oggettivazione.

Il comportamento distruttivo appare correttamente coerente perché non si pone come una giustapposizione operata sulla realtà da parte della coscienza morale del singolo, il che sarebbe semplice dissolvimento, ma questa coscienza, cercando la vita, trova questo impegno sociale come un progetto che è in correlazione diretta con quello che la società e i suoi organi politici stanno realizzando a suo danno. Non c’è dubbio che questa correlazione viene interrotta spesso a causa delle passioni e degli interessi, oltre che delle inquietudini e delle credenze, ma è sempre possibile rintracciarla nel ginepraio istituzionale delle norme che rendono così pesante l’esistenza di ognuno di noi. «Il superiore grado di libertà rispetto alla realtà rende l’arte un polo di sperimentazione. L’arte crea il suo mondo, che si costruisce allora come trasformazione della realtà extrartistica, secondo la legge: “se, allora”. L’artista concentra le forze dell’arte in quelle sfere della vita, nelle quali egli indaga i risultati di una accresciuta libertà. In sostanza non fa differenza che, oggetto d’attenzione divenga la possibilità di violare le leggi della famiglia, della società, le leggi del buon senso, delle usanze e della tradizione e persino le leggi del tempo o dello spazio». (J. M. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, tr. it., Milano 1993, p. 188). Attraverso la lente deformante delle istituzioni, per quanto con difficoltà, l’occhio esercitato riesce a distinguere l’incapacità della scienza di diventare fino in fondo quell’episteme che promette di essere fin dall’inizio della sua avventura. Lasciare indietro il regno logico delle corrispondenze e della specificazione, vuole affermare un nuovo e diverso rapportarsi con le condizioni dell’esterno. I grandi spazi fisici affollati si restringono, l’azione non è che la concentrazione su me stesso che riesco a fare coincidere con l’intuizione della qualità. Milioni vanno dietro alla quantità cercando l’amore, ma questa qualità non si trova nel completamento di aggiunte successive, di esperienze del fare, quanto in un processo puntuale, in uno sguardo, in uno sfiorare della folla, in una immagine, movimenti che troncano tutti gli indugi e fanno entrare in una regione dove c’è solo quella desolazione che permette all’esperienza diversa di cogliere l’amore. Il resto non conta una volta che possiedo, sia pure per un attimo, la qualità. Nel fare invece non è il possedere ma l’intensità che dovrebbe avere il maggiore spazio, questa se arriva non viene nemmeno colta, piuttosto è la quantità che domina, la certezza diventa possesso e l’estendersi del possesso porta la certezza con sé. Questa certezza è un sostegno e un aiuto, ma non è la qualità, vive un’esistenza miseranda e alla fine tradisce il suo limite venendo a mancare come fondamento della vita.

Si scopre così che non c’è risultato positivo (o miglioramento) che non venga nascosto dai costi sempre più alti necessari a ottenerlo. Con puntualità, Alexandre Koyré: «Ho detto che la scienza moderna aveva rovesciato le barriere che separavano i Cieli dalla Terra, che essa uni e unificò l’Universo. Ciò è vero. Ma ho anche detto che essa lo fece sostituendo al nostro mondo di qualità e di percezioni sensibili, mondo nel quale viviamo, amiamo e moriamo, un altro mondo; il mondo della quantità, della geometria reificata, mondo nel quale, benché vi sia posto per tutto, non ve ne è per l’uomo. E così il mondo della scienza – il mondo reale – si allontanò e si separò interamente dal mondo della vita, che la scienza è stata incapace di spiegare – anche attraverso una spiegazione dissolvente che ne farebbe un’apparenza “soggettiva”. In verità questi due mondi sono ogni giorno – e sempre più – uniti dalla praxis. Ma in quanto alla theoria, sono separati da un abisso. Due mondi: il che vuol dire due verità. O nessuna verità. E in ciò consiste la tragedia dello spirito moderno che risolse l’enigma dell’Universo, ma soltanto per sostituirlo con un altro: l’enigma di se stesso». (Etudes Newtoniennes, ns. tr., Paris 1978, pp. 42-43). In questo modo, empiricamente parlando, l’antico buon senso (con tutti i suoi limiti) attribuiva il significato di “buono” a tutto quello che possedeva le proprietà atte a raggiungere il proprio scopo. Tragicamente, il linguaggio corrente parla perfino di un buon ladro e di un buon killer, le cui capacità di prestazione sono sottintese adeguate al furto e all’assassinio. La parola greca agathos significa infatti attitudine e la parola latina rectus si usa per indicare ciò che va per la propria strada. Lo stesso per la parola tedesca Tugend che indica virtù nel senso di capacità.

Con tutti i suoi limiti, queste considerazioni sul significato di “buono” nel senso tradizionale del termine non si possono applicare alla scienza, e ciò ben al di là della singola cattiva intenzione, come vedremo qui di seguito.

È ovvio che l’analisi sul compito e sul fare della scienza non può limitarsi alla sua inefficacia riguardo la vita, in quanto bisogna capire meglio in che modo questa inefficacia si concretizza e che cosa la vita si aspetta di ricevere dalla scienza restando delusa.

La scienza è inefficace, quindi è cattiva. Questo giudizio non sembra accettabile in pieno. Siamo in grado di fare un passo avanti, almeno ben più in là della chiarezza cartesiana o delle modalità di Galilei. «I nostri sistemi nervosi centrali non sono adattati a leggi naturali assolute, ma piuttosto a leggi naturali che operano in una struttura creata dalla nostra stessa attività sensoria. Il nostro sistema nervoso non ci permette di vedere la riflessione ultravioletta emessa dai fiori, mentre il sistema nervoso centrale di un’ape lo consente. E i pipistrelli “vedono” ciò che il nottolone non può vedere. Noi non fondiamo la nostra interpretazione dell’evoluzione richiamandoci genericamente a “leggi della natura” alle quali la vita debba sottomettersi. Piuttosto, dobbiamo chiederci come, nell’ambito dei vincoli generali delle leggi della natura, gli organismi abbiano costruito degli ambienti che rappresentano le condizioni della loro ulteriore evoluzione e della ricostruzione della natura in nuovi ambienti». (R. Lewontin, “The organism as the subject and object of evolution”, ns. tr., in “Scientia”, n. 118, p. 77). La scienza è sottoposta, nell’insieme mostruoso che si è andato concretizzando fino al presente Golem, a una valutazione negativa da parte di una coscienza morale che si è sviluppata traendosi fuori dalla sudditanza irrazionale della paura. Frantumare la conoscenza è compito necessario del fare, distinguere, dividere. Nell’essere del coinvolgimento, tutto si assomma assieme, un massimo viene accettato come ancora caricabile di ulteriori riferimenti. Getto via i legami e i significati che mi trattenevano ancorato al mondo delle certezze e guardo l’orizzonte. La desolazione fa appello all’animo mio e lo obbliga a richiamare alla mente gli orribili giorni passati, i giorni che sono stati e che non saranno, la cattività, la vergogna, l’umiliazione, il desiderio di scongiurare le sventure, il peso di un destino astioso. Insistere su questi elementi dell’antica positività, per ribaltarli, è compito della critica negativa. So che arriveranno i momenti del disfacimento, la morte li tiene in serbo per me da qualche parte, ma per ora fronteggio i malanni e progetto la mia vita mettendomi in gioco, aggiungendo in questo gioco anche il mio stesso progetto di vita, quindi azzerandolo nel punto estremo dell’intensificazione attiva come progetto conservativo, destinato a durare. È la morte che se ne va via, ancora una volta sconfitta. La desolazione in fondo è un luogo dove esercito il coraggio del mio abbandono, dove non temo l’assenza di appigli e di tutte quelle giustificazioni che violano l’animo del coraggio con la scusa di confortarlo nel suo procedere. Non c’è un fare, un plasmare, uno schiarire o dischiudere, niente, solo la qualità, non c’è coerenza morale o matematica, ma ci sono bolle metafisiche chiuse in se stesse in attesa di una critica critica che torni ad aprirle al mondo. Non c’è luce che modifica l’inconsistenza dei significati precedenti. Tutto è nel tormento dell’animo, nel battito impazzito del cuore, nel dolore della carne ferita o vista aprire e distruggere, nel tempo dell’azione che sopravviene e non ammette soste o titubanze. L’energia adesso distrugge, abbatte le difese del nemico, allinea i cadaveri sulla riva destra del fiume e attende la fine del giorno del rischio e della verità. La giustizia non è più una glossa filologica da porre tra parentesi, ma la vedi camminare fra i cadaveri intenta a chiudere gli occhi rimasti aperti senza vedere. La libertà è là, davanti a me, ma non ha più l’aspetto del ballo e della festa, è intenta a non mostrarsi se non in parte, anche se le mie sollecitazioni è a lei che si indirizzano, ma non sembra avvertirle, se ne sta in disparte, nella desolazione e nella morte, raccolta e pensierosa. Rifiuta di essere collocata al posto più alto della qualità, e io non ho parametri sufficienti per misurare la sua intensità. Di quello che sta attorno rifiuta il senso, che i miei antichi sensi intuiscono volgarmente, non ammette la mia azione resa spuria da tutti gli aspetti di conquista e distruzione che sono riusciti a sfuggire, residui maligni di luoghi remoti, maligni anch’essi, i luoghi del dominio e della modificazione.

Una coscienza di questo tipo non è ancora necessariamente diversa, è però in grado di analizzare criticamente le promesse epistemiche non mantenute, anche se non è in grado di superare lo sbarramento positivo costituito dai risultati parziali e dai miglioramenti di una parte della realtà umana a carico di un’altra parte. Sfuggono in questo modo le conseguenze fatali che si sommano le une alle altre producendo impensabili effetti perversi. «La realtà assoluta non ci serve a nulla riguardo alle realtà che conosciamo effettivamente: è impossibile ricollegarla a queste ultime; essa perciò vale solo a svalutare la nostra realtà e costituisce un ostacolo alla conoscenza adeguata del reale. Ancora una volta si commette l’errore di proiettare un ideale male inteso nella realtà, col risultato che l’ideale perde il suo valore, e d’altra parte la natura del reale ne resta oscurata». (F. C. S. Schiller, Studies in Humanism, ns. tr., London 1907, p. 270). Per converso, nella critica, man mano che si va avanti, si tende a massimalizzare gli effetti negativi per una loro logica impossibilità a separarsi dagli effetti positivi. La disposizione pratica, che rende possibile l’utilizzo di molti aspetti della tecnica, non si trasferisce di colpo nella disposizione teorica che sottopone la scienza (e quindi la tecnica) alla disanima negativa. Ciò porta però a un irrigidimento del giudizio morale che si apre agli apporti ideologici che giustamente irritano e infastidiscono. Involontariamente, e senza che ce ne sia bisogno, si tende a sopravvalutare la documentazione di denuncia collocandola a un ipotetico livello di fondatezza, nei riguardi dell’avversa documentazione, al quale la prima non ha diritto e al quale, in effetti, nemmeno aspira. Questo metodo produce giudizi morali altrettanto difettosi e avventati dei giudizi avversi. Ed è così che il riconoscimento positivo della scienza riceve un insperato sostegno proprio da quel movimento di idee che vorrebbe negarla.

Il fatto che nello svolgersi delle ricerche, a partire dalla costituzione della scienza moderna fondata sulla riflessione concernente i procedimenti e non più le essenze, ci sono stati periodi in cui questa critica si è intensificata e periodi in cui si è affievolita, si spiega coerentemente con i processi modificativi che hanno costituito la società moderna, in particolare quelli economici, dall’analisi dei quali si vede chiaramente in che modo le sollecitazioni critiche si sono trasformate in irrobustimenti per la scienza e in perfezionamenti dei processi produttivi. Così Francis Herbert Bradley: «In questa descrizione del giudizio vi sono due punti che si possono notare subito. Il lettore avrà osservato che per noi il giudizio asserisce una idea, o contenuto ideale, e che non facciamo alcuna menzione del soggetto e della copula. La dottrina più diffusa, d’altra parte, ci spiega invece che abbiamo sempre due idee, e che una è il soggetto. Io dissento profondamente da questa concezione. Noi saremo sempre in errore se non teniamo presente che le relazioni entro il contenuto d’un significato qualsiasi, comunque complesso, non sono tuttavia relazioni fra esistenze mentali. Vi è un lupo e un agnello. Il lupo mangia forse l’agnello? II lupo mangia l’agnello. Abbiamo qui una relazione suggerita o asserita fra un lupo e un agnello, ma la relazione non è (se posso usare la parola) una fattiva connessione tra gli eventi nella mia mente. Ciò che si intende non è una congiunzione psichica di immagini. Proprio come l’idea del lupo non è l’intera immagine del lupo, né l’idea dell’agnello l’agnello immaginato, così l’idea della loro sintesi non è la relazione come esiste nella mia immaginativa. In quella scena che il mio significato simboleggia vi sono particolari che scompaiono nell’idea universale, e che non sono pensati, né richiesti, né tanto meno asseriti dicendo con altre parole la medesima cosa: l’immagine è un segno, e il significato non è che una parte del tutto, essa viene separata dal resto e dalla sua esistenza. In questo contenuto ideale vi sono gruppi e riunioni di qualità e relazioni, che rispondono a nomi, verbi e preposizioni. Ma questi vari elementi, sebbene abbiate ragione di distinguerli, non hanno validità all’infuori dell’intero contenuto. Quest’ultimo è un’unica idea, che contiene tutte le idee che siete indotti a formare in esso; perché qualunque cosa venga fissata dalla mente come un tutto, per quanto semplice o complesso, non è che un’unica idea. Ma, se è così, l’antica superstizione che il giudizio consista nell’accoppiamento di un paio di idee deve venire abbandonata. Passo ora all’altro lato di questo stesso errore: la dottrina che nel giudizio un’idea sia il soggetto, e che il giudizio ne riferisca un’altra a questa. Possiamo notare subito due punti essenziali. a) Nel “lupo che mangia un agnello” la relazione è la medesima, sia che affermi, neghi o dubiti o chieda. Non è quindi probabile che la differenza del giudizio si possa trovare in ciò che esiste all’infuori di ogni giudizio. La differentia verrà trovata in ciò che diversifica il contenuto, oggetto di asserzione, dal contenuto che viene semplicemente suggerito. Cosicché, se fosse vero che in ogni giudizio un’idea costituisce il soggetto dell’asserzione, tale dottrina si troverebbe lontana dall’essenza stessa della questione, e forse sarebbe del tutto irrilevante. Ma b) la dottrina è erronea. “B segue A”, “A e B coesistono”, “A e B sono uguali”, “A è a sud di B” – in questi esempi sono negletti proprio quei fatti che possono avere valore per la dottrina in esame. Non è cosa naturale il considerare A o B come il soggetto e il residuo come predicato. E, quando l’esistenza viene immediatamente asserita o negata, come in: “L’anima esiste”, o “Vi è un serpente di mare”, oppure, “Non vi è nulla qui”, le difficoltà della teoria saranno ancora più grandi. In ogni giudizio v’è bensì un soggetto del quale il contenuto ideale viene asserito, ma questo soggetto evidentemente non può appartenere al contenuto o trovarvisi dentro, perché, in tal caso, non sarebbe altro che l’idea attribuita a se medesima. Vedremo appunto che il soggetto dei nostri giudizi non è mai un’idea, ma la stessa realtà». (I Princìpi della logica, tr. it., Milano 1951, pp. 123-124).

L’attuale situazione della scienza si spiega anche con la debolezza di una coscienza morale diretta a generalizzare la pulsione della vita all’interno della società. Comportamenti tesi alla distinzione, alla ripartizione, alla separazione tra mio e tuo, producono tutte le sollecitazioni (puntualmente frustrate) verso l’efficacia e la soluzione dei problemi, che caratterizzano la tecnica che ci governa e, in buona parte, la scienza sua padrona e mandante. «Ma il mettere alla prova la capacità dell’evento di fornire il contenuto della previsione – l’induzione scientifica che si è liberata da ogni residuo epistemico consiste appunto in questo provare – è già nella sua essenza quel riferimento alla casualità dell’evento, e anzi di ogni evento, che diventerà poi esplicita nella teoria della probabilità. E, appunto per questo, nella sua essenza l’induzione scientifica è già quell’indeterminismo che diventerà poi esplicito nella fisica contemporanea con il principio di indeterminazione di Heisenberg. Come per la teoria quantistica lo stato istantaneo di un sistema fisico non è necessariamente determinato dallo stato istantaneo precedente, così nel procedimento induttivo lo stato costituito da un certo grado di conferma di una prova non determina necessariamente il grado successivo di conferma di tale prova – il grado cioè che si forma in relazione al sopraggiungere di un nuovo elemento di conferma (si che la previsione del successivo grado di conferma possiede già quel carattere probabilistico che è reso esplicito nella previsione delle grandezze dello stato successivo del sistema fisico)». (E. Severino, Legge e caso, op. cit., Milano 1980, p. 35). Il puntuale ripresentarsi della barbarie non è che l’altro aspetto della scienza, la spiaggia verso cui la sua navicella potrebbe essere indirizzata ancora una volta.

Il genocidio, lo stupro di massa, la schiavitù, lo sfruttamento, il razzismo, ecc., sono aspetti dell’esistenza umana che sono stati sempre verniciati di aspetto scientifico, e l’aver cercato di dimostrare il contrario (uno scienziato non può essere razzista o credente?) non ha fatto altro che riconfermare l’ampia disponibilità scientifica al massacro indiscriminato (tecnologia militare docet). La tante lamentele sui pericoli di un libero sfogo dei capricci e degli impulsi momentanei hanno dato il loro piccolo contributo alla costruzione dei lager di ogni tipo. Scrive Karl Jaspers: «L’animale non può che ripetere quel che già era, e non può andar oltre. L’uomo invece non può, per sua essenza, esser così come si trova ad essere. Può finire in vicoli ciechi, soggiacere a degenerazioni, pervertimenti, alienazioni, ma non può fare a meno di desituarsi perché il suo essere è esistenza possibile. A differenza dell’animale che si ripete nella compiutezza della sua situazione, l’uomo, pur essendo consegnato al suo esserci (situazione), vuole andare al di là di se stesso (desituarsi). Non si appaga se, chiuso in sé, in pace, null’altro deve essere che il quotidiano ritorno all’esserci. Non si riconoscerebbe più autenticamente se volesse esser uomo soltanto come si trova ad essere». (Piccola scuola del pensiero filosofico, tr. it., Milano 1968, pp. 49-50). E, più compiutamente, nell’opera principale: «La consapevolezza della morte è la situazione limite. La morte, come fatto oggettivo dell’esserci, non è ancora una situazione-limite. Per l’animale, che non sa niente della morte, questa situazione-limite è impossibile. L’uomo, invece, che sa di morire, traduce questo sapere in un’attesa di un punto indeterminato nel tempo; ma finché la morte non gioca per lui altro ruolo se non quello che si esprime nella preoccupazione di evitarla, essa non può valere, neppure per l’uomo, come situazione-limite. Come semplice vivente perseguo degli scopi, aspiro alla durata e alla stabilità di tutto ciò che ha valore per me. Soffro dell’annientamento di un bene raggiunto e del trapasso di esseri amati; non posso fare a meno di sperimentare la fine; ma intanto vivo e dimentico che ogni cosa ha la sua fine. Come esistente, invece, nella consapevolezza della storicità del mio esserci come manifestazione nel tempo, so d’aver a che fare con una semplice manifestazione, ma so anche che è la manifestazione dell’esistenza possibile; allora l’esperienza della fine di tutte le cose si connette a questo aspetto fenomenico dell’esistenza. La sofferenza della fine diventa un accertamento dell’esistenza. Nella considerazione oggettiva non mi è possibile afferrare la necessità della morte e della transitorietà, mentre l’esistenza si sente legata a questo dileguare dell’apparire. Se non ci fosse questo dileguare, il mio essere sarebbe una durata indefinita e io non esisterei. Come esistente devo considerare estremamente importante la realizzazione e la decisione che compio nell’apparire temporale. Qui non posso osservare passivamente questo dileguare, né causarlo intenzionalmente, ma posso, anzi devo appropriarmene intimamente. Alla verità non conducono né il desiderio, né l’angoscia che si prova davanti alla morte, ma solo il dileguare dell’apparire come presenza dell’esistenza. Se assumo l’esserci come essere in sé perdo l’esistenza e mi inganno a tal punto da ridurmi a mero esserci che oscilla tra l’oblio e l’angoscia. Cado invece nell’errore opposto se considero l’apparizione dell’esserci così irrilevante da non preoccuparmi minimamente della sua scomparsa. Come esistenza possibile mi realizzo solo se appaio nel mio esserci, nell’apparire dunque, ma come qualcosa di più del semplice apparire. Come esserci non posso annullare la sofferenza della fine, ma nella certezza dell’esistenza posso vincerla e dominarla. La morte è, per l’esistenza, la necessità del suo esserci, nel dileguarsi dell’apparire che resta sempre non vero. Quanto è stato detto non deve essere generalizzato, perché nella situazione-limite non c’è la morte in generale che è solo un fatto oggettivo. Nella situazione-limite la morte diventa qualcosa che appartiene alla storicità come morte determinata di chi mi è prossimo o come mia morte. Essa non è superata da una considerazione di ordine generale, né da un conforto oggettivo che con ragioni apparenti protegge il mio oblio, ma è superata solo nella manifestazione di un’esistenza che si accerta di sé. La morte del prossimo. La morte di chi mi è prossimo, della persona più amata con cui sto in comunicazione, è il taglio più profondo che possa verificarsi nella vita fenomenica. Son rimasto solo quando, all’ultimo istante, lasciando solo il morente, non l’ho potuto seguire. Nulla si può far ritornare; è la fine per sempre. A chi muore non si può più volger la parola; ciascuno muore da solo; davanti alla morte la solitudine sembra totale sia per chi muore, sia per chi rimane. L’essere-insieme finché c’è coscienza, questo dolore del separarsi, è l’ultima povera espressione della comunicazione. Ma questa comunicazione può essere così profonda che la stessa conclusione nella morte può divenire sua manifestazione, conservando così alla comunicazione il suo essere come eterna realtà. L’esistenza, allora, viene ad esser trasformata nella sua manifestazione; il suo esserci è irrevocabilmente avanzato con un salto. Il mero esserci può dimenticare, può consolarsi, ma questo salto è come principio di una vita nuova; la morte è accolta nella vita. La vita dimostra la verità della comunicazione che sopravvive alla morte, in quanto la vita si realizza attraverso la comunicazione nei termini in cui questa si effettuò ed ora deve essere. La morte non è più solo un abisso vuoto. È come se io in essa, non più abbandonato, mi attaccassi all’esistenza con cui ero nella più stretta comunicazione. L’assoluta solitudine che si prova nella mancanza della comunicazione è radicalmente diversa dalla solitudine che si prova con la morte di chi m’è prossimo. Quella è una muta mancanza, una forma di coscienza in cui non so io stesso come mai mi ci trovo. Qualsiasi forma di comunicazione, anche quella che può essersi realizzata almeno una volta, è in grado di annullare per sempre la solitudine assoluta; la persona sinceramente amata rimane come presenza esistenziale. L’ansia annientatrice di chi resta solo, l’insopportabilità fisica della separazione sono legate, nella manifestazione, a una sicurezza, mentre la disperazione di chi è solo dall’origine non può lamentare alcuna perdita, ma è insicura nell’ansia protesa verso un essere sconosciuto. La perdita reale di ciò che, per la mia sensibilità umana, rimase senza conforto, diventa, attraverso la fedeltà che mi è possibile, realtà dell’essere. Quando la morte dell’altro mi scuote esistenzialmente, e quindi non è un semplice evento oggettivo accompagnato da particolari emozioni e interessi, allora, con la morte dell’altro, l’esistenza si è già intimizzata con la trascendenza; ciò che vien distrutto con la morte è la manifestazione, non l’essere stesso. È possibile anche una più profonda serenità sulla base di un dolore inestinguibile. La mia morte. La morte di chi mi è prossimo ha un carattere totalizzante e diventa, perciò, una situazione-limite quando la persona che muore è per me l’unica e la sola. Tuttavia, la situazione-limite veramente decisiva rimane la mia morte che, nella sua unicità, non si può oggettivare, né conoscere in generale. Solo la morte degli altri è un evento, la mia non la posso sperimentare, al massimo posso sperimentare qualcosa che vi si riferisce. I dolori del corpo, l’angoscia che si prova, la situazione di una morte che appare inevitabile, tutto questo posso viverlo, superandone poi il pericolo; morendo soffro la morte, ma non la sperimento mai. O vado incontro alla morte e la conosco nei rapporti che, come vivente, ho con essa, o soffro gli stadi progressivi di un processo che può o deve portare alla morte. Posso anche morire senza tutte queste esperienze che, per sé, non sono ancora espressione della situazione-limite. Colpito dalla limitazione, dall’angustia e dalla distruzione, posso sperimentare, nell’esserci, la possibilità di incontrare di nuovo me stesso dall’abisso; nel venir meno posso anche esser ridonato a me stesso, come una coscienza che risorge, senza sapere come ciò avvenga. Eppure, morendo, soffro il mio assoluto non-sapere nell’impossibilità di un ritorno; dal nulla, infatti, non mi recupero più nella soddisfazione d’esser una forma viva di me stesso; di fronte al nulla sono completamente impotente, come davanti a quel punto del mio esserci che mi agghiaccia. “Il resto è silenzio”. Ma questo silenzio del non-sapere è ancora un non-voler-sapere ciò che non riesco a sapere, è l’interrogativo a cui segue non una risposta in grado di farmi intendere che cosa io sono nella vita e nella morte, ma un’esigenza che mi impone di condurre e di verificare la mia vita al cospetto della morte. Così la presenza della situazione-limite della morte impone all’esistenza una duplice considerazione di ogni esperienza dell’esserci nell’agire: ciò che, di fronte alla morte rimane essenziale riguarda l’esistenza, mentre ciò che è caduco riguarda l’esserci. È come se l’esistenza venisse meno quando, di fronte alla morte, non trovando più niente di rilevante, si perde nella disperazione del nulla. La morte non è più situazione-limite quando si presenta come una sciagura insuperabile, come l’annientamento oggettivo di ogni cosa». (K. Jaspers, Filosofia, op. cit., pp. 695-699). Regolare i propri istinti sulla base di un decalogo fornito da un’autorità moralmente superiore (quindi non revocabile in dubbio) è stato da sempre suggerito come mezzo sicuro per produrre l’assuefazione che attutisce dapprima ed elimina poi gli sfoghi e i comportamenti di cui sopra. La consuetudine all’ordine e agli ordini, modifica gli uomini da esseri vitali in meramente esistenti. Apprendere a sublimare i propri istinti appiattisce la vita a livello di convivenza civile. La scienza suggerisce vie ben congegnate per giustificare questo appiattimento.

Se non c’è dubbio che la banale soddisfazione dello stimolo non è vivere la propria vita, è anche vero che negando questa soddisfazione non si cresce mai sulla via di un vivere diversamente da quanto suggerisce la banalità dell’esistenza. «Osserva il gregge che ti pascola innanzi: esso non sa che cosa sia ieri, cosa oggi, salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e così dall’alba al tramonto e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e dolore, attaccato cioè al piolo dell’istante, e perciò né triste né tediato. Il vedere ciò fa male all’uomo, perché al confronto dell’animale egli si vanta della sua umanità e tuttavia guarda con invidia alla felicità di quello – giacché questo soltanto egli vuole, vivere come l’animale né tediato né fra dolori, e lo vuole però invano, perché non lo vuole come l’animale». (F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, 13). Solo chi sa di stare costruendo il proprio destino, quindi le possibilità della propria vita, può avere un soddisfacimento degno di questo nome. Ma questa fase, nelle sue caratteristiche positive, è di già oltre la critica negativa. Quest’ultima consegna il suo risultato migliore nel momento in cui svela le correlazioni tra l’individuo e il suo milieu. Scrive Arnold Gehlen: «Proprio nel luogo in cui per l’animale c’è l’“ambiente”, sorge nel caso dell’uomo, il mondo culturale, cioè quella parte della natura da lui dominata e trasformata in un complesso di ausilii per la sua vita. Già per questo è radicalmente erroneo discorrere di un ambiente dell’uomo in senso biologicamente definito. Nell’uomo, alla non-specializzazione della sua costituzione corrisponde la sua apertura al mondo e, alla deficienza strumentale della sua phýsis, la “seconda natura” da lui stesso creata». (L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, tr. it., Milano 1983, pp. 64-65). È qui che gli istinti si sviluppano e producono sogni, desideri, bisogni, tutto il complesso mondo che è presente nell’agire attraverso il coinvolgimento.

Si capisce così perché la più diretta stimolazione, ricevuta attraverso la propria condizione di esclusione sociale, non è sufficiente a produrre una disposizione praticamente distruttiva nei riguardi della scienza. Al contrario, spesso da essa ci si attende quel miglioramento delle condizioni che si subiscono come sfruttamento che non possono non risultare intollerabili. La pulsione vitale è certo influenzata dalle condizioni economiche, ma non fino in fondo. «Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci diede la spugna per cancellare l’intero orizzonte? Che mai facemmo sciogliendo questa terra dalla catena del suo sole? Dove va essa ora? Dove andiamo noi, lontani da ogni sole? Non continuiamo a precipitare e indietro e di fianco e in avanti e da tutti i lati? C’è ancora un lato e un basso? Non andiamo forse errando in un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non fa sempre più freddo? Non seguita a venire notte e sempre più notte? Non occorrono lanterne in pieno giorno?». (F. Nietzsche, La gaia scienza, 125). Non c’è mai una permeazione completa, ma aspetti sempre più ampi vengono influenzati dal desiderio di vivere fino in fondo, anche al di là degli schemi scientifici continuamente approntati e suggeriti come risultati ottimali da conseguire. Questi sbocchi leganti sono controllati a tal punto dalla scienza da costituire ostacoli quasi insuperabili perché integrativi della coscienza individuale che, in loro assenza, si sente ferocemente dimidiata. Basta pensare al rapporto ambiguo che si è venuto determinando col lavoro. Una voragine di fatti, luminosi fatti utili a costruire una intera vita, sempre modificati e sempre uguali, annienta ogni pensiero reale e lo accartoccia nel simulacro di un pensiero, la famiglia, il lavoro, la propria introvabilità fuori della nicchia scavata con cura per difesa e anche per offesa contro un mondo estraneo e ostile. Non c’è un gesto significativo, piattezza assoluta, i bastoni non fioriscono e alla fine accompagnano una vecchiaia rancorosa che osserva le primavere apparenti in circolazione credendole vere, mentre anche loro non hanno rami fioriti e uccelli che cinguettano. Per uno che alza la testa un milione restano a brucare l’erba ridotta a un insieme codificato di espressioni didattiche. Allontanare il malore azzerando l’eccesso, lo spreco, economizzando e riducendo tutto all’essenziale, anche il respiro. Ma l’ordine uccide e spreca il bene più luminoso, la vita, certo la fa risplendere e la rende visibile meglio nell’assenza della confusione e del caos, ma è un’assenza concreta e un risplendere apparente. Il figlio della luce è cieco e annaspa nell’illudersi di essere nella verità della propria immediatezza.

È evidente che l’uomo prova una grande soddisfazione nel fare, e anche è certo che questa soddisfazione non ha soltanto natura utilitaristica, muovendo dalle stesse condizioni della vita, che prima di tutto è movimento che non conosce stasi. Risalendo la strada del Genesi: «Poiché tu hai ascoltato la voce della donna e hai mangiato del frutto dell’albero che io ti avevo espressamente proibito di mangiare, la terra sarà maledetta per cagione tua; con lavoro faticoso riceverai da quella il tuo nutrimento per tutti i giorni della tua vita, essa ti produrrà spine e triboli; ti nutrirai dell’erba dei campi, con il sudore della tua fronte mangerai il pane, finché ritornerai alla terra da cui sei stato tratto, poiché tu sei polvere e in polvere ritornerai». (3, 17-19). È di pari certo che questa soddisfazione cresce man mano che ci si avvia verso la creatività trasformativa dell’agire, mentre al contrario decresce e scompare con il fare coatto, cioè con la produttività modificativa e resa obbligatoria dalla società in cui viviamo. Nelle due direzioni antitetiche si collocano la vita (verso la creatività) e l’esistenza (verso la coazione). La società non ha fatto altro che rendere obbligatoria la pulsione vitale verso l’agire, irreggimentandola e quindi facendola diventare necessariamente “fare coatto”. Lo sviluppo come possibilità di ogni individuo è così diventato un processo storicamente accertabile, un movimento collettivo in cui si collocano le correlazioni sociali, nessuna esclusa. Ha precisato Hans Jonas: «Il Prometeo irresistibilmente scatenato, al quale la scienza conferisce forze senza precedenti e l’economia imprime un impulso incessante, esige un’etica che mediante auto-restrizioni impedisca alla sua potenza di diventare una sventura per l’uomo». (Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, tr. it., Torino 1990, p. XXVII). Fissare legami è compito che produce schiavi, la cui esistenza può essere soltanto utile al mantenimento dei legami stessi, ma anche all’esistenza dei coatti. Nella solitudine c’è sempre una scoperta da fare. Mi racconto storie e risolvo problemi di matematica. So che tutto ciò è puerile, come ripetere a memoria le poesie, ma è quasi sempre un esercizio fecondo. Una lite con me stesso, molto rara, la risolvo subito, ed è quasi sempre generata da un qualcosa che considero un torto, un tradimento che ho sofferto. Naturalmente non sono in grado di litigare con me stesso per i torti e i tradimenti che ho inflitto agli altri. Solo che questo secondo capitolo è quello di un entusiasta, e come tale non ammette precisazioni a discolpa. La libertà è distruzione, assenza di legami e perfino di linguaggio. La libertà è qualità muta, suprema esperienza che non accetta condivisioni né tentativi di consolidamento. La libertà teme l’uomo e questo tema la libertà. Quando la mia esperienza diversa si incontra con la qualità suprema, in quell’attimo io sono il barbaro distruttore che nessuna parola può rabbonire, perché non la capisco.

L’esistenza ha un proprio ambito vitale, ridotto e immiserito ma “esistente”, all’interno del quale le briciole sembrano un banchetto. «La trasformazione, cui viene sottoposto il momento reale dell’esplosione – filtrata attraverso la selezione della coscienza modellizzante, che trasforma il casuale in regolare – ancora non conclude il processo della coscienza. Al meccanismo viene connessa la memoria, che permette di tornare nuovamente al momento precedente l’esplosione, e ancora una volta, ormai retrospettivamente, rappresentare l’intero processo. Adesso nella coscienza vi saranno come tre strati: il momento dell’esplosione originaria, il momento della sua redazione nei meccanismi della coscienza e il momento del loro nuovo duplicarsi nella struttura della memoria. L’ultimo strato rappresenta la base del meccanismo dell’arte. Tutte le forme di creazione artistica possono essere rappresentate come varietà di un esperimento intellettuale. L’essenza del fenomeno sottoposto ad analisi viene inserita in un qualche sistema di relazioni che le è improprio. Grazie a ciò l’avvenimento trascorre come esplosione e, di conseguenza, ha un carattere imprevedibile. L’imprevedibilità (l’inaspettato) dello sviluppo degli avvenimenti costituisce il centro compositivo dell’opera». (J. M. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, op. cit., pp. 190-191). Ogni elemento acquisito, pur non chiudendo mai il cerchio della completezza, fornisce comunque un accrescimento di qualcosa d’altro che il proprio mero contributo. Questo contributo è dato dalla continuità del volere che appare nelle sue più diverse manifestazioni, la quale contribuisce alla formazione del mondo in cui viviamo che è quindi fatto di coazione e regole, ma anche di una sotterranea e mai sopita sollecitazione a insorgere.

La scienza ha la pretesa di rispondere a ogni manifestazione della volontà, ipotizzandola nuclearmente individuale, per poi arrivare attraverso queste singole risposte alla spiegazione del mondo nel suo complesso, implicando con questa seconda pretesa una dimissione da ogni ipotesi realistica e accettando (ogni scienziato è sempre un po’ uno spiritualista) un non mai ben definito idealismo. I movimenti di correlazione che mettono in rapporto le singole volizioni con i vari sistemi socio-culturali sono, a loro volta, correlati con la società nel suo insieme e questa con l’idea che ognuno di noi si fa del rapporto io-mondo. Gli scienziati non fanno eccezione. «L’uomo – scrive Heidegger – decide in proprio del modo in cui deve situarsi rispetto all’ente ridotto a oggetto. Ha così inizio quel modo di essere uomo che consiste nel prendere possesso della sfera dei poteri umani come luogo di misura e di dominio dell’ente nel suo insieme. L’epoca, caratterizzata da un evento di questo genere, non è qualcosa di nuovo solo in confronto al passato, ma si impone come nuova in se stessa e assolutamente. La novità concerne il mondo nel senso che si è fatto immagine. Ciò non fa che rafforzare la soggettività. Nell’imperialismo planetario dell’uomo tecnicamente organizzato, il soggettivismo dell’uomo raggiunge quel culmine da cui non scenderà che per adagiarsi sul piano dell’uniformità organizzata e per installarsi in essa. Questa uniformità è infatti lo strumento più sicuro del dominio completo, cioè tecnico, della Terra». (Sentieri interrotti, tr. it., Firenze 1968, p. 96-97). La risposta della scienza tende pertanto a generalizzare, da un lato, e a specificare, dall’altro. Nelle due direzioni, verso la generalizzazione, perde le sue pretese di controllo, verso la specificazione, perde la sua ipotesi iniziale di completezza.

Generalizzando si nega l’ipotesi di partenza in base alla quale solo due volontà hanno un rapporto vero e proprio, quindi, nell’eventualità di un accordo, doveri reciproci. Specificando si nega il riflesso che la componente generalizzante ha nella realtà specificata, in base alla quale componente è legittimo arrestarsi a un certo punto della specificazione evitando il rischio di un cattivo infinito.

Non è quindi la scienza che può cogliere gli innumeri movimenti che sommuovono l’animo umano. «L’unità è dove splende ciò che lo spazio non costringe, dove risuona ciò che il tempo non rapisce, dove profuma ciò che il vento non disperde, dove ha sapore ciò che la voracità non sminuisce, dove vincola un amplesso che la sazietà non scioglie». (Agostino, Le confessioni, X, par. VI, 8). Eppure per essa sarebbe di essenziale importanza, non essendoci scienza vera e propria se non dell’uomo e per l’uomo. Eppure essa si indirizza quasi sempre lontano da questi mari burrascosi e cerca quella base solidamente fisica per dirsi certa dell’oggettività dei suoi risultati. Anzi, quando è all’uomo che si accosta, sono proprio questi risultati che vengono portati avanti come unità di metodo e garanzia di successo. «Il possesso di molte scienze, quando non è accompagnato dalla scienza di ciò che è meglio, poche volte è utile e il più delle volte danneggia. Accade infatti che chi possiede molte conoscenze e ha particolare abilità in molte tecniche, se è privo di questa scienza, si fa trascinare di volta in volta da ciascuna delle altre e così finisce per trovarsi travolto dai flutti come chi solca il mare aperto senza pilota e con il rischio di non restare in vita per molto tempo». (Platone, Alcibiade minore, 146e-147b). Occorrerebbe togliere via tutto quello che ostacola un corretto avvicinamento all’uomo, ma ogni passo ipotetico, avanzato in questa direzione, risulta alla fine deludente. Posso abbracciare il desiderio più vasto, l’inverosimile e l’incredibile, e posso farlo mio, ma alla fine, nel mio andare avanti, questo desiderio passa dal suo pieno e cieco rigoglio alla rifinitura. La parte finisce per prevalere sul tutto. L’autopersuasione può essere un’ottima sostituta del coraggio, ma alla lunga mostra la trama. Ciò non accade con l’uomo ragionevole, che in ogni occasione ha modo di tornare a persuadersi della fattibilità del mondo. Tutto quello che serve a quest’ultimo sono le regole che al primo sono state negate. Distinguere torna in merito alla volontà. Questa grande forza che mi spinge al fare e fa di me quello che voglio diventare, qualsiasi prospettiva è per lei e con lei possibile, nell’ottica di diventare quello che sono è di freno, anzi, fungendo di controllo, spingendomi ad acquisire sempre più, è un vero e proprio ostacolo.

Il fatto è che i protocolli scientifici, organizzati efficacemente nei vari settori di ricerca, ammettono con difficoltà proposte di modifica al loro interno che coinvolgano la scelta di mezzi in funzione dei fini da raggiungere. Questo è un terreno dove sorgono sempre resistenze. Ecco, infatti, Popper: «Noi rimpiazziamo delle esperienze psicologiche concrete con degli elementi situazionali astratti e tipici, quali “i fini” o “la conoscenza”. In secondo luogo, il punto importante della nostra analisi situazionale è precisamente che ci basta, per “animare” questa analisi, mantenere l’ipotesi che le persone o agenti che intervengono agiscono in modo adeguato o appropriato, cioè a dire in conformità alla situazione data. Dobbiamo naturalmente ricordare che la situazione, nel senso in cui io utilizzo questo termine, contiene già tutti i fini e le conoscenze realizzabili, che possono essere importanti, in particolare la conoscenza di mezzi possibili per realizzare questi fini». (La rationalité et le statut du principe de rationalité, in Aa.Vv., Les fondements philosophique des systemes économiques, ns. tr. dalla tr. fr., Paris 1967, p. 142). Gli equilibri interni alla struttura del singolo sistema scientifico di ricerca esercitano una pressione su tutto quello che è loro esterno in quanto considerano indispensabile restare in una condizione ipotetica (non reale) di autonomia.

Una critica deve avvenire dall’interno del sistema che si autoconsidera in equilibrio, e deve presentarsi secondo le procedure metodologiche più accreditate, poniamo seguendo le direttive del falsificazionismo popperiano. Per chi considera inaccettabile la pretesa oggettivante della scienza, e quindi un imbroglio ideologico la sua dichiarazione di chiamarsi fuori dalla dimensione umana, che è prima di tutto etica, per chi non ammette una distinzione tra comparto fisico e comparto spirituale, la critica scende subito alla radice di ogni singolo protocollo scientifico mettendone a nudo l’originaria petizione di principio. «Grande è il potere – scrive Hans Jonas – delle tigri e degli elefanti, più grande quello delle termini e delle cavallette, ancora maggiore quello dei batteri e dei virus. Ma esso, per quanto sia guidato da uno scopo, è cieco e non libero e trova il proprio limite naturale nell’antagonismo di tutte le forse che, in modo altrettanto cieco e indiscriminato, fanno agire la molteplicità dell’insieme. Soltanto nell’uomo il potere, grazie al sapere e all’arbitrio, è emancipato dal tutto e può così diventare fatale all’uno e all’altro. Il suo potere è il suo destino e diventa sempre di più il destino generale. Perciò nell’uomo, e soltanto in lui, il dover essere scaturisce dalla volontà in quanto autocontrollo del suo potere operante in modo consapevole». (Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, op. cit., p. 161). Per analogia con quello che proviamo noi di fronte all’incertezza del futuro, avviciniamo la presunzione scientifica alla stessa maniera scatenando reazioni facilmente immaginabili.

Nell’ambito di ogni singolo settore di ricerca appaiono nella scienza i limiti etici che sono stati subordinati all’efficacia dei risultati. «È necessario – precisa Heidegger – che la ragione si presenti alla natura avendo in mano i princìpi, secondo i quali soltanto è possibile che fenomeni concordanti abbian valore di legge, e nell’altra l’esperimento, che essa ha immaginato secondo questi princìpi: per venire, bensì, istruita da lei, ma non in qualità di scolaro che stia a sentire tutto ciò che piaccia al maestro, sebbene di giudice, che costringa i testimoni a rispondere alle domande che egli loro rivolge». (La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, tr. it., Milano 1976, p. 11). I sentimenti di solidarietà e di simpatia che dovrebbero guidare il ricercatore (mon semblable) sono rinviati in avanti e, in un certo senso, fatti dipendere dai benefici collettivi che verranno fuori dai risultati conseguiti. Ancora Heidegger: «Il predominio essenziale della tecnica si manifesta anche in quelle zone marginali in cui si tenta ancora di controllare la tecnica con l’aiuto delle tavole dei valori tradizionali. Si tratta di sforzi nei quali si fa già ricorso a mezzi tecnici, che sono ben altro che semplici fattori estrinseci». (Sentieri interrotti, op. cit., p. 267). Viene così dato per scontato il fatto che dai risultati verranno effetti positivi e che a decidere dei costi (che comunque sono da sostenere) siano esclusivamente gli scienziati del settore di ricerca in questione, dotati in questo senso di una sorta di imperscrutabile onniscienza. Del sentimento di solidarietà che dovrebbe collegarci agli altri, immaginati come beneficiari di questi risultati, c’è una semplice traccia nella presunzione che comunque un maggiore beneficio collettivo finirà per arrivare. Ma non si può parlare di vera e propria solidarietà in assenza di autonomia. Kant ha visto male: «Il rispetto per la legge morale è un sentimento che viene realizzato mediante un principio intellettuale, e questo sentimento è il solo che noi conosciamo interamente a priori, e di cui possiamo vedere la necessità. Tale sentimento può anche essere chiamato sentimento di rispetto per la legge morale e, per tutte queste ragioni riunite, un sentimento morale». (Critica della ragion pratica, Parte I, Libro I, cap. III). Il rispetto per l’altro non è dato solo dal fatto che lo considero uguale e fratello, ma che gli riconosco una capacità autonoma di manifestare in maniera intersoggettiva la sua singolarità.

Ciò non avviene nel lavoro scientifico e non so se nell’ambito di una diversa distribuzione post-rivoluzionaria di questo stesso lavoro il risultato potrebbe essere diverso. Solo che in questo sforzo, curiosamente immaginato – e non poteva essere diversamente –, non è suggerito in nome di una comune visione del mondo, un nesso di pensiero che scalzi la società dal suo piedistallo originario per giustificarla nuovamente sulla base di preclusioni ideologiche, ma è colta partendo da una connessione della vita per come si manifesta a partire dagli istinti, dai sentimenti, dalle intuizioni su cui la volontà e l’intelletto stendono la coltre conoscitiva.

Non è la ragione, con i suoi “a priori” tecnici, i quali mi dicono che i miei risultati di scienziato lavoreranno in favore di tutti gli uomini, ma il mio cuore che mi avverte del contrario, a generare lo stimolo a una pratica distruttiva.

Parte Seconda

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“Quella rettitudine e quella scepsi più raffinate erano nate laddove paressero applicabili, alla vita, due principi contrapposti, perché entrambi erano compatibili con gli errori basilari: laddove, quindi, si potesse disputare sul grado più o meno elevato della loro utilità per la vita; parimenti laddove nuovi princìpi, pur non rivelandosi utili alla vita, almeno non sembravano nuocerle, in quanto espressione di un istinto intellettuale verso il gioco e, come tutti i giochi, innocente e felice. Gradualmente il cervello umano si empì di questi giudizi e convinzioni e così nacquero, in questo groviglio, fermento, lotta e brama di potere. Non soltanto utilità e piacere, ma anche istinti di ogni genere prendevano parte alla battaglia per le ‘verità’; la lotta intellettuale divenne occupazione, eccitazione, vocazione, dovere, dignità; la conoscenza e l’anelito al vero trovarono finalmente una loro collocazione come bisogno tra gli altri bisogni. Da allora fede e convinzione non furono più le uniche potenze, essendo subentrati anche esame, negazione, sfiducia, contraddizione; tutti gli istinti ‘cattivi’ furono subordinati alla conoscenza e circondati dall’alone di quanto è permesso, venerato, utile: in ultima analisi, dall’occhio e dall’innocenza della bontà. La conoscenza divenne quindi essa stessa parte della vita, e la vita una potenza sempre in crescita: finché le conoscenze e quei primordiali errori di base non si trovarono in contrasto, insieme come vita, insieme come potenza, insieme anche nella stessa persona. Il pensatore: è in lui che l’istinto alla verità e quegli errori atti a preservare la vita hanno combattuto la loro prima battaglia, dopo di che anche l’istinto alla verità si era rivelato capace di preservare la vita. Rispetto all’importanza di questa battaglia tutto il resto è indifferente: si pone qui la domanda sulle condizioni vitali e si compie il primo tentativo di rispondere sperimentalmente a questa domanda. In che misura la verità sopporta di essere incorporata? questa la domanda, è questo l’esperimento”.

(Friedrich Nietzsche, La gaia scienza)

Nota introduttiva

La vita, nei suoi mille meandri creativi, è stata espulsa fuori dalla scienza, così come si è andata configurando da Bacone in poi. Quello che gli alchimisti cercavano era qualcosa che poteva trovarsi soltanto “a lato” dell’obiettivo principale della ricerca stessa. La scienza riformata, azzerando tutto quello che “a lato” poteva ancora essere cercato, ha centralizzato l’obiettivo e ha ufficialmente reso irrazionale, cioè folle, ogni altra considerazione. L’incompiuto e il disfatto vengono così rinviati a una proiezione lontana in cui tutto dovrebbe risolversi per il meglio. L’efficacia della spiegazione per meglio fare ha ricondotto il “vedere” alla incrostazione schematica del “di già visto” più una piccola aggiunta esplicativa. Con grande cautela si inoltra Hegel nei percorsi esterni ma limitrofi alla foresta: «Essere, puro essere, – senza nessun’altra determinazione. Nella sua indeterminata immediatezza esso è simile soltanto a se stesso, ed anche non dissimile di fronte ad altro; non ha alcuna diversità né dentro di sé, né all’esterno. Con qualche determinazione o contenuto, che fosse diverso in lui, o per cui esso fosse posto come diverso da un altro, l’essere non sarebbe fissato nella sua purezza. Esso è la pura indeterminatezza e il puro vuoto. – Nell’essere non v’è nulla da intuire, se qui si può parlar d’intuire, ovvero esso è questo puro, vuoto intuire stesso. Così non vi è nemmeno qualcosa da pensare, ovvero l’essere non è, anche qui, che questo vuoto pensare. L’essere, l’indeterminato Immediato, nel fatto è nulla, né più né meno che nulla». (G. W. F. Hegel, La scienza della logica, vol. I, op. cit, p. 85).

In base al movimento tra logica e ragione, cioè tra processi e metodi, da un lato, e induzioni e deduzioni dall’altro, la conoscenza è stata immaginata, nel ballo degli stupidi nani che hanno le mani nella pasta scientifica, come la produzione continua di un adattamento progressivo all’ambiente grazie all’intelligenza e al rapporto tra organismo e mondo esterno (rapporto che man mano si va perfezionando), oltre all’utilizzo dei risultati che da tale nesso vengono prodotti e resi in grado di modificare le condizioni date. Però la vita ha pulsioni che solo in minima parte possono essere attutite dall’adattamento alle condizioni sociali date. Spesso qualcosa si rompe all’interno di certi equilibri, anche in maniera rozza e imprecisa, così vengono fuori istinti, sentimenti, intuizioni che ci mettono paura, tanto distanti ci paiono dalle tolleranze legali attraverso le quali filtriamo noi stessi e gli altri. Continua Hegel: «Nulla, il puro nulla. È semplice somiglianza con sé, completa vuotezza, assenza di determinazione e di contenuto; indistinzione in se stesso. – Per quanto si può qui parlare di un intuire o di un pensare, si considera come differente, che s’intuisca o si pensi qualcosa oppur nulla. Intuire o pensar nulla, ha dunque un significato. I due si distinguono; dunque il nulla è (esiste) nel nostro intuire o pensare, o piuttosto è lo stesso vuoto intuire e pensare, quel medesimo vuoto intuire e pensare ch’era il puro essere. Il nulla è così la stessa determinazione o meglio assenza di determinazione, epperò in generale lo stesso, che il puro essere». (Ib., pp. 85-86).

Stati d’animo, provocati da un nonnulla che si apre improvvisamente sul futuro, mettono in forse la nostra esistenza, la scalzano dai valori che la legano, la proiettano verso radicali dubbi famelici, dove ogni riflessione a sangue morto arriva sempre troppo tardi. La volontà stessa, che è l’elemento di raccordo tra questi flussi e l’intelletto, a volte non basta a controllare la danza dei fantasmi.

Capire, conoscere, potrebbe diventare la base per una scienza “altra”, una scienza diretta a cogliere (con un po’ di sale) quello che sta “a lato”, facendo ricorso alla logica del tutto e subito. Non si può tagliare l’unità del tutto senza perdere l’aspetto più importante, quell’“a lato” che non può essere tenuto presente se non accostandosi diversamente alla realtà. La stessa logica dell’a poco a poco, che regola i processi scientifici, solo con una forzatura di astrazione può (come di fatto è) essere considerata separata dalla logica del tutto e subito. Anche la ragione, che governa sui nessi e sui legami, si basa (e non perde mai questo contatto) sulla vita istintuale. Ancora Hegel: «Il puro essere e il puro nulla sono dunque lo stesso. Il vero non è né l’essere né il nulla, ma che l’essere, – non passa, – ma è passato, nel nulla, e il nulla nell’essere. In pari tempo però il vero non è la loro indifferenza, la loro indistinzione, ma è anzi ch’essi non sono lo stesso, ch’essi sono assolutamente diversi, ma insieme anche inseparati e inseparabili, e che immediatamente ciascuno di essi sparisce nel suo opposto. La verità dell’essere e del nulla è pertanto questo movimento consistente nell’immediato sparire dell’uno di essi nell’altro: il divenire; movimento in cui l’essere e il nulla sono differenti, ma di una differenza, che si è in pari tempo immediatamente risoluta». (Ib., p. 86).

È difatti dalla vita, dagli impulsi, dai sentimenti che ribollono al suo interno, che viene fuori quel lato esteriore visibile che, sopportandolo male, di solito siamo bravi a rivestire di parole. Alla base della scienza, per come insistono nel loro dire gli scienziati, c’è il concetto di solidarietà, gli effetti delle ricerche dovrebbero migliorare la condizione di tutti, l’esistenza comune, purché vengano rispettate certe regole. Anche nel caso, non tanto estremo alla fine dei conti, delle ricerche scientifiche che hanno dato vita alla tecnologia nucleare e al settore militare in senso specifico (armi convenzionali o meno, intelligenti o meno), c’è da dire che il rito della solidarietà e della pace reggono le loro cosiddette scelte. Ammazzarne pochi (relativamente) per salvarne tanti. Questa ridicola cognizione solidarista, fondata sul terrorismo del più forte sul più debole, è frutto di calcolo economico (mercati di ogni genere) e di potere nel senso specifico della politica statale dominante. Sempre il non facile percorso hegeliano: «Il nulla si suole contrapporre al qualcosa. Ma qualcosa è già un ente determinato, che si distingue da un altro qualcosa, e così anche il nulla contrapposto al qualcosa è il nulla di un certo qualcosa, un nulla determinato. Qui però il nulla è da intendere nella sua indeterminata semplicità. – Quando si volesse riguardar come più esatto di contrapporre all’essere il non essere, invece che il nulla, non vi sarebbe niente da dire in contrario, quanto al risultato, poiché nel non essere è contenuto il riferimento all’essere; il non essere è tutti e due, l’essere e la sua negazione, espressi in uno, il nulla, com’è nel divenire. Ma da principio non si tratta della forma dell’opposizione, cioè in pari tempo del riferimento; si tratta soltanto della negazione astratta, immediata, del nulla preso puramente per sé, della negazione irrelativa, – ciò che, volendo, si potrebbe anche esprimere per mezzo del semplice: Non. Furono gli Eleati i primi ad enunciare il semplice pensiero del puro essere, soprattutto Parmenide, che lo enunciò come l’Assoluto e come l’unica verità, e ciò, nei frammenti di lui rimastici, col puro entusiasmo del pensiero, che per la prima volta si afferra nella sua assoluta astrazione: soltanto l’essere è, e il nulla non è punto. – Nei sistemi orientali, essenzialmente nel Buddismo, il principio assoluto è, com’è noto, il nulla, il vuoto. – Contro cotesta semplice ed unilaterale astrazione il profondo Eraclito mise in rilievo il più alto concetto totale del divenire, e disse: L’essere è tanto poco, quanto il nulla, o anche: Tutto scorre, cioè tutto è divenire. – Le sentenze popolari, specialmente orientali, che tutto quel che è abbia nella sua nascita stessa il germe del suo perire, e che viceversa la morte sia l’ingresso in una nuova vita, esprimono in sostanza cotesta medesima unione dell’essere col nulla. Ma queste espressioni hanno un substrato, in cui avviene il passaggio; l’essere e il nulla vengono tenuti separati uno dall’altro nel tempo, vengono immaginati come avvicendantisi in esso, non già pensati nella loro astrazione, epperciò nemmeno pensati come tali che siano in sé e per sé lo stesso. Ex nihilo nihil fit – è una delle proposizioni a cui in metafisica venne attribuita una grande importanza. Ma o in questa proposizione non v’è da veder altro che la vana tautologia che nulla è nulla, oppure, se il divenire vi deve avere un significato reale, non vi è anzi in essa alcun effettivo divenire, giacché in quanto per quella proposizione da nulla viene soltanto nulla, il nulla vi rimane nulla. Il divenire importa che il nulla non resti nulla, ma passi nel suo altro, nell’essere. – Quando la metafisica posteriore, soprattutto la cristiana, rigettò la proposizione che dal nulla venisse nulla, essa affermò un passaggio dal nulla nell’essere. Per quanto, ora, questa proposizione fosse da lei presa sinteticamente o in guisa semplicemente rappresentativa, pur nondimeno anche nella più imperfetta unione è contenuto un punto in cui l’essere e il nulla coincidono, e la differenza loro sparisce. – La vera e propria importanza della proposizione: Dal nulla non viene nulla, il nulla è appunto nulla, sta nell’opposizione sua contro il divenire in generale e con ciò anche contro la creazione del mondo dal nulla. Coloro, che vanno fino a riscaldarsi per affermar la proposizione che il nulla è appunto nulla, non si accorgono che con ciò aderiscono all’astratto panteismo degli Eleati, e, sostanzialmente, anche a quello spinozistico. La veduta filosofica, per cui vale come un principio che l’essere è soltanto essere e il nulla soltanto nulla, merita il nome di sistema dell’identità. Questa identità astratta è l’essenza del panteismo. Se questo resultato, che l’essere e il nulla sono lo stesso, riesce di per sé sorprendente o sembra un paradosso, non v’è da farne gran caso. Vi sarebbe piuttosto da meravigliarsi di quella meraviglia, che si mostra così nuova nella filosofia, dimenticando che in questa scienza si presentano determinazioni affatto diverse che non nella coscienza ordinaria e nel cosiddetto senso comune, il quale non è precisamente il buon senso, ma anche l’intelletto rivolto alle astrazioni e alla fede (o meglio, alla superstizione) verso di esse. Non sarebbe difficile di mostrar questa unità dell’essere col nulla in ogni esempio, in ogni realtà o pensiero. Dell’essere e del nulla è il caso di dir lo stesso che dianzi fu detto dell’immediatezza e della mediazione (la quale ultima importa il riferirsi di uno a un altro, epperò una negazione), che cioè in nessun luogo, né in cielo né in terra v’è qualcosa che non contenga in sé tanto l’essere quanto il nulla. Senza dubbio, in quanto qui si parla di un certo qualcosa e di un certo reale, quelle determinazioni non si trovan più nella lor completa non verità, in cui stanno come essere e come nulla, ma vi si trovano in una determinazione ulteriore, e intese p. es. come positivo e negativo, diventano, quello, il posto, riflesso essere, questo il posto, riflesso nulla; ma il positivo e il negativo contengono, il primo l’essere, il secondo il nulla, come loro base astratta. – Così perfino in Dio la qualità, cioè l’attività, la creazione, la potenza etc., contiene essenzialmente la determinazione del negativo; coteste qualità consistono nella produzione di un altro. Ma una spiegazione empirica di quell’affermazione, per mezzo di esempi, sarebbe qui intieramente superflua. Poiché questa unità di essere e nulla sta ormai una volta per sempre per base qual verità prima, costituendo l’elemento di tutto quel che segue, tutte le ulteriori determinazioni logiche (senza contare il divenire stesso), l’esser determinato, la qualità, e in generale tutti i concetti della filosofia, sono esempi di essa unità. – È invece il sedicente senso comune o buon senso, quello che, giacché rigetta l’inseparabilità dell’essere e del nulla, potrebb’essere invitato a scoprire un esempio in cui si trovino separati (separato p. es. qualcosa dal suo termine o limite, oppure l’infinito, Dio – come dianzi fu detto – dall’attività). Soltanto quei vuoti “enti di ragione” stessi, l’essere e il nulla, sono questi separati, e sono appunto essi, che quel senso comune o buon senso preferisce alla verità, all’inseparabilità loro, che per ogni dove ci è innanzi. Non si può avere in mente di ovviar da ogni parte alle confusioni, in cui s’imbatte la coscienza ordinaria a proposito di cotesta proposizione logica. Sono infatti inesauribili. Se ne posson solo menzionare alcune. Una delle ragioni di tal confusione, fra le altre, è che la coscienza porta seco, nella considerazione di cotest’astratta proposizione logica, le rappresentazioni di un qualcosa concreto, dimenticando che non si parla di un tal qualcosa, ma unicamente delle pure astrazioni dell’essere e del nulla, e che queste sole bisogna fissare». (Ib., pp. 86-90).

Ma la solidarietà non è un sentimento che può essere avvertito da un’organizzazione, la quale se ha tendenza ad abbracciare tutto l’ha per altre intenzioni. Sono gli individui che lo sentono, come sentimento, appunto, e lo concretizzano in molte forme della vita comunitaria. In queste forme si cala poi l’avallo ambiguo dello Stato che si impadronisce della forza vitale e l’istituzionalizza nell’esistenza ingessata di strutture che apparentemente si rifanno al sentimento di solidarietà. Il rapporto tra madre e figlio è certamente codificato in un certificato di nascita, ma esso quasi sempre sta ancora nell’amore fra questi due esseri, nel legame che possono (contro mille ostacoli) costruire nella società, dove può crescere, irrobustirsi, immiserirsi e anche spegnarsi, senza che per questo si abbiano conseguenze formali sul documento attestante la sua esistenza istituzionale. Così per tutte le altre forme della coscienza nell’ambito sociale e per i veri sentimenti di amicizia, affinità, amore, ecc. Io vorrei dire la verità ma non mi è possibile, la dea è muta. Non ho la sua tutela né mi è stata affidata alcuna missione da portare a termine. Non ho il compito di dire la verità, anzi la mia volontà me lo impedisce, per cui una intenzione di dire la verità è destinata a un fallimento fra i più tristi, non una sconfitta, ma un fallimento, cioè un crollo prima di cominciare. Non posso voler dire la verità, devo cercare una strada diversa, un diverso passo. L’intuizione non me lo fornisce allo stesso modo di una rivelazione, ma lo devo conquistare, nulla è regalato nel mondo del fare. L’intuire non è collegato con il capire. Il primo coglie un aspetto che sfugge al secondo, mette in evidenza il rapporto tra la mia presenza come totalità di coinvolgimento senza residui e l’assenza della qualità, abisso davvero incolmabile nella produzione modificativa. Questo rapporto è non un accostamento di due nozioni conoscitive, ma la coscienza di un nuovo venire alla luce, di una diversa permanenza. Adesso ho davanti una entità nuova, indeterminata più di quella che emergeva dal semplice fare, ma senza nemmeno il riferimento quantitativo che dava l’impressione di una maggiore fondatezza. L’intuizione coglie un qualcosa che non è ancora comprensibile, l’irrompere del mio coinvolgimento svincola la vecchia comprensione dalla sua corrispondenza con la parola e propone nuovi tentativi solamente plausibili di concretizzare un rapporto che qui potrebbe prendere, come è accaduto tante volte, la via del mito. Le parole cominciano qui a perdere la loro tradizionale velatezza e, nella critica negativa, si abbelliscono della più remota essenza semantica, riducendosi spesso a semplici suoni che tornano a provvedere se stessi di senso solo più tardi, nella immedesimazione con la qualità. Si remotizza la saccente arroganza delle corrispondenze obbligatorie, si indebolisce il sostegno storico che accompagna la conoscenza per tutta la sua avventura nel fare, scade l’importanza di un modo di pensare fondato su cause considerate logicamente ineccepibili. Sul punto dell’intuizione devo cogliere nuovi rapporti d’importanza, nuove scale di valori, e queste scale potrebbero criticamente e negativamente essere solo punti paralleli posti sullo stesso piano, non c’è più nulla da confutare ricorrendo a formulazioni più dotte. È del coraggio che qui parlo.

In ogni caso, l’elemento essenziale di questi sentimenti di solidarietà, è un atteggiamento interno, un modo di porsi dell’animo verso l’altro richiamandolo significativamente nella sfera della propria vita, aprendo il rapporto agli orizzonti esclusivi e riservati di quest’ultima e facendolo diventare un movimento solo, dove tutto il flusso si libera dall’angustia e dal vuoto della solitudine. Vediamo al di là, con gioia ci accorgiamo che qualcosa di simile a noi palpita nel mondo che ci circonda e vogliamo per questo qualcosa che la nostra gioia sia percepibile, non i nostri schematismi e nemmeno le certezze mai ripudiate che ci hanno annebbiato per notti intere.

Quello che manca nella scienza del quantitativo, e la cui assenza ha reso facile l’asservimento teleologico, è la modificazione degli interessi, la varietà delle realizzazioni e quindi dei metodi, la valutazione del di già acquisito come uno dei tanti punti da cui partire, non il solo e nemmeno il più importante. La scienza deplora che il procedimento analitico penetri nell’azione conoscitiva in modo indiretto, che costituisca un ampliamento accidentale e involontario. Al contrario, nel suo procedere, il metodo è completamente dato e non è possibile che lo si rimetta in discussione nel corso della ricerca. Ogni tentativo di sturare vecchie supposizioni è subitamente messo da parte. Penso con forza l’assenza e mi coinvolgo in questo abisso di mancanza che non posso riempire. Mi si presenta l’assenza della qualità come un oggetto che non c’è, un grande vuoto. Ma ciò è un residuo del fare come pensiero limitato al modificare, invece io sto muovendomi per andare oltre. Mi devo allontanare da questo modulo e pensare diversamente, come potrebbe essere l’uno posto in quest’assenza. Non c’è parola che possa venire qui a testimoniare la presenza dell’uno nell’assenza della qualità, non sono che immagini e fantasie. Non sono in grado di pensare questo movimento con me stesso come parte in gioco, posso pensarlo come qualsiasi altro spostamento quantitativo, ma l’uno non è quantità. L’uno è fuori dell’assenza perché l’uno semplicemente è, non può essere pertanto identificato con la qualità, ma questo pensiero mi fa prendere coscienza, pure nella sua infondatezza, del mio coinvolgimento reclamato come soluzione essenziale con la qualità della cosa che per il momento continua a sfuggirmi.

L’amore non è un servizio, il concetto di servizio è legato a quello di lavoro e questo alla retribuzione. Chi fornisce un servizio si aspetta di essere pagato, in ciò il suo agire si invischia diminuendo d’intensità, si lacera e, alla fine, si riduce a semplice fare coatto, dove la coazione è imposta dallo scopo da raggiungere (l’ottenimento della retribuzione). Tutto quello che è forzato, volendo asservire, produce regole e norme da rispettare, cioè legami artificiali che legando gli uomini in maniera contraria ai loro istinti, li deformano e li asserviscono. Coltivo l’odio come una pianta rara perché il mio cuore continua a ribollire contro l’ingiustizia. Ma non so nulla, o quasi nulla, di questo orgoglioso sentimento. Lo scopro nel mondo nel mentre che qualcuno vuole portare via il mio possesso. Ma questo possesso, se tale lo considero, lo porto via a qualcuno. Ecco perché il mondo è sciagura e dolore, per non potere fare a meno del possesso e per dovere farne a meno al più presto.

Coraggio, forza vitale, coerenza nelle scelte di vita, energia nell’agire e nell’affrontare gli ostacoli (primariamente culturali), rampollano continuamente come problemi all’interno delle scelte di metodo operate dalla scienza, ma vengono accantonate come spurie. In che modo il massimo beneficio per me, ottenuto poniamo con la mia posizione dominante di scienziato di primo livello, può essere un beneficio per tutti? La teoria milliana non ha forse fatto il suo tempo definitivamente? Non posso armonizzare l’interesse del singolo con l’interesse generale se nel realizzare il primo danneggio il secondo, considerato meno importante, obiettivo da affidare alla buona volontà del meccanismo sociale oggettivamente considerato. Questa strada è preclusa, ed è tempo che ci accorgiamo delle perverse conseguenze che ha prodotto.

Ogni singolo movimento del fare coatto – e la scienza, per il momento, resta in quest’ambito, governato dalla logica dell’a poco a poco – è sotto il dominio e il controllo della volontà, cioè è diventato deludente pratica modificativa che riproduce se stessa in base a regole e corrispondenze. La vita è stata per tempo allontanata, nell’ipotesi di alimentarla dopo, alla fine del percorso, usufruendo di certi risultati positivi. Interrompere questo giro vizioso potrebbe essere possibile, ma occorrerebbe prendere di sorpresa la volontà come un sicario, applicare la distruzione prima di tutto alla propria esistenza, spopolandola almeno in parte dalle scorie che la soffocano. Ciò è possibile applicando la logica del tutto e subito, ma non può essere considerata cosa facile da fare. La volontà è sempre lì a controllarci e a suggerire scelte di minimo rischio e di massimo (ma miope) risultato. L’integrità del dire è bene riportata alle sue iniziali miserie e specificazioni, non sorge impavida, quando insiste oltre è semplicemente petulante come il fare che china la testa e si accanisce nel proprio dovere sancito e controllato dalla volontà a cui nulla sfugge. Ma l’odio, a dirlo, è poca menzione di sentimento superficiale, non fa venire alla luce la parola non ancora detta, che sta sempre dietro quella pronunciata appena e che non verrà mai alla luce ma resterà sopravveniente, eccitata ma non inquadrata, ingresso dell’eccesso e tomba dell’integrità del dire. La pazzia della parola è pazzia conservativa, più precisamente illusione e apparenza. Affidare tutto alla parola è da pagliacci buffi e accigliati, apocalittici emblematici che dopo, sotto sotto timbrano il cartellino come il grande novero dei loro ascoltatori. Se di parola si deve dire che si dica di parola impervia, se non altro per pochi, di parola che deve essere cercata e sconfitta, non opportunamente servita come colazione o aperitivo. Esistono idioti che si affaticano sulle parole come usassero un terreno incolto, il loro lavoro sarà sterile, non mieteranno mai il prodotto che sognano. L’imbroglio nasconde e gioca col significato delle parole, ma è gioco sterile che non diverte. Incantatori e maghi o tacciono aspettando gli eventi dettati dalle loro intuizioni o sono imbroglioni e mestatori. Il silenzio cadendo su tutti azzera tutto e rende futili le parole giustificative del non avere agito. Un monumento al fare è destinato alla polvere.

È per questo motivo che consideriamo etico quel comportamento conforme alle regole, per poi dovere ammettere che questo formalismo giustappositivo è estraneo alla vita e può, tutt’al più, regolare un’ineffabile esistenza monastica, rinunciataria e vigliacca. Poiché non possiamo governare la volontà a nostro piacimento è bene quindi che ci facciamo dare dei suggerimenti da qualcosa che sta più a fondo e che produce la volontà come conseguenza del vivere in società. Gli istinti, una volta avvertiti profondamente, da un corpo che vive della loro soddisfazione, e che è quindi teso pienamente a rendere possibile questa soddisfazione, pongono la propria distanza dalla volontà e dagli scopi artefatti che questa continua a imporre. Costruire il proprio destino in maniera indiretta e totale. Chi si sottomette si rende conto, nello stesso tempo che china il capo, di rinunciare a se stesso, alla propria vita. L’edonismo è ben triste prospettiva. Dopo il sogno inconfondibile dell’agire, la parola che rammemora torna dalla desolazione ed è provvista di un contenuto. Rigetta nel mondo una sapienza che il mondo scambia volentieri per quello che non è, la completezza dell’incompletabile quantità. Ma è parola troppo stridula per essere accettata semplicemente come tale. La titubanza denuncia la paura di fondo, il desiderio di protezione e sicurezza. Nega nella sostanza il coinvolgimento, anche se spesso chi tituba strilla più alto degli altri. Ognuno è un groviglio di serpenti che vivono una loro unità collocata altrove, dove la sciagura arriva di riflesso e non suggerisce provvedimenti radicali. Nella garanzia c’è aria di muffa e di sospetto, deliri di fanatismo e banalità estremiste, dette ma non concretizzate, per cui non potrà mai esserci un vero e proprio movimento critico capace di spezzare, non di sciogliere, l’infame groviglio delle proprie serpentine certezze. Le isterie sembrano portare alla superficie una carta topografica di queste miserie, ma si acquietano in un modo o nell’altro. La chimica e il suo seguito. Alzare il capo è un’altra musica. Una disperata messa in gioco, un capovolgimento radicale. Dove prima c’era la sicurezza ora alberga il caos. Il destino possibile ora è cantiere in costruzione. Nulla di solido o privo di contrasti. La lotta è intestina e giunge con le sue radici fino alla modificazione, ma si svolge nella desolazione dell’azione, è una lucida ubriachezza, la mania del dio si è fatta vedere, la voce dell’uno, sia pure incomprensibile, si è fatta udire.

La forza posseduta dalla vita continua a spingere verso qualcosa di indecifrabile, nessuno scopo le sta bene, nessuna direzione può ingabbiarla e soddisfarla: in fondo, soltanto un violento chiaroscuro. Quando ci si sente forti e capaci di affrontare la realtà, si avverte anche il piacere di questa condizione fisica vitale, ed è un piacere gioioso, senza filtri e senza sollecitazioni intellettuali. Qualcosa di simile proviamo in una manifestazione di forza vitale espressa da altri. In un bel gesto sportivo, per fare un esempio oggi sempre meno facile a capirsi, è questa espressione di vitalità che ammiriamo e che sentiamo nostra e di cui gioiamo senza sentirla estranea. È la forza che contrasta con gli ostacoli e li supera. Allo stesso modo ammiriamo un bel ragionamento, uno scritto, una scultura o una musica, manifestazioni della vita che ci affascinano perché con esse e in esse la semplice volontà è stata piegata al di là della modificazione, toccando nello stile il livello massimo a cui poteva accedere quella forza vitale, forse non eccelsa, comunque affascinante.

Ciò lo registriamo di certo anche nella scienza, ma poche volte. Quando la forza registra questi livelli, gli scopi immediati sono lontani, il compito è altro, i metodi soggiacciono quasi a una messa tra parentesi nella imprecisione del sogno. Per lo scienziato, che per un attimo si affaccia nel regno della libertà, la dote che gli occorre è il coraggio, non certo la cultura che aveva precedentemente accumulato. Ogni particolare fisiologico è superfluo. La cultura, svolto il suo compito introduttivo, alla fine diventa un peso. Se per farsi coraggio lo scienziato ha bisogno di appoggiarsi sulle spalle dei suoi predecessori, o per non essere espulso dalla cordata che lo sostiene a questa si aggrappa, tutto ritorna come prima, la vita ripiega nell’esistenza di un operaio qualificato che lavora in camice bianco. Stornare l’attenzione dalle specificità del settore di ricerca e indirizzarsi verso la totalità comporta questo tipo di coraggio che si collega con la forza vitale, non è qualcosa di separato dal passo leggero e dal movimento corporeo veloce e determinato, che consideriamo caratteristiche fisiche del coraggio, anche se il coraggio di cui parliamo non si può riassumere semplicemente in questo. La qualità è ogni tentativo di una nuova esperienza diversa, non ha nulla della stanchezza della ripetizione inane. È una esperienza totale da cui, poi, la rammemorazione fa apparire lacerti da macelleria. Come totalità non può essere moralmente capita, quindi giudicata, sulla base della conservazione, brucia e distrugge, prende a prestito dalla desolazione non l’abbellisce come un soprammobile. Non ha relazione col mondo che creo e quando pongo dei paralleli, nella rammemorazione, l’unica conclusione possibile è la sconfitta. Non parla né aspetta parola, e quando questa arriva, nella formulazione dubitativa, l’unica possibile, si tronca vergognosa della stonatura con la voce dell’uno che è. L’azione non è una parola ma è parola che parla lo stesso tono della voce desolata dell’uno, può frastagliarsi in spezzature di unità, ma allora sono io che non posso cogliere il nesso profondo della totalità. I guasti della qualità si riassumono nella perdita, ma il coraggio che l’ha cercata non ha paura di queste conseguenze, va avanti a testa alta, non cerca protesi esterne, né giustificazioni.

La ferma e ben valutata disposizione interiore con la quale si affrontano gli schiaccianti pericoli che siamo soliti vedere come espressione della vita fisica, non sono faccende diverse da quello che accade nel modo in cui affrontiamo il nostro rapporto con la conoscenza. Anche la coerenza irremovibile, sentimento coordinativo del coraggio, può essere presa in considerazione in questi due ambiti, giungendo alla conclusione che si tratta dello stesso genere di processo vitale. Coraggiosamente l’uomo coerente coglie la sua vita come un tutto unitario all’interno del quale i singoli momenti dell’intuizione, dell’istinto e del sentimento non sono separabili. L’insieme unitario della vita è tanto forte come pulsione complessiva che si esprime nell’agire (e dentro certi limiti riesce a travalicare anche nel fare), quanto più coerentemente è fatto crescere, quanto meno ostacoli si riesce a frapporgli, chiudendo la strada al temperato processo di recupero e di precisazione attuato costantemente dalla volontà. L’abbandono è il rifiuto della consuetudine al possesso, l’accontentarsi del cane vivo al posto del cane morto. L’insegnamento della vita è riduzione specificativa e umiltà, la promessa di godimenti miserrimi, di briciole e carcasse da conservare religiosamente. La stupidità di soddisfare l’occhio, l’apparenza, conduce alla paura dell’assenza, la desolazione prospettata, la totalità, propone visioni intollerabili alla limitatezza conoscitiva. Ecco perché si accetta il giogo pesante della conservazione, le catene e i muri di cinta purché si salvi la vita. La macchina che produce la modificazione si inceppa solo se lo voglio io, ma volere questa inceppatura è un modo ottimo per fare continuare il funzionamento della macchina. L’eccesso è insensato, e di fatto mina il fondamento della percezione, tende a non salvaguardare il significato, la quantità. Andare oltre è sperimentare l’impensabile, violare l’armonia del fiore che guarda il cielo e piega il capo alla fine della sua breve vita, violenza assurda ma necessaria, anche il fiore è un fatto, tenero e innocente?, no, non è un fatto, quindi non è né tenero né innocente. Il mondo respinge in blocco ogni accenno di qualità e lo affoga in sentimenti residui.

È quindi il richiamo misterioso di questa unità di vita che si può cogliere come movimento di grandissime dimensioni, che non c’è uomo che non avverta per quanto misera e coatta possa essere stata la condizione della sua esistenza. Solo partendo da essa si può cogliere quello che “sta a lato”, che non è il complicatissimo obiettivo principale della ricerca, quanto quello che va smarrito per mancanza di consapevolezza del dettaglio. Il debito positivista di ogni intrapresa scientifica pesa esattamente quanto il debito idealista, i due mancati pagamenti causano gli stessi intoppi e gli stessi limiti nella ricerca. La prevalenza metafisica del secondo è solo formale. La molteplicità dei modi di reazione di ognuno di noi ha suggerito un’assommazione oggettiva, un catalogo e un accumulo, quando si sarebbe dovuto parlare di unità degli stati istintuali con tutte le lacerazioni e le difficoltà tipiche dell’adattamento all’ambiente, e ciò prima di procedere a qualsiasi identificazione reale delle prospettive scientifiche. Ma l’idea di unità del mondo sorge spontaneamente dalla vita che ha orrore per la distinzione, vista sempre come prudente ripiego e pigra rinuncia. Per quanto poveramente esemplificata, questa unità vitale trova origine dai medesimi istinti che fanno reagire allo stesso modo di fronte al pericolo improvviso e alla gioia inaspettata, di fronte al disagio della fame e al godimento della sazietà, al desiderio della novità e all’amore per la conservazione, ecc. La luce che mi accompagna mi acceca, mi ostacola impedendomi la vista dell’assenza, è responsabile della mia ritrosia paurosa di fronte all’esperienza altra. Andare oltre è il buio, incontrare l’equivoco della luce nella sua sveltezza. Occhi blu che non vedono più o che cominciano a vedere altro nella desolazione della qualità perché finalmente disabituati all’apparenza del mondo, dove vedevano solo il falso. Le filatrici filano ancora e tagliano, il mondo va avanti per la sua strada modificativa, ma io sono nell’assenza, ho attraversato l’apertura, che senso ha che prenda ora in mano il mio possesso e lo alzi come un trofeo? Il buonsenso riposa nei cimiteri, è la follia che dà la sollecitazione alla vita, che ha qualcosa di mira, che non posso capire ma solo intuire, è questione ancora una volta di coraggio. Lo squarcio che ho aperto non ha misurazione possibile, l’uno occheggia ma non si mostra, la sua voce non parla il linguaggio laido che ho quasi dimenticato, sono immagini fiere che mi si prospettano, incoerenze esemplari, non manuali di buona creanza. La sapienza è remota dimora dove un giorno tornerò, per ora non ne mantengo nemmeno il ricordo.

L’unitarietà della vita si scopre comunque con difficoltose lacerazioni, spesso si è portati a mettere da parte sentimenti come la collera, l’odio, il panico, correggendoli fortemente con le panacee culturali e poi aspettando che altri sentimenti come l’amore, la simpatia, la compassione, ecc., ne prendano il posto autonomamente. Ciò non è possibile, la stessa modificazione culturale che produce l’obeso uomo dabbene rende inadatti alla voragine dei sentimenti veri e li sostituisce con l’uniforme pianura dei surrogati. Ciò è molto evidente nelle decisioni distruttive che spesso chiedono come garanzia l’efficacia dei risultati che possano soddisfare l’odio e non si limitano ad accettare la distruzione come agire in se stesso, come negazione caotica, cioè come controtendenza progettuale al fare produttivo.

Le singole specificazioni istintuali, magari studiate in dettaglio, possono essere tenute separate per amore di chiarezza analitica e disposizione armoniosa, non l’unità della vita che ripresentandosi sempre diversa non accetta distinzioni. Di regola, ogni procedimento metodologico è fortemente limitativo nei riguardi di questa unità, basta pensare agli Stoici e a Kant, dal punto di vista della limitazione pura e semplice, oppure ai neoplatonici e ai buddhisti dal punto di vista della negazione assoluta. Perfino lo sprofondamento ha le sue regole. In qualunque modo ci si pone a voler reprimere questa unità, anche ammettendola solo formalmente, come fa Schleiermacher, il risultato è sempre disastroso: si separa una esistenza assoluta che può in qualsiasi momento essere presentata come oggettiva, mentre la vita, lasciata da parte come un bagaglio fastidioso, esala l’ultimo respiro. Il mondo che la scienza costruisce in questo modo – con l’intenzione di rassicurare – una volta acquisita un’antipatica chiarezza argomentativa, si avvolge nelle tante spire delle proprie dimostrazioni mostrando la faccia cattiva di un progressivo mutare di condizioni o stati di sviluppo, i quali, singolarmente presi, vengono riconosciuti come unitari grazie al meccanismo dell’identità parziale che mutua la totalità e la distingue in sezioni capaci di riprodurre soltanto il rantolo dell’elemento unitario originale. Ciò che è, l’uno, è brusco e complesso a capire, alla fine mi rendo conto che non è comprensibile, una sorta di tautologia. Concetto che non promette allargamento o continuazione, luogo chiuso dell’intelletto. Conoscere ciò che è non è chiacchiera, cioè negazione e affermazione nello stesso tempo. Pensare possibile una conoscenza totale dell’indifferenziato uno è impossibile, visto che conoscenza è specificazione. Nell’uno si riflette il movimento del mondo che ho creato, ma esso non se ne avvede, il divenire e il conoscersi degli avvenimenti non lo modificano ma lo riguardano come una colpa segreta davanti alla quale resto impassibile. C’è mancanza e ingiustizia da qualche parte. Di certo nell’orientamento, ma non solo là, anche altrove. La qualità è totale e l’uno comprende tutto, ma l’esistenza di un limite da oltrepassare, senza il quale resto sordo al richiamo della qualità, indica colpevolezze multiple che non tutte possono essere ricondotte a me. Le limitazioni e le corrispondenze del mondo attraverso l’apparenza lasciano trasparire la loro incompletezza, ma l’uno che è, attraverso la sua completezza assoluta, non lascia trasparire attingibilità alcuna.

Nello stesso tempo questa identità non permane mai la stessa, ma continuamente si modifica condizionata dal mondo esterno che agisce su di essa riproducendola in ogni istante con squarci alternati di permanenza e modificazione. Gli influssi esterni producono cambiamenti produttivi nella scienza che viene in questo modo continuamente sondata nella sua capacità di riorganizzare i mezzi a disposizione in funzione degli scopi da raggiungere. L’unità scomparsa – ultima dea – non ricompare più sostituita da questa malinconica identità che non ha nulla di vitale e che si ricorda in continuazione i condizionamenti da osteria che riceve, pronta ad agire a sua volta sull’ambiente in una reciproca articolazione di stati interni che alla fine può essere considerata una struttura psichica e organizzativa, dove il legame con l’esterno non è mai qualcosa di diverso dal legame che l’interno produce come risposta. L’improvviso sorgere qui – in questo modo non sufficientemente spiegato – dei concetti di interno ed esterno è conseguenza dell’avere ammesso, adesso, di fronte al lavoro modificativo in questione, il costituirsi di una struttura. Io scrivo per me. Sarebbe ingenuo pensare a questa condizione che mi sono scelto da tanti anni, come a un antidoto contro la menzogna. Posso avere interesse a mentire a me stesso? Certamente sì. Ed è questo il motivo per cui ho scelto la struttura particolare in cui sto realizzando il Trattato delle Inutilità. Questa struttura consente, da parte mia, un controllo molto limitato, quindi riduce la mia volontà di ingannare me stesso. Lo scrivere è considerato da molti un livello di verità, di quella verità che il mondo manda in circolazione, livello più alto del dire. Non ne sono convinto. Ci sono buoni argomenti per sostenere il contrario. Lo scritto che si indirizza alla pubblicazione, sia pure limitata come nel mio caso, è ancora più soggetto al rischio dell’imbroglio. Ogni scrittore è un imbroglione? Non esattamente, l’imbroglio sta nella parola, quindi ancora più a monte. L’attaccamento che nutro per me stesso traluce nelle mie parole e fa velo. Il fatto di essere un lottatore non sposta il problema, la menzogna non prende sempre la veste del compromesso e nemmeno quella della mancata modestia. Se così fosse gli imbecilli sarebbero i migliori, e mi rifiuto di ammettere una simile assurdità. Quando parlo con qualcuno che ha letto i miei scritti, o leggo qualcosa scritta su quello che io ho scritto, mi viene la pelle d’oca. Non solo è spaventoso essere chiariti da qualcuno, sottoposti a un’analisi, che nella migliore delle ipotesi è solo benevola accondiscendenza, ma è anche spiacevole rendersi contro di non essere stati capiti, nemmeno alla lontana. Vivo chiuso in una specie di involucro che gli altri hanno costruito intorno a me, ma non sono io a essere prigioniero lì dentro, io sono altrove, libero e felice.

È stato detto (Dilthey) che la struttura consente di individuare le serie psichiche che le sono connesse, e viceversa. Non mi pare esatto parlare in questo senso di totalità. La vita è un’altra cosa ancora, qui siamo davanti a movimenti o processi che costruiscono pervertite unità o, se si preferisce, identità parziali spacciate per unità. Questa unità provvisoria e costruttiva, produce in maniera sradicata (come un atto giudiziario) ciò che ho definito “esistenza” e, nel far questo, si allontana dalla vita quanto più questa produzione è via via sempre più dettagliata, pur non potendosi mai dire completa. Accumulare le parti disomogenee della propria esistenza è fatto comune a tutti, non è certo un evento memorabile. Le singole soddisfazioni, le gioie ben identificate, gli amori che si susseguono come quadri in una galleria degli antenati, riflettono la vita ma non sono la vita, a questa sono sfuggiti per acquistare una loro identità, l’identità che hanno avuto, o che continuano ad avere, per me. Questa grandiosa bancarotta, in parte casuale, in parte teleologica, l’ho voluta io in modo sempre più aggressivo e adunco, l’ho voluta pensando alla sorda potenza che mi avrebbe arrecato, alla pienezza della forza, della mia forza, che ne avrei ricavato, invece è venuta fuori, frastagliata e contraddittoria, la mia esistenza come una clessidra rotta. Lasciare il fare è un problema di lasciare la parola. E questa seconda parte è impossibile. Io penso e pensando parlo, come parlando penso. Queste ovvietà sono meno evidenti di quanto sembrano. La parola mi domina e mi sollecita, se resisto sbatto contro un ostacolo più grosso di me. Nell’abbandono mi dispongo per affievolire questo rapporto che mi vede dominato e controllato, ma non ci riesco in maniera completa. Vedo il progetto complessivo del silenzio ma non lo concludo, se insisto è la paralisi, mi fermo. Non devo mettermi sopra una montagna di riflessioni, per diventare saggio c’è stato tutto il tempo possibile, ora quel tempo è finito. Ora non mi resta che scatenare i miei desideri, abbandonarmi a essi. Se non ne sono capace il mio tentativo resta tronco, io stesso sono un uomo a metà, e per illudermi di competere con me stesso ricomincio a parlare.

Così la scienza, in maniera adeguata, segue la mia esistenza fornendo la base pratica per gli ordinamenti che la regolano, piccole e grandi atrocità comprese. Considerando le cose dall’altro punto di vista, la pulsione vitale rende tutto ciò vivibile, anche se in termini immiseriti, filtrando attraverso le istituzioni e, alla fine, mettendole da parte nella maggioranza dei casi e permettendo che anche il fare rissoso degli asini spaventati abbia un’idea della vita e dei movimenti qualitativi che l’animano.

La scienza suggerisce di mettere laudano nei sentimenti e nelle passioni, allo scopo di poterli fronteggiare con protesi opportune. Diciamo che questa è la sua attività propedeutica essenziale. Ma che senso ha, mi chiedo, distinguere tra sentimenti presenti (come il dolore) o sentimenti futuri (come la speranza), oppure tra sentimenti che coinvolgono la sfera fisica e quelli che sono legati alla sfera intellettuale o morale? Il sentimento, l’istinto, l’intuizione non sono qualcosa di separato, ma partecipano, nella loro espressione irresistibile, della vita, impoverendosi partecipano dell’esistenza e la caratterizzano nei minimi particolari, contrastando punto per punto le regole e le corrispondenze dell’implacabile ragione. Non c’è una sfera emotiva che si contrappone a una riflessiva, l’assurdo e il volgare, non ci sono sentimenti e ragione se non come polarizzazione della vita verso l’esistenza e ritorno, processo relazionale che mai si arresta. In questo movimento occorre favorire l’atto distruttivo che alleggerisce la pressione coercitiva forgiata a danno della vita e della sua unità. Della distruzione, di cui mi sono occupato tanto a lungo, angosciando le notti di alcuni Don Abbondio in veste di prefetti e ministri della Repubblica, non ho detto quasi nulla, e in ogni caso non quello che veramente andava detto. Su questo terreno il nascondimento ha funzionato meglio che altrove. Sulla sua presente sterilità non ho detto quasi nulla. Invece la sconfitta è la parte più importante della distruzione, quella più viva. Il possesso, e la sua salvaguardia, mi svuotano a poco a poco, divento una zucca piena di semi che risuona a piacimento non appena percossa. Distruggere anche quello che gli altri pensano di me, apice della critica negativa. Un libro non nasce mai perché ho pensato di scriverlo, almeno per quello che mi riguarda. Pensare a scrivere un libro è il modo più sicuro per guastare il risultato. Mille occasioni della vita suggeriscono sollecitazioni verso l’assenza, e l’oltrepassamento che ne consegue, se rammemorato, può dare vita qualitativa a qualcosa che può anche prendere l’aspetto di un libro. In questo oggetto si troveranno, per chi saprà cercarle, le tracce di ciò che mi riguarda, quello che ho fatto e quello che ho rinunciato a fare per agire. Tutto il resto è paratesto, occasioni per girare attorno al problema. Chi agisce così non può mai essere uno scrittore. Vive in un mondo rovesciato dove il contenuto del libro è un residuo di quella esperienza intraducibile che l’ha preceduto, e che nessuno potrà mai raccontare. La solitudine in questo gioca un ruolo non secondario che non può essere soggetto a usura. La sua presenza conferisce a ogni libro un accento diverso, irripetibile, come se scrivessi un libro per la prima volta, o in maniera differita lo stesso libro per l’ennesima volta. Il nulla batte alle porte, basta non aprire.

L’inibizione della vita, di cui parliamo e per indicare la quale abbiamo usato il termine “esistenza”, non è mai completa e in ogni caso non coglie il singolo individuo se non come agonizzante fenomeno separato. Essa colpisce e organizza l’intera umanità moribonda, riversandosi in questi termini globali sul singolo il quale, col proprio essere nella società degli uomini e delle cose, ripropone le luttuose condizioni coatte che riceve come raffinato gioco di esistenza. Modellare la scienza in modo diverso potrebbe costruire modelli di società se non liberi, di certo “più” liberi. Questo non mi aggrada e non mi soddisfa, ma può rinvigorire (sia pure parzialmente) la mia vita, facendomi sentire nuovi flussi vitali rigenerati di altri individui. La vita, la mia vita, è infatti la stessa vita di tutti e le pulsioni vitali degli altri sono anche le pulsioni vitali mie. La mia ricchezza vitale è costituita dal modo in cui sconvolgo la mia esistenza, sgomentandola alla diversità, ma anche dal modo in cui sono in grado di accogliere in me la vitalità, accresciuta e diversamente vivificata, degli altri. Penetrando nel fare criticamente ne svelo le magagne e le ingenuità, scopro il ruolo contraddittorio della volontà, l’assenza del completamento quantitativo, l’inquietudine che serpeggia nascosta nel mondo in attesa della morte. Metto in luce l’adeguamento come rinuncia e malinconia, come copertura di ciò che prepotentemente e in modo vitale vuole venire alla luce, ribalto i luoghi santi della sicurezza e della garanzia. Indico ciò che risiede stabilmente dietro la rappresentanza, le corruzioni della correttezza e le imbecillità della coerenza, sottolineo la loro funzione di ciambelle di salvataggio su cui tutti mettono gli occhi per verificare se non sono ancora annegati e per gioire macabramente del destino riservato ai non coerenti, agli apritori di nuove vie. Loro al sicuro nei baluardi del perbenismo o dell’ideologia. Gli sforzi che compio per adeguare la qualità al fatto sono tutti interni al fare, essi non sono in effetti applicazioni qualitative ma semplici verifiche di corrispondenze. La verità è nel fatto, che ha motivo di sussistere per il semplice essere fatto, o la bellezza e nell’armonia delle corrispondenze, o la libertà nell’assenza di vincoli. Questo è ovviamente un maneggiare residui. Non si tratta della verità, della bellezza, della libertà, ma di fatti che utilizzano i residui di ciò che nella percezione è stato allontanato. Nel maneggio di questi concetti io resto sempre al sicuro e non mi coinvolgo.

Se io concludessi col definire la mia vita come un evento, per quanto grandioso e unico, esclusivamente mio, la condurrei fuori dal suo processo vitale, obbligandola a ex-istere, cioè a pronunciarsi nel soverchiamento a favore del quantitativo. Ciò non nega il fatto che per quel che mi riguarda la vita, la mia vita, io sono una stravagante monade inattingibile. Ma l’altro non ha interesse ad accedere dentro questo magma inconsueto, e questo lo so perché anche io sono poco interessato alla stessa operazione. Viceversa, nello sgretolarsi della mia solitaria vicenda monadologica, ecco che mi accingo a verificare i confini della mia esistenza, e a vedere quanto questa mi è costata in termini di pulsioni e forza vitale. Allora mi accorgo che gli altri stanno facendo lo stesso, inconsapevolmente procediamo di comune accordo, niente nell’esistenza che ci occupa ci sta bene se la subiamo in condizioni coatte: le inferriate azzerano qualsiasi condizione principesca. Nei miei anni di carcere non ho mai incontrato un detenuto contento di stare in prigione.

In altri termini, mi rendo conto del movimento degli altri verso di me, man mano che questo diventa più grossolano, e cioè delle condizioni di esistenza non mi accorgo, o mi accorgo con maggiore difficoltà, man mano che questo stesso movimento si raffina avvicinandosi alla forza vitale che ci comprende insieme. Ogni enigma dell’esistenza può essere compreso riaprendo il discorso sulla vita, non ci sono interpretazioni regolative, intellettualistiche, che non possono essere messe a nudo nella loro artificialità regolativa, dal ricondurle al fascio di istinti che sotto il loro aspetto perfettamente ordinato continuano ad agire mettendo in luce alternative e possibilità prêt-à-porter che la ragione non riesce a fare eseguire dalla volontà in maniera ordinata. Di fatto avviene una separazione efficace tra il sentimento e la ragione, per dirla in maniera frammentaria, ma questa distinzione mostra di continuo le interconnessioni, le quali non sono semplicemente affievolimenti di rigidità dal lato dei sentimenti e intensificazioni di rigidità dal lato della ragione, ma anche un diverso disporsi verso questa stessa rigidità, il che vuol dire un potere o meno essere capiti sulla base di leggi e protocolli a priori, considerati indefettibili punti di riferimento. Ad avere la meglio è, ovviamente, l’istinto che ripullula continuamente dopo essere stato sconfitto dalle regole della ragione. Parlare all’informe e al non ancora completo. Che senso avrebbe sprecare parole per chi ha chiuso la propria porta a doppia mandata? Le mie parole dovrebbero almeno riuscire a smuovere l’erba come accade al mattino quando si alza la brezza. Se anche essa resta immobile, in un silenzio irreale, le mie affermazioni ribadiscono il potere, lo rafforzano, le mie negazioni preparano i futuri aggiustamenti, le raffinatezze delle torture a venire. Tutta questa riflessione si basa sulla constatazione che anche io sono un non completato, un lavoro in corso dotato della coscienza della propria incompletezza. Un libro è un piccolo contributo per diventare quello che si è, in caso contrario è carta sprecata. Per tale motivo è tanta la carta sprecata e i libri sono pochi. O mi metto in discussione nel libro o è meglio che lo lascio scrivere ad altri. Ma mettersi in discussione non vuol dire necessariamente partire dal pregiudizio che gli altri possano avere ragione. A una stupidaggine bisogna evitare di sovrapporne un’altra uguale e contraria. Ciò che penso è meno importante di ciò che sono, ma come dirlo? L’unico giudice valido sono me stesso. Sono io il giudice di quello che sono, e i miei verdetti sono inappellabili, anche se quasi sempre cerco di aggiustarli meglio che posso o almeno di addolcirli. Non è un postulato estremista, è vero. Posso perdere il mio onore solo davanti a me stesso, posso essere tradito solo da me stesso. Gli altri certamente riescono a tradirmi e anche a disonorami, ma è questione di attimi fuggenti che fanno male o sbalordiscono, senza restare nella carne immiserendola. È qualcosa di simile alla morte. Gli altri muoiono e della morte di alcuni di loro posso dolermi anche a lungo, ma la vera morte, quella che cancella definitivamente il mondo, è solo la mia.

Per cui c’è molto da dire su questo tipo di sconfitta. Noi presentiamo una maschera che ricopre il nostro vero volto, il quale nasconde gli istinti bestiali che a volte ci dilaniano, le intuizioni mostruose che la realtà fa di colpo balenare agli occhi della nostra immaginazione, i sentimenti d’amore o di odio che ci lascerebbero – se visti bene – in balia degli altri. Questa maschera è ciò che ci fa “persona”, ed è attraverso di essa che noi parliamo gli accenti del legame, della convenzione e della regola, che non siamo sicuri di presentare con “decente equilibrio”, cioè qualcosa di accettabile dagli altri, che non metta paura appena lo si vede. La persona trasmette uno stimolo criptico all’esterno attraverso modulazioni controllate le quali molto raramente fanno trasparire la risposta istintuale che c’è sotto, o comunque la ritardano e la rivestono di molte complicazioni cosiddette civilizzate. L’eccesso è sorgente di furore, prodigio di rifiuto e di confronto, sentimento tragico della miseria in cui mi sono dibattuto a lungo. Adesso capisco il corruccio del benpensante preoccupato delle mie idee foriere di male per lui e per l’ordine che lo assiste nelle sue preoccupazioni. L’eccesso è l’assurdità che getto sul tavolo come rilancio di un’offerta troppo miserevole per intimidire la mia indole di coraggioso cercatore d’oro. È il vento che soffia nel deserto e che viene dal nulla della desolazione, dove famelico si forma per insidiare la mia consistenza. L’eccesso è la sconfitta della morte e il sorriso del viandante stanco, finalmente ristorato. È la voce che risuona priva di parole, l’antica voce che riempie gli anfratti e gli interstizi portando la vita.

Dietro tutti questi processi ci sta la ragione che tiene a bada i sentimenti di cui (a ragione) non si fida. Una lotta articolata si stabilisce fra questi due poli e la storia avviluppata nei suoi incendi dimostra, se osservata con un minimo di decenza, che non sempre la ragione è riuscita a costruire mostri perfettamente intenzionati alla morte e al genocidio. Spesso i sentimenti collettivi hanno avuto il sopravvento in grandi esplosioni liberatorie di collera e di gioia, in momenti insurrezionali e rivoluzionari più o meno lunghi e significativi. Poi la vita è tornata ad accettare le regole dell’esistenza, ma nulla si è ricomposto esattamente come prima. L’unità della vita si è rigenerata, pronta a ripartire verso un’altra molteplicità di espressioni, mai del tutto riconducibili all’equilibrio imposto nel lazzaretto delle regole e delle leggi. L’intuizione ha una identità vaga, celata sotto mille maschere che l’interpretazione rielabora incessantemente. Non accetta permessi né regole, nemmeno l’inversione pura e semplice di queste stesse regole, non è una trasgressione o un disordine che questa misura rifiuta per accettarne cento altre. Non è uno spirito folle che aspetta il carnevale per sbizzarrirsi. È l’anticamera della mania, ma è ancora logica, sia pure diversa. Con l’intuizione vengo condotto improvvisamente in un mondo criptico, tenebroso, spesso contorto e sempre più oscuro dove la stessa vendetta è risibile come riparatrice di un torto, bilancio falsato ma sempre diretto a capire quello che è accaduto, a codificarlo. L’intuizione non mette a segno colpi precisi, non cesella né fornisce assicurazioni di risultati attingibili, spesso si volta verso l’esatto contrario di ciò che prevedibilmente poteva averla messa in moto. Persuade negando, e negando rifiuta ogni accettazione persuasiva, adesca il nemico e poi lo spinge nei sotterranei logici dove non c’è via di uscita se non il rifiuto di ogni manipolazione. Penetrare l’acume più sottile che difende il possesso, ecco la forza intuitiva che colpisce con precisione compassionevole anche le più agguerrite difese della malignità progressiva che avvolge e garantisce la modificazione.

La vitalità di fondo, animale sotto molti aspetti, terribile e priva di condizioni a priori o di luoghi della misura e del limite, va continuamente oltre ogni sortilegio, per quanto possa essere imbrigliata e corretta per lunghi periodi dal ricorso a mille accorgimenti. Nell’andare oltre permane identica a se stessa anche quando le ombre della sera si allungano. L’istinto di una volta, che sembrava sedimentato nelle dementi comodità fittizie del quieto esistere, fa battere improvvisamente il cuore dimostrando che la vita può essere sottoposta a mille irrigidimenti ma non del tutto, sempre qualcosa insorge e disdice la rigidità dei processi ragionevolmente accettabili. La ragione costruisce il suo mondo di perfezioni falsamente completabili, ma non riesce a collegarsi con l’enigma della vita in modo pieno. La responsabilità che ognuno di noi sente verso se stesso e verso gli altri, la coerenza con gli impegni assunti, l’autonomia che intende rispettare e far rispettare, fino ai segni apparentemente inattaccabili della volontà, come l’acquisizione di potenza, sono di certo legami che la ragione suggerisce dapprima e poi impone, ma non possono contrastare a lungo con la vita, salvo ad atrofizzarsi, come sempre accade, nel martirio di protocolli e formalità. La fuga dall’orrore di cui il fare è impregnato non libera dall’orrore, una fuga, sia pure coraggiosamente in avanti, non scioglie dall’impegno di morte intrinseco nell’accumulo, la stessa critica può essere vista in modo capzioso anche se insiste nel cogliere gli aspetti corrosivi della negazione. Il mondo soffoca nella sua agonia produttiva, pieno di prodotti che vuole salvaguardare e possiedere, non conosce la natura di se stesso come conglomerato di desideri rimossi. Non c’è ossigeno per respirare né spazi di redenzione. L’azione non è il regno dei cieli, è un luogo desolato dove la qualità bisogna scolpirla nel nulla, un nulla sia pure ricco di citazioni e di rimandi che nascondono trabocchetti e camminamenti segreti, ma non arcani idonei a risolvere l’eterno problema della vita. Il vero amalgama della desolazione è un registro a doppio binario, un suono lontano e indistinto che scandisce la presenza dell’uno, l’assolutamente altro che ospite è ospitato, e l’affiorare di un mondo reso in controluce, rivisitato negativamente dall’afflato critico, da ciò deriva un monologo nuovo che non è più un resoconto di viaggio ma registrazione intuitiva di tutti i punti inconsueti, la trama non ripetibile di incontri evocati e ora realizzati con la qualità. Ogni sfumatura della qualità allude negativamente a un luogo della produzione, ma questo è remoto e non può accedere nemmeno al ricordo. Il linguaggio non c’è più, la desolazione stessa lo ha zittito, ritornerà dopo, nella dimensione drammatica della rammemorazione. Tutto qui è precario e incerto, proprio perché qualitativamente fondato, allo stesso modo in cui era falsa la certezza e la fondatezza del fare quantitativamente fondato. Non si è davanti a una contrazione, per cui la caduta davanti alla domanda fondamentale, tutto qui?, non sarà una vera e propria caduta, né una cacciata da un luogo migliore verso uno peggiore. L’azione non è un luogo, non c’è in essa successione, sequenza, cronologia. Perché questa ricaduta? Perché si possa procedere alla rammemorazione, risposta pragmatica che raccoglie male l’eredità dello sforzo.

Il sentimento di abnegazione, che mi spinge ad agire mettendo in pericolo la mia vita per salvare quella di uno sconosciuto, è appena intaccato dalla volontà che mi rimanda indietro verso la salvaguardia della potenza acquisita e da non mettere a rischio, per poi trasformarsi in ulteriore spinta verso il fatto in questione, denso di pericoli, quando la ragione dimostra che questo fatto fa aumentare la propria potenza in termini di considerazione degli altri o di se stessi. Ma l’istinto che aveva messo in moto il sentimento di abnegazione aveva dato inizio prima alla sua spinta, prima e molto più pienamente di qualsiasi ragionamento. Non c’è nessuna separazione tra vita ed esistenza se non in termini di qualità e come effetto di una polarizzazione. Ne deriva che la coscienza morale non è separata dalla ragione, né questa dal sentimento, come pure la stessa volontà, con i suoi processi incontrovertibili di controllo, non è separata dall’irragionevole istinto. Non ci sono dualismi netti, o distinzioni “interno” ed “esterno”, né problemi inestricabili dal punto di vista logico, come quello che Platone ha consegnato alla storia della filosofia occidentale.

La scienza insiste nel non volere ammettere ciò in quanto l’analisi di settore risulta più comoda dall’inevitabile garbuglio di una visione globale del mondo. Il riduzionismo logico è una leva essenziale del potere. Esso parte dal presupposto analogico della vecchia metafisica religiosa che la conoscenza è lo scopo essenziale dell’uomo, in quanto l’uomo privo di essa è nulla, o poco più di nulla. Pertanto, tutte le forme parziali che realizzano la conoscenza, sia pure circoscrivendola in miserande specificazioni sempre più minute, mutuano la bontà del principio generale in quanto sono la realtà stessa del principio di conoscenza così come si articola nel mondo. Questa immagine è errata, una separazione produttiva, quindi un fare da ergastolo, è in gran parte zavorra e corpo morto, e solo in piccola parte partecipa della vita, quindi non mutua niente, come qualsiasi altra analogia metafisica, da nessun principio assoluto fondamentalmente buono. La ragione è l’erede diretta di questa ipotesi nata in Grecia con i Pitagorici, con Platone e Aristotele e poi continuata con la teologia medievale, con la dogmatica dei riformatori e con la critica del deismo. Il razionalismo scientifico impiega senza saperlo questa analogia. Una critica efficace e radicale di questa posizione è quella contemplativa, per esempio di Plotino, dello Pseudo-Dionigi Areopagita, di Meister Eckhart, ecc., critica negativa radicale di ogni metafisica religiosa, ma incapace di dare unità alla scienza senza incorrere nel giudizio negativo a priori, distruttivo ma infecondo come qualsiasi cosa che rovescia le proprie radici altrove. Ma la ragione può trovare in modo diverso il proprio illusorio fondamento, e difatti lo trova nel principio di conservazione della natura (non nella vitalità della vita, che è faccenda diversa), così come ha fatto la filosofia epicurea, Hobbes e gli Illuministi. Ma si tratta di una metafisica religiosa mutilata stupidamente: le forze formatrici naturali sono naturalmente buone e quindi è buono tutto ciò che è produttivo nella loro direzione, anche se coattamente. Questi cerchi chiusi della ragione, più o meno interni o esterni alla religione, sono inammissibili per una scienza che voglia guardare l’impotenza che è dentro di sé. Se è buono qualcosa che è cominciato altrove, non si capisce perché la sua continuazione debba esserlo parimenti, salvo a non avere la capacità di dimostrare quella antica bontà in maniera diversa della sua continuazione, cosa impossibile per chiunque. Acutamente Jacques Maritain: «Jankélévitch ha ragione quando riconduce la metafisica della durata alla negazione del possibile, inclusa nella critica bergsoniana dell’idea del nulla; e di osservare, con il Thibaudet, che in questo Bergson s’incontra con Spinoza, alle cui intuizioni “forse non ha reso lui stesso piena giustizia”. Equazioni e figure, si può aggiungere, così come la vita, ci pongono davanti a una pienezza infinita: in nessun punto la logica vi scopre il minimo vuoto, la minima rarefazione d’esistenza, o quei gradi di perfezione che rendono possibili le nostre aporie dissolvitrici. Ora, gli pseudofilosofi hanno bisogno di un vuoto di questo genere per accreditare la superstizione della finalità [...]. A partire dal momento in cui l’ombra del possibile invade l’universo, generando l’ottica illusoria della finalità, del disordine, dell’indifferenza, ci viene l’idea che, forse, le cose avrebbero potuto essere altrimenti da come sono; e quest’idea fa nascere in noi l’ammirazione dei fanatici davanti allo spettacolo del mondo. Approverebbe Bergson senza maggiori riserve il fanatismo antifinalistico di Spinoza? Ciò che in tutti i casi rimane è che, non rendendosi conto che la possibilità reale o potenza – quando non si tratti di pura e semplice non-impossibilità logica – non è neppure “una preesistenza virtuale o ideale” (cioè, confondendo la potenza con chissà quale atto impedito o diminuito), egli giudica che il possibile, se precedesse l’attuale, sarebbe in se stesso qualcosa di rappresentabile in anticipo: un’immagine del poi, contenuta nel nostro attuale presente anche se non giungiamo a percepirla: e ciò è contrario all’autentica nozione di potenza. Per salvare, non soltanto l’imprevedibilità assoluta degli atti liberi e l’imprevebilità relativa degli eventi contingenti del corso della natura, ma anche la cosiddetta imprevedibilità radicale di ogni istante dell’universo, egli affermerà, dunque, che l’illusione consiste nel credere che vi sia meno nel possibile che nel reale e che, per questa ragione, la possibilità delle cose preceda sempre la loro esistenza. Un’opera futura “sarà stata” possibile, ma attualmente non lo è. Non si potrebbe proclamare in modo più netto che tutto è in atto, nel momento stesso che tutto diviene. L’errore fondamentale riguarda, qui, la natura del possibile, che si considera come un “attuale di secondo rango”, e che pertanto, a meno di negare il divenire, non può essere che ideale e indicato retrospettivamente, al futuro anteriore. In realtà, nel mutamento, ciò che avviene in un certo istante non esisteva punto precedentemente come un “già avvenuto” non ancora manifesto: ciò che sarà non è realizzato, in nessuna forma. Tuttavia ciò che il soggetto diviene, non essendo una pura e semplice denominazione estrinseca, deve toccare il soggetto nel suo stesso essere: ma non può toccarlo secondo ciò che già è (noi diremmo “in atto”), perché ciò che già è lo è, e non lo diventerà: la nuova qualificazione riguarda, dunque, il soggetto, ed è tratta da esso secondo una sorta di riserva o di fecondità ontologica assolutamente irriducibile all’essere in atto: l’attualità la investe da ogni parte e la sostiene nel suo essere, senza che essa sia, tuttavia, in nessun modo attuale o realizzata. Essa è determinabilità pura, in una parola, “potenza”. Che la critica della metafisica dogmatica, proposta in alcune pagine dell’Evoluzione creatrice, miri anzitutto, nell’intenzione di Bergson, a colpire il Dio inefficiente dell’agnosticismo moderno, noi lo concediamo volentieri a Jacques Chevalier. Sappiamo anche che Bergson non vuole essere panteista, e che certe preferenze profonde – che gli fan cercare in tutte le cose qualità e discontinuità, libertà e creazione – lo spingono dalla parte opposta a quella del panteismo classico. Ma, per il suo principio e nella sua struttura più intima, la sua metafisica si trova in una impossibilità insuperabile di stabilire una distinzione reale e essenziale tra Dio e il mondo. Per essa tutto è atto puro, atto puro in perpetua crescita e rifusione radicale, e scaturigine di novità. Ciò tempera la deificazione grazie alla contraddizione radicale: non c’è altro che la sfera del vecchio Parmenide, divenuta, tuttavia, fiume e mobilità. Quanto alla spiritualità, verso cui sono orientate tutte le intenzioni del bergsonismo, occorre tener fermo, contro la spinta di tanti misticismi improbabili, che essa non va cercata nel tempo: né nell’istante, né nel flusso, né nella concentrazione del tempo, bensì nell’intemporale. Se già la spiritualità imperfetta dell’arte e della poesia coglie nel tempo stesso passaggi dell’intemporale, e se la spiritualità puramente razionale della logica e della metafisica domina già il tempo, la spiritualità, nella pienezza del suo significato (poiché agli occhi dello homo spiritualis la ragione può ancora chiamarsi senso, a tal punto essa trae tutto dal senso), dominando essa stessa il cielo della poesia e il cielo dell’astrazione, domina il tempo ancora di più, e ci introduce in una certa partecipazione dell’eternità sussistente. Là, in questo vero cielo della contemplazione, nudo come la croce e come la croce aderente a Dio, ogni concetto e ogni nozione distinta sono superati, ma perché l’amore e i suoi doni infusi sono divenuti – in una luce sovrannaturale, che è “come il raggio di tenebre per la nostra intelligenza” – il mezzo stesso di una conoscenza che eccede ogni sentire. Molte voci gridano, da tutte le parti, “spirito, spirito”, come altre gridavano “templum Domini, templum Domini, templum Domini est” e ciò che risponde è la carne. Il filosofo spreme la sua saggezza nel proprio seno: essa vi rimane tutta. Il cristiano ha la sua saggezza nascosta in un altro; essa non gli appartiene, egli è morto, e più vivo di tutto ciò che vive al mondo, sospeso a una vita che è la vita, a uno spirito che è lo spirito, e che lo conduce dove vuole. Ciò che di meglio può fare un filosofo è umiliare la filosofia davanti alla saggezza dei santi. Umiliare la filosofia davanti alla saggezza dei santi è, in ultima analisi, ciò che Bergson stesso ha fatto nelle Due fonti della morale e della religione. Si è compiuta, così, la curva mirabile del movimento del suo pensiero, e un’avventura filosofica incomparabile, in cui il più puro slancio di spiritualità e una costante fedeltà alla luce hanno fatto trascendere al filosofo il suo stesso sistema di concetti». (La philosophie bergsonienne, op. cit., Prefazione del 1929 e aggiunta del 1947).

La scienza può evitare di cercare altrove la propria legittimità, e quindi anche il proprio campo d’azione delimitato dalle sue autonome capacità di conoscenza, e può cercare queste prospettive nella sua stessa unità, ravvivandole nella sua autonoma capacità etica di autoregolarsi. Ma questa capacità ha dei limiti, primo fra tutti lo stimolo inarrestabile della volontà di potenza. La conoscenza ha un processo interno di organizzazione che qualche volta è indicato come metodologia e qualche volta come gnoseologia. Pur restando poco importante, questa distinzione lascia intendere la maggiore propensione per la filosofia intesa come svolgimento linguistico-logico dei problemi e la filosofia intesa come svolgimento logico degli stessi problemi con una più alta presunzione di oggettività. Gli scopi sono scelti nella indicazione metodologica in base a risultati oggettivi e illustrati come tali, almeno dentro certi limiti, invece nella gnoseologia sono mutuati dalle analogie tra l’organizzazione interna della scienza e un principio estraneo considerato assoluto, o comunque considerevolmente autonomo, e che spesso è indicato come “verità”. In nessun caso la scienza, tra questi due poli, può scegliere quello buono e, dentro certi limiti, non può neanche scegliere. Se la vita le sfugge non resta che la malinconica organizzazione dell’apparenza, da un lato, con tanto di verità in testa, e la sterile accettazione accumulata dei dati, dall’altro lato, che non è apparenza ma soltanto amministrazione del di già accaduto. La forza vitale sta lontana da tutto ciò, le sue pulsioni trasmettono sussulti incerti e si riflettono come un contenuto che potrebbe sbocciare nell’esistenza ma non riesce a raggiungere la bellezza della fioritura. Il nucleo di questa continuamente originaria forza costituisce una correlazione etica fondamentale che la scienza non riesce a fare propria. In fondo, per quanti sforzi faccia, le manca sempre qualcosa. La spinta demente all’accumulo dei risultati è sempre troppo forte, la volontà troppo vigile, i risultati troppo potenti. L’avventura dell’assolutamente altro, considerata quasi sempre un moto dell’animo raro e per poeti, è a una spanna dal naso, dal mio naso. Devo però ammettere che io sono qui, che conto qualcosa, che voglio fare qualcosa. Non lasciarmi fare. Per abbandonarmi devo fare, se non voglio fare ma lasciarmi fare non riuscirò mai a capire che cosa è l’abbandono. Io ho un senso e questo senso l’ho fatto io, e un senso per il mondo, e anche il mondo l’ho fatto io. Palpita la mia vita e grida di fronte a questo mondo, che prigione si è rivelato, di volere vivere. Ma non si può volere vivere più di qualunque altra questione che viene consegnata nelle mani della volontà. Quel palpito di vita lo sgancio dalla volontà, sono in grado di farlo abbandonandomi senza paura all’agguato dell’intuizione. Dare la stura all’abbandono significa non occuparsi più né di risultati né di causa, e ovviamente nemmeno di controlli. Le quadrature delle coordinazioni congetturali sono ridicole parvenze ormai remote e smunte, pettegolezzi che disperdo con un semplice gesto della mano e rinuncio a qualsiasi sfera di interessi, laici o confessionali. Via.

Suggerire una strada diversa, pur nella generale sfiducia sulle possibilità di imboccarla, è un modo di tenersi lontani dalle imboscate ideologiche, che spesso accompagnano condanne a morte fatte soltanto di banalità e chiacchiere da cortile. Nell’interno dell’accumulo, nelle profondità più assurde e insignificanti della conoscenza, si nasconde una forza conoscitiva capace di cogliere meglio il rapporto con la forza vitale. Certamente non sono queste mie povere note che riusciranno a metterla in risalto, ma essa c’è e non muore mai del tutto in nessuna sala anatomica, malgrado i misfatti e le stupidaggini. Sotto i cappelli e le gorgiere della Lezione di anatomia di Rembrandt, c’è la stessa sollecitazione del palcoscenico. Nella scienza c’è la coscienza, cioè la co-scientia, e questo l’aveva capito Agostino per poi smarrirlo nella sua metafisica del dio onnicomprensivo. È stata la coscienza a intuire l’inconsistenza di concetti come quello di sostanza, causalità, scopo, essenza, forma naturale, ecc., quindi a liberare in parte la scienza da alcuni pesantissimi legami. Occorre fare un passo ulteriore, liberarla dal brulicare dei legami dell’acquisizione e del completamento. Scalzare le ambizioni di possesso è un lavoro lungo e poco visibile. Apparentemente contraddittorio cade vittima dell’equivoco tra ciò che devo possedere per essere e quello che voglio possedere per apparire. È da fare in silenzio questo lavoro, parlarne è una forma di ripristinare il possesso, dicendolo. Alla morte non mi posso abituare, per quanto l’epoca ne metta sotto gli occhi a colazione quantitativi ingenti, è sempre uno spettacolo osceno che non vorrei vedere. Anche la morte del nemico, dietro il momentaneo sollievo, non fa differenza. Rinunciare alla conquista è uno dei passi più difficili per andare avanti, per uscire dal cerchio malvagio del possesso per il possesso. Eppure non è un sacrificio ma l’espressione più evidente di un desiderio di qualità.

Quest’ultimo punto si concretizza e si riassume nel metodo dell’analisi del cosiddetto contenuto empirico della realtà e nel relativo rifiuto della conoscenza della qualità, che invece permaneva nella scienza medievale a fianco di assurdità tipo sostanza, ecc., di cui ho già parlato. Galilei e Cartesio hanno buttato via tutto aprendo così la strada alla cupa legittimazione regolativa di Kant e altri avvocati. Per analogia con l’analisi agostiniana del tempo, la nostra coscienza è l’elemento morale, non un arrangiamento formalistico qualsiasi, come quello che si è universalmente (in tempi recenti) raggiunto a proposito del tempo. E la coscienza è moralità proprio perché è autosufficiente nel momento in cui arriva a essere diversa da tutti i processi modificativi che la producono e riproducono come coscienza immediata. Questa apertura etica è tale perché nega la volontà, non limitandosi a fare esattamente il contrario di quello che questa impone come abbrutente ricerca della potenza, ma facendo diversamente, cioè cercando di prendere la volontà “di sorpresa”, quindi agendo come coscienza diversa. L’elemento etico che la coscienza continuamente riproduce in se stessa è, come tutte le tensioni, recuperato nel fare modificativo quotidiano e corrotto nell’amministrazione dell’esistenza in conformità alle regole imposte, con maggiore o minore ricorso ai formalismi o agli organismi delle varie tendenze. Ho parlato di autosufficienza, o autonomia, proprio in funzione di questo aggiramento della volontà. Sfuggendo al funesto dominio della potenza si può cominciare a percorrere una strada diversa verso la libertà, la libertà e non una delle tante libertà che ci riempiono l’esistenza senza soddisfarci fino infondo. «Il metodo pragmatistico – afferma William James – consente anzitutto di risolvere controversie metafisiche che, altrimenti, potrebbero essere interminabili. Il mondo è uno o molteplice? Ammette la fatalità o la libertà? È materiale o spirituale? Ecco concetti che, l’uno o l’altro, potrebbero non essere trovati veri; le discussioni intorno a ciò resterebbero quindi sempre aperte. In tal caso, il metodo pragmatista consiste nel tentare di interpretare ogni concetto dalle sue conseguenze pratiche. Ecco come esso pone il problema: Ammesso che un determinato concetto sia vero e l’altro no, che differenza ne deriverebbe praticamente per il singolo? Se non riusciremo a trovare alcuna differenza pratica, concluderemo che le due alternative sono equivalenti e che ogni discussione è inutile. Perché una controversia sia seria, bisogna poter dimostrare quale conseguenza deriva necessariamente dal fatto che solo questa alternativa è la vera. Uno sguardo alla storia di questa dottrina vi farà scorgere meglio che cos’è il pragmatismo. Questa parola, come la parola “pratica”, deriva dal greco prágma, che significa azione. Essa comparve per la prima volta in filosofia nel 1878, ad opera di Charles Peirce. In un articolo intitolato Come rendere chiare le nostre idee, Peirce, dopo avere rilevato che le nostre credenze, in realtà, sono regole per l’azione, sosteneva che, per sviluppare il contenuto di un’idea, basta determinare la condotta che essa è in grado di causare: il suo valore, per noi, è tutto solo qui». (Aspetti essenziali del pragmatismo, op. cit., pp. 130-131).

L’etica significa qualcosa solo nel comportamento diverso (non banalmente coerente) di fronte agli obblighi imposti dalle regole che ci opprimono, obblighi fatti propri attraverso la volontà. Ecco perché l’etica è sempre dissonante con tutte le possibili scelte conformiste, le quali sono scelte per modo di dire. Scegliere significa aggirare la volontà che fornisce scelte di già compiute o scelte solo apparenti. In questo modo l’etica della coscienza è la scelta diversa che quest’ultima compie riguardo il mondo del fare modificativo, e questa scelta è l’azione. Lo stesso dicasi per la scienza, la quale significa qualcosa solo se al suo interno è possibile una scelta diversa, e questa scelta diversa è l’azione distruttiva. Certo, anche questa azione non conclude una volta per tutte con la libertà, ma fornisce un genere di possibilità che non era pensabile prima. Per affrontare diversamente il gigantesco Leviatano della scienza, la complessità dei dati che l’esperienza ha preteso accumulare per ogni futuro utilizzo di potenza, non ci si può più limitare alla negazione critica. La scelta che mette in condizioni di non intervenire la volontà è scelta di vita, e si realizza solo continuando a scegliere, chiedendo a se stessi, sempre, tutto qui? Sono nudo nell’azione, non hanno un apporto attivo gli attributi offensivi di cui mi sono dotato, perfino gli strumenti del fare, la mia cosiddetta capacità, ora ha una importanza minima. Sono nudo e avanzo senza difese. Il mio sforzo mi conduce verso un maligno male che renderebbe inutili le mie opportunità difensive, posso solo attaccare, nel vento confido e nella capacità del serto di nutrire di desolazione la mia ferocia. Devo alimentare questa dote, e questa scelta, non solo con l’abbandono, che resta l’apertura e l’intuizione iniziale, ma con gli stenti e con le limitazioni che preannunciano lo scoppio dell’eccesso, conoscere la persecuzione e l’ostracismo inflitti al mio corpo, respinto e martoriato, per andare oltre e senza limiti e bandi di esclusione. La gioia nasce qui, da questa terribile esperienza, esplode come catastrofe e mi conduce via senza chiedermi il permesso. Il resto è abitudine e acconsentimento.

Ma una scelta che ponga questa anomala domanda opera in modo diverso sulla stolida realtà che così viene scelta. Non c’è nella diversità l’orientamento volontario che si indirizza alla potenza, c’è un’attesa, un volgersi indietro, un permanere sulla soglia della scelta stessa, un accennare a chi resta che non si sa bene se si riuscirà a cogliere di sorpresa la volontà e che quindi tutto potrebbe ripresentarsi ancora una volta, rivelandosi la scelta una falsa scelta. Più raccogliamo fallimenti nelle nostre azioni, all’interno delle quali comunque ha svolto un suo compito più o meno sconvolgente il nostro coinvolgimento, contraddittoriamente, più ci avviciniamo alla coscienza diversa della scelta e alla scelta diversa della coscienza. Per noi la coscienza etica è il non avere paura di questi tentativi non riusciti, il non misurare tutto in base ai risultati ottenuti, alle utilità sfruttate, ai riconoscimenti messi in soffitta. L’esperienza che raccogliamo in giro ci dice poco, ognuno nasconde con cura i propri fallimenti. Perché agiamo in modo etico? A questa domanda non sappiamo rispondere, visto che tutte le volte che affrontiamo in maniera distruttiva la realtà che ci soffoca, nella scelta che sceglie e non si lascia scegliere, siamo sempre costretti a non rispondere alla domanda fondamentale: tutto qui? L’uomo è un segreto a se stesso, la sua vita l’aggredisce senza lasciargli respiro, ma lui ha solo cognizioni di modularità e norme, cioè di un’esistenza più o meno regolata. La desolazione dell’azione mette a disposizione dell’avventore coraggioso una profonda immedesimazione con la presenza, riflesso dell’assenza che nell’immediatezza turbava come corpo estraneo. L’intuizione mi permette di cogliere in tutti i modi una qualità che non vedo realizzata e compiuta ma possibile e potenziale, diffusa e presente. Il contesto dell’azione è della medesima crudeltà dell’uomo, è, non si offre o intrattiene una relazione disponibile a essere compresa, esso è allarmante proprio perché si manifesta nel modo più intenso e più alto senza concretizzazioni simili o sopportabili ai prodotti della modificazione quantitativa. Mi prende così un desiderio violento di immedesimarmi nella solitudine della qualità, che più si rarefà e più non è luogo provvisto di nome, ma soltanto vita anteriore, la vita archetipa dell’uno che è e che qui senza cambiare si manifesta nella cosa. Le tracce da cui provengo, specialmente quelle scavate dalla critica negativa, sono ormai ombre, sogni, analogie, allegorie. Il lirismo elegiaco di certe sensazioni è mescolato al fascino dell’assolutamente imprevedibile, l’incertezza posta come punto totale di riferimento esalta l’ebbrezza della diversità. L’abisso della presenza non ricorda più quello dell’assenza, i due non corrispondono come le due metà di una sfera, sono asimmetrici come gli incubi o i sogni fatti a occhi aperti. Il porto sicuro che mi sono lasciato alle spalle, mi ricorda le certezze e mi procura una nostalgia perfida e inarrestabile perfino degli aspetti spregevoli di quelle certezze.

In fondo, il motivo per cui si deve dare vita a una scienza in grado di partire da questa scelta resta enigmatico. Gli effetti della conoscenza sulla vita, intendo sulla vita in generale e su quella dell’uomo in particolare, sono in gran parte segreti e non si traducono in strutture realizzabili dal punto di vista immediato. Il discorso andrebbe spinto da un livello di pieno discernimento a quello del costituirsi del destino come possibilità aperta attraverso la scelta diversa che sceglie se stessa e non viene scelta (cioè chiusa) dalla feroce banalità quotidiana. Quello che la scienza è, è distinto da quello che sta diventando, si riflette nella conoscenza l’antico dilemma umano: non si è mai se si diviene qualcosa d’altro da quello che si è. Nel mondo la ragione domina il dominio, lo getta sulle basi del divenire e lo continua nel controllo individuale e collettivo. Lo spirito del mondo è il dominio e chiude la logica nel cerchio della ragione, la imprigiona in corrispondenze inattendibili ma valide proprio perché imposte. La modificazione riproduce se stessa e i propri rapporti, li eternizza sottraendoli a una vuota momentaneità che li arresterebbe, li rende così giusti, e respira il residuo della qualità. Il cerchio del dominio dell’apparenza è così costituito, giustificato e chiuso. Ma la qualità nella sua assenza non è remotamente seppellita, è qua, nei pressi del fare, solo che permane assente, soggetta alla legge dei detriti che la seppelliscono. Il mondo si sviluppa remotizzando sempre più l’assenza. È fondato sull’assenza questo incredibile ammasso di regole e di limitazioni, non posso uscire se non rompendo gli indugi e salpando senza fare rilevazioni sulla tempesta che troverò di certo in mare aperto. Se prendo il largo non posso più pensare al consolidamento, devo invertire il mio obiettivo, abbandonare la caccia e diventare da cacciatore cacciato, non c’è niente da costruire fuori di qua.

Quello che abbiamo fatto, e perfino il nostro agire, che è stato ricondotto alle dimensioni circoscritte del fare, per essere capito e rammemorato, può essere analizzato ma i motivi per cui l’abbiamo fatto, l’unità di fondo che questo fare costituisce per noi, non possono essere avvicinati realmente se non attraverso i parametri e le concordanze che valgono per tutti, che traducono in approssimazioni e improbabili completezze quello che non può essere capito senza che si dissolva in una cattiva distinzione all’infinito. Questo orizzonte limitato ci racchiude e ci sconfigge, restando esterno a noi, forzandoci ad acconsentire a un mondo esterno che è la più tenace delle nostre quotidiane costruzioni. La scienza è parimenti contraddetta da queste due tendenze, il nuovo che emerge davanti a essa e il vecchio che preme su di essa, che non cessa di esercitare la sua autorità. Quello che essa cerca di fare, sviluppare la volontà di potenza, acquisire sempre nuove protesi sostitutive delle incessanti incertezze presentate dal futuro, non è spesso nemmeno un progetto cosciente, comunque non lo è mai a lungo termine, quasi sempre è qualcosa sullo sfondo. Un’altra scienza può nascere solo attraverso l’allargarsi della coscienza diversa a coscienza morale, a progetto di conoscenza unitaria, privo di ripartizioni che non siano, dichiaratamente, meri problemi tassonomici. Mille maniere di disporre la ricerca produrranno mille risposte, quasi tutte inefficaci e inutili per ripristinare la volontà di potenza, ma adeguate ad andare oltre, senza paura, verso l’avventura del futuro.


In navigazione, primi di aprile 2002

Alfredo M. Bonanno

* * * * *

“[I nostri idealisti assoluti] ci ricantano a gara che l’errore ed il male, quando vengono alla luce, non sono errore e male. Lo diventano solo dopo, se e quando sono visti come errore e male. Rinnovando la teoria di Socrate nel Protagora secondo cui l’uomo fa sempre ciò che scorge come meglio, perché se scorgesse che c’è alcunché da farsi migliore dell’azione che fa, farebbe quello e non questa, dicono che quando il male ‘esiste come fatto positivo, è, non già male, ma bene, e che l’errore non c’è in chi erra, quando erra, perché l’errore è errore in quanto ha valore di errore, ossia ha tale disvalore’. E sta benissimo. Ma costoro non s’accorgono, o fingono di non accorgersi, o (come quei filosofi che per opportunismo o rispetti umani palliano una loro dottrina atea con nomi religiosi) non hanno il coraggio di confessare che questa dottrina insieme con l’esistenza attuale dell’errore e del male toglie via anche l’esistenza attuale della verità e del bene, e distruggendo dalle fondamenta l’assolutismo di cui costoro sono i campioni, costringe a sostituirvi il più perfetto relativismo. L’errore è sempre verità finché si crede, il male è sempre bene finché si fa. Solo, dopo, in un futuro sviluppo del mio spirito, potranno risultarmi (e così diventare) errore e male. Ma, allora, necessariamente, anche la mia verità di oggi, di cui sono soggettivamente certo come ero della mia verità, ora errore, di ieri, o il mio bene di oggi, che mi pare il da farsi con altrettanta sicurezza con cui mi pareva un tempo ciò che ora scorgo come da non farsi ossia male, anche la mia verità e il mio bene di oggi diventeranno in un futuro sviluppo del mio spirito errore e male. Quindi, è vero, come costoro sostengono che l’errore e il male non esistono mai, perché esistono solo, non nel presente, ma nel passato (allorché cioè saranno visti come tali) ossia quando non ci sono più, come non c’è più il passato. Ma del pari – ed è ciò che costoro non vogliono confessare, ma che pure scaturisce ineluttabilmente dalla loro teoria – la verità ed il bene si trovano sempre nella condizione di non esistere ancora, come non esiste ancora il futuro, appunto perché si trovano eternamente nel futuro. La mia verità e il mio bene di oggi saranno infatti domani errore e male di fronte a un altro mio vero e bene che mi spunterà nel futuro; e ciò proseguirà eternamente. E quello poi che mi risulta in questo punto verità e bene – ed è questa l’unica esistenza che ha per costoro il vero, ed il bene – è alla sua volta irreale, perché nel momento in cui l’afferro come verità e bene, ecco che come tale è passato, è diventato errore e male: è passato, ossia non c’è più; è passato per essere sostituito da un nuovo presente di verità e bene che alla sua volta nel momento in cui voglio saldamente afferrarlo è esso pure passato e non c’è più, mentre anche nel suo scorrevole momento di esistenza non può avere nessuna seria realtà per me giacché so fin d’ora che tra un momento non sarà più e diverrà errore e male, come è accaduto della mia verità e del mio bene di ieri”.

(Giuseppe Rensi, Lineamenti di filosofia scettica)

“Se partiamo dal presupposto che la soggettività si formi e si sviluppi soprattutto nell’ambito dell’intersoggettività, la funzione che la mente assume nell’ambito di questa prospettiva non può che essere, in via prioritaria e preferenziale, quella di rappresentare lo strumento fondamentale di questa interazione con il contesto, articolato e complesso, in cui il soggetto opera, costituito dall’ambiente fisico e dall’insieme degli agenti con cui egli si trova più o meno occasionalmente in relazione. E se assumiamo il punto di vista popperiano, secondo il quale centrali, in questa interazione, non sono gli stati e i processi mentali, bensì i ‘contenuti oggettivi’ a cui essi approdano, le strategie che vengono elaborate al fine di avere il massimo successo possibile nel mondo, allora il cosiddetto ‘problema di Cartesio’, quello del rapporto tra mente e cervello, diventa il capitolo di una tematica più generale, concernente la relazione tra il ‘mondo 2’ e il ‘mondo 3’. Riprendendo la distinzione tra ‘intelligenza A’ e ‘intelligenza B’ possiamo allora dire che ciò che caratterizza la mente umana rispetto ai suoi ‘emuli’ artificiali è proprio il suo ruolo di ‘barriera di contatto’ e di ‘mondo intermedio’ tra l’ambiente fisico e l’universo della conoscenza. È proprio questa sua posizione peculiare che ci consente di assumerla come quel particolare operatore che svolge una funzione ‘creativa’, grazie alla quale produce ‘teorie del reale’ che sono in grado di ‘retroagire’ sull’operatore medesimo e sulla sua attività di produzione, migliorandoli”.

(Silvano Tagliagambe, Epistemologia del confine)

Capitolo I

Il falsificazionismo costituisce una delle forme più avanzate della teoria della verificazione. Nella metodologia della scienza in generale e in quella delle scienze sociali in particolare le tesi di Karl Popper hanno influenzato profondamente il dibattito di questi ultimi quarant’anni.

Prima di Popper gli scienziati avevano proposto il criterio che per rendere scientifica un’asserzione bastasse la sua “verificabilità”. Da qui la nascita del “principio di verificazione” in base al quale si costruì una grande parte della scienza moderna. Questo principio venne ipotizzato in base al contributo della scuola neopositivista. Esso può essere formulato in questo modo: “sono dotate di significato solo quelle proposizioni rispetto alle quali risulta possibile effettuare una verificazione empirica”. «È noto il ruolo importantissimo del concetto di verificazione nel sistema del neopositivismo. Schlick formula in diverse occasioni la tesi che il significato del giudizio consiste nel metodo della sua verificazione. Ciò dovrebbe dimostrare il carattere “empirico” della filosofia neopositivistica e, in effetti, chi legge le esposizioni del processo di verificazione date dai neopositivisti (Schlick, Hempel) senza conoscere il problema più da vicino, è tratto facilmente in questo errore. Anche qui, la terminologia è realistica: per comprendere che cosa intenda propriamente il neopositivismo per verificazione occorre rifarsi alla sua interpretazione dell’esperienza. Solo in questo quadro la domanda può ricevere una risposta precisa». (A. Schaff, La teoria della verità nel materialismo e nell’idealismo. Questioni generali, op. cit., p. 348). In altre parole, l’avere un significato concreto, relativo alla pratica, permetteva di considerare queste proposizioni come verificate dall’esperienza.

L’applicazione di questo principio di verificazione mise al tappeto la metafisica e l’etica che, in quanto non verificabili, cominciarono a perdere la loro importanza e corsero il rischio di essere gettate vie come inutile ciarpame. Ma l’evolversi delle tragedie umane, specialmente l’immane, spaventoso carnaio della seconda guerra mondiale, fece meglio riflettere gli stessi scienziati, se non altro sulle loro responsabilità morali.

Popper iniziò a criticare duramente il principio di verificazione affermando che esso è un principio metafisico sotto mascheramento, in nome della scienza esso condanna aprioristicamente il senso di qualsiasi altro discorso, inoltre è esso stesso un principio non verificabile. «Appena sentii parlare del nuovo criterio di verificabilità del significato elaborato dal Circolo gli contrapposi il mio criterio di falsificabilità: un criterio di demarcazione destinato a demarcare sistemi di asserzioni scientifiche da sistemi perfettamente significanti di asserzioni metafisiche». (Logica della scoperta scientifica, op. cit., p. 345).

Fin dalla fine degli anni venti il giovane Popper si rese conto che tutta la filosofia non poteva racchiudersi intorno ai problemi relativi all’uso del linguaggio e al significato delle parole, e che il problema centrale restava quello cosmologico, cioè: «… il problema di comprendere il mondo, compresi noi stessi e la nostra conoscenza, in quanto parte del mondo». (Ib., p. XXI).

La posizione di Popper venne considerata di grande importanza dagli stessi appartenenti al Circolo di Vienna. Il volume sulla logica, infatti, uscì quale ottava pubblicazione degli Schriften zur wissenschaftlichen Weltauffassung, diretti da Frank e Schlick. Ma, per quanto importante potesse essere considerata l’opera – per altro ancora immatura – di Popper, da parte dei componenti del Circolo di Vienna, restava il fatto che il distacco si annunciava fortissimo. In particolare sul problema dell’induzione, che per Popper è problema di demarcazione tra scienza e ciò che scienza non è. «II mio problema era diverso. Desideravo stabilire una distinzione tra scienza e pseudo-scienza». (Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica, op. cit., p. 62). E, più avanti: «Gli astrologi rendendo le loro interpretazioni e profezie abbastanza vaghe, erano in grado di eliminare tutto ciò che avrebbe potuto costituire una confutazione della teoria, se quest’ultima e le profezie fossero state più precise». (Ib., p. 68). Solo che questo problema non va mischiato con quello del significato delle proposizioni.

Popper ritiene impossibile pervenire a una teoria esplicativa universale giustificata solo in modo empirico. Quindi la base empirica delle scienze oggettive è per lui fondata “sopra una palude”. E questa palude è stata scambiata per qualcosa di solido come una roccia. Occorre pertanto indicare i limiti che separano la scienza dalla metafisica. «Non si può negare che, accanto alle idee metafisiche che hanno ostacolato il cammino della scienza, ce ne sono state altre – come l’atomismo speculativo – che ne hanno aiutato il progresso. E guardando alla questione dal punto di vista psicologico, sono propenso a ritenere che la scoperta scientifica è impossibile senza la fede in idee che hanno una natura puramente speculativa, e che talvolta sono addirittura piuttosto nebulose; fede, questa, che è completamente priva di garanzie dal punto di vista della scienza e che pertanto, entro questi limiti, è “metafisica”». (Ib., p. 19). Popper, partendo dalla premessa che tutte le teorie sono “ipotesi” arriva alla conclusione che tutte sono rovesciabili, cioè sono “falsificabili”. Così precisa: «Ammetterò certamente come empirico, o scientifico, soltanto un sistema che possa essere controllato dall’esperienza. Queste considerazioni suggeriscono che, come criterio di demarcazione, non si deve prendere la verificabilità, ma la falsificabilità di un sistema. In altre parole: da un sistema scientifico non esigerò che sia capace di esser scelto, in senso positivo, una volta per tutte; ma esigerò che la sua forma logica sia tale che possa essere messo in evidenza, per mezzo di controlli empirici, in senso negativo: un sistema empirico deve poter essere confutato dall’esperienza. (Così l’asserzione: “Domani qui pioverà o non pioverà” non sarà considerata un’asserzione empirica, semplicemente perché non può essere confutata, mentre l’asserzione “Qui domani pioverà” sarà considerata empirica)». (Logica della scoperta scientifica, op. cit., p. 22). Egli contrappone all’accusa che il rifiuto della posizione induttiva priva la scienza empirica della sua più importante caratteristica, il fatto che non è per nulla vero che quella caratteristica garantiva una separazione tra scienza e metafisica, ma non forniva affatto una indicazione appropriata per giungere a questa necessaria separazione.

Per difendere la differenza tra verificabilità e falsificabilità Popper scrive: «Si potrebbe tentare di rivolgere contro me stesso le critiche che ho rivolto al criterio di demarcazione induttivistico: potrebbe infatti sembrare che contro la falsificabilità come criterio di demarcazione sia possibile sollevare critiche simili a quelle che io, per parte mia, ho sollevato contro la verificabilità. Questo attacco non può darmi noia. La mia proposta si basa su un’asimmetria tra verificabilità e falsificabilità, asimmetria che risulta dalla forma logica delle asserzioni universali. Queste, infatti, non possono mai essere derivate da asserzioni singolari, ma possono venire contraddette da asserzioni singolari. Di conseguenza è possibile, per mezzo di inferenze puramente deduttive (con l’aiuto del modus tollens della logica classica), concludere dalla verità di asserzioni singolari alla falsità di asserzioni universali». (Ib., p. 23). Ma Popper non si è mai nascosto la distinzione che è necessario fare tra la logica della differenza tra verificazione e falsificazione e la metodologia scientifica che in essa è implicita. «Il criterio di falsificabilità ha a che fare soltanto con la struttura logica delle asserzioni e delle classi di asserzioni. E non ha niente a che fare con la questione della possibilità che certi possibili risultati sperimentali vengano o meno accettati come falsificazioni». (Introduzione a Poscritto alla Logica della scoperta scientifica, vol. I, Il realismo e lo scopo della scienza, tr. it., Milano 1984, p. 9). Per cui sulla base logica, una legge scientifica è falsificabile per quanto non si possa verificare in modo definitivo. Mentre, da un punto di vista metodologico, è sempre possibile mettere in dubbio un’asserzione ma non è possibile cercare una falsificazione definitiva, quindi è inutile cercare di fondare una metodologia della falsificazione.

Nel lavoro sulla logica della scoperta scientifica Popper s’impegna nell’individuazione dei gradi di controllabilità cercando di dimostrare che anche la falsificazione è una “questione di grado”. «Un’asserzione o una teoria è falsificabile se e solo se esiste almeno un falsificatore potenziale, almeno un possibile asserto di base che entri logicamente in conflitto con essa. È importante non pretendere che l’asserto di base in questione sia vero. La classe degli asserti di base è intesa in modo che un asserto di base descriva un evento logicamente possibile la cui osservabilità sia logicamente possibile». (Ib., pp. 9-10).

Egli distingue tra probabilità numerica (o statistica) e probabilità logica e considera la prima come una sottosequenza della seconda. In questo modo stabilisce un rapporto tra il grado di falsificabilità e il grado di probabilità logica di asserzioni che vanno da 0 (tautologia) a 1 (contraddizione), avendo delle frazioni proprie che indicano il grado di controllabilità delle stesse asserzioni. «La falsificabilità di una asserzione o teoria si basa sull’asimmetria tra verificabilità e falsificabilità, e risulta dalla forma logica delle asserzioni universali: queste, infatti, non possono mai essere derivate da asserzioni singolari, ma possono venire contraddette da asserzioni singolari». (Logica della scoperta scientifica, op. cit., p. 23). In questo modo si ha che la probabilità logica di un’asserzione è complementare al suo grado di falsificabilità. La probabilità logica di 1 corrisponde al grado di falsificabilità. Conclude Popper: «L’asserzione meglio controllabile, cioè, l’asserzione che ha il più alto grado di falsificabilità, è logicamente meno probabile, mentre l’asserzione meno bene controllabile è logicamente più probabile». (Logica della scoperta scientifica, op. cit., p. 117).

Secondo Popper la conoscenza “oggettiva” è quella propria del senso comune, cioè quella che in filosofia viene considerata come la conoscenza posseduta da ogni soggetto conoscente. In effetti c’è in questa definizione di Popper un aspetto polemico, in quanto egli afferma che «[...] una conoscenza genuina o non adulterata o puramente soggettiva semplicemente non esiste». (Congetture e confutazioni, op. cit., p. 103). Per cui propone una distinzione tra “conoscenza soggettiva” (che qualche volta chiama conoscenza dell’organismo) e “conoscenza oggettiva”, o “conoscenza nel senso oggettivo”. Quest’ultimo tipo di conoscenza consiste nel «[...] contenuto logico delle nostre teorie, congetture, supposizioni (e, se volete, del contenuto logico del nostro codice genetico». (Ibidem). E, causticamente, scrive: «C’è un colore (il “Rosso-tromba”) che incute terrore in coloro che lo guardano. Esiste una cerimonia la cui corretta esecuzione obbliga il demonio ad apparire. Asserzioni di questo tipo non sono falsificabili. (Sono, in teoria, verificabili: è logicamente possibile trovare una cerimonia la cui esecuzione porti all’apparizione di una forma di sembianze umane con corna e zoccoli. E se una replica della cerimonia non ottiene lo stesso risultato, questo non costituirebbe una falsificazione, in quanto è stato forse omesso un aspetto inosservato ma essenziale della cerimonia corretta)». (Introduzione a Poscritto alla Logica della scoperta scientifica, vol. I, Il realismo e lo scopo della scienza, op. cit., pp. 9-10).

Partendo da queste considerazioni sulla conoscenza Popper distingue: mondo 1 = mondo fisico; mondo 2 = mondo delle nostre esperienze consapevoli; mondo 3 = mondo dei contenuti logici di libri, biblioteche, memorie di computer e simili. Nei rapporti tra questi tre mondi Popper sottolinea diverse possibilità:

a) È possibile fare, nel mondo 3, scoperte che non sono ancora consapevoli nel mondo 2, per cui questo mondo 3 si può considerare autonomo, come è possibile fare scoperte geografiche nel mondo l;

b) Quasi tutta la nostra conoscenza soggettiva (conoscenza del mondo 2) è in relazione con il mondo 3, e dipende da teorie formulate linguisticamente all’interno di quest’ultimo;

c) Se l’uomo si caratterizza per la coscienza di sé, questa dipende dall’insieme delle teorie del mondo 3, ed è questo il motivo per cui gli animali non hanno coscienza di sé. È proprio il concetto di “mondo 3” che consente di capire meglio la posizione metodologica di Popper nel campo della ricerca sociale. Ha notato Giovanni Cadeddu: «L’intenzionalità è la caratteristica di tutti quei sistemi che possono essere trattati e compresi con l’atteggiamento intenzionale. Non divide ontologicamente la mente (la soggettività) dalla natura (fisica); ma àncora la soggettività al mondo 3 della conoscenza oggettiva». (Per ripensare la psicoanalisi: inconscio e intenzionalità, in A. Mastroianni e G. Cadeddu, Psicoterapia psicoanalitica: verso una rifondazione, Milano 1995, p. 296). In questo modo la razionalità diventa un valore oggettivo, non uno degli attributi mentali. Diventa una caratteristica dei contenuti del pensiero che risultano così oggettivi e quindi anche della struttura dell’azione. Per cui conduce lo stesso Cadeddu: «Il sillogismo pratico e la spiegazione situazionale, che si fondano sul principio di razionalità, non attingono la loro forza logica dalle caratteristiche dei processi mentali, ma dalla razionalità oggettiva che regola l’uso del mentale sul piano dell’interazione sociale». (Ibidem).

Si tratta del mondo delle idee, dell’arte, della scienza, del linguaggio, dell’etica, delle istituzioni, nei termini in cui si trova codificato nei cervelli, nei libri, nelle macchine, nei computer, e in altre realizzazioni di qualsiasi genere. Pur essendo prodotti dalla mente umana, sussistono indipendentemente dal fatto che qualche soggetto ne sia a conoscenza. Scrive Popper: «L’idea di autonomia è centrale per la mia teoria del terzo mondo: sebbene il terzo mondo sia un prodotto umano, una creazione umana, esso a sua volta crea, al pari di altri prodotti animali, il suo proprio ambito di autonomia». (Congetture e confutazioni, op. cit., pp. 164-165). Ma si tratta di un’autonomia “parziale”. Nuovi problemi producono nuove creazioni e nuove teorie, quindi nuovi “oggetti” nel mondo 3.

Con questa teoria Popper propone un superamento del delicato problema della natura delle regole morali, se cioè queste siano oggettive o soggettive, problema che ha alimentato discussioni all’infinito. Max Weber aveva scritto: «Noi vogliamo intendere la realtà della vita che ci circonda, e nella quale noi siamo inseriti, nel suo proprio carattere – noi vogliamo intendere cioè da un lato la connessione e il significato culturale dei suoi fenomeni particolari nella loro odierna configurazione, e dall’altro i fondamenti del suo essere storicamente divenuto così-e-non-altrimenti. Allorché cerchiamo di riflettere sul modo in cui essa si presenta immediatamente a noi, la vita ci offre una molteplicità, senz’altro infinita, di processi che sorgono e scompaiono in un rapporto reciproco di successione e di contemporaneità, “in” noi e “al di fuori di” noi. E l’assoluta infinità di questa vita molteplice non diminuisce anche quando noi prendiamo in considerazione un singolo “oggetto” isolatamente – ad esempio un concreto atto di scambio – e intendiamo studiarlo con serietà allo scopo di descrivere questo oggetto “singolo” in maniera esaustiva in tutti i suoi elementi individuali, per non dire della scienza sociale e della politica sociale poi del penetrarlo nel suo condizionamento causale. Ogni conoscenza concettuale della infinita realtà da parte dello spirito umano finito poggia infatti sul tacito presupposto che soltanto una parte finita di essa debba formare l’oggetto della considerazione scientifica, e perciò risultare “essenziale” nel senso di essere “degna di venir conosciuta”. Ma in conformità a quali princìpi si procede a isolare questa parte? Si è ripetutamente creduto di poter trovare in ultima linea anche nelle scienze della cultura il criterio decisivo nel ricorrere “conforme a leggi” di determinate connessioni causali. Il contenuto nelle “leggi” che noi riusciamo a conoscere nel corso sempre molteplice dei fenomeni, deve costituire – secondo questa concezione – il solo aspetto scientificamente “essenziale” che sia in essi presente: quando abbiamo dimostrata valida senza eccezione, con i mezzi di una induzione storica complessiva, la “legalità” di una connessione causale, oppure quando l’abbiamo recata ad un’evidenza intuitiva immediata per l’esperienza interna, allora ogni formula così ritrovata subordina a sé qualsiasi numero, quanto grande si possa pensarlo, di casi omogenei. Ciò che della realtà individuale rimane al di fuori di questa determinazione dell’aspetto “conforme a leggi” o vale come un residuo ancora privo di elaborazione scientifica, che deve essere sottoposto ad analisi attraverso il completamento sempre crescente del sistema “di leggi”, oppure rimane invece da parte come qualcosa di “accidentale” e proprio perciò di scientificamente inessenziale, in quanto esso non è “comprensibile legalmente”, e quindi non appartiene neppure al “tipo” del processo e può essere soltanto oggetto di “oziosa curiosità”. Sempre ricompare di conseguenza – anche presso i rappresentanti della scuola storica – la convinzione che l’ideale a cui ogni conoscenza, e quindi pure la conoscenza della cultura, tende e può tendere anche se in vista di un lontano futuro, sia costituito da un sistema di proposizioni teoriche, da cui possa venir “dedotta” la realtà». (Il metodo delle scienze storico-sociali, op. cit., p. 85). Il modello di superamento suggerito da Popper riprende questa tesi ma la capovolge.

In ogni caso egli precisa: «Elaborare la differenza tra scienza e discipline umanistiche è stato a lungo una moda ed è diventato noioso. Il metodo di risoluzione dei problemi, il metodo delle congetture e confutazioni sono praticati da entrambe. È praticato nella ricostruzione di un testo danneggiato, come nella costruzione di una teoria della radioattività». (Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, tr. it., Roma 1975, p. 242). E altrove: «Io ho mostrato che l’interpretazione di testi (ermeneutica) lavora con metodi schiettamente scientifici». (Autointerpretazione filosofica e polemica contro i dialettici, in C. Grossner, Filosofi tedeschi contemporanei, tr. it., Roma 1977, p. 353). È caratteristico di questa impostazione empirica, o neo-empirica, di cui Popper rimane comunque un rappresentante, fare in modo che si operi uno stacco tra la volontà e la decisionalità dell’uomo e l’insieme della realtà, per cui quest’ultima, a un determinato momento, diventi autonomamente capace di dare vita a regole sue proprie, sempre modificabili, ma sufficientemente organizzate per non dipendere più dalle decisioni individuali o collettive.

Per quanto lontano anche Henri Poincaré appartiene alla stessa cordata: «Gli assiomi non sono né giudizi sintetici a priori, né fatti sperimentali: sono convenzioni. La nostra scelta fra tutte le convenzioni possibili è guidata da fatti sperimentali, ma essa resta libera ed è limitata solo dalla necessità di evitare ogni contraddizione. In tal modo i postulati possono rimanere rigorosamente veri, anche quando le leggi sperimentali, che ne hanno suggerita l’adozione, sono approssimative. In altri termini, gli assiomi della geometria (non parlo di quelli dell’aritmetica) sono semplici definizioni mascherate. Che si deve quindi pensare della questione circa la verità della geometria “euclidea”? Essa non ha alcun senso. Sarebbe come domandare se il sistema metrico sia vero e false le antiche misure, se siano vere le coordinate cartesiane, e false quelle polari. Una geometria non può essere più vera di un’altra: essa può essere soltanto più comoda». (La scienza e l’ipotesi, tr. it., Firenze 1950, pp. 58-59). In particolare la teoria del mondo 3 è un simulacro della teoria hegeliana del viaggio dello spirito nella storia, senza possedere quel fondamento fenomelogico che faceva della teoria di Hegel almeno un bel romanzo di gradevole lettura.

Ha notato Severino: «Hegel vede che la storia è fatta dai Servi. Dopo la vittoria, il Signore non si protende più direttamente verso le cose. Le ottiene mediante il lavoro del Servo. E nel lavoro il Servo inventa le tecniche, il sapere, la filosofia, la scienza. Oggi – aggiungiamo – il riconoscimento pubblico della potenza della scienza va acquistando un carattere sempre più scientifico. Le tecniche dell’informazione sono prodotti scientifici, e tra i più elaborati. Il riconoscimento della potenza della scienza è oggi un aspetto di tale potenza: ha come contenuto se stesso. Lo straordinario sviluppo telematico-informatico del nostro tempo è dunque lo sviluppo concreto del riconoscimento pubblico della potenza scientifica, e in esso si ripropone il crescente potenziamento che per Hegel compete al lavoro servile». (Il destino della tecnica, Milano 1998, pp. 27-28). In Popper c’è sempre qualcosa che viaggia ma non è lo spirito, con le sue grandi gesta affascinanti e con i conflitti che scatena sul povero uomo inconsapevole, ma è l’autonomia della scienza, il settorialismo di quell’accumulazione di dati e di fatti – e quindi anche di teorie – che l’uomo stesso ha creato ma che non riesce a controllare e quindi nemmeno a “conoscere”.

Nel mondo 3 si devono cogliere alcuni elementi particolarmente importanti – continua Popper – specialmente l’affermazione del linguaggio e lo sviluppo delle capacità critiche. Con riferimento ad essi si sono sviluppate la funzione descrittiva e la funzione argomentativa. La prima consente l’emersione dell’idea di verità, cioè di qualcosa che corrisponde a una descrizione in armonia con i fatti; dalla seconda si ricava la possibilità di una descrizione critica delle idee regolative della verità. Egli scrive: «Non penso più, come un tempo, che ci sia una differenza fra scienza e metafisica riguardo il problema se la razionalità possa essere un attributo predicabile solo per le teorie scientifiche. Ritengo che una teoria metafisica sia simile ad una scientifica. È senz’altro più vaga e inferiore sotto molti altri aspetti, e la sua non confutabilità, o mancanza di controllabilità, è il suo maggior difetto. Ma, nella misura in cui una teoria metafisica può venir razionalmente criticata, dovrei essere disposto a prendere sul serio la sua implicita rivendicazione ad essere considerata, almeno provvisoriamente, come vera. E, soprattutto, dovrei essere disposto a valutarla attraverso una stima di questa rivendicazione – considerando dapprima il suo interesse teorico e solo secondariamente la sua utilità pratica (in quanto distinta dalla sua fecondità come programma di ricerca). Utilità o inutilità pratica si possono ritenere importanti soprattutto perché assomigliano a un controllo della verità – come può spesso darsi in connessione con una teoria scientifica». (Poscritto alla Logica della scoperta scientifica, vol. III, La teoria dei quanti e lo scisma della fisica, op. cit., p. 203). Il compito dei filosofi è pertanto quello di contribuire all’arricchimento di quelle teorie immaginative che, sviluppate a seguito dell’impiego di queste due funzioni, contribuiscono a formare quell’insieme “perfettibile” che è la conoscenza oggettiva.

Onde collocare questo lavoro “immaginativo” sia all’interno delle conseguenze che determina sul mondo 3, sia all’interno delle conseguenze che determina sul mondo 1, bisogna fissare i rapporti e le relazioni intercorrenti tra questi tre mondi. «Lo stadio iniziale, l’atto del concepire o dell’inventare una teoria, non mi sembra richiedere un’analisi logica né esserne suscettibile. La questione: come accada che a un uomo venga in mente un’idea nuova – un tema musicale, o un conflitto drammatico o una teoria scientifica – può rivestire un grande interesse per la psicologia empirica ma è irrilevante per l’analisi logica della conoscenza scientifica. Quest’ultima prende in considerazione non già questioni di fatto (il quid facti? di Kant), ma soltanto questioni di giustificazione o validità (il quid iuris? di Kant)». (Logica della scoperta scientifica, op. cit., p. 9). In altre parole, bisogna dire in che modo il mondo 2 si pone come mediatore tra il mondo 1 e il mondo 3. La mente costituisce un punto di riferimento tra il mondo 1 e il mondo 3. Attraverso di essa e attraverso l’attività di coloro che lavorano con la mente, il mondo 3 modifica il mondo 1.

Da notare come questa modificazione è vissuta da Popper sempre attraverso il velo di Minerva, cioè attraverso l’esclusività del compito conoscitivo privilegiato, che poi resta quello dello scienziato. La modificazione del mondo fisico (mondo 1) diventa possibile così solo attraverso la conoscenza critica operata con l’intermediarietà del mondo 2, ma in vista dell’autonomia del mondo 3. «La mia concezione del metodo della scienza è semplicemente questa: esso sistematizza il metodo prescientifico dell’imparare dai nostri errori: lo sistematizza grazie allo strumento che si chiama discussione critica. Tutta la mia concezione del metodo scientifico si può riassumere dicendo che esso consiste di questi tre passi: 1) inciampiamo in qualche problema; 2) tentiamo di risolverlo ad esempio proponendo qualche nuova teoria; 3) impariamo dai nostri sbagli, specialmente da quelli che ci sono resi presenti dalla discussione critica dei nostri tentativi di risoluzione. O, per dirla in tre parole: problemi-teorie-critiche. Credo che in queste tre parole problemi-teorie-critiche, si possa riassumere tutto quanto il modo di procedere della scienza razionale». (Scienza e filosofia: problemi e scopi della scienza, tr. it., Torino 1969, p. 146). L’azione individuale e collettiva, l’azione creatrice e non soltanto la ripetitività del fare coatto, non è presa in considerazione. La conoscenza si rinchiude nella torre d’avorio del pensatore e dello scienziato.

In più si ha che il mondo 3, cioè l’insieme delle teorie, con la sua autonomia, è un fatto “reale”, in quanto è un prodotto dell’attività umana, ma non è detto che pur essendo tale sia “conosciuto” dalla stessa attività umana. Egli scrive: «Penso che sia possibile sostenere una posizione che differisce da Platone come da Locke, Mill, Dilthey o Collingwood: suggerisco che è possibile accettare la realtà o (come si può chiamare) l’autonomia del terzo mondo, e al tempo stesso ammettere che il terzo mondo si origina come prodotto dell’attività umana». (Congetture e confutazioni, op. cit., 215). Curioso modo di giustificare la separazione analitica della realtà dal processo conoscitivo.

Popper vuole in effetti solidificare il concetto di “conoscenza oggettiva” collocandolo al di là della sfera del privato e dell’individuo. La maggior parte della conoscenza non sarebbe per nulla conosciuta da qualcuno. Esisterebbe solidificata nei libri, nelle biblioteche, nelle opere d’arte e così via. Questa conoscenza, per quanto “non conosciuta” è utilissima, in quanto viene impiegata continuamente. «Contro il determinismo scientifico e a favore dell’indeterminismo è argomento di grande rilievo il carattere approssimato di tutta la conoscenza scientifica – la rete le cui maglie cerchiamo di rendere sempre più fini». (Poscritto alla logica della scoperta scientifica, vol. II, L’universo aperto: un argomento per l’indeterminismo, op. cit., p. 67). Nemmeno chi scrive libri può dirsi che conosca quello che ha scritto, difatti non sarebbe capace “di ripetere a memoria i propri libri”, quindi non si può dire che li conosca, almeno nel senso della conoscenza del mondo 3. Per Popper quindi la conoscenza in senso oggettivo è una conoscenza senza il soggetto che conosce.

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“È qui il caso di sottolineare che tutti i maggiori sistemi nella storia della filosofia si sono ricollegati in un modo o nell’altro alla definizione classica della verità – non esclusi quelli che in ultima analisi, attraverso le varie formulazioni aggiuntive, di fatto se ne allontanavano. Cartesio si rifà ad essa in quanto uomo di scienza – sebbene il suo idealismo, che gli fa riconoscere come vero ciò che viene percepito in modo chiaro e distinto (verum est quod clare et distincte percipio) si contrapponga alla concezione classica della verità; Leibniz pure si rifà ad essa, pur ricercando il criterio della verità in princìpi logici, assenza di contraddizione e sufficiente ragionevolezza; e cosi lo stesso Kant, pur se sembri contraddirvi il suo concetto della verità formale (verità come conformità del pensiero a regole generali e formali dell’intelletto e della ragione). Espressamente si rifà ad Aristotele a concezione della verità come adaequatio rei et intellectus propria della Scolastica medioevale e in particolare del tomismo, la cui posizione fideistica è, come tale, quella di un idealismo estremo. Ma i tentativi di interpretare la definizione aristotelica in modo tale da poterla accordare con posizioni idealistiche non caratterizzano soltanto il medioevo: li ritroviamo spesso tra i rappresentanti delle filosofie idealistiche posteriori fino al secolo XIX. È chiaro quindi che l’elemento decisivo non è l’accettazione della definizione classica in sé e per sé, ma la sua interpretazione, e in primo luogo il modo di concepire, qui, la realtà. Alla base della teoria del rispecchiamento sta il riconoscimento dell’esistenza obiettiva e della conoscibilità del reale: da questa posizione discende, nella teoria della verità, la concezione materialistica conseguente della verità come proprietà dei giudizi che rispecchiano in modo fedele la realtà obiettivamente esistente. Se è giusto vedere in questa definizione uno sviluppo della definizione classica della verità – che pure ha a fondamento l’obiettività e la conoscibilità del reale – bisogna però sottolineare che la teoria materialistica della verità giunge nel materialismo dialettico a un grado di svolgimento più alto ed essenzialmente nuovo”.

(A. Schaff, La teoria della verità nel materialismo e nell’idealismo. Questioni generali)

Capitolo II

Nello sviluppo del progetto metodologico di Popper la critica della “logica” dialettica occupa un importante posto tra le “confutazioni”, servendo sia da chiarificazione ulteriore del suo modo di procedere “per prova ed errore” sia da approccio alle riflessioni sui problemi del metodo delle scienze sociali.

Nell’indicare gli elementi della sua critica della dialettica Popper usa il metodo di cogliere prima i punti positivi della posizione avversaria, per poi sottolineare i punti che tolgono valore a tutta la struttura. «Ogni teoria razionale, non importa se scientifica o metafisica, è tale solo perché è in rapporto con qualcos’altro – perché è un tentativo di risolvere certi problemi, e si può discutere razionalmente solo in rapporto alla situazione problematica con cui è collegata. Ogni discussione critica di essa consisterà, soprattutto, nell’esaminare in che misura lo faccia meglio di varie teorie rivali; se non crei delle difficoltà maggiori di quelle che intende dissipare; se la soluzione sia semplice; quanto feconda nel suggerire nuovi problemi e nuove soluzioni, e se non sarebbe eventualmente possibile confutarla mediante controlli empirici. Quest’ultimo metodo non è, beninteso, applicabile se la teoria è metafisica. Ma gli altri metodi possono ben essere applicabili. Ecco perché è possibile la discussione razionale o critica di alcune teorie metafisiche. (Beninteso, possono esserci altre teorie metafisiche che non sono suscettibili di discussione razionale)». (Proscritto alla Logica della scoperta scientifica, vol. III, La teoria dei quanti e lo scisma della fisica, op. cit., pp. 203-204). Egli non manca di indicare, infatti, che la posizione della logica dialettica è una posizione dogmatica e che, per quanto ogni dogmatismo sia condannabile, esso ci è utile (e un pizzico di dogmatismo resta in fondo a ogni posizione teorica), perché ci consente di scoprire l’effettivo rilievo di una teoria, a seguito del fatto che i suoi propugnatori, proprio perché accecati dal dogmatismo in questione, la sostengono anziché abbandonarla subito. «Ogni scoperta contiene un elemento irrazionale o un’intuizione creativa, nel senso di Bergson». (K. Popper, Logica della scoperta scientifica, op. cit., p. 11). Questo elemento negativo permette quindi l’emersione di un elemento positivo: un più severo controllo della teoria stessa.

Questo modo di disporsi, a favore e contro un punto di vista teorico, viene considerato da Popper una forma della lotta delle ideologie, e rientra nella procedura metodologica della “prova ed errore”. «Il contenuto logico di una teoria è la quantità delle sue conseguenze, vale a dire l’insieme o la classe di tutte le proposizioni che possono venire logicamente dedotte dalla teoria in questione. Più grande è l’insieme delle conseguenze, tanto meglio è». (La teoria della scienza dal punto di vista evolutivo e logico, in Tutta la vita è risolvere problemi, tr. it., Milano 1996, p. 43). Bisogna però dire subito che il metodo suddetto è ben lontano da quello dialettico.

Il metodo per prova ed errore si concretizza nel fatto che un teorico propone una soluzione, una teoria. Questa viene accettata a titolo provvisorio dalla scienza. I ricercatori non smetteranno di criticare e controllare la teoria in questione. Critica e controlli si sviluppano parallelamente. Individuati i punti deboli, questi saranno sottoposti a prove, se il controllo dimostra erronea la teoria, essa viene eliminata. «Il contenuto empirico o informativo di una teoria è l’insieme o la classe delle proposizioni empiriche proibite dalla teoria; cioè come l’insieme o la classe delle proposizioni empiriche che stanno in rapporto di contraddizione con la teoria». (Ibidem).

Ora, la dialettica, a parte lo schema scolastico che può essere considerato un fatto meramente accessorio, è caratterizzata da una pretesa forza intrinseca alla realtà che obbliga i fenomeni a prodursi secondo un certo schema. È proprio questo che Popper nega. Il fondamento del metodo dialettico è dato dal fatto di tenere in considerazione le contraddizioni della realtà come comprese all’interno di un movimento che le supera e, quindi, le giustifica. Pertanto solo apparentemente questo metodo tiene conto delle contraddizioni, in sostanza, fin dal momento di partenza le considera risolte nel processo del reale. «Ma – sostiene Popper – una tale affermazione equivale a un attacco al cosiddetto “principio di contraddizione” (o, più esplicitamente, “principio di esclusione delle contraddizioni”) della logica tradizionale; principio secondo cui due asserzioni contraddittorie non possono mai essere entrambe vere. Appellandosi alla proficuità delle contraddizioni, i dialettici pretendono che questo principio della logica tradizionale venga abbandonato». (Epistemologia, razionalità e libertà, tr. it., Roma 1972, p. 538). Le contraddizioni hanno quindi, per Popper, un’utilità pratica solo quando individuate, isolate e sottoposte ad attento controllo, verranno poste in condizione di fornire chiarimenti sugli elementi erronei alla teoria di cui si discute.

Palesemente Popper non affronta il problema della concezione della totalità che, sia pure nelle vesti di “cattiva” totalità, è sempre nella concezione dialettica, e ne riduce il progetto metafisico alle modeste dimensioni di un bottegaio interesse per il metodo della “prova e errore”. «Ciò che promuove lo sviluppo – egli scrive – non è una forza misteriosa, interna a queste due idee (tesi e antitesi), né una fantomatica tensione tra esse: è unicamente la nostra risoluta decisione di non ammettere le contraddizioni a indurci a ricercare attentamente un nuovo punto di vista, che ci consenta di evitarle». (Ib., p. 539). Ragionando in questo modo si ha che lo sviluppo di una tesi che esponga elementi contraddittori non significa uno sforzo inutile; come non sarebbe inutile una teoria intrinsecamente contraddittoria, in quanto può benissimo essere interessante, potendo dare origine a correzioni tali che finiscono per renderla coerente e significativa.

Accettando la logica dialettica, ci si potrebbe invece adeguare alla teoria contraddittoria, considerando le contraddizioni come qualcosa di naturale, Popper afferma che in questo modo si finirebbe per accettare la teoria proprio “a causa delle contraddizioni”. È stato questo il metodo impiegato da Hegel – insiste Popper – per superare la posizione kantiana. Insostituibile il feroce Lenin: «Coloro che seguono l’indirizzo di Kant e Hume (compresi fra questi ultimi Mach e Avenarius nella misura in cui non sono puri berkeleyani) chiamano “metafisici” noi, i materialisti, perché riconosciamo la realtà obiettiva, che è per noi un dato dell’esperienza, perché riconosciamo che la fonte delle nostre sensazioni è obiettiva, indipendente dall’uomo. Con Engels noi materialisti chiamiamo agnostici i seguaci di Kant e di Hume, perché negano la realtà obiettiva come fonte delle nostre sensazioni. L’agnostico dice: non so se esiste una realtà obiettiva riflessa dalle nostre sensazioni e affermo che è impossibile saperlo. Di qui la negazione della verità obiettiva da parte degli agnostici». (V. I. Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo. Note critiche su una filosofia reazionaria, tr. it., Roma 1952, p. 116). Questa, infatti, aveva segnato limiti alla conoscenza individuandoli nel campo dell’esperienza possibile, mentre il ragionamento speculativo al di là veniva considerato senza giustificazione.

Per Hegel, al contrario, l’intelletto può comprendere il mondo perché questo, quale ci appare, è conforme all’intelletto stesso, e le contraddizioni non contano perché vengono riprese all’interno del meccanismo dialettico e superate. Con questa asserzione che la realtà è conforme all’intelletto si fonda l’idealismo assoluto. Lo aveva capito Kierkegaard: «Se si deve costruire un sistema logico, bisogna badare soprattutto che non venga assunto nulla di ciò ch’è soggetto alla dialettica dell’esistenza, cioè di quanto è unicamente perché esiste o perché è esistito, e non per via dell’essere (logico). Da ciò segue che quell’incomparabile e incomparabilmente ammirata scoperta di Hegel d’introdurre il movimento nella logica (prescindendo dal fatto che, in metà dei testi, manca anzi una vera ricerca per dimostrare ch’esso vi si trova) equivale a introdurre la confusione nella logica. La leggerezza con cui i sistematici concedono che Hegel certamente non è riuscito dappertutto a introdurre il movimento nella logica, press’a poco come quando un pizzicagnolo pensa che qualche chicco d’uva passa non conta quando se ne compera in gran quantità, questa condiscendenza di bassa comicità suona naturalmente disprezzo per Hegel, quale neppure i suoi più accaniti avversari non si sono mai permesso. Certamente prima di Hegel ci sono state delle ricerche logiche, ma è precisamente il metodo che per lui è tutto. Per lui e per chiunque è abbastanza sveglio da capire quel che significa volere qualcosa di grande, il fatto che il principio fondamentale del movimento dialettico non è presente in questo o quel punto, non può essere una cosa insignificante come quando un pizzicagnolo e il cliente litigano se il peso della merce sia crescente o un po’ calante. Hegel giustamente ha impegnato tutta la sua celebrità nel punto del metodo. Ma il metodo ha questa proprietà notevole, che, visto in astratto, esso è un nulla affatto, che è precisamente nella sua applicazione e nel suo sviluppo ch’esso è il metodo, e dove non è svolto non è metodo, e se non c’è nessun altro metodo si resta del tutto senza metodo. Gli ammiratori di Hegel si possono riservare il privilegio di fare di Hegel uno svanito; un avversario saprà tenerlo in onore per aver egli voluto qualcosa di grande, benché non l’abbia raggiunto». (Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia, tr. it., vol. I, Bologna 1962, p. 305). Affermando, al contrario, che la realtà ha il carattere fisico che l’uomo gli attribuisce, i termini del ragionamento si capovolgono, e si ottiene una posizione materialista che, per l’impiego fatto dello strumento dialettico, viene detta materialismo dialettico.

Un elemento che denuncia l’inconsistenza del metodo dialettico, è indicato da Popper nel fatto che la realtà è piena di contraddizioni, quindi uno squarcio di realtà può sempre essere messo dentro il meccanismo logico della dialettica, o, se si preferisce, questo può sempre adattarsi a quello. Adam Schaff ha precisato: «Le due tesi filosofiche implicite nel punto di vista materialistico-dialettico, che più sono ostiche a ogni forma di idealismo, sono quelle dell’esistenza obiettiva del reale, e quella della sua conoscibilità. Vogliamo ora mostrare brevemente come, nonostante le ampie differenze nella concezione del problema, tutte le c.d. definizioni non-classiche della verità si rivolgono in definitiva contro queste due tesi. Cominciamo con la teoria dell’evidenza. Secondo questa teoria è vero il giudizio che si presenta con tanta evidenza da non poter essere ragionevolmente respinto. Una varietà della teoria si trova presso gli stoici antichi, ma è con Descartes che essa acquista la sua vera importanza: a lui risale la celebre formulazione del criterio della verità di un pensiero nella sua chiarezza e distinzione – “ ... le cose che noi concepiamo chiaramente e distintamente... son tutte vere”. Riassunto delle sei meditazioni che seguono. Che l’identificazione del vero con ciò che appare evidente rappresenti una concezione soggettivistica della verità è cosa chiara: e quando Descartes sposta esplicitamente il centro del problema della relazione del pensiero con la realtà al rapporto del pensiero con la coscienza, ciò significa un deciso passaggio dal campo dell’oggettività a quello della soggettività psicologica. Non è esatto che la teoria dell’evidenza abbia esclusivamente un interesse storico: essa trova un’eco in teorie contemporanee della filosofia borghese; a lei si riannodano particolarmente le teorie della verità di Bergson e di Husserl. Ancora più marcata è la sua impronta nella filosofia di Brentano, il cui sviluppo teorico in questa questione rappresenta un passaggio da una definizione di tipo classico a una fondata sulla teoria dell’evidenza. Un pensiero vero è un pensiero che noi concepiamo in modo chiaro e distinto: questa è la tesi centrale della teoria dell’evidenza, rispetto alla quale esporremo ora il nostro punto di vista nel modo più breve possibile. Due più due è uguale a quattro: questo è un pensiero vero – vero perché lo concepiamo in modo chiaro e distinto, e non possiamo ragionevolmente negarlo». (La teoria della verità nel materialismo e nell’idealismo. Questioni generali, op. cit., pp. 100-101). Un esempio è dato dalle previsioni fatte da Marx in merito al futuro del capitalismo. Popper sviluppa a lungo e volentieri l’argomento delle previsioni nella scienza sociale.

Per quanto concerne Marx il fatto che le sue previsioni riguardo la rivoluzione sociale e il futuro del capitalismo si siano rivelate infondate, può essere anche questo fallimento fatto rientrare all’interno del meccanismo dialettico. «Il crollo del determinismo scientifico lo si può vedere con molta chiarezza nel campo che ci riguarda più da vicino. Non c’è alcun indizio che con l’aiuto dei metodi scientifici ci si possa in qualche modo avvicinare a una descrizione o classificazione scientifica delle personalità umane: esse restano nemiche, a dispetto di tutti i tentativi di classificazione e di misurazione». (Proscritto alla Logica della scoperta scientifica, vol. II, L’universo aperto: un argomento per l’indeterminismo, op. cit., p. 60). In questo modo si proverebbero due conseguenze: a) che il metodo dialettico può così provare tutto, compreso gli errori (contraddizioni); b) che proprio per questo motivo, non prova nulla, quindi non è buono per individuare gli errori. Popper scrive: «Grazie alla dialettica, l’atteggiamento antidogmatico è scomparso, e il marxismo si è consolidato come un dogmatismo che, valendosi del metodo dialettico, è sufficientemente elastico per sfuggire a qualsiasi nuovo attacco. È così diventato quello che ho definito un dogmatismo consolidato». (La società aperta e i suoi nemici, tr. it., vol. II, Roma 1973, p. 118). Ancora una volta la critica di Popper va fuori strada: non è che il metodo dialettico sia dogmatico perché cerca di costruire un meccanismo capace di superare le contraddizioni, ma è dogmatico – allo stesso modo in cui è dogmatico anche il socialdemocratico metodo del falsificazionismo popperiano – perché pensa che sia possibile una forma di riconciliazione tra realtà e soggetto, senza pervenire a un reale coinvolgimento di quest’ultimo ben al di là del banale accorgimento metafisico di considerare dialettica la natura stessa e quindi il progresso nel suo insieme, come movimento del progresso fisico e come movimento del progresso storico.

La discussione sulla dialettica si porta dietro quella sul determinismo come metodo interpretativo delle scienze sociali. «Dal momento che il passato non è nient’altro che ciò che è accaduto, è banalmente vero che il passato è completamente determinato da quel che è accaduto». (Proscritto alla Logica della scoperta scientifica, vol. II, L’universo aperto: un argomento per l’indeterminismo, op. cit., p. 67) e, più avanti: «Tutta la nostra vita, tutte le nostre attività, sono assorbite dai tentativi di influenzare il futuro. È chiaro che noi crediamo che ciò che accadrà nel futuro sia largamente determinato dal passato o dal presente, perché tutte le nostre azioni razionali presenti sono tentativi di influenzare o di determinare il futuro». (Ib, p. 68). Vediamo la particolare funzione che la critica del determinismo assume in Popper e, quindi, in tutte quelle posizioni teoriche che in un modo o nell’altro si richiamano al falsificazionismo popperiano. «La verità di enunciati semplici – egli scrive –, o di enunciati matematici, o di enunciati della lingua inglese, non dovrebbe indurci nella tentazione di inferire che il mondo è intrinsecamente semplice, o matematico, o britannico». (Ib., p. 57). Per cui: «Il determinismo scientifico potrebbe, se mai, essere conseguenza soltanto di un sistema di fisica completo o comprensivo, nel senso di permettere la previsione di tutti i tipi di eventi fisici». (Ib., p. 52).

Se Marx aveva fatto il notevole sforzo di lottare contro lo psicologismo – come riconosce Popper – e i lati positivi di questa lotta erano stati le progressive eliminazioni di alcune astrazioni utopistiche, in seguito il preteso fondamento scientifico del socialismo, si era immiserito in una assurda lettura della storia dal di dentro, una pretesa “razionalizzante” di rivivere la fenomenologia hegeliana in modo rovesciato. «Attualmente non esiste nulla a sostegno del determinismo, all’infuori di un pregiudizio quasi-religioso, o del pregiudizio che l’onniscienza della scienza si avvicini in certo qual modo, anche se soltanto in teoria, all’onniscienza divina». (Ib., p. 55). Così, dal meccanismo dialettico, ritmato in una struttura ben fissata, emerge il determinismo che giustifica in modo definitivo e immodificabile la storia dell’uomo. «Questa dottrina [lo storicismo] è uno dei tentativi fatti per rendere comprensibile la storia mediante una interpretazione teistica, cioè riconoscendo Dio come autore del dramma che si svolge sulla Scena Storica. La teoria del popolo eletto, più specificamente, sostiene che Dio ha scelto un popolo perché adempia alla funzione di strumento privilegiato della sua volontà e che questo popolo erediterà la terra». (La società aperta e i suoi nemici, vol. I, op. cit., p. 28). La storia viene portata alla ragione attraverso un processo metafisico, non molto diversamente di quanto altri – per vie diverse – l’avevano portata sotto il dominio di Dio o dell’evoluzione della specie. E, insiste Popper: «... chiunque intenda giudicare il marxismo deve metterlo alla prova e citarlo in quanto metodo, cioè deve valutarlo in base a criteri metodologici. Deve insomma chiedersi se è un metodo fecondo o sterile, cioè se è o non è capace di favorire il compito della scienza». (Ib., vol. II, p. 112).

E le indicazioni che ci provengono dallo stesso marxismo sono che la scienza, nella sua attività, deve fornire risultati pratici, atti a modificare il mondo, realizzando, così, la filosofia. «Ecco la famosa definizione di William James: Il vero è l’utile. Vero è ciò che è buono nella sfera del credere, e si dovrà credere ciò, che per noi è meglio credere. La verità è dunque definita come ciò che è meglio credere. Ma così possiamo anche comprendere che cosa significa “utile” ed “efficace” semplicemente ciò che si addice ai nostri interessi. Più esattamente anzi, ai miei interessi: poiché, come sappiamo, il pragmatismo è una filosofia che si sviluppa in una società di classe, nella quale, in via di principio, gli interessi dei singoli non sono sempre uguali. È abbastanza evidente che quando il marxismo parla dell’“utilità” della conoscenza vera, ciò va inteso in modo tale che resti esclusa ogni riduzione dell’utilità alla conformità con gli interessi del singolo. Nello stesso momento in cui questa riduzione diventa possibile cessa di esser vero, almeno per noi, che ogni pensiero vero è utile. In realtà, si conoscono molti giudizi veri che non sono affatto utili, ma assai dannosi, per esempio, per gli imperialisti: così, sebbene sia difficile mettere in dubbio la verità dell’affermazione che la forza del campo socialista e del movimento di liberazione dei paesi coloniali tende sempre più a crescere, per gli imperialisti “sarebbe meglio credere”, almeno per un certo tempo, che le cose non stiano oggettivamente in questo modo. Altrettanto il pensiero vero, che sto annegando, seguito da effettivo annegamento, non può essere considerato come “utile” per colui che annega. È anche difficile dire se “sarebbe meglio” per l’affogante prestar fede a questo pensiero o no. Per la filosofia marxista “prassi” significa prassi sociale, utilità ed efficacia hanno il senso di utilità ed efficacia in questa prassi. Se si introduce in questo contesto la variabile dell’antagonismo di classe, l’utilità viene intesa dai marxisti come ciò che serve gli interessi della classe progressiva, che rappresenta nel momento dato gli interessi della grande maggioranza dell’umanità e del progresso generale. In questo senso ed entro questi limiti si può formulare la tesi che il pensiero vero in generale è utile». (A. Schaff, La teoria della verità nel materialismo e nell’idealismo. Questioni generali, op. cit., p. 305). Ma, questi risultati pratici non possono essere conseguiti in modo liberatorio per l’uomo, se si opera all’interno di un nuovo tipo di dogmatismo, come, appunto, minaccia di essere sia il metodo dialettico, sia il presupposto deterministico che gli è congeniale.

Da una situazione del genere, anche il rapporto mezzi-fini risulta deformato irrimediabilmente. Popper si pone questo problema in merito alla questione che lui definisce dell’“ingegneria sociale”. «Solo una minoranza delle istituzioni sociali sono volutamente progettate, mentre la gran maggioranza di esse sono semplicemente venute su, cresciute come risultato non premeditato di azioni umane». (Miseria dello storicismo, tr. it., Milano 1973, p. 68). Parlando di Platone Popper gli attribuisce un progetto “totalitario di ingegneria utopica”, sostenendo che il solo possibile e auspicabile è un progetto liberale di “ingegneria gradualistica”. Usando una terminologia più corrente nel campo politico, la differenza potrebbe essere tra la strada delle riforme (ingegneria gradualistica) e quella della rivoluzione sociale (ingegneria utopica). «La maggior parte delle poche istituzioni che sono state progettate coscientemente ed hanno avuto successo (per esempio una Università di nuova fondazione o un sindacato) non risultano pienamente conformi al progetto: anche in questo caso a causa delle inintenzionali ripercussioni sociali risultanti dalla loro creazione intenzionale». (La società aperta e i suoi nemici, vol. II, op. cit., p. 112). Siccome ogni azione per avere legittimità metodologica deve essere razionale, anche il progetto dell’ingegneria utopica deve, per essere razionale, proporre un certo rapporto logico tra mezzi e fini. Solo che – insiste Popper – «[...] questi principi [quelli dell’ingegneria utopica], se applicati al campo dell’attività politica, richiedono da noi la determinazione del nostro fine politico ultimo, cioè dello Stato Ideale, prima che sia intrapresa qualunque azione pratica. Soltanto quando questo fine ultimo è determinato, almeno nelle sue linee essenziali, soltanto quando siamo in possesso di una specie di modello della società alla quale aspiriamo, soltanto allora possiamo cominciare a considerare i mezzi e i metodi migliori per la sua realizzazione e a stendere un piano per l’azione pratica». (Ib., vol. I, p. 222).

Popper, in queste pagine, apparentemente non prende posizione pro o contro l’utopia, ma afferma la pericolosità di propugnare un ideale di trasformazione globale della società in cui viviamo, perché questa affermazione impedirebbe una scelta preventiva e appropriata dei mezzi, scelta che, man mano che viene realizzata in dettaglio, non può non contribuire a modificare il fine stesso, l’ideale, il progetto utopico. «Anche se lo si è programmato con grande cura – egli scrive – il giardino, di regola, verrà fuori in parte in maniera inattesa. E pure se esso verrà fuori in parte nella maniera in cui è stato pianificato, alcune impreviste interrelazioni fra gli oggetti pianificati possono dare origine ad un intero universo di possibilità, di possibili nuovi fini, e di nuovi problemi». (Conoscenza oggettiva, op. cit., p. 164). Ora, per definizione, nel progetto dell’ingegneria utopica, questo ideale non può essere modificato nel corso della scelta e dell’impiego dei mezzi, donde ne consegue un contrasto metodologico che assume forti tinte considerando come questo contrasto si colloca esattamente dal lato opposto della metodologia scientifica sostenuta da Popper e che abbiamo riassunto nella frase “per prova e errore”. «Io sostengo che ogni cosa dipende dal reciproco rapporto tra noi stessi e la nostra opera, dal prodotto con cui noi contribuiamo al terzo mondo, e dal costante feedback che può venire aumentato ad opera dell’auto-critica consapevole. La cosa incredibile, riguardo la vita, l’evoluzione e la crescita della mente è esattamente questo metodo di scambio reciproco, questa interazione tra le nostre azioni e i nostri risultati, interazione attraverso cui noi, di continuo, trascendiamo noi stessi, i nostri talenti e le nostre qualità». (Ib., pp. 199-200). In un progetto del tipo utopico non è possibile “provare”, non è possibile “correggere errori”, in quanto tutto è “dato” fin dall’inizio.

«Quello che io critico sotto il nome di ingegneria utopica – scrive Popper – è la pretesa di una ricostruzione globale della società, cioè di cambiamenti di immensa portata, le cui conseguenze pratiche è impossibile prevedere, data la limitatezza delle nostre esperienze. Essa pretende di pianificare razionalmente per la società nella sua interezza, benché non si disponga neanche in minima parte della conoscenza fattuale che sarebbe necessaria per legittimare una pretesa così ambiziosa». (La società aperta e i suoi nemici, vol. I, op. cit., p. 227). L’alternativa è quella delle riforme, cioè l’ingegneria gradualista.

Qui si dispiega il Popper socialdemocratico in tutti i suoi aspetti. Si tratta di un progetto relativamente più semplice di quello utopistico, che riguarda istituzioni singole e parziali modifiche. «Le istituzioni sociali e le tradizioni non sono il lavoro né di Dio né della natura; esse sono i risultati di azioni e decisioni umane, ed alterabili da azioni e decisioni umane». (Ib, p. 164). Se si compiono degli errori nella realizzazione di questi progetti, il danno non è grande in quanto si può sempre tornare a provare, correggendo gli errori precedenti. «Allorché abbiamo costruito il nostro modello, la nostra situazione, noi supponiamo soltanto una cosa, e cioè che gli attori agiscono nel quadro del modello, o che essi “tirano le conseguenze” di ciò che è implicito nella situazione. Ed è a questo che fa allusione il termine di “logica della situazione”». (K. Popper, La rationalité et le statut du principe de rationalité, in Aa.Vv., Les fondements philosophique des systemes économiques, op. cit., p. 144). Poco prima aveva affermato: «Noi ricostruiamo una visione più ampia di quella di coloro che agirono. E da questa ricostruzione più ampia noi dobbiamo potere discernere come e perché la situazione come essi la vedevano (con la loro esperienza limitata, i loro obiettivi timorosi o troppo smisurati, la loro immaginazione povera o troppo attiva) li ha condotti ad agire così come hanno agito, cioè in maniera adatta alla loro visione inadeguata alla struttura situazionale». (Ib., p. 113). Per Popper la scelta metodologica è quindi tra gradualismo falsificazionista, se vogliamo usare il termine corrente con cui si è etichettata la sua proposta, e irrazionalismo. E quando egli parla di irrazionalismo vi pone sempre l’accento negativo di chi ha vissuto le esperienze delle vittorie fasciste e naziste. Solo che per Popper, ogni estremismo è una forma di irrazionalismo, in quanto, proponendo una trasformazione radicale e definitiva della società, rifiuta la possibilità di commettere errori e, quindi, anche la possibilità di correggerli.

* * * * *

“Popper si riferisce al senso dell’obiettività della scienza. Ma – anche per lui – affinché vi sia scienza è necessario che, oltre all’obiettività, vi sia anche la potenza. La scienza è potenza. Così, sin dai suoi inizi la scienza moderna concepisce se stessa. L’obiettività della scienza non compete a un pensiero impotente, e infine sognante, ma è l’obiettività della potenza. Il metodo scientifico è il metodo della potenza scientifica, che è ormai la forma dominante della potenza obiettiva. Se a questo punto si sviluppano le considerazioni di Popper – ma anche di altri prima di lui, come C. S. Peirce e O. Neurath – intorno al carattere apparente di una scienza che non sia procedura pubblica e intersoggettivamente controllata, va detto che se Crusoe, nella sua isola, fosse riuscito a realizzare tutta la potenza di cui oggi dispone la scienza, la sua sarebbe una potenza apparente – ‘sognata’, ‘rivelata’, ‘magica’, ‘privata’ –: appunto perché non avrebbe quel carattere pubblico, intersoggettivo, sociale che è proprio del metodo scientifico. La potenza è reale e dunque è potenza della scienza, solo se è pubblicamente riconosciuta. Pertanto, la scienza non è un semplice dominio sulle cose, che possa prescindere, nei suoi contenuti, dalla presenza della coscienza – cioè dalla co-scienza che è inclusa nel riconoscimento intersoggettivo –– la scienza può dominare le cose solo se domina, con-vince la coscienza che ne riconosce la potenza”.

(Emanuele Severino, Il destino della tecnica)

Capitolo III

Quello che risulta inconcepibile per la logica dell’a poco a poco è legare la prospettiva rivoluzionaria con un progetto e con una strategia. Essendo questi degli elementi impiegati da essa per imporre al naturale svolgimento dei fatti un proprio ordine logico che violenta ogni criterio di spontaneità e creatività, pensa – a volte perfino in buona fede – che non possono esistere modi diversi di fare progetti e attuare strategie. Così scrive Popper: «La critica non parte mai da nulla, anche se tutti i pezzi di partenza possono essere messi in discussione, uno per volta nel corso del dibattito critico. Ma anche se ciascuno dei presupposti può essere messo in discussione, è assolutamente impossibile metterli in discussione tutti in una volta. Ogni critica, pertanto, deve essere condotta pezzo per pezzo (contrariamente a quanto sostiene la concezione olistica di Duhem e Quine)». (Congetture e confutazioni, op. cit., p. 408). In particolar modo quello che sconcerta più di tutto la logica dell’a poco a poco è sentire parlare di totalità e di progetto. Questi due termini sono per essa quasi antitetici per definizione.

In questo modo si spiega perché i socialdemocratici ritengono che i rivoluzionari siano irrazionali (sarebbe meglio dire irragionevoli), in quanto è senz’altro irragionevole chi si batte per una causa che non vede, che non conosce e di cui non è nemmeno certo di riuscire a vedere una sia pur parziale realizzazione. In questo modo appare senz’altro ragionevole e di buon senso il compito di chi si limita a lavorare per fare in modo che le cose vadano meglio. «Si è detto spesso che Freud ha scoperto l’irrazionalità umana; ma questa è una falsa interpretazione, e per di più molto superficiale. La teoria freudiana dell’origine normale delle nevrosi si inserisce perfettamente nel nostro schema, ossia uno schema di spiegazioni costruite con l’ausilio di un modello situazionale cui si aggiunge il principio di razionalità. In effetti Freud spiega una nevrosi come un’attitudine adottata nell’infanzia precoce perché essa costituiva la migliore via d’uscita disponibile per sfuggire a una situazione che il bambino era incapace di comprendere e che non riusciva a fronteggiare. Così l’adozione di una nevrosi diventa un atto razionale del bambino – tanto razionale, ad esempio, quanto l’atto di un adulto che, gettandosi indietro perché si trova in pericolo di essere investito da un’automobile, viene urtato da un ciclista. È un atto razionale nel senso che il bambino ha scelto ciò che gli sembrava imporsi immediatamente, in modo evidente, o forse costituire la meno malvagia ed intollerabile delle possibilità esistenti». (K. Popper, La rationalité et le statut du principe de rationalité, op. cit., p. 148). Il fatto è che qui si dà per scontato che le cose vadano meglio, proprio per lo stesso motivo per cui si dà per scontato che vi sia un progresso. Lavorando nel senso del progresso, facendo delle modifiche opportune, non vi sono dubbi che le cose devono andare meglio. L’orrenda illusione che si cela dietro questo gioco di parole sfugge ai riformisti in buona fede ed è accuratamente nascosta da quelli in mala fede. Così Nicolai Hartmann: «Davanti a questo stato di cose ci si può chiedere seriamente se, nella scienza, non si debba cercare un criterio di autenticità valevole anche per gli altri territori dello spirito. Dopo la grande utopia platonica, a questa domanda si è risposto spesso, nelle forme più diverse, positivamente; ma di fronte alle esigenze della vita storica effettiva, queste risposte affermative non hanno mai potuto resistere. Può essere stato un errore dovuto ad eccessiva consequenziarietà; ma può anche essere un errore di fondo e di principio. Nel primo caso si potrebbe benissimo delineare, ad onta di ogni esperienza contraria, un perenne compito storico, una sorta di missione ideale che spetterebbe alla scienza, in relazione al tutto dello spirito vivente, e che andrebbe valutata nel suo peso storico. Non vogliamo ripetere, a questo proposito, le obbiezioni, oggi divenute popolari, della cosiddetta critica della scienza. Già la loro popolarità testimonia a sufficienza della loro mancanza di scientificità. Esse hanno il medesimo carattere di quell’opinione pubblica che lo stesso cammino della scienza esclude costantemente da sé. È la rivolta di un’epoca abituata alle maggioranze e al diritto di giudicare da parte di chiunque, contro l’intimo, ineliminabile esclusivismo della scienza; l’insoddisfazione dei molti che non sanno parteciparvi e se ne sentono esclusi – insomma, è una sorta di fenomeno di risentimento nello spirito obbiettivo dell’epoca. Ciò che, in questa critica, è invece giusto e fondato non è altro che la lotta contro l’unilateralità scientifica, una lotta che, secondo la legge dell’antitesi storica, deve essere anch’essa necessariamente unilaterale». (Il problema spirituale, tr. it., Firenze 1971, pp. 526-527). In questo modo, la lotta è essa stessa ad assumersi il compito, in quanto momento ben identificabile, di mettere in moto dall’interno il progresso e la vitalità della scienza, faccenda anche questa discutibile. Non ci sono processi che tendono indefinitamente e univocamente alla verità, ma tutti sembrano disporsi più o meno verso l’adeguazione.

Occorre capire che il progetto rivoluzionario (e la sua conseguente strategia) coesistono all’interno di una logica del tutto e subito senza contraddizioni. Le realizzazioni parziali, le singole azioni, le scelte e gli scopi sono tutti elementi che nella loro parzialità acquistano però un significato totale in quanto si trovano a rapportarsi continuamente con l’insieme delle condizioni dello scontro. Scrive Schopenhauer: «Le aspirazioni e desideri umani, che sempre ci ingannano in quanto ci mostrano il loro compimento come finalità suprema del volere; non appena sono state raggiunte non sembrano più le stesse e sempre vengono ben presto dimenticate e invecchiate, messe in disparte come miraggi svaniti. Ancora felici, se al nostro desiderio e alla nostra aspirazione rimane qualcosa per alimentare il gioco del perenne trascorrere dal desiderio all’appagamento, e da questo ad un nuovo desiderio – un passaggio che, quando è rapido, viene chiamato felicità, dolore, se lento – altrimenti si cadrebbe in quella paralisi, che si mostra come orribile, stagnante noia, come confusa aspirazione senza oggetto preciso, come languore mortale. È chiaro da tutto ciò che la volontà, illuminata dalla conoscenza, sa sempre ciò che vuole in un dato momento, in un dato luogo; ma non sa ciò che vuole in generale. Ogni atto particolare ha un fine: la volontà nel suo insieme non ne ha nessuno. Proprio come ogni fenomeno particolare della natura viene determinato, nel suo prodursi in un determinato tempo e luogo, da una causa sufficiente; ma la forza, che in esso genericamente si manifesta, non ha una causa, in quanto tale causa è un grado della manifestazione della cosa in sé, della volontà priva di fondamento razionale. La sola conoscenza di sé, che in genere la volontà possegga, è la rappresentazione nel suo insieme, la totalità del mondo intuitivo. Questo mondo è la sua oggettività, la sua rivelazione, il suo specchio». (Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 29). Battersi per realizzare un mondo diverso non può significare una banale sistemazione del mondo attuale, ma deve passare attraverso la necessaria distruzione di quest’ultimo. Non è vero che non abbiamo cognizione di quale sarà il mondo futuro, perché lo portiamo, per intero, nei nostri cuori.

I dettagli dell’utopia non sono rintracciabili né come anticipazione delle strutture di oggi, né come fantasia nelle relative ipotesi teoriche. Si trovano accuratamente nascosti nei nostri sogni, nelle sensazioni, nei singoli brividi della nostra sensibilità, negli slanci di cui siamo capaci, nella persistenza degli odi di cui andiamo fieri, nella gioia che a volte proviamo senza motivo, nell’amore che intravediamo e che meccanismi crudeli di ripetizione ci strappano costantemente di mano. «Il sogno si distingue per il suo plurilinguismo: ci immerge non in spazi visivi, verbali, musicali, ecc., ma nella loro fusione, analoga a quella reale. La traduzione del sogno nelle lingue della comunicazione umana è accompagnata dalla diminuzione dell’indeterminatezza e dall’aumento della comunicabilità». (J. M. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, op. cit., p. 180). E, più avanti: «Il sogno viene inserito all’interno di un’orbita di senso originariamente imprevedibile. In seguito avviene un ripensamento di tutta la storia precedente, in modo che l’imprevedibile venga retrospettivamente ripensato come l’unica possibilità». (Ib., p. 181). Però siamo sicuri che ogni singolo momento della nostra vita, anche il più piccolo soffio di speranza, il semplice arrossire improvviso per una sensazione piacevole di cui non ci credevamo più capaci, siamo sicuri che tutto ciò non vada perduto e che il mondo del futuro si costruisce proprio su questi materiali, non accumulabili, non quantificabili, ma lo stesso produttivi di una strategia e di una tattica?

Un altro concetto interessante è quello impiegato da Popper per studiare l’influenza delle idee nella realtà. Egli parla di cospirazione. «Per teoria cospiratoria della società intendo l’opinione secondo cui tutto quel che accade nella società – comprese le cose che la gente, di regola, non ama, come la guerra, la disoccupazione, la povertà, le carestie – sono il risultato di un preciso proposito perseguito da alcuni individui, o gruppi potenti». (Congetture e confutazioni, op. cit., p. 580). L’analisi prende le mosse sempre dall’identificazione di una “conoscenza oggettiva”, cioè di una conoscenza che possa essere espressione della realtà oggettiva, capace di accrescersi e migliorarsi in modo da costituire un fondamento concreto, e non soltanto formale, dell’attività umana.

Come era già accaduto a Cartesio, Popper ha bisogno di un punto di partenza, cioè ha bisogno di risolvere il problema del “cominciamento”. «Considero il processo psicologico del rivivere inessenziale, sebbene ammetta che talvolta può aiutare lo storico, una specie di controllo intuitivo del successo dell’analisi situazionale. Ciò che considero essenziale non è il rivivere, ma l’analisi situazionale. Così ciò che egli deve fare in quanto storico non è rivivere esperienze passate, ma mettere in ordine argomenti oggettivi pro e contro la sua analisi situazionale congetturale». (K. Popper, Conoscenza oggettiva, op. cit., p. 244). Rifiutando i giochi metafisici di Hegel, egli risolve il suo problema del cominciamento non come Cartesio, riferendosi all’impossibilità dell’Ente creatore di ingannare la creatura, o come Hegel, riferendosi all’azione del meccanismo dialettico, ma fondandosi sull’argomentazione metafisica che il reale esiste, ed è “particolarmente evidente” anche se non è falsificabile, e quindi non è corroborabile (nel senso dei princìpi metodologici da Popper stesso sviluppati). «Non esiste nessun metodo logico per avere nuove idee. Ogni scoperta contiene un “elemento irrazionale” o “un’intuizione creativa” nel senso di Bergson. In modo analogo, Einstein parla della “ricerca di quelle leggi altamente universali dalle quali possiamo ottenere un’immagine del mondo grazie alla pura deduzione”. Non esiste alcuna via logica, egli dice, che conduca a queste leggi. Esse possono essere raggiunte soltanto tramite l’intuizione, basata su un alcunché che possiamo chiamare immedesimazione cogli oggetti d’esperienza». (Logica della scoperta scientifica, op. cit., p. 11). Popper ammette che bisogna essere più cauti nei confronti della metafisica, cercando di individuare i fondamenti concreti della stessa possibilità di una ricerca scientifica che proprio in quelle premesse tanto disprezzate trovano cominciamento.

Nello stesso tempo, avverte che questa accettazione deve spingerci a una maggiore cautela, a una critica più cosciente, evitando di fare come i neopositivisti che per aver voluto criticare la metafisica in blocco non si sono accorti che con le loro stesse argomentazioni di partenza erano in piena metafisica e avevano finito per smarrire gli strumenti critici adatti a scoprire l’errore. «In filosofia si può impiegare una variante del metodo storico. Esso consiste, semplicemente, nel tentare di scoprire che cosa gli altri abbiano pensato e detto a proposito del problema che si ha fra le mani; perché abbiano dovuto affrontarlo; in qual modo l’abbiano formulato; in qual modo abbiano tentato di risolverlo. Questo metodo mi sembra importante perché fa parte del metodo generale della discussione razionale. Se ignoriamo che cosa pensino gli altri, o che cosa abbiano pensato in passato, la discussione razionale arriva necessariamente a un punto morto, anche se poi ciascuno di noi può continuare a parlare allegramente con se stesso. Alcuni filosofi hanno fatto una virtù del parlar con se stessi, forse perché si erano convinti che non ci fosse nessuno con cui parlare. Ho paura che l’abitudine di filosofare su questo livello un po’ troppo elevato sia un sintomo del declino della discussione razionale. Non c’è dubbio che Iddio parli quasi esclusivamente con se stesso, perché non trova nessuno con cui valga la pena di parlare. Ma i filosofi dovrebbero sapere che non sono più simili a Dio di quanto non lo siano gli altri uomini». (Ib., p. XXIII).

Tutto ciò non deve però trarre in inganno. La metafisica non è “diventata una cosa seria” per Popper, e quindi egli non è realmente in grado di approfondire il campo dell’azione ideologica all’interno della realtà, pur riconoscendo l’importanza e la non eliminabilità di questa azione. In pratica Popper si rifiuta di ammettere che tra gli elementi costitutivi della conoscenza si trovino anche i condizionamenti che la realtà oggettiva esercita sulla conoscenza nel suo costituirsi. «Se una teoria metafisica fosse un’asserzione più o meno isolata, niente più che il prodotto di un’intuizione o di un colpo d’occhio che ci viene proposto con un implicito prendere o lasciare, allora sarebbe effettivamente impossibile discuterla razionalmente. Ma lo stesso potrebbe dirsi di una teoria “scientifica”. Se qualcuno ci si presentasse con le equazioni della meccanica classica senza spiegarci prima quali sono i problemi che esse intendevano risolvere, allora non saremmo in grado di discuterle razionalmente, non più del Libro delle rivelazioni. Anche se ci venissero presentati gli argomenti di Newton, potremmo non essere in grado di discuterli, senza aver prima sentito parlare dei problemi di Galileo e Keplero e delle loro soluzioni, e dello stesso problema newtoniano di come unificare queste soluzioni derivandole da una teoria più generale». (Congetture e confutazioni, op. cit., pp. 341-342). Allo stesso modo si rifiuta di affrontare il problema dei rapporti tra falsificazione empirica e contesto specifico (e quindi storico) in cui questo processo di falsificazione può esercitarsi.

Certo, egli parla della forza e dell’influenza delle idee, in modo particolare di quelle morali e religiose, e del fatto che queste siano almeno di pari importanza nei riguardi della forza delle risorse naturali, ma fa questo in un contesto diverso da quello che ammette la funzione storica dell’ideologia. Ha notato Emanuele Severino: «K. Popper vede in Parmenide un grande anticipatore del metodo scientifico. Platone salva il mondo da Parmenide – cioè dall’annientamento a cui Parmenide lo condanna. C’è bisogno di salvare il mondo da Parmenide, perché il suo rifiuto del mondo ha una potenza che non può essere ignorata. Infatti egli rifiuta il mondo per salvare l’opposizione dell’essere al nulla. Poiché ogni determinazione o cosa del mondo differisce dall’Essere (cosa non significa Essere) e dunque è non essere, cioè nulla, affermare che una determinazione è equivale ad affermare che il nulla è: affermare che una stella è equivale ad affermare che il nulla è. Ma il pensiero di Parmenide vede che solo l’“Essere” è; e che il nulla non è – vede l’assolutamente innegabile opposizione dell’“Essere” al nulla – e dunque vede l’assoluta necessità di affermare che la determinazione non è, ossia è nulla. La stella, la casa e ogni altra determinazione – ogni essente, dunque – non è, è nulla. Proprio per tener fermo che l’essere non è il nulla, Parmenide afferma che gli essenti sono nulla. Il nichilismo viene alla luce proprio per salvare il principio che l’essere non è il nulla. Il nichilismo è appunto la convinzione che 1’essente è nulla». (E. Severino, Il destino della tecnica, op. cit., pp. 252-253). Per Popper partire da un’ipotesi di corroborazione progressiva dei dati forniti dalla realtà, e quindi da una fase di controllo e di eliminazione progressiva degli errori, per costruire un accrescimento della conoscenza, è un procedimento che dà grande sicurezza contro il dogmatismo di ogni genere e garantisce una maggiore tolleranza. «Tutti facciamo seri tentativi per evitare errori; e dovremmo essere scontenti di aver commesso un errore, tuttavia evitare errori è un ideale meschino: se non osiamo affrontare problemi che siano così difficili da rendere l’errore quasi inevitabile, non vi sarà allora sviluppo della conoscenza. In effetti, è dalle nostre teorie più ardite, incluse quelle che sono erronee, che noi impariamo di più. Nessuno può evitare di fare errori; la cosa grande è imparare da essi». (Conoscenza oggettiva, op. cit., p. 242). Al contrario, partire dalla pretesa che la verità è manifesta e che nulla la può nascondere, se non un progetto cospirativo (o ideologico) che si può rimuovere con la chiarificazione; può portare alla costituzione di un’autorità dogmatica, proprio quell’autorità che meglio delle altre riesce a gestire il processo di rimozione delle coperture ideologiche, e questa autorità, continua Popper, «[...] può imparare a condursi arbitrariamente e cinicamente». (Epistemologia, razionalità e libertà, op. cit., p. 21).

La metodologia della “prova” e della rimozione dell’“errore”, porta inesorabilmente Popper al riformismo politico e al rifiuto della rivoluzione. Occorre precisare, inoltre, che in lui non è più visibile la dimensione classica del liberalismo, con la sua fede indiscussa nella validità dell’idea del “lasciar fare”, ed è questo uno dei non pochi motivi che rende la posizione di Popper abbastanza rappresentativa sul piano delle idee oggi in circolazione che fanno capo alla logica dell’a poco a poco. In fondo per Popper il liberalismo è un altro modo inesatto di orientarsi nel mondo economico e politico, un’altra ipotesi errata, corrispondente a una visione preconcetta della verità. Un modo corretto di procedere nel campo delle scienze sociali è quello di tenere conto della forza delle idee, ma non solo delle proprie idee, ma anche di quelle degli avversari, in modo da potere, di volta in volta, esaminarle, individuarne i punti di forza e i punti deboli, e criticarle. «Il mondo è notevolmente complesso e non sarà certamente la semplicità delle nostre teorie – una caratteristica prodotta da noi – a rendere semplice il mondo. Lo stesso vale per il determinismo: una teoria prima facie deterministica non implica che il mondo sia determinato». (Proscritto alla Logica della scoperta scientifica, vol. II, L’universo aperto: un argomento per l’indeterminismo, op. cit., p. 57). In sostanza questo genere di affermazioni in Popper restano indicazioni massimaliste e non hanno il sostegno di chiarificazioni operative. Popper non approfondisce convenientemente la serie di ostacoli che si oppongono a un’azione in questo senso.

In fondo, ben considerando, anche la posizione riformista, che intende promuovere miglioramenti, attraverso il metodo delle prove e dell’individuazione degli errori, richiede “coraggio”. «Il metodo delle scienze sociali, come anche quello delle scienze naturali, consiste nella sperimentazione di tentativi di soluzione per i loro problemi». (La logica delle scienze sociali, in Aa.Vv., Dialettica e positivismo in sociologia, op. cit., p. 102). In pratica avviene che il riformismo non è altro che un bieco compromesso con le reali necessità dello sfruttamento da organizzare e portare avanti. Il teorico riformista diventa così non un idealista che vuole abbracciare il realismo, ma un procuratore del boia e del carceriere. Il riformista non sfugge al quadro che lo racchiude e questo proprio perché per definizione non vuole disturbare gli elementi che lo compongono ma si illude di poterli, in un modo o nell’altro, armonizzare e piegare al proprio interesse e all’interesse della classe che rappresenta.

In questo senso Popper è realmente patetico. Per lui è sempre possibile fuggire al “quadro” in cui siamo prigionieri, anche se questo quadro è costituito dalla «[...] rete delle nostre teorie, delle nostre aspettative, delle nostre esperienze passate, del nostro linguaggio». (La ricerca non ha fine. Autobiografia intellettuale, tr. it., Roma 1976, p. 126). Per realizzare la fuga – continua il nostro autore – basta la discussione critica, il confronto tra le varie posizioni. Pensare di non potere uscire dal “quadro” significa ammettere il dominio, la prevalenza dell’irrazionale sulle possibilità della conoscenza oggettiva: e questo Popper lo rifiuta con grande enfasi ma con pari inconsistenza critica. «Il mito del quadro è, nel nostro tempo, il baluardo centrale dell’irrazionalismo. La nostra controtesi è che esso semplicemente esagera una difficoltà facendola divenire una impossibilità. Si deve ammettere la difficoltà di discussione tra gente educata in diversi quadri. Ma niente è più fruttuoso di una tale discussione, dell’urto di culture diverse che ha stimolato alcune delle più grandi rivoluzioni intellettuali». (Ib., p. 127).

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“Nel sogno il tempo scorre, e scorre celermente, incontro al presente, all’inverso del movimento della coscienza di veglia. Il primo si capovolge su se stesso e con esso si capovolgono tutte le sue immagini concrete. Ma ciò significa che noi siamo portati sul piano di uno spazio immaginario, per cui lo stesso evento che scaturisce dall’esterno, dal piano dello spazio reale, è visto anch’esso immaginariamente, cioè innanzitutto come se si svolgesse in un tempo teleologico, quale scopo, oggetto di una tensione”.

(Pavel Aleksandrovic Florenskij, Le porte regali)

Capitolo IV

È dolorosamente presente lo strano contrasto che coglie chi si accinge a valutare criticamente il compito del riformista. Non c’è nulla che affascini di più della ragionevolezza e nulla che indisponga di più della pretesa di dimostrare insensato il ragionamento del paternalista accondiscendente. Si dà spesso l’impressione di essere fanatici e violenti e di volere brutalizzare le buone disposizioni di un brav’uomo che ci dà credito e possibilità di dialogo invece di mandarci a casa a calci nel culo. Proprio qui il limite e il punto debole del paternalismo. Ti danno la possibilità di discutere e di approfondire perché tu, in fondo, non approfondisca e, alla fine del tuo compito, ti ritrovi con la testa confusa, senza idee e soltanto con l’impressione più o meno netta di essere stato preso in giro.

Non c’è dogmatismo peggiore della negazione del dogmatismo. Non c’è partito preso peggiore della negazione del partito preso. In sostanza, non è possibile una reale “discussione” tra parti avverse, l’unica cosa possibile è uno scontro a fuoco, mettendo da parte poi i risultati effettivi di questo scontro e gli imbrogli ulteriori che possono venire fuori da una gestione cosiddetta politica di questi risultati. A chi ti dice che la realtà è inquinata dalla presenza delle idee e che non possiamo attingere il senso profondo della realtà se non teniamo conto di queste idee, non c’è nulla da dire: egli ha ragione, solo che il problema comincia proprio dal modo in cui tenere conto di queste idee. Infatti, se esse vengono prese per quello che sono, generalmente nella elaborazione che ricevono nei laboratori specializzati a produrle, esse significano ben poca cosa. Occorre quindi prenderle nel loro effettivo essere idee, cioè nell’azione che esercitano nella realtà, nei fatti, nelle azioni. Colte in questo loro essere concreto, non si può più tentare di separarle, per poi dire: ecco, le idee di cui discutiamo sono queste e non altre. Operazione idealista che approda sistematicamente alla produzione di nuove idee e che viene anch’essa condotta in laboratori specializzati.

L’unico modo che abbiamo per parlare delle idee che ci interessano è quello di parlare delle conseguenze che determinano sui fatti, cioè sulle azioni degli uomini. Ma questa analisi non può essere una “ricerca oggettiva”, deve per forza di cose essere un’analisi realizzata nel corso dell’azione, quindi un’analisi essa stessa idea in atto di determinare modificazioni, un’analisi che è essa stessa azione. Non possiamo in alcun modo attenderci da quest’analisi un contributo diretto a mettere ordine o fare diminuire l’influenza che quelle idee hanno sui fatti e sulle azioni. In fondo non ce ne importa proprio nulla di realizzare qualcosa del genere. Non siamo chiarificatori di professioni per il semplice fatto che non siamo imbroglioni di professione. Vogliamo scendere alla radice del significato delle azioni quindi dobbiamo scendere alla radice del significato delle idee. Non possiamo operare distinzioni, sezionamenti, separazioni. Il nostro compito è quello di unificare tutto: idee e azioni, cogliendo il loro senso totale, nel momento che si produce, per farne un uso rivoluzionario, cioè contrario all’accumulazione del significato e anche contrario alla chiarificazione progressiva, all’aggiustamento, alla verificazione.

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“Quando da un lato è dato l’essere con la sua costituzione e i suoi bisogni e dall’altro un essere oggettivo, ciò che è verità per questo essere risulta idealmente fissato. Essa indica quali sono le prospettive favorevoli per quell’essere determinato, in modo da realizzare una selezione all’interno dei processi psicologici dell’essere in questione: quelli utili si fissano nei modi normali della selezione e formano nel loro complesso il mondo ‘vero’ delle rappresentazioni. In effetti non abbiamo altro criterio definitivo per stabilire la verità di una rappresentazione dell’essere, se non il fatto che le azioni intraprese in base a tale rappresentazione danno le conseguenze desiderate. Quando queste rappresentazioni si sono solidificate come costantemente adeguate allo scopo attraverso questo processo di selezione, cioè coltivando determinati modi di rappresentazione, esse formano tra di loro un regno di teoria che determina per ogni nuova rappresentazione, in base a criteri interni, la sua inclusione oppure la sua esclusione. Lo stesso accade per le proposizioni della geometria che sono costruite l’una in rapporto all’altra in base a una rigida autonomia interna, mentre gli assiomi e le norme di metodo, che rendono possibile tale costruzione e l’intero campo, non possono esse stesse venir dimostrate in base ai criteri della geometria. L’intero complesso della geometria non è quindi valido nello stesso senso in cui lo sono le sue proposizioni. Mentre queste sono dimostrabili al suo interno, l’una per mezzo dell’altra, l’intero campo vale soltanto in relazione a qualcosa posto al di fuori di esso: alla natura dello spazio, al tipo della nostra percezione, al rigore delle nostre norme di pensiero. Le nostre conoscenze singole possono quindi sostenersi a vicenda, nel momento in cui norme e fatti, una volta determinati, diventano la base per dimostrarne altri, ma la totalità di queste norme è valida soltanto in rapporto a determinate organizzazioni fisico-psichiche, alle loro condizioni di esistenza e alle necessità di promuovere il loro agire”.

(Georg Simmel, Filosofia del denaro)

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Capitolo V

Uno dei punti centrali dell’analisi di Popper è l’unità del metodo scientifico nelle scienze naturali e nelle scienze sociali. Nell’ottobre del 1961 si ebbe a Tübingen un dibattito di grande interesse su questo argomento al Congresso della Società tedesca di sociologia. «I problemi filosofici genuini – scrive Popper – sono sempre radicati in urgenti problemi esterni alla filosofia, come, per esempio, in matematica, nella cosmologia, in politica o in religione». (Congetture e confutazioni, op. cit., p. 126). Solo affrontando problemi concreti poniamo limiti alla nostra ignoranza, facendo sorgere nuovi problemi e scoprendo che quello che ritenevamo certo e indiscutibile deve, ancora una volta, essere sottoposto a verifica e a discussione. «La razionalità come atteggiamento personale consiste nella disposizione a correggere le nostre idee. Nella sua forma più sviluppata, intellettualmente, è una disposizione a esaminare le nostre idee in uno spirito critico, e a rivederle alla luce della discussione critica con gli altri». (K. Popper, La rationalité et le statut du principe de rationalité, op. cit., p. 149). La conoscenza – continua Popper – si sviluppa a partire dalla tensione tra i problemi e la nostra ignoranza, in quanto ogni nuova acquisizione parte dalla scoperta che qualcosa non funziona in quello che ritenevamo certo. Abbiamo, quindi, prima i problemi e soltanto dopo le teorie che sviluppiamo per spiegarceli e risolverli, poi le critiche a queste teorie.

Lo stesso accade per quanto riguarda le scienze sociali. Così Popper elenca i punti principali della metodologia delle scienze sociali: «a) Il metodo delle scienze sociali, come anche quello delle scienze naturali, consiste nella sperimentazione di tentativi di soluzione per i suoi problemi – i problemi da cui prende le mosse. Si propongono e criticano soluzioni. Se un tentativo di soluzione non è accessibile alla critica oggettiva, viene scartato appunto per questo come non scientifico, anche se, forse, solo provvisoriamente. b) Se esso è accessibile a una critica oggettiva, cerchiamo di confutarlo, poiché ogni critica consiste di tentativi di confutazioni. c) Se un tentativo di soluzione è confutato dalla nostra critica, proviamo con un altro. d) Se resiste alla nostra critica, lo accettiamo provvisoriamente; lo accettiamo soprattutto come degno di essere ulteriormente discusso o criticato. e) Il metodo della scienza è dunque quello del tentativo (o idea) di soluzione, che viene controllato dalla critica più severa. È una prosecuzione critica del procedimento per tentativi ed errori. f) La cosiddetta oggettività della scienza consiste nell’oggettività del metodo critico; ma ciò significa, anzitutto, che nessuna teoria si può sottrarre alla critica, e anche che gli strumenti logici della critica (la categoria della contraddizione logica) sono oggettivi». (Aa.Vv., Dialettica e positivismo in sociologia, op. cit., pp. 107-108). Il rinvio all’oggettività è in queste pagine formulato in modo categorico, ma non tiene conto della realtà in cui ci si trova a lavorare, realtà che lo stesso Popper conviene essere inquinata da presupposti metafisici e quindi ideologici. Come fare?

Se l’osservazione deve essere “priva di pregiudizi” onde arrivare a una valutazione non inquinata, onde procedere alle prove e alla ricerca degli errori nelle teorie sociali, come può avvenire ciò se si è immersi nei pregiudizi della propria situazione sociale? E inoltre, partendo da una teoria con cui farsi luce nell’interpretazione dei fatti oggetto d’indagine delle scienze sociali, non si finisce per negare in concreto l’ipotesi della “avalutatività” delle scienze sociali?

Popper dichiara assurde queste preoccupazioni. Esse riguardano l’oggettività del ricercatore e non quella della materia della ricerca e dei metodi di questa ricerca, cioè della scienza. Egli scrive: «È interamente errato credere che lo scienziato che si occupa della natura sia più oggettivo dello scienziato che si occupa della società. Lo studioso della natura è altrettanto parziale di tutti gli altri uomini, e purtroppo è, di solito (se non è uno dei pochi che producono nuove idee), estremamente unilaterale e faziosamente prevenuto a favore delle idee». (Ib., p. 113). Ma tutto ciò è un elemento marginale di disturbo, elemento che non tocca l’oggettività della scienza, e che può scomparire dal momento in cui si può dispiegare una vasta azione di controllo sulla teoria. È proprio questa azione che ci fornisce la garanzia che non solo esiste una oggettività della conoscenza, ma che questa tende a svilupparsi e ad accrescersi, in quanto faccenda pubblica, che richiama l’interesse di tutti, che viene discussa e sottoposta a continuo controllo. Esattamente, questa volta, Severino: «Anche se Popper non capisce la grandezza di Hegel, uno dei temi più celebri del pensiero hegeliano è appunto la considerazione del rapporto tra potenza e riconoscimento pubblico di essa. Si tratta della dialettica del Signore e del Servo – esposta nel quarto capitolo della Fenomenologia dello Spirito –, ossia del processo dove Hegel vede nascere la società, come dimensione pubblica originaria nella quale gli individui umani vengono a incontrarsi provenendo da una loro originaria separatezza. L’individuo umano è una “forza” – “potenza”, “desiderio” – che non può limitarsi a sottomettere a sé le cose. Sino a che esiste un altro individuo umano che desidera quelle stesse cose ed è capace a sua volta di sottometterle a sé, la potenza sulle cose da parte di quel primo individuo è infatti soltanto un tentativo. Se il suo desiderio non si pone in rapporto al desiderio di un altro individuo – cioè a un’altra coscienza desiderante – il suo è soltanto un desiderio animale. Ma il rapporto tra i due desideri non può essere che una lotta, anzi una “lotta per la vita e la morte”: il desiderio, come tale, non si riferisce a questa o quella cosa particolare, ma a tutte e quindi non può spartirle con un altro. Ognuno dei due individui, nella lotta, mette a repentaglio la propria vita. Se la potenza desiderante non vuole sottomettere solo cose, ma anche il desiderio antagonista – sì che la lotta è per la vita e la morte –, tuttavia essa non è soddisfatta dalla morte effettiva dell’avversario. Chi sopravvive ha incominciato infatti a conoscere l’esistenza della coscienza desiderante altrui; e se quest’ultima resta annientata nella morte, il desiderio vincente si ritrova nella condizione animale, dove la potenza sottomette solo cose». (E. Severino, Il destino della tecnica, op. cit., pp. 26-27). E questo procedimento non è diverso per i due settori della ricerca scientifica: quello delle scienze naturali e quello delle scienze sociali. La critica del patrimonio delle teorie in circolazione per potersi sviluppare in modo produttivo ha bisogno di due cose: una chiarezza epistemologica e un approfondimento sociologico. La prima consiste nella possibilità di formulare linguisticamente in modo corretto le teorie, per far sì che siano confutabili, cioè falsificabili. Il secondo consiste nell’insieme della tradizione critica, che è un fatto sociale, e che rende possibile un adeguato svolgersi dello strumento critico di ricerca degli errori delle teorie.

Ma ciò non ha nulla a che vedere con le condizioni che erano presenti al momento della formulazione della teoria e che avevano natura extrascientifica. Popper riconosce che è proprio la critica dell’ideologia che può individuare queste condizioni extrascientifiche e dichiarare l’inefficacia dal punto di vista della validità o meno di una teoria, cioè dal punto di vista della sua corroborazione. Egli scrive: «Nella discussione critica distinguiamo problemi come: 1) Il problema della verità di un’affermazione; il problema della sua rilevanza, del suo interesse, e della sua importanza relativamente ai problemi che stiamo trattando. 2) Il problema della sua rilevanza, del suo interesse e della sua importanza relativamente a diversi problemi extrascientifici, ad esempio il problema del benessere umano, oppure il problema completamente diverso della difesa nazionale, o di una politica nazionale aggressiva, o dello sviluppo industriale o dell’arricchimento personale». (Aa.Vv., Dialettica e positivismo in sociologia, op. cit., p. 114). Quindi secondo Popper ci sono problemi e problemi, e, in corrispondenza, ci sono valori puramente scientifici e valori esterni alla scienza. Uno dei compiti della ricerca scientifica e della metodologia della falsificazione, è proprio quello di contribuire a escludere dalla discussione scientifica quello che scientifico non è.

Chi sia poi a decidere sulla scientificità o meno di un problema non è nemmeno posto in discussione. Popper ritiene che si possa mantenere la distinzione tra scienze teoriche e scienze storiche, almeno da un punto di vista logico, in quanto lo scienziato può indirizzare la propria attività al ritrovamento e alla prova delle teorie pure della scienza, oppure alle applicazioni nel senso di esaminare le condizioni o cause di eventi del passato, allo scopo di valutare previsioni per il futuro; oppure, ancora, può indirizzare la propria attività all’esame delle condizioni tecniche di certi fenomeni per valutare certe previsioni compatibili con la formulazione di certe leggi. La psicologia, la sociologia e l’economia politica concorrono a spiegare la società e le sue leggi. Proprio dall’esame delle leggi dell’economia – secondo Popper – emerge il fatto che le scienze sociali possono adottare un metodo puramente obiettivo, che egli preferisce chiamare anche “metodo della comprensione oggettiva o della logica della situazione.” Così Popper definisce il metodo della comprensione oggettiva: «Una scienza sociale basata sul metodo della comprensione oggettiva può essere sviluppata, indipendentemente da tutte le idee soggettive o psicologiche. Essa è caratterizzata dal fatto di analizzare la situazione dell’uomo che agisce in modo sufficiente per spiegare l’azione sulla base della situazione, senza bisogno di sussidi psicologici. La “comprensione” oggettiva consiste nel vedere che l’azione corrispondeva oggettivamente alla situazione. In altri termini, la situazione è analizzata fino al punto in cui quei momenti, che in un primo tempo sembrano psicologici, ad esempio i desideri, i moventi, i ricordi, e le associazioni, sono trasformati in momenti della situazione». (Ib., p. 121). I risultati della logica situazionale sono, secondo Popper, ricostruzioni teoriche molto semplici e schematiche che possono avere un certo grado di approssimazione alla verità, ma solo a condizione che siano sucettibili di critica razionale, e quindi di miglioramento.

* * * * *

“La formazione come filologo classico nuoce a Nietzsche, quando vuole affrontare problemi filosofici generali. Egli non ha conosciuto la distinzione tra scienza particolare e universale. Come in gioventù si è appoggiato sulla filologia classica per risolvere il problema estetico, così più tardi pensa di chiarire il problema metafisico sulla base della scienza psicologica e biologica. Dopo la sfuriata schopenhaueriana, egli accetta, con mancanza di sensibilità filosofica, il luogo comune – positivistico e assieme hegeliano – ‘la metafisica è morta’. Ma mentre da Hegel, quando ricevette qualcosa, fu solo per inavvertenza, dai positivisti, che attraverso gli ideologi si collegavano agli amati illuministi, egli si lasciò sedurre. Attraverso Rée, persona di dubbia consistenza e originalità, egli cercò una nuova scienza particolare cui rivolgere l’antica diligenza del filologo. Nel far ciò, era convinto di indagare nel profondo in qualità di filosofo: ma come filosofo, anziché gli istinti, cioè proprio il campo in cui la filosofia si arresta come di fronte a un dato, e che può essere approfondito solo dal punto di vista – subordinato – della scienza particolare, egli avrebbe dovuto scavare nella direzione opposta, cioè sulle condizioni e la teoria della conoscenza, la sfera che egli pretende ingenuamente di padroneggiare, in base all’illuministico uso sano della ragione (Freigeisterei – libertà dai miti e dalla religione), e al positivistico metodo scientifico, comune alla filologia e alla psicologia (l’attaccamento al dato sperimentale spesso suona pedantesco, proprio nel nemico di tutte le pedanterie). In altre parole, proprio ciò che si trattava di conoscere egli lo presuppone, e vuol conoscere invece ciò che non si può, almeno razionalmente. Con tutte le declamazioni sulla libertà dello spirito, Nietzsche non è mai stato in grado di dirci chiaramente quando e perché una conoscenza è vera o falsa. D’altra parte, i punti in cui sfocia quest’indagine positivistica, il superuomo e l’eterno ritorno, non testimoniano certo un risultato scientifico, bensì il primo una vocazione storica (sviluppatasi dall’esaltazione giovanile degli archetipi umani della Grecia), e il secondo una vocazione filosofica che non ha seguìto la strada giusta, ma che si fonda nonostante tutta la scientificità su un’intuizione di tipo universale, che non trova una designazione più appropriata del nome di ‘metafisica’. L’eterno ritorno non è altro che un modo di congiungere – visivamente – ciò che si contrappone radicalmente in noi, spingendoci alla disperazione del pessimismo e della nullità della vita, cioè la sfera del divenire, del tempo, della caducità con quella di una sostanza primigenia e immutabile. Questa, denominata da Nietzsche ‘eternità’ ‘meriggio’ o altrimenti, è il suo dio, l’appoggio metafisico agognato”.

(Giorgio Colli, La ragione errabonda)

Capitolo VI

L’unità del metodo è sempre una delle condizioni della ricerca della verità. Non sarebbe concepibile una verità scissa in due mondi diversi, sottoposta a un supplizio che continuamente la divide e la differenzia. «Le classificazioni e distinzioni tra discipline costituiscono una questione relativamente priva di importanza e superficiale. Noi non siamo studiosi di certe materie, bensì di problemi. E i problemi possono passare attraverso i confini di qualsiasi materia o disciplina». (Congetture e confutazioni, op. cit., p. 118). Una verità della natura facente a pugni con una verità della conoscenza sarebbe delle due l’una: o un errore della natura o un errore della conoscenza. E non potendosi ovviamente pensare a un errore della natura si dovrebbe concludere per un errore della conoscenza o di ciò che la conoscenza ci dice sia la natura. Acutamente Adriano Tilgher: «L’Idealismo dice: – Il Realismo concepisce gli oggetti del conoscere come esistenti in sé, indipendentemente dalla conoscenza che se ne ha, e spiega la conoscenza come effetto dell’azione di essi sul potere di sentire: di qua ci sarebbe il potere di sentire; di là gli oggetti; e dall’azione di questi su quello nascerebbe la conoscenza. Per il Realismo la conoscenza della cosa sta alla cosa come l’effetto sta alla causa. Ed è qui il suo errore. La causa è una cosa, l’effetto è un’altra cosa: ma la conoscenza della cosa non è affatto una cosa diversa dalla cosa, è la cosa stessa scoperta, svelata, resa trasparente e apparente. Se la conoscenza fosse effetto della cosa, si avrebbe il caso di un effetto che non consiste in niente altro che nello scoprirsi, svelarsi, trasparire e apparire della causa». (Il casualismo critico, Roma 1942, p. 8). Unica conclusione, un’invalidità assoluta della conoscenza e una inadeguatezza dell’azione umana a cambiare la natura secondo una sua propria strategia.

Il paternalista non ammette che si dica crudamente che la divisione tra pensiero e realtà è la condizione primaria dello sfruttamento. Per lui questa divisione deve permanere, ma deve essere nascosta sotto il manto della carità del metodo. Unico metodo, scienze diverse. «Le idee di valore sono, fuori di ogni questione, “soggettive”. Tra l’interesse “storico” per una cronaca di famiglia e quello per lo sviluppo dei più grandi fenomeni di cultura, che furono e sono comuni ad una nazione o all’umanità in lunghe epoche, c’è un’infinita gradazione di “significati”, i cui momenti avranno per ognuno di noi una differente serie di conseguenze. E tuttavia esse sono invero storicamente mutevoli con il carattere della cultura e dei princìpi che guidano gli uomini. Da ciò non discende ovviamente che la ricerca delle scienze della cultura possa dar luogo soltanto a prodotti i quali siano “soggettivi” nel senso che valgono per l’uno e non per l’altro. Ciò che cambia è piuttosto il grado in cui essi interessano l’uno e non l’altro. In altri termini, ciò che diventa oggetto dell’indagine, ed in quale misura questa si estenda nell’infinità delle connessioni causali, è determinato soltanto dalle idee di valore che dirigono il ricercatore e la sua epoca; nel “come?”, vale a dire nel metodo della ricerca – come ancora vedremo – il “punto di vista” a cui si ispira è determinante per l’elaborazione degli strumenti concettuali che egli impiega – mentre nel modo della loro applicazione il ricercatore è di certo, qui come ovunque, vincolato alle norme del nostro pensiero. Poiché verità scientifica è soltanto ciò che esige di valere per tutti coloro che vogliono la verità. Da ciò emerge in ogni caso l’assurdità della convinzione che possa essere fine, per quanto lontano, delle scienze della cultura quello di elaborare un sistema chiuso di concetti, nel cui ambito la realtà possa venir racchiusa in un’articolazione in qualsiasi senso definitiva, e da cui essa venga quindi dedotta. La corrente del divenire sconfinato scorre senza fine verso l’eternità. E sempre nuovi e diversamente atteggiati si presentano i problemi culturali che muovono gli uomini, mentre rimane fluido perciò anche l’ambito di ciò che acquista per noi senso e significato da quella infinita, e sempre eguale, corrente del divenire, e che diviene un “individuo storico “. Mutano le connessioni concettuali in base a cui esso è considerato e penetrato scientificamente. I punti di partenza delle scienze della cultura si protendono quindi mutevoli nel più lontano futuro, finché nessun irrigidimento cinese della vita spirituale non farà desistere l’umanità dal porre nuove questioni alla vita sempre parimenti inesauribile. Un sistema delle scienze della cultura, anche soltanto in forma di una fissazione definitiva, oggettivamente valida, sistematizzante delle questioni e dei campi di cui esse dovrebbero trattare, sarebbe in sé un non-senso: da un tentativo del genere potrebbe derivare sempre solo una collezione di punti di vista, specificamente diversi e tra loro in vario modo eterogenei e disparati, in base ai quali la realtà è risultata o risulta per noi “cultura”, cioè fornita di significato nel suo carattere proprio». (M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, op. cit., pp. 100-101). Il fatto che il metodo possa essere tranquillamente uno ci deve spingere a dubitare fortemente sulla sua validità. Un vero e proprio metodo, cioè un vero e proprio strumento, non può servire in universi diversi. E poiché gli universi devono essere diversi, il metodo non può avere altro destino che quello dei fantasmi che attraversano allegramente muri, porte e ogni altro genere di divisioni.

Infatti, il metodo “della prova e dell’errore” è un metodo per modo di dire, è semplicemente una banale formulazione del vecchio detto che Roma non si costruì in un giorno e che per fare le cose bisogna cominciare dal piccolo e arrivare al grande. È il metodo del risparmiatore, del giovane capitalista in erba, del vecchio bottegaio che insegna all’apprendista i trucchi del mestiere. Georg Simmel, aveva avvertito: «La corrispondenza e dipendenza reciproca dei metodi è qualcosa di completamente diverso dalla gratuita saggezza che invita al compromesso e alla combinazione tra i metodi dove la perdita che si subisce con un metodo è in genere sempre più grande del guadagno che si realizza con l’altro; si tratta piuttosto in questo caso di aprire da ogni lato della polarità contrapposta possibilità illimitate di applicazione. Anche se ognuno di questi metodi resta pur sempre qualcosa di soggettivo, essi paiono esprimere adeguatamente attraverso la relatività della loro applicazione il significato oggettivo delle cose. Essi corrispondono così al principio generale che guida la nostra ricerca sul valore: gli elementi, che presi singolarmente hanno un contenuto soggettivo, possono acquisire o rappresentare nelle forme del loro rapporto reciproco ciò che noi chiamiamo oggettività. Abbiamo già visto, come semplici percezioni sensibili possano indicarci o configurarci l’oggetto per il fatto di essere collegate l’una all’altra. La personalità, ad esempio, una configurazione così solida che si ritenne persino che il suo fondamento fosse una particolare sostanza spirituale, si forma, almeno per la psicologia empirica, attraverso associazioni e percezioni reciproche che si collocano al di sotto delle singole rappresentazioni; questi processi, fluidi e soggettivi, producono in virtù dei loro reciproci rapporti ciò che non esiste isolatamente in nessuno di essi, la personalità come elemento oggettivo del mondo teorico e pratico. Così, il diritto oggettivo si forma attraverso la compensazione degli interessi soggettivi e delle energie dei singoli, attraverso la determinazione reciproca della loro posizione e della loro misura, attraverso lo scambio di pretese e limitazioni che raggiungono così la forma oggettiva dell’equilibrio e dell’equità. Così, il valore economico oggettivo si è cristallizzato dai singoli desideri dei soggetti e queste relazioni hanno potuto disporre di una materialità e sovrasoggettività che mancava agli elementi considerati singolarmente. Pertanto i metodi conoscitivi possono essere soltanto soggettivi e euristici; ma il fatto che ognuno trovi nell’altro complemento e quindi legittimazione, fa in modo che essi si avvicinino all’ideale della verità oggettiva – anche se in un processo interminabile di reciproco riferimento». (Filosofia del denaro, tr. it., Torino 1984, pp. 172-173). Il metodo falsificazionista, squisitamente commerciale, può servire nella scienza della cosiddetta ricerca (teorica o sociale non fa differenza) fin quando questa si mantiene al servizio dell’accumulazione capitalista. Nel momento rivoluzionario, nel momento in cui gli scienziati (o i sociologi) non avranno altra alternativa che raggiungere i loro posti nella lotta che vede lo scontro tra sfruttati e sfruttatori (e dovranno scegliere bene se non vorranno ricevere subito una pallottola in mezzo agli occhi), in quel momento quel metodo scenderà al rango di banale regola di laboratorio, non più importante delle attuali indicazioni che i bibliotecari raccomandano per tenere in ordine i volumi in una grande biblioteca.

* * * * *

“Ammessa l’esistenza della realtà obiettiva e il rapporto di soggetto e oggetto nelle forme della coscienza umana, si dovrà riconoscere in ciascuna di queste forme la sua corrispondenza obiettiva, ossia una o un’altra figura del rispecchiamento della realtà obiettiva. Ciò nonostante, tutte queste altre forme del rispecchiamento non vengono mai qualificate, sia nel linguaggio comune che nella terminologia scientifica, come vere o false, ma valutate come piacevoli o spiacevoli, tristi o consolanti, disgustose o attraenti, ecc.: e si riserva espressamente la valutazione mediante i termini ‘vero’ e ‘falso’ al campo dell’intelletto, senza negare intanto la presenza del rapporto di rispecchiamento anche in tutti quegli altri casi – seppure in forme diverse, particolari a ciascuno di essi. La limitazione dell’analisi al campo della conoscenza intellettuale non elimina tuttavia il problema: esso riemerge in forma specifica in questo stesso ambito. Consideriamo come rapporti di cui la verità è parametro solo quelli che hanno luogo nella dimensione del rispecchiamento della realtà obiettiva nell’intelletto umano, in forma di conoscenza pensante: ma in particolare è lecito riservare l’analisi ai soli giudizi, o non dobbiamo estenderla anche ai concetti, rappresentazioni e sensazioni? Negli stessi testi classici del marxismo troviamo qualificate come vere o false, espressioni il cui contenuto sono concetti o rappresentazioni. Ma occorre non lasciarsi trarre in inganno da uno spostamento di significato che ha in definitiva carattere meramente verbale: l’analisi dei testi mostra che in tutti questi casi i concetti e rappresentazioni sono intesi in senso lato, e propriamente come giudizi o pensieri, cui si riconosce il carattere di verità nel caso che corrispondano alla realtà obiettiva. In questo senso improprio, quando i termini di concetto e rappresentazione assumono un significato che si identifica con quello di giudizio o pensiero conoscente, essi possono naturalmente essere qualificati come veri o falsi. Oltre a questo caso, i classici parlano di correttezza o giustezza delle rappresentazioni e delle percezioni sensibili unicamente nella loro relazione soggettiva, ossia nel senso che esse siano o no tali da permettere la formulazione di un giudizio vero”.

(Adam Schaff, La teoria della verità nel materialismo e nell’idealismo. Questioni generali)

Capitolo VII

La critica di Popper alla possibilità di fare previsioni in materia di problemi sociali si sviluppa come una critica al marxismo. In pratica essa non riesce né a dare conto dei punti deboli del progressivismo marxista e nemmeno a indicare un modo diverso di affrontare lo svolgimento dei fatti storici. Precisa Nicolai Hartmann: «Potrebbe anche darsi che, vista in grande, l’umanità sia ancora storicamente giovane, e poiché le nozioni scientifiche sono meglio tramandabili di altri beni spirituali, il rapporto potrebbe un giorno capovolgersi. In tal caso, sarebbe pensabile che la scienza finisca per assumere una funzione di guida anche nel campo politico-sociale. Questa possibilità è un’idea ben nota alle riflessioni filosofiche sullo Stato, dalla Repubblica di Platone, ai teorici del diritto naturale, allo stesso Kant che ne tiene conto nelle sue considerazioni sulla pace perpetua. Anche il marxismo ne è un esempio, e dei più grandi perché, proprio come teoria scientifica, ha esercitato un’influenza essenziale sullo sviluppo della politica europea. L’esperimento storico di tradurre in pratica questa teoria si svolge oggi, nell’Est europeo, sotto gli occhi di tutti. Se tale esperimento sia incoraggiante, se dia dimostrazione della capacità o incapacità di una dottrina a plasmare concretamente la vita di uno Stato, noi, uomini d’oggi, non possiamo ancora dire. Quando i frutti saranno maturi, si vedrà. Circa il “troppo tardi” hegeliano, gli esempi ci insegnano inoltre, almeno questo: che le teorie dello Stato finora prodotte dalla scienza hanno un evidente carattere iniziale – insufficiente a risolvere il carico di problemi concreti che grava sulla vita delle comunità umane; che si tratta di teorie unilaterali, speculative o ideologiche e ci si può chiedere, se non altro, in che misura meritino il nome di scienza. Si dovrebbe pensare, insomma, che la scienza non soltanto arrivi troppo tardi, ma neppure sia all’altezza di cogliere i problemi correnti di una determinata situazione». (Il problema spirituale, op. cit., p. 532). Secondo Popper non è possibile da un punto di vista logico predire il corso futuro della storia, in quanto quest’ultimo è influenzato dal sorgere e dall’accrescersi della conoscenza umana.

Per il medesimo motivo non si può prevedere il futuro della conoscenza umana con metodi razionali e scientifici. Scrive Max Born: «Mi sembra inevitabile che quei fisici che considerano concettualmente definitivo il metodo descrittivo della meccanica quantistica debbano assumere di fronte ad essa il seguente atteggiamento: rinunciare al postulato dell’esistenza autonoma di una realtà fisica in differenti regioni dello spazio. Essi potranno a ragione appellarsi al fatto che in nessun caso la teoria dei quanti fa uso esplicitamente di questo postulato. Ciò posto, non posso fare a meno di osservare che quando considero i fenomeni fisici a me noti, e in particolare quelli così felicemente inquadrati dalla meccanica quantistica, non riesco a trovare alcun fatto che mi faccia apparire probabile la rinunzia al suddetto postulato. Sono perciò indotto a ritenere che la descrizione della meccanica quantistica debba essere considerata come una descrizione incompleta e indiretta della realtà, destinata a essere sostituita in futuro da un’altra descrizione, completa e diretta. In ogni caso, nella ricerca di una base unitaria valida per tutta la fisica sarà bene a mio giudizio evitare di vincolarsi in modo dogmatico all’attuale schema teorico». (A. Einstein-M. Born, Scienza e vita. Lettere 1916-1955, Torino 1973, pp. 201-202). È pertanto da escludersi la possibilità di costruire una storia “teorica” sul modello fornito dalla fisica teorica, sulla cui base fare previsioni come avviene appunto nella fisica.

Il punto centrale della critica di Popper allo storicismo è la negazione della possibilità, per quest’ultimo, di fare previsioni. «Come il gioco d’azzardo lo storicismo è figlio della nostra sfiducia nella razionalità e responsabilità delle nostre azioni. Esso è una falsa speranza e una falsa fede, un tentativo di sostituire alla speranza e alla fede che scaturiscono dal nostro entusiasmo morale e dal disprezzo del successo una certezza che scaturisce da una pseudo-scienza delle stelle o della “natura umana” o del destino storico». (La società aperta e i suoi nemici, vol. II, op. cit., p. 329). Le uniche previsioni possibili sono quelle scientifiche che vengono fatte sotto condizione, cioè sono valide una volta che si conoscano le condizioni che concorrono a determinare i fenomeni che si pretende prevedere. «Se prendiamo ciascuna delle due teorie tra cui l’esperimento cruciale è chiamato a decidere, insieme con tutta questa conoscenza di sfondo – e in realtà dovremmo fare proprio così – allora decidiamo tra due sistemi che differiscono soltanto rispetto alle due teorie in ballo. Inoltre trascura il fatto che non asseriamo la confutazione della teoria come tale, ma della teoria insieme con quella conoscenza di sfondo, parti della quale, se si possono progettare altri esperimenti, possono un giorno o l’altro essere rigettate come responsabili del fallimento. (Così possiamo addirittura caratterizzare la teoria che stiamo investigando come quella parte di un vasto sistema per cui abbiamo in mente un’alternativa, sia pur vaga, e per cui tentiamo di progettare controlli cruciali)». (Scienza e filosofia: problemi e scopi della scienza, op. cit., pp. 34-35). Ora, quando queste profezie riguardano l’andamento della storia, esse non possono essere riportate all’interno di sistemi bene isolati, stazionari e ricorrenti, in quanto sistemi del genere, in natura, sono molto rari e assai limitati, e la società non è sicuramente uno di questi sistemi.

L’errore centrale dello storico – continua Popper – è dato dalle «[...] sue leggi dello sviluppo [che] si rivelano essere tendenze assolute, tendenze come leggi, che non dipendono dalle condizioni iniziali, e che irresistibilmente ci trascinano in una certa direzione nel futuro. Su di esse si basano profezie non condizionali, in antitesi alle previsioni scientifiche condizionali». (Miseria dello storicismo, op. cit., p. 116). Alcune di queste “tendenze” sono talmente generali che non possono essere sottoposte a nessun tipo di intervento critico, come ad esempio l’affermazione che esiste una tendenza verso il progresso, oppure che esiste una tendenza verso l’accumulazione dei mezzi di produzione, ecc.

Ma questa interpretazione non è in contraddizione con quanto Popper afferma in diversi suoi lavori e ribadisce anche nella ricerca dedicata alla critica dello storicismo, che non esiste una distanza metodologica tra scienze della natura e scienze sociali. Anzi questa sua posizione gli è utile per riaffermare la possibilità d’impiegare il metodo sperimentale nelle scienze della società, bloccando l’entrata ad altri metodi, come quello dialettico, che riconfermerebbe le posizioni di fondo dello storicismo.

Per Popper è fondamentale la possibilità che si possa avere una situazione sociale in cui i problemi possono dibattersi liberamente, cioè una “società aperta”. Egli è un sostenitore della democrazia, ma con accenni critici. Per lui la democrazia è una specie di male minore. Occorre «[...] rinunciare ai sogni di rendere felice il mondo». (Ib., p. 12). Sotto il profilo logico la democrazia è vittima del paradosso che si ricava dall’impossibilità di una libera accettazione da parte di tutti i sudditi. Popper suggerisce quindi un motivo pratico per preferire il governo democratico a posto di quello totalitario: «Infatti, possiamo distinguere due tipi fondamentali di governo. Il primo tipo consiste di governi di cui ci si può sbarazzare senza spargimento di sangue – per esempio, per mezzo di elezioni generali». (La società aperta, vol. I, op. cit. p. 179). Egli evita di entrare in discussioni sul senso filosofico del termine “democrazia” come pure si rifiuta di accettare l’idea che il voto popolare che porta un popolo a un governo democratico, per un qualsiasi motivo sia un voto “giusto”. Altrove aveva detto dello Stato: «È facile constatare che lo Stato è necessariamente un pericolo costante, o un male (come ho osato affermare) quantunque necessario». (Epistemologia, razionalità e libertà, op. cit., p. 595). E, più avanti: «La differenza fra una democrazia e una tirannide è che nella prima il governo può essere eliminato senza spargimento di sangue, nella seconda no. La democrazia di per sé non può accordare alcun vantaggio al cittadino, e non ci si dovrebbe aspettare che fosse altrimenti». (Ibidem). Proprio per questo motivo di fondo, di natura metafisica, egli costruisce all’interno della sua interpretazione di democrazia, ostacoli contro i violenti e contro gli intolleranti, quando intendano imporre la violenza e l’intolleranza in nome della libertà e della tolleranza che la democrazia dovrebbe garantire a tutti. L’esame di questi paradossi, come quello generale della libertà, è mutuato da Platone.

Sulla stessa linea di ragionamento si pone il problema dì politica economica nel senso dell’intervento o meno dello Stato nella sfera privata dell’iniziativa economica. L’interventismo economico non turba il liberale Popper, come non turbava il nonviolento Popper la necessità del ricorso alla violenza contro i violenti per difendere la libertà.

Per la costruzione di questa democrazia – non accorgendosi di come tutto sia in fondo paradossale e assurdo – Popper suggerisce il metodo della prova e dell’errore, quello stesso delle scienze della natura, un metodo che solo apparentemente è più modesto della famosa “ingegneria utopica”. «Io credo – egli scrive – che dal punto di vista etico, non ci sia alcuna simmetria fra sofferenza e felicità o fra dolore e piacere. Sia il principio della più grande felicità degli utilitaristi che il principio di Kant “Promuovi la felicità degli altri” mi sembrano (almeno nelle loro formulazioni) erronei su questo punto. A mio giudizio la sofferenza umana propone una sollecitazione morale diretta, cioè la richiesta di aiuto, mentre non c’è alcun invito simile ad accrescere la felicità di un uomo che sta comunque bene». (La società aperta, vol. I, op. cit., pp. 384-385). Qui il problema si riconduce a quello dei “mezzi”.

Con quali provvedimenti lo Stato, che come abbiamo visto anche per Popper è di già un male in se stesso, può agire e quali sono i mezzi che può utilizzare? Problema tanto più importante quanto più grave sarà la situazione nella quale lo Stato agisce e i mezzi cui dovrà far ricorso. Popper suggerisce una soluzione di modestia disarmante. Bisogna scegliere tra due mali, tra quello apportato dall’impiego dei mezzi e quello che si determinerebbe a seguito del mancato impiego degli stessi mezzi. Egli scrive: «In altre parole, il migliore dei fini non giustifica in quanto tale i mezzi cattivi, ma il tentativo di evitare certi risultati può giustificare azioni che sono, in se stesse, produttive di cattivi risultati. In questa visuale assume senz’altro decisiva rilevanza il fatto che noi non siamo effettivamente in grado di valutare i mali in questione. Alcuni marxisti, per esempio, credono che una rivoluzione sociale violenta comporti molto meno sofferenza dei mali cronici inerenti a quello che essi chiamano “capitalismo”. Ma anche supponendo che questa rivoluzione porti a un migliore stato di cose – come possono essi valutare la sofferenza che uno stato o l’altro implicano? Qui insorge, di nuovo, una questione fattuale e, di nuovo, è nostro dovere non sopravvalutare la nostra conoscenza fattuale. Inoltre, ammesso che i mezzi considerati possano nel complesso migliorare la situazione – abbiamo noi accertato se per caso altri mezzi non permetterebbero di conseguire migliori risultati a minor prezzo?». (Ib., p. 388).

In conclusione, la posizione di Popper è caratterizzata da un continuo battersi per l’affermazione del razionalismo cauto e progressivo. Partendo dalla logica della corroborazione, fondata sul metodo del prova e riprova allo scopo di evitare gli errori, egli dimostra come sia necessaria non solo la presenza della realtà ma anche una “fede” in un ideale punto di riferimento metodologico che consenta di afferrare la realtà che minaccia di sfuggirci. Ben considerando, questa “fede” è una fede nella ragione, una fede nel pluralismo, una fede nella democrazia, una fede nella possibilità che si possa fare meglio, una fede nella costruibilità storica. Ciò comporta il riconoscimento dell’importanza dei moventi economici ma non della loro centralità. Ciò comporta anche il rifiuto della violenza, dell’abbattimento violento delle istituzioni storiche, del ricorso alla rivoluzione sociale. Tutto questo insieme di idee e di dottrine ricevono in Popper una connotazione ben precisa. «Se distruggiamo questo ordinamento sociale con una rivoluzione violenta – egli conclude – non solo siamo responsabili dei pesanti sacrifici della rivoluzione stessa, ma creeremo una situazione che rende impossibile eliminare i malanni sociali, l’ingiustizia e l’oppressione. Io sono per la libertà individuale e odio come pochi la strapotenza dello Stato e l’arroganza delle burocrazie. Ma purtroppo lo Stato è un male necessario; e impossibile farne completamente a meno. E purtroppo è vero: più sono gli uomini, più c’è bisogno dello Stato. Con la violenza si può facilmente annientare l’umanità. Ciò che è necessario è lavorare per una società più razionale, in cui in sempre maggior misura i conflitti siano risolti razionalmente. Dico “più razionale” in verità nessuna società è razionale, ma ce n’è sempre una più razionale di quella esistente e verso la quale abbiamo perciò il dovere di tendere. Questa è un’aspirazione realistica e non un’utopia!». (H. Marcuse e K. Popper, Rivoluzione o riforme? Un confronto, tr. it., Roma 1977, p. 48). In queste parole si fonde perfettamente un metodo di prudenza bottegaia con un modello di prassi scientifica. Come conseguenza si ha un alone di ragionevolezza su un progetto politico che accusa di utopia tutto quello che non rientra nel suo modo di vedere le cose.

 
 

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