Titolo: Nicola Abbagnano
Sottotitolo: Critica dell’esistenzialismo positivo
Note: Prima edizione: novembre 2013
Pensiero e azione N. 21
SKU: pensiero-000021
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Una sera,
passaggio a livello di Ognina Cannizzaro,
a Catania.

«Se si ammette che la categoria del non, categoria esistente di fatto nello spirito, procedimento positivo e concreto per ordire e sistematizzare le nostre conoscenze, è subito posta in azione dalla presenza in noi di certi giudizi affermativi, e che viene a contrassegnare col suo carattere specifico certi pensieri che risultano da questi giudizi, si sarà con queste considerazioni completamente spogliata la negazione di ogni funzione negativa. Perché la negazione è rifiuto di esistenza. Con essa un essere (o un modo di essere) è posto e poi respinto nel nulla. Se la negazione è categoria, se non è che un sigillo indifferentemente posto su certi giudizi, come potrebbe essa annullare un essere, farlo improvvisamente sorgere e attribuirgli un nome per poi ripiombarlo nel non-essere? Se i giudizi anteriori sono delle constatazioni di fatto, come quelli che abbiamo preso ad esempio, bisogna che la negazione sia come un’invenzione libera, che ci stacchi da questo muro di positività che ci rinchiude: è una brusca soluzione di continuità che non può in alcun caso risultare da affermazioni anteriori, un avvenimento originale e irriducibile. Ma qui noi siamo nella sfera della coscienza. E la coscienza non può produrre una negazione se non sotto forma di coscienza di negazione. Nessuna categoria può “abitare” la coscienza e rimanervi come una cosa. Il non, come brusca scoperta intuitiva, appare come coscienza (d’essere) coscienza di non. In una parola, se c’è essere dappertutto, non solamente il Nulla, come dice Bergson, è inconcepibile ma dall’essere non potrebbe neppure derivare in nessun caso la negazione. La condizione necessaria perché sia possibile dire “non” è che il non-essere sia una presenza continua, in noi ed al di fuori di noi, è che il nulla penetri continuamente l’essere. Ma donde viene il nulla? E se è la prima condizione dell’atteggiamento interrogativo e, più genericamente, di ogni ricerca filosofica o scientifica, qual è il primo rapporto dell’essere umano col nulla, qual è la prima condotta annullatrice? [...]. Ci viene subito la tentazione di considerare l’essere ed il non-essere come due componenti complementari del reale, al modo dell’ombra e della luce; si tratterebbe, insomma, di due nozioni rigorosamente contemporanee che si uniscono in tal modo nella produzione degli esistenti, che sarebbe vano considerarle isolatamente. Il puro essere ed il puro non-essere sarebbero due astrazioni, e solo la loro unione sarebbe alla base delle realtà concrete. Tale è certamente il punto di vista di Hegel. Nella Logica, infatti, egli studia i rapporti dell’essere e del non-essere e definisce questa Logica “il sistema delle determinazioni pure del pensiero”. [...] Il vero concreto per Hegel è l’esistente, con la sua essenza, è la totalità prodotta mediante l’integrazione sintetica di tutti i momenti astratti che si superano in essa nell’esigere il loro compimento. In questo senso, l’essere è l’astrazione più astratta e più povera, se lo consideriamo in se stesso, cioè privo del suo trapasso verso l’essenza. Infatti: “L’essere si rapporta all’essenza come l’immediato al mediato. Le cose, in generale, ‘sono’ ma il loro essere consiste nel manifestare la loro essenza”. L’essere passa nell’essenza; ciò si può esprimere dicendo: “L’essere presuppone l’essenza”. Benché l’essenza appaia, in rapporto all’essere, come mediata, tuttavia l’essenza è l’origine vera. L’essere ritorna al suo fondamento: “l’essere si supera nell’essenza”. Così l’essere separato dall’essenza, che ne è il fondamento, diviene “la semplice immediatezza vuota”. Ed è proprio così che lo definisce la Fenomenologia dello Spirito, che presenta l’essere puro “dal punto di vista della verità” come l’immediato. Se il principio della logica deve essere l’immediato, si troverà tale principio nell’essere, che è “l’indeterminazione che precede ogni determinazione, l’indeterminato come punto di partenza assoluto”. Ma subito l’essere così indeterminato “passa nel suo contrario”. “Questo essere puro” scrive Hegel nella Piccola logica “è l’astrazione pura, e, di conseguenza, la negazione assoluta che, presa anch’essa nel suo momento immediato, è il non-essere”. Infatti il nulla non è forse, semplice identità con se stesso, vuoto completo, assenza di determinazioni e di contenuto? L’essere puro ed il nulla puro sono dunque la medesima cosa. O piuttosto è vero dire che differiscono. Ma sempre secondo Hegel, “giacché qui la differenza non è ancora determinata, perché l’essere ed il non-essere costituiscono il momento immediato, questa differenza per ora non può essere definita, è una pura opinione”. Ciò significa concretamente che “non c’è niente nel cielo e sulla terra che non contenga in sé l’essere ed il nulla”. [L’essere] è ridotto con Hegel ad una manifestazione dell’esistente. L’essere è collegato all’essenza, che ne è il fondamento e l’origine. Tutta la teoria di Hegel si fonda sull’idea che è necessario un procedimento filosofico per ritrovare all’origine della logica l’immediato a partire dal mediato, l’astratto a partire dal concreto che lo fonda. Ma abbiamo già notato che l’essere non è in rapporto col fenomeno come l’astratto col concreto. L’essere non è una “struttura fra le altre”, un momento dell’oggetto, è la condizione stessa di tutte le strutture e di tutti i momenti, è il fondamento sul quale si manifestano i caratteri del fenomeno. Parimenti non è ammissibile che l’essere delle cose “consista nel manifestare la loro essenza”. Perché allora sarebbe necessario un essere di questo essere. D’altra parte, se l’essere delle cose “consistesse” nel manifestare, non si capirebbe come Hegel possa fissare un momento puro dell’essere, dove non troveremmo traccia di questa prima struttura. È vero che l’essere puro è fissato dall’intelletto, isolato e individuato nelle sue determinazioni. Ma se il trapasso verso l’essenza costituisce il carattere primo dell’essere e se l’intelletto si limita a “determinare ed a perseverare nelle determinazioni”, non si capisce come non determini l’essere precisamente come “consistente nel manifestare”. Si dirà che, per Hegel, ogni determinazione è negazione. Ma in tal modo l’intelletto si limiterebbe a negare del suo oggetto che esso sia altro da ciò che è. Il che basta, senza dubbio, ad imbarazzare ogni processo dialettico, ma non dovrebbe bastare a far sparire perfino i germi del superamento. In quanto l’essere si supera in altra cosa sfugge alle determinazioni dell’intelletto, ma in quanto si supera, cioè è nel più intimo del suo essere l’origine del suo trapasso, deve invece apparire qual è all’intelletto che lo configura nelle sue determinazioni essenziali. Affermare che l’essere è soltanto ciò che è, dovrebbe almeno voler dire lasciare l’essere intatto in quanto è il proprio superamento. Ecco l’ambiguità della nozione hegeliana del “superamento” che sembra ora uno sviluppo dal profondo dell’essere considerato, ora un movimento esterno dal quale questo essere è trascinato. Non basta affermare che l’intelletto trova nell’essere soltanto ciò che esso è, bisogna ancora spiegare come l’essere, che è ciò che è, non può essere che ciò: una simile spiegazione trarrebbe la sua legittimità dalla considerazione del fenomeno d’essere in quanto tale e non dai procedimenti negatori dell’intelletto. Heidegger, nella sua opera più importante, ha dimostrato la legittimità dell’interrogazione sull’essere; questo non ha più il carattere di universale scolastico che conservava in Hegel; c’è un senso dell’essere che bisogna chiarire: una “comprensione preontologica” dell’essere che è strettamente legata a tutte le condotte della “realtà umana”, cioè a tutti i suoi progetti. Parimenti le aporie che si pongono quando un filosofo arriva al problema del nulla si rivelano tutte senza portata: il loro valore sta solo nel limitare l’uso dell’intelletto, e mostrando semplicemente che il problema non è di competenza dell’intelletto. Esistono, invece, numerosi atteggiamenti della “realtà umana” che implicano una “comprensione” del nulla: l’odio, il divieto, il rimpianto, ecc. C’è pure per il “Dasein” una continua possibilità di trovarsi “di fronte” al nulla e di scoprirlo come fenomeno: l’angoscia. Tuttavia Heidegger pur stabilendo le possibilità di una percezione concreta del nulla non cade nell’errore di Hegel, non conserva al non-essere un essere, neppure un essere astratto: il nulla non è, si annulla. È sostenuto e condizionato dalla trascendenza. [...] Ogni determinazione, per Heidegger, è superamento, perché richiede un ripiegamento, una presa di posizione. Questo superamento del mondo, condizione del formarsi stesso del mondo come tale, il “Dasein” lo compie in direzione di se stesso. Infatti la caratteristica dell’ipseità (Selbstheit) è che l’uomo è sempre separato da ciò che è da tutto il volume dell’essere che egli non è. Si annuncia a se stesso dall’altro lato del mondo e torna indietro ad interiorizzarsi in se stesso, partendo dall’orizzonte: l’uomo è “un essere di lontananze”. È proprio nel movimento di interiorizzazione, che lo attraversa tutto, che l’essere si forma e si organizza come mondo, pur senza che vi sia priorità del movimento sul mondo, o del mondo sul movimento. Ma questa apparizione del sé al di là del mondo, cioè della totalità del reale, è una emergenza della “realtà umana” nel nulla. Solamente nel nulla si può completare il superamento dell’essere. Nel medesimo tempo, proprio dal punto di vista dell’al di là del mondo, l’essere è organizzato in mondo, e ciò significa, da un lato, che la realtà umana si forma come emergenza dell’essere nel non-essere, e dall’altro che il mondo è “in sospeso” nel nulla. L’angoscia è la scoperta di questo duplice e perpetuo annullamento. E proprio partendo da questo superamento del mondo il Dasein realizza la contingenza del mondo, cioè pone il problema: “In base a che cosa vi è qualcosa, piuttosto che niente?”. La contingenza del mondo appare dunque alla realtà umana in quanto questa si è posta nel nulla per percepirla. Ecco qui, dunque, il nulla che circonda l’essere da ogni parte e, nello stesso tempo, ne è espulso: ecco che il nulla è dato come ciò per cui il mondo riceve i suoi contorni di mondo. Può soddisfarci questa soluzione? Certo non si può negare che l’apprensione del mondo come mondo è annullatrice. Il mondo, apparendo come mondo, si presenta come non essente che esso. La contropartita necessaria di questa apprensione è dunque l’emergenza della “realtà umana” dal nulla. Ma donde viene il potere che ha la realtà umana di emergere così dal non-essere? Senza dubbio Heidegger ha ragione di insistere sul fatto che la negazione trae fondamento dal nulla. Ma, se il nulla fonda la negazione, rinchiude pure in sé come sua struttura essenziale il non. In altre parole, non è come vuoto indifferenziato o come alterità che si pone come alterità, che il nulla fonda la negazione. Il nulla è all’origine del giudizio negativo, perché è esso stesso negazione. Fonda la negazione come atto, perché è la negazione come essere. Il nulla non può essere nulla, se non annullandosi espressamente come nulla del mondo: cioè dirigendosi espressamente, nel suo annullamento, verso questo mondo, per costituirsi come rifiuto del mondo. Il nulla porta l’essere in grembo. Ma in che senso l’emergenza spiega questo rifiuto annullatore? Non è certo la trascendenza, che è “proiezione di sé al di là...”, che può fondare il nulla, al contrario è il nulla che è nel seno stesso della trascendenza e la condiziona. Ora, la caratteristica della filosofia heideggeriana è di usare nella descrizione del Dasein dei termini positivi che nascondono delle implicite negazioni. II Dasein fuori di sé, “nel mondo” è un “essere delle lontananze”, è “inquietudine”, è “le sue possibilità”, ecc. Tutto ciò significa che il Dasein “non è” in sé, “non è” rispetto a se stesso in una immediata vicinanza e “supera” il mondo in quanto si pone come non essente in sé e come non essente il mondo. In questo senso Hegel ha ragione contro Heidegger quando afferma che lo spirito è il negativo. Solo si può porre sia all’uno che all’altro la medesima domanda sotto forme appena differenti; dobbiamo dire a Hegel: “Non basta porre lo spirito come la mediazione ed il negativo, bisogna mostrare la negatività come struttura dell’essere dello spirito per potersi costituire come negativo?”. Si può domandare a Heidegger: “Se la negazione è la prima struttura della trascendenza, quale deve essere la prima struttura della ‘realtà umana’ perché possa ‘trascendere il mondo’?”. In entrambi i casi ci si mostra un’attività negatrice e non ci si preoccupa di fondare quest’attività su un essere negativo. Heidegger, inoltre, rende il nulla una specie di correlativo intenzionale della trascendenza stessa, come una struttura originaria. Ma, inoltre, a che serve affermare che il nulla fonda la negazione, se si viene poi a formulare una teoria del non-essere che priva per ipotesi il nulla di ogni negazione concreta, se io emergo dal nulla al di là del mondo, come può questo nulla extra-mondano fondare le piccole parentesi di non-essere che incontriamo ad ogni istante nel seno dell’essere. Dico che “Pietro non è là”, che “Non ho più denaro”, ecc. È proprio necessario superare il mondo verso il nulla e ritornare poi in seno all’essere per fondare questi giudizi quotidiani? E come si può effettuare questa operazione? Non si tratta affatto (in questo caso) di far scivolare il mondo nel nulla, ma semplicemente, tenendosi nei limiti dell’essere, di rifiutare un attributo ad un soggetto. Si dirà allora che ogni attributo rifiutato, ogni essere negato è afferrato da un solo e medesimo nulla extra-mondano, che il non-essere è come la pienezza di ciò che non è, che il Mondo è sospeso nel non-essere, come il reale nel seno dei possibili? In questo caso bisognerebbe che ogni negazione avesse un superamento particolare: il superamento dell’essere verso l’altro. Ma questo superamento non è proprio la mediazione hegeliana? e non abbiamo già invano domandato a Hegel il fondamento annullatore della mediazione? [Non] si può concepire il nulla al di fuori dell’essere, come nozione complementare ed astratta o come mezzo infinito dove l’essere sarebbe in sospeso. Bisogna che il nulla sia dato nell’intimo dell’essere, perché si possa percepire quel tipo particolare di realtà che abbiamo chiamato negatività. Ma l’essere-in-sé non può produrre questo nulla intra-mondano: la nozione d’essere come prima positività non contiene il nulla come una delle sue strutture. E d’altra parte non si può dire che l’escluda: è senza rapporti con esso. Di qui il problema che ci si pone, ora con istanza particolare: se il nulla non può essere concepito né al di fuori, né a partire dall’essere, e se, d’altra parte, essendo non-essere, non può trarre da sé la forza necessaria per “annullarsi”, donde viene il nulla? Importa dunque che chi interroga abbia sempre la possibilità di staccarsi dalle serie causali che costituiscono l’essere e non possono produrre che dell’essere. Se ammettessimo infatti che la domanda è determinata in chi interroga dal determinismo universale, cesserebbe d’essere non solamente intelligibile, ma anche concepibile. Una causa reale, infatti, produce un effetto reale e l’essere causato è intieramente, immerso dalla causa nella positività: nella misura in cui dipende, nel suo essere, dalla causa, non potrebbe esservi in lui il minimo germe di nulla; in quanto chi interroga deve poter compiere in rapporto all’interrogato una specie di ripiegamento annullatore, sfugge all’ordine causale del mondo, si libera dall’essere. Ciò significa che, con un duplice movimento di annullamento, annulla l’interrogato in rapporto a sé, ponendolo in uno stadio neutro, tra l’essere e il non-essere – e si annulla da sé in rapporto all’interrogato staccandosi dall’essere, per poter far nascere da sé la possibilità di un non-essere. Così, con la domanda, una certa dose di negatività è introdotta nel mondo: noi vediamo il nulla profilarsi sul mondo, colorare le cose. E nello stesso tempo la domanda viene da un richiedente che si giustifica nel suo essere di interrogante staccandosi dall’essere. È dunque, per definizione, un processo umano. L’uomo si presenta, almeno in questo caso, come un essere che fa apparire il nulla nel mondo, in quanto si investe del non-essere a questo scopo. Tali osservazioni possono servirci da filo conduttore per esaminare le negatività di cui abbiamo parlato precedentemente. Non vi è dubbio che queste siano realtà trascendenti: la distanza, per esempio, ci si impone come qualche cosa di cui bisogna tenere conto, che bisogna superare con sforzo. Pertanto queste realtà sono di natura particolare: indicano immediatamente un rapporto essenziale della realtà umana col mondo. Traggono la loro origine da un atto dell’essere umano o da un’attesa o da un progetto, indicano tutte un aspetto dell’essere in quanto appare all’essere umano che si impegna nel mondo. Ed i rapporti dell’uomo col mondo indicati dalle negatività non hanno niente di comune con le relazioni a posteriori che si sviluppano dalla nostra attività empirica. Non si tratta neppure di quei rapporti d’uso per cui gli oggetti del mondo si scoprono, secondo Heidegger, alla “realtà umana”. Ogni negatività appare piuttosto come una delle condizioni essenziali del rapporto d’uso. Perché la totalità dell’essere si ordini intorno a noi in forme d’uso, perché si suddivida in complessi differenziati che rinviano gli uni agli altri e che possano servire, bisogna che la negazione sorga, non come una cosa fra le altre, ma come una rubrica categoriale, a presiedere la disposizione e la ripartizione delle grandi masse d’essere in cose. L’apparizione dell’uomo nel mezzo dell’essere che “l’investe” fa sì che si scopra un mondo. Ma il momento “essenziale e primordiale” di questa apparizione è la negazione. Così abbiamo raggiunto il primo obbiettivo del nostro studio: l’uomo è l’essere per cui il nulla viene al mondo. Ma questa questione ne provoca subito un’altra: Che cosa deve essere l’uomo nel suo essere, perché il nulla venga all’essere per mezzo suo? L’essere non può generare che l’essere e, se l’uomo è coinvolto in questo processo di generazione, non nascerà da esso che l’essere. Se egli deve essere in grado di formulare un’inchiesta su questo processo, cioè metterlo in questione, bisogna che lo possa tenere sotto lo sguardo come un insieme, cioè mettere se stesso al di fuori dell’essere e nel medesimo tempo infirmare la struttura d’essere, dell’essere. Tuttavia non è dato alla “realtà umana” d’annullare, anche provvisoriamente, la massa d’essere che le è posta di fronte. Può modificare invece i suoi rapporti con questo essere. Per essa, mettere fuori campo un particolare esistente, è porsi essa stessa fuori campo in rapporto a questo esistente. In questo caso essa gli sfugge, si è messa fuori portata, si è ritirata al di là di un nulla. A questa possibilità della realtà umana di produrre un nulla che la isoli, Cartesio, dopo gli Stoici, ha dato un nome: libertà. Ma la libertà non è che una parola. Se vogliamo penetrare più a fondo la questione, non dobbiamo accontentarci di questa risposta, e dobbiamo domandarci subito: Che cosa è la libertà umana se per mezzo suo il nulla viene al mondo?».

(J.-P.- Sartre, L’essere e il nulla, tr. it., Milano 1968, pp. 46-62).

Introduzione

Apparsa per caso all’orizzonte corrusco dei miei quindici anni, la Storia della filosofia di Abbagnano fu un libro guida per furiosissimi sei mesi di totale immersione. Per me quel libro, con tutte le deficienze che di poi mi parvero chiare, fu come se il messaggero di un mondo sconosciuto si fosse presentato alla porta dicendomi che altrove, in territori del tutto ignoti, c’erano giovani che attorno a un maestro parlavano di cose che non conoscevo e che mi affascinavano come affascinano tutti i misteri fuori della nostra portata.

Così quelle pagine si accollarono il compito di traghettarmi in un mondo che improvvisamente mi accorgevo corrispondeva ai miei desideri più reconditi, il mondo della filosofia, dove mi installai in breve tempo cercando subito di capire dove risiedesse il cuore misterioso che sentivo pulsare. Ignoranza e conoscenza agivano di concerto su di me, l’una sollecitando l’altra, e viceversa, operando in registri diversi e facendomi affrontare sforzi che altrimenti, cioè non sollecitato in questo modo misterioso e alchemico, mi sarebbero stati impossibili. L’orizzonte livido di molte teorie filosofiche, spesso difficili quasi per partito preso, mi eccitava alla lotta, a un conflitto cosmico dove al leggibile Platone finivo per preferire l’illeggibile Aristotele. Che importava, a me, che avevo ormai addentato il frutto della conoscenza, del fatto che gran parte di quest’ultima quasi non la capivo? Niente, andavo avanti lo stesso, e così la grande fame di sapere mi suggerì, impercettibilmente, un metodo che molti anni dopo venni a sapere aveva a che fare con l’ermeneutica. Quel libro era di Abbagnano – per come scoprii dopo – per modo di dire, essendo in sostanza un prodotto di officina, rivisto e sistemato dal maestro artigiano, ma che importanza poteva avere per me? La mia condizione fisiologica era più o meno quella di una spugna, non c’era lettura all’epoca che non incamerassi velocemente, componendo e ricomponendo le varie parti in un tutto continuamente in ebollizione. Schegge fulminanti, appunti stenografici, schemi e riassunti, formule logiche e memorizzazioni tecniche, un incredibile coacervo che triturava e ricomponeva il lavoro di Abbagnano, insieme alle immediatamente successive letture di Windelband e De Ruggiero. Ho dato conto di quest’avventura nella Introduzione ai due volumi di Lezioni (fuori luogo) di Storia della filosofia, non vale la pena di parlarne qui.

Abbagnano, visto attraverso la (sua) Storia della filosofia non era all’epoca quello che si potrebbe definire una novità. Il metodo e le scelte erano datate e ricalcavano un pragmatismo stantio, ma per me che non potevo saperlo andava bene. Mi si apriva una prospettiva e questo andava ottimamente. Forse un maestro in carne e ossa mi avrebbe aperto gli occhi su tanti ostacoli fasulli, da me considerati insuperabili, ma poiché il vecchio prete, amico di mio padre, che mi aveva fatto lezioni di latino e greco fin da quando avevo otto anni, si era stancato di occuparsi della mia fagocitante ingordigia, non potevo chiedere nemmeno a lui. Così diventai, impadronendomi della materia sterminata che giaceva supina in quel libro, insofferente di ogni consiglio e pronto a dare giudizi che in gran parte suonavano quanto meno strani. Ero diventato un fastidioso e saccente giovane studioso, ma non avevo intenzione di fermarmi. Mancando costituzionalmente di quella presunta infallibile accortezza che caratterizza i saccenti, ero un saputo ma di passaggio, non permanevo mai a lungo in un possesso culturale, lo rimettevo subito in gioco e pertanto lo dannavo a perdersi in una sempre nuova avventura.

Così facevo presto ad accorgermi di ciò che nel libro non c’era e ad andarlo a cercare. Non c’era la cultura esterna alla filosofia, la poesia, la letteratura, la musica, la scienza, la matematica, insomma mancava il mondo, mentre tutto sembrava ruotare attorno ai paludamenti dei filosofi patentati. Non poteva esserci migliore invito per me. Andare altrove, tornare ai miei tredici volumi della Vallardi (Storia Letteraria d’Italia), sbalordirmi della sociologia, tornare alla musica, restare a bocca aperta davanti alla matematica, ed altro ancora. Insomma Abbagnano mi aveva aperto uno straordinario universo e io, in poco tempo, ero pervenuto alla conclusione che invece di essere affollato era troppo monotono, bisognava allargarlo. Mi meravigliai così che lui stesso non si accusasse di parzialità, di pigrizia, di approssimatività. In questa bizzarra condizione perdurai per tutti gli anni necessari a controllare queste lacune di persona, direttamente alla fonte.

Non era audacia la mia, era progetto sicuro di sé, provvisto da subito di paragoni crudeli e feroci con altri autori ben più radicati nella cultura internazionale del povero Abbagnano. Certo stavo mettendo i piedi nel piatto, ma era per me un’abitudine. Impadronitomi di una conoscenza, questa mi sembrava immediatamente asfittica e cercavo di respirare altrove, nelle corrispondenze armoniche che pensavo albergassero in un altro luogo. Non era proprio così, ma che mi importava? Palpabile era solo la conoscenza che andavo acquisendo non sostandoci sopra come un corpo morto. Altro, cercavo altro, che cosa cercavo non lo sapevo, e non lo so nemmeno ora. Non era certamente l’esistenzialismo che cercavo, mi muovevo ancora in ambito crociano, con qualche lettura periferica di Gentile.

Il continuo ribollire delle letture andava facendo a pezzi l’intelaiatura di Abbagnano, sostituendola con schemi che portavano in anteporta l’indicazione che i visitatori non erano graditi. Drammatizzavo la mia solitaria avventura e l’arricchivo con esempi eroici quanto insipidi. Alla fine Abbagnano, sotto la specie libraria, o meglio dell’unico libro suo che avevo letto, mi risultava ottundente, mentre le mie esasperate pretese dilagavano in una certa esagerazione, in uno stridore ricercato tra quello che sapevo e quello che volevo sapere, in sproporzioni inusitate, sempre più elefantiache. Non mi restava quasi più niente del libro, molto invece andavo investendo sulla persona, ovviamente ipotetica, non essendo capace di scrivere lettere o dichiarazioni d’amore ai grandi uomini, presunti tali. Avevo, dopo tutto, troppo amor proprio per fare una cosa del genere.

Dovevo mettere da parte i giudizi e le scelte, e questo era molto più difficile. Occorrevano confronti e pesature fuori della mia portata. Così cominciai lentamente a ritagliare minuscoli territori franchi risolvendo via via i contrasti con letture dirette di piccoli brani o di opere intere di modeste dimensioni. Un esempio, Il discorso sul metodo. Annotazioni a margini dei testi mi aiutavano a mettere sempre nuove domande sul tappeto. Ma chi poteva darmi le risposte? Inoltre erano domande vaghe, a volte debordanti o prive di un argomento degno di nota. Peregrine e strane, alcune risolvibili in ipotetiche contrapposizioni, spesso brevi, qualche volta più consistenti, effimere ma non stupide, secondo quello che di poi divenne un mio giudizio più acclimatato. Non sostenevo una tesi ma molte in una volta, non descrivevo stati d’animo ma irruenze e forze primordiali si davano lo stesso appuntamento in quei margini annotati. Lo scopo ultimo era inesistente, mi muovevo alla cieca.

Stavo indirizzandomi verso due condizioni esistenziali, quella positiva dell’accumulo – conoscenza, titoli, riconoscimento sociale – e quella negativa dell’emarginazione, diretta a preferire il particolare al generale. Mi cominciavano a infastidire i grandi sistemi, architettonicamente protetti, che non conoscevo ancora bene ma che intuivo disponibili solo a convogliare meglio degli altri nel massacro, per esempio Schelling, stranamente perfino più di Hegel. Le unità tenute insieme dalla forza connettiva delle grandi intraprese intellettuali mi insospettivano e mi adiravano, forse perché le mie fantasie parallele, modestamente compilatorie, erano più o meno fallite o mai veramente iniziate. La nota a margine cresceva così d’importanza fino a trasferirsi nella nuova stesura in redazione autonoma, carica di significato diverso tendenzialmente estraneo alla pesante posizione debitoria di partenza.

Registravo, come tanti, l’influenza in me del dopoguerra, periodi di nuova e potente decadenza, quando i vecchi valori frantumati dal conflitto mondiale non si erano ancora ricompattati in nuove mitologie, come puntualmente accadrà negli anni Sessanta. E riflettevo questa condizione generalizzata nella mia lettura della filosofia, attraverso il prisma riduttivo di Abbagnano.

Pensavo possibile un percorso diverso, praticamente vagabondo, andando alla ricerca di trame filosofiche – perfino lo storicismo di cui ero ancora affetto poteva prestarsi all’uso – disseminate altrove, una peregrinazione raccoglitiva infinita, con lo scopo di mettere a tacere la mia smania avventurosa di conoscenza e di accumulare un possesso alternativo, non codificato nella prudenza argomentativa abbagnaniana. Sognavo di trovare luoghi selvaggi – Baudelaire in quel tempo fu uno di questi – dove non era facile capire il punto esatto di inizio di un sentiero nella foresta e dove questo andava a impantanarsi, in una ambiguità ritmica e contenutistica. Immaginavo di scindere ogni teoria, cominciando da Aristotele e dalla logica, per scendere nei singoli meccanismi, scoprendo le apparenze e mettendo a nudo i trucchi che dovevano esserci ma di cui l’impassibile Abbagnano taceva. Riflettevo sulla strada da prendere per dissolvere quel senso di soffocamento che mi causavano le teorie capaci di dare risposte a tutto, di organizzare e comandare invece di mettere a disposizione, di donare.

Certo non distinguevo bene ciò che di nuovo e importante poteva esserci in ogni teoria, nucleo centrale da salvaguardare a ogni costo, e questo era il motivo per cui sempre più spesso ripiegavo sul metodo avendo poco da dire sul merito. Aristotele e non Platone. Non potevo uscire da questa sudditanza riduttiva – la precisione innanzi tutto – rimanendo avvinghiato al libro di Abbagnano, dovevo liberarmene. Non potevo farlo su due piedi e quindi decisi di andare a Torino e di confrontarmi con lui direttamente. Ma la cosa non era facile, il lavoro in banca e la mancanza di un titolo di studio adeguato me lo impedivano. Risolvere questi due problemi richiese alcuni anni ma, alla fine, ci riuscii. Sarebbe stupido ripercorrere qui l’itinerario doloroso di questi sforzi strumentali, per cui lo metto da parte.

Restavano nel contempo le mie tracce nell’incognito, le mie miniature improvvisate che ormai stavano prendendo sempre più corposità, i miei tagli trasversali alla ricerca di un senso altro, non dico migliore ma diverso. Andavo così scoprendo che nella mia condizione di irregolare si erano trovati in molti e che questi erano diventati un gran numero nei periodi di decadenza come quello in cui vivevo. Acquistai così una nuova sensibilità per individuarli. Cominciavo ad orientarmi nella lettura dei documenti poetici e filosofici che saranno poi la base dei miei Saggi sull’esistenzialismo (Trieste, 2013). Da Abbagnano storico della filosofia ad Abbagnano filosofo, il passo non era breve. Nel mezzo stavano altre figure di pensatori, più o meno interessanti, fra le quali Enzo Paci. Quest’ultimo meriterebbe un lungo discorso a parte che non posso fare qui e neanche altrove, mi manca il tempo. Questo gruppo si era lasciato imprigionare, con maggiore o minore acconsentimento, nell’ambito positivo dell’esistenzialismo, alcuni scalpitavano – Preti, Vedaldi – altri chinavano il capo – Chiodi e altri. Non mi dicevano molto, si accontentassero o meno della loro collocazione, andassero per i lidi fenomenologici, marxisti, o meno.

Io avevo bisogno di un inizio, ero io stesso un cominciamento incompleto, mi serviva una icona da qualche parte, non potevo accontentarmi di un membro del coro, non potevo accettare solo le pagine scritte cento anni prima. Questo assillo si trasferiva nell’intensificazione delle letture ma si bloccava nel punto nevralgico delle scelte. Verso dove orientarmi? In assenza di indicazioni autorevoli, tornavo sempre alle mie scelte metodologiche che mi facevano sentire più sicuro, anche se non mi soddisfacevano pienamente.

Anche l’incontro con Zarathustra non mi disse molto, forse a causa della traduzione o, per meglio dire, della mia ignoranza del tedesco. Sentivo che l’epoca parlava ancora quei problemi, il dettaglio di quei problemi, non più le pretese distinzioni sicure di Croce, sentivo che sarei stato più contento fra le pagine di Gentile, ma queste non mi erano familiari e la connotazione fascista del suo autore mi infastidiva, anche se in me non c’era una precisa coloritura politica di sinistra. Mi sentivo solo me stesso, con la compagnia della grandissima forza di volontà che mi spingeva a impadronirmi della conoscenza, tendevo a recidere i diversi legami ideali che andavo costruendo nel corso delle letture, man mano che questi legami si facevano più solidi e dettagliati e quindi minacciavano di soffocarmi.

In fondo, il mio incontro con Abbagnano fu conflittuale fin dal primo momento, a causa di questa mia scelta solitaria, singolarità che non mi ha più abbandonato per tutta la vita. Mi rifiutavo di essere funzionale a un maestro, sia pure scelto da me, mi sembrava un avvilimento, e avevo la pretesa di essere io a dargli il ritmo e non a riceverlo. Ero quindi refrattario al ruolo di discente ed ero troppo preparato per essere colto nel ruolo – che mi sarebbe stato più congeniale – di ignorante riottoso a ogni educazione. Avevo la temerarietà dell’incoscienza e forse anche del più assoluto disinteresse a ogni forma di carriera. Ogni giorno accadeva una singolare manifestazione, mi si cercava, da più parti, di mettere in difficoltà, e il fallimento di questi tentativi rafforzava il mio convincimento idiosincratico di essere altrove.

Procedevo da solo, ecco la realtà, e anche col tedesco specifico erano pochi i casi in cui mi si poteva prendere alla sprovvista. Ma questa singolarità alla fine diventava una prigione dove mi rinchiudevo tutte le sere dopo il lavoro, furiosamente cercando di trovare quella conoscenza che mi avrebbe liberato e che invece non faceva altro che girare la chiave nella serratura della cella. Correvo il rischio di compiacermi di questa solitudine e di non trovare unità di orientamento per capire dove stavo andando. Gli esempi che avevo attorno mi suggerivano l’idea di una guida, al massimo di diventare io stesso una guida, dopo opportuni accertamenti di acquiescenza, nessuno mi diceva di andare avanti da solo. Da parte mia non sapevo ancora, e l’avrei appreso a caro prezzo, che andare avanti così richiede una perfetta lucidità e costa parecchio in termini di vita.

Non avevo bisogno di pungoli e, per lo stesso motivo, non accettavo consigli di prudenza. Questi, per la verità, non c’erano ma qualche suggerimento indiretto riusciva a filtrare attraverso la cortina della mia riluttanza. Alla fine correvo il rischio di incancrenirmi nella tetraggine di chi vuole svuotare il mare con un secchiello. A salvarmi fu la stessa molteplicità e caoticità delle letture. La freddezza e il distacco della metodologia, in quel momento a me congeniali per una questione di mera ignoranza, si andavano sbriciolando con la lettura dei poeti e dei letterati francesi e russi, tutt’altro che freddi o mimetizzati nella propria estraneità al mondo. Girando attorno al problema non potevo non lasciarmi attirare dall’esistenzialismo, anche se la versione di Abbagnano mi appariva, sia pure da lontano, una forma di eufemismo che sminuiva la portata della versione francese e tedesca.

Non ero particolarmente attirato dalla novità, peraltro non del tutto nuova negli avanzati anni Cinquanta, né dalla modernità decadente di alcune ricerche che io stesso andavo facendo, mi affascinava il problema dell’essere in tutte le sue sfumature e sentivo dentro di me che nessuna delle tre direzioni correnti avrebbero potuto soddisfarmi, né Sartre né Heidegger né Abbagnano. Il nullismo del primo sembrava continuamente scusarsi delle proprie scelte estreme, l’analisi linguistica del secondo mi sembrava diretta a dimostrare proprio la cancellazione dell’essere, la positività del terzo mi ricordava – a torto – Croce e questo per un ex crociano, non era una buona presentazione. I primi due erano ingegnosi, il secondo perfino affascinante nella sua capacità di sezionare il linguaggio e di farlo parlare, il terzo era un invecchiamento precoce, lento, senza scosse, una specie di sinecura pensionistica. Scelsi il terzo per il semplice motivo che non potevo scegliere gli altri due. Andare a Parigi mi sarebbe stato materialmente impossibile e frequentare Heidegger era andare contro due ostacoli, l’ostracismo di cui era oggetto per il suo passato nazista e la lingua.

Andare a Torino era lo stesso una follia, ma almeno era una follia praticabile. E così cominciai a leggere i tre libri canonici di Abbagnano: Introduzione all’esistenzialismo, Esistenzialismo positivo e Religione, filosofia, scienza, che costituiscono l’oggetto analitico del presente libro, realizzato a distanza di più di cinquant’anni su appunti e note a margine redatti all’epoca. L’impatto fu ferocemente negativo, dico quello con i libri, quello successivo con la persona fu migliore. Gradevole e accattivante com’era, seppure sprovvista di quell’acume intellettivo che caratterizza gli uomini di genio. Ma andiamo con ordine. Non voglio usare gli stinti colori della mia attuale tavolozza per parlare dell’uomo, voglio chiudere i conti col filosofo, tutto qui.

Il mio era un sole nascente, caldo e pieno di brividi, il suo era un sole calante, invecchiato male, desideroso di lasciare un segno da qualche parte nella filosofia. Io ero privo di scopi e di scrupoli, lui era pieno degli uni e degli altri, oltre che di molti aspetti ulteriori, che scopersi a poco a poco, non certamente simpatici. Odiavo le ricercatezze e le sfumature quanto lui le amava e vivevo scomodamente una condizione scolastica che mi ha dato sempre peso e fastidio. Non mi importavano molto le acquisizioni positive realizzate a rate, le promesse di retribuzioni future, le nevrosi delle attese di premi a venire,le confessioni di passioni che sapevo tiepide quanto le mie erano ardenti. Accumulavo in maniera errata – d’accordo – ma rifuggivo da fraudolenze cattedratiche o da ineffabili atteggiamenti ispirati. Non avevo idee fisse e non mi consideravo un aspirante filosofo. Non accettavo parole d’ordine e nemmeno unzioni o investiture più o meno a lunga scadenza. Ero oltranzista ed estremo e tenevo sempre in mano il guanto di sfida.

Dietro di me c’era l’assenza completa di una tradizione da tutelare, di acquisizioni stantie, insomma la vita mi stava tutta davanti, potevo guardare al mio destino anche senza capirlo. Ecco perché cercavo e non selezionavo, cercavo anche quello che mi avrebbe danneggiato e reso difficile andare avanti, cercavo la ricerca stessa, ero innamorato dei miei sforzi, delle nottate passate sui libri fin da piccolo, del senso di potenza che dà l’acquisizione progressiva della conoscenza. Arrischiavo me stesso nell’avventura esistenzialista come altri vi vedevano una sistemazione per la vita. La mia spregiudicatezza era spontanea perché dettata dalla mancanza di secondi fini, quella di altri era fittizia perché imposta proprio da scopi precisi da raggiungere ostacolata e condizionata da questi.

La mancanza di metodo non è un’assenza vera e propria, un vuoto, corrisponde al materiale che si indaga e dentro cui si penetra, il mio lavoro aveva perciò più l’aria di un violento corpo a corpo che quella di un’indagine vera e propria. Non si può affrontare uno scontro con forze tanto varie e preponderanti senza conseguenze sul modo concreto con cui si viene a capo di queste forze. Mi occupavo di filosofia proprio perché era questo il modo in cui vivevo l’esperienza di ciò di cui mi occupavo, la mia furiosa ricerca. Quale che fosse l’oggetto, era il modo in cui l’affrontavo che me lo faceva diventare filosofico, lo faceva entrare nella mia filosofia, parte del mio essere. Ecco perché la ricerca dell’essere finiva per diventare centrale e, accidentalmente, anche per prendere il nome di filosofia dell’esistenza o esistenzialismo. In questo contesto, nella lotta senza mezzi termini, a vita o a morte, per l’apprendimento, non era questione soltanto di ciò di cui venivo in possesso ma principalmente del modo in cui ne venivo in possesso. Per cui, alla fine, facendo mio questo impadronimento, mi risultava difficile distinguere quello che era diventato mio da quello che prima mio non era. Ogni acquisizione cresceva in me e si rigenerava fino a rischiare di appropriarmi di conoscenze che effettivamente non potevo dichiarare di possedere fino in fondo ma solo superficialmente.

Non avevo la capacità di regredire nella conoscenza acquisita per darle un ordine e un indirizzo chiari e funzionali alla concretizzazione di uno scopo. Mi mancava pertanto la possibilità di riparare le falle, di provvedere alle riparazioni necessarie, di assestare fondamenti a volte traballanti. Quello che minacciava di restare oscuro tale rimaneva e solo accidentalmente e di colpo poteva ricevere un flusso luminoso da una imprevista fonte di insospettata provenienza.

Lungi da me il concetto di positività, lungamente e accortamente elaborato da Abbagnano. Problematicizzavo tutte le mie acquisizioni non potendole inserire in modo funzionale in un contesto complessivo capace di riceverle completandosi sempre di più. Finivo per dare vita a dispositivi di intervento, occasioni cioè di accoglimento che predisponevano mezzi e condizioni provvisori di comprensione non veri e propri saperi codificati. Esattamente il contrario accadeva ad Abbagnano che racimolava contributi incasellandoli in un deposito bancario dove davano più o meno tutti un modesto tre per cento di reddito. Io non potevo mai sapere quale parte del mio di già conosciuto fosse disposta ad accettare il nuovo arrivo conoscitivo e dove volesse o potesse collocarlo. In effetti questa particolare forma ricettiva non si è mai modificata per tutta la mia vita e non può pertanto essere considerata come una malattia infantile.

Ogni nuovo elemento, anche se scelto in maniera conforme ad altri elementi precedenti, non riusciva mai a collocarsi in un insieme di regole e costrizioni che lo rendevano produttivo non solo di connessioni nuove e riflessioni impensabili prima, ma anche di regole nuove e nuove costrizioni. Non era il mio quello che si suole definire un discorso scientifico, non ne avevo l’indole né la capacità. Abbagnano, se avesse voluto, avrebbe potuto dare un suo contributo correttivo in questa direzione. Non l’ha fatto e forse non poteva farlo. Il mio personale mostro cresceva così a dismisura, anzi concresceva in se stesso e non veniva convalidato o razionalizzato da una forza unitaria esterna né tanto meno interna, quest’ultima assolutamente contrastata da me stesso. Privo di metro paradigmatico mi mancava un orientamento. Più tardi, molto più tardi, pervenuto a un orientamento, di cui ho parlato nel Trattato delle inutilità, non per questo mi sono, sia pure accidentalmente, pervenuti paradigmi stabili capaci di fornire articolazioni fisse alle mie argomentazioni.

Non possedevo una struttura teorica identificabile con certezza, tutto era possibile, tutto era in corso di formazione, l’accumulo di un giorno poteva essere estraneo a quello del giorno precedente e le connessioni inevitabilmente provvisorie. Non avevo la forza di rivolgermi a una teoria da una piattaforma solidificata, lavoravo dal basso, dal livello minimo, rivolgendomi al passato senza timidezza ma anche senza alcuna autorevolezza. Privo di progetto ero ricco di mezzi e di tecniche, fra queste ultime quelle di memorizzazione, e pensavo, erroneamente, che esse, insieme ai mezzi puramente intellettivi, potessero sostituirlo. In sostanza ero un animale indisciplinatamente onnivoro, non condividendo nessuna matrice comune con quella unione ipotetica degli addetti ai lavori della filosofia, se vogliamo mantenerci nel campo che massimamente mi occupava.

Non conoscendo i modelli principali ai quali i succitati addetti continuamente si riferivano in modo implicito nelle loro teorie, ero inconsapevolmente libero, come una farfalla è libera di sbattere come vuole su di un vetro senza attraversarlo. Niente uniformità di ricerca, niente giudizi sostenibili dall’esterno, niente tradizioni sacrali in qualche modo introiettate. L’intera collezione degli arrivi non era pertinente a un modello, meno che mai a quello esistenzialista, vagava via via in una galassia sempre più ampia che non riusciva a definire i propri confini. Non solo assenza di regole, ma anche assenza di corrispondenze a priori, o progettualità prefissate. Ogni singola teoria entrava di certo in una partizione astratta, quella di Abbagnano, compresi gli abbagli di quest’ultimo. Clamoroso quello su Meinecke. Ma queste partizioni erano, per me, prive di fondamento, vuoti concetti ordinativi, casi riassunti insieme per fare categoria a sé, ripetibilità di comodo, taciti compartimenti da iniziati. Per me, non iniziato per definizione, erano privi di senso.

Tuttavia ogni arrivo, ogni contributo conoscitivo, come un caso a se stante, anche se mi rendevo conto che, per esempio, da Platone derivavano molti altri filosofi, senza per questo fissare con esattezza la famiglia degli idealisti. Ero quindi pronto a sdoganare una teoria da un raggruppamento all’altro senza darmene troppo pensiero. Queste approssimazioni facevano inorridire Abbagnano, eppure erano il modo costante in cui il possesso conoscitivo entrava in me, nel mio corpo, modellandomi in maniera varia e concreta, anche se non direttamente catalogabile dall’esterno. Non era quindi soltanto una limitazione dovuta al mio stato culturale brado, o forse lo era all’inizio, poi divenne un modo di essere, il mio modo di essere, che a sua volta reggeva e forniva senso alla mia vita.

Mi si chiedeva una normalizzazione del mio potenziale di attacco per potermi gestire meglio, sottoponendomi a quell’ovvia disciplina scolastica che in pratica sconoscevo malgrado i miei due titoli di studio superiori, che mi autorizzavano l’accesso alle facoltà universitarie. Ero sempre stato il maestro di me stesso, o quasi, e adesso avevo deciso di scegliermene uno di mia spontanea volontà, fra i migliori – pensavo – in circolazione. Molti errori, uno sull’altro. Dovevo mettere da parte me stesso e concentrarmi su di un comportamento da discente che mi avrebbe snaturato.

Ma il mio rifiuto, culminante dopo quasi un anno di sofferenze nell’abbandono, non poteva avere solo questa motivazione. Dopo tutto ero una macchina infernale e avrei potuto adattarmi a inglobare qualsiasi progetto conoscitivo. C’era dell’altro. La delusione in primo luogo. Non nei riguardi di me stesso, cioè di non essere capace di chinare la testa e mettere a frutto i tanti sacrifici fatti che in prospettiva potevano schiudere la catena del lavoro opprimente come poche altre, che non mi sono mai deluso, ma nei riguardi del mito che mi ero scelto. Semplicemente avevo sbagliato persona oppure, come di poi ebbi a chiarire meglio, avevo sbagliato a individuare la possibilità stessa che un mito si concretizzasse in un filosofo in carne e ossa. Forse in una teoria – e con gli anni ho capito che nemmeno questo è possibile – ma in un uomo mai.

Ma non cedetti subito. In quasi un anno ebbi più volte l’occasione di prospettare meglio il mio modo di lavorare. Incomprensibile ritrosia dall’altra parte. Di tutto si poteva parlare, anche di andare a scovare tracce di esistenzialismo in luoghi impensati, ma non di metodo, o meglio, di un metodo che negava la rigidità di ogni metodo e non per partito preso teorico ma per necessità fisiologica, per un vero e proprio modo di essere in vita, di respirare, di desiderare. Non stavo dichiarando la scoperta di qualcosa di nuovo, stavo solo spiegando com’ero fatto, non volevo alterare le forme canoniche della ricerca, chiedevo solo di verificare insieme a me una strada diversa, forse sbagliata, ma per dichiararla tale e convincermi ad abbandonarla occorreva che lui ci mettesse i piedi sopra. Niente da fare.

La mia spiegazione – che non di metodo si poteva parlare – era che gli afflussi conoscitivi dovevano restare liberi di associarsi e dissociarsi a loro gradimento, secondo le suggestioni reciproche non secondo categorie scolastiche prefissate. In questa maniera essi si fornivano un mutuo sostegno fluttuando liberamente. Solo che per fare questo avevano bisogno di un enorme quantitativo di materiale conoscitivo in arrivo, enorme ed eterogeneo. Se l’acquisizione si fosse sclerotizzata nell’ambito di una sola disciplina, scolasticamente intera, poniamo la filosofia, il meccanismo di sostegno reciproco si sarebbe inceppato.

Mi sembra necessario sottolineare qui il concetto di discontinuità che caratterizzava, e per molti aspetti getta anche oggi gli ultimi riflessi, il mio modo di accostarmi alla conoscenza. Non scoperte di verità ma libero conflitto di teorie e fatti, reciprocamente convertibili, non rivisitazione di assetti sistematici per fare posto alle nuove conoscenze, ma continuo sconvolgimento dei reciproci equilibri senza avere la preoccupazione che risultino plausibili o accettabili in una prospettiva prefissata. Davanti a questo processo caratterizzato dal movimento degli arrivi più che dalla statica della catalogazione, non avevo la minima cognizione di un governo estraneo al tutto, una ipotesi di reggimento esterno, di qualcosa che in qualche modo, a me non conosciuto, tenesse a regime il tutto ottimizzando i risultati nella prospettiva di uno scopo teorico da raggiungere. Ponendosi dal punto di vista della discontinuità non avevo che controlli temporanei e parziali, subito consegnati a risultati da decidere se accettare o meno, comunque da tenere da parte in attesa di trasformazioni future. Alla fine questo continuo movimento produceva sconvolgimenti caotici ingovernabili e, per molti aspetti, li produce ancora oggi.

La mia discontinuità proponeva inconsapevolmente una rinuncia al potere di gestione che qualsiasi organizzazione conoscitiva strutturata garantisce nel momento stesso che viene posta in essere. Ciò è qualcosa di diverso e di più complesso del sistema filosoficamente inteso, non si racchiude nella teoria ma si estende all’insieme conoscitivo di un singolo individuo – piccolo o grande che questo insieme sia – fino a costituire la sua visione della vita. C’è nella riorganizzazione degli afflussi, continua e finalizzata, una forma intrinseca di potere che determina in ultima analisi il modo di pensare e quindi canalizza le scelte conoscitive e le finalizza alla gestione degli scopi da raggiungere. In ultimo la decidibilità riguardo agli afflussi si collega con gli scopi e viene da questi ultimi catturata definitivamente.

La positività di Abbagnano era il prodotto di una forte organizzazione conoscitiva e di una riduzione degli afflussi alla routine scolastica, di cui era esempio eclatante la sua Storia della filosofia, il mio libro galeotto. Essa si fondava sul concetto di acquisizione definitiva, codificata in molti modi e salvaguardata da possibili interpretazioni eversive. Presupponeva che qualcosa di acquisito potesse essere dimostrato definitivamente e da scelta diventare verità, criticamente approvata e sottoponibile a modificazioni, ma sempre valida al momento opportuno. Dietro tutto questo c’era un procedimento indagativo con caratteristiche oggettive non un coinvolgimento personale, fatto stupefacente che mi gettava nello sconforto trattandosi, dopo tutto, di una filosofia dell’esistenza, problematica e inquieta. Solo che questi due ultimi aspetti si racchiudevano, paurosi, negli enunciati e non nei fatti della vita. Qui la positività aveva la meglio e si preferivano investire in una piccola casa editrice i soldi guadagnati sotto la tutela distributiva di un grande complesso editoriale. Cosa poteva disgustarmi di più?

La pratica filosofica della positività conduceva quindi a un mestiere come un altro, professore, editore, venditore di fumo, ecc., insomma un inserimento nel mondo della positività protetto dall’egida di una sorta di piccolo e modesto sistema di pensiero né aperto né completamente sigillato. Scavando negli enunciati principali si scopriva così il filisteo nascosto, attento a non correre rischi né accettare giochi che non avessero per posta la gestione del proprio potere, misero e circoscritto, ma sempre appetibile.

Nell’intreccio caotico dei miei afflussi acquisiva risalto improvviso una certa corrispondenza conoscitiva che magari per un certo tempo dominava la scena, ma poi finiva per lasciare spazio ad altre corrispondenze sempre nuove e spesso contrapposte alle precedenti. Questo risalto temporaneo però non arrivava mai ad imporre un potere di verifica o di controllo sui nuovi afflussi, non si faceva portatore di una superiore coerenza modellistica. Tutto poteva così capovolgersi nel suo contrario senza raggiungere nessuna stabilità epistemologica, e ciò malgrado i miei contemporanei interessi metodologici. Gli stessi afflussi di contenuto logico finivano per restare impigliati nella stessa rete e non riuscivano a presentarsi se non come un ulteriore contributo conoscitivo senza pretese regolatrici estrinseche.

Non avevo con tutto questo pretese di costituire un criterio metodologico alternativo a quello dominante, che poi sarebbe stato sempre un modo regolativo solo di segno diverso, volevo solo affermare il mio diritto a respirare a modo mio, perché per me conoscere era come respirare, non potevo condizionarmi fino a vivere con una bombola di ossigeno sulle spalle. Sapevo, e so, bene che nessuna scienza si può fondare sul mio modo di respirare e, per converso, io respiravo per vivere non per gettare fondamenti scientifici. Sapevo, e so, che l’insieme dei miei afflussi non avrebbe detto molto agli altri, ma essi erano unici e solo dentro di me prendevano la vita che io concedevo loro, dove era la mia esistenza che permetteva la loro e non un’altra del tutto diversa.

Nemmeno avevo cognizione di un puro darsi a me degli afflussi, movimento autonomo che avrebbe in questo modo avuto la possibilità di fornire senso alle acquisizioni. Si sarebbe trattato di una forma subdola di episteme mentre in me c’era soltanto il continuo e disordinato sforzo di impadronirmi della conoscenza. Il resto mi sembrava una discussione oziosa che solo occasionalmente accettavo di approfondire con me stesso. Da quello che quotidianamente facevo non poteva mai venirmi l’intenzione di imporre a me stesso norme o postulati guida per continuare a conoscere. In altre parole mi rifiutavo di unire in figure dominanti le suggestioni che i vari afflussi mi procuravano e, al contrario, lasciavo la porta aperta perché andassero ad interagire con le altre conoscenze creando nuove corrispondenze e nuove contraddizioni. Il risultato era che non avevo mai la certezza di quello che sapevo, né il controllo del territorio della sua estensione, eppure un singolo riferimento mi sollecitava una serie sempre più ampia di connessioni che, a priori, non avrei in nessuna maniera saputo determinare. Alla fine quello che sapevo era implicito nella connessione istantanea e debordava liberamente senza che volessi per questo catturarlo in un sistema determinato.

Abbagnano, come vedremo in dettaglio, parla di finitudine e di impegno, parole importanti che esprimono concetti positivi ma che non trovando solo in questa prospettiva una loro spiegazione, possono ribaltarsi essendo speculari. È il progetto di fondo che sceglie il loro contenuto e non viceversa. L’uomo è limitato, dato di fatto che non ne fa automaticamente un lottatore, altri elementi devono intervenire. La positività getta sulla finitudine un alone accomodante, sonnolento, pacifico, per cui l’impegno che le si pone accanto sembra più o meno una passeggiata fuoriporta. L’intelligibilità della finitudine può invece ricevere dalla problematicità dell’esistenza ben altra luce, negativa, e arrivare con ciò non al disimpegno o all’apatia ma a un tipo diverso di impegno che diventa banale definire con questo concetto. Un piccolo assaggio. Il contesto problematico – la finitudine della vita umana e della stessa vita in generale – getta una luce obliqua su un insieme di problemi, fra i quali può anche stare l’impegno, e li rende di volta in volta intelligibili in maniera diversa. Non esiste uno statuto intrinseco alla positività se non per decisione del demiurgo filosofico.

La positività funge in Abbagnano da metafora del mondo e obbedisce alla legge del trasferimento di significato, caricando di sé i contesti a cui si applica, come accade quando si fanno degli esempi. È una forma analogica di sigillazione dei vari contesti che potrebbero sperdersi nella presupposta caoticità dell’insieme. Nulla del genere poteva appartenermi, almeno come modulo di comportamento al quale adeguarmi in modo obbligato, potevo invece accettarlo come semplice oggetto di conoscenza. Una volta che mi veniva proposto come unità di misura unica, fonte per la costruzione logica del mondo, non potevo che rifiutarlo. Si fosse trattato di un elemento logico esterno, paragone e significante per materiale eterogeneo da riorganizzare, potevo anche capirlo e tollerarlo, ma possedeva qualcosa di più della propria singolarità, era una sorta di formula sacralizzante. Era molto di più di un modello, era visione del mondo in atto, non un termine di paragone ma un fondamento. Non c’era nulla nella positività che si potesse riprodurre, era un tutto unico che bisognava accettare o rifiutare. Rifiutare questa formula sacralizzante significava disattivarla, ed è proprio quello che facevo quotidianamente non suggerendo un orizzonte analitico differente ma soltanto puntando i piedi a ogni occasione possibile. Riunendo la realtà in un nuovo contesto aproblematico, intelligibile e capace di autoriprodursi, Abbagnano azzerava proprio la problematicità che affermava di volere difendere. Credo non si sia mai reso conto di questa contraddizione.

Senza saperlo suggerivo un’alternativa ingenuamente paradigmatica, proponevo di accostare l’afflusso all’accumulo precedente o, almeno, alla parte più consimile di questo accumulo, insomma di avvicinare la parte in arrivo alla parte arrivata di già, presupponendo – sulla scia, questa volta coscientemente scelta, di Aristotele – che la parte arrivata prima fosse da me più conosciuta dell’afflusso. Con questo non voglio dire di non essere stato in grado all’epoca di muovere deduzioni o induzioni, il movimento interno successivo all’accostamento funzionava integrando continuamente i due metodi in maniera quasi involontaria, ma l’acquisizione era del tutto casuale e non rispondeva a nessun progetto a priori orientato a raggiungere uno scopo preciso, sia pure antitetico alla positività di Abbagnano.

Certo riflettendo sull’unico passo di Aristotele che parla dell’esempio (Analitica priora, 69, a, 13-14) c’è da dire che per me la parte più affine all’afflusso e più conosciuta, perché arrivata precedentemente, non era un esempio, ma il funzionamento di attrazione era il medesimo. Oggi potrei spiegare meglio il meccanismo parlando di analogia ma sarebbe un aggiornare uno sforzo che all’epoca potevo compiere solo con le forze che possedevo non con quelle che posseggo oggi.

Il mio testardo tentativo era diretto a fare in modo che restassi me stesso, né positivo né negativo né Abbagnano né Sartre. Non che quest’ultimo e l’ipotesi del niente – come preferivo chiamare il nulla sartiano – non li preferissi alla soluzione positiva, e le mie ricerche si intensificavano in questa direzione pure rimanendo accanto ad Abbagnano, ma soprattutto salvaguardavo la mia integrità interiore, la mia auto-considerazione, elementi indispensabili per sostenere lo sforzo fuori misura a cui mi sottoponevo. Questo mi portava a rifiutare sia il concetto di sintesi che quello correlato di sintesi superiore. Non capivo ancora bene il meccanismo hegeliano ma non lo accettavo nemmeno come ipotesi di lavoro provvisoria e, con la massima impudenza, accusavo Abbagnano di volere sdoganare qualcosa di simile, accusa certamente ingiusta.

L’immagine più estesa che ipotizzavo allora del mio possesso conoscitivo era quella del campo di forza mosso non solo dai nuovi afflussi ma anche dalle tensioni interne che si componevano e scomponevano continuamente senza che ne venissi avvertito da un risultato immediatamente riscontrabile. Nuove formazioni interne al campo premevano non solo a livello di disponibilità acquisitiva ma anche a livello di intensità di acquisizione, orientando in questo modo i processi conoscitivi che non rimanevano del tutto casuali riuscendo a concatenarsi in base a corrispondenze loro che non potevo né controllare né prevedere.

Era un metodo il mio? No di certo. Più volte, in seguito, ho avuto il dubbio che mi fossi ricavato un metodo senza saperlo come conseguenza dei miei studi di logica e di metodologia. Anche adesso, se rifletto su questo dubbio, devo concludere che non avevo un metodo né cosciente né incosciente. Era un modo di vita, e l’acquisizione della conoscenza corrispondeva alla parte più consistente di questo mio modo di vita. Quello che difendevo era quindi non un metodo ma la mia vita, non riuscendo a distinguere la conoscenza dal vivere quotidianamente la mia condizione veramente disumana di lavoro e di studio. A volere essere precisi, l’afflusso specifico entrava in contatto col campo di forza perché questo campo era la mia vita e qui, insieme ai miei sentimenti, dolori, fatiche e paure, trovava l’affinità conoscitiva corrispondente, l’esempio corroborante, con Aristotele o senza di lui. Come si vede non era – e non è – possibile formulare una regola da tale condizione operativa.

In Abbagnano l’idea di positività non era un esempio paradigmatico, era una sintesi che permetteva di interpretare gli afflussi conoscitivi indirizzandoli verso un obiettivo. La sintesi sceglie, seleziona, accetta e rinvia, tutte procedure di controllo che garantiscono il funzionamento del sistema. Un nuovo afflusso viene così individuato come connesso con un afflusso precedente non sulla base di una loro affinità ma sulla base della loro corrispondenza o meno all’idea di positività che costituisce la sintesi necessaria al riconoscimento. Questo metodo scava nella conoscenza e preleva esattamente quello che necessita al completamento del sistema, non lascia fluire liberamente e casualmente i singoli elementi in arrivo. Se così facesse renderebbe impossibile la sintesi.

Da parte mia ero convinto che la collocazione di un afflusso conoscitivo all’interno della sintesi potesse essere fatta solo sospendendo dalla loro significatività gran parte del senso di cui l’afflusso era portatore, costringendolo cioè all’interno di uno schema riduttivo prima dell’inserimento stesso e restituendogli una intelligibilità sminuita ma adatta ad attribuirgli un senso diverso. La sospensione dell’accumulo spontaneo, così come si presentava a me nelle mie continue esperienze, era provata dalla interpretazione di volta in volta perfezionata in vista dello scopo, cioè della stabilizzazione normativa a carattere positivo. Questa assegnazione non era quindi una forzatura, anzi appariva del tutto normale, e ciò a causa della riduzione preventiva dell’afflusso nei limiti richiesti e conosciuti. La corrispondenza diventava così automatica e non c’era bisogno di volta in volta di esibire la certificazione dell’avvenuta inclusione riduttiva.

La stranezza della mia condizione era che io non avevo ipotesi da verificare in base a nuovi contenuti che quindi non subivano nessuna selezione o contrazione preventiva, almeno così pensavo. Non mi rendevo conto che un processo di riduzione era comunque in atto non per difendere una tesi ma per la forza di attrazione esercitata dal contenuto affine che attirava il nuovo afflusso. Non mi era possibile sospendere la datità di un contenuto conoscitivo in maniera assoluta e assimilare quest’ultimo in questa sua condizione astratta, movimento empirico illusorio che mi attirava considerandomi più o meno come una macchina a gettoni. Scoperta che dovevo fare molti anni dopo ma che non revoca in dubbio la mia critica alla positività dell’esistenzialismo di Abbagnano.

Pur permanendo nell’illusione di completezza dell’accesso conoscitivo non era questa falsa visione il perno della mia controversia quanto l’assenza, o la cancellazione di un’ipotesi dominante a priori. Non c’era cioè nulla di ipotetico nel mio sforzo costante verso la conoscenza ma una semplice aggiunta. Non potevo vedere le limitazioni di questo ragionamento ma vedevo bene che non c’era nessun meccanismo dialettico alla sua base, nessun togliere e portare via in una sintesi superiore. Esponendo – più o meno come tale – l’afflusso all’accumulo lo mettevo a rischio di annientamento e di deformazione, e di questo mi andavo convincendo man mano che il campo di forza cresceva a dismisura, ma non intendevo sottoporlo a una ipotesi governante a priori. La mia intelligibilità era quindi, in qualsiasi modo si voglia considerare la cosa, opposta a quella di Abbagnano. Anche la precomprensione di cui parla Heidegger, conosciuta da Abbagnano per intermediazione di Chiodi, finiva distorta nel meccanismo positivo. Per Heidegger si trattava di un circolo ermeneutico in cui la conoscenza del singolo fenomeno presupponeva la conoscenza dell’insieme e viceversa. Ma la conoscenza dell’insieme, in Abbagnano, interveniva solo attraverso la sintesi dominante e non come struttura anticipatrice dell’afflusso capace di rendere quest’ultimo comprensibile e determinabile all’interno del possibile della conoscenza. In Heidegger c’era qualcosa d’altro, che Abbagnano non rilevava, in quanto la precomprensione non solo seleziona e determina ma sconvolge l’assetto dell’afflusso adeguandolo non semplicemente accostandolo. Bisognava vedere come questa precomprensione veniva formata, se a partire dal campo di forze o da un circolo vizioso che presentava sempre la stessa parte per entrare e uscire. Per Heidegger, come ebbi a capire successivamente, la comprensione dell’afflusso è possibile perché la precomprensione incide sul nuovo materiale l’indicazione di appartenenza alla struttura esistenziale di chi cerca di comprendere.

E un’altra cosa ebbi a capire dopo, molto tempo dopo, che l’accumulo, proprio perché campo di forza, non è una semplice sommatoria né si contrappone massicciamente all’afflusso né con questo instaura un circolo ermeneutico, ma è la reciproca connessione dinamica di singoli afflussi, messi in moto caoticamente in maniera da formare un tutto in grado di creare attrazioni conoscitive multiple e contemporanee, sia di fronte al singolo afflusso sia di fronte a più afflussi simultanei che premono. Non c’è niente che resta per un certo tempo accanto, lo stesso accostamento è un modo per dire ciò che non è percepibile, essendo l’afflusso un movimento continuo e il campo di forza dove entra una entità non chiusa o sigillata. Queste due unità non sono perfettamente isolabili se non per fornire un illusorio metodo di individuazione, per sapere su quale territorio ci si sta muovendo e incontro a quale mostruoso intreccio si indirizza l’afflusso. Considerando questi movimenti nell’andamento medio della loro conoscibilità non c’è uno di essi che sta fisso nel passato e uno che sta fisso nel presente. Man mano che l’afflusso si realizza il campo di forza entra nella materia in corso di apprendimento e la riconosce, cioè la individua e, come ho detto, comprendendolo in ritardo, la condiziona permettendo di entrare all’interno del campo come parte di una inarrestabile costellazione.

È giunto il momento di chiudere i miei conti con Abbagnano.

Alfredo M. Bonanno

Finito nel carcere di Korydallos (Atene) il 16 febbraio 2010

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Rater sa vie, c’est accéder à la poésie – sans le support du talent.

Emil Cioran

«La casa ha una facciata solatia e una in ombra. Da ciò dipende la distribuzione degli “ambienti” e, al loro interno, la “disposizione” dell’arredamento in base all’uso. Chiese e tombe sono disposte secondo il sorgere e il tramontare del sole – regioni della vita e della morte – da cui l’Esserci stesso è determinato nel mondo quanto alle possibilità di essere più proprie. Il prendersi cura proprio dell’Esserci (a cui, nel suo essere, ne va sempre di questo essere stesso) scopre preliminarmente le prossimità nelle quali esso trova la sua appagatività decisiva. Lo scoprimento preliminare delle prossimità è determinato cooriginariamente dalla totalità di appagatività a cui l’utilizzabile è rimesso nel suo incontro con l’Esserci. L’utilizzabilità preliminare, inerente alle singole prossimità, possiede il carattere dell’intimità senza sorprese in un senso ancor più originario dell’essere dell’utilizzabile. Tale utilizzabilità è constatata solo quando la visione ambientale preveggente è colta di sorpresa dall’utilizzabile che si presenta nei modi difettivi del prendersi cura. Quando non si trova qualcosa al suo posto, la prossimità ambientale si rende esplicitamente accessibile come tale. Lo spazio, che nell’essere-nel-mondo guidato dalla visione ambientale preveggente è scoperto come spazialità dell’insieme dei mezzi, è sempre proprio di un ente di cui costituisce il posto. Lo spazio puro è ancora nascosto. È frantumato in posti. Tuttavia questa spazialità ha una sua unità attraverso la totalità di appagatività mondana dell’utilizzabile spaziale. Il “mondo-ambiente” non si insedia in uno spazio dato precedentemente; la sua mondità specifica articola, nella sua significatività, il complesso appagativo di ogni totalità concreta di posti assegnati dalla visione ambientale preveggente. I singoli mondi scoprono sempre la spazialità dello spazio che è proprio di ciascheduno di essi. L’incontro con l’utilizzabile nel suo spazio ambientale è possibile onticamente solo perché l’Esserci stesso è “spaziale” nel suo essere-nel-mondo. È chiaro che la spazialità da noi attribuita all’Esserci, il suo “essere nello spazio”, dev’essere inteso a partire dal modo di essere di questo ente. La spazialità dell’Esserci (che è assolutamente diverso dalla semplice-presenza) non può significare né la sua presenza in un luogo dello “spazio cosmico” né il suo essere utilizzabile in qualche posto. L’uno e l’altro sono modi spaziali dell’ente intramondano. L’Esserci è “nel” mondo nelle modalità del commercio che prende cura dell’ente che si incontra nel mondo. La spazialità dell’Esserci non sarà quindi possibile che sul fondamento del suo in-essere. Questa spazialità rivela i caratteri del dis-allontanamento e dell’orientamento direttivo. Con l’espressione dis-allontanamento, quale modo di essere dell’Esserci nel suo essere-nel-mondo, non intendiamo né la lontananza, né la distanza. Noi usiamo l’espressione dis-allontanamento in un senso attivo e transitivo. Essa significa una costituzione dell’essere dell’Esserci rispetto alla quale l’allontanamento puro e semplice di qualcosa, il porre lontano, non rappresenta che una modalità particolare. Dis-allontanamento [Ent-fernung] significa far scomparire la distanza [Ferve) cioè la lontananza di qualcosa, significa avvicinamento. L’Esserci è essenzialmente disallontanante e, in quanto è l’ente che è, lascia sempre che l’ente sia incontrato nella vicinanza. Il dis-allontanamento scopre la lontananza. Tanto la lontananza che la distanza sono determinazioni categoriali dell’ente non conforme all’Esserci. Viceversa il dis-allontanamento dev’esser inteso come un esistenziale. Solo perché l’ente è in generale scopribile da parte dell’Esserci nel suo esser-disallontanato, divengono accessibili le “lontananze” e le distanze fra un ente intramondano e l’altro. Due punti e, in generale, due cose non possono trovarsi in un rapporto di dis-allontanamento perché nessuno di questi due enti può, in conseguenza del suo modo di essere, esser tale da disallontanare. Fra di essi non c’è che una distanza, constatabile e misurabile solo in base al dis-allontanamento. Il dis-allontanamento, innanzitutto e per lo più, è un avvicinamento guidato dalla visione ambientale preveggente, un portare nelle vicinanze, quale si ha nelle forme del procurarsi, dell’installare, del prendere in mano. Ma anche taluni modi di scoprire l’ente in forma puramente conoscitiva, hanno il carattere dell’avvicinamento. L’Esserci ha una tendenza essenziale alla vicinanza. Tutte le forme di accelerazione della velocità a cui siamo oggi più o meno costretti, tendono a superare la lontananza. Con la “radio”, ad esempio, l’Esserci attua oggi un dis-allontanamento del “mondo” non ancora ben chiaro nel suo significato esistenziale, ma da cui deriva un ampliamento del mondo-ambiente quotidiano. Il dis-allontanamento non implica necessariamente la valutazione esplicita della lontananza di un utilizzabile dall’Esserci. La lontananza non vi è intesa come distanza. Quando la lontananza dev’essere valutata, lo è a partire dai dis-allontanamenti nei quali l’Esserci si mantiene quotidianamente. Dal punto di vista del calcolo, queste valutazioni possono risultare imprecise e mutevoli, tuttavia posseggono una determinatezza loro propria e una comprensibilità generale. Diciamo: “dista una passeggiata”, “è lontano una fumata di pipa”, “è a due passi”. Queste misure dimostrano che non c’è alcuna intenzione di “misurare” e che la lontananza valutata è propria di un ente a cui si accede sotto la guida della visione ambientale preveggente propria del prendersi cura. Anche quando ricorriamo a misure più esatte e diciamo: “Di qui a casa c’è una mezz’ora”, si tratta sempre di una stima. “Una mezz’ora” non sono trenta minuti, ma una durata che non ha alcuna “lunghezza” nel senso dell’estensione quantitativa. Questa durata è sempre stabilita in termini di “cure quotidiane”. Anche là dove sono note le distanze “ufficiali”, la lontananza è sempre valutata innanzitutto dalla visione ambientale preveggente. Poiché l’ente che queste valutazioni dis-allontanano è sempre un utilizzabile, esso conserva sempre il suo carattere intramondano specifico. Ne consegue inoltre che i percorsi che ci conducono verso l’ente disallontanato, hanno di volta in volta una lunghezza diversa. L’utilizzabile del mondo-ambiente non è mai una semplice-presenza contemplata da un misuratore eterno, liberatosi dalla struttura dell’Esserci, ma si offre allo sguardo ambientale preveggente del prendersi cura quotidiana dell’Esserci. L’Esserci che percorre le sue strade non è una cosa corporea semplicemente-presente che effettua misurazioni; l’Esserci “non divora chilometri”; avvicinamento e dis-allontanamento rispondono sempre a un modo di essere caratterizzato dal prendersi cura di ciò che è avvicinato e disallontanato. Un percorso “obiettivamente” più lungo può essere più corto di un altro “obiettivamente” più corto, se questo è, ad esempio, “molto arduo” e appare interminabile. Solo in questo modo di “apparire” il mondo reale risulta effettivamente utilizzabile. Le distanze oggettive fra le cose semplicemente-presenti non si identificano con la lontananza e la vicinanza dell’utilizzabile intra-mondano. Anche quando esse sono conosciute con esattezza, restano sempre un sapere cieco ed estraneo alla funzione di avvicinamento del mondo-ambiente proprio dello scoprire che caratterizza la visione ambientale preveggente. Questo sapere è utile solo a un ente che si prende cura di un mondo di cui “gli importa” e che, quindi, non sta semplicemente a misurare le distanze. Per effetto del privilegiamento anticipato della “natura” e delle distanze “oggettivamente” misurate, si tende a considerare queste valutazioni e questa maniera di intendere la lontananza come qualcosa di “soggettivo”. Ma in tal caso si tratta di una “soggettività” che scopre ciò che forse vi è di più reale nella “realtà” del mondo e che non ha quindi nulla a che fare con l’arbitrio “soggettivo” o con le “opinioni” soggettive circa un ente che diversamente esiste “in sé”. Il dis-allontanamento, proprio della visione ambientale preveggente della quotidianità dell’Esserci scopre l’essere-in-sé del “vero mondo”, dell’ente presso il quale l’Esserci, quanto esistente, è già da sempre. L’interpretazione che vede nella distanza misurata l’aspetto primario ed esclusivo della lontananza nasconde la spazialità originaria dell’in-essere. Ciò che è “più vicino” all’Esserci non è affatto ciò che ha la minor distanza “da esso”. Il “più vicino” è ciò che è disallontanato dalla portata media dei nostri apparati percettivi, visivi e prensili. Solo perché l’Esserci è essenzialmente spaziale nel modo del dis-allontanamento, il suo commercio si mantiene costantemente in un “mondo-ambiente”, disallontanato dall’Esserci entro confini variabili; ed è per questo che, innanzitutto, dirigiamo l’udito e la vista al di là di ciò che è “più vicino” secondo la distanza misurata. Vista e udito sono sensi del “lontano” non a causa della loro portata, ma perché l’Esserci si mantiene prevalentemente in essi in quanto disallontanante. Ad esempio, per chi porta gli occhiali, i quali, quanto alla distanza misurata, gli sono così vicini che gli stanno “sul naso”, questo mezzo d’uso è ambientalmente più lontano del quadro appeso alla parete di fronte. Questo mezzo è così poco vicino da non essere, sovente, neppure percepito. Il mezzo per vedere, o quello per udire (ad esempio, il ricevitore telefonico) ha il carattere della non-sorpresa, che vedemmo esser proprio di tutto ciò che è innanzitutto utilizzabile. Lo stesso dicasi per la strada, il mezzo per camminare. Camminando essa è calpestata ad ogni passo, ed è apparentemente il più vicino e il più reale degli utilizzabili a nostra disposizione; in certo modo essa scivola sotto una parte del nostro corpo, sotto le suole delle scarpe. E tuttavia essa è di gran lunga più lontana dell’amico che ci viene incontro “per strada” alla “distanza” di venti passi. È il prendersi cura della visione ambientale che decide sulla lontananza e sulla vicinanza di ciò che è innanzitutto utilizzabile nel mondo-ambiente. L’ente presso cui il prendersi cura si sofferma di preferenza è per ciò stesso il più vicino e regola come tale il dis-allontanamento. Quando, nel prendersi cura, l’Esserci porta qualcosa vicino a sé, ciò non importa il trasferimento di quest’oggetto nel luogo dello spazio che ha la minor distanza possibile dal suo corpo. Vicino a sé significa: nell’ambito di ciò che è innanzitutto utilizzabile a partire dalla visione ambientale preveggente. L’avvicinamento non muove da un io-cosa fornito di corpo, ma dell’essere-nel-mondo prendente cura di ciò che lo circonda innanzitutto. La spazialità dell’Esserci non è quindi determinabile mediante la determinazione di un luogo in cui una cosa-corpo sarebbe semplicemente-presente. Certo, diciamo che anche l’Esserci occupa sempre un posto. Ma questo “occupare” è fondamentalmente diverso dall’esser-utilizzabile in un posto all’interno di una prossimità. L’occupare un posto da parte dell’Esserci dev’essere inteso come dis-allontanamento dell’utilizzabile ambientale in una prossimità prescoperta dalla visione ambientale preveggente. L’Esserci comprende il suo “qui” a partire dal “là” del mondo ambiente. Il “qui” non significa il “dove” di una semplice presenza ma il “presso-che” di un dis-allontanante esser-presso ..., in una col dis-allontanare stesso. In conseguenza della sua spazialità, l’Esserci non è mai innanzitutto “qui”, bensì in quel “là” a partire dal quale esso perviene al suo “qui”, e ciò, di nuovo, soltanto in quanto esso interpreta il suo esser-prendente-cura-di a partire da ciò che “là” è utilizzabile. Tutto ciò si fa completamente chiaro se si considera una caratteristica fenomenica della struttura del dis-allontanamento proprio dell’in-essere. L’Esserci, in quanto essere-nel-mondo, si mantiene essenzialmente nel dis-allontanamento. Questo dis-allontanamento, e le relative lontananze, non possono essere incrociate dall’Esserci. Certamente la lontananza di un utilizzabile dall’Esserci può esser vista come distanza quando sia determinata in relazione a una cosa pensata come semplicemente presente nel posto che l’Esserci occupava precedentemente. Il “fra” della distanza può essere successivamente percorso dall’Esserci, solo però alla condizione che la distanza stessa divenga per l’Esserci qualcosa di disallontanato». (M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it., Torino 1978, pp. 186-191).

Introduzione all’esistenzialismo

Mezzi e non fini sono le filosofie, la storia che le elenca è quindi un repertorio di mezzi a cui fare ricorso se si vuole dominare il futuro. Abbagnano sviluppa il concetto positivo della filosofia sostenendo che questo soltanto attribuisce concretezza a ogni dottrina e garantisce la libertà dell’uomo. Fuga dal vuoto apparente, rincorsa verso la pragmatica concretezza dell’esistenza. A furia di nominarlo in un certo modo, il mondo finisce per configurarsi in un numero ristretto di componenti che sembrano corrispondere alla sua esistenza oggettiva. Sembrano soltanto.

Abbagnano afferma: «Ma appunto perché in questo senso il filosofare è un atto umano, un aspetto che dobbiamo presumere essenziale dell’esistenza, il problema di esso è il problema che l’uomo pone a se stesso intorno a se stesso, è l’essere stesso dell’uomo come problema di se stesso». (Introduzione all’esistenzialismo, IV edizione, Taylor Torino editore, 1957, p. 16). Insomma, un auto-interrogarsi. Ma su cosa? Su se stesso, facendosi problema a se stesso, entrando nella foresta primordiale che ancora si addensa nella vita di ogni uomo. Egli non lo dice perché non lo pensa, essendo evidentemente, la sua foresta, un boschetto di verzura. In questo modo la ricerca dell’essere appare una passeggiata scolastica mentre è un addentrarsi ignoto in territori dove suoni e fantasmi dilagano. Così si domina il futuro nel sogno dogmatico dei filosofi, anche se affermano di non dormire, di essere problematici e di non rifornire assiduamente la caverna dei massacri.

La forma problematica non salva dalla contraddizione, anzi la rafforza. Non salva perché insiste a basarsi sulla potenza della scelta, o decisione, qui non fa differenza, e perché insiste sul rischio. Il semplice nominare la realtà è di già un pericolo, potrebbe sbriciolarsi davanti a noi, non accade ma potrebbe accadere. Tutto il mio agire e il mio fare, tutto il mio essere è a rischio, non solo le decisioni importanti della mia vita. In un piccolo gesto, attraversare una strada, può confluire tutta la forza che posseggo, tutta la mia vita può rimanere invischiata per sempre. Le cosiddette decisioni esistenziali sono sommatorie di scelte banali, molte delle quali non sono per niente scelte. Dappertutto vaga l’indeterminata potenza che mi determina e contro cui lotto sempre, senza interruzione.

Così Abbagnano: «Ora, ciò che costituisce la natura di questa indeterminazione o problematicità, è che essa è presente in qualsiasi atto esistenziale come un sapere effettivo, che determina dall’interno la natura dell’atto. Io so, in ogni caso, che affronto un rischio e questo mio sapere è presente alla mia decisione e ne costituisce un elemento necessario. La mia decisione non è una decisione, cui si aggiunga dall’esterno la considerazione astratta della problematicità che l’accompagna e perciò del rischio in essa implicito, è invece una decisione che è stata presa sul fondamento della problematicità e del rischio inerente e della quale perciò la problematicità ed il rischio costituiscono l’elemento essenziale. L’indeterminazione non viene dopo quella decisione, ma è dentro di essa, la costituisce in proprio. Ogni atto esistenziale è un atto di indeterminazione problematica». (Ib., p. 18). Qui l’elemento fondante è il sapere che determina l’agire. Ma l’azione è prodotta dall’insieme della coscienza che comprende l’intero mondo precedente in cui caoticamente sono immerso. Non c’è un’organizzazione del sapere che mi possa guidare, può prendere la forma di mondo sacrale e costringermi a un giuramento di appartenenza, oppure di un mondo profano e affilare le mie unghie, ma si tratta di campi che non si possono assimilare a un sapere, a una conoscenza organizzata. La decisione è un lato della questione, e il coraggio che richiede per agire la trasforma in azione, cioè concreto intervento qualitativamente diverso, non semplice scelta tra varie aperture possibili. L’indeterminazione è nell’unico passaggio disponibile per l’azione, l’oltrepassamento. Non si va da qualcosa a qualcosa, da un inizio a una fine, elementi discreti non si riscontrano che nel semplice fare, di cui Abbagnano sembra non tenere conto nella definizione di decisione esistenziale.

«La mia decisione tende a fare in modo che l’avvenire sia, sotto l’aspetto che ad essa si riferisce, quale io voglio che sia con l’atto stesso della decisione. Se essa è una decisione autentica e non un desiderio o una semplice velleità, muove verso l’avvenire con la pretesa di saldarlo con il passato in un’unità che realizzi il senso totale della decisione stessa». (Ibidem). Purtroppo la decisione è sempre poco piena, indecisa, titubante. Non esiste nella sua pienezza, non basta dire “io voglio”. Volere è una condanna non una forza. Occorre di più, occorre una compenetrazione con la realtà, non una separazione selezionata nei suoi vari elementi. A prevalere non è l’obiettivo ma il coraggio, non è problematicità allo sbocco ma alla fonte. Se cerco garanzie è perché mi manca il coraggio, se mi manca il coraggio ho bisogno di qualcosa su cui poggiare i piedi. Non c’è un ponte tra passato e avvenire che garantisca una continuazione. Il corpo informe del futuro vuole essere interrogato in un certo modo per aprirsi e il segreto sta nel coinvolgimento totale dell’individuo non un rischio quanto più possibile garantito.

«Ma nell’atto esistenziale questo movimento che unifica passato e avvenire nel presente della decisione e che costituisce, nell’avvenire, una situazione che può non essere, ma che deve essere, è il fondamento e la giustificazione della situazione che è stata. Questo movimento proprio dell’atto esistenziale autentico, questa saldatura di una situazione futura che si presenta indeterminata nella sua possibilità, ma che tuttavia deve essere, con una situazione iniziale, può chiamarsi struttura». (Ib., p. 19). Denso paragrafo in cui Abbagnano svela meglio il suo pensiero. La problematicità, catturato il futuro, si trasforma in struttura, solida, beffarda, che si presenta visibile contro l’invisibile futuro come se fossero particolari circostanze a rendere possibile il miracolo. Ma una struttura deve essere imposta e in questo modo non può esprimere autenticità in nessuna maniera, azzera la problematicità e la modifica in staticità e garanzia. Porta cioè nel grembo dell’avvenire la certezza ipotetica del passato, operazione che viene subito punita dalla ripetitività e dalla stupidaggine del possesso che si avvoltola su se stesso fino a soffocare. Eleggere a proprio scopo la struttura compromette la libertà e non vale affermare il persistere della sua natura problematica. Qui si tratta di parole, ma il punto attorno a cui tutto ruota è la conferma, l’elezione di una decisione a scelta confermata, avvenuta e consolidata, anche se resta aperta la porticina di servizio di una eventuale delusione che richiederà un aggiustamento strutturale. Questo sembra complicare la vita della struttura ma nei fatti la semplifica, la rende certa nell’ambito della certezza umana, la rende vera, degna di essere vissuta e tutto il restante ciarpame perbenista. So bene che non c’è nulla di definitivo, ma il prescegliere un mondo strutturato è qualcosa di più confortevole di scrivere queste righe alla fine della propria vita in un carcere greco.

La decisione autentica di Abbagnano è pur sempre una decisione. Egli scrive: «L’atto esistenziale di cui abbiamo parlato è l’atto esistenziale autentico. Esso è una decisione di cui fa parte integrante la considerazione del rischio, e della responsabilità che il rischio implica. Ma sono evidentemente possibili all’uomo anche atti diversi, atti nei quali la decisione manchi o difetti, e nei quali l’uomo preferisca evitare il rischio e non affrontare la responsabilità di una scelta decisiva. In questi casi, l’uomo si lascia vivere, per così dire, senza decidere, senza scegliere, senza cercare la saldatura tra il passato e l’avvenire, senza proporsi nell’avvenire di giustificare il senso e di realizzare la natura del proprio passato. L’uomo vive, allora, nello stato della dispersione; non si possiede, né possiede veramente le sue possibilità. La sua esistenza non si salda nel circolo della struttura, non si compie veramente, né veramente si apre verso l’avvenire. La struttura implica per lui solo un appello alla decisione e alla scelta, non una decisione o una scelta effettiva. Cerchiamo di scorgere il significato intero di questa alternativa, nella quale l’uomo è posto continuamente tra la sua costituzione strutturale e la sua vita dispersa». (Ib., p. 21). Ma quando posseggo le mie possibilità? Quando le realizzo? No di certo. Le posseggo quando le oltrepasso, vado oltre, le lascio dietro le spalle, quando apro al futuro e non mi lascio indicare o predestinare da una forza esterna. Se mi chiudo nella difesa sono condannato a seguire le modalità dei procedimenti fino nei recessi secondari, vengo catturato o almeno inseguito con accanimento feroce. Sono il diverso privo di struttura, il battitore percepibile come pericolo, colui che è differenza e non concordanza, sono un unico che non accetta puntelli o giustificazioni.

Che penosa conclusione la proposta realizzativa. Concretizzo la possibilità realizzandomi, la faccio mia, quindi sono io la chiusura certa della mia parola detta al futuro, sono la legge monoteista e mi sento superiore moralmente, in una certezza letale senza contrappesi. La struttura costituendomi mi tutela e mi elegge suo protetto, nello stesso tempo mi condanna. Questi due aspetti si integrano reciprocamente. Vengo isolato e questo mi spinge a ricacciare indietro il mio coraggio. Le possibilità tornano a chiudersi dopo avermi dato l’illusione dell’apertura.

Scrive Abbagnano: «Nella decisione costitutiva della struttura, l’uomo identifica veramente se stesso con la possibilità che sceglie. In quella possibilità che fa sua, egli pone e riconosce se stesso: in quella possibilità, egli si realizza. Acquistandone possesso nell’azione decisa, egli acquista veramente il possesso di se stesso. Non si sente più bilanciato da possibilità diverse e non rincorre più, a caso, l’una o l’altra possibilità abbandonandola subito dopo. L’ha riconosciuta come sua propria, cioè come costitutiva di sé, della sua personalità: e realizza in essa, appunto, questa personalità nella sua unità. Su quella possibilità egli ha deciso, perché ha deciso su se stesso, e ha deciso su se stesso nel senso della sua unità. Ha deciso di possedersi; e di possedersi in quella possibilità privilegiata che ha fatto sua, in cui si è riconosciuto». (Ib., pp. 21-22). Ma come posso privilegiare una possibilità? Non posso eleggerla, caso mai è lei che mi elegge condannandomi a inseguirla a vita senza mai prenderla, un acchiappanuvole? Quale che sia questa possibilità primaria e onniavvolgente, come posso riconoscerla? Sono io la possibilità di me stesso? Ma, in questo caso, debbo solo limitarmi a vivere la mia vita, e in ciò la struttura mi dà una mano. Mi possiedo così? No di certo. Non posso chiudere me stesso in un forziere, la paura stessa me lo impedisce. E quale sarebbe la mia unità? Forse la mia unicità? Ma allora il procedimento condannerebbe la struttura uccidendola per garantire proprio questa ultima eventualità? Non è possibile rispondere. Non è vero che solo l’unità è reale mentre la molteplicità è apparente. Caso mai è vero il contrario, e questo è indubitabile se si esclude l’unicità, legata appunto dalla presenza strutturata.

Queste considerazioni critiche sono confortate dalle parole successive di Abbagnano: «Il movimento strutturale è quindi la realizzazione dell’unità dell’uomo, della sua personalità. È il movimento per il quale l’uomo si impegna nel senso della sua unità e rimane fedele a se stesso. La fedeltà esprime veramente il senso della struttura. Nella struttura, l’uomo decide di essere fedele a se stesso, di essere veramente se stesso, di autopossedersi. Per essa l’uomo acquista un destino». (Ib., p. 22). La fedeltà alla struttura è il sigillo indispensabile all’elezione, è l’irruzione dall’esterno all’interno con tutti i diritti del primo sul secondo. La fedeltà è indispensabile perché i millantatori non hanno diritto alla struttura, raccontano favole e giurano il falso, danno cioè per proprio quello che non lo è affatto. Sono pericolosi e vanno eliminati. Sono senza destino. Questa è la conclusione logica della proposizione sulla fedeltà, la quale prova di che pasta è fatta la positiva versione delle problematiche esistenziali. Alla fine scopro che la possibilità che scelgo per strutturarmi è quella che sono obbligato a scegliere, il che dimostra, come se fosse necessario, che ogni scelta è chiusa per sempre nella banalità non nell’autenticità se non si indirizza verso l’oltrepassamento.

Ma la fedeltà deve comportare una trascendenza. Ecco Abbagnano: «La possibilità trascendentale è il rinvigorirsi, il rafforzarsi ed il fondarsi nella propria possibilità iniziale; è, sotto un certo rispetto, la stessa possibilità iniziale, ma nel suo significato intero, definitivo e pienamente espresso, nel significato procedente al di là, verso il futuro. La possibilità trascendentale costituisce come mia forma finale il mio vero me stesso». (Ib., p. 23). Le possibilità sono così scomparse, la loro ricerca ormai avviene nel grembo degli dèi, cioè si dimostra sfuggente. Da incerta e aperta questa è ora rinchiusa nell’ambito della verità, di una possibilità vera. Non c’è più l’alea di un’impostura, non si corrono rischi, ma tutto è ricondotto in una certezza aggravata dalla fedeltà. La libertà mi è stata concessa da questa possibilità trascendente e sigillata dalla fedeltà, non sono libero – come direbbe Stirner – ma sono un liberto. Per sottrarmi alla dispersione mi sono dovuto sottoporre alla condizione di possesso di me stesso, di autopossesso. Adesso plano al di sopra delle difficoltà, non corro più il pericolo di mancare la mia decisione, sono un deciso, cioè ho fissato i paletti coordinatori della mia vita. Mi sono alla fine realizzato, cioè sono riuscito a radicarmi nella realtà. Non solo, ma questa condizione giace stipata fra altre condizioni umane che si conculcano a vicenda, determinandosi nel convincimento che questo è il modo migliore di essere, cioè costituiscono questa società. Adesso non può neanche più venirmi l’idea di non essere appropriato alla mia condizione, sono la mia realtà e sono la mia energia, questi due aspetti si irradiano a vicenda. Ma c’è una ulteriore dimensione, più ampia.

Ecco ancora Abbagnano: «L’essere di cui io, nella mia finitudine, sono intessuto, mi oltrepassa continuamente, mi porta continuamente al di là di me stesso con la continuità stessa del movimento con il quale io decido di me stesso. Se la costituzione della mia individualità è espressa dal possesso, ch’io realizzo in essa, dell’essere, è evidente che essa implica simultaneamente la costituzione di questo essere. La possibilità singola e definita della quale entro in possesso con la mia decisione, diventa una mia possibilità solo perché cessa di essere soltanto mia, per appartenere ad una sfera che procede al di là della mia finitudine. La possibilità ontica è tale, solo perché è nello stesso tempo una possibilità ontologica. La mia possibilità è tale solo perché appartiene ad un essere che procede al di là di me stesso. La mia decisione è l’instaurazione di un rapporto fra la possibilità ontica e la possibilità ontologica, rapporto necessariamente connesso con l’atto della mia costituzione autentica. La scelta si può definire appunto come questo rapporto. Essa fonda nell’essere la possibilità che mi è propria e che diviene possibilità propria dell’essere». (Ib., pp. 24-25). Qui sembrerebbe che un accenno all’oltrepassamento si faccia strada, ma non è così. Questo non si spinge mai fino ad abbandonare il possesso dove sono ormai radicato. È ciò che mi dà il riconoscimento degli altri, il segno della mia appartenenza alla società degli umani. L’essere che ne va in gioco è la posta mai rischiata veramente perché io sto barando. Come posso impadronirmi dell’essere attraverso una scelta che per definizione non mi è data se non in modo aleatorio? Il fatto di definirla autentica non la fa per questo meno incerta. Come fa a diventare ontologica e contrapporsi a una possibilità ontica? Come fa ad andare oltre se non mi metto in gioco veramente e tengo stretto il possesso di me stesso? C’è qui una tensione che non esiste nella realtà ma solo nel vuoto metafisico, servendo comunque a dare apparenza a una entrata trionfale dell’essere dentro di me. Ponderare a lungo il proprio coinvolgimento significa non individuare l’apertura nascosta da qualche parte, significa esacerbare l’azione in un continuo titubare in attesa di un sostegno esterno che mi garantisca insieme al mio possesso. Questo sostegno può essere il vivere in società con altri uomini, ma non può andare al di là di una socializzazione secondo certe regole, non può trascendere la mia condizione radicata nel possesso, limitata e paurosa.

Invece Abbagnano conferma: «Un essere che mi appartenesse isolandomi mi annullerebbe come individualità; ma l’essere che mi definisce nella mia individualità mi apre alla coesistenza e determina una sfera infinita nella quale sussistono possibilità infinite di incontro, cioè di intelligenza e di comprensione, fra me e l’altro». (Ib., p. 26). Questa definizione – il che qui si applica al di fuori di ogni dubbio, a quanto sembra – mi apre alla coesistenza. La qual cosa palesemente non può essere che un accordo contrattuale, una dichiarazione di autorità delegata reciprocamente, non l’indizio di un afflato comune, della presenza comune dell’essere e non dell’apparenza ingannevole. Non vedevo in questo collegamento – molti anni fa – altro che un riflesso, metafisicamente deformato, del contratto sociale, e non vedo modo adesso di cambiare la mia impressione. Parrebbe che qui Abbagnano voglia riferirsi alla forza che ognuno ha, in maggiore o minore misura, di esprimere se stesso, forza che può affievolirsi fino a tacere del tutto, ma questa è faccenda indistinta e non può giustificare un fondamento ontologico.

Alla fine la possibilità trascendentale assume una posizione di comando, è essa che impone all’uomo non l’essere, che non sarebbe sufficiente, ma il dover essere, cioè gli impone la pura materia normativa, precedente e autorizzatrice di ogni altro significato. L’impegno dell’uomo è così riassunto nel proprio appartenersi e nell’appartenere alla società che lo contiene, lo limita e lo contrassegna. Tutto il resto è ingannevole. L’autenticità dell’uomo è perciò un dover essere, un impegno che sigilla con la fedeltà la propria finitudine. Conclude Abbagnano: «La normatività esprime l’aspetto profondo, sostanziale, della struttura; ciò che la struttura è in sé. Ma ciò che la struttura è in sé, è la norma di ciò che io debbo essere e di ciò che io sono in me, nella mia stessa finitudine. Se l’uomo dicesse che la norma è in lui stesso, la abbasserebbe dalla sua superiorità essenziale e l’annullerebbe come norma; ma la norma è ciò che veramente l’uomo deve essere e perciò è l’essere stesso che lo fonda nella sua finitudine, lo giustifica e lo porta alla sua integrale realizzazione». (Ib., p. 28). L’essere è così individuato in un obbligo liberamente scelto. E poiché sappiamo che la libertà è una donazione trascendentale, l’essere è un obbligo confermato dall’alto. Ogni azione riceve così una investitura e un segno, una elezione che la indica come appartenente all’essere e, in questo modo, è rimandata all’infinito, inconclusa, bisognosa di un continuo riconoscimento. Per sfuggire all’incertezza costitutiva del mondo si costringe l’essere nella camicia di forza di una investitura dall’alto. Difatti in che modo si potrebbe parlare di struttura se non in questo? L’uomo, l’essere e il mondo, sono la stessa cosa vista da angolazioni quantitative diverse, qualitativamente è solo l’essere che è in discussione. Abbagnano parla invece solo di una stretta connessione.

Così scrive: «L’uomo, nella coesistenza degli uomini e nella comune partecipazione all’essere, implica la compresenza di sé come degli altri uomini e dell’essere, in una totalità incondizionata, che è il mondo. Il mondo è dunque una determinazione fondamentale della struttura dell’uomo giacché questa, trascendendo l’uomo, lo pone in un rapporto necessario con l’essere e con gli uomini e quindi in una totalità incondizionata che lo comprende. La natura del mondo è così determinata dall’essere esso la totalità di cui l’uomo fa parte, in virtù della stessa struttura, come struttura trascendente. La condizione della compresenza simultanea dell’uomo, dell’essere e della coesistenza nel mondo è la corporeità, cioè il porsi degli uomini e dell’essere in una molteplicità connessa e tuttavia esteriorizzata, quale è propria dei corpi». (Ib., p. 29). Compresenza come totalità incondizionata, come mondo. Ma come può essere incondizionato qualcosa che è determinato dalla struttura dell’uomo? Questa non è la causa sufficiente della determinatezza? Per cui, se le cose stanno così, dove si ha struttura non c’è mancanza di condizioni. Stupefacente salto mortale. Una generale impressione di estraneità, di necessità piovuta dall’alto. Il corpo è quindi il risultato di un’operazione metafisica. Qualcosa di terribilmente intimo svanisce nel vago di un sistema che partendo dalla scelta torna alla scelta perché incapace di scegliere. E in questo dimostra non tanto la sua povertà metafisica – che sarebbe poca cosa – ma la sua povertà esistenziale, la sua paura di coinvolgersi fino in fondo. L’autore, alzando la zampa sul mondo, mostra la coda.

Che la corporeità sia l’essere non apparente è un abbaglio colossale. Abbagnano scrive: «La corporeità è irriducibile. Essa non può essere ridotta ad apparenza, perché realizza un aspetto fondamentale della struttura che esige la compresenza, in una totalità sistematica, dell’uomo con l’essere e con la comunità coesistente. La corporeità non può essere svalutata, non può essere ridotta a nulla, non può essere trascurata in nessun modo da una comprensione effettiva dell’esistenza umana e deve essere intesa come corporeità, non come velo o apparenza della spiritualità. La connessione esistenziale tra l’uomo e l’essere, che si manifesta nella corporeità del mondo, fa sì che l’uomo, come corpo, abbia bisogno delle cose del mondo. Il bisogno esprime, nei limiti della corporeità dell’uomo, la connessione necessaria dell’uomo col suo essere costitutivo». (Ib., pp. 29-30). È proprio il corpo che subisce i contraccolpi più gravi delle incapacità di fissare l’essere. La sensazione visionaria è fantasia di ciò che di straordinario accade nel coinvolgimento – attenzione, non sulla decisione che si indirizza sempre al fare – e ha influenza di enorme portata sul corpo, che resta attonito e trasferisce l’appello chiamando in causa gli opportuni processi fisiologici. Alla fine, avanzando nell’agire, non decidendo più nel rispetto delle regole di salvaguardia, si oltrepassa il punto di non ritorno e il corpo entra in condizione fisica e mentale di sfacelo,viene trascinato via. Si direbbe che Abbagnano abbia avuto bisogno di ignorare questi problemi parlando di corporeità effettiva, concreta, e non di velo o apparenza. Se l’uomo ha bisogno del mondo in questo modo si impone il parallelo che mi viene in mente – visto il posto in cui mi trovo – che il prigioniero ha bisogno della prigione. Tra l’uomo e il mondo ci stanno due modalità di conoscenza, la prima è il fare con la sua collocazione quantitativa, la seconda è l’agire con la sua prospettiva dinamicamente qualitativa. Né l’uomo sta sopra né il mondo sta sotto, o viceversa. Invece Abbagnano afferma: «Il mondo è il dominio della conoscenza dell’uomo in quanto è conoscenza di cose, è il dominio della percezione e della utilizzazione delle cose come strumenti, è il dominio della scienza che osserva e misura le cose nella loro strumentalità». (Ib., p. 30). Nessuna di queste affermazioni sfugge all’idea di dominio e l’uso ripetuto di questa parola indica chiaramente di cosa il filosofo è procuratore, della caverna dei massacri. Ma il dominio, come il possesso, sono concetti filosofici che sfuggono al controllo che presuppongono. Più si stringe il mondo, e per me l’altro è l’immagine concreta del mondo ben più della vaga e controversa natura, e più questo scivola via, si presenta ogni volta drasticamente diverso, reagisce, contrattacca, non si lascia possedere, reclama la sua inviolabile alterità. E ogni dominio non ha ritorno. Il rapporto è partito male e male si conclude, le sue affermazioni, li trattengo presso di me, in mio possesso, sono estreme e irrealizzabili. La torsione che si è imposta all’altro è quindi irreversibile, il rapporto ne viene condizionato per sempre, rimane squilibrato. Mettendo da parte le pretese di dominio le cose cambiano, il mondo resta problematico e l’altro continua a non concedersi ma per differenti motivi, perché vuole essere cercato da me, e io devo andare a cercarlo per essere con lui, non per possederlo ma per coinvolgerlo nell’oltrepassamento del fare come semplice quantità, per progettargli la qualità possibile del nostro rapporto. In questo senso il mondo e l’altro sono la medesima cosa.

Confondendo il fare con l’agire Abbagnano colloca nella decisione più futuro di quanto ce ne possa stare, ne deriva che questa si dilata e appare ciò che non è, appare coinvolgimento quando è semplice presa di distanza. Egli scrive: «L’atto con cui l’uomo tende a costituire nell’essere la possibilità che gli è propria, è anche l’atto con il quale l’essere viene incontro all’uomo per fondarlo nella sua finitudine. Questo venire incontro dell’essere all’uomo è l’avvenire, come determinazione fondamentale della temporalità. Ma è un venire incontro problematico, che non elimina il rischio dell’uomo e perciò appunto è un avvenire. La problematicità nel suo aspetto temporale è la nullità possibile delle possibilità dell’uomo, cioè la possibilità connessa a tutte le possibilità che l’uomo sceglie e fa sue di non riuscire a fondarsi nell’essere e di andare perdute. La decisione dell’uomo, quando è autentica, lo impegna e perciò lo garantisce nella sua costituzione, ma non elimina la problematicità, anzi la riconferma». (Ib., pp. 30-31). Come mai l’essere si muove verso la decisione del singolo se questa è mero fare? Abbagnano si rende conto che qui c’è una contraddizione e parla di “atto”, ma non basta la parola. Ovviamente non posso decidere di agire, posso solo decidere di fare. Il tempo che da futuro si fa presente per essere poi passato può benissimo scivolare inosservato sul mio fare, nulla mi assicura di questo passare del tempo, anzi c’è proprio un’industria che costruisce meccanismi per migliorare il passatempo, ed è questa proprio la vita divertita nel senso di Pascal, la vita amministrata che se mantiene una certa consanguineità con la vita vissuta in modo cosciente, qualitativamente cosciente, non è in grado di guardare al destino e di parlargli. L’avvenire può certo riservare sorprese, ma questa è aleatorietà non problematicità. L’azzeramento della possibilità di scelta era alla fonte non alla foce e non c’è decisione “autentica” che possa evitarlo. L’azione mi coinvolge, e viceversa, ma non mi autentica, non mi garantisce, e qui sembra proprio che la temporalità scorra in vista di questo fondamento. Non è una differenza di stile ma di sostanza. Non vengo espulso dal fare perché vi resto prigioniero ma dall’agire posso essere mandato via e ritrovarmi di fronte al “basta” che uccide la qualità. Come posso affidare al tempo il compito di sigillare la mia fragilità fino all’ultima riga se non resto sulla soglia e in guardia ma mi rintano “conservandomi fedele”? Ho il sospetto che si voglia mantenere problematico proprio quello che prima è stato messo al sicuro in solaio.

Come essere d’accordo con formulazioni come la seguente: «Nulla accade veramente nell’esistenza dell’uomo senza la sua scelta. La struttura dell’uomo è essenzialmente libertà, libertà che non è indifferenza, ma normatività, dover essere: dover essere della personalità finita dell’uomo e perciò dell’essere universale che la fonda, e della comunità che in questo essere trova il suo terreno d’incontro e di intelligenza reciproca. Continuamente l’uomo si trova dinanzi all’alternativa cruciale fra l’essere e il non essere, fra il possesso di sé nel possesso delle proprie possibilità, ed il disperdersi e il banalizzarsi di queste possibilità, tra una vita anonima ed insignificante ed una vita intensa e significativa che si radichi nella storia». (Ib., p. 32). Se l’equivalenza tra libertà e norma fosse vera sarebbe altrettanto vera l’affermazione scritta dai nazisti sui loro lager che “il lavoro rende liberi”. Una differenza c’è, ed è sostanziale, non una linea sottile, una soglia trascurabile, e questa differenza si incontra dovunque. È terrorizzante fare combaciare queste due divergenti realtà. Il dover essere non è l’essere, e su questo l’ironia di Hegel non può dimenticarsi. Non c’è un essere universale – forse si parla della vita? – che può fondare l’essere particolare, incontrandolo nella società. Abbagnano continua a parlare di comunità ma ho il sospetto, mantenuto dagli anni lontani, che qui ci sia un po’ di confusione. La vita universale è concetto spurio, pericoloso e biologicamente incerto, se non altro riguardo ai limiti in cui si può parlare di vita e quelli in cui si deve parlare di morte. L’essere è e il disperdersi non è, oppure quest’ultimo appare soltanto contrapponendosi al primo? Non lo so. Non metterei la contrapposizione in questi termini. Il banalizzare la propria vita è forse morire? Non credo. Insegnare in una grande università, filosofia o economia, è forse un’alternativa cruciale allo scrivere queste righe nella cella di un carcere greco in una tiepida notte di febbraio? Non credo. Qualcosa avvolge la mia vita e mi dice con uno sprazzo di lucidità che l’accumulo quantitativo, il successo e la garanzia non sono la vita. Sono stanco e vecchio, i miei piedi sono doloranti per la carenza di circolazione sanguigna e ho un forte dolore alla spalla sinistra ma il mio cuore è saldo e il mio cervello non ha lassi di torpore. Non ho nulla da contrapporre all’antico maestro, ma i miei conti non tornano conducendoli con il suo metodo. Come faccio a radicarmi nella storia grazie alla mia autenticità? Se c’è qualcosa che mi permette o mi agevola allora non sono io che entro nella storia ma è una gentile concessione, nulla a che vedere con la mia libertà. Se questo qualcosa è la mia autenticità, allora è sempre della mia scelta che si tratta, e così si torna al punto di partenza. Ed ecco la stupefacente conclusione: «La libertà dell’uomo è garantita dal rinnovarsi incessante di questo appello. Certo l’uomo può anche non ascoltarlo, e questa possibilità è effettiva e reale; è la possibilità del peccato». (Ib., p. 32). Si tratta dell’appello dell’autenticità. Qui si resta sul colpo, non c’è modo di giustificare questo passaggio. E così continua: «Il peccato è la dispersione, la superficialità, l’abbandonarsi, il gettarsi nella vita così come viene, l’incapacità di coordinarla e di dominarla e perciò l’incapacità di dominarsi e di possedersi. Il peccato è una possibilità effettiva, inerente alla struttura. Esso è legato alla temporalità, che è il fondamento della nullità possibile della costituzione propria dell’uomo. Banalizzando e disperdendo le possibilità dell’uomo, il peccato rende anonima ed insignificante la sua vita, impedisce il costituirsi della sua personalità, lo isola e lo nasconde all’essere ed alla coesistenza». (Ibidem). In altri termini, finalmente evidenti, il peccato è la forma della vita non garantita né direttamente né indirettamente, la vita libera che subisce continue metamorfosi, che non accetta la cupezza del rinchiuso, che non si fa registrare, che è incapace di fondare qualcosa e di dichiararla proprio possesso. Il peccato è la vita che vale la pena di vivere, che entra senza chiedere permesso, che non esercita sortilegi metafisici perché non ne ha bisogno, che non annega nelle more di un interminabile fare. E la dimostrazione di questa negatività del peccato è che la vita non è positiva salvaguardia di se stessa ma allargamento, coinvolgimento, caos, dispersione, movimento, oltrepassamento, tutto quello che si può pensare di contrario alla conservazione. Conservare è mummificare, morire, negare la vita. Difatti Abbagnano afferma che per “vincere il peccato” occorre la “fedeltà dell’uomo a se stesso” (ib., p. 33), in altre parole, la permanenza. Ulteriore stupefacente affermazione. «Sottrarsi alla dispersione, vincere il peccato è possibile solo con una scelta che decida la fedeltà dell’uomo a se stesso. Questa fedeltà, è la fedeltà dell’uomo alla sua propria finitudine. La finitudine non deve essere misconosciuta e rinnegata: deve essere riconosciuta, accettata e realizzata fino in fondo. Se viene rinnegata e misconosciuta è una catena che si trascina senza saperlo, ma che inceppa ogni movimento e rende impossibile ogni creazione. Ma se viene accettata e riconosciuta, se viene realizzata fino in fondo, diventa la sostanza stessa della libertà. L’uomo allora si autolimita nella sua propria finitudine, diventa capace di passione». (Ib., p. 33). La passione è misura claustrofobica della vita, autolimitazione. Pensiero torturante. La scelta è libera e appassionata. Banalità da respingere, ogni contenuto degno di questo nome è precluso. Rimaniamo dove siamo, per carità, non facciamo neanche rumore, potrebbe svegliarsi la negatività e attirarci in una terra desolata. Non c’è modo di capire come la fedeltà possa installare l’uomo nel proprio destino. Che senso hanno queste parole? Non significa così scegliersi una vita nascosta e prudente e coprirla, per ulteriore cautela, con un cortinaggio che illuda il futuro sulle nostre possibilità? Non significa scambiare per vera una avvilente contraffazione?

A riprova di queste distanze non appianate, che sovrastano i tanti piani della teoria di Abbagnano, sta il passaggio della passione che dovrebbe ravvivare il fare per farlo diventare agire di fronte all’eventualità della morte, sempre presente, non come un velo che copre la realtà ma come sua componente operativa. Così continua: «Come fatto essa [la morte] ci è estranea, come possibilità determina tutta la nostra natura e tutta la nostra esistenza. Il senso della morte è infatti il senso stesso della problematicità dell’esistenza e quindi della sua temporalità. Tutte le possibilità dell’uomo sono tali che possono non essere, e l’uomo stesso, nella forma generale del suo esistere, è tale che può non essere. Questa possibilità è sempre lì, a determinare la problematicità essenziale della nostra costituzione. La natura della problematicità temporale è infatti in ciò, che essa può cessare di essere problematicità, può degradarsi dalla sua essenza. L’uomo non è quello che è con in più la possibilità della morte: egli è quello che è, proprio in virtù di questa possibilità». (Ib., pp. 34-35). Si può essere d’accordo con il considerare la morte come fatto non attinente al nostro fare, ma questo significa affermare una tautologia. Morire non è un fare, solo uccidersi lo è, ma è ancora meno un agire. Riferendosi alla possibilità dell’uomo di non essere qui viene scelta la parola errata. Non essere non è una possibilità, ma ancora una volta un fatto. In ogni caso, non è l’altra faccia dell’essere, la sua faccia oscura, il suo lato sordido. Basterà un attimo e a testimoniare la morte, nell’attimo stesso, ecco apparire la sua piena realtà come assenza della vita, operante nello sconvolgimento di qualsiasi assetto precauzionale. La morte è il niente che accerchia la vita e non il contrario, se entra nella vita lo fa come paura, come limite, come monito – il teschio sul tavolo dei mistici – comunque come un’estranea, sempre presente e sempre assente, dell’assenza di cui ha corpo e consistenza il niente. Si può ritenere la morte una possibilità, di certo lo è di ogni fare, anche del più casalingo e custodito, non lo è dell’agire. Nel coinvolgimento la morte non è presa in considerazione, anche il rischio mortale, fisicamente pieno, è quasi sempre più alto. Vivere è avere coscienza di vivere, cioè andare oltre le apparenze vitali del fare, dove in ogni caso aleggia l’ombra del cimitero. Vivere è agire, fare è un vivere rassegnato all’ombra dei cipressi.

Per cui, conclude Abbagnano: «Chi risolve di non pensare alla morte, rincorre affannosamente le possibilità che gli si prospettano senza possederne nessuna e senza possedersi in nessuna. Chi risolve di pensare alla morte come alla sola alternativa della sua vita, perde anch’egli le proprie possibilità e se stesso e si disperde nell’angoscia. Chi accetta la morte come tale e la teme fuori del pericolo, rimane attaccato alla possibilità che ha scelta come sua propria e ne fa la sua missione e il suo compito fondamentale per tutte le sue forze e al di là delle sue forze. La fedeltà alla morte esprime, in questo caso, l’autenticità propria dell’esistenza che si è realizzata nella struttura, costituendo l’uomo nella sua unità propria, cioè nel suo rapporto necessario con l’essere universale e con la comunità coesistente. Essa è il solo atteggiamento degno dell’uomo». (Ib., pp. 35-36). Non pensare alla morte è tipico del fare – Abbagnano non lo sottolinea, lo sfiora senz’altro – ed è proprio nel fare che si è più vicini alla morte. Pensarci a fondo, sempre nel fare, significa già avere perso la propria forza di vita, vivere nella paura. Accettarla come presente anche prima del coinvolgimento è un disporsi all’apertura – nel senso di Pascal – e quindi veramente non farla entrare nella propria azione, neanche come eventualità limite, neanche quando è l’azione stessa che la rende più palpabile, più vicina. Nell’agire la morte non è più là, è una invisibile forza che sfiora ma non condiziona l’azione, che non scrive in ogni pagina della nostra vita, come accade nel fare. Questo fatto non riguarda l’autenticità dell’essere ma solo il suo oltrepassamento, il suo passaggio dal fare all’agire, la sua richiesta di una sostanza diversa, priva di apparati, di custodie, di salvaguardie apparenti, di prossimità rassicuranti. Il tentativo dell’agire è libero dalla paura, quindi anche dalla paura della morte, e l’azione è in questo territorio che esiste, cioè semplicemente è. Dalla parte del fare abita la paura e il bisogno di custodire ciò che si possiede, qualsiasi cosa questo possesso rappresenti, potere e denaro, l’amore o la conoscenza, tutto viene messo in cassaforte, e qui imputridisce.

Ed eccoci all’esistenzialismo vero e proprio, come dottrina filosofica. Abbagnano scrive: «Il primo motivo della forza dell’esistenzialismo è che esso non è soltanto una dottrina filosofica: non si realizza solo nei filosofi che lavorano a chiarirne a sé e agli altri le ragioni». (Ib., p. 38). Elemento di forza dell’esistenzialismo è quindi sia il suo essere teoria filosofica sia il suo essere un “atteggiamento” deviante dai compiti che l’uomo deve assolvere nel mondo. Di già questa posizione taglia un piccolo pezzo dell’esistenzialismo e lo riduce solo alla fattoria del filosofo positivo che non può non imporsi obblighi e compiti. Come farebbe altrimenti a rifornire la caverna dei massacri? Insomma l’esistenzialismo è filosofia della vita insieme, alla quale l’individuo deve pur inchinarsi, non vi pare?

«Il secondo motivo della sua forza è che esso include e fa valere nella concretezza dell’esistenza singola tutte le esigenze della vita propriamente umana. Nulla di ciò che è umano gli è estraneo. La scienza e la religione, l’arte e la politica, trovano ugualmente il loro fondamento nell’esistenza effettiva alla quale esso fa appello». (Ib., p. 39). L’antico detto latino si ripresenta puntualmente (la frase di Terenzio dice: “Homo sum: umani nihil a me alienum puto”). Tutti i rapporti vanno ammessi, solo quelli disumani vanno esclusi e mai si dovranno ammettere. Per questo esistono carceri e manicomi. Talvolta la linea di demarcazione si sovrappone e allora i rapporti si esasperano, diventano elusivi o debordanti, in ogni caso ingannevoli. L’esistenza è tutto, l’apparenza niente. Ma non esistendo l’apparenza che pure incontriamo di continuo, tutto non si nientifica nella unificazione di essere e apparire? A me sembra così.

«Il terzo elemento di forza dell’esistenzialismo è la sua capacità di rendere attuali, nella loro verità, i filosofi del passato. Esso realizza la vera storicità della filosofia, perché evita da un lato l’adattamento arbitrario dei filosofi del passato alle nostre esigenze attuali e dall’altro l’impossibile sacrificio delle esigenze attuali alle pretese di una filosofia perenne che si ponga come tale indipendentemente da ogni rapporto con noi». (Ibidem). Qui c’è una perorazione pro domo sua. Abbagnano tiene conto della sua Storia della filosofia, dove l’ipotesi qui contenuta è esplicitata alla fine del lavoro. Solo che non riesce convincente nell’affermare di potere riconoscere la “vera” personalità di un filosofo nell’atto in cui “affermiamo la nostra personalità nell’urgenza e nella forza delle sue rivendicazioni”. Qui sotto c’è la coda del professore che giustappone il proprio lavoro alla propria vita, annullando questa per salvare e giustificare quello. E di un presente che volesse proporsi – non dico ergersi – spiccando solitario in modo diverso? Come fronteggiare il cataclisma di un metodo leggermente discostato dal suddetto paradigma? Non è vero che sia una cosa automatica stabilire contatti tra modelli differenti di affrontare la conoscenza, perché di questo qui si tratta. Ci può essere un territorio con un solo abitante, ebbene, se è così, questo pericolo sovvertitore deve essere spazzato via. Nessun commento sull’impresa, il flusso verso la caverna dei massacri si mantiene costante.

Riguardo alla considerazione oggettiva del problema dell’essere, Abbagnano scrive: «L’impossibilità fondamentale che l’uomo si possa conoscere e che quindi la ricerca del suo essere possa esser ridotto a conoscenza, sta nel fatto che la conoscenza suppone che l’io e il mondo siano già costituiti nella loro separazione, mentre la ricerca dell’essere include il problema della loro costituzione. La conoscenza presenta sempre una situazione polarizzata nella quale l’oggetto si distingue e si oppone al soggetto; essa suppone la totalità della quale soggetto e oggetto fanno parte nella loro polarizzazione correlativa. Ma questa totalità, il mondo, non può essere a sua volta oggetto di conoscenza. Perché ci sia un mondo e perché io nell’atto di conoscere mi radichi in esso è problema che la conoscenza fa nascere ma che essa non può risolvere». (Ib., pp. 40-41). Qui si potrebbe vedere un certo accordo con questa tesi se non fosse per il concetto finale di radicamento. Nell’atto di conoscere come faccio a radicarmi nel mondo? Di già, in questa prospettiva più che annunciata, la differenza tra io e mondo è spuria e andrebbe ridiscussa. L’oggetto e il soggetto sono strumenti utilizzabili, cioè logici solo nell’a poco a poco in cui la conoscenza si sistema, cioè si fa sistema sotto la sollecitazione di una spinta sistematica. In caso contrario non si possono che annotare commenti a margine. La conoscenza affluisce e non chiede permesso in un viaggio senza fine. L’accostamento all’accumulo del di già conosciuto e l’afflusso di ciò che si sta conoscendo sono due organizzazioni o campi di forze adiacenti che vengono in contatto, altrimenti non è il mondo a sparire ma la conoscenza e tutto annega nella nebbia dove risuonano le urla dei dannati.

Riguardo alla considerazione soggettiva del problema dell’essere Abbagnano precisa: «La considerazione subiettiva toglie al problema dell’individualità singola e del suo destino, cioè al problema dell’uomo veramente esistente, ogni significato. Riducendo l’essere alla razionalità, toglie ed annulla la possibilità di un problema dell’essere, perché sostituisce una necessità rigorosa, una connessione obbligata di determinazioni e di momenti a quella instabilità, a quella indeterminazione fondamentale dalla quale nasce la domanda che cosa è l’essere? Questa domanda ha un valore soltanto per l’esistenza e nell’esistenza del singolo. Ma il singolo, nel caso dell’immanenza totale dell’essere alla soggettività, ha perduto ogni consistenza: è stato assimilato e digerito dall’universale pensiero». (Ib., p. 42). Se l’essere è solo la ragione non c’è altro che una necessità e nessuna problematicità nella vita, il che è palesemente in contrasto con l’osservazione anche superficiale. Lo stesso fare è insicuro di sé, ha una sensibilità un po’ ottusa ma facilmente vulnerabile, pronta ad acutizzarsi nell’agire patendo fortemente di fronte a una impossibile trasformazione. Ma, anche eliminando una connessione deterministica assoluta, nella versione positiva della problematicità c’è una base che rilancia la richiesta di certezza fondata, di fedeltà. L’essere non può né chiudersi né venire chiuso, queste due versioni si equivalgono separate solo da una delicata ragnatela e Abbagnano non se ne accorge. Se il soggettivismo pensa di essere lui stesso ciò che è e non può non essere, il problematicismo positivo pensa di potere catturare l’essere in modo che ciò di cui si viene in possesso – grazie all’autenticità della scelta e alla fedeltà del radicamento – resti ciò che è. Se il primo non domanda, il secondo fa una domanda retorica o, almeno, una domanda che aspetta una risposta garantita. La ragione vuole dominare, sia nell’universale concretezza sia in quella particolare. In ogni caso non si è mai in grado di valutare le conseguenze letali della sua estensione. La ghigliottina alza e abbassa la mannaia sempre guidata dalla ragione, è questa la legge della caverna dei massacri. La trascendenza partendo da me stesso perviene – o può pervenire – a un qualche fondamento senza di me stesso, secondo la metafisica esistenziale, solo attraverso la scelta autentica, ma essa è pure sempre una gita nella ragione universale dove sembrerebbe dimorare l’essere in attesa di venire strappato via e portato nei guai della coesistenza limitata e contraddittoria. Mi muovo verso l’essere e lo porto con me nell’apparenza, così lo nientifico unificandolo in me, credo che un sospetto del genere sia venuto anche a Sartre. Abbagnano capovolge il ragionamento. L’essere non è nell’apparenza del non autentico, autenticandomi lo colgo e lo porto con me ma non lo nientifico perché non sono più l’io smarrito ma quello che si è ritrovato grazie alla scelta autentica. E qui Abbagnano accenna all’oltrepassamento e dice: «L’individuo non può esistere se non trascendendo se stesso e muovendo verso l’essere; ma questo implica che l’essere non è immanente alla soggettività che egli incarna. L’esistenza è bensì la costituzione di un rapporto tra me e l’essere; ma questo rapporto si stabilisce proprio nell’atto in cui procedo al di là di me, in cui mi limito per oltrepassarmi. L’universalità è costituita da questo rapporto con l’essere, che fonda l’individualità, non l’annulla. L’universalità è nell’oltrepassamento ch’io faccio di me stesso, esistendo, non in me stesso. L’universalità è la portata e la direzione del mio movimento esistenziale che cerca l’essere e si rapporta all’essere: non è l’immanenza dell’essere alla mia ragione». (Ib., p. 43). Va bene, ma per andare dove? Per restare a casa propria, ecco la risposta, oltrepassare la soglia di casa per poi rientrare dalla finestra.

Rifiutando l’oggettivismo Abbagnano abbandona il fondamento conoscitivo, rifiutando il soggettivismo abbandona la ragione universale, con ciò sottrae forza sia alla capacità conoscitiva – ed ecco la sua radicale opposizione al mio modo di accostarmi alla conoscenza – sia alla ragione costitutiva e selettiva che organizza e regge il pensiero. In questo modo egli polemizza con Heidegger e con Jaspers. Vuole, in altri termini, porsi il problema del rapporto con l’essere, la ricerca dell’essere, e ciò come risposta a una tensione verso l’essere. Qui riposa un equivoco che non mi è stato facile – a suo tempo – dirimere. Sembra che qui ci si avvii alla conclusione che andando dall’apparenza all’essere, come suprema tensione, mi unificherei nel niente. Non è così, tranquillizziamoci. Abbagnano ci tiene a disilluderci, precisando la sua posizione e distinguendo, un po’ grossolanamente a dire il vero, nel modo seguente: «In primo luogo, io posso considerare come fondamento dell’esistere il fatto che, per rapportarsi all’essere, esso si stacca dal nulla. In tal caso, il distacco dal nulla ed in ultima analisi il nulla stesso determinano la natura dell’esistenza. Ma poiché l’esistenza non si stacca mai dal nulla, in quanto non si identifica mai con l’essere, così essa è definita in questo caso dalla impossibilità che essa non sia nulla.

«In secondo luogo, posso considerare come tratto saliente dell’esistenza, il suo rapporto con l’essere, il suo trascendere verso l’essere. Ma poiché il rapporto con l’essere che l’esistenza può instaurare non è mai raggiungimento dell’essere e identificazione con l’essere, l’esistenza è definita in questo caso dalla impossibilità che essa sia l’essere.

«In terzo luogo, io posso considerare come tratto saliente dell’esistenza lo stesso rapporto con l’essere in cui essa consiste. In tal caso l’esistenza è definita dalla possibilità che essa sia il rapporto con l’essere». (Ib., p. 45). Heidegger conclude per il nulla come essere colto dall’esistenza, Jaspers per l’impossibilità dell’essere a esistere fuori del nulla, Abbagnano dalla possibilità che definisce – notare questo verbo – il rapporto tra essere ed esistenza, conclude per una positiva identità di essere nella vita, perfino nel fare che resta se stesso e non si oltrepassa nell’agire.

Oltrepassare – se mai questo movimento è passato per la testa di Abbagnano – rende facile il peccato, cioè la perdita del possesso, viene a mancare così il respiro della sicurezza, l’afflato della fedeltà. La positività si svolge verso il basso, concorda con la rassicurazione del fare, rende invalicabile la spaccatura con l’agire, chiude la vita fra le oscure pareti della fedeltà, dove non è facile perdersi. Per Abbagnano, Heidegger non riesce a staccarsi dal nulla, quindi abbraccia una vita inferiore, caotica, insignificante. Vi canta attorno, la sublima a sistema cesellando le parole con il ricorso al gioco ermeneutico, si chiude in un balenio di lame guerresche. Jaspers invece non ha modo di riattaccare l’esistenza all’essere, così vaga nelle incertezze delle tante situazioni sostitutive che le offrono apparenze fino ad annullarsi. Una resa di senso senza consistenza e coesistenza, attributi che sfumano nella nebbia, fisiologia incomprensibile di un corpo squilibrato, sostanzialmente negativo, impenetrabile. In tutti e due i casi, continua Abbagnano, per queste filosofie: «Esse riducono l’esistenza ad una impossibilità fondamentale – impossibilità di staccarsi dal niente, impossibilità di agganciarsi all’essere, cioè alla necessità e al determinismo. Con la negazione della problematicità del rapporto e con la sua riduzione ad una impossibilità, sono negate l’indeterminazione e la libertà. Esse riducono la decisione e la scelta esistenziali a decidere quello che già è stato deciso, a scegliere quello che già è stato scelto. Esse tolgono all’impegno esistenziale la sua libertà, lo riducono ad una determinazione predestinata». (Ib., pp. 46-47).

Negazione della libertà e predestinazione. Qui Abbagnano ribalta alcuni dei difetti della sua impostazione – che praticamente già ci ha fatto conoscere – su Heidegger e su Jaspers, accusandoli di determinismo e parla, per la prima volta, di “fedeltà libera”, contraddizione in termini che inficia la sua critica in maniera più grave di quanto lui stesso poteva immaginare. Lo squilibrio della vita della possibilità – che resta una modulazione garantista dell’apparenza – è immedicabile, a causa di esso niente è più sicuro, nemmeno la sicurezza dei muri alti che circondano questo carcere di Korydallos. Anzi, il più delle volte, è proprio l’insistenza assicurativa a fare precipitare lo squilibrio nel fuori misura della strada sbagliata. Aggiustare – o cercare di farlo – spesso è peggio di sfasciare del tutto. Al contrario, la mia vita – secondo Abbagnano – non può entrare nella realtà, cioè realizzarsi, che nella possibilità autentica di un rapporto con l’essere, o meglio, “con l’originaria, trascendentale problematicità di questo rapporto”. Egli scrive: «L’esistenza non ha altro modo di realizzarsi propriamente che quello di realizzarsi come possibilità del rapporto con l’essere, cioè come l’originaria, trascendentale problematicità di questo rapporto. L’esistenza non è abbandonata o lanciata verso l’essere, in modo che essa non possa riconoscersi se non nella impossibilità di attaccarsi all’essere o di distaccarsi dal nulla. L’esistenza si pone nel rapporto con l’essere riconoscendosi come pura possibilità di questo rapporto e rimanendo fedele alla problematicità della sua struttura». (Ib., p. 47). La vita deve guardare a se stessa, al rapporto con se stessa. Non può considerare il nulla, o meglio il niente, come direi io, dove c’è una profonda differenza di condizione, niente da cui pur muove o l’essere da cui pur muove, ma al rapporto che instaura con se stessa e alla fedeltà di questo rapporto. Qui sembra che deve restare fedele alla propria unicità e problematicità, ma non è così. Difatti è la consistenza che fonda l’esistenza in se stessa impedendo la dispersione nel niente o l’impossibilità dell’essere. È pertanto una sostanza che va riconosciuta nella sua originaria problematicità. Ma quest’ultima sostanza , se è determinata, può essere conosciuta, quindi riconosciuta, cioè identificata, se è indeterminata resta un aspetto crudo e scomposto, molto simile al caos dell’essere, inafferrabile e disadatto al modellamento. Cercare di scoprire lacune in questa ressa è come individuare qualcuno a partire da un rigoroso isolamento, da una chiusura stagna. Non ci sono sottrazioni possibili, il battito è persistente e sicuro, inamovibile. La sostanza è l’apparenza classica della metafisica, non c’è sostanza dove non c’è causa e non c’è causa che sia causa di sé a parte Dio. Se l’essere è causa della vita c’è un cerchio che si chiude, se la causa è il nulla il cerchio non si apre, se la causa è la vita stessa il cerchio non esiste. Le tre soluzioni sono tutte e tre metafisiche, hanno cioè la propria giustificazione nelle nebbie di un sistema. Difatti Abbagnano è costretto a precisare: «Se si definisce l’esistenza rispetto al suo rapporto con l’essere, l’esigenza di consolidare e fondare questo rapporto agisce come norma interiore nella costituzione dell’esistenza e come principio valutativo delle possibilità che le si offrono. Io debbo scegliere ciò che mi consolida e mi rafforza nel mio rapporto con l’essere, vale a dire ciò che garantisce la possibilità di questo rapporto: debbo scegliere di essere l’originaria problematicità di quel rapporto. Se quel rapporto costituisce, per la sua problematicità, la mia sostanza, io debbo rimaner fedele alla mia sostanza, e realizzarla nella mia decisione. La sostanza problematica della mia struttura esistenziale è così la norma della mia decisione, norma che mi sottrae all’indifferenza e all’equivalenza delle possibilità e le raccoglie e le valuta sul fondamento della loro unità sostanziale». (Ib., p. 48). Dove suonano a morto parole metafisiche per eccellenza come “consolida”, “rafforza”, “garantisce”, “costituisce”, “rimaner fedele”, “norma”, “fondamento”. Come si può parlare di libertà in queste condizioni di reclutamento amministrativo? Ci si procura soltanto un salvacondotto per giustificare il sommo concetto metafisico, quello di sostanza, gesto teorico inefficace quanto altri mai, che non può raggiungere nessun radicamento se non nell’apparenza del fare, una specie di smercio ufficiale di indulgenze che propone una lineare nettezza a livello formale, per poi annegare nel ristagno della ripetitività del fare che fornisce la caverna dei massacri.

Non c’è dubbio che Abbagnano è bravo nel formulare e riformulare la sua tesi. «Certamente, per me che esisto, l’essere è una possibilità di essere e, come possibilità, può anche esser nulla. Ma la mia esistenza non dipende propriamente né dal nulla né dall’essere, ma dalla possibilità di essere nella quale mi costituisco: la sua sostanza è dunque soltanto il fondamento trascendentale, la condizione della possibilità, cioè la problematicità per la quale essa è quello che è. E il mio compito sarà quello di garantire e di rafforzare la possibilità del mio essere consolidandola nella sua condizione trascendentale, realizzandola nella sua problematicità originaria e ultima». (Ib., p. 49). Scoperto il meccanismo positivo – diciamo, ancora una volta, casalingo – non si vede che solo la patina della bravura, una questione di mestiere conseguito sulle dottrine di filosofi lungamente studiate. Non potendo imprigionare l’essere e l’apparenza, imprigiona la loro unificazione, il niente. La vita è questo niente – vuota di qualità – se non la si vive veramente oltrepassandone i limiti quantitativi. Ciò potrebbe essere sottointeso dalla problematicità della scelta autentica ma non dovrebbe mancare l’indicazione di parzialità del fare, che invece manca nel passaggio all’essere. La precarietà del rapporto problematico non può che rimanere tale né può darsi fedeltà che possa cambiarlo in qualcosa di stabile o autenticità che possa fare vivere un cadavere. Un problema, di per sé, muore nella soluzione, se questa ripresenta nuovamente il problema non era una soluzione ma un’apparenza. Se l’essere è la qualità e l’apparenza la quantità il rapporto problematico è posto in altri termini. Ma qui Abbagnano resta lontano, e io con lui all’epoca ero lontano da queste conclusioni.

Così egli annota: «Il problema dell’essere definisce dunque lo stato di un ente del quale l’essere non costituisce un possesso ma una possibilità. Come stato di un ente, il problema non ha bisogno di essere formulato astrattamente o verbalmente per sussistere come problema. Esso costituisce l’ente nel senso di determinare dall’interno tutte le manifestazioni e tutti gli atteggiamenti concreti di esso. Dubbio e certezza, attesa e timore, azione e disperazione, sono tutti modi singoli e concreti del problema dell’essere perché sono tutti determinati dalla instabilità del rapporto tra l’ente e l’essere. La felicità di un ritrovamento e di un possesso, tanto prezioso quanto più soggetto al rischio della perdita, l’amarezza di uno scacco, l’angoscia di una impossibilità, la vittoria e il disastro, racchiudono egualmente il senso profondo e totale del problema dell’essere, della instabilità del rapporto in cui l’ente è con l’essere, della precarietà del suo possesso, del rischio che vi è connesso. Il problema dell’essere vive non già nell’incapsulamento concettuale e verbale delle dottrine filosofiche, ma nello stesso essere costitutivo dell’ente: nella sua vita temporale, nella sua limitatezza, nel suo destino». (Ib., p. 50). Questo ente – acciacchi della metafisica – è l’uomo. Le caratteristiche dell’uomo costituiscono la sua vita. Mancanze e lacune, dubbi, incertezze e paure, tutto ciò dilaga nel desiderio del possesso quantitativo e nell’ambito non soddisfatto della qualità. Nel fare quasi sempre nemmeno si sa in che territorio ci si è persi, si brancola nel buio. Spaesamento e sconcerto. Stupore e attesa di garanzia. Se l’eventuale perdita di un possesso è un rischio presente, ma che si vuole evitare, ci si barrica dentro, il rischio scompare perché non lo si invera nell’oltrepassamento e tutto rimane come prima. Non ci può essere la felicità di toccare questo possesso incontaminato, come lascia intendere Abbagnano, perché non si è corso nessun rischio vero e proprio ma solo l’apparenza di un rischio, un rischio intellettuale. Che scacco ci può essere a giocarsi la vita in un’aula universitaria o nella sede di una casa editrice? Una inappariscente frustrazione ferma la vita e viene così scambiata per gioco rischioso, per messa in gioco di sé. Pensieri filosofici, non un reale rischio della propria vita di fronte all’oltrepassamento del fare. Affermare che la problematicità dell’essere vive nella condizione costitutiva dell’uomo è un vedere le cose dall’esterno, con la lente opportunamente graduata dell’entomologo. Difatti Abbagnano dichiara: «L’uomo può anche raggiungere la sicurezza e la pace di un possesso dell’essere; ma può raggiungerla solo a patto di conquistarla e solo a rischio di perderla ogni momento. L’uomo può ribellarsi e sfuggire a qualsiasi determinazione; non può ribellarsi e sfuggire al problema dell’essere perché la possibilità stessa della ribellione, come dell’accettazione, è in questo problema che costituisce la sua natura. Accettare di essere qualcosa o rifiutarsi di esserlo, è possibile solo ad un ente per cui l’essere sia un problema e a cui il rapporto con l’essere sia dato nella forma di una instabilità fondamentale». (Ib., p. 51). Sicurezza e pace. Simboli ancora una volta cimiteriali, ma simboli preziosi. Comunque c’è qualcosa di irridente in questa conclusione incongrua basata su conquista e possesso, termini guerreschi. Come se l’uomo non possa mai fuggire da questa prospettiva cristallizzata e infantile. È una sconcertante prospettiva che si trova frequentemente in Abbagnano e che spero sia avanzata come risposta positiva a una probabile perdita o prospettiva negativa.

La condizione specifica dell’uomo è pertanto contraria a ogni determinazione, e la pace e il possesso non possono essere elementi di questa condizione. Egli così controbatte: «L’indeterminazione è lo stato proprio dell’uomo come possibilità di essere. L’uomo, nel problema dell’essere, è nello stato di indeterminazione perché è stato indeterminazione. L’uomo si costituisce nell’indeterminazione solo in quanto l’indeterminazione è già stata, solo in quanto essa è nel passato, già oltrepassata e trascesa. Lo stato dell’indeterminazione suppone un movimento che va al di là dell’indeterminazione. L’oltrepassamento dell’indeterminazione, l’uscire da essa è l’esistere (exsistere). L’uomo esiste in quanto, costituendosi col problema e nel problema dell’essere, esce dall’indeterminazione che esso implica e muove verso il riconoscimento di essa. L’esistere è l’atto con cui l’uomo riconosce l’indeterminazione della sua natura e perciò pone come sua natura il problema dell’essere. L’esistere è un oltrepassamento dell’indeterminazione solo perché è un ritorno all’indeterminazione. Evidentemente l’esistere è il movimento concreto nel quale l’indeterminazione è posta e costituita come punto di partenza e come punto d’arrivo. L’esistere è la posizione propria ed autentica del problema dell’essere perché è la costituzione di questo problema come natura propria ed originaria dell’uomo». (Ib., p. 52). Affermazione importante. Il cerchio dell’essere è per Abbagnano di natura tautologica. Nasce e si conclude nell’indeterminazione. Dove trovare assistenza e salvezza? L’indeterminazione è alla base del rapporto tra l’uomo e l’essere, quindi la vita è questo rapporto non determinato provvisto di un potenziale dirompente in quanto si basa sulla possibilità trascendentale. Se questa è racchiusa nell’oscurità del semplice fare, il dono è rifiutato e trasformato in diritto. Non c’è modo di oltrepassare questo preteso diritto che così rotola continuamente su se stesso confondendo ripetitività sempre identica a se stessa con nuove possibilità di scelta. La natura dell’uomo non è affatto quella di oltrepassare la sua orrenda identità di animale massacratore, la libertà in genere gli fa paura, come lo spaventa la vita fuori della caverna, la vita pericolosa nella foresta che richiede coraggio. Vi si avventura solo se si coinvolge nell’agire, ed è allora che riconosce la propria limitatezza, questa gli si presenta sotto forma qualitativa, quindi sotto la specie della diversità, non come ulteriore quantità da difendere. Indeterminata è solo la vita qualitativamente messa in gioco, rilanciata di continuo, che non perde occasione per essere oltraggiosa nei riguardi dell’accomodamento autoritario, delle minuziose procedure di controllo e sopravvivenza, delle ramificazioni regolamentari, appunto della pace e della sicurezza. I “ragionamenti concreti”, di cui parla Abbagnano, che non “devono” ignorare o negare ma realizzare l’indeterminazione, per converso esattamente sono sensibilissimi e feroci nel negarla, nel restringerla. Il fatto che Abbagnano rinvii continuamente alla “problematica costitutiva” proponendo di considerarla “come originaria” è un’esortazione che la ferocia dell’uomo respinge come tutte le belle e vaghe esortazioni al bene e al miglioramento di sé. Non è vero che questa esortazione produce una comprensione della vita, piuttosto è vero il contrario, che la vita rende ridicola questa e altre esortazioni, non perché fatti banalmente soggettivi, ma perché non realizzano una vera e propria decisione, la sola possibile, quella che matura nella coscienza diversa ed esplode nell’oltrepassamento. Quello che c’è nella vita qualitativamente diversa è ignoto, è il vento del deserto che porta la morte e la parola del destino, il vento assurdo del caos che non ammette pretese né delicatezze tipiche del fare, condizioni queste dove tutto è commisurato alla conservazione, è riprodotto in formule e diviso in parti accessibili e giustificabili, insomma pronte all’uso.

Ma Abbagnano è ancora più oltranzista nella cesellatura della sua tesi sulla problematicità originaria, dove l’accento è posto su questa originarietà. Il suo scopo principale non è quello di mettere in risalto l’indeterminazione umana, quanto quella di dominarla e infine di possederla. Ecco come precisa questo punto: «L’unità e l’identità del mio me stesso, ciò che io veramente sono in me stesso e per me stesso, si determina in quell’atto, per virtù della mia decisione. Per essa, io non sono abbandonato all’indeterminazione; ma assumendola come mia natura la domino e la posseggo. E possedendola io non solo posseggo me stesso perché io sono originariamente quella indeterminazione, ma posseggo anche l’essere che mi è proprio nella forma, in cui esso mi è proprio, dell’indeterminazione. La decisione instauratrice del possesso e condizionante la mia propria costituzione, non è tuttavia nulla di arbitrario e la scelta in essa implicita non è per nulla una scelta di indifferenza. Io non posso decidere di me stesso se non sul fondamento di quel che sono, cioè sul fondamento dell’indeterminazione originaria se voglio essere me stesso. Ma io non sono originariamente che indeterminazione: l’indeterminazione è dunque il mio vero essere; l’in sé, la sostanza di me stesso; è dunque in essa e per essa ch’io debbo realizzarmi. Il riconoscimento dell’indeterminazione implicito nella posizione del problema dell’essere, è il riconoscimento della sostanza stessa del mio essere. La confessione di ciò che io sono, è l’affermazione della sostanzialità di ciò che sono; è l’impegno per l’avvenire». (Ib., pp. 54-55). Tutto ruota attorno al rifiuto concreto di vivere il rischio dell’indeterminazione e gli si oppone solo il riconoscimento della sua condizione originaria. Se decido di me stesso è perché so quello che sono e che voglio fare – e questo è accettabile – ma se so questo la mia è un’apparenza di decisione non una decisione vera e propria. Non è che una nomina formale del mio diritto umano al possesso di me stesso, una pratica burocratica. Invece, smuovendo la patina del fare ecco subito apparire il sopruso, la prevaricazione, l’assassinio, elementi che stanno sotto quella pratica e la sostanziano. Realizzarsi è mistificare se stesso, rendere l’essere apparente in modo che venga accettato nella società dei fantasmi, dove aleggia ciò che dice e fa la legge dei dominatori che provvedono ad alimentare la caverna dei massacri. Se la mia sostanza è l’indeterminazione essa è indeterminata come me che da essa sono costituito. Allora, perché parlare di sostanza? Tutto ciò non getta attorno a sé una luce torva e diffidente? No. Abbagnano non se ne accorge, egli ricorre all’armamentario più trito della metafisica, ai ferri vecchi del suo mestiere. Eccolo: «La sostanza è indubbiamente il fondamento e la guida della mia scelta, la ragion sufficiente della mia decisione; ma questo non significa che in essa è già scelta la mia scelta e già decisa la mia decisione. Quella sostanza è infatti essa stessa indeterminazione e problematicità e solo come tale può valere come fondamento e norma della mia decisione e della mia scelta. L’in sé della sostanza è la pura, originaria problematicità, l’indeterminazione assoluta, trascendentale, condizione di ogni altra indeterminazione. Essa non implica nessuna scelta già fatta, nessuna decisione già presa. Certamente io posso decidere solo in conformità di quello che originariamente sono; e così debbo decidere. Ma che cosa sono io veramente? La risposta a questa domanda sarà data solo dalla mia scelta. L’atto con cui io deciderò sarà l’atto con cui riconoscerò me stesso, la mia sostanza. La decisione è il riconoscimento e il riconoscimento è la decisione. L’esistere non è la considerazione astratta di possibilità equivalenti fra le quali io sia bilanciato; è la passione che mi impegna nella possibilità fondamentale, in fondo alla quale trovo la realizzazione della mia sostanza». (Ib., pp. 55-56). “Fondamento” e “guida”, “ragione sufficiente”, “in sé”, concetti datati che qui risorgono per puntellare un supposto piano speculativo differente. È un comportamento dubbio sul quale si possono avanzare molte ipotesi contrastanti, ma in ogni caso è un comportamento sospetto, tenuto conto dell’indeterminazione. Se l’in sé trascendentale è problematico e indeterminato, perché è sostanza? E di che cosa lo è? Se è la mia sostanza, esso rivela la propria consistenza meramente metafisica proprio nel momento in cui riconosco che la mia indeterminata esistenza è priva di sostanza reale nel banale fare quotidiano e si nasconde dietro la maschera dell’apparenza. Se accedo alla qualità questa non è una nuova e diversa sostanza, ma una mia personale messa a rischio, un coinvolgimento che non può fondarmi in alcun modo, tanto è vero che ricado prima o poi nel fare e posso solo rammemorarla, non cristallizzarla in una permanenza. Lo statuto di stabilità non appartiene all’esperienza diversa.

Perché la sostanza è condizione della realtà? Abbagnano scrive: «L’esistenza è per l’uomo rapporto individuante. Rapportandosi alla sostanza, l’uomo si individua, si definisce ed acquista il massimo rilievo di cui è capace. Ma l’individuazione è possibile solo in quanto il movimento individuante trascende i limiti dell’individualità. L’uomo si individua solo in rapporto alla sostanza e al di là della sua finitudine singola. Il movimento in cui il rapporto si stabilisce determina nello stesso tempo l’individualità e ciò che trascende o abbraccia l’individualità: l’essere e il mondo. L’individuo non è tale se non in rapporto ad una totalità che lo comprende. L’uomo non può porsi come uomo se non si pone nel mondo. Il consolidarsi in sé dell’uomo, il suo ritorno all’interiorità, il suo tendere a realizzare se stesso e unicamente se stesso, lo pongono in un rapporto necessario col mondo, cioè determinano la sua situazione esistenziale». (Ib., p. 59). Ma che cosa individuo? Se permango nella quotidianità del fare individuo l’identità dei muri della mia prigione, della mia finitudine singola ho una visione apparente, quella proiettata nella caverna dei massacri. Non è vero che così mi pongo nel mondo, così pongo nel mondo la visione diffidente del mio possesso che il fare continua a produrre. La mia vita si consolida in questo modo attorno a una parodia di se stessa. Non c’è nessuna verità che può emergere nel vuoto qualitativo e la verità è una qualità della vita non del fare. Non c’è nessuna chiarezza che posso fare attorno a me circondato come sono, assediato, dalle mie difese e dai miei stessi mezzi conoscitivi, entrambi emanazione della caverna a cui affluiscono le teorie che produco. Nessuna posizione mia nel mondo può essere così reale, essa in questa maniera viene definita, come dice bene Abbagnano, cioè viene regolamentata, accettata dal mondo che se ne compiace, ma non è mai lasciata andare per se stessa, non può intraprendere il lungo e difficile viaggio verso l’oltrepassamento. A sua volta il mondo mi mostra la sua verità, che è menzogna e infamia, il suo modo di essere che è quello che finanzia e corrobora l’accumulo del lago di sangue sotterraneo. Siamo due complici che si guardano in faccia e che camminano assieme nel territorio affollato della meschinità camuffata di realtà e consistenza. La sostanza normativa, come dice Abbagnano, non può spingermi “dal di dentro”, può solo pateticamente confortarmi dal di fuori. Non ho fondate speranze di guardare al destino e il mio impegno è solo circoscritto alla produttività del fare, è questa la decisione che mi attanaglia e non mi può liberare. Il coinvolgimento è esattamente l’opposto dell’impegno. Quest’ultimo cerca una dimensione quantitativa, mi riscontra e contrassegna nel mondo, è la mia modesta fortuna che devo salvaguardare, il mio peculio che vado a collocare nel posto più remoto. Per il resto sono assolutamente privo di qualità, mi aggiro all’interno della mia “individualità” nel senso di Abbagnano, cercando di arredarla al meglio, ma sono in queste condizioni coatte una persona capace ed esperta solo in minutaglie. L’essenziale qualitativo mi sfugge, e se provo in queste condizioni, cioè portandomi dietro il bagaglio delle mie esperienze del fare, vengo cacciato via.

Difatti, e qui Abbagnano sembra avere un sospetto quando scrive: «Il mondo rimane per me un’apparenza, finché non ho deciso di me stesso. Esso mi offre soltanto le mutevoli e labili prospettive di possibilità equivalenti tra le quali sono senza guida. Esso è privo di consistenza e di serietà, è un gioco futile nel quale si succedono vicende prive di significato, che non lasciano traccia. Ma quando ho deciso di essere ciò che sono chiamato ad essere, quando mi impegno a realizzare la sostanza del mio essere, allora il mondo si pone e si rivela davanti a me come una realtà stabile e consistente, nella quale ciò che accade non mi è indifferente, perché incide su di me o sui miei compiti e nella quale perciò nulla accade di inutile». (Ib., p. 60). Ed è così se la mia decisione è semplicemente quella in base alla quale “ho deciso di essere ciò che sono chiamato ad essere”. Qui c’è il sospetto di un contrassegno che può rendere la decisione altro da quello che normalmente è, una scelta fattiva, cioè prigioniera. Ma cosa è questo contrassegno? Solo il mio impegno? Non è possibile. Il mio impegno non è una “chiamata”. Chi mi chiama? La sostanza. È quindi questo ente che bolla e segna in un certo modo la mia vita. Sembra di leggere Agostino. Ma io so che non è vero. Abbagnano non è Agostino. Si tratta di un piccolo imbroglio di parole. Non c’è nessuno che mi contrassegna, solo la mia paura mi sigilla nel mondo del fare coatto e rende precaria la mia situazione. Per cui Abbagnano conclude: «Che il mondo sia apparenza o realtà, che la totalità in cui vivo, gli esseri con cui sono in rapporto, siano fantasmi inconsistenti e fallaci, o realtà valide ed effettive, non è problema teoretico che si possa risolvere con un’indagine di pensiero: è problema esistenziale che io debbo decidere, decidendo di me». (Ib., p. 61). Il che è coraggiosa affermazione ma sviante perché fatta ricadere sempre nella decisione che scegliendo salvaguarda e non mette in gioco tutto. Qui, proprio qui, rimane il contrasto più estremo tra le mie tesi e le sue, non così estremo all’epoca della nostra frequentazione, molto più estremo oggi, ma la cosa ormai è di poca importanza. Quello che conta è l’attuale disposizione di pensiero, la sua cristallizzata, la mia in continua trasformazione. Io non sono mai andato al di là del punto di non ritorno, anche se recentemente, proprio nel corso di quest’ultima carcerazione in terra greca, ci sono andato molto vicino, fin quasi a sentire l’odore rancido della morte, lui non ha mai alzato le vele, è morto senza accorgersi di morire perché era di già morto prima e non si può morire due volte.

“Perché io sono quello che sono e non altro?” si chiede Abbagnano. E risponde: «In qualsiasi circostanza di luogo e di tempo, io sarei quello che sono, se quello che sono è la sostanza del mio essere. La mia vocazione mi colloca al di sopra della variabilità delle circostanze, di fronte a un compito che non è suscettibile di essere modificato da esse. Ciò che io debbo essere, la sostanza di me stesso, mi urge dal di dentro con un richiamo così appassionato ed irresistibile, da non consentirmi di ammettere altra direzione effettiva della mia esistenza. Io ho scelto di essere ciò che sostanzialmente sono: il mio destino è deciso». (Ib., p. 62). Ancora una volta le parole del suo mestiere lo tradiscono. “Vocazione”, “compito”, “io ho scelto di essere ciò che sostanzialmente sono”. Niente con questo armamentario desueto può dare colore e forza a ciò che “urge”, concetto questo sì non filosofico, almeno non necessariamente, e che dà l’idea di un catapultarsi fuori di me di qualcosa che in me rimane coatto e prigioniero. Ma non esiste vocazione alla libertà come non esiste un destino di già deciso. Un segno che contraddistingua la libertà non è mai stato individuato, non ci sono comportamenti liberi registrati nel fare, ci sono piccoli movimenti della catena, dorature o allungamenti, non abolizioni. Niente indica un essere chiamati – Abbagnano qui si ripete – alla libertà. Non ci sono uomini liberi e basta, ci sono coraggiosi tentativi, oltrepassamenti e rammemorazioni che forniscono indicazioni riguardo ai percorsi di libertà. Lo stesso per il destino. Parlare al destino significa indirizzargli un messaggio che concerne la propria vita. Se questa è coatta il destino sarà anch’esso coatto e muto. Diversamente andranno le cose nel caso dell’oltrepassamento. Il vento del deserto, in fondo, arriva fino a lui. Si prospettano movimenti sottratti alla volontà di possesso. Abbagnano tenta di fronte al destino una sorta di riduzione rigorosa all’elemento originario della problematicità aperto con la decisione. Così scrive: «Ancora una volta la posizione di una domanda sul piano teoretico rivela una insufficienza esistenziale che ne rende impossibile la soluzione. Ancora una volta si tratta di esistere, cioè di decidere. La scelta del destino è la decisione ch’io prendo su di me. Se mi sento e sono un uomo qualsiasi, qualsiasi sorte o vicenda mi sarebbe adatta. Ma se io sono veramente me stesso e mi sono impegnato con tutto me stesso nel compito che mi è proprio, la questione è già risolta: questo io sarei in ogni caso, in tutte le circostanze; questo, e non altro». (Ib., pp. 62-63). L’operazione non riesce, è troppo scoperta, troppo superficiale. La vita non sottostà al riscontro di una tavola periodica, non rimpalla puntelli, questi cadono come birilli al primo soffio di vento. Da un lato si cercano le componenti minime – le scelte – e se ne individua una come trascendentale, dall’altro si pone come contropartita il destino e lo si cerca di catturare inseguendolo nei suoi meandri collocati nell’avvenire come se lasciasse dietro di sé una striscia fosforescente. Nel tentativo di farsi un rifugio sicuro nel fare chiude la porta al destino che così si svela per quello che è, la continuazione di un brutto affare, una costruzione sicura come è sicura una bara da cui il cadavere non ha la minima intenzione di scappare. Ragionare del destino dal punto di partenza del fare è follia, una danza macabra per ricordare una vita defunta. Ma c’è un altro modo di parlare al destino ed è dal territorio desolato dell’oltrepassamento, dove ogni possesso è rimesso in questione, posto a rischio. Non il rischio teoretico di cui pur sospetta Abbagnano non avvedendosi di restarvi impaniato, ma il rischio reale in cui la vita ne va di mezzo, non l’apparenza di uno status che potrebbe essere compromesso. Nel gioco estremo della ricerca qualitativa, la libertà mi viene incontro e può sgretolare ogni mia certezza, ogni garanzia, ogni protezione. Questa è la voce del destino che improvvisamente arriva e vanifica la scienza che ha illuminato il mio fare fino a quel momento.

Perché devo vivere nel mondo considerandolo come un compito da assolvere? Abbagnano si pone il problema e non lo risolve, ci gira attorno. «L’esistenza è il movimento che mi porta continuamente al di là di me stesso, non solo nel mondo, ma anche tra gli altri. Per il suo stesso carattere individualizzante, l’esistenza stabilisce la mia connessione vitale tra me e gli altri: perché la mia individualità è delimitata e costituita da un complesso di determinazioni che vanno al di là di me e includono necessariamente gli altri uomini. La mia esistenza, per il fatto di essere mia, è esistenza con altri. Io non posso attribuire a me stesso un compito, modesto e limitato quanto si voglia, che non includa come sua condizione necessaria, il mio coesistere con gli altri. All’esistenza degli altri io non arrivo mercé un qualsiasi procedimento discorsivo o teoretico; essa è connessa alla mia stessa esistenza in modo vitale». (Ib., pp. 63-64). Ecco che la mia dignità e quella degli altri, di tutti gli altri, coincidono. Bene. Ma perché ciò deve avvenire come assolvimento di un dovere, sotto la tutela di una norma? Non dovrebbe essere la libertà a regolare tutto nel mondo? Ma la libertà mi metterebbe in un gioco troppo aleatorio per potermi fare realizzare nel mondo. Ecco quindi che concedo agli altri gli stessi miei diritti, l’uguaglianza del minimo comune. Se scelgo l’apparenza del fare i miei rapporti con gli altri saranno fattivamente apparenti, se invece mi coinvolgo – cioè non scelgo né decido – ma sono l’oltrepassamento stesso del mondo coatto che mi imprigiona, se accedo alla qualità, trascino con me il mondo in un’avventura di cui non conosco gli esiti. Non c’è garanzia per me e nemmeno per gli altri. Ogni solidarietà mi viene negata, sono così un reietto guardato a vista. Il mondo si insospettisce di fronte a chi puzza di pericolo, li isola e accetta per loro solo il simbolo di funerali laici. “La comprensione interumana”, la “solidarietà effettiva e operosa tra uomini legati assieme da un compito storico comune”, queste formule democraticamente squallide sono il contributo più certo di Abbagnano alla caverna dei massacri. In fondo, nella libertà e nella qualità in cui la libertà raggiunge la sua massima tensione, l’uomo è solo e Abbagnano ha parole durissime contro l’isolamento. Così scrive: «L’isolamento esistenziale è proprio della esistenza dispersiva ed impropria. L’isolamento è rottura della solidarietà umana, è incomprensione. Esso non ha niente a che fare con la solitudine nella quale l’uomo si raccoglie per sentir meglio la voce degli altri uomini vicini o lontani e per dedicarsi liberamente al compito che si è scelto. L’isolamento è la cecità volontaria di fronte a se stesso e di fronte agli altri; è il misconoscimento di ciò che noi siamo per noi stessi e per gli altri e di ciò che gli altri sono per se stessi e per noi. Isolarsi significa voltar le spalle alla propria sostanza di uomini e rifiutare a se stessi la propria realizzazione. L’isolamento completo è la follia, per la quale l’uomo si perde definitivamente nel disordine dell’incomprensione totale». (Ib., p. 65). Non c’è una sola parola di questa diatriba che condividevo all’epoca in cui la lessi per la prima volta, più di mezzo secolo fa, e continuo anche oggi a non condividere una sola parola. Isolarsi dall’apparenza della solidarietà è essere solidali, dove essere significa ciò che è e non può non essere. La solitudine del veggente mi fa sorridere, e penso facesse sorridere anche Abbagnano, ma isolarsi dal fare che accomuna gli uomini tutti nel loro indaffararsi attorno all’assassinio, è la sola condizione di vita accettabile per un uomo che non si consideri in fondo un vigliacco. In effetti la solidarietà è stata nel mondo assorbita nell’apparenza e prende la forma ributtante dell’assistenza e della riduzione in schiavitù del lavoro se non della reclusione e si appaga della delega di ognuno, nella melma politica tutti hanno modo di dare il loro piccolo contributo al lago di sangue che si riempie sempre di più. Ci si comprende così reciprocamente nell’indifferenza e nella estraneità, la società – abusivamente definita “comunità” da Abbagnano – è una commistione in cui crescono e dilagano gli angoli sordidi dove oscuri commerci hanno preso il posto dei sentimenti umani travestendoli da atteggiamenti da pagliaccio. La stanza da bagno di Svidrigajlov è il mondo, le ragnatele sono le sue escrescenze, i suoi tumori, i suoi contrassegni. Il mondo è spietato con chi lo sfida ed è necessario che lo sia perché quella sfida che esprime libertà potrebbe mettere in discussione le sue basi, le fondamenta stesse dell’ordine, mentre esso si fonda soltanto sull’esecuzione ferrea di certe regole, sull’attuazione di certe corrispondenze. Il tempo, la storia, la vita, il destino non sono che parte di queste regole e di queste corrispondenze. Guai a chi li mette in discussione, è immediatamente espulso e rinchiuso in un luogo adatto, prigione, manicomio, ecc. Abbagnano sa tutto questo ma va avanti per la sua strada. Per lui il destino si può possedere e quindi, posseduto, costituire un sapere nel senso non di un conosciuto ma di una decisione che impegna di fronte al tempo.

Ecco come esprime il problema: «L’uomo è posto dall’esistenza di fronte alla scelta tra il tempo e l’eternità. Il tempo è la natura stessa della indeterminazione del suo stato. L’indeterminazione è, come si è visto, l’instabilità fondamentale dell’uomo, la problematicità del suo rapporto con l’essere. La problematicità significa la nullità possibile del rapporto, la possibilità della sua risoluzione. Per l’instabilità che gli è costitutiva, l’uomo può perdere e smarrire tutte ed ognuna le sue possibilità di essere ed è perciò definito dalla morte e dal tempo. Il tempo è la possibilità che ognuna delle possibilità dell’uomo vada smarrita; la morte è la possibilità che tutte le sue possibilità si annullino e che egli stesso si annulli. La morte e il tempo o, in generale, la temporalità, determinano dunque essenzialmente la natura dell’uomo in quanto è indeterminazione e problematicità. La temporalità non è una circostanza accidentale dell’esistenza dell’uomo, uno stato provvisorio del suo essere, al quale sia concepibile ch’egli fosse sottratto. La temporalità definisce la natura, la costituzione ultima dell’uomo, perché è la problematicità stessa del suo essere. Tutto ciò che l’uomo è, lo è in virtù della sua natura problematica; e questa è la stessa temporalità. Un ente che non fosse soggetto al tempo e alla morte, non sarebbe un uomo. Qualsiasi considerazione dell’uomo è priva di verità se prescinde dalla sua temporalità costitutiva». (Ib., pp. 66-67). Non c’è nessuna possibilità di ancoraggio nell’eterno. Il concetto stesso di “eterno” è contraddittorio a quello di “temporalità”. Questa propone uno sviluppo e una forte compromissione delle proprie certezze, quello è semplicemente e basta. È il tempo che si sovrappone all’eterno e lo copre inghiottendolo. Abbagnano, nel suo bisogno di sicurezza, capovolge il rapporto e utilizza la maestà dell’inamovibile per articolare la fondazione dell’incerto che si muove cancellandone le conseguenze estreme, le quali sono quelle del caos. È questo – che lui impropriamente chiama “nulla” – che alberga alle porte e che sollecita l’uomo non verso l’eterno, in cui la sollecitazione viene a mancare, ma verso un’accelerazione, verso la compromissione estrema, verso la qualità che è un mondo diverso, né eterno né temporalmente codificabile, ma puntuale. Nel fare, l’eterno non si vede nemmeno, tutto è contingente, ma è proprio questa precarietà che fa vedere come l’eterno potrebbe essere solo un continuo, immutabile, fare coatto, una specie di inverno senza primavera, lungo, freddo, inamovibile, monotono. Nel fare non ci sono differenze apprezzabili, come nell’eterno di cui favoleggiano gli ancoraggi di Abbagnano, non ci sono gradazioni, tutto è privo di colore e di sapore, sciapo e grigio. E l’eterno fornisce l’apparenza di un porto sicuro senza tempeste e senza pigmentazione.

Cercando questo impossibile porto sicuro, che non si trova in nessuna carta nautica, Abbagnano scrive: «Per l’indeterminazione del mio stato, l’avvenire mi viene incontro ed io non so che cosa esso mi porta. Il mio essere è una possibilità di essere che può lanciarmi in molte direzioni ed anche nel nulla. Questa possibilità dispersiva e nullificante fa parte di me, anzi è me stesso. Ma riconoscerla come me stesso, significa ricondurla a me, unificarla nella mia unità e per la mia unità, cioè subordinarla al compito che mi sono prefisso e alla scelta che ho fatto. Quella possibilità io l’anticipo con la mia decisione e la riconduco al passato; e così pongo il mio passato come mio avvenire, mi sottraggo alla minaccia della dispersione e stabilisco l’unità e la consistenza del mio io. Quella possibilità di essere, a prima vista oscura e minacciosa, si illumina alla luce del mio passato. Io dovrò essere quello che sono stato. La sostanza del mio essere salda normativamente il mio avvenire col mio passato; e perciò stesso costituisce nell’avvenire il mio passato facendolo norma di me stesso. Io dovrò essere nell’avvenire quello che sono stato veramente, quello che sono sempre stato: dovrò essere quel me stesso che ha superato e vinto le dispersioni momentanee, non quello che talvolta si è smarrito e disperso. La riduzione dell’avvenire al passato è anche la costituzione del passato nell’avvenire. Questa riduzione e questa costituzione formano un atto simultaneo che è la storicità del mio essere». (Ib., pp. 68-69). L’eterno così si salda al passato. Io “devo” essere il mio passato, il che suona più come una condanna che una vera apertura. È la “sostanza” del mio essere che “salda normativamente” il futuro e il passato. Notare il termine legale qui scelto per fissare meglio il concetto. La “storicità” mia è questo radicamento, il presente che si “definisce” nei suoi particolari, che mi cava via dal caos e mi fa essere me stesso. Questa sarebbe la libertà contrapposta alla dispersione che si precipita in me se disconosco la temporalità. Abbagnano ha saldato un cerchio cosmico e ci si è chiuso dentro. Ogni oltrepassamento è reso impossibile, anzi evitato come un pericolo. Le dimensioni del fare apparentemente si moltiplicano nella loro diversificazione fittizia, ma non è che apparenza, il loro essere è l’eterno inverno gelato e grigio. Ma anche volendo accettare per buona questa condizione coatta essa non garantisce affatto il fondamento cercato. Al suo interno infatti covano forze che non possono essere frenate, sono mimetizzate nell’eterno ripetersi, ma poi qualcosa di esse spezza il cerchio magico che l’ipnotizza e si avvia verso l’apertura. In ogni uomo, anche in Abbagnano, si cela la potenza che può accedere alla qualità, si tratta di vedere se le forze contrarie, quelle della paura e del desiderio di sicurezza, non finiscono per avere la meglio. Non è faccenda di decisione, non è l’ambito delle volontà che può essere più o meno coinvolto, ma la coscienza, l’uomo nella sua autonoma sollecitazione alla completezza, è questo che si muove. Se Abbagnano afferma: «La decisione mi sottrae alla temporalità come dispersione e insignificanza e mi conduce alla storicità come unità e permanenza di significato. La storicità nella quale mi colloco con la decisione effettiva realizza l’unità della mia individualità propria ed insieme il significato universale dell’essere rispetto al quale la mia stessa unità si definisce. La storicità realizza quindi la costituzione simultanea del mio vero me stesso e del mio vero essere: in una parola, la sostanza dell’esistenza». (Ib., p. 70). Non spiega perché la “storicità” costituisca “unità e permanenza”. Le forze del caos non sono scomparse al semplice suono della parola “storicità”, agiscono liberamente e selvaggiamente, danzano sul mio cuore, mi sfidano ad andare oltre, a non lasciarmi morire nel tedio del fare coatto. Non ci sono custodi della libertà. I grandi teorici della filosofia – non è il caso di Abbagnano – hanno cercato in tutti i modi di proporsi come arconti di questo ideale, hanno tutti fallito, i loro contributi sono andati a finire nella caverna dei massacri. Abbagnano è più modesto, sa bene di non essere un grande filosofo – poi nella quotidianità ognuno si illude di essere quello che vuole – e cerca un livello più semplice. Gli strumenti del suo ragionare, come ogni lettore attento di queste pagine può constatare, sono di una banalità a volte sconcertante. Non ci sono gli elementi per una teoria che possa fare risuonare la parola “essere” nei nostri cuori, le formule tecniche ammorbano lo stesso elemento comune alle sue tesi, l’indeterminazione, che tanto mi aveva affascinato, e ciò accade perché il concetto stesso non ha modo di svilupparsi verso la sua naturale conclusione, la libertà. Il filosofo interviene prima e corre ai ripari, evita che qualcosa di pericoloso possa gemmare acquistando intensità che poi non sarebbero più riconducibili al controllo.

Ma le sorprese non sono finite. Abbagnano continua: «Il movimento che realizza l’autenticità dell’esistenza portandola dalla dispersione insignificante della temporalità all’unità significativa della storia, dalla minaccia al rischio, dal misconoscimento di sé all’intelligenza di sé, può essere descritto nella sua totalità come interpretazione esistenziale della sostanza. In esso infatti la sostanza originaria dell’esistenza si realizza come un ritorno su se stessa che è un atto di autointerpretazione. Il ritorno della sostanza a se stessa non è atto di riflessione al quale il se stesso a cui si ritorna sia già presupposto, ma è un atto che pone il problema del se stesso al quale deve ritornarsi. Io debbo rimaner fedele a me stesso, alla mia sostanza; ma finché non ho effettivamente deciso tale mia fedeltà, io non ho un me stesso, una vera sostanza del mio essere. Il ritorno implicito nella decisione è nello stesso tempo l’atto del riconoscimento e della costituzione della mia sostanza originaria: la quale dunque da quest’atto è interpretata nella sua verità». (Ib., pp. 70-71). Il movimento con cui la certezza si radica ha quindi natura ermeneutica. La cosa non è chiara ma svolge una sorta di compito sigillatore. Quello che facevo decidendo adesso lo faccio decidendo dietro una interpretazione del mio decidere. La mia sostanza non è solo decisa da me ma anche interpretata nella verità che la fonda. Perché mai poi l’ermeneutica decisionale possa fare emergere la verità da ciò che io sono, permanendo il mio essere abnegato nel fare coatto, non è dato sapere. In fondo l’interpretazione si limita a riconfermare e consolidare – ancora versi rassicuranti – la mia sostanza, e la sigilla così a doppia mandata nella sua “normatività”. E se qualcuno decidesse di bruciarla questa orma tombale che pesa sul fare e lo rende coatto? Se decidesse, di una decisione che ne va della propria vita, non che rende possibile guardarla mentre sto decidendo, di bruciarla e oltrepassarla? Se rifiutasse di accettare un documento storico su cui sta scritta la propria sorte? La risposta di Abbagnano è disarmante: «L’interpretazione ha eliminato la minaccia, non il rischio, dell’esistenza. Il rischio esige che io rimanga vigilante nel compito con cui mi sono identificato: cioè che io continui e rinnovi l’atto dell’interpretazione approfondendolo incessantemente con una ripetizione che non è la semplice sua reiterazione perché è la stessa continuità vitale della mia fedeltà a me stesso». (Ib., p. 71). “Vigilante”, che parola densa di significati polizieschi. In molti modi ci si può illudere, ma questo è uno dei più ripugnanti, ed occorre che ciascuna di queste parole recuperatrici venga accolta nella sua portata e nella vastità delle sue implicanze.

Come può essere che «L’interpretazione della sostanza è la realizzazione del trascendentale»? (Ibidem). L’ermeneutica sollecita una parola, una teoria, perfino una condizione, la sollecita anche incessantemente dall’interno, ne allarga i suoi acta, fino anche a farla diventare un immenso accumulo, fino a non arrestarsi mai prendendo una forma circolare, ma come fa a realizzare il trascendente? Forse il fare viaggia verso la qualità anche quando mi vedo circondato dalle mura di una prigione? Può darsi, ma Abbagnano mi sembra all’oscuro, e al sicuro, di questo dubbio. L’originarietà per lui non è un a priori ma un ritorno interpretativo. Allora qui l’ermeneutica ha solo qualcosa di intimo, una sorta di sollecitazione della coscienza immediata? Non è facile dirlo. Egli afferma: «Il rapporto con l’essere costitutivo dell’esistenza, viene dall’atto interpretativo ricondotto alla sua possibilità originaria e fondato su tale possibilità; questa possibilità è la condizione trascendentale di quel rapporto e cioè dell’intero movimento esistenziale». (Ib., p. 72). Il cerchio è così saldato, ma solo apparentemente, è la tecnica metafisica al lavoro. La trascendenza è produttrice di normatività e modella il valore di ogni affermazione in modo che tutto resti confinato nell’accadere del di già accaduto, in modo che il rischio vero, concreto, dimori fuori della porta. Il ferale privilegio di bloccare il fare nella sua coatta continuità, in definitiva, spetta all’interpretazione o, se si preferisce, “la trascendenza della sostanza diventa il trascendente dell’esistenza”. Si tratta di un movimento onnicomprensivo, eminentemente astratto, che sussiste indipendentemente da ogni tentativo di impedirlo. Abbagnano non se ne rende conto ma, con concetti metafisici suoi, sta descrivendo il funzionamento e l’alimentazione del fare coatto nel suo rapportarsi alla caverna dei massacri. Qui l’assassinio si accumula e si deposita al di là delle benevole intenzioni dei filosofi e dei loro discenti più o meno consenzienti.

Dalle molte articolazioni della filosofia esistenzialista di Abbagnano emerge il taglio positivo. In particolare ne parla più a fondo quando tratta della costituzione dell’io. Ecco le sue parole: «L’autenticità del problema apre dunque all’analisi esistenziale la via verso una considerazione positiva dell’esistenza umana come tale. Rapporto, indeterminazione, problematicità, costituiscono l’esistenza nella sua positività fondamentale. Questa positività esprime la capacità dell’esistenza di consistere in se stessa e di decidersi e di definirsi da sé. Tale capacità si rivela in primo luogo nella costituzione dell’io come termine finale del rapporto dell’uomo con se stesso. La posizione del problema dell’esistenza sul piano dell’autenticità conduce subito a porre sullo stesso piano il problema dell’io. Che l’esistenza si costituisca intimamente come rapporto problematico, implica immediatamente che l’uomo stesso si costituisca interiormente come problema della propria finitudine, come problema dell’io. La costituzione dell’io non precede né determina il rapporto problematico, ma si verifica proprio in tale rapporto. L’io si costituisce nell’atto in cui riconosce come autentico ed affronta il problema esistenziale. Questo atto è un porsi dell’io di fronte a se stesso, è un riconoscimento, l’io si rende conto che non è dato a se stesso, che non gode del placido ed esclusivo possesso di sé». (Ib., pp. 83-84). Il ragionamento qui si sviluppa nei procedimenti più conosciuti. Il soggetto agente questa volta è l’io che cerca una unità di fondamento in modo da sfuggire alla dispersione. Che sia l’uomo a riconoscersi come io nell’unità che sopravanza la caoticità degli atteggiamenti possibili o viceversa, la cosa è uguale. Riconoscendo la propria fondamentale problematicità l’io ritorna a se stesso dalla dispersione. Tentativo metafisico per venire fuori dalla molteplicità senza fine e senza scopo, che non sia apparente, del fare. L’incessante pullulare delle apparenze effimere nella vita governata dal fare non può essere arrestato con un ancoraggio dell’io nel terreno metafisico. Occorre cercare un altro genere di movimento, più irregolare e difficile, per frenare questo moto di marea del fare e oltrepassarlo. Occorre andare verso una forza più intima. Verso una coscienza diversa che cerchi un mondo diverso, non solo un modo differente di ancorare lo stesso mondo della coazione. Questa condizione è crudele come è crudele la nudità del qualitativamente altro. Tende a sopraffare il fare nel cuore del suo maggiore impegno produttivo. Da parte sua il fare deve essere costretto a spezzare le proprie catene, non può farlo da solo. La volontà lo governa in modo rigido, obbligandolo a volere ripetersi. Questa non è la dispersione da cui l’io deve tornare all’unità, ma è proprio l’unità. Il caos è invece la libertà, il mondo qualitativo diverso dove l’uomo non può accedere se non acquisendo una coscienza diversa e questa è la negazione della positività nel senso in cui l’intende Abbagnano.

Ma torniamo a questa positività. Essa per sussistere deve riconoscersi come fondata sulla ragione, non è solo uno dei due modi di valutare la realtà che ci sta di fronte. Per Abbagnano la ragione è l’io stesso: «Col problema dell’io, considerato e posto nella sua autenticità, è connesso il problema della ragione. L’atto con cui l’io si ritrae dalla dispersione dei suoi atteggiamenti incoerenti all’unità sostanziale della sua problematicità, è l’atto stesso col quale egli si pone di fronte a quegli atteggiamenti come principio o attività giudicante, come intelligenza o ragione. Realizzandosi come problematicità originaria, egli si realizza come ragione giudicante. Avendo ritrovata la norma della sua costituzione, di questa norma egli fa il criterio di un giudizio attivo e costruttivo di se stesso e del mondo. Questo giudizio attivo e costruttivo, questa intelligenza che l’uomo realizza di sé, questa riorganizzazione che egli intraprende degli atteggiamenti e delle situazioni alle quali è legato, costituiscono la sua razionalità, la sua intelligenza». (Ib., pp. 85-86). Ancorato alla propria condizione costitutiva, reso certo di sé, l’io diventa ragione giudicante, cioè giudizio sul mondo e sulle cose, riorganizzazione e riassetto, razionalità e intelligenza. Eppure questa definizione così cauta e circospetta non convince. Se capisco bene, essa cerca di sottrarre l’io a qualcosa di estraneo e refrattario, di illogico, che lo attira e che lo vuole conquistare o comunque allettare. Un granello di insolvenza logica disperso nel mondo del fare totalmente coperto dalle corrispondenze dell’a poco a poco. Abbagnano sembra avvertire la stretta al collo che prende l’io quando considera se stesso di fronte alla coazione che lo amministra, ma non coglie che anche chi avverte questa stretta è a sua volta preso per il collo da qualche altra cosa e che è visto da qualcosa d’altro mentre viene preso pure lui per il collo, e così all’infinito. Il mondo è questo cerchio infernale del fare coatto in cui si comunica prendendosi per il collo. Non c’è armonia in questo ma violenza, non ragione ma sopraffazione. Oppure, se c’è ragione, questa è violenza e sopraffazione.

Abbagnano si rende conto della fondatezza di questo rapporto incongruo quando scrive: «In realtà, la razionalità non costituisce da sé il modo di intendere e di penetrare la natura dell’uomo e della sua situazione nel mondo. Considerata di per se stessa, essa appare o come un’organizzazione dialettica ed obiettiva, o come una soggettività assoluta che sia l’atto di questa organizzazione. Nell’un caso o nell’altro il problema della razionalità sfugge al dominio della razionalità; eppure questo problema è fondamentale per la costituzione stessa della razionalità, la quale non è attiva e costruttiva se non perché si costituisce problematicamente, emergendo dalla dispersione e dalla disorganizzazione dell’io e del mondo». (Ib., p. 86). Condizione in cui l’io sarebbe privo di qualsiasi possibilità di ancoraggio, resterebbe in balia dei sopraddetti cerchi concentrici, dove ogni cerchio riproduce il precedente e lo allarga ma non lo nega, anzi lo conferma. Di più. All’interno di questo meccanismo l’io non vedrebbe neanche i cerchi, non avrebbe accesso a essi, sarebbe strangolato e strangolatore senza che qualcosa lo aiuti a capire, così come sarebbe un provveditore ignaro della caverna dei massacri.

In questo modo, l’aberrazione chiamata razionalità – dice Abbagnano – sarebbe necessariamente condannata a vivere lo stesso incubo. «La razionalità posta a fondamento di se medesima, cioè dell’intelligenza dell’io e della sua situazione nel mondo, toglierebbe di mezzo l’autenticità del problema esistenziale perché renderebbe priva di senso la problematicità dell’esistenza. La legge della costituzione dell’uomo e del mondo sarebbe fissata in anticipo. All’uomo non spetterebbe, nonché decidere, neppure riconoscere questa legge la quale agirebbe infallibilmente nella stessa interiorità della sua costituzione». (Ib., p. 87). Nella soluzione prospettata si troverebbe non solo una via di uscita dai cerchi infernali suddetti ma anche una via ricostruttiva, bloccando l’accesso alla caverna dei massacri. Di questa illusione pia è incaricata la ragione. Nel momento in cui l’io riconosce la sua natura nasce la ragione, cioè la sua unità razionale. Il passaggio e l’apertura che si sono così delineati, vengono sprecati nella ricaduta nel mondo del fare coatto. In Abbagnano non c’è un cenno di oltrepassamento. L’unità che fonda l’ordine razionale è la medesima unità dell’io, cioè la problematica unità della sua natura. Eppure Abbagnano nota una differenza, quella che a costituire l’unità dell’io è l’impegno nella decisione, solo che non rendendosi conto che questa decisione nel fare è soggetta alla potenza del controllo non può che accettare la ragione dominante, anch’essa da quel controllo e da quel potere organizzata e amministrata. Il fare è un’applicazione della potenza di controllo del mondo e la ragione è la maniera in cui questa potenza diventa potere concreto di fare secondo certe regole. Che l’uomo non è automaticamente ragione ma può esserlo non sposta il problema se rimane nell’ambito del dominio che controlla l’unità scelta dall’io. L’uomo è obbligato a questa scelta non per un atteggiamento dispersivo, al contrario proprio per il suo impegno a produrre e garantire il prodotto dalle incertezze del destino. Il grande oceano della potenza che tutto amministra secondo le regole della caverna dei massacri, deve essere affrontato con il coraggio dell’oltrepassamento. L’uomo e la sua vita sono nella qualità, nella quantità languiscono e muoiono.

Non meraviglia per niente l’affermazione di Abbagnano: «Nulla si può eccepire, in un certo senso, contro l’aforisma hegeliano: tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale. L’essere dell’io è l’unità; e l’unità è razionalità, principio di giudizio e di valutazione. L’essere del mondo è il suo ordine e l’ordine è razionalità». (Ib., p. 88). E non ha importanza che l’io debba trascendere se vuole venire all’essere e il mondo per venire all’essere abbia bisogno dell’io se poi tutti e due affogano nella melma della caverna dove si trova il lago di sangue. Che questo straordinario commercio fattivo si aggiri nelle bassure della quotidianità, impregni di sé la vita umana che nella schiavitù annaspa acquattata fra gli escrementi, circondata da splendide architetture o da intonaci scrostati, la cosa non sembra turbare Abbagnano. C’è qualcosa di folle in tutto questo armeggiare metafisico per difendere strutture penitenziarie, insediamenti tutelari e garantisti, piccoli lembi di piccole vite, tutta questa miseria. E difatti, guardando indietro, Abbagnano afferma: «Il riconoscimento del problema esistenziale consente la conservazione integrale dei risultati che la speculazione filosofica ha conseguito nei secoli procedendo sulla via della ragione. Ma tali risultati sono arricchiti e sistemati sul fondamento di una vera intelligenza dell’uomo». (Ib., p. 89). E quali sono questi risultati? Per quale motivo fanno luccicare gli occhi dei vecchi professori di filosofia incollati ai loro scranni accademici? Sono le forniture date agli assassini. L’ignobile discesa, più o meno consapevole, alla caverna degli orrori. In questa pretesa di sistemazione definitiva e progressiva c’è qualcosa di folle, qualcosa che brilla al sole di ogni teoria ma che non dà affatto l’impressione di un nobile compito quanto di una ascesa agli inferi, visto che l’obiettivo è palesemente capovolto. La soffocazione generalizzata non permette di respirare, bisognerebbe andare oltre, ma il sovrano potere di controllo e garanzia lo impedisce.

Come può l’io raggiungere l’intelligenza della sua unità col mondo attraverso l’impostazione autentica del problema esistenziale? Abbagnano risponde con una ripetizione: “nel rapporto col mondo”. Il che sarebbe come dire nel rapporto con se stesso. Egli scrive: «La verità del mondo, cioè la rivelazione dell’essere del mondo (della sua realtà) è condizionata dalla decisione realizzatrice dell’io. Non è certo l’io che pone il mondo né il mondo è comunque immanente all’io; il mondo ha la sua realtà il suo essere in sé. Ma la realtà o l’essere in sé nel mondo può rivelarsi all’io solo nell’atto della sua costituzione autentica. Prima e indipendentemente da quest’atto, il mondo è un’apparenza inconsistente, è uno sparpagliarsi di eventi insignificanti, è una successione disordinata di fatti. Venendo all’essere l’io come unità e ponendosi, in virtù di questa unità, come principio di valutazioni obiettive, il mondo si rivela nel suo essere in sé. E così rivelandosi, si costituisce nella sua organizzazione unitaria e offre all’io la guida per condursi in esso e per dominarlo. La razionalità costitutiva dell’essere del mondo trova così la sua condizione trascendentale nell’unità nella quale l’io si raccoglie con l’atto della decisione realizzatrice. L’essere del mondo è trascendente, com’è trascendente l’essere dell’io. In ogni caso l’essere è trascendente. Esso è il termine finale del rapporto esistenziale, termine verso il quale l’esistenza continuamente trascende quando ritorna alla sua problematicità originaria. Solo nell’atto di riconoscersi in tale problematicità, cioè nell’atto di realizzarla come originaria, l’esistenza stabilisce e fonda il trascendentale che è alla base di ogni essere». (Ib., pp. 90-91). Un reciproco rivelarsi come essere in sé, l’io e il mondo. Il mondo – con la sua ferocia e la sua assurdità – si razionalizza nell’animuccia titubante del filosofo che lo contempla trascendendo la propria problematicità. Sono rimasto a lungo, quando ero poco più che un ragazzo, seduto davanti al mio tavolo di lavoro, con la testa tra le mani, riflettendo su questo passo. Non voglio riprendere la stessa posizione. Cosa posso fare di fronte a due trascendenze che si incontrano a mezz’aria in un triplice salto mortale? Niente. Qui la chiusura del ragionamento è affidata ai fantasmi della filosofia, servizievoli incubi dei demoni che riprendono il loro lavoro nei flussi sotterranei dell’assassinio. Non si può dimostrare infondato un ragionamento che non esiste, si può solo dire che il suo autore sta barando al gioco. La chiave del mondo non si trova in un movimento trascendentale che nel più benevolo dei casi significa una generalizzazione, non si trova e basta. È il mondo che apre me come una scatola di sardine e mi fa realizzare movimenti da fantoccio, acrobazie da pagliaccio, tutto quello che volete, ed è proprio questo che mi corrisponde al mondo, che mi è corrispettivo e solidale. Se lo scontro si fa concreto è perché sono io a porre le domande, non un qualsiasi medium in palandrana da filosofo. E se la mia coraggiosa ribellione di uomo che cerca e non riesce ad accontentarsi di quello che passa il convento, oltrepassa il mondo coatto del fare, allora nessuna trascendenza è possibile e non vale porre ostacoli o premi in nome dell’ordine e della stabilità. Se la coscienza diversa dilaga il gioco delle forze che si scontrano è tra la qualità caotica e libera e l’io che non è più tale, perché adesso vive una vita diversa, sia pure per un attimo, vita di cui potrà rammemorare qualcosa e non semplicemente raccontare un’esperienza come si racconta un viaggio in treno. La qualità e la quantità, l’agire e il fare, possono anche ignorarsi e l’uomo allora si costruisce un suo teatro dove ombre cinesi concretizzano l’apparenza nel muro della caverna dei massacri. È facile immaginare come queste ombre possano a lungo mimare l’essere qualitativo diverso e come l’annichilimento dell’apparenza quantitativa possa durare a lungo.

La conferma di questa dicotomia irrisolta è data da Abbagnano con il problema della corporeità. Eccolo: «Ma che l’uomo sia elemento del mondo implica che il mondo sia una totalità di elementi di cui l’uomo faccia parte. Il rapporto esistenziale determina così il costituirsi di una totalità di elementi, nel cui ordine l’uomo si inserisce in virtù dello stesso rapporto. In virtù di tale inserzione l’uomo è condizionato dal mondo: ha bisogno degli elementi del mondo per la sua propria realizzazione. La situazione dell’uomo nel mondo è perciò definita dal bisogno nel quale si esprime la sua natura sensibile. Il bisogno implica l’esteriorità reciproca degli elementi del mondo tra loro, e con l’uomo in quanto elemento del mondo, cioè implica la corporeità di tali elementi e dell’uomo stesso. La considerazione degli elementi del mondo nella loro obiettività corporea è la conoscenza: e in quanto la conoscenza si organizza sistematicamente, dà luogo alla scienza». (Ib., pp. 92-93). Il bisogno è espressione della perdita dell’uomo nel mondo del fare, della quotidianità e vanità dei suoi sforzi per sopravvivere. Tutto ciò, come sappiamo, è lontano dalla vita, cioè dall’essere. Abbagnano se ne accorge ma non capisce il perché. Afferma che “l’uomo non è l’essere, né ha l’essere, ma è in rapporto con l’essere”, ma non spiega che questo rapporto se fosse autentico darebbe all’uomo la vita che gli compete, qualitativamente appagante. Invece è proprio il bisogno che lo inchioda alla dipendenza dal mondo. È una finzione che a lungo mantenuta diventa la realtà vera e propria. Chiuso nel fare, raggomitolato sulla difensiva, sigillato dall’opacità delle affermazioni dei filosofi, dove può l’uomo trovare il coraggio per oltrepassare questa condizione di dipendenza? Abbagnano risponde: «L’uomo può chiarire a sé la sua necessaria dipendenza dal mondo solo nell’atto di affermare la sua libertà: cioè solo nell’atto di riconoscere nella problematicità del suo rapporto con l’essere la sua natura originaria. L’autenticità del problema esistenziale consente all’uomo di affrontare senza amarezza e senza illusioni la sua dipendenza dal mondo e di trasformare sempre meglio, mediante la scienza, questa dipendenza in dominio». (Ib., p. 93). Non è una risposta è una petizione di principio. L’avventura qualitativa è altro, non può restare rinchiusa nella stanza dei bottoni e non può essere scatenata da una qualsiasi metafisica trascendentale. Se aspettiamo un segno dai libri di filosofia, questo non arriverà mai. Fondamentalmente passiamo la vita ad aspettare un segno, una via da seguire, una soddisfazione di bisogni. È per questo che la vita è sfibrante. Ci accaldiamo tutti chiedendo qualcosa. Ci viene dato il fare coatto, un surrogato di vita, scodinzoliamo tutti contenti. L’umanità è una massa sconfinata che si perde nel buio della quantità. Di tanto in tanto un balenio rompe l’orizzonte plumbeo, qualcuno ha rotto gli argini a suo rischio e pericolo. Abbagnano non concepisce come possa accadere qualcosa del genere, per lui la vita è problema per l’uomo perché è problema in se stessa, e solo così realizza il fondamento di se stessa e dell’uomo. Il processo però può essere invertito. Nessuna rottura, solo un cerchio esistenziale. Il più grave problema che mai abbia occupato la mente dell’uomo è banalizzato in una corrispondenza trascendentale tra esistenza e coesistenza.

Egli scrive: «Se l’esistenza non trascendesse l’uomo, l’uomo sarebbe nella sua finitudine la totalità dell’esistenza. Non ci sarebbe esistenza al di là del singolo, al di là di me. Ma poiché l’esistenza trascende l’uomo e gli è data solo nel rapporto della trascendenza, la finitudine del singolo non esaurisce l’esistenza. L’esistenza è trascendenza del singolo verso l’esistenza tale trascendenza è la coesistenza». (Ib., p. 94). Ma di quale esistenza sta parlando? Certo non della qualità, esperienza diversa che l’uomo può vivere totalmente nel coinvolgimento, mettendo in gioco la sua vita, provando a essere lui stesso la libertà, qualità suprema fra tutte. Certo la vita del fare coatto corrisponde alla precisazione di Abbagnano, ma è essa la vita o si tratta di un’apparenza? Per cui continua: «La problematicità fondamentale dell’esistenza è dunque la radice della natura coesistenziale di essa. Se il rapporto esistenziale fosse dato al singolo in forma esclusiva e totale, non ci sarebbe coesistenza. Ma esso gli è dato nella forma della finitudine, cioè della problematicità e della trascendenza. E allora il singolo non può procedere verso l’essere del suo io e del mondo se non a patto di procedere originariamente verso l’essere dell’altro singolo, dell’altro io e della comune appartenenza al mondo. La coesistenza esprime la forma originaria della trascendenza esistenziale. Il rapporto con se stesso e col mondo è originariamente rapporto dell’ente con l’altro ente, dell’uomo con l’uomo». (Ib., pp. 94-95). Questa fratellanza di reietti la conosco bene, è la mia vita quotidiana da mesi, nelle galere greche dove scrivo queste righe. Ma quando qualcuno riuscirà a far vedere l’intenzione nascosta che si cela dentro ogni appello alla democratica coesistenza? Quando si riuscirà a fare vedere il mostro che abita dentro questo mausoleo del perbenismo? Quando le tribù invisibili prenderanno forma aggressiva e spezzeranno le catene? Se fosse vero che l’uomo cerca l’essere suo e quello del mondo non potrebbe accettare di vivere boccheggiando, invece cerca nel fare solo quel tanto di aria che gli permette di non morire, o meglio di morire a rate. Non esiste nessun fondamento autentico del problema esistenziale se non spezzando le catene del possesso derivanti dal fare coatto.

Insiste Abbagnano: «La problematicità deve essere spinta sino a fondo e riconosciuta nella sua radice ultima, che non è l’instabilità e l’indeterminazione dell’essere, ma l’instabilità e l’indeterminazione della stessa esistenza. Per questa problematicità ultima della esistenza, l’uomo ha bisogno dell’uomo, non come delle cose del mondo, che sono i mezzi e gli strumenti della sua realizzazione, ma quanto alla sua stessa esistenza la quale intrinsecamente si costituisce nel rapporto con se medesima; cioè dell’uomo con l’altro uomo, dell’io col tu». (Ib., p. 96). Giusto, ma non presente nel mondo, qui al contrario l’uomo è nesso e strumento per l’uomo e il fare produce l’altro uomo, e i rapporti che mi legano a lui, allo stesso modo in cui produce merci. Non c’è differenza tra oggetti e rapporti nel mondo del fare coatto. Qui l’uomo ha bisogno dell’uomo come di un qualsiasi oggetto, qui sta la claustrofobia del mondo in cui domina l’amministrato e non il vissuto. Tutto è retto dal divieto e ogni rottura di questo divieto fa venire a mancare l’equilibrio necessario al controllo. Se io cerco l’altro in modo diverso, cioè non riducendolo a oggetto, gli devo dare appuntamento nella qualità non nella quantità. Abbagnano però insiste: «L’originarietà di questo rapporto è il fondamento della natura razionale dell’io e del mondo. Si è visto che l’io costituendosi ad unità si pone come principio di ragione giudicante e determina l’organizzazione razionale della totalità cui appartiene. Ma la ragione giudicante non ha altra norma o criterio che l’unità propria dell’io, che è un’unità singola, concreta ed inconfondibile. Come può tale unità valere come fondamento e criterio di valutazioni universali? Il fondamento di tale universalità è nella trascendenza coesistenziale». (Ibidem). Ancora una volta un superamento fittizio, cioè una trascendenza – Hegel aveva fatto di meglio con il suo togliere dialettico – non un oltrepassamento. Nietzsche è scivolato come olio su Abbagnano. La ragione giudicante, quindi il modo autentico in cui si sceglie, è data, e controllata, dal principio della coesistenza. Nessuno deve disturbare, la libertà è una faccenda amministrativa come tante, il prodotto di uno scontro di opinioni. Se ne può parlare così solo perché i filosofi non la conoscono. Ed ecco la conclusione: «La trascendenza costitutiva dell’unità, fondandosi nella trascendenza costitutiva della coesistenza, realizza l’universalità dell’unità. Questa universalità non è un’esigenza astratta: è il trascendere concreto dell’esistenza verso l’esistenza. Essa è costituita dalla ragione, ma ha il suo fondamento nel rapporto esistenziale. Ancora una volta la ragione rimanda all’esistenza, e proprio alla sua radice ultima, alla trascendenza dell’esistenza verso se stessa». (Ib., pp. 96-97). L’unità universale, unione dell’io e del mondo nella trascendenza, si realizza così nella ragione. Il terrore arriva sempre in questo modo, il processo che dall’unità passa alla ragione è un processo di rafforzamento del potere nel mondo del fare. Nessun massacro si è mai fatto mancare le sue ragioni. Qualcosa di infido striscia sotto questi ragionamenti e spinge l’uomo a origliare alla porta dell’uomo non a guardarlo in faccia coraggiosamente nell’ambito del coinvolgimento qualitativo. La massa informe del fare si indirizza strisciando verso la caverna dei massacri. L’accanimento cattivo è scambiato per amorevole fratellanza in mezzo alla polvere del fare coatto. L’ipocrisia avanza di soppiatto e s’impadronisce del cuore dell’uomo.

La radice dell’esistenza è individuata da Abbagnano nella nascita e nella morte, ancora una volta è la vita in gioco, ma senza precisare o distinguere il fare dall’agire. Ciò rischia di ridurre tutto alla corporeità biologica e quindi a non rendersi conto di quanti morti viventi popolano il mondo. Egli scrive: «Nascita e morte si riferiscono al fondamento coesistenziale dell’esistenza. L’esistenza nasce dall’esistenza, l’uomo dall’uomo. La nascita è la possibilità che l’uomo crei l’uomo, l’esistenza l’esistenza. La morte è la possibilità che l’uomo sia tolto all’uomo; l’esistenza all’esistenza. Nascita e morte non sono i termini estremi tra i quali corre l’esistenza: sono determinazioni fondamentali dell’esistenza, costitutive della sua essenza. L’esistenza è, nella sua stessa natura, nascita e morte». (Ib., pp. 97-98). Certo, la riduzione biologica è soltanto questo, ma l’uomo è anche altro. Ridurre alla radice l’uomo significa annientarlo furtivamente, mentre si sta affermando qualcosa che può essere considerato ovvio. E ogni appiattimento dell’uomo alla sua animalità incontrovertibile è cupo e lacerante, per quanto sia proprio questa la descrizione forse più adatta alla vita fattiva, chiusa nel limbo della quantità. L’uomo non è nascita in quanto è morte e viceversa, fra questi due poli ci possono essere innumerevoli altre nascite e morti costanti, inavvertite o avvertite. Si può nascere a una vita diversa e continuare a vivere morendo un poco ogni giorno senza accorgersene. Abbagnano non lo dice ma ne ha il sospetto quando afferma: «La nascita è dunque il riconoscimento e la realizzazione decisa dell’originarietà del vincolo coesistenziale ed il risolversi alla fedeltà verso questo vincolo nei suoi legami concreti che condizionano qualsiasi trascendenza verso se stesso e verso il mondo». (Ib., p. 98). Ma non è la fedeltà che garantisce l’appartenenza alla società – Abbagnano insiste qui a parlare di comunità, che è altra cosa con altro genere di rapportazione – ma al contrario l’abbandono dei vincoli coatti del fare coesistenziale, l’accettazione di un’apertura verso la qualità. La stessa incomprensione colpisce la riflessione sulla morte. Egli dice: «Dall’altro lato il riconoscimento che l’esistenza è, per sua essenza, morte, significa l’accettazione decisa dell’aspetto negativo della problematicità esistenziale, in quanto è possibilità della perdita. Il rapporto dell’esistenza con se medesima, essendo puramente problematico, può ad ogni momento andare smarrito e distrutto. La possibilità è sempre, anche, possibilità del non-possibile. La minaccia della risoluzione del rapporto coesistenziale, incombe sempre su tale rapporto; e la minaccia riguarda altresì il rapporto dell’uomo con se stesso e col mondo. L’esistenza può essere sempre strappata all’esistenza; l’uomo all’altr’uomo, nonché a se stesso ed al mondo. Questa minaccia non dev’essere illusoriamente velata, ma deve essere riconosciuta e guardata in faccia: dev’essere assunta come il rischio ineliminabile di ogni atteggiamento veramente umano. L’accettazione del rischio implica l’accettazione della finitudine». (Ib., p. 99). E della morte che si vive ogni giorno come condizione coatta della esistenza e che viene chiamata vita? La pura e semplice vita di ogni giorno è assimilabile alla morte se non riceve il lampo della qualità. La miseria di questa vita alla lunga abitua a vivere fuggevolmente ma concretamente una miserrima certezza esistenziale, quello che è leggerezza e superficialità da semplice apparenza diventa essere, concretezza, esistenza. Ma non per molto perché una immane stanchezza e una irrefrenabile noia colpiscono il fare e lo condannano al rifornimento della caverna dei massacri. La solidarietà esistenziale, contraltare dell’assunzione del rischio, non c’è più. Ognuno tende a sopravvivere al proprio destino e all’oppressione feroce che lo contrassegna.

Nella formulazione di Abbagnano la libertà sembra un obbligo e non un coinvolgimento che mette a rischio la propria vita. Così scrive: «Si consideri la situazione dell’uomo nel mondo. Egli è lanciato fra gli eventi del mondo, soggetto alla fortuna, al caso, all’avversità, ai voleri degli altri. Le cose lo determinano mediante il bisogno che egli ha di loro. Gli altri uomini lo determinano in mille modi, influenzandolo nei suoi sentimenti più intimi. Nella interiorità stessa della sua coscienza è soggetto a mille sollecitazioni diverse e dispersive. Interessi, aspirazioni, passioni, influenzano nei modi più sottili e subdoli i suoi atteggiamenti e perciò entrano da ultimo a formare il suo carattere e la sua stessa natura. Egli non può spezzare i mille fili invisibili che subordinano i suoi moti interiori a determinazioni estrinseche di ogni genere. Quello che concretamente egli è e fa sembra interamente riportabile e riferibile, come a sua ragion sufficiente, alla situazione cui è legato.

«Dall’altro lato egli deve essere libero per il suo compito. La situazione stessa, che sembra determinarlo, esige da lui la libertà. I compiti che lo attendono sono tali che egli non può abbandonarsi al facile corso delle cose. Se si limita ad essere la ruota di un meccanismo, diventa impari per i suoi compiti. Da lui si richiede impegno, decisione, energia. Gli si impone un fardello pesante che potrà portare solo se si sente ed è veramente libero per la sua missione. Gli si chiede l’entusiasmo operante, la fedeltà, il sacrificio. E queste cose egli non potrebbe darle se la sua esistenza non si atteggiasse a libertà e non fosse, intimamente, libertà». (Ib., pp. 103-104). Qui tutto ruota attorno alla parola “deve”. Ma come si può avere il dovere di essere liberi? Quando non si è direttamente e ferocemente oppressi si cerca di dimenticare la propria condizione penosa nel divertimento, nella fuga dalla realtà. Questo alternarsi di pena e disimpegno è una condizione assurda ma coerente, è un insieme di forze che agiscono sull’uomo obbligandolo a fare, ad estenuarsi nel fare, anche quando egli suppone di non stare più facendo qualcosa, perfino nell’ozio e nel sogno. La vita dell’uomo è esattamente catturata come quello che Abbagnano dice che non deve in alcun modo essere, come la ruota di un meccanismo. Chiedere all’uomo, come fa Abbagnano, fedeltà e sacrificio è sfondare una porta aperta. Egli è fedele alla catena – come potrebbe non esserlo? – ed è sacrificato sull’altare del possesso, di cui si illude di essere detentore. Piccoli commerci del fare sviluppano tensioni non commisurate alla loro pochezza, un obbligo anche modesto può diventare un peso insopportabile. Anzi più piccole e quasi insignificanti sono le forze che obbligano al fare l’uomo e più evidenti sono gli elementi che concretizzano questo obbligo. La libertà abita altrove. Preziose sono le tensioni che spingono verso l’oltrepassamento, l’inquietudine per la vita che si conduce è una di queste.

Abbagnano, pur fondandosi anch’egli sul concetto di dovere essere liberi, non accetta la tesi di Kant. Così scrive, riferendosi appunto a quest’ultima tesi: «Il principio della libertà come razionalità obiettiva ha trovato la sua piú rigorosa espressione nell’opera di Kant. L’uomo è libero in quanto agisce per dovere; e il dovere è la legge che gli deriva dalla sua stessa personalità in quanto è ragione. La ragione è universalità ed oggettività». (Ib., p. 105). Ma questa tesi, radicalizzandosi, mostra la propria consistenza da studio legale. La ragione limita e nega la molteplicità dei motivi della vita umana libera. E così Abbagnano conclude: «Una soluzione di questo genere non è una risposta al problema esistenziale della libertà. Non riguarda la mia situazione concreta nel mondo, dalla quale quel problema nasce. Accettare il concetto della libertà intelligibile nel senso kantiano, significa semplicemente eliminare il problema della libertà perché significa rinviare la libertà ad un mondo intelligibile che è la pura e semplice negazione dell’esistenza umana come tale. Il problema della libertà non è propriamente affrontato». (Ib., p. 106). Negazione che, in modo diverso, si veste da riduzione nella ipotesi in questione. Al chiuso del fare l’uomo sembra assuefatto e addormentato, eppure su di lui agiscono forze contraddittorie, la qualità mancante sussurra i suoi aliti di vento del deserto e sviluppa sogni e apparenze le quali, dal lato del fare, restano appunto tali, eppure vengono lo stesso sofferti, interpretati, collegati alla miseria quotidiana. È così che nasce una coscienza diversa che guarda con altri occhi una scena ripetitiva e monotona che nell’oltrepassamento è solo un brutto ricordo.

Ma nemmeno la ragione soggettiva può fondare la libertà. Ecco Abbagnano: «La libertà non può essere compresa sul fondamento di una razionalità obiettiva. È meglio adatta a fondarla una razionalità soggettiva? Si consideri nell’uomo il soggetto assoluto, lo spirito universale o l’Idea autocosciente. La sua vita apparirà come la manifestazione nel tempo di tale assoluta soggettività. Le determinazioni fondamentali dell’esistenza saranno interamente riportabili ai momenti del soggetto assoluto; mentre nelle loro oscillazioni inevitabili, nella loro instabilità, nelle loro imperfezioni, saranno elementi accidentali e trascurabili. La libertà dell’uomo consisterà allora nella sua coincidenza con lo spirito assoluto, nel suo riportarsi ad esso interamente, eliminando ogni accidentalità e ogni carattere empirico. La libertà dell’uomo coinciderà con la necessità del Soggetto assoluto. L’ordine dei momenti e delle determinazioni fondamentali attraverso le quali si svolge la vita dell’Assoluto sarà la condizione della libertà umana. L’uomo sarà libero solo in quanto la sua vita si identificherà con la vita dell’Assoluto e con l’ordine necessario dei suoi momenti». (Ib., pp. 106-107). Il rifiuto di questa identificazione – che ad Abbagnano fa paura più della precedente – è dato dalla presenza di un elemento fondamentale e costitutivo della libertà dell’uomo, la sua problematicità. Questo elemento non può essere assorbito da nessuna necessità dialettica. Giusta affermazione. Ma non è che il rapporto con l’assoluto non è garantito perché problematico, non è garantito perché non esiste l’assoluto. Ancora meno esiste un assoluto problematico nell’oltrepassamento, dove la libertà è colta nella sua portanza qualitativa. Si tratta di una esperienza diversa a cui non possiamo far fronte se non coinvolgendoci fino in fondo. Se recalcitriamo tutto si perde nel ritorno alla seduzione del di già garantito. L’esperienza diversa non è un divertimento nei riguardi del fare, è una percezione altra del mondo. Vissuta può scomparire per sempre o lasciare una traccia che deve essere compresa e che non ha relazioni fisse col fare ma può incidere sulle catene rendendole non più deboli ma più intollerabili. Ed è in questa esperienza che l’uomo comprende che la libertà non può stare né nel fare coatto, contrassegnato dall’ordine degli scopi da raggiungere, né nel soggetto assoluto, in cui l’apparenza misura un ipotetico fondamento dell’essere sottratto al fare, ma solo sotto forma illusoria, forma che non ha bisogno di coraggio né di coinvolgimento, difatti è proprio la soluzione scelta dagli spiriti deboli, così come la precedente era scelta dai legulei.

Per Abbagnano la libertà è più modestamente un rapporto con l’essere. Egli scrive: «La possibilità del rapporto con l’essere è il solo fondamento possibile per una comprensione dell’uomo come libertà. E se tale possibilità definisce il modo d’essere proprio dell’uomo, cioè l’esistenza, bisogna dire che l’esistenza è l’unico orizzonte possibile per la comprensione dell’uomo come libertà». (Ib., p. 109). Ma si tratta di una prima battuta. Tra la trascendenza remota, non direttamente attingibile, e le limitazioni umane, specificamente per me quelle del fare, come fissare un rapporto? In più un rapporto che sia libero, come fissarlo? E, per un altro verso, se l’esistenza non si identifica con l’essere vuol dire che non arriva a distaccarsi dal niente. Questa ipotesi porta alla conclusione che la libertà è libertà per il niente, cioè per la morte. Da ciò deriva la paura, la paura di vivere fuori della vita amministrata. Ma Abbagnano rifiuta questa conclusione. Ecco cosa scrive: «Definire il rapporto con l’essere per la sua impossibilità di identificarsi con l’essere come impossibilità di staccarsi dal nulla, significa negare la possibilità stessa del rapporto, cioè negare l’esistenza. In tal caso l’interpretazione dell’esistenza è la negazione dell’esistenza. L’interpretazione della esistenza implicando il riconoscimento della impossibilità che essa emerga dal nulla, implicherebbe la negazione del rapporto con l’essere, cioè dell’esistenza medesima. Il rapporto con l’essere è impossibile nell’esistenza, se l’esistenza non è propriamente che l’impossibilità di staccarsi dal nulla. E se il rapporto con l’essere è impossibile, il riconoscimento di questa impossibilità non è atto di libertà, non è scelta né decisione, ma accettazione passiva della natura dell’esistenza, che è e rimane impossibilità, cioè necessità. La scelta diventa allora scelta di ciò che è già scelto, decisione di ciò che è già deciso. La libertà si perde nella necessità più radicale». (Ib., p. 114). Impossibile fondare e dare garanzie negando. In questa densa pagina Abbagnano arzigogola troppo ma in fondo ha ragione. Per lui che è alla ricerca di un fondamento positivo, il niente non può soddisfarlo. Il soffocante e angusto processo del fare per lui è sempre meglio del niente, che appare qualcosa di incomprensibile e astratto, non avendosi qui nessuno sforzo per avere o formare una qualche idea dell’essere di cui il niente è la sommatoria con l’apparire. Qui non c’è nemmeno l’aria viziata della ripetitività, c’è ben poco più di una vuota affermazione. Come dire che l’esistenza potrebbe essere niente, cioè la morte, ma finché vive non lo è. Per chi ha paura il vento del deserto è il terrore, di più, è terrificante tutto quello che sta fuori della propria stanza, che così, senza saperlo, comunica con la caverna dei massacri. E più storie si raccontano sui pericoli della qualità e più la paura aumenta ma anche la soddisfazione di starsene al calduccio.

La soluzione del problema della libertà è indicata da Abbagnano nel modo seguente: «L’intelligenza della libertà sarà dunque raggiunta soltanto se l’esistenza, pur nella sua semplice configurazione di rapporto con l’essere, è capace di ritrovare in sé una positività fondamentale, una sostanza». (Ib., p. 115). Il punto è quindi la positività, quella che assegna e giustifica ciò che l’uomo deve fare. Questo è il punto di arrivo – e se si preferisce il punto più alto – della speculazione di Abbagnano. L’analisi esistenziale deve essere, continua un po’ più avanti Abbagnano, “intelligenza e realizzazione della libertà”. Ma la positività non può risolvere tutti i problemi della cattura umana nel fare. Quanto dura l’inverno delle ottusità? Tutta la vita, si potrebbe rispondere, una vita lunga, insistentemente monotona. Anche nei momenti migliori del fare il cielo è plumbeo. Opporsi drasticamente a ogni trasformazione è la regola della positività, essa dà una mano all’apparenza solo per vestire meglio la sposa. La sua prerogativa è ridurre la paura nell’immediatezza, cioè garantire e proteggere, e questo rende felici ed ebeti molto più di quanto si pensi. Il fare offre molte occasioni diversive, nessuna diversa, quest’ultima va affrontata nel rischio e nel coraggio capaci di abbandonare il certo per l’incerto. Il fondamento atroce del fare è la preclusione del destino. Questo in sostanza è solo futuro identico al presente, ripetitività e noia. Questa è l’autosufficienza nella miseria, fuori non c’è più nulla, solo ulteriore fare. Nel mondo c’è una profonda ferita uniforme che conduce come un fiume nel sotterraneo dei massacri. Su questo fiume passano le teorie e le guerre, i pensieri nobili e assurdi e gli assassinii a sangue freddo, e non c’è nemmeno risentimento vero e proprio o vendetta, tutto è apparente, solo il dolore e il sangue sono reali e costituiscono quella parte di essere che si offre all’unione con l’apparenza per dare vita al niente. Il mondo senza la qualità è niente. Ogni ferocia, anche la più efferata, e con le peggiori conseguenze, è partorita dall’apparenza e muore nel niente. La ferocia, l’assassinio, la morte, non sono qualità ma prodotti del fare. Tutto il fare è legato per sempre al fare, l’esistente, l’essere sta altrove.

Continua Abbagnano: «Nel rapporto con l’essere la trascendenza non è presupposta, ma riconosciuta è stabilita. L’essere si pone e si rivela come trascendenza proprio nel rapporto e in virtù del rapporto. E il rapporto stesso a sua volta è trascendenza; muove verso l’essere, aspira a conquistare e a possedere l’essere. Se la trascendenza fosse tale al di là e prima del rapporto, il rapporto stesso sarebbe impossibile: l’esistenza, che è questo rapporto, non potrebbe neppure costituirsi. Ma che essa si costituisca significa che il rapporto è possibile e questa possibilità è la positività dell’esistenza. Come rapporto con l’essere, l’esistenza è fondamentalmente, sostanzialmente possibilità di questo rapporto». (Ib., p. 117). Riconferma indiretta di una possibilità di esistenza positiva. Per Abbagnano essa non può scegliere “l’impossibilità di non essere il nulla” e neanche “l’impossibilità di essere la trascendenza”, essa “deve realizzarsi in se stessa”. Cioè nella propria positività. Eppure le cose non stanno così. Il fare è il regno dell’apparenza, che non è ancora niente ma può alla lunga trovare il suo annientamento nell’essere che potrebbe riassumerlo annientandolo. L’agire non è trascendenza in quanto non sta da qualche parte ad aspettarmi ma devo essere io a dargli vita nell’oltrepassamento. Il mio agire nella qualità oltrepassa il fare e quindi lascia da questa parte una mancanza che si incunea come una pericolosa contraddizione al suo interno. La rammemorazione dell’avventura nella qualità resta per il fare un mistero, per quanto profondamente possa essere inciso questo vuoto clandestino causato dal mio abbandono, esso risulta incomprensibile per l’apparenza. L’essere è sempre lontano dall’apparire perché teme l’annientamento che deriverebbe da una eccessiva vicinanza.

Abbagnano ha paura che qualcosa gli possa sfuggire, cioè ha paura del vuoto che la ricerca della qualità creerebbe. Eccolo: «Ora, la possibilità del rapporto con l’essere pone tale rapporto sul piano della problematicità. Il rapporto con l’essere è possibile: ciò vuol dire che esso può esserci e può non esserci. Ma ciò vuol dire, in primo luogo e fondamentalmente, che esso deve esserci. Se l’esistenza è la possibilità del rapporto, in quella possibilità essa trova immediatamente la norma della sua costituzione». (Ib., pp. 117-118). Ancora una volta, quando la paura cresce di intensità, entra in gioco il concetto di “dovere”. Ignorare il rapporto con l’essere significa sperdersi e disconoscere la propria esistenza. La parte estrema e contraddittoria di questo fatto è che nel fare è proprio questo rapporto che è ignorato, e se le parole hanno un senso proprio il rapporto con l’essere potrebbe essere detto altrimenti come rapporto con la qualità. Ma questa affermazione è una mera forzatura. Eppure c’è un altro passo che mi conforta in questo senso. L’uomo non può mai essere solo qualità, verrebbe bruciato immediatamente andando al di là del punto di non ritorno. E anche Abbagnano dice: «Certamente il rapporto con l’essere non può produrre mai l’identificazione con l’essere. Proprio dal rapporto, infatti, l’essere è stabilito e costituito nella sua trascendenza; e quel rapporto è esso stesso trascendenza, nel senso che muove verso l’essere come ciò che è al di là di se stesso. Ma se il rapporto con l’essere non è mai identificazione con l’essere, l’esistenza non può avere altro termine finale di realizzazione che il riconoscersi e il rafforzarsi nella sua natura di rapporto. La possibilità iniziale del rapporto deve essere riconosciuta non astrattamente o oggettivamente, ma con un atto di decisione realizzatrice, di adempimento finale». (Ib., p. 118). C’è uno strano punto di vicinanza qui, ma solo a condizione di considerare l’essere come qualità, il che non è autorizzato da nessun elemento dell’analisi di Abbagnano. Evidentemente sarebbe una forzatura. Il punto fermo è la mancanza, o comunque la lontananza, dell’essere dal fare. Questo risiede in un mondo come se fosse una minuscola camera buia e sotterranea, lavora non distante dalla caverna dei massacri, non vuole essere disturbato nei suoi meccanismi e rifugge dall’attenzione di qualcuno. La sua forza risiede nel pubblico segreto della vita amministrata, impoverita, costantemente brutalizzata da commissioni da espletare, spesso attanagliata dal terrore di perdere colpi nel proprio meccanismo.

Abbagnano si rende conto che la libertà non è un possesso del fare, anche se non arriva a comprendere come possa essere una qualità. Preferisce rinchiuderla in una decisione dell’uomo, ma una scelta non è un coinvolgimento, la differenza l’abbiamo più volte incontrata. La dimensione quantitativa della scelta non accede alla condizione unitaria del coinvolgimento dove non c’è modo di sceverare ciò che va rischiato da ciò che va conservato e garantito. Così Abbagnano: «È evidente che il problema della libertà non può risolversi considerando se la libertà sia un attributo o una capacità propria della natura umana. Non si può comprendere la libertà o, più propriamente, comprendere l’uomo come libertà, mediante un’analisi obiettiva delle capacità umane o la considerazione generica dei poteri dell’uomo. In nessun caso la libertà è una capacità od un potere di cui l’uomo goda in linea di fatto. In nessun caso quindi il problema che la concerne si presenta come problema di vedere se in linea di fatto l’uomo è libero o meno. Il problema della libertà si pone veramente davanti all’uomo solo nell’atto in cui egli seriamente affronta le possibilità della sua esistenza e decide su di esso. Essere libero o non libero è per l’uomo un’opzione, anzi l’opzione fondamentale. Essere libero significa per lui riconoscersi ed attuarsi nella possibilità originaria del suo rapporto con l’essere, cioè consolidarsi e fondarsi in questa possibilità. Non esser libero significa disconoscere e smarrire quella possibilità originaria e perciò rendere impropria e dispersiva l’esistenza. Ma nella sua stessa costituzione l’esistenza include la norma che deve risolvere il problema e decidere l’opzione. Se essa è rapporto con l’essere, non ha altra via di essere e di realizzarsi se non consolidando e fondando il rapporto». (Ib., p. 119). Ma l’opzione è proprio la scelta più canonica che ci sia, quella tra due strade da percorrere. In fondo la decisione sta nella stessa costituzione dell’uomo, nella sua esistenza. L’uomo non deve fare altro che fissare un rapporto con l’essere e guardarsi bene sia dall’incontro con l’essere stesso che con il niente. Un equilibrio è sempre un fatto positivo, com’era da aspettarsi. Non solo l’equilibrio ma il consolidamento della scelta. Ora, che questa sia una semplice modalità del fare, non prende Abbagnano alla sprovvista, nemmeno coglie il problema, va avanti cercando nello stesso posto non solo il consolidamento ma anche la fondazione e la norma. Ripete questo concetto in poche righe per ben quattro volte. Intende con questa assurda reiterazione che lo stesso venga fissato a fondo nel lettore. Fatto questo torna a insistere su un presunto essere della libertà che poi sarebbe la realtà o l’opzione della libertà. Qui l’io si riconosce e si fonda sottraendosi alla dispersione. Egli scrive: «L’opzione della libertà sottrae immediatamente l’uomo alle incertezze di una vita priva di un interesse dominante, e lo restituisce alla pienezza della sua energia. L’uomo diventa disponibile per il suo compito; non è piú distratto o disperso da velleità sempre nuove, non è gettato nel mondo senza direzione, né abbandonato a vicende insignificanti. Vive raccolto nell’unità del suo interesse dominante e riconduce a questo interesse, come a misura e criterio fondamentale, la varietà degli eventi». (Ib., pp. 120-121). Il che vorrebbe dire che il rapporto con l’essere, consolidandosi nell’opzione della libertà, fonda il rapporto dell’uomo con se stesso. Come dire che una possibilità cieca – una scelta – una soltanto, la scelta che si potrebbe definire la scelta della vita, fonda la vita dell’uomo come qualcosa che accade a monte di tutte le condizioni che questa vita reggono e contrassegnano, fra le prime la dispersione e la ripetitività del fare. In questo andamento dimostrativo c’è il ritmo della mitologia. Il contesto non viene affrontato criticamente ma ripreso di continuo con piccole varianti e narrato un’altra volta, come se la proliferazione narrativa attorno al punto nodale del rapporto con l’essere, potesse dare a quest’ultimo una sua maggiore forza di convincimento. Ricombinare gli stessi elementi per presentare un discorso diverso che però in definitiva rimane lo stesso è un antico vezzo della filosofia e Abbagnano non è certo immune. Ma la rapsodica modulazione dello stesso tema non è altro che il contraltare della ripetitività del mondo dove hanno un’aria perfettamente adeguata. Il filosofo sa che questo rito della circonlocuzione è proprio il suo mestiere e, alla fine, neanche se ne accorge, anzi suppone che lì, proprio lì, si celi il nocciolo della dimostrazione, il livello ultimo che assicura la fondatezza del proprio compito. Questi movimenti teorici, di cui Abbagnano qui come in altri luoghi del suo lavoro dà ampia dimostrazione, sono concrezioni del fare, prodotti del buio della vita che sopravvive nel buio della produzione coatta.

Ma la libertà, per Abbagnano, non può essere libera, deve essere inchiavardata a un compito. Così scrive: «La libertà significa unità dell’io, unità del suo compito, unità dell’io e del suo compito. Questa triplice unità è in realtà una sola unità: l’unità dell’esistenza propria od autentica. Ma essa non concerne soltanto l’io. L’io non è libero (cioè non è io) se non in unità col suo compito; e il suo compito non concerne lui solo, ma anche il mondo, nel quale deve essere realizzato. La costituzione di un io, libero per il suo compito implica la costituzione di un rapporto tra l’io e il mondo, per il quale il mondo si pone davanti all’io come ordine di strumenti e di mezzi adatti alla realizzazione di quel compito. L’unità dell’io e del suo compito determina l’unità del mondo. Questa unità è un ordine nel quale le cose si situano secondo la loro disponibilità e la loro utilizzazione per il compito umano». (Ib., p. 122). Unità vuole dire ordine, ordine cioè controllo. Come dire che la libertà è controllo. Questo è veramente un incubo nato nel sotterraneo dove affluiscono i desideri ordinativi dei filosofi. Il contrario, per Abbagnano, sarebbe la perdita dell’io nello “sparpagliamento dei suoi atteggiamenti”. Il che corrisponderebbe alla perdita del mondo in una “determinazione oggettiva” di strumenti e di cose. Ma che vuol dire unità del mondo attraverso la quale il mondo ha l’essere? Niente. Il mondo è codificato nella miseria e tutto si aggira in mezzo a tentativi disperati, e disparati, di sopravvivere. Il mondo vive al chiuso e quando affronta la natura prima la subordina alla propria concezione chiusa della vita. La libertà del mondo si chiama prigione, dove si è liberi di muoversi in tre metri quadrati. Le divagazioni del mondo sono moduli dell’apparenza, piccole passeggiate all’aria della prigione, previste per legge e di non antica istituzione. Questo universo da incubo produce incessantemente cose e sogni, non fa differenza perché tutto è apparente, ma la sua produzione finale, a cui affluiscono le cose e i sogni ad esse correlate, è la compatta superficie dei muri della caverna dei massacri. Qui nulla trapela del tramestio esterno, sembra un altro mondo e invece è proprio il mondo del fare nel suo ventre produttivo più intimo. All’interno di questa unità che rende compatto e confortevole – appunto come la cella della prigione greca dove sto scrivendo – il mondo, l’apparenza parla dell’essere e ne fa vedere il fantasma che produce proiettato sul muro invalicabile della caverna. Le parole con cui vengono prodotte ed evocate queste apparenze sono sempre le stesse, monotone ripetizioni di un io voglio obbligato a volere e incapace di liberarsi. L’anima di queste parole è la dedizione maniacale al prodotto, l’assuefazione al meccanismo.

Abbagnano è comunque fuori da queste considerazioni che penalizzano in modo radicale il suo modo di vedere. Egli insiste: «La libertà richiama l’uomo all’unità dell’io, il mondo all’unità di un ordine necessario; e in quest’ordine, per la libertà stessa, l’uomo si inserisce come elemento che ne partecipa e lo domina ad un tempo. Ne partecipa, in quanto è egli stesso un ente nel mondo, in quanto egli stesso si pone nella natura come natura. Lo domina, in quanto ne utilizza l’ordine e le leggi ai suoi fini e lo subordina alla realizzazione del suo compito. Radicatosi nel mondo e fatto del mondo una realtà consistente, l’uomo può ritrovare in esso la via della libertà. Riconoscendosi come natura, può realizzarsi come natura e determinare con ciò la natura stessa a rivelarsi il che accade nell’arte. Ma sia come ordine necessario di cose disponibili e utilizzabili, sia come natura partecipante all’esistenza umana e rivelantesi ad essa, il mondo trova e consolida il suo essere soltanto per la libertà. Solo l’unità dell’io e del suo compito determina l’ordine del mondo, cioè la sua vera costituzione». (Ib., p. 123). Ma come spezzare quest’ordine? Come vengono spezzati tutti gli ordini che sigillano il mondo, con la rivolta. Non può esserci libertà nel mondo attraverso l’unità del rapporto tra io e essere. Nessun “ordine necessario” consegnerà mai la libertà, salvo quella che gli schiavi hanno di morire sotto la frusta o di farsi uccidere subito, per non essere più schiavi, ribellandosi. Un ammasso di cose disponibili e utilizzabili non è che il mondo della quantità da cui è stata portata via la qualità. Questa non accetta l’idea di sommatoria, di accumulo, è diretto a me il suo messaggio, che è quello della libertà, e sono io che devo oltrepassare la mia condizione coatta se voglio raggiungerla, sia pure per una esperienza diversa che non sarà mai quantificabile. La qualità è l’estrema rarefazione della parola, non c’è spazio per dire nel territorio assolato, si può soltanto intuire che si è liberi, qualcosa come vivere il caos nell’azione. Non si tratta di decisione ma di coinvolgimento, non ci si ferma per vedere come vanno le cose e quale partito conviene scegliere. Si è nell’azione perché si è superato il livello di controllo della coscienza immediata e fattiva e si è entrati in un altro livello, quello della coscienza diversa. Qui si è l’essere non si è in rapporto con l’essere. Qui si è liberi e ogni errore si paga con la vita o con il ritorno all’ordine. Qui non ci sono doveri né compiti né ordine. Il vento del deserto soffia e nessuno lo può immagazzinare. L’agire non è solo oltrepassamento ma è vita, cioè essere, cioè rifiuto di tutto quello che aspetta un segnale da qualcuno per muoversi sonnolento e trasognato. Agire è allungare la mano improvvisamente, quello che la gente perbene considera una volgarità irrimediabile e di cui ha un sacro timore. Ma nell’azione il contatto con l’essere non si avverte nemmeno, tutto scorre via fluido e nuovo, come l’acqua di una sorgente, senza esaltazioni ma anche senza titubanze. Il pericolo, mortale, non è visibile, esso è implicito nell’essere stesso, nel movimento del campo di forza che lo costituisce, e nella mia presenza nella qualità. Ed è il pericolo del non ritorno. In fondo io non sono fatto per la qualità, la mia vita è quantitativa, solo che una vita quantitativa non è vita, ed è per questo che la oltrepasso e accedo alla qualità con la mia coscienza diversa. Questo movimento non va cercato con la volontà, se scelgo la coscienza diversa questa è ancora una volta apparenza, devo aspettare nella melma del fare e preparare gli strumenti più disadatti – la conoscenza è quanto di più remoto ci sia dalla qualità – perché nel momento opportuno anch’essi potranno essere i miei strumenti di oltrepassamento e io li vivrò diversamente da come li vivo nel mondo del fare coatto.

In conclusione, Abbagnano scrive: «La libertà è il movimento col quale l’esistenza ritorna alla sua natura originaria, riconosce tale natura e, con il riconoscerla, la realizza veramente. E poiché l’esistenza è il rapporto con l’essere, quel riconoscimento si rivolge alla possibilità di questo rapporto e ne è la fondazione e il consolidamento. In tal modo l’esistenza trova, per opera della libertà, la sua interiore positività, la sua sostanza. Viene sottratta alla dissipazione, all’apparenza e all’insignificanza. L’io costituitosi ad unità, si radica in un mondo che è ordine e realtà, al centro di una solidarietà coesistenziale effettiva. Con ciò il rapporto con l’essere, costitutivo dell’esistenza, si realizza nella sua autenticità. Diventa un rapporto tale che veramente in esso l’essere si pone nell’esistenza: l’io, il mondo, la coesistenza vengono all’essere e si determinano come avvenire storico dell’esistenza. La libertà fonda la storicità dell’esistenza. In questa storicità l’essere non è immanente perché si costituisce incessantemente nella sua trascendenza; tuttavia il rapporto con esso non è elusivo, apparente od inconsistente ma autentico e vero». (Ib., pp. 126-127). Tutto combacia con tutto, questa condizione annuncia il massimo sospetto nelle teorie filosofiche. Abbagnano ha voluto chiudere in modo sigillato il suo progetto teorico e non poteva fare altrimenti. Le stesse premesse lo imponevano. E questa chiusura dimostra, fra l’altro, la problematicità fittizia di partenza, il sogno di qualcosa che è rimasto un sogno, tutto qui. La libertà, anche rischiosa, non può essere “conquista e possesso”. Il guaio di fondo è che il professore è rimasto attaccato alle sue abitudini ed è quindi disarmato di fronte al problema, quanto mai arduo. Frenando la libertà nell’ambito dell’ordine la trasforma in un ingranaggio per il trasporto del materiale nella caverna dei massacri.

L’ordine di cui Abbagnano va in cerca si rinviene nella storicità. Così precisa: «Non c’è storicità che non muova verso un ordine permanente nel quale il molteplice delle esperienze e dei fatti trovi la sua unità necessaria. Ma non c’è storicità che non muova da tale molteplice. A costituire la storicità entrano egualmente la necessità di una ragione immanente che si rivela nelle singole determinazioni e tutte le concatena e le giustifica, e la libertà dell’individuo che si afferma nella singolarità del suo destino. La storicità fa valere l’universalità del significato che trascende ogni particolare determinazione per affermarsi nella totalità della successione: ma fa pure valere l’individualità nella sua assoluta singolarità e insostituibilità. La ricerca storica può conservare e arricchire le conquiste che l’uomo compie via via; ma la conservazione e l’arricchimento presuppongono a ogni momento che quelle conquiste possano andare disperse o perdute. Essa tende a rivelare la storia ideale eterna; ma non può rivelarla se non rintracciandola nei corsi e ricorsi delle vicende temporali. La storia è necessità e razionalità assoluta; ma se fosse soltanto questo, se la necessità e razionalità non nascessero dal contingente e dall’insignificante, non vi sarebbe ricerca storica e non vi sarebbe storia affatto: vi sarebbe il permanere sempre uguale di una ragione o di una essenza necessaria». (Ib., pp. 128-129). Lo scontro di molti opposti produce la storicità dove raggiunge la saldezza e l’unità di un “ordine necessario”. Ancora un ancoraggio che può andare perduto, da ciò la necessità di una ricerca che salvi il passato e condizioni l’intelligenza di me stesso. Ne deriva che per Abbagnano la storia è necessità e razionalità assolute. E qui torna il fondo pragmatista (e per certi aspetti forse crociano) calato nella contingenza e nella parzialità delle distinzioni e delle differenze sulle quali la vita è basata. Ma perché interrogando il passato si ottengono sia il chiacchiericcio dei documenti, sia la sempre diversa risalita ermeneutica degli addetti ai lavori? Perché il passato è avvolto in un silenzio che respinge. Eppure, se cacciato indietro, l’uomo torna a rivolgersi al passato perché può lì trovare la chiave del coinvolgimento. Ma deve sapere distinguere tra ciò che è stato solo fare e quello che è stato azione trasformativa. La storia va distinta dalla rammemorazione dove la qualità è parlata dalla parola rischiata della coscienza diversa, dove con mille difetti emerge una luce differente nella storia, una differente risalita. È senza senso il rammemorare la propria avventura nella qualità? È senza senso rammemorare quella degli altri? Allora la storia è solo un esercizio per ricercatori di necessità. Dando per ferma l’eternità, Abbagnano si colloca criticamente contro l’anti-storicismo e contro lo storicismo. Contro il primo dice: «La polemica tra antistoricismo e storicismo presenta due modi tipici di distruggere anziché risolvere il problema della ricerca storica. Si può ritenere, in primo luogo, decisivo e fatale il contrasto fra il tempo e l’eterno e ridurre la storia al tempo separandola dall’eterno. L’ordine razionale appare allora come un sopramondo di valori o di idee che ha una sua realtà compiuta indipendentemente dalla storia. E la storia appare come un succedersi di eventi contingenti e arbitrari nel quale solo a tratti si fa strada un riflesso dell’ordine eterno. La storia procede tra giri e andirivieni viziosi da mancamento a mancamento, da errore a errore: l’ordine che essa dovrebbe realizzare è al di là di essa; e, ove fosse realizzato, fermerebbe e annullerebbe la storia. L’uomo in questo caso non può trarre nulla dalla storia. La considerazione che può guidarlo non è quella degli oziosi andirivieni del passato, ma quella della ragione che gli discopre l’ordine necessario che è al di là della storia. La realizzazione dell’uomo è, in questo caso, legata alla negazione della storicità e affidata ad una ragione che afferma e impone un ordine immutabile e necessario che vale per sé, al di fuori di ogni riferimento alla mutevolezza e alla contingenza del tempo». (Ib., p. 130). Sola salvezza, l’ordine necessario che assoluto in sé nega la storicità, questo è l’antistoricismo. In fondo Abbagnano dice qualcosa di simile ma lo dice in modo diverso. Contro lo storicismo afferma: «Per lo storicismo ogni realtà è storia, cioè è razionalità, ordine, sviluppo dialettico determinati da concetti puri o categorie. Non sussiste il tempo come dominio dell’individuale, del contingente, dell’arbitrario. L’individuale stesso è tale in virtù della forza logica dell’universale che è forza individuante; il contingente e l’arbitrario appaiono tali ad una considerazione superficiale ed impropria, ma si rivelano nella loro necessità ad una considerazione approfondita e veramente storica. Nella storia non esiste l’irrazionale e il negativo. Certamente in essa non agisce che l’individuo; ma nell’individuo agisce l’universale, l’eterno, la categoria, e quanto più a fondo si scruta l’individuo, tanto più a fondo vi si trova l’universale. E l’universale è sostanzialmente immutabilità». (Ib., p. 132). Anche qui, l’ordine eterno e necessario nega la storicità come processo e fornisce salvezza in cambio di determinismo. I due risultati sono in sostanza uguali, identificazione del tempo con l’eterno. Negare il tempo è possibile solo nella sfera produttiva del fare, dove esso è ridotto ad apparenza. Giustamente Abbagnano afferma che assegnare il tempo al “dominio dell’individuale” è apparenza e negazione dell’essere. Lo stesso per lo storicismo dove la storia è unità della ragione assoluta. Eppure egli stesso rimane nell’ambito di un pragmatismo storicista (contraddittorio, ovviamente), non assoluto ma problematico. Il posto dell’uomo è per Abbagnano nella storia perché questa è l’unica realtà. Ma di quale realtà parla se si ha solo storia dei massacri? Se la teoria filosofica e quella storica si stringono la mano nella caverna del lago di sangue? È vero che la storia dà senso alla vita o è vero esattamente il contrario? Guardare alla storia è illuminazione della vita o di storia si può morire, come ebbi a dire in un mio lontano articolo su Bakunin? Ciò che ha senso è forse l’unica cosa priva di senso, cioè l’accaduto? Perché l’uomo deve trovare posto per forza nella storia? Oppure questa finora è stata solo la storia ricordata, attestata e garantita, non quella rammemorata che parla la qualità e così svanisce nell’essere, trasformando la sua caotica esistenza che si riverbera nell’uomo senza che possa essere codificata in un preciso ricordo o in un documento? Ma che importa? Il fare produce oggetti e la storia del fare è un oggetto, spossato come tutti gli oggetti. Può andare avanti passo passo nelle vicende umane e non dire nulla, come accade al fare, descrivere solo fantasmi. I motivi per cui il tempo sfugge parimenti all’antistoricismo e allo storicismo valgono anche per Abbagnano. Non basta affermare: «La ricerca storica deve dunque fondarsi sull’intelligenza del tempo. E difatti non c’è storia che del passato. La ricerca storica mira bensì a liberare e a ricostruire un ordine permanente; ma questo ordine permanente può liberarlo e ricostruirlo solo in riferimento al passato. La cosiddetta storia contemporanea riguarda un passato più o meno vicino, ma pur sempre passato. Il passato sembra racchiudere in modo eminente, anzi esclusivo, il carattere della storicità. In un certo senso, perciò, la storicità si riconnette necessariamente ad una sola determinazione del tempo, cioè solo al passato». (Ib., pp. 137-138). Qui torna ancora Croce (forse). Qualsiasi storia è storia contemporanea. Ma la storia del fare è fare anch’essa, oggetto prodotto in maniera coatta, che si spinge fino a un certo punto – il muro di cinta per essere precisi – e non va oltre. Non è che il presente può dare un senso alla storia del fare che è priva di senso, perché il presente è figlio diretto del futuro. Ciò non è meno privo di senso. Di ciò di cui potrebbe esserci storia – nel senso qualitativo – mancano le parole, la rammemorazione cerca di darvi rimedio ma non è storia, è esperienza diversa nella qualità parlata all’apparenza, tentativo di mettere in contatto essere e apparire, niente. Quando Abbagnano scrive: «L’unità del passato e dell’avvenire, realizzata dalla ricerca storica in virtù della decisione impegnativa, è un principio di scelta e di giudizio che procede a determinare e a fondare il mondo storico. Il presente storico è l’unità stessa del principio giudicante, organizzatore del mondo storico». (Ib., p. 140). In sostanza non dice niente, un principio di scelta è una scelta e la scelta è produzione coatta, niente è cambiato. Io non so quale strada conduca alla rammemorazione, so soltanto che è un passo indietro dell’esperienza nella qualità, un riaffermarsi del quantitativo sulla forza dirompente della coscienza diversa. E so anche che l’esperienza qualitativa non lascia l’uomo come l’ha trovato. Ciò garantisce una differenza tra storia e rammemorazione. La seconda, nel fare, trova tutte le porte chiuse e una lunga strada interpretativa che non finisce mai. Sembra che rammemorare sia come raccontare la storia dell’esperienza diversa, invece a un certo punto devia e si mantiene sempre alla stessa distanza dalle ombre proiettate nella invalicabile parete della caverna dei massacri. Questi movimenti rammemoranti sono casuali e capricciosi come quelli che descrivono un luogo sconosciuto non bene illuminato. La carenza delle parole è un ostacolo fondamentale, ma non del tutto. Ogni riferimento, ogni descrizione, pure lavorando nell’apparenza del fare, dà vita indiretta all’esperienza della qualità, che così, dentro certi termini, viene ingabbiata e accerchiata in qualcosa che, questa volta veramente, potrebbe chiamarsi storia. Ma la logica del fare – e dell’a poco a poco – intende la rammemorazione come uno sfogo individuale e dispersivo, come parole che girano in tondo, buttate lì senza importanza. Eppure sono parole che parlano, a loro modo e impropriamente, della qualità, parole che fanno paura. E la storia deve fare paura oppure è banale fare, esercitazione per professori di filosofia. Abbagnano invece rimane ancorato al terreno del fare, inerte è il suo tentativo di superare i due limiti concordanti dell’antistoricismo e dello storicismo, egli guarda verso l’alto, verso un luogo indefinito dove, come scrive, “il presente storico” costituisce “l’individualità autentica dell’uomo”.

Ed ecco le sue parole riguardo al rapporto col destino. «La ricerca storica è la confessione che l’uomo fa a se stesso della sua temporalità originaria ed è la decisione della fedeltà a questa temporalità originaria. La storia non è altro che fedeltà al tempo. In questa fedeltà si costituisce la personalità storica e con essa l’unità trascendentale, condizione dell’ordine storico». (Ib., pp. 143-144). Tornano i concetti di sempre, la decisione, la fedeltà, la trascendenza, con cui si vuole parlare di destino. Ma questo non ascolta le parole che vengono rette da questi concetti, si indirizza altrove non verso la melanconia del fare ma verso il coinvolgimento coraggioso. Non aspetta che una parola arcaica lo solleciti verso il fare, in questa direzione lo svolgersi amministrato dell’avvenire ha una sola sorpresa, la morte. Al contrario si sveglia nell’oltrepassamento, quando una sorta di luce scialba ma vivente lo colpisce, riflesso di un ben altro sole che brilla cocente nel cielo del deserto. Il destino non chiede l’ospitalità del presente e non risponde alle sollecitazioni storiche. In ogni caso non è fedeltà al tempo. Abbagnano sbaglia affermando: «Per il destino l’uomo si impegna a conservare e a consolidare l’unità della sua personalità attraverso lo sforzo incessante di riconnettere l’avvenire al passato e di fare dell’avvenire la realizzazione del significato vero del passato». (Ib., p. 144). Non c’è un passaggio diretto tra avvenire e passato. Nel fare, l’avvenire – non il destino che ha parola solo per la qualità – è uguale al passato, apparenza e rifornimento della caverna dei massacri. La storia, di fronte al destino, è racchiusa in una nebbia, dove è garantita e beffata nello stesso tempo. Nel destino vigono leggi diverse da quelle del resto del mondo, esso ha una fisiologia differente dell’avvenire, come l’apparenza è differente dall’essere. Il futuro, per il destino, è una sorta di riferimento cronologico o topografico, non c’è nulla nel destino che ricorda il tempo. L’avvenire è il suo contrario, è calcolato dal fare in termini di tempo.

Abbagnano insiste su una antinomia tra pensiero e azione nella storia e conclude: «La ricerca storica non è solo giudizio storico, né solo azione storica; è la totalità del modo d’essere proprio dell’uomo: modo d’essere del quale giudizio e volontà, conoscenza e azione sono classificazione e astrazioni improprie e generiche. La ricerca storica è atto di realizzazione della propria personalità storica nei confronti di un mondo che emerge dalla dispersione del tempo e diventa ordine e universalità proprio in virtù dell’impegno esistenziale dell’io». (Ib., pp. 145-146). Ma di quale azione parla? Un contrasto del genere, tra pensiero e azione, non esiste, invece esiste 0una subordinazione tra pensare e fare, questo sì. La ricerca storica non è altro che fare e il pensare è anch’esso fare, possono incontrarsi sul piano in cui l’amministrazione coatta del secondo garantisce la coazione del primo, un incontro tra prigionieri attraverso le sbarre. Il fare la storia non è più importante di fare un qualsiasi oggetto, allo stesso modo il riflettere sui fatti storici è ancora un fare oggetti, metterli da parte e poi rifarli. L’azione è altro. Non c’è niente al loro interno che possa essere considerato come “totalità di un modo d’essere dell’uomo”, ammettendo che questa frase abbia un senso. Nel fare, questa affermazione, sia pure astratta, di totalità risulta incongrua, tutto è qui assorbito dal meccanismo apparente nella sua ripetitività assurda, indirizzata alla caverna dei massacri. C’è qualcosa di incomprensibile in questo meccanismo così studiato e approfondito, e si sprofonda nella sua chiusura assoluta non appena si pongono domande radicali, perché l’alto leggio del professore non permette di guardare ciò che accade nel sotterraneo. La conoscenza fluisce ma non ha nulla a che vedere con la storia, quando si incontrano rimangono separate e ciò accade a tutti gli oggetti della produzione, che hanno solo un cointeresse nella produzione complessiva non nell’oltrepassamento della stessa. Nella realtà dell’apparenza nulla è veramente compiuto fino a quando non è protocollato, cioè riconosciuto come fatto e sottoposto a opportuna segnatura quantitativa.

Non c’è nessun ordine storico, questo si deduce dal fatto che non c’è ordine nel fare che non sia quello coatto, ma questo ordine non organizza il risultato produttivo, solo la produzione che di quel risultato è la causa. Abbagnano invece scrive: «La ricerca storica è un movimento di trascendenza che va dalla dispersione temporale all’ordine storico. In quanto rivelato e costituito dal movimento di trascendenza, l’ordine storico è trascendente. Esso si pone al limite della ricerca come il termine verso il quale essa muove, come l’essere al quale essa aspira a ricongiungersi. Questa stessa trascendenza è legata alla struttura temporale della storicità». (Ib., p. 148). Come fa la ricerca storica, che è fare, ad attingere questo ordine che la dovrebbe sovrastare, che dovrebbe imporre le condizioni della ricerca stessa? Se la ricerca è oggetto della produzione non può avere un ordine che la organizzi che non sia esso stesso un altro oggetto della produzione. Nessuna “fedeltà al tempo” può superare l’indefettibile eterogeneità degli oggetti prodotti. Ogni altro tentativo, qualsiasi immanenza, è da escludersi – Abbagnano su questo concorda – per cui resta l’eterogeneità della storia salvo che non sia rammemorazione, cioè racconto del coinvolgimento, ma in questo caso è di una storia che è storia individuale che si può parlare e delle sue conseguenze sulle ombre proiettate nel muro della caverna dei massacri. Invece Abbagnano non ammette possibilità diversa della storia che non sia una connessione tra “la trascendenza dell’ordine storico e la finitudine dell’uomo”. Egli sembra cercare una individuazione, cioè un fondamento, nella produzione continua del fare, ed assegna questo compito alla storia. Ma il fare produce oggetti non fondamenti, produce documenti che si possono consultare e bottiglie di vino che si possono bere. Qual è la differenza? Difficile immaginare un qualcosa che fuoriesca dal meccanismo produttivo per farsi fondamento o trascendenza. I panni sporchi delle occasioni mancate di oltrepassamento, le inquietudini non trasformate in coscienza diversa, le rinunce e i tradimenti, si accumulano tutti nei sotterranei della caverna del lago di sangue. Al contrario, e andando più oltre, Abbagnano insiste: «La storicità è la normatività fondamentale dell’esistenza. È l’esigenza intrinseca dell’esistenza di uscire dalla dispersione del tempo per attuarsi come l’unità che è principio e fondamento di un ordine eterno. È il dover essere della personalità umana nel tempo». (Ib., p. 149). La sintonizzazione è altrove, nel segno dei doveri, altrove da dove ammetterei possibile una ricerca storica, m0a è un altrove esattamente collocato nell’ambito del fare produttivo. Qui, senza volerlo, Abbagnano colloca bene la persona come apparenza e la collega al tempo. E non è un caso che proprio qui parli di “personalità umana”. In fondo la psicologia dei filosofi è spoglia, non presenta molte complicanze, sono persone che operano nel fare con la mancanza assoluta di ogni intenzione altra. Le loro idee e le loro teorie hanno un’aria di famiglia con la vita ma restano dietro le quinte. Nella realtà giocano un potente ruolo come apparenza che si somma ad altre apparenze, fornendo una sorta di mediazione interpretativa sempre nell’ambito del fare. Sono giustapposte all’immanifesto che agisce nella qualità, ma non lo sfiorano neanche, si mantengono al di qua dell’apertura. Ogni filosofia – e quella di Abbagnano, malgrado i miei abbagli giovanili, in fondo limitati, non fa differenza – produce un’atmosfera esaltante e soddisfacente, ma come effetto di superficie, non appena si scalfisce la patina esteriore si sente subito l’aria soffocante e oppressiva del sotterraneo, l’aria di una continua inquietudine per la mancanza di domande vere e proprie e per il dilagare abnorme di risposte surrettizie. I filosofi danno l’impressione di essere sempre sottoposti a una pressione dall’alto, come di qualcosa di superiore alle loro forze. A una tensione non facilmente sopportabile, ed è la credenza in un superiore ordine e in una più alta completezza possibile. Essi manifestano in questo modo, psicologicamente ingenuo, la paura abissale che hanno per il caos che come tale, da questi ordinatori di professione, viene disprezzato ma anche adulato, in maniera più o meno aperta. Pensare alla problematicità di Abbagnano e al nulla di Sartre, quest’ultimo ancora più oltranzista. Per quanto concerne l’assassinio, di cui la storia dell’uomo non è che la vicenda, i filosofi rimangono nella loro beata incoscienza.

La finalità dove la storia trova il suo completamento, secondo Abbagnano, è la coesistenza. Egli scrive: «La ricerca storica nelle sue concrete modalità rivela la fondamentale condizione di insufficienza nella quale l’esistenza è nel singolo. Per affermarsi come individuo e libertà e realizzarsi nella sua unità propria, l’esistenza deve trascendere verso l’esistenza e connettere l’uomo all’altro uomo. L’uomo non è la totalità dell’esistenza: non si identifica con la pienezza e la stabilità dell’esistenza. L’esistenza si pone in lui come rapporto con l’esistenza e trascendenza verso l’esistenza: rapporto e trascendenza che fanno, dell’esistenza, una coesistenza. La coesistenza è l’ultimo fondamento della struttura esistenziale». (Ib., pp. 150-151). Il che mostra una visione del mondo che conosciamo, quella perbenista ed elusiva che scatena una incontrollata euforia democratica. Non accenna a forze estreme, dèi o semidei sconosciuti, non interferisce nella vita di un filosofo, ma luoghi comuni della metafisica più trita sì, questi sono inciampi veri e propri. Dire che la “solidarietà esistenziale” è la “struttura stessa dell’uomo” significa fare scendere in campo due apparenze semidivine, la solidarietà e la struttura, le quali o sono oggetti prodotti dal fare, quindi apparenze, o sono oggetti privi di produzione, cioè impossibili, fantasmi che godono comunque di una produzione vicaria, quella appunto di essere semidei fatti nascere dalla mente filosofica. Il mito era molto più semplice e anche la religione, sotto certi aspetti, essi facevano riferimento – escludendo poeti e teologi – alla fantasia e al cuore. Il filosofo vuole qualcosa di più intricato, produce oggetti talmente raffinati che sono direttamente funzionali alla caverna del lago di sangue. Fronteggiare, grazie alla coscienza, questi oggetti, cioè sviluppare una critica testuale, è un modo per aggiungere consistenza alla loro forza che qualche volta è poco più di un sussurro – è il caso del pigolio di Abbagnano.

È la verità l’obiettivo della ricerca storica? Può essere la verità? Abbagnano pensa di sì: «La ricerca storica conserva e libera la verità del passato. Tale verità è indubbiamente ordine e razionalità. Ma l’ordine e la razionalità nella storia sono il termine trascendente verso il quale muovono e in rapporto al quale si costituiscono le personalità della storia. Nella storia la stessa storicità si storicizza. L’ordine storico non è un fatto, ma un dover essere. È il movimento della trascendenza, è la ricerca dell’essere storico. La ricerca storica non può rivelare che la verità della ricerca. Essa non mette capo ad un ordine totale e compiuto, ad un ordine nel quale è o è stato tutto ciò che doveva essere. Non mette capo ad una necessità infallibile che abbia operato astutamente nel seno delle vicende più insignificanti e disperse per porre in atto un suo piano immutabile. La trascendenza storica non può ritrovare nella storia che se stessa, nella sua natura genuina, nella sua insufficienza, nel suo sforzo di completamento e di realizzazione. La storia è l’atto della storicità che si realizza come tale. E poiché la storicità è la trascendenza verso un ordine eterno, la ricerca storica è il riconoscimento di questa trascendenza, riconoscimento per il quale la trascendenza stessa è realizzata nella sua natura originaria e ricondotta al suo principio». (Ib., p. 153). Ma che verità può esserci nel fare del passato? Solo la propria riconferma coatta, cioè la propria apparenza riflessa in un’altra apparenza. E certamente se chiamiamo verità questa deforme realtà prigioniera, allora essa è necessariamente “ordine” e “razionalità”. Ma la virtù, come qualità, appartiene alla libertà, quindi non è né catturabile né identificabile. Se la consideriamo come rispecchiamento, la storia può fotografare un documento e l’ermeneutica farlo parlare, ma la verità sta altrove. Non sto parlando di una pretesa ordinativa che sottintenda la capacità della storia – in Abbagnano – di identificare la verità assoluta, ma quella relativa, la verità storica. È questa l’illusione di cui discuto. La ricerca storica non realizza la “risoluzione del tempo nell’eterno”, ma solo un ordine compiuto senza perdite. Ecco, questa tesi di Abbagnano non è accettabile. Il mondo, storico o meno, passato o futuro, non si completa nel fare, nel fare o annega o sopravvive, resta comunque incompleto. C’è questa insofferenza nel fare che prende l’aspetto dell’inquietudine. Ciò fa pensare a una parte manifesta ma apparente, il fare, e a una parte immanifesta, che semplicemente è l’essere, l’agire. La parte immanifesta, anche nelle antiche esperienze teoriche, è sempre più vasta e incolmabile a paragone della parte manifesta che rimane più piccola perché misurabile quantitativamente. Poiché la qualità richiede coraggio e rischio, coinvolgimento, viene in genere messa da parte, si vivacchia così nel fare. Se tutto si pensa racchiuso nel fare siamo davanti a una specie di bestemmia laica senza nemmeno l’alibi teologico. Ridurre tutto al fare significa ridurre il tempo a procedura e il destino ad avvenire, cioè procedura da espletarsi in futuro. Con qualche variante problematica, non concreta ma annegata nel marasma metafisico, Abbagnano è questa tesi che sposa riguardo alla storicità. Egli dice: «Nella storia non c’è infallibilità e necessità, ma problematicità e libertà. Per essa l’uomo non nega la sua temporalità e i suoi limiti, ma li riconosce e li riafferma, non si chiude nell’orgoglio illusorio di una visione infallibile, ma lavora con umiltà vigilante. Perciò la storia è la riaffermazione più solenne e più piena della umanità dell’uomo». (Ib., p. 155). Ma sono variazioni gratuite, in sostanza non aggiungono nulla a quanto detto. Il concetto stesso di “umiltà vigilante” è molto sospetto. Che cosa può essere vigilata umilmente? Forse la superbia umana che cerca il dominio assoluto? Forse l’infallibilità e la necessità? Il fare, nel suo stesso avvoltolarsi, garantisce l’apparenza di tutto ciò, ingombranti macchine sembrano fatte apposta per rassicurare sulle sue reali capacità. Il mondo produce un fare beneducato che non affermerebbe mai di volere, semplicemente, il dominio del mondo stesso. Non ha più bisogno di Dio per aspirare a una completezza, gli basta il proprio stesso processo all’infinito. La sua manifestità si autodefinisce libera ed è questo che intende Abbagnano quando parla di coesistenza. Così scrive: «Qui è la radice della universalità della storia. Questa universalità non è l’impersonalità di un giudizio nel quale si esprima l’unità stessa dell’ordine eterno, ma è la solidarietà coesistenziale degli uomini nel loro comune trascendere verso l’eterno». (Ibidem). Questo è il modo democratico di intendere il rapporto fra gli uomini sotto la luce oppressiva del fare coatto. Ma c’è un piccolissimo faro nella parete impenetrabile della caverna dei massacri, e da questo faro l’inquietudine occhieggia paurosamente.

L’uomo appartiene al mondo? Domanda fuori luogo e inopportuna. Abbagnano lo dà per scontato, come tutti, del resto. Ma di quale mondo parliamo? Se è il mondo come totalità, ed è il caso di Abbagnano, dovrebbe contenere l’uomo, il fare e l’agire. La cosa però non è così scontata. Egli scrive: «L’esistenza, che è il modo di essere proprio dell’uomo, non è essere ma rapporto con l’essere; tuttavia, proprio come rapporto con l’essere, ricade nell’essere e si radica in esso. L’essere la ricomprende come sua parte e la condiziona; e in tal modo si pone come totalità. Questa totalità è il mondo». (Ib., p. 156). Che sia l’uomo a rendere totale il mondo perché vi si include con la propria decisione fissando i termini del proprio rapporto con l’essere, mi sembra una enormità. Solo accedendo alla qualità l’uomo raggiunge una vera inclusione nel mondo come totalità e, in questa maniera, rende totale o completo il mondo. Non è la presenza dell’uomo e del suo fare coatto il punto che fa la differenza, ma l’esperienza nella qualità. Insomma la totalità si colloca sul discrimine tra manifesto e immanifesto, una linea di confine che più propriamente è un’apertura che può essere, tutte le volte che la si cerca, sistematicamente mancata perché non si possiede sufficiente coraggio. Tutti girano attorno alla totalità del mondo ma esercitano solo un commento infinito ai suoi limiti, ora visti più grandi, ora più piccoli. Tutti partono dalla sommatoria dei fatti, che per incuria o ignoranza, a volte, chiamiamo atti, ma non producono mai – né possono produrla perché questo prodotto non è nella linea di produzione del fare – una interpretazione onniavvolgente, cioè capace di sospettare la qualità come mancanza. Ecco Abbagnano: «Il mondo si configura così come la totalità assoluta di cui l’uomo, come esistenza, fa parte. Che l’uomo faccia parte del mondo è determinazione fondamentale della natura dell’uomo come esistenza; ma è anche determinazione fondamentale del mondo come totalità. Solo col riconoscimento dell’appartenenza dell’uomo al mondo, il mondo può essere riconosciuto e posto come totalità. L’affermazione di questa totalità è l’atto di una inclusione, il riconoscimento di un’appartenenza necessaria e di una comprensività assoluta. Riconoscere o considerare il mondo significa riconoscersi e considerarsi nel mondo. Proporsi il problema della costituzione del mondo significa proporsi il problema di sé come ente nel mondo. Perciò la prima chiarificazione che il problema del mondo deve subire ai fini della sua considerazione autentica si può ottenere solo rendendo esplicito ed evidente l’atto di autoinclusione che è alla base del problema e in generale della considerazione del mondo come totalità». (Ib., p. 157). Qui si ritrova, ancora una volta, la conduzione tra fatto e atto. L’autoinclusione è considerata un atto di trascendenza esistenziale, ma è sempre il fare della decisione che compare sotto altra formulazione. È una visione tollerante, incerta ma capace di una certa magnanimità. Io mi trascendo includendomi, ma non so bene in cosa mi includo, perché sono un prodotto del fare e non il suo demiurgo. Forse potrei agire, ma non so come, ho solo, nell’auto-inclusione, una sorta di inquietudine incompatibile con la supponenza del fare, nulla di più. Forse sono soltanto loquace e mi dilungo più del dovuto. Questo è certo un buon ragionamento critico, ma non è quello di Abbagnano. Egli precisa: «Ma il movimento verso l’essere non è mai identificazione con l’essere. L’uomo può e deve consolidarsi nel rapporto con l’essere, ma questo consolidarsi non annulla il rapporto in una coincidenza totale. Perciò il movimento dell’esistere nella misura in cui arriva al consolidamento del rapporto con l’essere arriva pure alla costituzione del mondo come totalità. Ora il movimento verso l’essere è la stessa costituzione dell’ente nella sua finitudine. Quel movimento è dunque la costituzione simultanea e correlativa dell’ente e del mondo: dell’ente come finitudine e del mondo come totalità; dell’ente come parte e del mondo come tutto; dell’ente come condizionato e del mondo come condizione». (Ib., p. 158). La parte è compresa nel tutto e l’ente – torna qui la metafisica professorale – è compreso nell’essere. Ma questa equazione può risolversi solo se l’essere si costituisce come totalità. Questa operazione richiede l’intervento della qualità, cioè dell’essere reale, non della quantità che è apparenza. Così risulta che la parte può non far parte della parte. Tutto ciò o si conclude nella qualità o è una costante regressione nell’incongruo. La vita per vivere ha bisogno del mondo, ma la formulazione potrebbe rovesciarsi come accade a quasi tutte le frasi come questa. Ciò non vuol dire che il mondo del fare, come apparenza, sia niente, al contrario è la sorgente del bisogno in quanto fornisce i mezzi per sopravvivere e anche per oltrepassare, andare nell’esperienza della qualità. Questo passaggio non è un trascendere ma un permanere nell’essere e nell’apparenza, in quanto nella qualità si ha un’esperienza diversa ma che è rammemorabile, quindi una esperienza che resta in un certo modo in collegamento con la quantità del fare. Se così non fosse non ci sarebbe rammemorazione. E la rammemorazione è, in un certo modo, un passaggio dalla qualità nella quantità. Non diretto, certamente, ma attraverso una vasta rete di peregrinazioni, dove parole che erano rimaste inattive nel fare ritornano diversamente addensando significati imprevisti. Il contesto del fare non aspetta un salvatore, anzi rigetta la rammemorazione, anche se questa è costretta a umiliarsi nei panni dell’oggetto fabbricato secondo le regole se non logiche almeno grammaticali.

Abbagnano avverte una necessaria dipendenza dell’uomo dal mondo, ma non ama specificare la parzialità del secondo elemento. Sembra così svilupparsi un rapporto tra la parte e il tutto. Egli scrive: «Se per situazione dell’ente nel mondo s’intende la necessità del rapporto che l’esistenza dell’ente stabilisce tra il mondo come totalità e la sua propria finitudine, si può dire che la situazione dell’ente nel mondo è definita dal bisogno. Il bisogno esprime la dipendenza necessaria dell’uomo dal mondo in quanto il mondo è necessariamente qualificato dall’appartenenza ad esso dell’uomo. La necessità di questa qualificazione è la stessa necessità di quella dipendenza. Proprio perché il mondo non è tale, cioè non è la totalità, se l’uomo non ne fa parte radicandosi in esso con l’esistenza, l’uomo è condizionato dal mondo ed ha bisogno di esso. La dipendenza dell’uomo dal mondo rivelata dal bisogno esprime di rimbalzo la necessità del rapporto tra il mondo e l’uomo ai fini della costituzione del mondo come totalità». (Ib., p. 159). Sembra che qui si faccia riferimento a un bisogno di completezza, evidentemente fuori luogo. Nel fare, di cui dovrebbe discutersi, il bisogno dell’uomo è normalizzato nella quantità. Vi può essere carenza e miseria non mancanza di apparente cointeressamento. Questa partecipazione è assicurata e, per altri motivi, fonda proprio quella divisione tra inclusi ed esclusi, di cui ho parlato altrove, che genera la carenza e la miseria e annega il bisogno esistenziale nel bisogno della sopravvivenza. Che si aspetta? Questa la domanda. Non la soddisfazione del bisogno di essere, che questo deve essere sempre rinnovato, ma l’oltrepassamento. Solo che non c’è un mezzo per andare oltre se non ci si mette in gioco fino in fondo. Su questa strada non c’è traffico, solo radi viandanti.

L’uomo nel mondo è parte fra altre parti? La totalità è solo sommatoria? Oppure ogni parte per mantenere la propria autonomia deve prendere le distanze di sicurezza, garantirsi con la propria normatività? Il mondo del fare lascia quiescente accanto al proprio meccanismo questo problema, meccanismo quindi per lui incomprensibile. Sente, nello stridore delle pulegge funzionanti, che qua c’è una portanza nascosta di inquietudine, ma non se ne spiega il motivo. Abbagnano fa lo stesso: «La costituzione del mondo come totalità e dell’uomo come parte di questa totalità, significa la rottura dell’essere in una molteplicità quantitativa. Come totalità il mondo è un insieme connesso di parti definite dalla loro esteriorità reciproca. Le parti come tali si escludono reciprocamente e il loro modo d’essere è una compresenza simultanea che esige la loro impenetrabilità. Il tutto non sarebbe tale se le sue parti non fossero compresenti; e le parti non sarebbero compresenti se potessero penetrarsi a vicenda annullando la loro esteriorità. L’impenetrabilità delle parti condiziona così la costituzione del tutto. Ma l’impenetrabilità non è altro che corporeità. La costituzione del mondo come totalità significa dunque la corporeità delle parti che lo compongono. Solo elementi corporei possono essere simultaneamente presenti per costituire un mondo. L’ente nel mondo non può essere dunque che un corpo tra i corpi. E se all’esistenza dell’ente è connessa necessariamente la sua costituzione nel mondo, ciò vuol dire che alla sua esistenza è connessa necessariamente la sua vita corporea. L’ente nel mondo è sempre necessariamente un corpo che vive. E la sua vita è definita dal bisogno: perché la corporeità, significando la sua appartenenza al mondo e la sua dipendenza dal mondo, esprime e concreta la condizionalità che il mondo esercita su di lui». (Ib., 159-160). Qui è abbozzata in modo soddisfacente la normatività produttiva del fare, separazioni di oggetti, corporeità degli stessi, spazio e tempo conflitti insieme. È anche sottolineata la continuità perversa del produrre, la sua sottointesa immutabilità. Perfino l’inavvertibilità del meccanismo scomparso, questo nella multiformità dell’apparenza. L’elogio del fare quantitativo non potrebbe essere migliore, visto, com’è ovvio, passivamente, qualcosa che è là e contro cui non si può lottare. La simultaneità corporea di oggetti non è totalità ma sommatoria. Questo sfugge ad Abbagnano, la totalità è qualcosa che comprende l’ospite inatteso, la qualità, e qui il filosofo annaspa.

Ma il mondo può essere rifiutato? Abbagnano risponde di sì. Con la fuga dal mondo e con l’abbandono al mondo. Vediamo il primo caso: «La fuga dal mondo è la rinunzia alle possibilità che il mondo offre per la realizzazione dell’uomo. Essa è mossa da una sfiducia radicale in tali possibilità: perché è una rinunzia totale, che è fine a se stessa». (Ib., p. 161). Non la rinuncia parziale di chi si concentra nell’isolamento ma quella totale, negazione dell’esistenza. Ora, secondo quello che abbiamo più volte detto, è questa fuga l’oltrepassamento? No, di certo. Il mondo del fare, solo quello, viene lasciato alle spalle con la durata dell’esperienza diversa, qualitativamente diversa, ma poi è quasi sempre ritrovato, anzi è con questo meccanismo dalle pareti rigide, produttore anche di strumenti conoscitivi, che si instaura il rapporto rammemorativo. La qualità non è comprensibile per il fare, che la considera un residuo remoto, immanifesto, a volte presente nelle cose di tutti i giorni, ma degradato a valore e non interamente se stessa. Comunque lo stesso fare si protegge e innalza le sue barriere conoscitive per mantenere il proprio rapporto produttivo in modo esclusivo, separato da turbamenti immanifesti e lontani. Il secondo caso è l’abbandono al mondo: «In questa forma [di non accettazione del mondo] l’uomo non si rende veramente conto della natura del suo essere, della instabilità e precarietà della sua esistenza. Egli è allora facilmente inclinato a credere che tutto nel mondo sia accomodato ai suoi bisogni, che la costituzione stessa del mondo sia ordinata al fine di rendergli possibile la vita e la felicità e che perciò nel mondo non ci sia nulla che non si possa misurare al metro della sua utilità e del suo criterio». (Ib., p. 162). Come si vede, per quel che riguarda il rapporto col mondo, almeno nel senso di Abbagnano, le differenze non sono molte. Anzi, nel secondo caso c’è l’accettazione vitale di un rapporto che nella fuga sembra mancare. Ma sono questioni di dettaglio. La sostanza del discorso è che in ogni caso è del mondo del fare che si sta parlando. Solo nella lotta per la qualità si capisce la dimensione umana della vita coatta che, bene o male, tutti sperimentiamo ma non tutti riusciamo a oltrepassare. Irretirsi nella benevolenza della catena è una forma di abbandono al mondo, ma non quella sopra riportata. Non basta muoversi a vanvera, come una gallina senza testa, c’è in questa forma di libertà spicciola la stessa tragedia del passeggio per i prigionieri, è importante per sopravvivere respirare un poco all’aperto, ma è anche un indebolimento delle proprie forze di resistenza. Scrivo questo sapendo bene quel che dico. Nel fare, nel suo meccanismo coatto, c’è questa forma di sottile malizia che blocca sul nascere qualsiasi aspirazione a una vita totalmente indomabile, diversa, strana e inaccettabile per l’ordine e la sicurezza. La qualità è l’esperienza della vita libera, grezza, violenta, forse irrespirabile, informe, caotica, che non può essere eletta a condizione normale se non andando oltre il punto di non ritorno, andando incontro alla perdita assoluta di sé. Di questo non c’è rammemorazione e si è spazzati via dal fare come un rifiuto. Produzioni adeguate provvedono alla separazione prima e all’eliminazione poi.

Quindi accettazione del mondo. Abbagnano non indica, al solito, di quale mondo fattivo si tratta. Scrive: «L’accettazione del mondo implica, dunque, che l’uomo si senta solidamente piantato nel mondo come parte di esso. Il sentirsi dell’uomo nel mondo implica non solo che egli sia nel mondo in conformità del modo d’essere che è proprio del mondo, cioè come corpo, ma anche il fondarsi e il riconoscersi in questo modo d’essere assumendolo come fondamento e rivelazione della realtà del mondo. Come ente nel mondo, l’uomo è un corpo adatto a riconoscere e a garantire la realtà degli altri corpi. Come tale esso è sensibilità. La sensibilità da un lato radica l’uomo nel mondo facendone un corpo, dall’altro rivela all’uomo il mondo nella sua corporeità. Il radicarsi nel mondo significa per l’uomo, nello stesso tempo e in virtù di un atto unico e semplice, essere un corpo e sentire come corpi gli altri elementi compresenti». (Ib., pp. 166-167). Vivere è avere un corpo sensibile, essere prodotto come oggetto e avere a disposizione altri oggetti, parimenti prodotti, chiamati nel loro interagire, sensibilità. Questo processo di radicamento comprende sia la sottigliezza della filosofia, che sembra ma non è in grado di mantenersi le mani pulite, sia la brutalità poliziesca. I due aspetti interagiscono insieme e convivono nello stesso meccanismo, anzi spesso sono il presupposto, una dell’altra, per l’afflusso alla caverna dei massacri. Uno sguardo alla qualità, con l’indispensabile oltrepassamento, sradica quel radicamento e provoca l’irruzione di un frammento altro disturbante, incautamente introdotto a scopo sabotativo nel meccanismo di produzione, cioè nella vita ben garantita di cui si affanna a parlare Abbagnano. Ciò è sufficiente a diffondere il terrore di una non adeguata accettazione del mondo. Suggerisce cioè la via dell’apertura verso la qualità, la fa vedere possibile. Mette allo scoperto un intreccio tra essere e apparire, tra qualità e quantità, che potrebbe nientificare la considerazione positiva di ogni filosofia che punta a sostenere e a giustificare il mondo.

Interessante l’insistenza sulla corporeità da parte di Abbagnano. Egli precisa: «Il corpo dell’uomo è sì definito come corpo dalla sua impenetrabilità e dalla compresenza simultanea che l’impenetrabilità rende possibile, ma il suo essere trascende la corporeità perché è piuttosto la condizione di essa. Come condizione della corporeità, è sensibilità; non nel senso di essere semplice apprensione della corporeità, ma nel senso di costituirsi come totalità di funzioni condizionanti la costituzione della stessa corporeità, cioè come un complesso di capacità atte a garantire, a controllare e a determinare la corporeità degli elementi compresenti nel mondo». (Ib., p. 167). Non totalità, imprecisamente fissata, ma sommatoria di capacità atte a produrre. Qui Abbagnano è a un passo dal chiarire la parzialità del fare e la sua lontananza dalla qualità, ma perde l’occasione. La vita e il fare non sono mai così intrecciati come nella sensibilità, con cui i difetti della protezione realizzata dalla grande macchina vengono alla luce. Individui fattivi sotto tutti i punti di vista, provveditori acuti e costanti della voragine dei massacri, possono essere talmente sensibili da vivere in una sorta di vertigine nella paura costante di mancanze e vuoti remoti, immanifesti. Non c’è mai un intreccio tra due estremi così distanti come il fare e l’agire, ma non c’è neanche assenza dell’uno nell’altro, e viceversa. Queste portanze, valori e rammemorazioni, mezzi conoscitivi nel caso opposto, quello della qualità, finiscono per contrapporre i tratti ben distinti di essere e apparire. Nessuno di questi due estremi minaccia l’altro di annientamento, solo la loro compenetrazione assoluta realizzerebbe il niente, ma questo non è possibile finché c’è il mondo così come crediamo conoscerlo. Scrutando la rammemorazione, che porta con sé i segni indelebili del vento del deserto, si sente una certa ammirazione per la potenza conoscitiva del fare, e tutto lo sforzo rammemorante, con cui si delineano nella caverna dei massacri le segnature altre e sconosciute, non è altro che fare. Viceversa il fare avverte la propria parzialità e se necessaria, a volte solo in maniera aleggiata, a volte apertamente, denunciando l’andamento circolare di ogni sforzo conoscitivo e l’inconsistenza stessa di ogni tentativo di completezza realizzato nell’ambito coatto.

La conclusione, dopo tanto sperare, è veramente modesta su questo punto. Così Abbagnano: «Ora, se per sensibilità s’intende non il semplice apprendimento ma tutte quelle complesse funzioni di osservazione e di controllo che il lavoro e la tecnica mettono in opera, si può indicare col termine anima l’insieme della sensibilità umana e si può dire che l’anima è il modo d’essere fondamentale del corpo. Il corpo, come corpo dell’uomo, è anima. Esso è compresente con la totalità degli altri elementi solo al fine di condizionarli nella loro compresenza, e tuttavia può condizionarli solo a patto di essere ricompreso da essi e di conformarsi al loro modo d’essere fondamentale. L’uomo è anima solo a patto d’essere corpo: può condizionare, comprendere e dominare la totalità dei corpi solo a patto di esser ricompreso in questa totalità come corpo tra corpi». (Ib., p. 168). Conosco bene questa scelta conclusiva di Abbagnano riguardante la sensibilità come somma di conoscenze. Era l’assetto opposto del mio modo giovanile di intendere il problema quando ero una macchina da guerra. Ne ho parlato a lungo nella nota introduttiva a questo lavoro. Che razza di idee mi venivano in mente all’epoca, ecco più o meno come si potrebbe chiudere la controversia. Solo che quelle idee, meno la macchina guerresca conoscitiva, sono più o meno quelle che ho adesso, sul finire della mia vita mentre scrivo queste righe in un buco ripugnante. Dovevo accettare il mondo com’è, ecco il suggerimento dell’epoca e quello che molti altri imponenti filosofi continuano a impartire dall’alto delle loro cattedre. E precisamente, continua Abbagnano: «L’accettazione del mondo significa, dunque, l’accettazione dell’esperienza sensibile come atto di autoinserzione nel mondo. Ma l’accettazione dell’esperienza sensibile come tale, non è il subirla né è il riconoscimento di un dato: è una ricerca. L’accettazione del mondo trasforma l’esperienza sensibile da una pura e semplice collezione di dati che si subiscono senza ordinarli o dando loro solo un ordine provvisorio e accidentale, in una ricerca lenta, progressiva e metodica che tende a scoprire l’ordine oggettivo». (Ib., pp. 168-169). Ecco la trasformazione – ancora un termine fuori luogo – della confusione caotica della conoscenza, continuamente agente come campo di forza sotto l’influsso degli arrivi conoscitivi, in una ricerca lenta e ordinata e principalmente in un ordine oggettivo. In particolare erano le parole seguenti che mi gravavano di un peso insopportabile: «E difatti la non-accettazione del mondo, sia come fuga dal mondo, sia come abbandono al mondo, non elimina né distrugge l’esperienza sensibile come tale, elimina e distrugge bensì la ricerca dell’ordine. L’esperienza sensibile rimane in quei casi come qualcosa di provvisorio e di accidentale che non rivela e non garantisce un autentico oggetto. Soltanto il riconoscimento del carattere essenziale che ha per l’uomo la sua appartenenza al mondo, porta l’uomo a consolidarsi in esso assumendo su di sé la sensibilità nella forma di una ricerca che ha per fine di garantire e controllare l’oggettività del mondo stesso. Nella ricerca, l’esperienza sensibile si consolida e si raccoglie ordinandosi da un lato come sistema di controlli, di misure e di operazioni tecniche, dall’altro come sistema di determinazioni oggettive. La ricerca costituisce l’uomo come vero e proprio soggetto del mondo e come tale capace di comprenderlo e dominarlo; e costituisce il mondo come vero e proprio oggetto dell’uomo, come totalità di strumenti che lo aiutano e lo limitano al tempo stesso. Ma poiché la ricerca, non essendo altro che il riconoscimento e l’accettazione del mondo, non può far altro che condurre l’uomo a rendersi conto della natura del mondo, e questa natura è definita dalla corporeità, così essa consiste essenzialmente in un’indagine sulla natura della corporeità come tale». (Ib., p. 169). Io, al contrario, penso – il presente è d’obbligo – che l’ordine se non uccide la conoscenza, facilitandola sulle prime, poi la condiziona e la ricompatta rendendola utilizzabile, cioè pronta a produrre oggetti grazie alla mostruosa macchina del fare. Chiamare questo richiamo alla garanzia col termine di “sensibilità” è un altro dei tanti imbrogli filosofici. Non è un caso che qui Abbagnano utilizzi questo termine per indicare un immagazzinamento e una produzione ordinati secondo regole e monotonie ripetitive. Il fare è un moto sordido e soffocante di vivere, ma pur sempre è sensibilità, cioè capacità di capire se non altro il processo conoscitivo. Così si mescola in modo preciso e calibrato astrazione e concretezza, apparenza ed essere, ottenendo un amalgama che rende più difficile l’oltrepassamento. In fondo, per Abbagnano, il conoscere è diretto soltanto al “dominio del mondo”, quindi alla conquista dello spazio corporeo coesistenziale. La conclusione di questa tesi è, ancora una volta, modesta: «La misura del rapporto di esteriorità tra i corpi è lo spazio. La ricerca è essenzialmente la considerazione spaziale della corporeità perché, mirando a controllarla nella sua vera natura, la sottopone a rigorosi metodi di misura quantitativa. La considerazione spaziale porta perciò a riconoscere nei corpi quantità discrete separate da intervalli misurabili e porta a riconoscere come variazioni di tali intervalli tutti i mutamenti che i corpi subiscono. L’intervallo tra tali variazioni, misurato anch’esso spazialmente, è il tempo come determinazione degli elementi compresenti. Spazio e tempo non sono che la misura della corporeità, ed esprimono l’intera essenza di tale corporeità. La ricerca che muove a scoprire la natura autentica del mondo come totalità corporea, non può essere altro che una considerazione spazio-temporale di esso». (Ib., p. 170). Qui ci si inoltra in problemi che non possono essere trattati metafisicamente. La scienza, di cui qui si apre un capitolo nuovo e, per il momento, appena accennato, ha bisogno di ben altre considerazioni critiche. Abbagnano altrove ci proverà con scarsi risultati.

Se la scienza oggettivizza il mondo, sottrae l’uomo alla totalità col mondo stesso e questo causa la perdita della omogeneizzazione. In altri termini, l’uomo perde il dominio del mondo. Stranamente – ma non tanto perché siamo davanti a un processo dialettico per altro non raro in Abbagnano – questa oggettivazione permette una conquista più salda. Egli afferma: «Di fronte a un mondo siffatto, l’uomo non può arrogarsi alcuna supremazia e alcuna pretesa di anticipato dominio. Il dominio deve conquistarselo. Ma può conquistarselo appunto perché il mondo è tale da apparirgli estraneo; appunto perché in esso non ci sono che cose misurabili e quindi accertabili nella loro strumentalità; appunto perché nel mondo non c’è più l’immagine dell’uomo. Nasce così la scienza; la quale, sorta dalla polemica contro l’animismo, il finalismo, la metafisica e in generale ogni forma di non-accettazione del mondo, è il riconoscimento esplicito del mondo come oggettività e la ricerca di tale oggettività come ordine spazio-temporale. La scienza non è esperienza sensibile perché è ricerca; e la ricerca è il consolidamento dell’esperienza sensibile nella forma autentica della considerazione spazio-temporale del mondo». (Ib., p. 171). Sempre di conquista si tratta e la tecnica è considerata da Abbagnano come la vera realizzazione dell’uomo. Siamo al fondo del problema. Il professore ha messo in campo tutti i suoi strumenti di guerra, non è più possibile un discorso di vasta portata. L’obbedienza alle regole – ma quali regole? – è un principio assoluto, cioè assolto da ogni necessità dimostrativa. Tutti siamo così imprigionati in una definizione e qui ci dibattiamo ignari del nostro futuro coatto e incapaci di interrogare un destino che non si vuole concedere. Più le garanzie fioriscono come ragnatele attorno a noi e più vogliamo aumentare le cautele. Noi possiamo andare oltre il fare, ce ne rammarichiamo amaramente se restiamo fermi e, nello stesso tempo, vogliamo rimanere lontani dal rischio. Ci manca il coraggio ma non sappiamo dove cercarlo, siamo in fondo ignari di tutto e la conoscenza che acquisiamo da sola non basta a farci alzare dalla poltrona.

Le parole di Abbagnano sulla ricerca scientifica sono insostituibili: «La ricerca scientifica appare ed è al di sopra di qualsiasi arbitrio umano, di qualsiasi particolare interesse; appare ed è tutta tesa nello sforzo di scoprire la natura nella sua verità obiettiva. Ma appunto perché è al di sopra di ogni particolare arbitrio o interesse, si collega e si identifica con l’interesse più essenzialmente umano che è quello di ritrovare nel mondo la possibilità e le condizioni dell’esistenza. Ed è appunto perché non tende ad altro che alla verità obiettiva della natura, determinandosi in questo sforzo come sistema di procedimenti dal quale esula ogni preconcetto o anticipazione, essa è in grado di servire l’uomo e di fornirgli i mezzi necessari per la sua affermazione nel mondo». (Ib., p. 173). Adesso sappiamo perfettamente cos’è un filisteo. Un filisteo è uno che sa sempre come comportarsi nella media delle scelte, che non sono mai vere scelte, ma solo decisioni equivalenti. Egli sa che la scienza è misura della forza produttiva e la tecnica il suo braccio armato che la indirizza verso il lago di sangue. Sa tutto questo ma non si sporca le mani. Sa anche che la filosofia mantiene un livello più alto di analisi, una certa scioltezza di vedute, ma anche una grande cautela, per non avvertire l’odore del sangue. Il filisteo è un filosofo accorto, sa limitare le sue parole a un livello indifferente e insignificante perché è sempre sotto sorveglianza e potrebbe tradirsi senza volerlo. Calcola e misura, si guarda attorno e, specialmente in materia di scienza, sapendone quasi sempre poco – diverso il caso della logica e della metodologia – si sente sempre in stato di assedio. Io penso ancora oggi, a distanza di tanti anni, che di fronte alla conoscenza l’unica soluzione immediata, cioè fattiva, è l’acquisizione senza pretese di controllo o di dominio. Dopo, continuando nel movimento usuale e anchilosato del fare, alla lunga la conoscenza diventa un bagaglio intrasportabile, bisogna svuotarlo senza paura di sbagliare o di commettere sprechi pregiudizievoli, perché lo stesso peso conoscitivo diventa freno all’oltrepassamento mentre dovrebbe essere strumento e punto di forza assommati al coraggio. L’abbandono è la condizione del coinvolgimento e della sapienza. Siamo ormai molto lontani da Abbagnano e dalla sua idea – solo apparentemente correttiva – che la tecnica è usata dall’uomo ma la natura dell’uomo non è un problema di tecnica scientifica, né può costituire il suo oggetto.

Riguardo al rapporto tra esistenza e arte, il pensiero di Abbagnano si riassume in queste parole: «L’arte può avvicinarsi alla natura o allontanarsi da essa; può aver la pretesa di riprodurla o di prescinderne; può confessarsi ad essa inferiore o può affermare la propria superiorità di realtà e di valore. Ma in ogni caso essa si costituirà nel suo rapporto segreto con la natura e includerà necessariamente dentro di sé un movimento di ritorno verso di essa». (Ib., p. 177). La cosa non è chiara, non basta parlare di una metaforica “concretezza genuina” dell’arte, né affermare l’indissolubile unione di arte e natura. Ma di quale natura parla il filosofo? Forse di quella che il fare modifica continuamente? C’è nel fare, stipato nella sua macchina infernale, nelle sue pulegge infaticabili, il nocciolo necessario della natura? O, meglio, c’è nel fare l’esistenza tutta intera, quindi priva di mancanze, comprendente pertanto la natura? Abbagnano non è chiaro perché non distingue tra fare e agire e produce il mondo come sommatoria presupponendolo come totalità. Infatti scrive così di questo fantastico “ritorno”: «Non si può ritornare alla natura se non si è già stati in essa, se non si è sempre rimasti in essa. Il ritorno suppone che la connessione tra il soggetto e la natura non sia mai venuta meno. Suppone una continuità necessaria in virtù della quale si possa ritrovare ciò di cui si va in cerca. Suppone altresì una parentela, un’affinità reale, che non è mai venuta meno, ma che nell’atto del ritorno viene restaurata e ricondotta al suo vero significato. Perciò, ponendosi come puro soggetto del ritorno alla natura, il soggetto si riconosce e si riconferma nella sua naturalità. Esso muove verso di essa non già perché il vincolo che lo legava ad essa sia stato spezzato o possa essere spezzato, ma proprio perché questo vincolo non è mai venuto meno ed è tale da dover essere riconosciuto e ristabilito nella sua essenza genuina. Attraverso il soggetto, attraverso l’iniziativa che lo costituisce, la natura stessa ritorna a se stessa. L’iniziativa del soggetto non scinde il rapporto tra la natura e se stessa se non per ripristinarlo immediatamente nella forma di una connessione più intrinseca ed essenziale. Se un ritorno è necessario, vuol dire che la naturalità propria del soggetto deve, attraverso il ritorno, riconfermarsi e rinsaldarsi col riconoscimento della originarietà del legame. Il soggetto ritorna alla natura perché esso è originariamente natura». (Ib., p. 179). Qui sembra chiudersi un ragionamento privo di apertura. C’è il sospetto che la promiscuità tra i concetti di natura e vita non sia risolvibile in una qualche distinzione. La vita sembrerebbe una concrezione della natura, e con questo non si comprende che ne è dell’apparire fattivo e della sua coazione. Eppure nel fare c’è una materia in elaborazione, corrosiva della natura e irradiante ordine e controllo, cosa che nella natura non esiste se non come immagine di necessità sulla quale si è esercitata a lungo la filosofia. C’è nel fondo della realtà coatta, con le sue regole e la monotonia delle sue sovrintendenze, un risibile marasma che viene nascosto male, ma nascosto, dalla ripetitività. È qui che si decide la precisa appartenenza a una ripartizione necessaria e cautelata, e questa decisione è spacciata come scelta autentica.

Continua Abbagnano: «Il ritorno alla natura suppone dunque come prima condizione l’appartenenza alla natura del soggetto ritornante, l’essere esso stesso natura. Questa naturalità primitiva, che non sussiste se non per diventare originaria nel ritorno e attraverso il ritorno, è la sensibilità. La sensibilità è la naturalità primitiva del soggetto ritornante, quella naturalità che, in virtù stessa del ritorno, diventa originaria perché viene riconosciuta al di là della dispersione possibile». (Ib., p. 181). Ancora il movimento circolare visto prima, con in più la sensibilità che abbiamo di già discusso. Che questa sia una specie di “naturalità primitiva” è solo comprensibile nel senso del fare come capacità che l’uomo riscopre nel suo continuo reinventare quello che fa. Questo suggerimento non è però percorribile perché sigillerebbe ancora di più il fare in se stesso, in modo implacabile. Non si ricava nessuna possibile apertura da questa considerazione. La qualità è e resta remota, circonfusa da una luce di estraneità incomprensibile. Qui si lascia cogliere, indirettamente, la possibilità di una distanza tra natura e vita, ma chi può dirlo con chiarezza. Non certo Abbagnano, irretito nel suo dialettico superamento. Ecco infatti come continua: «Ma la sensibilità come naturalità primitiva è già trascesa nell’atto in cui viene costituita. Il movimento del ritorno la costituisce solo per superarla. Il soggetto ritornante si pone come ente sensibile soltanto in vista del suo ritorno. Attraverso il ritorno la naturalità primitiva si riconosce e si attua come originaria. Ciò che era l’inizio diventa il termine, ciò che appariva la condizione diventa il condizionato. Come termine del movimento di ritorno, la naturalità diventa naturalità originaria e la sensibilità diventa sensibilità pura. La naturalità originaria è la condizione e la possibilità della naturalità primitiva. La sensibilità pura è la sensibilità diventata la condizione e il fine di se medesima». (Ib., pp. 182-183). Qui la parola guida è “superamento” e non ha bisogno di altre spiegazioni. L’uomo non è per niente rispecchiato in questa analisi di Abbagnano, meno forse che in altre analisi.

Per quanto tenace sia la sua dialettica d’accatto – bisogna qui chiamare le cose col loro nome – essa si addentra sempre di più nella irrisolta contraddizione tra somma di oggetti e totalità. Chi potrebbe mai affermare che sono sinonimi. In sostanza, il mondo dei servizi coatti che amministra il fare produttivo è solo una parte della realtà, quella dove dilaga l’apparenza, non è un mondo autosufficiente ma è come se lo fosse in quanto per questo mondo quello che conta è proprio ciò che esso dice di sé, e questo dire fa parte della sua stessa produzione. La qualità sta altrove e non c’è sensibilità artistica che possa coglierla se non in un coinvolgimento di cui non è capace per mancanza di coraggio. Scambiare un fare raffinato e perfino insensato per arte è un modo come un altro per foraggiare la caverna dei massacri. Abbagnano non affronta in questo modo la lontananza dell’essere, pensa che questa possa venire valicata dalla decisione, ma anche questo pensiero è spesso affermato in modo ondoso e avvolgente, facendo ricorso a meccanismi dialettici non ben precisati nella loro origine e nel loro funzionamento. Qui la conoscenza della materia filosofica fa velo al pensiero speculativo, è insomma il rischio a cui si espongono i professori. C’è qualcosa in questa superficialità che non si accorge del male nel mondo, cioè di come queste affermazioni perbeniste e progressive siano funzionali al massacro, c’è qualcosa che incute sgomento. Quando e dove sarà possibile attaccare un meccanismo così onnicomprensivo e oleato bene? Il fare assurge a terribile concretezza della perfezione meccanica e mette in mostra, proprio nelle apparenti innocuità di Abbagnano, qualcosa di ferino con cui difendere le immancabili pecche del processo produttivo, lo perfeziona con energia, attenzione, mezzi teorici di rilievo.

Ecco l’essenza dell’ente. Abbagnano ha per le sue affermazioni sempre una formulazione che raramente evita di essere essenziale. Ecco come si esprime: «L’arte comincia solo quando l’uomo, invece di abbandonarsi alla sensibilità primitiva disperdendola negli interessi molteplici che le cose singole suscitano in lui, volge le cose stesse e i loro caratteri, nonché la loro produzione e manipolazione, all’unico fine della sensibilità stessa. E l’uomo fa questo solo nell’atto in cui riconosce nella sensibilità il suo principio originario, lo assume come essenza unica e totale della sua costituzione, e subordina ad essa le cose o gli elementi del mondo ai quali metteva capo, come a termini definitivi, la sua sensibilità primitiva. Il ritorno alla natura è il riconoscimento che l’uomo fa della sensibilità come sua natura ed è perciò l’assunzione della sensibilità a forma finale alla quale vengono subordinati e diretti gli elementi ai quali essa pareva primitivamente rivolta». (Ib., pp. 184-185). Ancora un principio originario, la sensibilità è di turno. Ma depurato, reso “sensibilità pura”, ottenuta dal “soggetto ritornante” alla natura. Niente che concerni il sovraccarico produttivo, il meccanismo che indirizza alla caverna dei massacri. Il mondo sembra essere il migliore fra quelli possibili. Eppure queste pagine sono state scritte durante il fascismo e durante la guerra. Abbagnano non se ne dà per inteso, come se fosse vissuto in una bolla di sapone.

Ma l’intenzione sua fu più modesta, come del resto ha il tempo di avvertire fra le righe, quando scrive: «La sensibilità pura è il determinarsi di un interesse vitale dell’uomo per la natura ed insieme l’avvicinarsi della natura all’uomo, la partecipazione effettiva della natura all’esistenza propriamente umana», (ib., p. 185), non vuole dire esattamente quello che le sue parole sembrano dire, vuole restare al di qua. Insomma, non più del fare. Eccolo: «La sensibilità primitiva è il semplice riconoscimento della presenza reale di un oggetto che è lì, e in quanto è li, può essere osservato e utilizzato». (Ibidem). Frase che non ha bisogno di ulteriori richiami. La riflessione sull’arte, subito dopo, è disarmante: «Vedere significa che un oggetto è là e che può essere riconosciuto nella sua realtà e nei suoi caratteri. Ma dipingere significa far del vedere il proprio scopo, realizzando un oggetto che lo rende integralmente possibile. La sensibilità pura od artistica implica così la determinazione di un oggetto. Ma si tratta di un oggetto che non vale più come cosa o strumento, ma solo come realizzazione in forma finale della sensibilità come tale. L’oggetto dell’arte non è una cosa: ridiventa cosa solo nel caso che in esso la sensibilità pura non si riconosca e non si attui come tale». (Ib., pp. 185-186). L’esempio della pittura vale da solo una spiegazione. Abbagnano parla di ciò che non conosce e di qualcosa che all’epoca sua ormai non esisteva più, o quasi. Purtroppo quello che gli accade qui – come vedremo meglio in seguito – gli accadrà anche in altri campi specifici del sapere. Grossi abbagli si accumulano, illuminati soltanto dal povero lume filosofico, troppo poco per far vedere i limiti e le deformità a volte veramente sconcertanti. È facile leggere le sue pagine migliori, che poi sono proprio queste dell’Introduzione all’esistenzialismo, ma è difficile digerire quelle peggiori. Si sente di più, in queste ultime, un sordo rumore di pulegge al lavoro, un produrre apparenze che crollano una sull’altra con un rumore sordo. La psicologia dei filosofi è capitolo ancora sconosciuto. C’è una certa testarda resistenza in Abbagnano nel non volere abbandonare il terreno in cui si illude di rimanere al sicuro. A un certo punto, anche la critica più benevola – e la mia non è certo particolarmente cattiva – deve cadere e allungare gli artigli. Da questo punto di vista, cioè dalla psicologia dei filosofi, non ci sono piccoli o grandi pensatori, ma tutti piccoli uomini, immersi nelle loro idiosincrasie. Pieni di zelo rimescolano le loro carte e non hanno rispetto che per le loro presunte corrispondenze, giochi di apparenze non movimenti dell’essere.

Ancora il gioco dialettico: «L’esistenza umana non è natura se non perché è ritorno alla natura. Esistere per l’uomo significa non già abbandonarsi alla naturalità, ma riconoscerla e porla in atto come forma originaria e finale. La realizzazione autentica della naturalità nell’uomo è l’arte come sensibilità pura.

«Ma se è così, la naturalità dell’oggetto estetico consiste unicamente nella sua partecipazione effettiva all’esistenza umana come tale. L’oggetto estetico è la possibilità effettiva della sensibilità pura. Esso è la natura stessa che si umanizza diventando possibilità intrinseca dell’esistenza propriamente umana. Ritornando alla natura e riconoscendola come propria origine, l’uomo diventa autenticamente natura. Il che vuol dire che la natura entra autenticamente a far parte della sua esistenza propria». (Ib., pp. 186-187). Il ragionamento ruota attorno al termine “partecipazione” di un oggetto prodotto dal fare – che sia definito “estetico” è un grazioso tentativo di depistaggio – all’esistenza umana. La natura diventa uomo. Concetto che si vede in che modo ha finito per corrispondere alla realtà. L’arte non può non cogliere l’odore di morte che oggi impregna il mondo coatto che ci circonda. Nulla lascia intendere che Abbagnano se ne sia accorto. La frenesia della sua tecnica dialettica, in questo punto si accentua, diventa una continua spola tra gli opposti e i distinti, un omaggio inconsapevole, forse, al suo antico nemico? Non lo so. Non voglio essere cattivo. In ogni caso, è evidente che lui rimane attaccato alla realtà e all’“utilità”, il che richiama inevitabilmente il fare produttivo anche quando parla di “ritorno” alla natura, non un abbandono ma un ritorno. Ecco cosa scrive: «Ma l’uomo può anche, invece di abbandonarsi alla natura, ritornare alla natura. In tal caso, il suo interesse vitale è rivolto non soltanto alla realtà e alla utilità delle cose, ma anche e soprattutto alla sua stessa sensibilità come condizione e fondamento di quella realtà e utilità: la quale pertanto non viene negata o distrutta ma conservata e giustificata». (Ib., p. 188). La sensibilità è così incamerata e garantita, cioè prodotta e immagazzinata. Il filosofo rimane attaccato con i denti al meccanismo di conservazione e giustificazione, in fondo è questa la sua vera decisione, la sola che gli è possibile. Questa vicenda della sensibilità è un piccolo movimento dialettico, uno dei più piccoli fra i piccoli, emblematico di come l’apparenza lavori a fare apparire corretto ciò che è solo fantasima. Ed è solo in questa dimensione che l’uomo conquista un tipo particolare di ombra che chiama “libertà”. In questi falsi movimenti c’è una sorta di abbassamento implicito, si intravede la rinuncia a qualsiasi tentativo di andare oltre, verso la qualità, e si vede perfino la dimenticanza voluta e ottusa di questa apertura. Non bisogna scordare inoltre che tutto ciò che suona diverso è pericoloso, lo stesso essere con la sua caotica presenza mai codificabile, è fuorviante proprio perché in fondo considerato inattingibile e anche un poco oppressivo. In effetti l’oppressione e il controllo considerano oppressiva la libertà, e questa è una conseguenza del terrore che ispira l’ignoto. La qualità ha una sua traccia nel fare e da questa il meccanismo ha il sospetto che qualcosa di superiore – non veramente d’altro, ma di superiore – potrebbe schiacciarlo. Nessun meccanismo può concepire l’oltrepassamento.

Tutto il ragionamento sull’arte cond0otto da Abbagnano rimane così prigioniero della quantità. Ecco come si esprime: «E poiché l’impegno esistenziale nel senso della sensibilità pura, determina non solo la costituzione del soggetto ritornante, ma anche quella dell’oggetto estetico, così non c’è arte senza che venga determinato un oggetto, senza cioè che ci sia la produzione effettiva dell’opera d’arte. L’arte è sempre produzione, lavoro, tecnica. La tecnica è il momento della realizzazione dell’opera d’arte: cioè è il momento nel quale realizzando se stesso nella forma della sensibilità pura, l’uomo realizza nell’unico e medesimo atto l’oggetto che è la condizione di questa forma». (Ib., pp. 190-191). L’uomo non è sensibilità e basta – che anche ciò sarebbe produzione di un oggetto – ma è produttore come artista, cioè come tecnico che fa l’oggetto “artistico”, qualsiasi cosa questo significhi. L’artista è forse il meno indicato a cogliere la qualità, egli ha una forza particolarmente acuta – a volte, non sempre – per farle prendere corpo come residuo nell’ambito del fare. Questo fa avvertire un breve brivido che si può a stretto rigore caratterizzare come “estetico”, tutto qui. La qualità è altro, molto lontana e inaccessibile se non si mette in gioco il coraggio, un territorio lunare zeppo di estranee buche e diafane montagne.

Abbagnano sente il bisogno di spiegare in che modo l’arte come oggetto – quindi come fare – sia spiegabile. Egli scrive: «Se l’arte, come impegno esistenziale, è sempre necessariamente produzione dell’oggetto, cioè tecnica, è evidente che il gusto dell’arte e la critica d’arte sono completamente diversi dall’arte. Possiamo designare con l’espressione intelligenza dell’arte il gusto estetico e in generale ogni capacità di valutazione e di critica nonché tutti i sentimenti, le emozioni e le passioni che possono essere suscitate da un oggetto dell’arte». (Ib., p. 192). Anche qui restiamo prigionieri delle condizioni che reggono il fare, anche se si cerca di trascendere queste condizioni nel vincolo della comunanza e della solidarietà. Perfino il desiderio di “gloria”, anziché essere paragonato, come si vede sempre più chiaramente oggi, a un movente di mercato, è inserito in questo processo dialettico coesistenziale. Per cui l’intelligenza artistica, cioè la comprensione dell’oggetto d’arte, egli scrive: «… si rivolge sempre e soltanto all’oggetto estetico; ma nell’oggetto estetico non considera e non può considerare che l’individualità dell’artista». (Ib., p. 193). Qui è mantenuto lo stereotipo dell’artista come qualcuno che non sa come è fatta la vita, un essere avvolto in un alone misterioso che condivide con gli altri fino a un certo punto. C’è un’aria di famiglia che risale alla originaria problematica esistenziale, poi le cose cambiano in quanto al prodotto artistico è impresso un segno particolare, di cui il mercato si incarica della commercializzazione. Di per sé, l’artista è un produttore di apparenze che alimentano la macchina infernale che lo governa e la rendono gradevole. La miseria permane e i suoi cocci – una volta espulsi dall’oggetto artistico – ora sono reintegrati in esso, solo che viene resa più tollerabile, imbellettata. Nell’artista è visibile, attraverso la sua opera, la potenzialità del produrre, i limiti estremi e i confini della sua estensione, dove potrebbe cominciare la qualità, potrebbe ma non è, perché in quelle terre confinarie, coltivate dalla forza di espressione e del segno che l’artista pone nel prodotto, c’è solo qualche residuo, un valore fittizio. Un sogno impossibile, attraverso l’arte, si insinua nel produrre coatto, nella sua bassa e spregevole coordinazione produttiva e porta l’apparenza inconcepibilmente lontano, senza per questo spostare la gravità priva di respiro che aleggia sul mondo del fare amministrato. Abbagnano conclude in modo quasi modesto, inadeguato in ogni modo: «Per l’intelligenza artistica l’opera d’arte è insieme la rivelazione della natura e l’autobiografia dell’artista: è un appello a quel ritorno alla natura che è la via della realizzazione autentica dell’uomo come natura e insieme un appello a una forma non caduca di solidarietà umana». (Ibidem). Questo andirivieni non dà all’arte la sua autonomia fattiva, non riconosce l’aspetto altamente percettivo che le compete, sia pure nei limiti che conosciamo. La tira per i capelli in un movimento dialettico che finisce per consegnarle un compito non adeguato. C’è sempre nell’arte un’aspirazione più vasta del semplice contenuto fattivo, schiacciata dal meccanismo oggettuale e dalle leggi del mercato, non sempre questa aspirazione sboccia. Abbagnano vuole invece imprigionarla nella storicità per garantirle una vita, grama ma sempre una vita.

Egli insiste: «Nella storicità il passato si costituisce e si conserva nel suo significato fondamentale ed eterno. La storia è il riconoscimento del passato in ciò che è degno di sopravvivere: è la costruzione del passato come avvenire. L’arte, come ritorno alla natura, non è nella storia: è essa stessa storia. Essa è storia per il movimento intrinseco che la costituisce. Il ritorno alla natura è un ritorno all’origine: è un riconoscimento, è un porla in essere e un farla valere come tale; è un farne l’avvenire. E in quanto è storia, l’arte non ripete mai il passato. La ripetizione supporrebbe che il passato fosse tale fuori dell’atto del riconoscimento; e che questo riconoscimento pretendesse una riproduzione fedele. Ma in realtà, riconoscimento del passato è la costituzione del passato, è la rivelazione del suo vero significato; e solo nel suo vero significato il passato diventa maestro dell’avvenire. La tradizione nell’arte è spesso più rivoluzionaria di qualsiasi volontà innovatrice; e veramente una volontà innovatrice non ha effetto se non riconduce l’arte alla sua vera essenza, cioè alla sua origine, e se non la fa riconoscere nel suo stesso passato. La storicità dell’arte la riconduce ancora una volta alla solidarietà dell’esistenza fra gli uomini, riconoscimento del passato è la costituzione di una tradizione nella quale si forma e vive una comunità di uomini solidali tra loro. L’arte e l’intelligenza dell’arte determinano, per la loro storicità, una comunità coesistenziale nella quale soltanto gli uomini ritrovano se stessi perché essa realizza l’individualità di ciascuno, la sua natura originaria». (Ib., pp. 194-195). Il cerchio si chiude e si integra con altri cerchi. La storicità del passato e il ritorno originario all’avvenire – attenzione, non al destino –, il ritorno alla natura e la storicità dell’arte, l’autenticità della scelta esistenziale e la “novità”. Tutto questo è un’apparenza ben costante, ma debole. Egli nega l’evidente ripetitività del fare e la nasconde dietro la vitalità della tradizione artistica. Attacca la “velocità innovatrice” e non si rende conto che il punto critico è nella volontà cieca e non nell’innovazione, che se è produttiva è e resta coatta. L’arte è tradizione e innovazione nello stesso tempo, perché è produzione e come tale segue le regole dell’amministrazione produttiva, non potrebbe essere diversamente. Per questo motivo, salvo casi rari di oltrepassamento, che l’artista realizza pagando personalmente – ed allora essa è rammemorazione –, essa nasce vecchia e saputa. Nelle procedure dialettiche di Abbagnano c’è indubbiamente molto mestiere filosofico, e ciò spiega i miei parziali obblighi di un tempo remoto, ma c’è poca, concreta, intelligenza filosofica. Spesso queste supposte dimostrazioni ci portano in un luogo remoto che nulla ha a che fare col punto di partenza e lì veniamo lasciati, perplessi più che mai. Questi movimenti sono apparenza che si ricopre di veli e si agghinda per mettersi in mostra, senza riuscire a nascondere l’antica matrice idealista che si è spesso solo malamente sottesa.

La conclusione di Abbagnano è in armonia con quello che abbiamo detto finora: «Il ritorno alla natura include ed attua l’intera metafisica dell’arte riannodandola strettamente alla realizzazione autentica dell’esistenza umana come tale. La metafisica dell’arte, di cui ho sommariamente esposto alcuni capisaldi, connette saldamente l’arte alla normatività costitutiva dell’esistere umano». (Ib., pp. 195-196). Come uno squarcio di luce irrompe adesso la parola “metafisica”. Non che la terminologia debba avere la meglio sulla realtà concettuale, caso mai è il contrario, ma certe volte è importante sottolineare gli spunti verbali perché stanno a indicare qualcosa che persiste, acquattato dentro come un vecchio gatto, pronto a saltare. E non è neanche un caso che proprio qui, in chiusura di questa Introduzione all’esistenzialismo, torni la parola “normatività”, come motivo costante e rintocco funebre di tutto il lavoro. La ricostruzione dell’esistenza e dei suoi problemi, che doveva essere grandiosa, si è rivelata una pantomima dove la tecnica ha sostituito il problema conducendolo verso soluzioni apparenti, in perfetta armonia con i fantasmi di cui si parla. Al centro della scena c’è la “problematicità” che è fatta affacciare come un demiurgo per poi ritirarla nella ristrettezza di una “scelta autentica”, “originaria”, con la muta assistenza di meri espedienti dialettici. Tutto il contesto si mantiene prudentemente lontano dal mondo concreto del fare e non ha neanche il sospetto di un mondo diverso, dove a vivere è la qualità. L’impressione più penetrante che ne ricavo oggi, dopo cinquant’anni e più dalla mia prima lettura, è che c’è una forza sprecata, un avanzare e un ristare, un addormentamento terrorizzato con uno scontro sconsiderato di processi centrifughi e centripeti. Troppo puntiglioso, troppo dettagliato ed esigente, il suo dire avrebbe meritato un coraggio maggiore e, da questa disponibilità evidentemente non disponibile, conclusioni diverse. La sua stessa inflessibilità logica, astrattamente condensata nei movimenti dialettici, è spesso sprecata, cioè non applicata in tutte le sue conseguenze. Così, la contraddittorietà erompe sovrana e non c’è modo di frenarla, anzi più egli avanza e più quella lo avviluppa in modo invincibile.

Il prudente Abbagnano, nell’avanzare, si guarda attorno da tutte le parti, si sorveglia da sé, cerca fondamenti per poggiare bene, in modo definitivo, le sue tesi. L’emanazione di un continuo pericolo di perdita sembra aleggiare attorno al suo dire, ma è solo una impressione, non si tratta di vera inquietudine. Abbagnano è placido e sicuro nel suo procedere, sa che nell’apparenza tutto e il contrario di tutto può essere fatto di volta in volta comparire e scomparire. Da dove dovrebbe arrivare il pericolo? Forse da qualche improvvida considerazione critica sul fare? Non c’è nulla di speculare tra il mondo ricostruito nell’apparenza da Abbagnano e la qualità che travolge ogni ostacolo. Nessuna cosa è qui più remota di questo mondo qualitativamente diverso. Certo, anche se remoto, il mondo dell’oltrepassamento, sia pure come incubo da scacciare via, è sempre dietro l’angolo e basta muoversi in maniera inopportuna per trovarselo davanti. Per questo Abbagnano è così prudente e cerca di mettere ostacoli a questo pericoloso incontro che suppone possibile, anche se non sa bene di che cosa si tratta. Per motivi di garanzia amministrata, niente deve muoversi dal mondo coatto del fare, se non giochi di ombre, apparenze.

Esistenzialismo positivo

L’uomo “cerca l’essere”. Questo dato di fatto è considerato da Abbagnano “ricerca di stabilità”. Tutto il suo pensiero ruota attorno a questo presupposto. Chi cerca qualcosa vuol dire che non l’ha, quindi la ricerca prova che l’uomo non è l’essere. Egli scrive: «L’uomo cerca in ogni caso un appagamento, un completamento, una stabilità che gli mancano. Cerca l’essere. Questa condizione è caratteristica della sua finitudine. Se egli cerca l’essere, non lo possiede, non è, lui, l’essere. Rendersi conto di questa finitudine, scrutarne a fondo la natura è il compito fondamentale dell’esistenzialismo. Ma rendersene conto o scrutarla non significa soltanto farne oggetto di speculazione ma prenderne atto e decidere di conseguenza. Qui appare chiaramente la prospettiva nuova dell’esistenzialismo. Esso esige dall’uomo l’impegno nella propria finitudine. Esige che nella ricerca dell’essere che costituisce la sostanza di ogni suo quotidiano o eccezionale atteggiamento, egli non dimentichi o disconosca per l’appunto questa sostanza: non dimentichi e disconosca che tale ricerca ha un senso o un fondamento solo in virtù della sua limitazione costitutiva, solo in virtù della sua insufficienza ed instabilità e che pertanto ogni passo in quella ricerca non fa che consolidarlo nella finitudine della sua natura». (Esistenzialismo positivo, I edizione, Taylor Torino editore, 1948, pp. 5-6). Ciò è un po’ diverso da quello che abbiamo visto in Introduzione all’esistenzialismo, ma solo apparentemente. C’è una sorta di arresto, una forma di blocco sul problema del completamento, poi l’intervento della metafisica – ormai dichiarata – salva tutto. Egli afferma: «Questo impegno è nello stesso tempo il riconoscimento della natura ultima dell’uomo e l’autodefinizione metafisica dell’uomo in quanto finitudine: l’uomo è l’originaria, trascendente possibilità della ricerca dell’essere». (Ib., p. 6). Ricerca nella finitudine, quindi nella condizione ridotta e impoverita in cui si muove il fare. Nessuno può fare di testa sua, ognuno deve seguire le regole. Non si deve neppure supporre una eventualità altra e le tracce di questo percorso straordinario vanno cancellate appena possibile. Lavorando nella limitazione non si avverte se non una sorda inquietudine, un sottofondo dissonante che è subito cancellato. L’impegno del fare, per Abbagnano, è scelta “autentica”, ma questa collocazione altra non sfiora nemmeno l’ipotesi dell’oltrepassamento, ogni rischio reale deve essere escluso. Così Abbagnano: «[L’impegno nella finitudine] imprime già una direttiva sicura all’esistenza, le dà già la norma della sua costituzione autentica. Esclude la distrazione, la dispersione, esclude tutto ciò che rompe il vincolo esistenziale dell’uomo con se stesso e con gli altri; giacché esige il raccoglimento delle proprie forze e la solidarietà fattiva con gli altri. La finitudine, come sostanza dell’esistenza, diventa norma dell’esistenza. E questa norma portando l’uomo a realizzarsi come finito, lo porta nello stesso tempo continuamente al di là di sé, giacché lo consolida nella sua capacità di ricerca, nella possibilità del suo rapporto con l’essere». (Ib., p. 7). Ecco la regola riemergere dal rischio apparente, il dubbio ridimensionarsi in certezza, l’impotenza in “forza” e “potenza”. La base è qui la “scelta”, ma più che una scelta questo decisionismo esistenziale sembra una emanazione che impregna l’aria che si diffonde dappertutto, un residuo che ha il sentore della teologia. Non c’è mai una vera e propria epifania di questa autenticità, si resta sempre nel vago. L’io è “trascendente”, la sua scelta che le è originaria è anch’essa tale. Abbagnano scrive: «L’io non è un dato psicologico o antropologico, non è un fatto oggettivamente osservabile; è l’esigenza fondamentale verso cui l’uomo muove nella sua ricerca dell’essere, il termine che egli tende a costituire e a fondare nel suo rapporto con l’essere». (Ib., p. 8). La metafisica ha molto fantasticato sulla trascendenza. Questa è il tabernacolo del potere, lo strumento magico con cui la filosofia si illude di risolvere i suoi problemi. Come ogni sfrontatezza delle parole, la trascendenza attira il filosofo irresistibilmente e così finisce che le sue teorie frequentemente vi si immischiano. C’è nella trascendenza un colore confortante che le banali dimostrazioni logiche non hanno e questo colore permane, non accenna a diminuire con il radicamento nel fare, inevitabile per tutte le filosofie. La fondatezza metafisica fornisce alle angustie derivate dalla mancanza di fondamento il potere, questo è un elemento avvolgente che trasmette, o meglio irradia, la forza delle pulegge al lavoro.

Abbagnano scrive: «L’eliminazione di ogni dato, la risoluzione di tutto l’essere nella sua essenza problematica, fa apparire in tutta la sua enorme importanza il movimento della trascendenza. Giacché, come l’io è continuamente trascendente per l’uomo in quanto deve continuamente rapportarsi ad esso per realizzarlo, così è trascendente l’essere del mondo. Realizzarsi come io significa appassionarsi al proprio compito e appassionarsi al proprio compito significa far uscire il mondo dalla dispersione degli avvenimenti insignificanti e riconoscerlo nella serietà e nella consistenza del suo ordine, nel quale ogni cosa è un mezzo o un ostacolo per la realizzazione dell’io». (Ib., pp. 8-9). Tutto ruota attorno alla parola “ordine”. Di fronte a questo concetto, che è la base del fare amministrato, Abbagnano ha sempre una sorta di annebbiamento. C’è un’ombra attorno all’ordine che non ha eguali, riscalda il tiepido cuore dei filosofi e permette loro di incassare a fine mese lo stipendio. Ogni dubbio in merito alla legittimità dell’uso di questo concetto non è poi tanto evidente, si riduce a un lieve disturbo preso come un eccesso di morbidezza. Dalla trascendenza deriva la coesistenza. Il sogno metafisico continua: «Tutte le forme della coesistenza si fondano sulla natura finita dell’uomo come possibilità del rapporto con l’essere. L’uomo non può ricercare l’essere o rapportarsi all’essere, se non coesistendo. L’uomo non può ritrovare se stesso e costituirsi come io né riconoscere la realtà e l’ordine del mondo, se non nell’atto di rapportarsi agli altri, di riconoscere l’originarietà e l’essenzialità del suo vincolo con gli altri e di decidersi, conseguentemente, alla fedeltà verso la comunità alla quale appartiene, verso l’amore e verso l’amicizia». (Ib., p. 11). Nascita e morte, rapporto con gli altri uomini. Tutto è collegato e il filosofo lo sottolinea, ma non indica la tragedia possibile del fare, racchiuso nella sua occhiuta considerazione del mondo. In questo ordine accogliente – in apparenza – l’uomo conduce la sua esistenza da un estremo all’altro, nasce e muore. Ma la vita è altro, non il dolce e carezzevole mormorio della ripetitività turbato solo dalle diffrazioni sonore che le pulegge causano nei sotterranei del lago di sangue. Più la paura monta e più si ha bisogno di conforto, di lodi o di buone parole, anche se in fondo si sa che è tutto un gioco delle parti in cui l’apparenza è dominante e l’essere remoto come non mai. Il profumo della trascendenza sa di incenso non di Dio, come sarebbe logico supporre, è faccenda di sacerdoti della dea vergine e infeconda, che fa alzare in volo l’uccello della notte.

Il dialogo col destino, in queste condizioni, è impossibile. Abbagnano non se ne accorge e presuppone che la chiave necessaria sia la fedeltà. Egli scrive: «Se l’avvenire fosse già incluso e precostituito nel passato, se la storia fosse un progresso continuo, un ordine necessario dal quale ogni conquista fosse resa definitiva e ogni valore garantito in eterno, nessuna dispersione, nessuno sbandamento di singoli potrebbero impedirlo o turbarlo. Ma in realtà l’uomo deve sollevarsi alla storia, cioè all’ordine nel quale si ritrova il significato del suo essere come dell’essere del mondo e della comunità, movendo faticosamente dalle vicende insignificanti e dispersive del tempo. L’uomo non è storia: deve farsi storia ritrovando se stesso nel mondo e nella comunità. Deve sottrarsi alla minaccia del tempo, che è sempre pronto a sommergerlo nella insignificanza delle sue vicende banali, e affrontare il rischio della sua riuscita nella storia. Ora questo rischio può affrontarlo solo disponendosi alla fedeltà: muovendo verso l’avvenire con la decisione di rinsaldarlo al passato e di ritrovare nel passato il suo vero se stesso e la vera forma della sua coesistenza con gli altri. Questa fedeltà è il destino». (Ib., p. 12). Rifiuto del mito di Er e di quello che significa in Platone, apertura al destino in base alla scelta autentica che ognuno deve fare nella propria vita. Ma non c’è possibilità di scelta vera e propria, questa sarebbe possibile solo nella libertà del coinvolgimento, cioè nella qualità, ma Abbagnano è lontano da questa ipotesi che lo impaurisce. La sua è quindi una posizione subalterna che usurpa il senso profondo della parola destino. Il suo vero interlocutore è il tempo – lo spazio, come si è visto, è per lui un corollario del tempo – e l’avvenire, manca in lui la parola capace di parlare al destino. Il destino abita in me, in una intima nicchia della mia vita, e dialoga, e mi propone scelte vere e proprie, solo se io oltrepasso le mie condizioni coatte del fare, in caso contrario non ricevo nessun messaggio. Tutto tace nell’avvenire, solo l’ospite inatteso un giorno si presenterà senza avvertire prima.

È vero, Abbagnano ha ragione nel dire che “l’uomo libero è l’uomo che ha un destino”, ma la sua filosofia sconosce quest’uomo libero perché parla solo nell’ambito del fare coatto, quindi sconosce il destino. Tutto il discorso positivo dell’esistenzialismo vive in uno stato di sudditanza nei riguardi della “norma”, cioè di ogni sorta di garanzia, è soggiogato dalle condizioni che il fare impone, non accede mai al dubbio, più che evidente, vista la parzialità dell’oggetto prodotto, di una qualità che sta altrove, non proprio remota, ma immanifesta. Questo rinascere accucciato al calduccio è il senso più spiacevole che si prova leggendo Abbagnano. Non è un caso che questa filosofia dichiari apertamente di essere lontana sia dal dogmatismo che dallo scetticismo, ma questa equidistante lontananza, senza stare a misurare esattamente, che vuol dire? Solo impegno, lavoro, fedeltà e tenacia. Insomma tutto nell’esistenzialismo positivo converge verso un punto, la collocazione certa nell’ambito produttivo. I vari elementi portanti di questa posizione filosofica concludono tutti nel rifiuto – al limite del silenzio – del caos e della imprecisione, elementi che sono di gran lunga più vicini all’idea di essere che proviene dalla qualità. Considerare oltraggiosa la limitatezza del fare non vuole dire rendergli un buon servizio, è proprio questa limitatezza che produce gli strumenti che permettono, grazie al coraggio del coinvolgimento, di accedere alla qualità.

Problematicità dell’uomo e problematicità della filosofia. Giusto. Nessuna certezza, quindi nessuna positività. Invece Abbagnano assegna all’esistenzialismo il compito di una rottura definitiva con l’ingenuità filosofica. Così continua: «Di fronte a ogni filosofia, bisogna chiedersi se il concetto della realtà, cui essa mette capo, rende possibile il problema, da cui essa nasce. Se non lo rende possibile, il risultato implicito è sempre la totale e irrimediabile vacuità della filosofia. Ora a questa vacuità l’esistenzialismo intende sottrarsi. Esso esige che la filosofia debba da ultimo giungere a giustificare il proprio problema, a dimostrarne l’intrinseca possibilità. Tale è, si può dire, la caratteristica fondamentale dell’esistenzialismo». (Ib., p. 19). Ma che è il problema della filosofia, se non quello del dire ciò che non si riesce a dire? Quindi è un problema di come e perché ciò che va detto non può essere detto. Si possono rimuovere questi ostacoli? Oppure c’è una trama cattiva che innerva la filosofia e la condanna a una vita inerme? Prigioniera del fare, essa stessa fare, la filosofia non può rispondere a queste domande. Dovrebbe essere il filosofo a storcerla nella rammemorazione, ma di cosa? Del suo oltrepassamento, suo del filosofo, ovviamente. Ma i filosofi sono seduti sulle loro poltrone, e quando non ne attingono una qualsiasi l’agognano per tutta la vita. C’è quindi nel loro dire una tensione esacerbata che vorrebbe dire ma non può perché troppo rischioso, per cui alla fine la tensione si smorza e il filosofo sa soltanto difendere il suo misero possesso conoscitivo, quello che lo fa statico e guardingo. Non c’è una lingua franca della filosofia con la quale dire la qualità. Se anche un rilevante cambiamento – una guerra, ad esempio – non può arrecare disturbo alla suprema contemplazione, pensate a un coinvolgimento personale, a un’apertura nelle difese. Certo, una bomba può anche uccidere un filosofo, ma ciò appartiene al caso, non è una sua avventata esposizione al pericolo dell’oltrepassamento. Ecco perché la guerra per il filosofo è solo un piccolo disturbo al suo fare filosofico. Ecco il problema della filosofia di cui parla Abbagnano, non riuscendo a nasconderlo sufficientemente.

Così continua: «Nella sua apparente semplicità e astrattezza questa domanda è ricca di conseguenze e di risonanze, non tutte facili a percepirsi a prima vista. È sullo stesso porsi della domanda, sul suo significato interiore, che deve fermarsi la nostra considerazione. Si vede subito allora che essa è tanto una domanda quanto una risposta, e che può essere assunta, senza alcun mutamento, come la definizione stessa della filosofia. “Perché la filosofia è sempre a se stessa un problema?” può significare che la filosofia è essenzialmente il suo proprio problema. In tal caso, la sua forma problematica non è apparenza e provvisorietà, ma sostanza». (Ibidem). Indeterminazione che risolvendosi fonda il problema stesso. Ecco l’idea centrale della filosofia, secondo Abbagnano. Ma nel fare non c’è un problema vero e proprio, ci sono solo difficoltà che vanno scisse in difficoltà minori e così superate, ma non accade mai che si ponga un problema che non sia una tautologia. Ciò che viene fatto è assolto nell’oggettualità che lo racchiude e qui trova la sua quiete. Se non la trova è perché una tensione diversa è intervenuta, un residuo compare all’orizzonte, anche una piccola deformazione nel meccanismo, un banale cambio di ritmo delle pulegge. Da una piccola disfunzione si può arrivare a compromettere tutto il funzionamento del fare. La quantità ha bisogno di metodo, di progetto, di avvenire. Non vuole avere a che fare con balzi di umore o inquietudini. Il filosofo non alimenta disfunzioni, egli è il diplomatico che sa scegliere le parole che guidano alla caverna dei massacri.

Pur avendo sbandierato a lungo il possesso dell’esistenza, da cautelare e garantire, Abbagnano non sembra attingere il possesso del sapere filosofico. Così precisa: «È immediatamente evidente che, per la sua natura problematica, la filosofia non è e non può essere un sapere divino del mondo. Non è cioè il possesso saldo, definitivo, totale di tutto il sapere possibile; non è neppure il possesso di un sapere qualsiasi; è piuttosto il problema del sapere, un problema che continuamente rinasce dalle proprie soluzioni». (Ib., p. 21). Qui si tratta soltanto di un gioco di parole. La filosofia è sapere possibile, ma una volta raggiunto questo sapere con la realtà autentica, eccolo diventare un possesso. Certo, sempre problematico, ma possesso da difendere. Qui si conferma la logica essenziale di cui discuto. Qualsiasi conoscenza – in ultima istanza ogni conoscenza è filosofica – può svanire nel nulla o immergersi in un campo di forza dove non è più reperibile allo stato di primitivo afflusso, deve essere sottoposta a un controllo perché venga immagazzinata e diventare oggetto di possesso. Si può perdere o ritrovare ma, alla fine, deve rinchiudersi da qualche parte. Il compito della filosofia sembra quello del carceriere che risolve il problema sociale utilizzando la chiave.

Abbagnano continua: «L’uomo è il solo essere pensante finito; il sapere problematico costituisce perciò la condizione e il modo d’essere dell’uomo. Se si chiama esistenza il modo d’essere dell’uomo, il sapere problematico definisce ed esprime l’esistenza. Si rivela a questo punto quel tratto da cui l’esistenzialismo prende nome: l’identità tra esistenza e filosofia». (Ib., p. 22). Il che ribadisce quello che abbiamo detto. Una condizione coatta produce un’esistenza coatta, dimidiata. La filosofia la rispecchia e la giustifica, in un certo senso, la sigilla. Molti tornanti dialettici sono in fondo pretesti per fondare un comportamento prudente e garantito. Indicazioni di comportamenti, disponibili a mettere ogni cosa al suo posto, nell’ordine di tutte le cose. Ricondurre il caos all’ordine sarebbe l’ideale filosofico estremo, irrealizzabile perché la filosofia passa soltanto da un ordine all’altro.

Perfino la filosofia come parola è considerata da Abbagnano nello stesso modo. Così precisa: «Dall’altro lato l’elaborazione tecnica della filosofia, che è sostanzialmente la costruzione di un linguaggio che esprima nella forma più rigorosa e precisa possibile il filosofare autentico che è l’esistenza, acquista anch’essa un nuovo significato. L’insopportazione e l’insoddisfazione generate a volte dalla cosiddetta “astrusità” della tecnica filosofica vengono rese impossibili dal riconoscimento esplicito che in quella tecnica cercano la loro espressione e la loro sistemazione logico-linguistica le esperienze e gli atteggiamenti fondamentali dell’uomo». (Ib., p. 23). Bandite le astrusità? Non proprio. Non è una questione di dire le cose in modo semplice – nulla è più semplice dell’apparenza – la difficoltà sta nel dirle. La specializzazione non impressiona nessuno, solo quando è finalizzata a coprire il contributo all’assassinio è allora da indicare con attenzione, ma chi può gridare all’untore? Non certo gli untori stessi. Si può essere al sicuro? Ma al sicuro da cosa? Dal meccanismo onnicomprensivo del fare? Non proprio. La filosofia cerca di mettersi al sicuro dal rischio dell’oltrepassamento. Andare verso l’ignoto, ecco quello che la filosofia – o meglio, i filosofi – non ama. Essa vive sempre sotto la minaccia che il suo contributo segreto venga svelato. Ecco perché grida allo scandalo contro coloro che non seguono le regole. Chi affronta l’avventura della qualità è considerato alla stregua di uno straniero, posto subito in sospetto. Difatti, egli parla un’altra lingua che non è possibile codificare nella produzione fattiva. Si possono solo esaminare dei rendiconti rammemorativi, testi dubbi, comunque appartenuti alla quantità fattiva ma eterogenei, che parlano di esperienze straordinariamente diverse, sotto molti aspetti, paurose. La filosofia non ama il vento del deserto.

Se Abbagnano afferma che “la filosofia non è contemplazione”, c’è da chiedersi cos’è? Forse un gioco dialettico di corrispondenze forzate? No. Si tratta di un dovere. Egli scrive: «La filosofia non può fondarsi sull’illusione di rendere l’uomo spettatore disinteressato di sé. Ogni chiarimento che l’uomo riesce a conseguire intorno a se stesso e anche quello che soltanto s’illude di conseguire, entra immediatamente a costituire la sua esistenza, che ne risulta modificata. Il che vuol dire che la filosofia non ha un oggetto, nel significato proprio del termine; ma soltanto un compito, e che questo compito consiste nell’impegnare l’uomo a quella forma o a quel modo di essere che egli giunge a ritenere suo proprio. Ciò non implica d’altronde che la filosofia sia piuttosto pratica che teoretica e che concerna l’azione più che la speculazione. Teoria e pratica, azione e speculazione, sono modi di classificazione convenzionali e inservibili per la filosofia. La quale concerne sempre l’uomo nella sua totalità, nell’essere problematico che gli è proprio e interamente lo impegna nella forma o nell’atteggiamento che gli consente di scegliere». (Ib., p. 25). Qui è in vita una critica della fenomenologia intesa nel senso esclusivo e riduttivo di una sospensione del giudizio o, se si preferisce, della decisione. Paci ha dimostrato infondata questa critica superficiale. Ma Abbagnano è troppo legato ai concetti di “autenticità” e “fedeltà”, per rendersi conto dei limiti della sua posizione. È chiaro che ci sono aspetti della filosofia che non possono essere accorpati tutti nella pretesa di Abbagnano, molti cercano di capire, se non altro ponendosi la domanda, che ne è stato della completezza? E, fra i filosofi vicini allo stesso Abbagnano, non erano pochi quelli che si ponevano questa domanda.

La filosofia – per Abbagnano al contrario della scienza – è senza conoscenza interessata. Egli così scrive: «Negare che la filosofia sia conoscenza disinteressata non significa che una conoscenza disinteressata non sia possibile per l’uomo. Significa solo che, se è possibile, non è filosofia. Essa c’è, infatti, quindi è possibile; ma è la scienza naturale.

«L’atteggiamento che è alla base della scienza è quello per il quale l’uomo è soltanto uno degli oggetti possibili della considerazione scientifica, senza nessun titolo o diritto di privilegio rispetto agli altri. L’uomo è sottoposto nella scienza agli stessi procedimenti di osservazione e di misura cui sono sottoposti gli altri oggetti quali che siano, e non può pretendere in essa a nessun trattamento di favore». (Ib., p. 26). Il che è concetto opinabile molto usato dai filosofi. Il “valore” della scienza qui si ripartisce tra la sua pretesa oggettività e la sua approssimativa incompletezza. Come base del fare, la scienza segue le leggi della parzialità e qui, come tutto il mondo coatto, è semplice apparenza. Anche mostruosi meccanismi come quelli atomici, capaci di incenerire il pianeta, sono solo apparenza, non sono l’essere. Ma questi problemi, miseramente annegati da Abbagnano, verranno discussi in altro luogo di questo libro. Qui mi preme notare che la scienza non è affatto una “conoscenza disinteressata”. L’interesse non è però quello dell’essere ma quello dell’apparire, essendo il fare a prendere l’iniziativa. La conoscenza può aiutare ad andare via dal fare – scientifico o filosofico, non ha importanza – ma deve essere presa in carico diversamente, come una coscienza capace di oltrepassare le regole che la coartano. Non importa per quanto tempo questa esperienza sarà possibile – il tempo non è una unità di misura che addestra la qualità a quantificarsi – quello che conta è la conseguenza e la trasformazione che l’esperienza diversa può determinare.

Abbagnano precisa: «Questi chiarimenti mostrano che l’uomo non è problematicità se non nell’atto stesso in cui i problemi, che in tale problematicità si radicano, lo ricomprendono come uno dei loro termini possibili. Il che implica che la conoscenza scientifica, come quella comune che prepara e stimola la ricerca scientifica, si connette essenzialmente all’esistenza e ne costituisce un aspetto fondamentale. La pretesa che l’uomo possa fare a meno della scienza è chimerica, esprime soltanto l’attaccamento ad una forma più rudimentale e meno efficace della conoscenza scientifica. Questo implica pure che l’uomo non può riconoscersi nella sua natura originale di fronte a tutti gli altri esseri o cose del mondo, se non riconoscendosi col medesimo atto essere o cosa del mondo. Il rapporto col mondo è altrettanto essenziale all’uomo del suo rapporto con se stesso; l’esteriorità in cui vive lo costituisce non meno della sua interiorità o coscienza». (Ib., pp. 27-28). Il termine guida qui è “problematicità”, parola magica che ricomprende tutta la filosofia di Abbagnano, eppure in sé questo termine non spiega ma, al contrario, ha bisogno di una spiegazione. Certo, c’è una differenza tra problematicità e dimostrazione dialettica, eppure i due concetti filosofici, le due tecniche metafisiche, sono usate entrambe grazie alla funzione intermediaria della “trascendenza”. Il fatto è che se la problematicità incute riverenza nel fare coatto, aprendo possibilità fittizie all’apparire, la dialettica promette di rimettere a posto le cose senza bisogno di fare ricorso a dimostrazioni lineari – causa ed effetto – più lunghe e meno convincenti. Siamo davanti a mostruosità logiche – e mi devo ricordare delle mie ambasce di metodo quando le affrontai per la prima volta – che non vogliono aspettare di essere codificate e premono alla porta tutte in una volta. Così egli può affermare impunemente: «Queste determinazioni ed esclusioni costituiscono un primo avviamento a un indirizzo positivo della filosofia esistenziale. Un ulteriore avviamento può aversi considerando che la filosofia dell’esistenza rompe decisamente il quadro della necessità dentro il quale si muove ogni filosofia di tipo dogmatico. L’orizzonte che essa riconosce e dentro il quale si muove è quello delle possibilità. La problematicità riconosciuta propria della filosofia, e dell’uomo che è il suo unico tema, ha operato questo mutamento. Dal punto di vista di una ragione problematica, non si può scorgere nell’uomo, e in qualsiasi altra realtà che comunque entri in rapporto con l’uomo, nessuna natura necessitante, nessun dato immutabile, nessuna legge determinante». (Ib., pp. 29-30). Solo possibilità, ma quali possibilità? Quelle che richiedono una decisione, ma quale decisione? Tutto è fittizio. La possibilità prima di tutto. Ogni cosa si avvoltola nel lenzuolo del fantasma. Queste possibilità possono anche essere definite “autentiche”, non sono però vere e proprie scelte perché non coinvolgono l’esistenza di chi sceglie. Fanno solo muovere un dito, a destra o a sinistra. Quello che conta è la loro equidistanza dall’esistenza che sceglie. Il risultato non cambia se non nella forma esteriore, apparenza, non nella qualità, l’essere non è chiamato in causa, questo rimane altro, distante, collocato oltre l’apertura che in ogni caso il filosofo mantiene sbarrata. Non c’è futuro come destino per questa decisione, c’è solo un avvenire conseguente, perfettamente adeguato al tempo, incombente come la morte. Abbagnano precisa: «Né dentro né fuori di sé, l’uomo può imbattersi mai in qualcosa di più stabile, di più resistente, di più saldo, della possibilità. Una possibilità è, per lui, lui stesso, cioè il suo proprio io, che è l’unità possibile dei suoi atteggiamenti interiori. Possibilità sono per lui gli altri uomini: possibilità di concreti rapporti di lavoro, di solidarietà, di amicizia, di amore. Possibilità, e precisamente possibilità di utilizzazione, sono per lui le cose del mondo. Possibilità sono le opere d’arte, che diventano pezzi di tela o di pietra, cioè bruta materia, se l’uomo non ha il gusto per sentirle e apprezzarle. Possibilità sono i documenti su cui si fonda la storia, e che non dicono nulla, se l’uomo non sa intenderli nel loro valore di testimonianze». (Ib., p. 30). Ottime disposizioni che si affastellano una sull’altra ma non spostano il problema. Una scelta deve essere incurante delle conseguenze, non cieca né oculata, se prevede troppo o troppo poco non è una scelta, e in ogni caso deve portare con sé chi sceglie, deve mettere da parte il mondo, non lasciarlo nel suo vestito di cerimonia come a un funerale. A rendere compromettente la scelta nella qualità è l’oltrepassamento, l’abbandono delle regole, l’urtante sopravvenire del caos, lo stridente fare che non accetta lo scontro e cerca di resistere, le spigolose conseguenze della rammemorazione. Egli parla di possibilità e, in un certo senso, considera la sua filosofia come una proposta aperta, ma non lo è abbastanza, i meccanismi sui quali si basa sono sempre quelli e si ripetono puntualmente. La garanzia è la sua principale preoccupazione. Ciò indica un senso di colpevolezza, come se il filosofo avvertisse la responsabilità della caverna dei massacri. Da qui la fuga da Kierkegaard, teorico della possibilità negativa, e da Kant, teorico della possibilità positiva ma a senso unico. Ma queste distanze non rendono giustizia ai due filosofi. Si tratta di un trambusto fuori luogo. In fondo Abbagnano resta in mezzo al guado. Non può essere Kant – per svariati motivi – e non ne coglie la trascendenza come possibilità totale, non può essere Kierkegaard – per motivi ancora più seri – e non ne coglie la tragedia qualitativa, la paura e la disperazione individuale di fronte all’oltrepassamento. Altro trambusto per tenersi a distanza da Sartre, equivalenza delle possibilità tutte – ma dove è andata l’autenticità? –, da Heidegger, equivalenza di tutte le possibilità meno una, la morte, di Jaspers, impossibilità di tutte le possibilità per cui non c’è modo di emergere dal nulla per essere qualcosa.

Contro queste posizioni Abbagnano propone la sua: «Nei confronti di questo esistenzialismo, che si può chiamare negativo, non perché neghi credenze, valori o realtà che sono fuori del suo raggio, ma perché nega lo stesso principio da cui muove, l’esistenza, – io propongo un indirizzo positivo che giustifichi il riconoscersi e il mantenersi dell’esistenza nella sua fondamentale problematicità, e lasci aperte le possibilità in cui essa si costituisce. Ad un esistenzialismo che vive sotto l’esclusivo segno di Kierkegaard, il filosofo della possibilità impossibile, bisogna contrapporre un esistenzialismo che riporti Kierkegaard a Kant e a quanti altri filosofi hanno lavorato per garantire all’uomo il legittimo possesso dei suoi stessi limiti». (Ib., pp. 35-36). Dal negativo al positivo. Ma non è che una contrapposizione apparente, stretta al muro con la forza ma non convincente. Ancora una volta un’occasione mancata. Tutti questi filosofi si erano posti il problema della incompletezza del mondo, Abbagnano lo azzera e passa avanti. Lo considera un disturbo, una flessione nella rigida salvaguardia della positività. Vuole che tutti gli ostacoli alla garanzia vengano sgombrati fin dalla loro prima comparsa, vuole evitare disturbi e perturbamenti al fare, questo in fondo è il compito del filosofo, mettere la pace nel cuore degli uomini e rilevare l’antico compito del mago e del prete, perché il massacro continui indisturbato.

Ancora sulla “possibilità trascendentale”. Dove rinvenire una particolarità in ciò che circola nel mercato oggettuale del fare? Difficile pensare a questa eventualità escludendo l’oltrepassamento. L’esistenza del mondo coatto è un intreccio inconfessabile che si ripete senza interruzioni o novità. L’apparenza è la sfrontatezza del riflesso che mima il caos dell’essere, per altro assolutamente inimitabile. Nell’aria irrespirabile della prigione che tutti ci amministra surriscaldando solo la fantasia di evasione – forma esacerbata della medesima produzione di apparenza – cosa può farsi fuori della sovrappopolata accumulazione degli oggetti prodotti? Invece Abbagnano ribadisce: «Una possibilità esistenziale può avere i caratteri più diversi, ma il carattere proprio e fondamentale è indubbiamente quello che fa di essa una possibilità autentica. Una possibilità che si presenti coi colori più smaglianti, ma che, una volta decisa e fatta propria da un uomo, gli si dissolva o capovolga tra le mani, sottraendogli o negandogli proprio quello che gli prometteva, non è una possibilità autentica, perché è un’impossibilità. Una possibilità invece che una volta scelta e decisa si consolidi nel suo essere di possibilità, sicché renda di nuovo e sempre possibile la sua propria scelta e decisione, è una possibilità autentica, una possibilità vera e propria. Una simile possibilità si ripresenta immediatamente di fronte a chi l’ha scelta con un carattere di normatività che rende obbligatoria la scelta. La possibilità della possibilità è il criterio e la norma di ogni possibilità. Si può indicare la possibilità della possibilità col nome di possibilità trascendentale; la possibilità trascendentale è allora ciò che giustifica e fonda ogni concreto atteggiamento umano, ogni scelta e decisione». (Ib., p. 37). Ancora le parole fondamentali della metafisica danno qui l’illusione di reggere tutto, “autentica”, prima di tutte, indica una presenza caratteristica della possibilità. Segue la parola “normatività” che trasforma la scelta possibile in una scelta obbligata. Si ripete il solito gioco dialettico. Il problema dell’annientamento della scelta viene qui apparentemente risolto ricorrendo alla coesistenza. Un fondo di fantasmi, infatti, può ben testimoniare sull’apparenza. Questi movimenti si ribaltano di continuo. La scelta non è mai possibile, come abbiamo visto, se non impegnando se stessi a vita e a morte. Il filosofo evita questa precisazione, per lui basta allontanarsi da casa per andare all’Università, ed è questo il rischio maggiore che può immaginare. L’essere non lo riguarda, lui sta nascosto dietro il paravento dell’apparire e tanto gli basta. La furia vana del mondo la vede passare sotto la sua finestra e non ne comprende il motivo che l’anima. Per lui tutto va per il meglio, anche se gli assassinati continuano a spiaccicarsi sul terreno della caverna dei massacri. Le sue gambe storte lo portano sempre nella prossimità di baluardi difensivi che chiama “dovere” o, a volte, perfino “libertà”. In fondo la funzione del filosofo è proprio questa. Subalterno fra i subalterni, dice illudendosi di dire ciò che gli altri non sanno dire – antica chiacchiera della filosofia – e alla fine eccolo portavoce di ognuno, delle banalità codificate che tutti amano sentirsi ripetere. Tutti hanno la propria vita compressa e tacciono, il filosofo ha la propria vita compressa come tutti, e parla. La sua voce esce quasi strozzata dalla fatica di fermarsi sulla soglia della caverna dove un flusso continuo di teorie alimenta il lago di sangue, ma esce e compie fino in fondo il suo dovere. La sua fede è, ancora una volta, la dignità e il perbenismo. Del possibile sommovimento qualitativo non ha che un vago sentore e la profonda coscienza di non poterlo controllare, quindi se ne mantiene lontano.

La libertà, secondo Abbagnano, emerge dalla possibilità. Egli scrive: «Le possibilità esistenziali non si offrono mai all’uomo nella loro indifferenza. Tra quelle che, in linea di fatto, egli può scegliere, una sola è l’autentica, cioè quella che non si risolve in impossibilità. Questa egli deve scegliere, perché questa soltanto gli garantisce la possibilità della scelta. E questa sola è la libertà. La libertà è quindi connessa al valore di possibilità della possibilità scelta, cioè alla possibilità trascendentale. E risulta evidente che non ogni scelta è libera, ma solo quella che include la garanzia della propria possibilità. Se ho deciso liberamente, ciò che ho deciso posso incessantemente continuare a deciderlo, perché la mia decisione garantisce se stessa». (Ib., p. 40). Ma come posso decidere liberamente in un mondo immerso nella polvere degli oggetti che tutto uniforma e rende indistinto? Sono oggetti senza destino, con il loro avvenire segnato dal tempo, la morte li aspetta al varco, scrostando la muffa che li copre si trova altra muffa. Come si può parlare di libertà, la qualità più rarefatta ed estrema fra le qualità, ben più complessa e difficile della bellezza o della verità, in un mondo eterico, sommerso, corrucciato nella sua stessa incapacità di guardare il cielo? Non c’è in questo mondo una sorta di inadeguatezza che rende impossibile la libertà, mentre al suo posto si commerciano altre e molteplici libertà che con lei nulla hanno a che vedere? La spudoratezza dei filosofi è figlia della paura e madre dei massacri. Non c’è modo di riprendere possesso di una fondatezza teorica se non sottoponendola al fuoco dell’oltrepassamento.

Problematicità dell’esistenza vuol dire “temporalità”. Abbagnano scrive: «La filosofia dell’esistenza parte dal riconoscimento esplicito della realtà del tempo. E con essa riconosce quella di tutte le sue caratteristiche e i suoi aspetti: nascita e morte, conservazione e distruzione, immobilità e mutamento, sviluppo e decadenza. Questi aspetti antagonisti del tempo difficilmente possono essere intesi e interpretati sulla base di un qualsiasi concetto del tempo. Giacché se il tempo è ordine, continuità e permanenza, secondo il concetto che è a fondamento di quasi tutte le sue interpretazioni filosofiche, non si spiega il suo potere distruttivo e nullificante. E se invece è disordine, impermanenza e distruzione, secondo le interpretazioni religiose o tendenzialmente religiose di esso, non si spiega la possibilità dell’uomo di sottrargli, sia pure a pezzi e a brandelli, quello che gli sta a cuore e di farne il patrimonio del suo passato, della sua tradizione o della sua storia. In realtà soltanto la categoria esistenziale della possibilità permette di intendere il tempo in tutti gli aspetti della sua temporalità, perché permette di riconoscere questa temporalità nella possibilità che è sempre insieme positiva e negativa, ed implica sempre l’alternativa dell’ordine e del disordine, della conservazione e della distruzione, ecc. La temporalità del tempo non è che l’instabilità fondamentale della possibilità esistenziale». (Ib., pp. 42-43). Nessun sospetto riguardo alla differenza che esiste interrogando il tempo sulla base del fare, cioè come avvenire, o sulla base della rammemorazione qualitativa, cioè come destino. Questi concetti sono sostituiti da un’apparente differenza tra interpretazione filosofica e interpretazione religiosa del tempo. Sostituzione funzionale a mantenere la domanda nell’ambito del fare coatto. La rigida scansione quantitativa del tempo non è presa seriamente in considerazione, la sua crudele successione di istanti è considerata solo un ponte tra passato e avvenire, appunto avvenire. L’impossibilità di interrogare il tempo come futuro, di parlargli, non è neanche immaginata, come se la scorza del prodotto oggettuale irridesse questa possibile apertura, visibile invece, ma non per Abbagnano, nel futuro considerato come destino. Il contesto è povero e cauto, ed è un banco di prova per qualsiasi filosofia che qui si ha davanti. Solo agendo ci si può rivolgere al destino e chiedergli l’impossibile risposta. Che questa arrivi in forma non immediatamente comprensibile dipende dal grado di approfondimento della rammemorazione. Se si pensa il tempo del fare come pieno e rigoglioso di prodotti finiti, pronti ad entrare sul mercato, non si può capire la parola che si rivolge al destino e si chiudono gli occhi a ogni immagine rammemorata. Se ci si pone in attesa, tutto cambia. Il destino risponde e realizza l’inimmaginabile. Quella che sto descrivendo è la condizione del tramonto di Abbagnano, ristretto fra le sue cautele, incapace di interrogare il destino, il tempo lo ha sorpreso scagliando contro di lui un inaspettato ospite. La sua concezione della storia sigilla questo tramonto. «In questa alternativa della temporalità esistenziale si radica la storia. La quale è una ricerca che impegna l’avvenire a scoprire la verità del passato, ed è quindi una lotta per sottrarre al potere distruttivo e nullificante del tempo ciò che è valido e degno di conservazione o di ricordo». (Ib., p. 45). Ancora un dove per l’uomo. Dalle macerie carbonizzate di una vita fattivamente concreta, ecco emergere un ricordo – non una rammemorazione – cioè ancora una volta un oggetto che diventerà maceria carbonizzata. Nessuno lo ha potuto sviare dal suo percorso, né sono stato capace di trascinarlo in qualche dubbia avventura qualitativa. Il suo itinerario era sempre lo stesso. È di Abbagnano che sto parlando. Poi, improvvisamente, un cumulo di rovine davanti ai suoi occhi stanchi. Fra queste rovine, come sto facendo ora, mentre mi trovo rinchiuso a settantatre anni in una prigione greca, scopro qualche oggetto sommerso dalla polvere. Lo prendo in mano, lo pulisco, lo osservo e questo rudere mi riporta agli anni della mia gioventù, delle mie fatiche, delle mie impressioni fallaci. Poi lo depongo, ancora una volta, nella polvere, senza che l’oggetto abbia mandato un segno, sia pure minuscolo di vita e di qualità. Mi rendo conto che quell’oggetto era già morto prima di cadere in rovina e di essere coperto dalla polvere del tempo.

Esistenza e ragione problematica

Se la “molla” segreta della filosofia è data dal fatto che tutto quello a cui si interessa diventa infinito, la ricerca del finito risulta impossibile. Abbagnano scrive: «La considerazione filosofica è sempre considerazione razionale o pensante: non può avere per risultato che la scoperta o il riconoscimento della sostanza universale e permanente per i suoi oggetti cioè del principio infinito che li fa essere od apparire». (Filosofia, Religione, Scienza, I edizione, Taylor Torino editore, 1947, p. 11). In effetti, questa molla appartiene alla metafisica, ma non è questo il punto. Abbagnano vuole andare avanti e non fermarsi a ciò che potrebbe essere considerato come una specie di condanna. Questa dissolvenza porta lontano, ed invece è bene rimanere nelle vicinanze, evitare cioè di dare troppo spazio a un’ipotesi che nel mondo del fare, di cui fa parte la filosofia, è ormai moneta fuori corso.

In effetti, se la filosofia si realizza al di sopra del fare umano, chiude gli occhi a quell’apparenza che la costituisce ma non necessariamente li apre all’essere. Diventa giudice di fantasmi, fantocci e fantasie si aggirano al suo interno e diffondono un leggero fremito fra le macerie. Tutto qui. Abbagnano giustamente non è della parte di questa filosofia senza problemi. Difatti scrive, riferendosi a simile impostazione filosofica: «Eppure a questa filosofia che respinge fuori del suo ambito gli stessi problemi che incontra e si rifiuta di considerare la problematicità come tale, si ripresenta incessantemente un problema fondamentale: quello di se medesima». (Ib., p. 14). E poco più avanti: «Il finito costituisce il contenuto dal quale essa attinge i suoi problemi concreti; ma la presenza di questo contenuto introduce in essa una scissione irreparabile e un contrasto insoluto. L’esigenza di risolvere il finito nell’infinito costituisce un problema la cui possibilità non è giustificata da questa stessa esigenza». (Ibidem). Qui è una critica a Hegel che viene sviluppata, uccello di Minerva compreso, utilizzando il medesimo metodo dialettico. Il problema della risoluzione del finito nell’infinito diventa problema risolto ma non eliminato, quindi rende problematica la filosofia. Alla fine, «… quando la filosofia giunge a prendere coscienza del suo proprio problema, si pone immediatamente come possibilità del problema stesso cioè come considerazione problematica del mondo. La categoria della necessità in cui essa si adagiava finché si illudeva di poter uscire immediatamente dalla condizione problematica ritenuta apparente e provvisoria, si infrange allora e cade come un involucro fittizio che le impedisce di giungere alla piena autocoscienza del suo compito». (Ib., pp. 15-16). Qui ci si aggira in un falso problema, speculare ma non esattamente antitetico a quello di Hegel, problema che lascia presagire complicazioni future riguardanti la fondazione del finito, la quale deve avere come base un fare coatto necessario. In questo modo il finito non è fondato, esso sprofonda in una nebbia morbida, in una melma equivoca che preannuncia lo sbocco nella caverna dei massacri. Tutto è frettolosamente riassunto, e questo di fronte alla sontuosità di Hegel, suona falso nel suo stesso tentativo di sistemare le cose una volta per tutte.

Abbagnano scrive: «Il passaggio dalla considerazione pensante fondata sulla categoria della necessità alla considerazione pensante fondata sulla categoria della problematicità implica questo mutamento radicale: la realtà è problematica, anzi la problematicità stessa è reale. Con ciò l’infinito cessa di essere il termine o il risultato necessario della filosofia. L’oggetto (quale che sia), rimanendo essenzialmente caratterizzato dal problema che lo concerne, si rifiuta a qualsiasi determinazione necessitante perché si rivela come la semplice possibilità di ogni determinazione possibile». (Ib., p. 16). E, poco più avanti: «La possibilità non è un’astratta potenzialità che attende di divenire reale nell’atto, ma per l’appunto l’atto di una problematicità concreta che si risolve e si sceglie liberamente. Nell’atto di questa problematicità concreta, oggetto e soggetto della filosofia fanno tutt’uno». (Ibidem). Ma non basta. La problematica è uno sguardo incerto lanciato al futuro, incerto e muto. La porta del futuro non si apre con questa chiave. La riduzione del finito addirittura potrebbe a questo punto sembrare quasi un ripiego metodologico, non una disposizione della realtà. La luce che Abbagnano accende è quella di una piccola candela, illumina poco di fronte all’abbagliante Hegel. Può, per i lettori cattivi, essere considerata un tentativo perdente in partenza. Invece il danno non sta qui. Ma che si deve intendere per finito che non vuole risolversi nell’infinito? Un oggetto qualsiasi? L’essere di Parmenide? L’universo di Aristotele? Le categorie kantiane? No. Abbagnano considera finito nel senso della finitudine. È il mondo in cui viviamo che ha come propria caratteristica la finitudine. In effetti la problematicità lascerebbe piuttosto intendere l’incompletezza del mondo e quindi sollevare il problema della qualità. Ma su questo punto Abbagnano è categorico. «Una considerazione problematica è finita nel senso della finitudine, in quanto il suo limite è intrinsecamente inerente alla sua problematicità. Infatti la problematicità è tale solo in virtù della possibilità negativa che le è inerente, cioè del non-essere possibile di ciò di cui è problematicità. Una situazione problematica è l’instabilità costitutiva e la nullità possibile del modo d’essere che le è proprio. Questa nullità possibile, questa possibilità negativa, è il limite intrinseco della problematicità come tale». (Ib., p. 17). Qui si parte dall’esistenza che è problema e instabilità, specchio abbastanza fedele del fare coatto, ma ancora nel senso di una ipotesi di lavoro lasciata aperta. Ora, questa instabilità è costitutiva nel senso di una ipotesi di lavoro lasciata aperta. Ora, questa instabilità è costitutiva del fare, quindi l’altra soluzione, quella hegeliana, parla di un altro tipo di apparenza. Oppure si tratta della stessa apparenza vista da due punti diversi? Sembra che quest’ultima ipotesi sia la più attendibile. Tutto ruota attorno alla distanza tra essere e apparire, ma l’essere non può venire colto dal sapere filosofico. Per quanto il fare sia sobrio e preciso, ha un sottofondo misterico dovuto alla sua incompletezza, all’orientamento subito a causa della separazione dalla qualità. Questa mancanza, che lascia supporre un’apertura da qualche parte, è da Abbagnano tamponata con il concetto di problematicità.

Così precisa: «Una considerazione pensante problematica, in quanto finita, è una considerazione esistenziale; e la condizione o il modo d’essere che essa definisce ed esprime è l’esistenza. Per esistenza si deve infatti intendere la condizione o il modo d’essere dell’uomo; e l’uomo è il solo essere pensante finito. L’esistenza, caratterizzata essenzialmente da un sapere problematico, è essa stessa una condizione o un modo d’essere problematico. L’uomo non ha una natura determinata e determinante: è il problema stesso della sua natura». (Ib., p. 18). È nel fare che queste ambivalenze sono collocate. Ma nel fare c’è più ordine del necessario, riducendosi tutto ad apparenza. Qui invece si cerca una fondatezza per l’esistenza che, pure essendo problema a se stessa, dovrebbe attingere l’essere, o almeno provarci, non restare sempre apparenza. Invece Abbagnano, su questo punto, non si decide. L’esistenza non è un “possesso necessario”. Giusto. Quindi bisogna difenderla. Errato. L’intensità dell’immaginazione ingigantisce sempre le roccaforti difensive. Si mette così in moto una macchina che rassoda la macchina produttiva, tutta una questione di pulegge. Tutto è registrato perché potrebbe diventare problema un suo smarrirsi nell’oltrepassamento, di cui si hanno sintomi, nulla di preciso. Le schede segnaletiche esistono per questo e sono state inventate grazie al concetto filosofico di “segnatura”. Ecco Abbagnano: «È per la sua problematicità costitutiva che l’esistenza è sempre l’esistenza di un io singolo che vive nel tempo e nel rapporto con gli altri io. Il tempo infatti è la dimensione stessa della problematicità, la quale si radica nel passato per protendersi verso il futuro dal quale può sopravvenirle il consolidamento o la perdita delle sue possibilità. Gli altri ci sono per l’io solo in quanto si riconosce finito, e quindi legato ad essi per la nascita e per la morte e per tutte le possibilità che gli sono proprie. La vita interiore dell’io come coscienza e la sua vita associata come individuo, sono strettamente connesse al rapporto problematico dell’esistenza con se medesima. E allo stesso rapporto si lega indissolubilmente l’altro aspetto fondamentale dell’esistenza, la sua connessione col mondo. In quanto non è godimento e possesso autosufficienti, l’esistenza sa che non è tutto ma che è in qualche modo connessa al tutto e ne dipende. Il rapporto col mondo è essenziale all’io singolo, come gli è essenziale il rapporto con se stesso e con gli altri». (Ib., p. 20). Qui il termine essenziale è “protendersi”, non parlare. E poi, giustamente, il futuro non accetta discorsi. Esso è incapsulato come conseguenza del presente fattivo ed è coatto alla stessa maniera. La vita insegna la estraneità del futuro perché deriva questa certezza dall’insegnamento del passato. Non c’è intimità col futuro perché la macchina del fare produce apparenze e il futuro che essa produce è un’apparenza. Non si può avere un vero parlare con un’apparenza, manca la qualità. C’è qualcosa di incongruo in questo volere racchiudere la problematicità dell’esistenza nella dimensione asfittica del fare. Non a caso, difatti, Abbagnano afferma: «L’intero dominio della scienza intesa come ricerca con la quale l’uomo si radica nel mondo per conoscere l’ordine delle sue cose, cioè il progetto possibile della loro utilizzazione, trova il suo fondamento nella costituzione problematica dell’esistenza. Una considerazione problematica deve dunque assumere un atteggiamento di positiva valutazione nei confronti della scienza e riconoscerle senz’altro quella validità cui essa intrinsecamente aspira». (Ib., p. 21). È l’ordine delle cose che l’uomo vuole osservare alla propria esistenza ed è questo che percepisce del fare coatto, un possesso in arrivo, da trattenere a qualsiasi costo. Non c’è neanche l’ipotesi di una possibile completezza diversa. Il filo di ferro che avvolge il macchinario del fare è mantenuto integro, non ci sono sbavature. In questo modo si ottiene solo il risultato di esaltare l’esistenza come incompletezza e il non vederla è coprirsi gli occhi, come di regola fanno i filosofi.

Scrive Abbagnano: «L’intero dominio della scienza intesa come ricerca con la quale l’uomo si radica nel mondo per conoscere l’ordine delle sue cose, cioè il progetto possibile della loro utilizzazione, trova il suo fondamento nella costituzione problematica dell’esistenza. Una considerazione problematica deve dunque assumere un atteggiamento di positiva valutazione nei confronti della scienza e riconoscerle senz’altro quella validità cui essa intrinsecamente aspira». (Ibidem). Se questa possibilità fosse veramente tale – come afferma Abbagnano – si potrebbe facilmente mettere da parte il fare e il mondo coatto che esso produce. Ma non è così. L’oltrepassamento – di cui Abbagnano nemmeno discute – non è un semplice mettere da parte ma è un coinvolgere se stessi nel pericolo estremo, a vita o a morte. No, la possibilità non apre la porta del fare, anzi la sigilla maggiormente. Nessuno è dentro i segreti della coazione a ripetere se non è disponibile a rifiutarla. Per sondarli ed esporli bisogna essere disposti al rischio del coinvolgimento. Il ciclo produttivo e quello di controllo si riproducono a vicenda, il sacerdozio del fare prepara le nuove leve della prostituzione lavorativa, ognuno mantiene il proprio ruolo e, in questo modo, sogna di possedersi. Tutti odiano il meccanismo, anche i suoi più attenti artefici, nessuno o pochi lo mettono veramente in questione, rimandano la propria completezza a un maggiore intasamento di accumulo, poi si fanno prendere dal panico quando si accorgono di essere in vista dell’ospite inatteso, arrivato per loro sempre prima del dovuto. Tutti, o quasi, sognano l’evasione, come i prigionieri sognano di avere le ali per volare oltre le mura della prigione, dove sembra si possa respirare un’aria meno soffocante e densa.

Continua Abbagnano: «Ma l’io singolo non è per se stesso un pensiero o un soggetto in generale, né una generica unità; è un’unità concreta che si esprime in un pensiero, in una volontà, o, in una parola, in una vita determinata. E questa vita è per l’io stesso un complesso di possibilità che si radicano nel passato e si protendono verso il futuro, possibilità che l’io cerca di raccogliere nell’unità di un compito o di un pensiero dominante, e qui è appunto la possibilità fondamentale che si offre all’io: quella di essere veramente un io cioè un’unità che non si disperde in manifestazioni insignificanti, oppure di perdersi e di smarrirsi in tali manifestazioni che tendono a diminuirne o a disgregarne l’unità. Questa possibilità negativa è sempre presente anche all’io che si è più saldamente riconosciuto ed affermato e che pertanto rimane un possibile; ma al suo estremo limite può condurre alla follia, la malattia umana per eccellenza, che colpisce ciò che l’uomo ha di più proprio, la concreta unità del suo io». (Ib., pp. 23-24). Il tema centrale qui è “l’unità dell’io”, che si presenta come possibilità che può essere perduta, smarrita nella follia o autenticata nella conservazione. Che cos’è difatti la follia se non la perdita del controllo di sé? E perché questo controllo si realizza solo nel fare coatto, mentre l’agire libero è considerato follia. Anche immaginare una fuga dal meccanismo produttivo è comportamento regolare, non è per nulla follia, fa parte della produzione stessa, l’apparenza si auto-inganna per meglio apparire e per reintegrare la forza di controllo. Ogni schiavo sogna la libertà ma sta poi attento alla manutenzione della catena. Il sogno è parte dell’apparenza mentre la strada verso l’essere è progetto e coraggiosa determinazione, non semplice decisione fra alternative in sostanza equivalenti. La qua-lità, una volta vissuta, può anche non permettere un ritorno al fare. Ma, a parte questo superamento del punto di non ritorno, il fare è sempre l’obiettivo ultimo della stessa esperienza diversa, e questo si vede nella rammemorazione. Un sentimento misto e indecifrabile è questo che anima la rammemorazione nelle sue pretese di chiarire il loro senso alle ombre che si agitano nella invalicabile parete della caverna dei massacri. Certo si tratta di esperienza diversa, quindi inaccettabile alle apparenze che danzano alla luce fioca che illumina la caverna, chi si fa portatore di questa esperienza è un reietto e dovrebbe restarsene zitto, ma la sua parola ha un grande peso e sconvolge le esistenze. Mai più questo reietto riprenderà esattamente il suo posto così come l’aveva lasciato per avviarsi all’oltrepassameto.

Ma anche la problematicità ha bisogno di un ordine. Abbagnano è qui che attacca l’asino. La passeggiata all’esterno della possibilità è stata esattamente come l’ora d’aria dei carcerati, finisce al suono del campanello del carceriere. Egli scrive: «Si è visto come la considerazione problematica risolve in possibilità ogni realtà. Ora è evidente che lo stesso dominio della possibilità deve contenere un criterio di distinzione e di scelta; giacché ci sono indubbiamente possibilità vere e autentiche, e possibilità non autentiche, ingannevoli ed illusorie. Una possibilità autentica è quella che è a se stessa la propria garanzia. La possibilità della possibilità (o, come anche può dirsi, possibilità trascendentale) è il criterio di ogni possibilità. Tra i rapporti possibili che l’io può avere con gli altri, egli deve scegliere quelli che garantiscono la possibilità di tali rapporti, escludendo quelli che la negano o riducono a nulla. Tale infatti è il semplice fondamento di ogni atteggiamento morale. Lo stesso imperativo categorico kantiano è espresso, come tutti sanno, in termini di possibilità e prescrive la scelta di una massima (di un atteggiamento possibile) che possa valere per tutti, cioè come la possibilità stessa dei rapporti umani. Questa possibilità è dunque l’unico criterio di valutazione e di scelta dei rapporti umani, delle possibilità determinate che si offrono all’io nei confronti degli altri». (Ib., pp. 24-25). Il segreto consisterebbe, fra le tante possibilità, nello scegliere quella che rende possibili queste possibilità. Questa sola è la “possibilità autentica”. Ora è fuor di dubbio che individuare questa particolare possibilità è una scelta, e la scelta non è possibile se non con esiti in fondo equivalenti, in termini qualitativi, perché si resta, quale che sia la scelta, sempre nell’ambito della quantità. Ecco che scegliere è vuoto produrre, tormento in sé privo di senso, che fa sentire ancora più profondamente l’amarezza della condizione coatta. Ma è vero che si sceglie, cioè si continua a produrre senza ribellarsi, con una semplice alzata di spalle si sottoscrive il massacro, come per dire, che ci posso fare? Tutto è come se l’apparenza che viene prodotta non fosse una sopraffazione ma un rito garantito e protetto dal ronfare monotono delle pulegge fattive. Gli assassini si rammaricano dei loro omicidi? Forse. E con questo? Cambia qualcosa? Nell’autenticità di cui si parla c’è qualcosa di metaforicamente macchinoso e ineluttabile, che rispecchia bene il processo del fare e il possesso che ne deriva. Non esistono scelte autentiche.

Ma Abbagnano insiste: «… per la ragione problematica ciò che è, è in ogni caso una concreta possibilità: ed una possibilità, quando è autentica, è il dover essere di se stessa. In questo caso la forza e la potenza del dover essere è tanto maggiore quanto più ricca e concreta è la possibilità in cui l’essere si risolve. Una possibilità fittizia è priva di normatività: essa si dissolve alla prima prova per l’incapacità di mantenersi e garantirsi in ciò che è, nel suo essere possibilità. Ma una possibilità autentica è tale perché riconosce la sua stessa possibilità come il proprio dover essere; epperò quanto più si riconosce e si realizza nella sua autenticità, tanto più riconosce la potenza del proprio dover essere. Un io che ha scelto la sua possibilità autentica e ha riconosciuto il suo compito, riconosce per ciò stesso a questo compito il massimo valore normativo». (Ib., p. 27). La parola guida qui è “normatività”. L’io si richiude nel dover essere della scelta autentica, è questa la sua norma e la sua prigione. Non vuole liberarsi in queste condizioni, ruota attorno a se stesso, visita le celle della prigione e, se può, se ne sceglie una adatta ai suoi gusti. Questa è la libertà amministrata. Occorre rendersi conto di come la coazione lavora, come arriva lontano dentro di noi, come scava profondamente nella coscienza immediata creando rinvii e giustificazioni. Questo continuo addentrarsi produce assuefazione e la produzione di questa assuefazione è in massima parte apparenza prodotta dalla filosofia. Che ne è allora del lancinante pensiero dell’oltrepassamento, esso si addormenta, cullato dalle sapienti mani del filosofo.

Che cos’è una realtà problematica? Abbagnano risponde: «Il reale problematico è una struttura che riporta incessantemente ogni possibilità concreta al suo fondamento problematico e fa di questo fondamento la norma e il dover essere della possibilità stessa. Si può dire allora che il dover essere è la sostanza dell’essere. Sostanza infatti è il principio intrinseco che fa che l’essere sia tale; e la normatività è sostanza nel senso d’essere il fondamento problematico al quale ogni possibilità autentica deve incessantemente richiamarsi e sul quale deve costruirsi. La fondazione di una qualsiasi realtà problematica (ed ogni realtà è problematica) consiste nel giustificare e garantire la sua problematicità; la quale appare in quest’atto come la sostanza che la costituisce, la norma che la pone in essere». (Ib., p. 28). Ancora uno scambio dialettico che si ribalta su se stesso facendo diventare la problematicità norma, quindi dovere, quindi sostanza. Molti, non proprio nei riguardi Abbagnano, hanno risposto con sprezzante sarcasmo a giravolte simili, non mi sembra il caso. La ritrosia di fronte a queste affermazioni dell’apparenza è d’obbligo per ogni persona ragionevole, non certo per un cercatore di fuoco. Lo stesso facitore di regole ha difficoltà ad accettare questi processi paralogici che proprio perché tali sono intoccabili. Suggerire una “sostanza” è un espediente ontologico che per sussistere deve essere spacciato per l’esistenza stessa al di là di ogni limitazione. Il fare, per esempio, essendo incompleto per definizione, non può essere considerato una sostanza del genere. Ne deriva che l’apparenza non è una sostanza, perché non problematica, ma nemmeno l’essere lo è. Affidare l’ipotesi problematica alla metafisica è un brutto affare, non farlo rende impossibile il meccanismo giustificativo. La controprova di ciò si ha nella storia.

Ecco Abbagnano: «… per la ragione problematica la costruzione di un mondo storico è un problema che si pone esso stesso nella dimensione della storicità. Un problema storico concerne indubbiamente il passato come tale; ma è insieme l’inizio di una ricerca che si protende verso l’avvenire. L’impostazione stessa di un problema storico qualsiasi impegna l’avvenire nei confronti del passato; e si rivolge all’avvenire con la fiducia e la pretesa che esso possa e debba rivelare la verità del passato. Il materiale della storia (tradizioni, documenti, monumenti) non ha altra realtà se non quella di una possibilità di rievocazione o di ricostruzione; e ogni possibilità è un’apertura verso l’avvenire. Da questo punto di vista la storia è essenzialmente problematica. Essa si risolve nei suoi problemi, che sono riproposti dalla loro stessa soluzione: giacché la soluzione di un problema storico apre immediatamente il problema della propria conferma o confutazione, in base a nuove fonti o mediante una rivalutazione del materiale già noto. Un problema storico è così sempre la connessione tra il passato e l’avvenire ed è anzi la problematicità stessa di questa connessione. In questa problematicità consiste la coscienza critica della storicità, coscienza che deve accompagnare l’intero corso della ricerca storica, come il dubbio deve accompagnare l’intero corso della ricerca filosofica». (Ib., p. 30). Produzione che ruota attorno al rapporto del passato con l’avvenire. L’uso di quest’ultimo termine è indicativo. Si documenta il fare passato per alimentare la macchina produttiva stessa, un cerchio che si chiude nella circolarità cattiva che rende cattiva la coscienza immediata. Nulla si può obiettare all’affermazione di una circolarità simile. Una connessione tra passato e avvenire è problematica e, proprio per questo, diventa necessaria, cioè si capovolge nella coscienza critica della storicità. Confutare in questo modo è ribaltare il problema in quanto non c’è nessun accenno alla qualità, che non è solo una faccia diversa del fare ma anche una coscienza diversa di chi abbandona il fare per l’agire. Necessaria e oggettiva, grazie alla problematicità elevata a norma di se stessa, ecco che la storia adesso è prodotto finito e può entrare nel meccanismo del fare senza residui o interferenze. A questo fondamento oggettivo Abbagnano si dedica con fervore. Ecco un esempio considerevole di recupero di ogni contraddizione. «Contro l’oggettività della storia si è spesso rivolta l’irrisione di un’indagine che pretendeva fondarsi sulla ragione necessaria. Ma l’oggettività della storia è la stessa problematicità elevata a norma della ricerca storica. Non c’è dubbio che lo storico non possa muovere ad intendere ed interpretare un fatto storico se non sulla base delle convinzioni, dei princìpi e delle dottrine che gli sono propri; ma è pure evidente che il carattere critico di un’indagine storica le deriva unicamente dal cimentare e mettere a prova le stesse convinzioni, princìpi e dottrine che costituiscono la direttiva dell’indagine. Quando convinzioni, princìpi, ecc. sono semplicemente presupposti e messi fuori discussione, sicché le valutazioni storiche vengono subordinate ad essi senza coinvolgerli, non si ha propriamente indagine storica e si rimane sul piano della tradizione. Un problema storico è sempre essenzialmente il problema della ricerca che se lo propone: esso mette in gioco e rende problematici i principi che questa ricerca accetta e che intende fondare per l’avvenire. Pertanto l’oggettività storiografica implica, non l’assenza di principi direttivi, ma la problematizzazione di tali principi nell’impostazione del problema storico». (Ib., pp. 31-32). Il contrario è qui usato per fondare l’ipotesi iniziale. Risultato l’abbandono della logica lineare, guida una ripulsa immediata che trova riscontro nel rigetto apparente della necessità, ritrovata sotto l’aspetto normativo. Non c’è modo di aprire lo scrigno segreto del fare che beffardamente continua a produrre. Non sono i ghirigori metafisici che lo possono inquietare. La filosofia – non solo quella necessitante ma anche quella problematica – lo accudisce, si prende cura dei suoi meccanismi, non permette attacchi alla sua incompletezza. Questi, se avvengono, si profilano sotto un orizzonte diverso.

Quale il compito della storia? Abbagnano precisa: «Una ricerca storica che accetti e riconosca come sua norma la problematicità, si radica nella temporalità e muove dal tempo. La temporalità è la possibilità della dispersione, dell’annullamento e della morte, connessa ad ogni possibilità come tale. La ricerca storica è lo sforzo di sottrarre all’opera annientatrice del tempo, e di conservare e garantire per il futuro, la verità del passato. Essa è così insieme condizionata e stimolata dal tempo. Il tempo ne circoscrive da ogni parte i limiti, ma le offre anche l’incentivo e il movente. Senza il tempo non ci sarebbe ricerca storica; e non ci sarebbe ricerca storica se il tempo si riducesse alla contemporaneità assoluta di una visione unica e totale». (Ib., p. 32). Il passato non può e non deve andare perduto. La storia lo conserva pronto per l’avvenire. Il cerchio si chiude nel processo fattivo. Il fatto che la storia problematica riconosca la possibile perdita del passato non fa altro che rafforzare la necessità di salvarlo. Solo che in questa necessità c’è la rinuncia alla rimessa in gioco, per cui il passato è prodotto come oggetto e sottoposto alle regole produttive oggettuali, perde cioè la sua realtà ed è pronto per l’apparire. L’onnicomprensività del fare si riflette nella molteplicità ordinata del mondo senza per questo ridurlo a unità – che sarebbe una forza completante –, scende sui singoli oggetti e imprime loro il segno della irriducibile pochezza della quantità.

Ribadisce Abbagnano: «La ragione problematica non soggiace all’esigenza propria della ragione necessaria di una illusoria soppressione del tempo con la sua riduzione alla contemporaneità. Essa riconosce invece l’essenziale temporalità del reale in quanto scorge in esso una struttura problematica che riconnette l’avvenire al passato. Questa connessione è propriamente la storicità; ma in quanto è problematica, essa non annulla la minaccia del tempo che può indebolirla o vanificarla. La ragione problematica riconosce quindi la realtà, (la possibilità) dell’accidentale, del contingente, dell’insignificante; giacché questa possibilità è sempre connessa alla possibilità di ciò che è valido e significativo e quindi propriamente storico. Questo non equivale alla negazione dell’ordine storico, ma solo a quella della sua necessità; sicché implica che ogni ordine è problematico e, per questa problematicità, normativo, quindi tale che il suo riconoscimento equivale a un impegno di realizzazione operosa». (Ib., p. 33). Tutt’altro che apertura o negazione dell’ordine. L’andatura del teorico è quella del processo produttivo stesso, non ha sbalzi elettrizzanti, come quelli che causa l’inquietudine nella coscienza che si riconosce incompleta. L’ordine storico, che prima si differenzia dalla necessità storica, diventa vecchio e rugoso, scopre in sé il tarlo di un avvenire cieco e di una morte senza senso. Comincia a zoppicare, il teorico deve raffinare i suoi strumenti se vuole continuare nel suo mestiere. Non appena la necessità produttiva torna ad affiancarlo, ecco che l’ordine storico riprende la sua marcia inarrestabile. Nuovi progetti, simili ai vecchi e dai vecchi differenti. Non è forse questo il segreto produttivo?

La filosofia esistenziale, secondo Abbagnano, deve potersi differenziare dalla filosofia necessitante, deve cioè essere problematica. Ecco come afferma: «La considerazione esistenziale è propria della ragione in quanto non postuli la sua identità col reale ma si ponga col reale stesso e con se medesima in un rapporto problematico; e faccia esplicitamente un problema di tale rapporto. Una ragione problematica così intesa non elimina il finito ma lo fonda; giacché lo riconnette alla sostanza che lo regge cioè alla sua struttura normativa. Essa pertanto si rifiuta alla risoluzione del dover essere nell’essere (cioè nella presenzialità e riconosce al dover essere della sostanza tanta più forza ed efficacia quanto maggiore è l’autenticità e la saldezza delle manifestazioni che lo costituiscono)». (Ib., p. 35). Illuminante condensato. Parole chiave qui sono “fonda”, “sostanza”, “struttura normativa”, “forza ed efficacia”. Questi virgulti filosofici, anzi metafisici, sono la base di ogni recupero fondativo, un groviglio di serpenti che si attorciglia sempre di più, un metodo primordialmente artritico, incapace di snodare il fare, anzi diretto specificamente ad ingessarlo di più, in altre parole, un metodo civilizzato che ribadisce la chiusura metodologica del fare. Questa problematicità falsa è carne floscia, invecchiata prima di vivere. Su cui bisognerebbe giurare a occhi chiusi con la garanzia della sola parola, cosa che non ho mai accettato. Sotto un altro aspetto, questo continuo palleggiamento, apparentemente bonario, è fornitore privilegiato della caverna dei massacri. Basta leggere queste poche righe: «La ragione problematica si muove quindi dal tempo alla storia cercando di rinsaldare e fondare la possibilità dell’ordine in cui la storia consiste». (Ib., p. 36). L’ordine è la storia, e viceversa. Mi soffoca un progetto del genere, lo trovo irresponsabile e limitato, esattamente come lo trovavo più di cinquant’anni fa. Un progetto in fondo infantile dal punto di vista teorico, ma non per questo meno molesto e che lascia intravedere il sospetto più grande, il provveditorato del lago di sangue.

Il valore come problema

La problematica del valore è affermata come dipendente dal fare stesso. Le scelte dell’esistenza hanno un valore, ogni atteggiamento lo ha. Abbagnano precisa: «La ricerca del valore è strettamente connessa ad ogni atteggiamento o comportamento umano. Ma la ricerca del valore è il problema stesso del valore: perché è ricerca di ciò che, in una molteplicità di atti o di oggetti possibili, vale o vale di più. L’incertezza su ciò che vale o sul valore che bisogna scegliere o preferire è radicata così in tutti gli atteggiamenti, sia in quelli che si qualificano come pensiero sia in quelli che si qualificano come azione. Né il pensiero né l’azione né alcun altro modo o aspetto dell’esistenza può delinearsi o affermarsi se non in vista di un valore esplicitamente riconosciuto e fatto emergere con un atto di scelta da un complesso di possibilità insignificanti o meno significanti». (Filosofia, Religione, Scienza, op. cit., pp. 38-39). Ma il valore nell’apparenza non è che un riflesso della qualità orientata, cioè di quello che è stato separato e ridotto allo stato incompleto del fare coatto. Questo riflesso, nel mondo immediato, è un residuo, non ha affatto l’orizzonte che Abbagnano suppone, resta imprigionato nella coscienza e non si trasforma mai in qualità vera e propria se non nell’oltrepassamento. Nel fare, l’orizzonte non è occupato dal valore qualitativamente visto dall’oggetto, mai antitesi fu più radicale fino a quando il residuo, di cui può parlare la rammemorazione, non si affievolisce e diventa oggetto esso stesso. C’è qui una irrimediabile estraneità tra valore e residuo. Quest’ultimo ricorda la qualità e perde questo ricordo quando la rammemorazione fallisce il suo compito e allora diventa oggetto-valore, prodotto secondo le regole. Il residuo disturba il fare, il valore gli fornisce una carica quantitativa aggiuntiva. Non c’è niente di problematico in ciò, come nel meccanismo produttivo non c’è niente di sconsiderato. Considerare “autentico” un valore è una tautologia, come definire oggettuale un oggetto. Se ne deduce che un valore come oggetto non è mai oggettivo. Il fare conosce il fastidio e perfino il tormento eventuale dei residui, sa come rispondere, ma per questo ha bisogno della filosofia che lo aiuti, che impedisca ai residui di girovagare liberamente nelle strutture produttive.

Anche il residuo, pure essendo di natura qualitativa, non può essere percepito se non come rammemorazione nel mondo del fare, quindi tollerato e a volte beffeggiato, mentre attorno a lui vengono orditi intrighi e trappole per costringerlo all’innocuità. Non è quindi una questione di parole. Il valore è un residuo riprodotto come oggetto. Abbagnano continua: «…dalla minaccia di questa caduta irreparabile nella dispersione del tempo, appunto dal pericolo di una perdita definitiva dell’unità dell’io e dell’ordine del mondo l’uomo si salva mediante il problema del valore. Questo problema lo sollecita verso la ricerca di ciò che c’è di sostanziale e di eterno nel tempo e nelle vicende del mondo, verso l’unità dell’io che lo rende capace di valutare le circostanze e di dominarle. Solo dunque attraverso la posizione esplicita e chiara del problema del valore la certezza iniziale della realtà in sé del valore, della sua sostanzialità trascendente, acquista efficacia per l’uomo e diventa operante». (Ib., p. 41). Di fronte al valore non ci può quindi essere un “riconoscimento” problematico, perché non c’è davanti a nessun altro oggetto. Di fronte al residuo questo riconoscimento non è necessario perché il recupero avviene attraverso un filtro costituito dalla rammemorazione, filtro che per sua particolare predisposizione è sottoposto a incertezze e contrattempi, ma che prima o poi permette la produzione dell’oggetto. Il meccanismo produttivo è sempre più forte. C’è qui un equivoco di fondo, ed è sempre quello di considerare accessibile una via differente al processo del fare coatto. Ancora una volta Abbagnano riconduce la possibilità del valore dalla sua iniziale istanza problematica al “dover essere”. Così infatti scrive: «Il problema del valore concerne dunque veramente più che il pensiero, l’azione o il sentimento o altro qualsiasi schema o gruppo classificatorio di atteggiamenti, la totalità di questi atteggiamenti è quindi, propriamente, l’essere stesso dell’uomo. Il problema del valore è il problema di ciò che l’uomo deve essere. Questo problema, può assumere forme o aspetti diversi, forme o aspetti che possono essere distinti e classificati, onde si parla con sufficiente legittimità di valori diversi che appaiono fini di comportamenti diversi: valori conoscitivi, valori morali, valori economici ecc. Ma in realtà l’elaborazione filosofica del problema del valore deve ricondurre tale problema alla sua semplicità originaria e considerarlo connesso con l’essere dell’uomo. Il valore che l’uomo cerca in un suo concreto atteggiamento, è una condizione, uno stato o un modo d’essere al quale egli si dirige con una scelta preferenziale. Il movimento diretto alla ricerca e alla determinazione del valore è in realtà il movimento diretto alla ricerca e alla determinazione di ciò che l’uomo deve essere». (Ib., pp. 42-43). Semplificare il problema del valore vuol dire ricondurlo alla sua “originarietà” che lo connette all’essere. Che vuol dire questa affermazione? Che il valore fa parte dell’essere e non dell’apparenza? Abbagnano è conseguente, a lui interessa soltanto il fare e quando parla di “agire” è una confusione terminologica. Non c’è nel suo modo di ragionare nulla nel problema del valore che si presenti come particolarità, come storia contrassegnata in sé diversamente, provvista di un sia pure impercettibile dislivello. Il valore è un oggetto. Il problema del residuo è un problema mio non di Abbagnano, un problema di cui lui non ha mai saputo niente. Un problema che all’epoca, in appunti andati perduti, definivo di “essere-vita”, e che suscitava non dico la sua ilarità ma certo la sua indifferenza.

Precisa Abbagnano: «La trascendenza dell’essere dell’uomo rispetto all’uomo è la prima e fondamentale condizione del problema del valore. Annullare o negare questa trascendenza significa annullare o negare il problema e con esso la possibilità stessa del valore. Se l’essere fosse tutto immanente nell’uomo (o nel pensiero o nell’azione dell’uomo) la ricerca del valore sarebbe inutile e il problema relativo sfumerebbe nel nulla. L’uomo possiederebbe interamente il suo essere, il suo essere gli sarebbe interamente e stabilmente dato; l’incertezza del valore e la possibilità della caduta e dell’errore sarebbero eliminate. Ma il fatto stesso che un problema del valore ci sia e sia ineliminabile dimostra che l’uomo non possiede interamente l’essere che veramente vale, che questo essere non gli è dato e che perciò l’essere come valore trascende l’uomo. Il valore come dover essere è l’essere nella sua trascendenza». (Ib., p. 44). La metafisica e i suoi soliti strumenti. Attenzione a non confondere “trascendenza” con oltrepassamento. La mancanza è nell’uomo racchiuso nel suo possesso fittizio del fare, non altrove. La coscienza diversa può colmare questa mancanza andando in cerca della qualità e questo processo può intendersi in molti modi, fisicamente sperimentabili, ad esempio avvertendo il vento del deserto sulla propria faccia, ma non nell’empireo metafisico. Unirsi a questo ribaltamento filosofico – perfettamente conosciuto sotto tutti i riguardi – è voltare dall’altro lato l’apparenza, per ritrovarsi ancora una volta nel sogno estatico che non vede il lago di sangue ma solo orizzonti liberi e puliti. Su questa linea non ci si intende su molte cose. Notare la tecnica suddetta in questa frase: «Il valore nella sua trascendenza appare così come un dover essere che è essenziale all’essere dell’uomo. Questa essenzialità è costitutiva del valore: il quale non sarebbe cercato dall’uomo e non sarebbe il termine finale di ogni sua lotta, aspirazione o conquista se non fosse e non apparisse necessariamente connesso con l’uomo». (Ib., p. 45). È un ottimo esempio. Il valore è un dover essere essenziale per l’uomo e questa sua (del dover essere) essenzialità è costituita dal valore. Il serpente si mangia la coda. Qui c’è la solita aria di famiglia, le solite paure che spingono alle solite giustificazioni metafisiche, alla solita ricerca di una base sicura su cui fondare la propria permanenza.

Ma il valore, per Abbagnano, è qualcosa di più, di metafisicamente più fondato e fondante, esso è “sostanza”. «Se intendiamo per sostanza l’essere in sé, l’essere che è al di là di ciò che l’uomo immediatamente controlla o possiede, il valore è sostanza. La sostanza trascendente è il dover essere dell’uomo, la norma della sua costituzione. La sostanzialità del valore, il suo essere in sé, la sua incondizionata e assoluta validità, implicano necessariamente il rapporto con l’uomo». (Ib., p. 46). Ridurre l’essere alla sostanza in sé è tornare indietro di migliaia di anni. Capisco che la filosofia considera le teorie come una specie di rondò veneziano, ma ogni cosa ha un suo limite se non altro di decenza. Questo modo di parlare della sostanza non è soltanto un salto metafisico nel buio, è una sconsideratezza. Qui mi sembra esistere una velata confusione tra essere ed esistenza umana. I due concetti filosofici non sono sinonimi. Il giro di parole è sempre quello, “norma”, “dover essere”, “valore”. Ma ormai lo conosciamo bene. È utile tormentare in questo modo il fare? Non proprio, il meccanismo non ne ha bisogno, ma il filosofo non lo sa, e funge da mosca cocchiera. Consapevolmente o meno qui la sostanza è presupposta come la “normatività” dell’essere. Che poi l’essere sia l’assolutamente altro, remoto a tutte le determinazioni metafisiche, questa è un’altra faccenda. Ridotto in cattività l’essere è patetico e inerme, diventa norma per qualcosa, l’uomo ad esempio. Ma l’imperiosità del fare, che investe l’uomo dell’apparente potere massacratore, è tutt’altro che qualcosa di simile all’essere, è quanto di più remoto a quello ci sia. L’uomo è autenticamente apparenza, solo quando abbandona questa condizione coatta attinge la completezza qualitativa, cioè vive una esperienza diversa, in altre parole vive la sua vita in modo completo, certo non per sempre, in quanto al di là del punto di non ritorno c’è solo la follia, quindi la disintegrazione assoluta molto simile alla morte, ma nella rammemorazione. Abbagnano invece afferma: «… il valore, proprio nella sua sostanza trascendente, è come dover essere, legato strettamente all’essere dell’uomo. Se esso è ciò che l’uomo deve essere, è anche ciò che egli veramente e autenticamente è». (Ib., p. 48). Esattamente il contrario. Egli ribadisce il suo sonno metafisico, solo il “dover essere” “è” ed è “autenticamente”. Non si può affermare ciò e poi ripiegare, che tutto questo spiegamento di forze produttive è solo una possibilità e non un fatto. Abbagnano ha una certa ripugnanza ad andare fino in fondo alla sua teoria, giustificando e non azzerandone le premesse dialettiche. Ciò presumibilmente gli deriva da una non condivisione dei dogmi hegeliani, ma questo fu sempre uno dei suoi problemi più seri, e lo si vede ancora oggi, irrisolto. Queste tesi, presentate come “problematiche”, sono invece un segno tangibile della rassegnata acquiescenza del filosofo che si lamenta dei mali del mondo ma è incapace di muoversi, anzi fa di tutto per continuare a lamentarsi riguardo alla possibilità che potrebbe non realizzarsi o nientificare tutto.

Insiste ancora Abbagnano: «Se questo essere come valore e normatività è il termine finale del rapporto la cui possibilità costituisce l’esistenza, la sua definizione riconduce ancora una volta a tale possibilità e all’esistenza che per essa si costituisce. I caratteri dell’essere trascendente devono essere tutti ricondotti alla possibilità, costitutiva dell’esistenza, di essere in rapporto con esso. Essi possono e debbono essere enucleati, non già dal rapporto, ma dalla possibilità del rapporto. Se definiamo questa possibilità come trascendentale, potremo esprimere la natura della nostra ricerca dicendo che dobbiamo rintracciare i caratteri del trascendente nel trascendentale». (Ib., p. 50). Ancora una volta la metafisica mostra i suoi limiti, costruire superfetazioni aeree che si accumulano senza nessun sostegno. Il fare si impadronisce del prodotto finito e lo modifica in oggetto, nulla di più. Il meccanismo può fare questo e molto di più, non entra nel processo dialettico – come pretendeva Hegel – si limita ad impacchettarlo quantitativamente. Questa invincibile inclinazione è quella che garantisce la solidità del fare coatto e le corrispondenze del mondo funzionanti pur nella loro conclamata incompletezza. Ma Abbagnano non si contenta, vuole stanare la determinazione ontologica del valore e riportarla alla sua natura esistenziale. Così scrive: «Ma la considerazione ontologica, pur essendo fondata sulla possibilità esistenziale, che è la condizione del rapporto, non assume esplicitamente tale possibilità come suo fondamento e non muove perciò dal suo riconoscimento preliminare. Ad essa si aprono due vie. Da un lato, essa può caratterizzare il valore riportandolo a elementi o a condizioni che sono proprie dell’uomo e facendo dell’uomo la misura del valore. Dall’altro lato, essa può tendere a purificare il valore da ogni immediato o indiretto riferimento all’uomo, facendo del valore la misura dell’uomo. La prima via giunge ad una determinazione antropomorfica del valore e, riconducendolo all’essere che è proprio della finitudine dell’uomo, lo nega nella sua validità di dover essere e di norma. La seconda via riconosce il valore come assoluto dover essere e normatività epperò come trascendenza; ma non arriva a intenderne e a giustificarne la connessione originaria con l’uomo; connessione senza la quale, come si è visto, esso non potrebbe valere per l’uomo come dover essere o norma». (Ib., pp. 51-52). Vie inadatte, egli afferma, perché disconoscono il “dover essere” e la “trascendenza” del valore. Insomma, qui sono criticate le posizioni dialettiche corrette, quelle che qualunque metafisico potrebbe mettere in piedi e mantenerle a lungo senza le ambasce e gli imbarazzi che si possono scorgere in Abbagnano. Se non altro, queste posizioni rigettate, anche se non accettabili, hanno la fierezza del proprio statuto, cosa che manca in Abbagnano a causa dell’ambiguità. Da qui la brutta impressione come di aggiustamento che si ha leggendo le riflessioni di quest’ultimo. In fondo è sempre l’aria di famiglia che qui si respira, l’aria del meccanismo produttivo al lavoro. Questi cerchi dialettici – regno dell’apparenza – si stringono nel vuoto e contrassegnano il dramma dell’incompletezza che attanaglia il fare. Ma il filosofo non può parlare senza remore, il suo scopo è sotterraneo e lui stesso lo conosce solo fino a un certo punto. Infatti, così conclude la parte introduttiva sul valore: «Le determinazioni autentiche del valore possono essere raggiunte anche riportando le determinazioni ontologiche alla possibilità trascendentale e riconoscendole nella loro radice esistenziale. Io mi propongo qui di seguire appunto questa via». (Ib., p. 53). Che qui, in questo programma condensato, ci siano salti logici, la cosa non lo interessa per niente.

Ma l’universalità del valore, come può essere fondata? Abbagnano scrive: «Ora questo carattere ontologico dell’universalità è, come tale, negativo e generico. Negativo, in quanto si riduce alla negazione della particolarità di significato, (cioè dell’insignificanza) dei singoli atteggiamenti umani. Generico, in quanto include l’esigenza che tali atteggiamenti singoli si identifichino in un comune riconoscimento o in una identità di giudizio. La negatività e la genericità di quel carattere possono essere tolte soltanto riportandole alla possibilità trascendentale, che ne è fondamento». (Ib., p. 54). Ancora una volta la coda giustifica la testa e viceversa. Il problema viene, nello stesso momento, assimilato ed espulso, circoscritto e condannato alla coazione a ripetere. L’impressione che qui si ricava è quella di capire subito, ma poi ci si accorge di essere obbligati a ricominciare daccapo. Qualcosa come se ci si invischiasse in un meccanismo troppo conosciuto – quello dialettico e, per converso, quello del fare – che trattiene e sollecita, nello stesso tempo, ad andare avanti, ma non fornisce aiuti concreti. Ecco allora la conclusione coatta, prevedibile a chi ci ha seguito fin qui. «L’universalità del valore, ricondotta alla sua possibilità trascendentale, esprime perciò l’aspetto per il quale la struttura esistenziale porta l’esistenza singola al di là di se stessa verso l’altra esistenza. Il fondamento trascendentale dell’universalità del valore è la natura coesistenziale della struttura esistenziale». (Ib., p. 55). Coesistenza e universalità. Esistenza e trascendenza. Il meccanismo non si affila, semplicemente si ripete, anche se a volte il filosofo è capace di una esasperata sottigliezza, comunque facilmente dipanabile. Ma si nota subito che questa capacità è soltanto mestiere, non c’è nessuna compromissione dolorante, nessuna avventura concreta in prospettiva, nessun coinvolgimento. La quantità estrema, indispensabile per cogliere l’inquietudine che costringe, quasi obbliga, all’oltrepassamento, la temerarietà e il coraggio, non sono roba da filosofi. E Abbagnano si produce qui in un bel pezzo di filosofia democratica scrivendo: «L’universalità del valore esprime nella forma negativa e generica della considerazione ontologica la normatività della coesistenza. Dalla sua stessa natura intrinseca, dalla sua struttura costitutiva l’esistenza è chiamata a riconoscersi e a realizzarsi nella forma della coesistenza. Tale forma è quella della solidarietà e della comprensione interumana: solidarietà e comprensione per le quali, l’uomo non è più per l’altro uomo cosa, oggetto o strumento ma persona nel significato proprio della parola, persona dotata della stessa costituzione e validità che ognuno riconosce a se stesso. Il valore in quanto si radica nella struttura coesistenziale dell’uomo, è il fondamento della dignità assoluta che il singolo può e deve riconoscere a sé e agli altri. Tutto ciò che vale consolida il legame coesistenziale tra gli uomini, rafforzando la loro originaria possibilità di connessione. Tutto ciò che vale ha la sua radice in questa possibilità originaria che è il fondamento stesso della struttura esistenziale. Tutto ciò che vale conduce l’uomo singolo a rapportarsi alla comunità ed a vivere, pur nella sua singolarità, in essa e per essa. Se l’universalità intesa ontologicamente sembra negare la concretezza del singolo, riportata al suo fondamento trascendentale e riconosciuta come possibilità di coesistenza, rafforza il singolo moltiplicandone e garantendone i rapporti con gli altri». (Ib., pp. 55-56). Queste affermazioni mi causavano all’epoca della mia prima lettura, e continuano ancora a causarmi, una insofferenza che non ho mai celato, anche se forse nei primissimi tempi l’ho tenuta per me, alla fine avvertivo quasi un senso di ribrezzo, troppo mieloso e stucchevole mi appariva il tutto di fronte ai mali del mondo che altri scarnificavano davanti alla mia assetata attenzione.

Queste posizioni vanno attraversate fino in fondo, per poi sbarazzarsene. Fare i conti con Abbagnano non è una cosa facile per me, in un certo senso è come fare i conti con me stesso, con un me stesso più aggressivo e più macchina da guerra. Mai più metafisica. Questo sì. L’oltrepassamento mi ha insegnato a muovermi nel territorio desolato e, a volte, acquitrinoso della qualità, ho acquisito un’agilità animalesca nel cogliere quando è il momento di tornare indietro, quando comincia il grosso lavoro sulla parola.

Il rapporto tra unità dell’io e unità del valore è stupefacente. Abbagnano scrive: «Al singolo ci riporta il secondo carattere ontologico del valore, l’unità. Tutto ciò che vale ha la forma e la natura dell’unità. Tra le molte cose che si presentano in una data circostanza, una sola è quella che vale e che bisogna scegliere. Fra i molti atteggiamenti possibili in una data situazione, uno solo è quello che vale e che bisogna assumere. La ricerca del valore è dunque fondamentalmente ricerca dell’unità. E l’unità come carattere ontologico deve radicarsi in qualche aspetto fondamentale della possibilità trascendentale». (Ib., pp. 56-57). Dietro queste affermazioni ci sta l’ipotesi metafisica dell’“autenticità” e la considerazione negativa della “dispersione”. Questa spavalda certezza non si fonda né sulla quantità né sul suo contrario. Il fare non è unitario ma codificato in modo molteplice, sia pure riconducibile a processi multipli, ordinati e corrispondenti. Anche l’io non è unitario. Se lo fosse sarebbe completo. Invece è diviso tra apparire ed essere, tra quantità che lo condiziona e qualità che lo disorienta. Questa sfrontatezza riguardo all’io è ammorbidita dal solito meccanismo dialettico. La “possibilità dell’unità” è l’unità di cui l’io favoleggia, e anche qui il rasoio dell’apparenza taglia in maniera radicale. Che c’è di più mellifluo di chi parla di unità in seno a un molteplice codificato? Sarebbe come negare il levarsi del sole o il calar della notte. Ecco le precisazioni non precisanti: «Il valore come unità ci riporta dunque all’originaria possibilità dell’uomo di realizzarsi come unità. Il fondamento trascendentale dell’unità del valore è l’unità dell’io. Ma l’unità della struttura è sempre la possibilità dell’unità, non un’unità già data. È un’unità che deve essere realizzata e posseduta, non una realtà e un possesso. Conseguentemente l’unità del valore non è un’unità di fatto: è un’unità che deve essere riconosciuta ed afferrata fra un molteplice di determinazioni disparate». (Ib., p. 57). Un inammissibile vagabondaggio. Non si possono ammettere due condizioni contrastanti che si giustificano a vicenda, si tratterebbe di un tentativo di spacciare il fare per quello che non è, l’agire. Ancora una volta una speciosa confusione tra agire e trascendere. Scegliere il valore è un modo unitario di vivere. Niente dà fondamento a questa affermazione non condivisibile se non per necessità catte-dratiche da professore di filosofia. L’ontologia del valore si fonderebbe allora sulla esistenzialità dell’io. Prospettiva seducente ma assurda se non si dimentica il senso profondo della problematicità e non lo si vuole neutralizzare.

Infine, l’oggettività del valore. Così Abbagnano: «Il valore è tale che l’uomo, solo a patto di riconoscerlo come una realtà obiettiva, può lavorare per la sua realizzazione e conservazione. Il riconoscimento della sua realtà obiettiva e l’impegno di realizzarlo obiettivamente costituiscono un solo e medesimo atto». (Ib., p. 60). Tutto il concetto di oggettività non è accettabile in un mondo di oggetti prodotti dal fare coatto. L’incompletezza di questi oggetti è palese ed è attribuibile alla mancanza della qualità. Ciò li rende oggettuali non oggettivi. Non ci può essere sforzo metafisico capace di cambiare questa realtà. Non può l’uomo riconoscere nel fare una realtà oggettiva ed enfatizzata allo scopo di ricavarne un fondamento stabile. Il fare non lascia vedere alcunché del genere, caso mai è vero il contrario, allontana da sé ogni possibile completamento con giustificazioni che spesso possono apparire ingenue ma che sono in realtà la copertura dell’afflusso alla caverna dei massacri. L’ossequioso acconsentimento verso l’oggettività inesistente è uno dei tanti espedienti metafisici, un gioco di parole. Difatti, Abbagnano precisa: «Per la sua realtà obiettiva, il valore si presenta all’uomo come la vera realtà del mondo. Gli si presenta come una totalità, un ordine o un sistema che lo condiziona e lo include, sollecitandolo continuamente a uscire di sé e a ricercare fuori di sé le vie e i modi per ricongiungersi al suo dover essere. Se il valore è oggettività trascendente, esso è per l’uomo la realtà che lo comprende e lo condiziona. Come oggettività trascendente, il valore è il dover essere di una totalità della quale l’uomo è parte e verso la quale deve muovere per realizzarsi. Se il valore è oggettività, l’uomo deve muovere alla ricerca dell’oggettività per realizzare se stesso nell’oggettività. L’oggettività rinvia dunque a quel carattere del valore per il quale esso è il termine dell’attività umana nel mondo, cioè del lavoro. E poiché il mondo come totalità di cui l’uomo fa parte è un ordine di parti compresenti definite dalla impossibilità della penetrazione reciproca (cioè della corporeità), la ricerca dell’oggettività del valore è la ricerca dell’ordine totale che garantisce alle singole parti la loro realtà». (Ib., pp. 60-61). Si sommano qui tutte le parti della filosofia positiva di Abbagnano, che di solito si presentano separate. Il valore è totalità, ordine, sistema, condizionamento, trascendenza, realtà, realizzazione di sé nel lavoro, insieme di parti compresenti e infine corporeità. L’oggettività è tutte queste cose insieme. La metafisica mette poco a diventare onnicomprensiva e questa capacità fittizia fiuta e insegue l’apparenza, la corteggia e la perfeziona nel suo fantastico statuto. È sempre questo metodo che compone gli opposti più irriducibili che mette insieme la lacerazione e la ricomposizione, la festa assurda e illogica e la razionalità ordinatrice, e ciò perché sia il sacrificio alla fine a prevalere.

L’ideale di Abbagnano è borghese e conservativo, il fatto di adornare la sua filosofia di ninnoli problematici è una concessione alla moda del tempo e un modo di presentare il recupero in modo allettante. Ma una collana di granati non fa una regina. Così scrive Abbagnano: «L’uomo non ha modo di riconnettersi al valore, di riconoscerlo nei suoi caratteri essenziali e di lavorare per esso, se non impegnandosi ad esser se stesso in una comunità solidale e a realizzare nel mondo, riconosciuto come totalità sistematica, le condizioni indispensabili del suo essere autentico. Il valore come dover essere trascendenza è la coesistenza solidale degli uomini, propria del singolo, l’ordine sistematico del mondo». (Ib., pp. 62-63). Questo è sistema e ordine, è il segno di un incedere che non ammette alternative, autoritario sotto gli abiti della festa, fosco e chiuso sotto l’aspetto aperto della scelta. Il filosofo quasi si aspetta il plauso del lettore, non pensa nemmeno a una possibile obiezione. Eppure il fare non ammette alternative se non radicali ed estreme, alternative di coinvolgimento. Il meccanismo, con tutte le infiorettature filosofiche, è sempre freddo, chiaro, fermo nelle sue produzioni oggettuali, è inutile vestirlo in modo più allettante, non si fa impressionare da dialettiche che gli passano accanto sfiorandolo soltanto senza disturbarlo. Le perturbazioni del fare, dovute alle teorie filosofiche, sono appena avvertibili allo stesso livello modificativo, mentre sono più rilevanti a livello dell’alimentazione del lago di sangue. Abbagnano continua: «Libertà e valore si identificano nel fondamento esistenziale. La possibilità dell’impegno è la libertà originaria che solo l’impegno effettivo può conservare e consolidare. Per quella possibilità l’uomo può essere veramente un io operante nel mondo in comunità solidale con gli altri: può perché deve. La struttura stessa dell’esistenza lo spinge all’impegno effettivo, e lo chiama continuamente al di là dei suoi limiti verso quel dover essere trascendente che è il suo essere autentico. L’impegno, come scelta del valore, è il ritorno effettivo dell’uomo, di tutto l’uomo, a quella possibilità originaria. Optando per il valore, l’uomo àncora ad esso la totalità del suo essere e costituisce il suo essere la libertà. Disconoscendo il valore, l’uomo smarrisce o indebolisce quella possibilità e decade dalla sua libertà esistenziale». (Ib., p. 63). Qui la parola portante è “àncora”. È qui, in questo approdo sicuro, che il filosofo voleva arrivare. Il suo navigare tempestoso si è rivelato l’attraversamento di una pozzanghera. Non per imbarazzo o timidezza, l’ipotesi problematica è stata sprecata per semplice paura, per la vocazione alla sicurezza, per il desiderio di restare dalla parte della conferma e della prudenza, come se volesse eliminare ogni possibilità di attrito col mondo. Abbagnano non accetta le regole della conservazione, è egli stesso un fondatore di regole conservative, un maestro della tutela e della cautela. In fondo non sa come aprirsi una strada verso la qualità e allora rimescola continuamente gli stessi concetti metafisici, dando l’impressione di una compattezza che è solo apparenza. Ma è proprio qui la sua genialità filosofica, essere banalmente capace di aderire al progetto produttivo del fare dando l’impressione di volerlo, non dico sconvolgere, ma soltanto criticare. Impressione, nulla di più. L’apparenza si accontenta di poco.

Certo, anche lavorando alla conservazione, lo stesso Abbagnano si rende conto dei limiti dei suoi meccanismi metafisici, anche se non vuole assolutamente cambiare rotta ma solo otturare qualche falla. Così scrive: «Trascendendo verso il valore, lavorando per esso, l’uomo tende ad uscire dalla labilità della sua vita temporale e a riconnettersi a qualcosa di permanente e di eterno. Il valore gli appare come sopratemporale ed intemporale. E tale esso è ontologica-mente, come dover essere, sostanza e realtà obiettiva di fronte all’insufficiente e mutevole essere dell’uomo. Ma l’atto col quale l’uomo si sottrae alla dispersione e all’insignificanza delle vicende del tempo non porta l’uomo nell’eterno e non lo identifica con l’eterno. Riconoscendo la minaccia che il tempo rappresenta per il suo essere autentico e trascendendo al di là del tempo verso la permanenza del valore, l’uomo vince la minaccia del tempo, ma non conquista la sicurezza definitiva dell’eterno. Per questo impegno egli entra nella storia e si realizza come storicità. Egli sceglie di essere ciò che deve essere: un io in una comunità solidale e in un mondo ordinato e con ciò riconosce e fa propria la sua possibilità originaria». (Ib., p. 65). Attenzione, non è un passo indietro ma in avanti. Egli non vuole accettare l’evidenza, cioè l’incompletezza endemica del fare, e chiude gli occhi alla qualità. C’è qualcosa di minuto e di gracile in questa costruzione che per molti aspetti mi aveva colpito a suo tempo, qualcosa di stantio che non poteva sfuggire al mio acuto occhio giovanile, e che forse non sfuggì. Chi può dirlo, visto il tanto tempo passato? Mi vedo ancora meditabondo su queste vecchie citazioni di Abbagnano e ne provo un senso di tenerezza, ma essendo qui per chiudere i conti non posso lasciarmi andare ai moti dell’animo. Insomma, ancora una volta Abbagnano lancia fra i piedi del lettore il concetto di “scelta”, che dovrebbe rimettere in discussione la “sicurezza”. Ma si tratta di apparenza che si sovrappone all’apparenza, giochi filosofici, semplice corrugare la fronte, non ira vera e propria. Non c’è nulla di clamoroso nel suo doppio passo di danza, tutto rientra presto nella regola, il fare non invecchia mai perché non è mai stato veramente giovane. L’ordine del mondo prima di tutto, anche se pagato dalla sofferenza della caverna dei massacri. E questo ordine può e deve essere eterno. Ecco come ragiona Abbagnano: «La libertà, come impegno verso il valore, è dunque la storicità fondamentale della struttura esistenziale. La storicità è il fondamento trascendentale del valore. Ontologicamente, l’eternità è la pura e semplice negazione del tempo, della insignificanza e della labilità della vita temporale. Ma essa non potrebbe essere, come è, la correzione, il completamento e, in una parola, il dover essere di tale vita, se non si radicasse in essa e non fosse una sua possibilità costitutiva. Proprio come insignificanza e labilità, la vita dell’uomo è aspirazione a uscire dal tempo e a riconnettersi qualcosa di permanente e di eterno. Ma il permanente e l’eterno devono allora radicarsi nella stessa temporalità ed essere a fondamento di essa. Il fondamento della temporalità, in virtù del quale la temporalità aspira a riconnettersi all’eterno, è la storicità. La storicità è dunque il modo d’essere proprio della possibilità trascendentale costitutiva dell’esistenza e s’incarna nell’impegno esistenziale, per il quale l’uomo trascende verso il valore cioè verso il significato autentico della coesistenza, di se stesso e del mondo. Il vivere per il valore è dunque necessariamente storicità, proprio perché è aspirazione all’eterno. Muovendo dal tempo verso l’eternità l’uomo si realizza nella sua storia. Nella storia si esprime e si realizza il significato del valore come dover essere». (Ib., 66). Decidendo per la storia l’uomo si conferma nella problematicità e “si rapporta veramente all’eterno”. La conclusione circolare riprende il punto iniziale, la problematicità. Non c’è verso di venire a capo di un movimento simile che produce nello stesso tempo un segnale di pericolo e un conforto per moribondi. La critica, correttamente invece, deve partire da ciò che c’è per andare verso ciò che non c’è, dal manifesto all’immanifesto, non può continuare a circolare impunemente attorno al manifesto, e Abbagnano non ha mai avuto una concezione critica della filosofia. Il punto non confessato, sempre sottinteso, è come sfuggire al pericolo, a ciò che può diventare improvvisamente del tutto fuori controllo, estraneo. Il filosofo che avverte questo segnale sta per rendersi conto della vicinanza del lago di sangue e allora corre ai ripari per proteggere, e ribadire, le regole di sicurezza.

Fede, filosofia, religione

Messa da parte la fede come momento necessario dello Spirito universale, Abbagnano cerca non solo la possibilità della fede ma l’obbligo relativo. Ancora una volta la fondazione e la garanzia. Qui occorre una forte riduzione problematica ed Abbagnano è pronto a realizzala. La fede è “qualcosa di essenzialmente umano”, egli dice, il che potrebbe essere un punto di partenza decisivo. Vediamo. Egli scrive: «L’essenziale umanità della fede implica in primo luogo questo: che essa è un atteggiamento dell’uomo totale e che perciò non si può riportare a qualche aspetto parziale, comunque classificato e distinto, dell’uomo. La fede non può essere definita come atto intellettuale o come sentimento o come attività pratica; non perché essa non sia ciascuna e tutte queste cose, ma appunto perché, essendo ciascuna e tutte queste cose, nessuna di esse arriva veramente a caratterizzarla nella sua natura totale». (Filosofia, Religione, Scienza, op. cit., p. 71). Come atto intellettuale la fede è credenza, come sentimento è dipendenza, come attività pratica è opera. Queste distinzioni di scuola lasciano indifferenti. In effetti, la conclusione è diversa: «L’insegnamento fondamentale che si ricava da queste alternative è che la fede non è una manifestazione particolare dell’uomo, riconducibile ad una forma determinata della sua attività; ma è un modo d’essere fondamentale nel quale tutte le manifestazioni dell’uomo possono radicarsi e dal quale tutte possono dedurre un loro significato specifico». (Ib., pp. 72-73). Siamo al punto di partenza. La drasticità iniziale sembra abbandonata, l’Abbagnano di sempre entra in campo con il suo armamentario filosofico stantio. Qui occorrerebbe un po’ di tracotanza qualitativa e di coraggio, per esempio, affermando l’assoluta estraneità tra fede e fare, tra fede e quantità. Invece inizia un procedimento a ritroso, cauto e delicato. Abbagnano è filosofo esperto e sa quando il terreno diventa scivoloso e minaccia di rendere scoperti i meccanismi di copertura. E la fede è concetto troppo ostico e potrebbe nascondere un pericoloso sentiero nascosto diretto verso il rifiuto delle regole impositive del fare. Non si tratta in ogni caso di un concetto semplice e grezzo e denuncia un’alta ricettività problematica.

Il primo punto delicato da affrontare è il rapporto col dubbio. Egli scrive: «Se la fede fosse una determinazione infallibile, se una volta acquisita non si potesse perdere, se eliminasse definitivamente dall’esistenza ogni incertezza e ogni lotta, non sarebbe fede: sarebbe un istinto, un impulso necessitante, una fatalità incombente, sarebbe la negazione della libertà e della responsabilità di fronte all’esistenza. Ed in tal caso la pace e la sicurezza che ad essa sono connesse sarebbero pagate a troppo caro prezzo: implicherebbero la perdita da parte dell’uomo delle sue genuine prerogative e gli toglierebbero perfino il merito e la responsabilità della fede stessa. Ma una fede siffatta non sarebbe fede; giacché un porto sicuro è tale per chi naviga, non per chi ha rinunziato alla navigazione.

«Fede e dubbio sono dunque connessi a tal punto che la fede, pur essendo vittoria sul dubbio, ed anzi appunto per questo, include necessariamente la possibilità del dubbio. E per dubbio s’intende non soltanto il dubbio intellettuale. Dubbio è qualsiasi incertezza, qualsiasi indecisione, qualsiasi alternativa, qualsiasi possibilità di smarrimento; allo stesso modo che per fede non si intende solo la credenza, ma anche il sentire e l’operare, e, in una parola, un modo d’essere dell’uomo totale». (Ib., pp. 73-74). Ma il dubbio è qui una possibilità di scelta e, come tale, è ridotto a mera equivalenza, come se dubitare o non dubitare fossero solo punti di vista. Non siamo ancora allo smascheramento delle intenzioni, ma quasi. E il dubbio non è una possibilità come scelta ma è il modo più appropriato di alimentare dentro di sé l’inquietudine riguardo al mondo del fare che tutti ci cattura nelle sue regole amministrate. Se considero questa una scelta non ho capito la differenza tra qualità e quantità. E Abbagnano non ha mai accennato ad una simile comprensione. Il dubbio quindi non accompagna la fede ma la vita. Salvo che vita e fede, qui, per un azzardo filosofico, siano considerati la stessa cosa. Purtroppo non è così. Abbagnano non ripone il problema della disperazione di una vita prigioniera della certezza del fare, quindi non coglie tutte le implicazioni del dubbio, che non è un oltraggio alla fede, tutt’altro.

Dove Abbagnano svela le sue carte e tacita le mie illusioni è nell’equivalenza tra dubbio e peccato. Ma è una equivalenza ambigua, che vuole recuperare il dubbio allo statuto della problematicità. Egli scrive: «La incertezza, lo smarrimento, la dispersione tra alternative diverse e equivalenti, rendendo impossibile all’uomo la sua unità interiore ed ogni suo vero rapporto con gli altri uomini e col mondo, costituiscono la caduta dell’uomo nel peccato. Ma nel dubbio il peccato è già riconosciuto come tale. Finché rimane immerso nella dispersione e abbandonato allo smarrimento, l’uomo non dubita. Per il dubbio, egli è già al di là della dispersione e dello smarrimento e tende già a riconnettersi a qualcosa che abbia unità ed essere. Il dubbio è una tensione tra l’abbandono peccaminoso e la fede, tensione per la quale si è già fuori dell’abbandono, ma non si è ancora nella fede. Ciò che costituisce l’assillo proprio del dubbio è il sapere che il peccato è lì che minaccia e che esso può provocare la perdita irreparabile del nostro essere. Se non si riconosce lucidamente questa minaccia, se non la si accetta e non se ne realizza il significato, il dubbio è impossibile e con esso viene a mancare la prima condizione della fede. Mediante il dubbio l’uomo getta il primo colpo di sonda nel fondamento della sua natura: riconosce come propria di sé la possibilità del peccato. Il dubbio è proprio questo riconoscimento che rende possibile l’aspirazione alla fede. Ora il peccato come perdita dell’unità e dell’essere è dovuto al fatto che l’uomo è un ente finito. L’uomo non potrebbe smarrire l’essere e l’unità, se l’essere e l’unità costituissero la sua natura, se egli fosse per sua natura essere ed unità. Dubitare, riconoscersi soggetto alla minaccia del peccato, significa riconoscersi finito e accettare la propria finitudine. Questa accettazione è decisiva perché il dubbio sia veramente tale e possa veramente aprire alla possibilità della fede». (Ib., pp. 75-76). Ancora una volta il cerchio metafisico, il dubbio fonda la fede e la fede il dubbio. Siamo in trappola. Eppure la mossa preparatoria era interessante e lasciava intendere qualcosa di più di un semplice scambio di servizi e di omertà. Se esercito il dubbio riguardo alla presunta e apparente completezza del fare, do spazio all’inquietudine e questa contrasta la fede nel meccanismo produttivo indirizzandomi verso la coscienza diversa, non al contrario verso una conferma del fare come compiutezza assoluta. Tutto sta a intendersi sulle parole. Se il fare introiettato è disperazione, allora l’oltrepassamento è il dubbio che mi apre alla qualità. Ma Abbagnano non dice questo, sembra che lo suggerisca ma non lo dice. Lo prova l’equivalenza di dubbio e peccato, equivalenza sottointesa ma non meno pregnante. E il peccato equivale a una espulsione dalla società, dalla coesistenza, e ad una immissione nel processo che si indirizza alla qualità. Poi, uscendo dall’equivalenza, Abbagnano riprende il dubbio come mezzo per riconfermare il fare e la sua apparente completezza. Questi due movimenti dialettici si intrecciano insieme e si completano metafisicamente a vicenda. Mi sembra che si possa dire, sgombrando il campo dagli equivoci, che la fede è diretta all’apparenza non all’essere. Il peccato è un venire meno alla fede e un rivolgere gli occhi altrove, verso la qualità. Lo stesso Abbagnano scrive: «E il significato della finitudine è questo, che l’uomo non è l’essere, sebbene sia o possa essere rapporto con l’essere. Se l’uomo fosse l’essere e se possedesse per sua natura l’unità e la stabilità che sono proprie dell’essere, la fede nell’essere gli sarebbe inutile ed impossibile». (Ib., p. 77). Una fede nell’essere è certamente fuori luogo. La qualità non ne ha bisogno, cerca solo il coraggio e il coinvolgimento. L’apostasia rovesciata, ecco cosa sarebbe una fede nella qualità. Non occorre una qualche sorta di iniziazione per uscire dal cerchio malvagio del fare ma semplicemente un rifiuto di collaborare. Il “dover essere” di cui parla Abbagnano, è sostanzialmente un dover fare o, meglio, un dover apparire, cioè copre e cerca di nascondere – più o meno coscientemente, ma chi indagherà i bassifondi dell’immediatezza? – l’innominabile amalgama della caverna dei massacri.

Eppure Abbagnano vuole differenziarsi dalla “necessità”. Egli afferma: «La possibilità dell’uomo di uscire dal dubbio e di giungere alla fede si chiarisce in tal modo come riconoscimento della trascendenza. E si raggiunge così la prima determinazione positiva della fede: essa è la trascendenza verso la trascendenza. Questa determinazione include sia il riconoscimento della finitudine dell’uomo come possibilità del peccato (il dubbio) sia il riconoscimento della possibilità di ricondurre la finitudine all’essere che è veramente tale e di conseguire così un genuino rapporto con l’essere. E questo duplice riconoscimento è un movimento unico e semplice; il movimento per il quale l’uomo muove al di là della sua forma finita accettata come tale e la riconduce a un essere che è al di là di essa e che è definito appunto da questo esser al di là». (Ib., pp. 78-79). È nella trascendenza la necessità? No, Abbagnano lo nega, e ci importa poco dimostrare qui una eventuale contraddizione, ma anche se non necessaria nel senso metafisico classico, la trascendenza garantisce la genuinità del rapporto con l’essere. In altre parole, per altro simili, ne garantisce l’autenticità. Ma di che cosa? Come può aversi autenticità del fare se la trascendenza dell’oggetto è un altro oggetto parimenti prodotto e amministrato secondo le regole? Sarebbe parimenti una grave confusione pensare che Abbagnano abbia qui voluto riferirsi all’abbandono radicale del fare, come se questo possa essere affidato al concetto rozzamente metafisico di “trascendenza”. Non esiste nessun passaggio così brusco nella dialettica del suo filosofare. Usando il contrasto si fa avanti minacciosamente, l’ipotesi contraria interviene a sanarlo e tutto torna come prima.

Abbagnano ha l’intenzione che all’uomo manca qualcosa, appunto l’essere, e che quindi tutta la sua filosofia – e quella degli altri, e altro ancora – è solo apparenza, infatti scrive: «Ora, che l’uomo muova con la fede verso l’essere e cerchi di vincolarsi all’essere, implica che l’essere è ciò che l’uomo stesso deve essere. Se l’uomo può trovare nel consolidamento del suo rapporto con l’essere la vittoria sul peccato e se può aspirare a quel consolidamento con la speranza fondata di trovare in esso la fede, è evidente che l’essere come trascendenza deve contenere ciò che all’uomo manca e difetta e deve costituire il completamento o la correzione della sua finitudine. Appunto perché l’uomo non può muovere verso l’essere trascendente se non in virtù del riconoscimento della sua finitudine, la trascendenza dell’essere è in qualche modo connessa con tale finitudine. Muovendo dalla finitudine alla trascendenza l’uomo cerca nella trascendenza il significato, l’essere, il valore della sua stessa finitudine. Perché se la trascendenza significasse estraneità totale dell’essere all’uomo, se la distanza dell’essere dall’uomo implicasse rottura totale tra l’essere e l’uomo e assenza di qualsiasi rapporto dell’essere con l’uomo, l’aspirazione dell’uomo all’essere, il movimento della trascendenza costitutivo della fede, mancherebbe di qualsiasi fondamento. In che modo l’uomo potrebbe cercare nell’essere o accanto all’essere la fede e la pace, se l’essere gli fosse estraneo e se per tale estraneità non avesse alcuna connessione con ciò che l’uomo è nella sua natura finita?». (Ib., pp. 80-81). Qui sembra quasi di vedere l’intuizione della remota qualità mancante. Ma il coraggio, se uno non ce l’ha, nessuno glielo può dare, si lamentava Don Abbondio. Ed è la mesta conclusione di Abbagnano. Non di “estraneità” si tratta, non di “rottura”, ma l’essere è nell’uomo, altrimenti come potrebbe cercarlo? Ripiegamento strategico, solito balzo indietro dialettico. Nessun inaudito comportamento, quale sarebbe il coraggioso salto nella qualità, nessuno scandalo. Tutto procede regolarmente, non si può fare a meno delle regole e, alla fine, si finisce pure per amarle. Ecco la conclusione: «La fede è il riconoscimento della trascendenza come dell’essere vero dell’uomo. In virtù di questo riconoscimento, l’essere stesso dell’uomo si rivela trascendente, in quanto la trascendenza è il suo dover essere; e la fede si lega al valore che è appunto il dover essere trascendente, riconosciuto come l’essere originario dell’uomo». (Ib., p. 82). Si va sempre a finire nella caverna dei massacri, dove regna la logica del “dover essere”. Questa logica richiede piena fiducia nell’essere “originario”. Ancora una volta il cerchio si chiude. Eppure mi sarei dovuto accorgere anche in tempi ormai remoti del modo approssimativo in cui è impiegata la tecnica dialettica del ribaltamento. Non l’ho fatto. Come non ho potuto vedere l’interesse che c’è dietro il concetto metafisico di fede come trascendenza? Eppure le mie armi metodologiche di tanti anni fa non erano meno acuminate di quelle di oggi. Al contrario, la ricerca della qualità, il dubbio vero e concreto nei riguardi della completezza del fare, l’inquietudine che ne deriva e l’oltrepassamento sono movimenti che scardinano l’ordine nel profondo, mettono in discussione il mondo del fare nel suo insieme, la stessa irresistibile attrazione verso l’ordine e la garanzia. Abbagnano non vuole che questo accada ma è con i piedi piantati fino in fondo nella filosofia dell’essere, cioè l’esatto contrario della filosofia dell’apparire. Egli non vuole ammettere questa sua scomoda posizione di filosofo con carte false. È un professore in vista – non dico famoso, ma noto –, pieno di studenti e di rapporti editoriali, lavora a una monumentale Storia della filosofia, non vuole mettere in gioco tutto questo. Frequenta gente distinta e programma con lungimiranza il futuro professorale dei suoi studenti – non il mio. La sua è stata una sicura ascesa sociale, sicura e confortevole. Che senso avrebbe avuto mettere in mezzo questa contraddizione? Ecco perché afferma: «Trascendendo con la fede le possibilità proprie della sua finitudine e muovendo verso l’essere trascendente che è il dover essere e il valore della sua stessa finitudine, l’uomo muove in realtà verso la possibilità trascendentale che lo costituisce in proprio e riporta a tale possibilità unica il molteplice delle possibilità in suo possesso. Il movimento verso la trascendenza riporta l’uomo al trascendentale dell’esistenza. Possiamo esprimere questa terza determinazione della fede dicendo che essa è il movimento attraverso il quale la trascendenza si rivela come il trascendentale dell’uomo». (Ib., p. 84). Qui le parole chiave sono ancora “dover essere” e “possesso”. Il resto è un salto mortale dialettico. Occorre solo tenere lontani dalle proprie orecchie il suono selvaggio dell’essere e il rumoreggiare del caos che sommuove ogni esperienza nella qualità. Non vuole sentire le trombe che fanno crollare i muri difensivi, vuole che la festa continui, con le sue maschere e le sue concordanze, non vuole che un semplice passo falso dichiari che il re è nudo. Tutto deve restare com’è, anzi rafforzarsi nel fare perché è nel fare che l’apparenza fa muovere i propri fantasmi. Ecco perché nella filosofia di Abbagnano non succede niente, solo movimenti dialettici, eminentemente apparenti. Una sia pure remota presenza di residui si ritrae in modo che niente accada, nessuna novità, nessuna perdita di tenuta, nessuna variazione di portanza. Niente.

Ma la fede è fedeltà? Abbagnano risponde prendendo le cose alla larga. Egli scrive: «La fede non sottrae dunque l’uomo alla sua esistenza e alla sua finitudine: lo sottrae alla sua esistenza impropria, alla dispersione della sua finitudine, e lo richiama a quel fondamento nel quale risiede la sua possibilità di rapportarsi veramente all’essere e di consolidarsi in questo rapporto. Perciò la fede non sottrae l’uomo ai suoi compiti umani. Lo impegna anzi sostanzialmente nel suo compito, facendoglielo riconoscere come proprio, e come unica via per raggiungere la sincerità e la pace con se stesso». (Ib., pp. 84-85). La pace con se stesso, uno scopo lodevole, non c’è che dire. Azzeramento dell’inquietudine. Non c’è immagine più umiliante per un uomo che quella di cercare la pace prima della qualità, cioè di accontentarsi della finzione, dell’apparenza quando potrebbe andare oltre. È la lacerazione dell’essere che qui viene consumata e la realizzazione di un’esistenza perfettamente adeguata al fare. Non c’è colpa in questo, lo so, solo mancanza di coraggio, e forse la cecità era mia che andavo a bussare a una porta sbagliata. Stringere da vicino il fare è senza risultato, non può produrre la qualità perché nessuna amministrazione quantitativa glielo consentirebbe. Così mi aggiravo chiedendo – o meglio confrontando – qualcosa che rimaneva invariabilmente muto. Gli scontri di metodo – o che tali a me sembravano – di cui ho parlato nell’Introduzione, facevano parte di questo tentativo di sfondare una porta inesistente. Mi rompevo sistematicamente la testa contro il muro. Non potevo raggiungere nulla se non un continuo, caotico e fastidioso rimuginare. Non volevo essere un fedele e non volevo ricevere in dono la fede. Al contrario volevo disperdermi nelle possibilità mie, non opportunamente autenticate dalla conoscenza, e farlo a modo mio. Per Abbagnano avere fede è essere fedele. Egli scrive: «La fedeltà è la stessa concretezza esistenziale della fede, giacché questa non può essere mai indeterminata e generica ma è sempre individuata e singola ed esige anzi, come propria condizione, l’individuazione e la singolarità. Alla determinazione della fede come fedeltà si connette così il riconoscimento del valore del singolo, che è proprio della fede. Per la fede il singolo (io stesso, l’altro) è insostituibile ed ha un valore assoluto. La fede difatti è il movimento stesso che richiama il singolo a tale valore, esigendo che egli si rapporti alla sua possibilità trascendentale e si riconosca in tale rapporto. Soltanto la fede, sottraendo il singolo alla dispersione, impegnandolo in un compito che gli è proprio e nel quale è insostituibile, ne realizza il significato unico e ne garantisce il valore assoluto. La fede come fedeltà è sempre fedeltà alla singolarità della persona». (Ib., p. 86). L’interesse si sposta dalla fede alla fedeltà, dal sogno, sia pure fuori luogo perché racchiuso nel fare, all’aderenza a un programma amministrato. Sono così racchiuso nella fedeltà come in un guscio che contiene un repertorio numerato di situazioni alle quali deve corrispondere un mio comportamento adeguato. È me stesso come individuo che viene racchiuso nella fedeltà, non una parte accidentale, un singolo contributo quello che viene richiesto è totalizzante sempre nella logica parziale del fare. Se sono fedele sono un uomo segnato, contrassegnato, un oggetto riconoscibile che non si può sottrarre al gioco delle corrispondenze d’uso nel meccanismo produttivo, anche ai precetti più istintivi, quelli che non emergono nemmeno a livello oggettuale. Se scolpisco questa regola cercando la qualità vengo perseguito con ogni mezzo in modo feroce e senza possibili ripensamenti. La stessa rammemorazione, o segue certe regole, dove il vento del deserto è ridotto a una lieve brezza, o è farneticazione.

Qui il concetto di fedeltà si allarga alla coesistenza. Abbagnano scrive: «La realizzazione di sé come persona e il riconoscimento dell’altra persona sono dunque fondati sull’unico e indivisibile atto della trascendenza esistenziale. La fede che porta l’uomo a realizzarsi come singolarità esistenziale, lo porta contemporaneamente a rispettare nell’altro uomo una singolarità diversa, ma egualmente assoluta. E questo rispetto non può essere negativo e generico, ma deve essere positivo e operante. Esso deve esprimersi in modi concreti di solidarietà, di simpatia, di amicizia, di amore e costituire la possibilità di legami nei quali la fedeltà alla persona si determini nella forma stessa della singolarità della persona. Un riconoscimento generico e inoperante non ha nulla a che fare con quella fedeltà, proprio perché disconosce la singolarità su cui essa si impernia. La fedeltà effettiva è singola, della singolarità stessa della persona, e determina una comunità vivente costituita dall’intreccio solidale dei rapporti singoli». (Ib., pp. 87-88). Devozione indiscriminata, senza distinzioni di affinità. La società (Abbagnano insiste, per motivi suoi, a parlare di “comunità”) è questo intersecarsi di solidarietà. Che visione angelica mi si prospettava all’epoca. Accanto a me, che mi alzavo alle cinque del mattino per iniziare a lavorare alle sei, c’erano giovani della Torino borghese che si alzavano alle dieci e non lavoravano, si limitavano a studiare sotto le ali della chioccia. Non potevo essere solidale con loro. Ecco perché, anche adesso, dopo più di mezzo secolo, non so bene a quale “comunità” si riferisse Abbagnano. In ogni modo, quale che fosse, io non ne facevo parte. Il massimo di assurdità si raggiunge nell’affermazione che “l’unità di questa comunità è il destino”. Qui non va di mezzo una sorta di devozione quasi filiale, ma semplicemente un equivoco. Spesso in Abbagnano l’impiego disinvolto dei concetti filosofici ingenera confusione. Sarebbe stato più opportuno parlare di avvenire. Invece scrive: «Il destino è la connessione esistenziale della comunità, in quanto fondata sulla fedeltà alla persona. La fede, come fedeltà, è il riconoscimento di un destino comune al quale è chiamata la comunità solidale. Vivere per un destino comune è l’ultima determinazione della fede. Essa implica una solidarietà che si riconosce come tale ed una fedeltà che salvaguarda ad ogni costo la singolarità della persona. La fede è essenzialmente un rapportarsi e collegarsi dei singoli, rapportarsi e collegarsi in virtù del quale soltanto i singoli valgono come tali. Nella unità del destino, il singolo ritrova se stesso in quanto ritrova l’altro». (Ib., p. 88). Come si accorge bene il lettore non c’era affatto bisogno di scomodare il concetto di “destino”. Una filosofia che fa perno sulla positiva valutazione del fare come trascendenza non ha parole che il destino sia in grado di comprendere. Il destino incide sulla vita solo a condizione che questa sia realmente vissuta anche qualitativamente, sia pure nei limiti in cui questa esperienza diversa è possibile. La rammemorazione parla al destino e il destino risponde. Altrimenti è una contraddanza di equivoci che si inseguono uno con l’altro. Il destino è muto di fronte alla parete inattaccabile della caverna dei massacri. L’avvenire in essa fa muovere sempre lo stesso spettacolo di ombre. Ma, come ho detto, per Abbagnano, il destino è semplicemente un avvenire detto con un’altra parola.

Adesso il problema centrale è la fede e il rapporto con la trascendenza. Finalmente quest’ultimo concetto prende la sua forma definitiva. Egli dice: «… la fede è sostanzialmente rapporto con la trascendenza che è suscettibile di una duplice considerazione. In primo luogo si può descriverlo come un trascendere dell’uomo verso la trascendenza; in secondo luogo, come il rivelarsi della trascendenza all’uomo. Per la prima interpretazione, si tratta di un movimento che va dall’uomo all’essere trascendente; per la seconda interpretazione, si tratta di un movimento che va dall’essere trascendente all’uomo. La prima è l’interpretazione esistenziale, la seconda è l’interpretazione ontologica». (Ib., p. 91). La prima interpretazione è la filosofia dell’esistenza che la elabora, la seconda è la religione. Qui è segnato il limite e la fine ingloriosa – se si vuole la sudditanza spiritualista e ontologica – della filosofia di Abbagnano. Vediamo perché. La “trascendenza” ha la peculiarità metafisica sovrana di appropriarsi di tutto quello che viene in contatto con lei, o che le viene spontaneamente sottoposto per amore di ordine o di garanzia, in altre parole per sfuggire alla terribile e umiliante contingenza del fare. Così la trascendenza toglie contenuto alla positività dell’esistenza, negli stessi termini ipotizzati da Abbagnano, e ne rovescia il senso nella più assoluta deresponsabilizzazione. Lui non se ne è reso conto da buon metafisico, altri sì ma non lo hanno detto con la forza dovuta. Paci, ad esempio. Tendere alla trascendenza significa consegnarle la propria consistenza positiva, se si vuole dare a questo termine un senso proprio e coerente. È fuor di luogo giustificare questo passo metafisico come fa Abbagnano: «Per l’interpretazione esistenziale, l’uomo non muove verso la trascendenza se non per riconoscerla come propria possibilità trascendentale, sicché questa interpretazione evita l’irrigidirsi dell’essere trascendente nella sua estraneità all’uomo e riconosce tale essere nell’unità che deve essere propria dell’uomo, della coesistenza e del mondo, affinché siano garantiti nel loro valore». (Ibidem). Si tratta di un viaggio di sola andata. Non ci sono interpretazioni capziose o insinuanti. Non ci sono iniziazioni che poi sarebbero veramente un segno del prodotto finito, quindi del fare, forse l’unica interpretazione fondata, ma di cui Abbagnano si tiene alla larga. L’interpretazione religiosa andrebbe rigettata in quanto l’uomo – sempre secondo Abbagnano – è soltanto elemento ricettivo in essa, ma ancora una volta, con un salto logico non giustificato, egli recupera scrivendo: «Tali determinazioni tuttavia sono immediatamente fatte valere dalla religione al di là del loro significato strettamente ontologico e riacquistano il loro significato esistenziale». (Ib., p. 92). Nessun commento. La religione, dopo tutto, è uno strumento d’ordine di prima grandezza e non poteva essere messa da parte per una banale bega ontologica. La separazione e il congiungimento all’interno del concetto di “trascendenza” è uno dei punti più deboli di tutto l’esistenzialismo positivo. Anzi, per me, a suo tempo, è stato il culmine della mia spinta al rifiuto. Nulla poteva e potrebbe convincermi di meno del ragionamento di Abbagnano sulla trinità. Per quanti riguardi e interessi potevo avere per l’esistenzialismo in genere, questo punto riuscì a bloccarmi oltre misura. Non volevo essere fedele a nessun costo, anche mettendo a repentaglio quello che pensavo potesse essere il mio futuro. Volevo restare integro nel mio modello di accostamento alla conoscenza e mi rifiutavo di accettare quello che vedevo accettato – in modo più o meno critico – da coloro che mi erano attorno. C’era in me una risoluzione rocciosa che mi ha portato qui, in questo carcere greco, alla fine della mia vita, una refrattarietà di cui vado fiero, che non ha mai voluto invischiarsi nella melma politica, anche camuffata di cultura. È il mio modo – spesso inconsapevole – di restare di fronte alla qualità. Mi sono trovato tante volte a riflettere su quelle mie antiche scelte contemplando la devastazione. Mi sta bene così.

Se la filosofia si basa sulla “decisione” dell’uomo riguardo alla sua vita, la religione fa il percorso inverso, sottolinea l’azione della grazia sull’uomo che così riesce a non peccare. Abbagnano fa una curiosa commistione e scrive: «Tuttavia il carattere religioso della grazia sta nel fatto che essa non costituisce un dono estrinseco e sopraggiunto, ma opera nella stessa volontà umana richiamandola e sollevandola alla libertà; così la grazia non si contrappone alla libertà ma la fonda. Essa costituisce la possibilità iniziale che con la decisione impegnativa l’uomo riconosce e fa sua. Ancora una volta la divergenza delle due vie, accentuata e condotta sino in fondo, determina il ritorno all’unità della loro origine». (Ib., pp. 93-94). Il che è veramente inaccettabile. Una “comune origine” è concetto sbagliato per la destinazione voluta da Abbagnano nell’esprimerlo ma, come spesso succede, la gallina cieca riesce prima delle altre a beccare il chicco di grano. Filosofia e religione, da me considerate all’epoca – e sotto certi aspetti anche ora – antitetiche espressioni della conoscenza, sono comunque entrambe provveditori indefessi della caverna dei massacri, e così, stranamente e senza volerlo, Abbagnano finisce per avere ragione. Ma è un avere ragione che non avrebbe mai condiviso e che lo avrebbe imbarazzato semmai ne fosse venuto a conoscenza. Nel suo goffo tentativo di recuperare la religione trinitaria, dialetticamente per lui più appetibile, non fa altro che distanziare di più il suo esistenzialismo positivo da una qualche parvenza di comprensibilità.

Se la filosofia fa appello alla storicità, la religione si appella alla tradizione. La società riceve gli elementi della prima e della seconda in modo diverso. Abbagnano non se ne dà pensiero, egli cerca in tutti i modi di riassumere queste condizioni distanti fra loro perché possano lavorare insieme alla stabilità dell’avvenire umano. Così scrive, riferendosi alla religione: «Evidentemente tale problema non nasce nell’ambito della religione finché questa rimane fondata sulla tradizione. La tradizione vive per l’accettazione preventiva che il singolo ha fatto della comunità, accettazione alla quale la comunità stessa si è impegnata per lui. Questa accettazione tuttavia è generica. Essa è stata fatta una volta per tutte, senza possibilità di considerare ciò che il singolo è e sarà e quali sono o saranno le condizioni concrete, gli ostacoli e le lotte che egli dovrà affrontare. Ma quando l’uomo per tener fede a quella accettazione dovrà affrontare l’incertezza della lotta e il pericolo della dispersione, il dubbio gli si presenterà in tutta la sua forza ed egli dovrà proporsi ex novo il problema specifico del suo impegno e della sua stessa singolarità. La tradizione rappresenterà ancora per lui una sollecitazione e un richiamo ma egli, non rimanendo più fuso con essa, distinguerà ciò che appartiene alla tradizione e ciò che appartiene a lui stesso; ciò che essa esige da lui e ciò che egli può corrisponderle; ciò a cui essa si impegna per lui e l’impegno che egli stesso può e deve prendere nei confronti di essa. In virtù del suo svolgersi e approfondirsi, l’atteggiamento religioso passa così dalla tradizione alla storicità». (Ib., pp. 96-97). Alla fine, la storicità prevale sulla tradizione, la religione, assolto il suo compito generico e delimitante, cede il passo alla filosofia, erede e consorella più adatta a gestire il mondo del fare coatto. Non è un cedimento, ma una ripartizione di ruoli. Non si deve dimenticare che la storicità si fonda sulla fedeltà. Quello che preme ad Abbagnano è che la religione assolva il suo compito specifico di singolarizzazione positiva dell’esistenza. Non si deve trattare di una dubbia e pericolosa esaltazione ma di una concreta forza regolatrice, capace di portare a buon fine qualsiasi trattamento di appropriazione. Nel tentativo di giustificare prima e utilizzare poi la religione, Abbagnano si trova a disagio, tocca il fondo della propria incapacità di costruire una vera filosofia positiva dell’esistenza, sia pure legata al fare e alle sue regole produttive. Accetta, in altri termini, di mangiare in due greppie.

La lunga tirata critica con la quale la religione è accusata di “obiettività generica o di obiettiva genericità” è anche una tirata giustificativa e prudente, come tutte le prese di distanza fatte da Abbagnano. Egli scrive: «La religione parla e agisce in nome di una comunità universale alla quale tutti gli uomini partecipano in linea di fatto e in linea di diritto; e per essa ciò che fa il pregio del singolo è appunto questa partecipazione alla quale, perciò, essa continuamente lo richiama e lo impegna. Certamente il suo richiamo è tanto più appassionato e intenso quanto più l’individuo si allontana o tende ad allontanarsi dalla comunità in nome della quale essa parla. Ma nell’individuo essa non vede mai altro se non appunto il membro di questa comunità; ciò che in esso c’è e ci può essere di unico, di eccezionale, cade fuori della sua considerazione o viene esplicitamente negato. La religione afferma una regola, che si rifiuta all’eccezione. Il carattere obiettivo dell’interpretazione ontologica sulla quale essa si fonda esclude la considerazione dell’eccezione. Una via unica è offerta per tutti e tutti devono egualmente percorrerla. A tutti è riconosciuta la possibilità di seguirla; e per questa possibilità ogni uomo come tale possiede la dignità e il pregio della persona». (Ib., pp. 98-99). La società – comunità andava bene solo per la religione, come abbiamo visto – procede in modo contrario, partendo dal singolo. Questo problema pone una distinzione reale ma sprecata. Abbagnano non aspetta molto per gettare dalla finestra quello che era riuscito a dire di buono. Alla fine anche la religione è riportata sotto il cappello filosofico della singolarità, parlando specificamente del senso dell’“elezione” a cui l’uomo religioso si sente chiamato. Ancora una volta il cerchio dialettico si chiude ma dà l’impressione che questo gioco delle parti potrebbe continuare all’infinito. Sono le solite tecniche della filosofia con cui l’uomo continua a tormentarsi senza essere capace di rompere il cattivo gioco che gli viene imposto dal meccanismo produttivo. La sua è una dichiarata ricerca di sintesi. Questo sincretismo azzera, a mio avviso, quale che sia un pur minimo interesse all’esistenzialismo positivo. Io stesso ho avanzato in passato – nei miei appunti andati perduti – il dubbio di un certo parlare ironico, ma rileggendo i testi mi rendo conto di essermi sbagliato. Abbagnano è qui serissimo, come sempre peraltro. C’è qui, al contrario, un tentativo disperato di arruolare la religione sotto l’ombrello dell’esistenzialismo, cosa che in Francia era stata fatta più o meno da Blondel e da Marcel, anche se in prospettive diverse. Ecco come precisa questo impegno: «Fede è infatti singolarità, trascendenza, valore, fedeltà; ed ognuna di queste determinazioni è un vincolo per il quale filosofia e religione debbono cercarsi e ritrovarsi. Ma non possono cercarsi e ritrovarsi se non nell’ambito dell’esistenza concretamente vissuta e realizzata. La loro sintesi non è obiettiva né razionale e neppure universalmente subiettiva. Essa non può esser data una volta per tutte in una qualsiasi dottrina; dev’essere realizzata dall’uomo singolo che si ritrova nella sua fede, quale che sia la via che l’ha condotto alla fede. Essa è un ritrovamento continuo e una continua ricerca: la ricerca e il ritrovamento che l’esistenza fa di se stessa, riconnettendosi all’essere autentico della sua singolarità e della sua vera comunità». (Ib., p. 102). Il recupero lo illude di ottenere una maggiore forza di convincimento, ma è un’illusione. La filosofia usa la religione ma è a sua volta usata, la storia della teologia lo dimostra. Nel riformare il lago di sangue non si sa mai quali delle due sia la più efficace. Su di me, giovane, questa constatazione, sia pure nebulosamente intuita, fece una grande impressione. È un brutto segno che una teoria filosofica si preoccupi troppo della religione, non tanto dell’esistenza di Dio, ma proprio della religione come fede, esattamente come fa Abbagnano. La fede si collega alla fedeltà e questa alla garanzia e alla sicurezza. Il cerchio fa presto a chiudersi. Non si tratta di segnali cifrati ma di parole chiare.

Tempo e peccato

Dopo un’esposizione delle teorie del tempo, divise tra il concetto di divenire e quello di coscienza, teorie che non mette conto riferire qui, Abbagnano riconduce l’interpretazione della necessità come “permanenza” alla possibilità come “temporalità”. Egli scrive: «…se la necessità si lega alla permanenza, cioè all’essere come tale, il possibile si lega all’instabilità, cioè soltanto al rapporto con l’essere. Il dominio proprio del tempo e della sua interpretazione è quindi l’esistenza. La temporalità esprime l’instabilità del rapporto con l’essere, cioè la possibilità della sua risoluzione. Il rapporto con l’essere, come possibilità, è anche essenzialmente possibilità di un non-rapporto: in quanto tale, è temporalità». (Filosofia, Religione, Scienza, op. cit., p. 111). Fuggire dal presente è lo scopo di questa fallace problematica per rifuggiare nel futuro. Ma, come ormai siamo abituati a vedere, questo futuro non può essere diverso dal presente in un mondo amministrato dal fare. Non si può sfuggire alla necessità in questo modo, anzi la si ricerca come posto sicuro dove ancorarsi, parola che ricorre spesso, quest’ultima, nella filosofia dell’esistenzialismo positivo. La negatività del tempo, foriera della morte, si estingue così nella positività del presente, dove la morte non esiste. Che importa che il meccanismo del fare sia una sorta di morte vivente, esso garantisce, quindi è necessario, tenendoci così al riparo dai pericoli della compromissione qualitativa. Qui è l’errata interpretazione del futuro che impedisce di cogliere la realtà del tempo. Si vede che il filosofo è sulla difensiva, in quanto il tempo è trasformato in oggetto dal fare e se non si spezza questo circolo vizioso rischia di passare inavvertito. Eppure il tempo è proprio la stessa problematica su cui tanto insistono le tematiche di Abbagnano.

Egli scrive: «L’interpretazione del tempo dà luogo ad un’alternativa: o disconoscere e ignorare il tempo e con esso la finitudine dell’esistenza o riconoscere ed accettare il tempo e la finitudine. La prima alternativa determina il peccato. Il mancato riconoscimento della temporalità come possibilità del non-possibile è l’assunzione della instabilità come stabilità, cioè lo stabilizzarsi in una instabilità ritenuta definitiva. Ogni elemento di questa instabilità, ogni atteggiamento, ogni atto, appare fermo, definitivo e significante, onde, si rinunzia a cercarne e a realizzarne il significato e il valore al di là di esso, nella trascendenza verso l’essere e nella instaurazione di un rapporto autentico con l’essere. Si crede di possedere l’essere e di essere in un certo modo l’essere nella instabilità e provvisorietà di un evanescente rapporto con l’essere; e ignorando o disconoscendo tale rapporto, si perde la sola possibilità di consolidarlo e di renderlo autentico. Il mondo ci appare allora aperto come spettacolo o teatro nel quale si possa intervenire a piacimento, ma al quale si possa anche assistere; e così perde la sua consistenza e la sua realtà. Gli altri uomini ci appaiono come strumenti pieghevoli dei nostri bisogni e dei nostri scopi particolari perché non ci sforziamo di rintracciare in essi l’essere che è al di là dei rapporti casuali e provvisori che si stabiliscono tra loro e noi. Il nostro stesso io si disperde in una varietà di atteggiamenti ognuno dei quali viene assunto come definitivo e perciò chiuso nella sua insignificanza». (Ib., pp. 112-113). Parole che suonano a morto per la stessa filosofia di Abbagnano se lette con la giusta scansione logica. Egli salda se stesso nella necessità di difesa, e questo è un chiudersi nel tempo, fa cioè esattamente il contrario di quello che dice. L’essenza del problema continua a sfuggirgli. E il fatto di chiamare “peccato” questo disconoscimento è una richiesta di testimonianza per affermare il contrario, ma questa testimonianza non è sufficiente. Ma cos’è il peccato? Abbagnano subito risponde: «Che i fatti, le persone, gli atteggiamenti si sostituiscano così bene l’uno con l’altro nella successione del tempo è il segno evidente della loro insignificanza, della loro inconsistenza e della loro povertà di valore. E così vivere nel tempo, vedere in esso una successione e abbandonarsi al corso della successione, significano la medesima cosa: vivere nel peccato, rinunziare all’essere del proprio io, del mondo e degli altri. Il peccato è la perdita o la rottura almeno potenziale del rapporto con l’essere; è rinunzia alla trascendenza e perdita della trascendenza. Perdita della trascendenza significa: perdita dell’autentica possibilità di un rapporto con l’essere nella triplice forma che è propria di questo: l’unità dell’io, la realtà del mondo, la solidarietà con gli altri. L’indebolimento o la rottura potenziale di quel rapporto toglie all’essere la sua natura di dover essere cioè il suo carattere di valore. Vivere nella successione e in conformità della successione temporale significa attribuire ad ogni evento che succede all’altro lo stesso valore dell’altro; ad ogni persona che succeda all’altra lo stesso valore dell’altra; a ogni atteggiamento che succede all’altro lo stesso valore dell’altro. La considerazione del tempo come successione reca dunque in sé la minaccia della lacerazione della struttura esistenziale, della perdita dell’unità, della trascendenza e del valore». (Ib., pp. 114-115). Ma ciò è esattamente quello che è stato affermato prima, cioè il disconoscimento del tempo come presenza della temporalità, cioè come coscienza che non accetta la limitatezza del fare e delle sue regole. Il tempo accede al destino attraverso la qualità rompendo il proprio schema, quest’ultimo si sbriciola a seguito dell’oltrepassamento. Nella qualità non c’è il tempo come successione, la libertà è altro, caos non scansione ordinata più o meno camuffata di problematicità. La possente ventata di diversità sconvolge l’ordine necessario del fare e getta la coscienza diversa nell’incertezza – questa volta veramente incertezza – da dove poi può parlare al destino. Abbagnano non lascia intendere un’alternativa del genere, pensa seriamente che l’aggancio con l’essere, il suo “rapporto trascendentale” gli garantisca un’uscita dal mondo dell’apparenza. Ma è pensiero gratuito di filosofo, pensiero stagionato che ha fatto il suo tempo. Dalla caverna dei massacri si possono osservare solo ombre proiettate nella parete invalicabile. Le teorie filosofiche sono connaturate al potere del fare, dove penetrano impregnandosene profondamente, non possono accedere all’esperienza della qualità, il loro autore le tiene saldamente al guinzaglio. Il fare è l’essenza stessa del potere, il suo occhio infallibile valuta e pesa le teorie in base al contributo che possono dare al meccanismo produttivo, spesso usa alcune di esse – ed è questo il caso di Abbagnano – per ridurre i danni di altre, forse più riottose a farsi irreggimentare, sebbene mai del tutto indisponibili. Questa operazione di cernita e di controllo è sempre in agguato.

Immaginandosi immune da questo arruolamento Abbagnano scrive: «L’altra alternativa che il tempo presenta all’uomo, cioè il riconoscimento e l’accettazione della temporalità dell’esistenza, è faticosa e difficile tanto, quanto la prima è facile ed ovvia. Essa consiste in primo luogo nell’aprire gli occhi di fronte al carattere dispersivo e nullificante della temporalità come tale. Essa richiede che l’uomo si renda conto coraggiosamente, vincendo gli allettamenti, dell’illusione esistenziale, che il tempo racchiude per lui una minaccia latente che può rendere nulla e disperdere le sue migliori conquiste. Essa richiede cioè un atteggiamento di vigilanza incessante, la quale esclude che ci si abbandoni alla successione degli eventi e si viva in balia di tale successione. Questo preliminare riconoscimento, questa vigilanza incessante implicano che l’uomo si impegni a raccogliersi e a concentrarsi in un’unità fondamentale. Tra gli atteggiamenti che egli può assumere, uno solo è per lui l’autentico, quello in virtù del quale può realizzarsi come unità e io. Tra i rapporti che gli è possibile mantenere o instaurare tra sé e gli uomini, uno solo è quello che gli consente di vivere solidalmente con essi e quindi costituire con essi una vera comunità». (Ib., pp. 116-117). La parola portante qui è “fondamentale”. C’è sempre, come si vede, la ricerca di un fondamento, un buono, antico, costoso, distinto fondamento di garanzia. E deve essere adatto a proteggere quello che si è ottenuto con la possibilità scelta autenticamente. Ma questo discorso è, ancora una volta, contraddittorio. Recupera in malo modo quello che incomincia ad affermare, e lo recupera con il solito movimento dialettico. La stranezza di questo comportamento sta nel fatto che Abbagnano è seriamente convinto, una volta fissato il rapporto con l’essere, di poterlo fondare e garantire. Nell’armadio profondo delle lacerazioni logiche ci sono arnesi di vario tipo, uno più oscuro dell’altro, Abbagnano è il satrapo del loro impiego. Difatti afferma: «Tra le situazioni nelle quali egli viene a trovarsi o può venire a trovarsi nel mondo, una sola è quella che gli consente di riconoscere e valutare l’ordine e la realtà del mondo. Se egli ha deciso veramente di raccogliersi nell’unità della propria struttura esistenziale (cioè ha deciso di decidere, perché la sua decisione non può avere che questo significato), il tempo non gli appare più come successione di termini sostituibili o sostituiti, ma come la possibilità di trascendere la minaccia in esso implicita e di raccogliere, conservare e garantire l’unità essenziale che esso tende a disperdere». (Ib., p. 117). Salva così il passato nella storia e il futuro nel compito imposto dal fare. Il suo barcamenarsi mira quindi a un fondamento sicuro. Non è un filosofo dell’incertezza ma dall’incertezza è un filosofo che muove verso la certezza. Il suo scopo è recuperare l’eversione sempre possibile verso la qualità, da lui considerata il regno del niente, essendo che, con ogni verosimiglianza, è convinto che l’essere e l’apparire coincidono totalmente nel fare, nel mondo del fare. I suoi passaggi obbligati alla problematicità denunciano un sottofondo povero e titubante, non degli arcana imperii come avevo un tempo sospettato. Nel regno del recupero c’è sempre qualcosa di molto maligno, la contropartita denuncia tutta la miseria dell’accordo.

La negazione della successione temporale avrebbe dovuto comportare un conflitto irrisolvibile col fare, che è successione di oggetti prodotti. Difatti Abbagnano giustamente nota: «La successione non implica nessuna continuità fondamentale, nessuna interna saldatura nella costituzione dell’uomo perché è semplicemente sostituzione: e la sostituzione esige la sostituibilità, cioè l’equivalenza di valore dei termini che, succedendosi, si sostituiscono». (Ib., p. 119). E qui si sarebbe dovuta aprire la strada alla qualità. Ma l’aspirazione a una coscienza diversa è venuta meno, il filosofo funge da manutengolo, lavora nel retrobottega, non ha nemmeno il coraggio del proprio fare collaborativo. Lancia il sasso e ritira la mano. Si accontenta di un tozzo di pane gettatogli dal potere che si alimenta pienamente e senza infingimenti al fare coatto. Pur non tirando fuori i paramenti templari, il filosofo combatte la sua crociata in difesa del diritto al massacro, non lui personalmente, questo no, ma per interposta persona. Ecco quindi l’affermazione problematica e la correlativa erranza, la disperazione dello smarrimento – solo immaginato – e la subita reintegrazione nel massiccio complesso amministrato del fare. Eccolo precipitare: «Soltanto trascendendo la successione, cioè accettando e realizzando la temporalità come possibilità della perdita, l’uomo si limita e si definisce, muovendo alla ricerca di ciò che egli è stato e impegnandosi alla fedeltà verso il passato. Quest’atto di fedeltà, costitutivo del presente autentico, è l’unità della persona ed è l’atto per il quale veramente la persona acquista la sua dignità propria e il suo valore insostituibile. Personalità significa infatti insostituibilità e non è possibile la realizzazione della personalità in un processo del quale la sostituibilità sia la legge». (Ibidem). Minuscoli cimeli di acconsentimento, parola portante, “insostituibilità”. Vuota di senso ma ricca di devozione dialettica. Adesso il filosofo è custode dell’ortodossia di recupero, fedeltà e valore sono le antiche parole della garanzia. L’essenza della qualità, mai così palpabile, accentua il bisogno di sicurezza, di spazio inviolabile dove muoversi, di tecniche recuperative in grado di tenere lontano i nemici, i suggeritori di una esistente incompletezza generatrice di inquietudine.

Ma Abbagnano sente il bisogno di ribadire la vaga “insostituibilità” con la più concreta “storicità”. La negazione della successione temporale è quindi elevata a potenza. Eccolo: «Nella non-accettazione della temporalità, che è implicita nella successione, l’uomo è schiavo della successione stessa e della vicenda di sostituzioni nella quale essa si esprime. Egli non è libero di conservarsi, di garantirsi, di consolidarsi nei suoi acquisti essenziali, perché la successione lo incalza e gli strappa di mano, senza che egli se ne accorga, ciò che egli crede di tenere saldamente. Nella storicità invece il rischio della perdita è chiaramente accettato; ma la fedeltà decisa toglie a questo rischio la minaccia della dispersione e lo riduce a una alternativa fondamentale di riuscita o di insuccesso. In tal caso l’uomo è libero perché si appartiene e perché realizza le condizioni che lo rendono disponibile per il suo compito.

«L’avvenire si configura per lui come un venire all’essere dell’unità e del dover essere. L’unità del suo io, del mondo e della comunità, gli si rivela, nell’atto della libertà, come il termine effettivo della sua trascendenza e lo costituisce in un rapporto fondato con se medesimo. Le sue possibilità rimangono ancora possibilità, implicanti la possibilità e il rischio della perdita; ma, essendosi raccolte e fondate sulla possibilità trascendentale, si sono garantite contro le vicende della successione e si sono rese dipendenti dalla forza e dalla decisione dell’impegno esistenziale». (Ib., pp. 120-121). Le parole portanti sono tutte riunite qui. Alcune le conosciamo, altre risuonano dei vecchi contenuti, ad esempio, “conservare”, “garantirsi”, “consolidare”. Il tema è sempre lo stesso. Affermazione solenne, massiccia, sicura di sé, portatrice di una gravitas che azzera ogni residuo problematico. L’aria che si va sempre di più respirando nell’esistenzialismo positivo è densa e ripetitiva, ed è ereditata dalle innumeri generazioni di filosofi che si sono ingegnati a produrla. C’è ora qualcosa di occhiuto in questi movimenti dialettici di ricomposizione che dà un senso di panico, si vede la preoccupazione di tenere separato l’eventuale sbocco critico della problematicità, sbocco che poteva solo condurre a una rimessa in discussione del meccanismo accumulativo del fare. Il sacrosanto meccanismo produttivo deve essere tenuto lontano dal caos, dall’informe e pericolosa avventura della qualità, da ogni smania di completamento.

Eppure, malgrado l’evidente riferimento ontologico, Abbagnano scrive: «Se la garanzia, che la storicità implica, in favore dell’essere e dell’uomo viene interpretata ontologicamente e fissata in un termine obiettivo estraneo all’impegno esistenziale dell’uomo, l’uomo si trova di fronte all’eternità. L’eternità è la semplice negazione generica della successione temporale. Essa è l’essere considerato oggettivamente nella sua permanenza e quindi contrapposto all’instabilità dell’esistenza che si svolge secondo la successione temporale. Come tale, essa rimane estranea all’esistenza e per tale estraneità può incoraggiare l’uomo ad abbandonarsi alla successione temporale, distraendolo dalla trascendenza». (Ib., p. 121). Di colpo si ritorna indietro. Può sembrare una questione di dettaglio, ma è importante. Abbagnano vuole chiudere la porta a doppia mandata, vuole evitare che il più piccolo granello di sabbia possa danneggiare l’ingranaggio. Sa che il tempo è una brutta bestia in filosofia, e sa anche che la sua pretesa terza via non esiste. Quello che persegue è la difesa della sua funzione riguardo all’interpretazione del tempo e non si rende conto che questa difesa contrasta con l’essenza stessa del fare. Pertanto le condizioni critiche di ogni considerazione sono, da un canto la negazione della parcellizzazione, dall’altro l’accettazione della sicurezza nel fondamento trascendentale. Ma il fare avrebbe gradito meglio la soluzione parcellizzata, più consona alla sua natura. Invece il filosofo gli fornisce l’esatto contrario, e lo fornisce sistematicamente. Ma che importa? Quello che conta non è che cosa fornisce ma come lo fornisce. E siccome lo fornisce come oggetto, ogni cosa torna al suo posto. La funzione è in fondo quello che il filosofo vuole difendere, tutto converge a questo fine. Ecco perché può concludere: «In questo senso la storicità è il fondamento trascendentale del tempo; ma è un fondamento che non è ma dev’essere, e il cui essere si identifica con quello dell’esistenza autentica dell’uomo». (Ib., p. 123). Tutto è al servizio del “dover essere”, ecco che cosa va tutelato. I vari massacratori sono coloro che tutelano il meccanismo del massacro. Come tutti i metafisici Abbagnano pensa che il luogo del bene sia nel fare. Con ciò non riesce a collocare il luogo del male nell’agire. Se parla di peccato gli accade di fare confusione e di lasciare intendere un possibile luogo della qualità da cui fuggire al più presto, ma è una falsa deduzione di critici malevoli. Per lui bene e male convivono nel fare e qui muoiono insieme. La qualità non è presente. Non importa. Il filosofo fa vedere in movimento la sua apparenza sotto specie quantitativa e la sua abilità dialettica la rende non riconoscibile sotto la forma bruta dell’oggetto.

L’uomo e la scienza

Sostenendo una collaborazione tra scienza e filosofia, Abbagnano si chiede da quale lato deve pendere il suo risultato, dal lato della scienza o da quello della filosofia? Gnoseologia o epistemologia? Egli scrive: «La scienza si presenta come il grado eminente e tipico della conoscenza: può dunque essere assunta come rivelativa del fondamento della conoscenza come tale. Incarnando essa la validità massima che la conoscenza può conseguire, consente, meglio di ogni altra manifestazione di questa, di enucleare e riconoscere la costituzione intrinseca della conoscenza e il suo fondamento esistenziale. La scienza è la conoscenza vera; la condizione della verità può e deve essere ricavata propria dalla considerazione della scienza. Un’indagine di questo genere si può chiamare gnoseologica». (Filosofia, Religione, Scienza, op. cit., p. 129). Affermazione scientista almeno, discutibile e datata. Salvo che Abbagnano non voglia riservarsi una conoscenza più elevata per la filosofia. Ma questa dovrebbe andare verso la qualità, indirizzo escluso in partenza. Vediamo. Qui sembra più che altro una sorta di sacralizzazione dell’oggettualità scientifica, contrapposta alla problematicità filosofica. Una specie di luogo della certezza, al di sopra di ogni cosa in quanto tale, senza spiegazioni. È questo il neoilluminismo? E i benefici e i malefici che tutti riceviamo dalla scienza? Il concetto stesso di collaborazione, figlio degli anni Cinquanta, oggi non posso condividerlo. Riguardo all’aspetto epistemologico Abbagnano scrive: «Evidentemente questa ricerca epistemologica, se può e deve condurre a determinare il carattere della scienza in quanto tale e l’orientamento che è proprio e costitutivo di essa, deve fermarsi là dove comincia la vera e propria indagine scientifica, limitandosi a prospettarne l’orientamento generale. L’indagine epistemologica non è un sostituto dell’indagine scientifica; è la chiarezza intorno alla sua natura e alle sue modalità fondamentali, chiarezza raggiunta mediante la considerazione della sua possibilità ultima e quindi della sua validità». (Ib., p. 130). Ma in che cosa consiste questa indagine che la filosofia elabora per la scienza? Oggi è molto più chiara la risposta, ma non come si potrebbe desiderare. In che modo la scienza potrebbe fissare da sé la propria ortodossia metodologica? Oggi sono disponibili molte risposte. Abbagnano non le aveva a portata di mano o le ignorava. In ogni caso, per lui, affidare alla filosofia il compito di custode dell’ortodossia gli andava benissimo. Non si tratta di una questione di prevalenza sulle scelte di metodo ma solo di una questione di bottega. Come a suo tempo Hegel, anche Abbagnano qui finisce per parlare per sentito dire di cose che conosce di seconda mano e male. Qui è in atto una morbosa difesa delle posizioni esistenzialiste e positive in un terreno che per sua natura risulta essere molto friabile. La scienza, all’origine misura e ordine, era ormai, anche all’epoca, tutt’altro che misurata e ordinata, faceva ressa attorno a concetti nuovi, la teoria dell’indeterminazione in primo luogo. Abbagnano vuole un ritorno all’ordine per la madre – secondo lui – di tutte le conoscenze, che i disordinati si mettano in riga, che le ipotesi si reggano dentro paradigmi decenti e accettabili, in modo che le tante richieste dell’uomo possano essere soddisfatte e garantite. L’illuminismo era una cosa, il neo-illuminismo un’altra, ben diversa.

Abbagnano così pone il problema dell’indagine epistemologica: «Non c’è dubbio che la scienza deve assicurare all’uomo il dominio sulla natura e deve apprestargli gli strumenti indispensabili per la sua realizzazione nel mondo. Per lo stato di indigenza che è proprio della condizione umana, il rapporto dell’uomo col mondo è definito dal bisogno. L’uomo non basta a se stesso: ha bisogno delle cose del mondo per farsene strumenti e mezzi, non solo per vivere, ma per la sua stessa realizzazione propriamente umana o spirituale. E, quanto più la sua vita si arricchisce e si solleva al di sopra del piano puramente biologico, quanto più la sua realizzazione diventa schiettamente umana o spirituale, tanto più si moltiplicano i suoi vincoli di dipendenza dal mondo perché tanto maggiore diventa il contributo di strumenti e di mezzi che la natura deve fornirle. Ora l’uomo non ha altro modo di procurarsi i mezzi e gli strumenti indispensabili alla sua realizzazione che la scienza». (Ib., p. 131). Qui la parola portante è “asservimento”. La natura deve essere assoggettata. Gli ultimi cinquant’anni hanno mostrato fino alla melma quello che queste parole significano. La miseria e l’estensione dello sfruttamento si sono allargate a dismisura. L’uomo è una creatura maligna, incapace di frenare questo processo. Il meccanismo del fare si è rafforzato senza arrestarsi mai e la scienza è disponibile a riformare la caverna dei massacri anche quando lavora – almeno in superficie – per migliorare la vita umana. Abbagnano ricaccia indietro tutte le obiezioni, anche quelle di libera circolazione ai suoi tempi, non si preoccupa molto dell’uso dissennato delle risorse. Quello che teme è che la scienza non venga assediata dalla richiesta di impieghi utilitaristi e salvi la sua anima teorica. Così afferma: «Limitare la ricerca scientifica ai compiti che appaiono di utilità evidente o mediata significherebbe precludere tutte quelle vie le quali, pur non conducendo a prima vista a risultati di utilità evidente, potrebbero rivelarsi infine molto più feconde di tali risultati. La scienza non può giungere a risultati praticamente utilizzabili se non attraverso la via della scoperta teorica; e però sembra che l’unico modo di conseguire quei risultati sia quello di spingere a fondo per quanto è possibile, in tutte le direzioni, la ricerca pura». (Ib., p. 132). Il che è una banalità filosofica, infatti la teoria e l’applicazione tecnologica sono sempre la scienza nel suo modificare la produzione fattiva coatta. Non c’è modo di salvare la scienza, da un lato, e il fare, dall’altro, sono due facce della stessa medaglia, anzi sono la stessa cosa. Abbagnano non si rende conto che una teoria scientifica – o filosofica – è un oggetto che oggi si vende nei supermercati. La scienza si fonda sull’oggetto. Il resto è riconducibile al fare coatto senza residui. E se la proposta di nuovi problemi inaccessibili all’analisi quantitativa potrebbe profilarsi all’orizzonte come un nuovo pericolo, bisogna bloccarla. Le idee pericolose devono essere rigettate lontano, dove non possono danneggiare gli ordinati meccanismi della ricerca scientifica, così essenziali alla produzione.

L’oggetto regge il mondo e la sua legge fondamentale, l’ordinabilità. Abbagnano scrive: «Ma l’oggetto della scienza ha come suo carattere fondamentale e predominante l’ordinabilità. Il passaggio dalla conoscenza comune, che non include una sufficiente garanzia della propria validità, alla conoscenza scientifica, che include tale garanzia, è determinato dall’introduzione di rigorosi metodi di ordinamento sistematico. L’ordine è nella scienza controllo della realtà dell’oggetto ed è perciò la garanzia intrinseca, che essa possiede, del proprio valore di verità. Dove non è possibile l’impiego di un esatto metodo di ordinamento, la scienza si limita a descrivere secondo il procedimento della conoscenza comune, ma non raggiunge la costituzione sistematica e quindi il valore di autentica scienza; e corrispondentemente il suo oggetto non raggiunge il suo valore di autentica oggettività, cioè di realtà rigorosamente controllabile. La possibilità che la scienza si organizzi veramente a sistema di conoscenza, vertente su una realtà oggettiva, è dunque la stessa possibilità dell’ordine sistematico». (Ib., p. 133). Questa frase è un monumento archeologico che mostra come nessuna altra tutti i segni del tempo. Fare l’elenco delle parole portanti è impossibile. È il quadro perfetto di una scienza del dominio che, per mantenere il proprio potere, ha dovuto profondamente modificarsi. Molti aspetti della ricerca scientifica si sono oggi affinati e sfuggono alla semplice catalogazione della misura, anche se restano prigionieri sempre dell’ipotesi oggettuale e fattiva. L’eccentricità di certe teorie non si sposta dal quantitativo, ma questo Abbagnano non l’avrebbe notato nemmeno oggi, i suoi interessi erano altrove.

Qui si colloca il salto dialettico, il disperato tentativo metafisico di ricondurre la problematicità nel segno della ordinabilità scientifica. Il problema poteva essere insolubile perché proprio quel tipo di impenetrabilità corporea ordinativa è quello che serve al fare coatto, quindi non c’era nemmeno bisogno di tanta fatica. Ma Abbagnano vuole arrivarci diversamente. C’è qualcosa che urge nel suo sforzo metafisico, salvare il suo esistenzialismo positivo, e ciò avviene facendo sparire l’ordine e facendolo riapparire immutato ma sotto un’altra apparenza. Di essere diverso nemmeno a parlarne.

Seguendo il ritmo dialettico l’oggetto della scienza deve dapprima diventare estraneo all’uomo e poi tornare sotto diversa apparenza, come abbiamo detto. Egli scrive: «Ora un mondo ridotto a puro sistema di determinazioni spazio-temporali appare totalmente estraneo alle esigenze e ai bisogni dell’uomo. È un mondo che non implica più alcun riferimento immediato alla costituzione dell’uomo come tale, che si è completamente disumanizzato e si è ridotto alla più rigorosa e pura oggettività. E tuttavia proprio un mondo così fatto, proprio un mondo rivelatosi nella sua costituzione totalmente estraneo all’uomo e ai suoi bisogni, deve includere in sé la garanzia di venire incontro a tali bisogni e di prestarsi alla realizzazione dell’uomo come tale. Qui è l’aspetto paradossale del problema. Finché il mondo è apparso all’uomo dotato di una costituzione a lui affine, finché gli è apparso permeato e tessuto di elementi antropomorfici e interamente subordinato ai fini umani, finché la scienza non si è impadronita di esso per svelarne l’oggettività spazio-temporale, esso si è prestato assai meno a venire incontro ai bisogni dell’uomo e a fornire gli strumenti adatti della sua realizzazione. Ma appena la scienza ne ha messo in luce l’oggettività spazio-temporale e a misura che essa procede a ridurlo sempre più rigorosamente a tale oggettività, sottraendolo ad ogni diretto o indiretto riferimento all’uomo, esso comincia a prestarsi e si presta sempre meglio ad essere utilizzato. Qual è la soluzione di questo paradosso?». (Ib., pp. 136-137). Ma dov’è il paradosso? Non esiste. Ormai conosciamo bene la risposta. Il problema viene posto in modo da essere costantemente irritato al massimo nelle sue componenti e poi recuperato. Nessuna inquietudine è tollerata, nessuna critica all’oggettualità può essere pensata. Tutto deve corrispondere perfettamente alle premesse. La filosofia di Abbagnano non sopravvive al suo metodo metaforico, è tutta qui, in questi spettacolari, e nello stesso tempo risibili, salti di gallina. Una volta avviato egli deve portare a completamento il proprio lavoro di cesello. Per cui conclude: «La chiave della soluzione è nell’atteggiamento dell’uomo. Per scoprire l’autentica oggettività del mondo l’uomo non deve pensare il mondo come una parte di sé, ma deve sentire se stesso come parte del mondo». (Ib., p. 137). Ancora una volta è la scelta di radicarsi nel mondo che risolve fittiziamente il problema. Ma sappiamo come questa scelta sia più un’esortazione a scegliere che una scelta vera e propria. L’appello alla volontà ricorda sempre quella terribile rete del fare. Non a caso qui il termine portante è “radicato”, il che corrisponde al fondamento di cui Abbagnano va in cerca nella sua metafisica. La vita è questo continuo tentativo di stabilizzazione, tentativo persistentemente frustrato dall’incompletezza oggettuale. Non ci si può distaccare dal meccanismo. Se non si spezza questa catena fattiva – cosa che la scienza come misura non può fare – non si vive che nell’apparenza. Qui c’è un ostacolo tanto grande che Abbagnano non può aggirarlo con le sue solite tecniche dialettiche. Deve per prima cosa prenderne atto. Non se la sente di insistere su un rapporto utilitaristico di causa ed effetto tra scienza e uomo. Per cui prende la cosa alla larga. Così scrive: «La ricerca scientifica ha la sua meta o il suo termine in se stessa. Prendendo origine dal riconoscimento e dall’accettazione dell’oggettività del mondo essa muove verso le determinazioni ordinabili di tale oggettività. Nessuna preoccupazione utilitaria può entrare nella ricerca senza limitarne la portata o deviarla dal procedimento che le è proprio. Essa non può proporsi scopi utilitari; tuttavia non può non conseguirne. Riducendo il mondo alla pura oggettività ordinabile, lo riduce alla pura strumentalità. L’oggettività ordinabile non è altro che il piano dell’utilizzazione possibile delle cose del mondo». (Ib., p. 140). Qualcosa si è agglutinato attorno al concetto ideale di purezza della ricerca. Gli anni Cinquanta sono quelli del dopoguerra e Abbagnano aveva visto la scienza all’opera nell’apparato bellico dei massacri sui vari fronti, senza distinzione di chi fosse nel torto o nella ragione. Ma questa esperienza, traumatica per tutti, per lui si traduce in un tentativo di recupero con un piccolo salterello casalingo. C’è in questa puerilità qualcosa di oscuro e di incessante, l’avevo avvertito a suo tempo e lo avverto adesso. Egli afferma: «L’equivoco del preteso carattere utilitario della scienza nasce dal trasferire surrettiziamente alla scienza il carattere di strumentalità proprio del suo oggetto. L’essere, la realtà di questo oggetto è la sua utilizzabilità; ma la scienza è l’accertamento disinteressato e puro di quella realtà». (Ib., p. 141). Incessante ritorno sulle medesime tracce di prima. Abbagnano non perde un colpo, non lascia nemmeno uno spiraglio. Una delle caratteristiche della metafisica è l’inflessibilità. Non deflettere dà il senso di una compiutezza che è fantasma a se stessa prima di entrare nell’armamentario apparente del fare. Lo sforzo intellettuale non posso valutarlo, all’epoca mi sembrava considerevole, anche come esercizio logico, oggi mi pare una sorta di passeggiata scolastica e un brivido mi corre lungo la schiena. Non sono – come credevo – davanti a un lavoro di precisione, sia pure discutibile, ma a qualcosa di abborracciato, fatto per esercitare il mestiere, senza impegno e senza talento. Dietro, l’ossessività ripetitiva oggettuale, perseverante, implacabile. Niente deve spostarsi dalla linea di condotta generale. Dalla problematicità alla trascendenza e da questa al fondamento stabile di un possesso. Per cui la conclusione presenta il solito capovolgimento da saltimbanco. «La scienza non ha bisogno di proporsi alcun fine pragmatico né ha necessità di restringersi alla ricerca di risultati di evidente e diretta utilizzabilità. L’ordine spazio-temporale delle cose nel mondo che essa tende a determinare è già di per se stesso l’ordine strumentale e il progetto della utilizzabilità delle cose. La caratteristica fondamentale della scienza è proprio qui; che essa non può essere utile all’uomo se non a patto di prescindere dall’utilità e di costituirsi come ricerca disinteressata dell’oggettività naturale». (Ib., p. 142). Parola portante è “ordine”. Ogni deviazione è inconcepibile. Ma la scienza è altra cosa, non può essere ridotta a serbatoio di strumenti utilizzabili per il fare. Questo è ciò che accade nell’attività dei colloqui e degli interrogatori didattici e polizieschi, la sua forza conoscitiva sta altrove e può fornire strumenti per spezzare l’accerchiamento del fare. Il problema non è nel contrasto tra pura teoreticità e utilizzo per l’uomo – sempre, o quasi, indirizzato alla caverna dei massacri – ma è nel contenuto conoscitivo. La mia antica polemica mi rimbomba ancora nelle orecchie. Il mio schema era infantile ed egocentrico, ma quale era l’alternativa? Questo gioco di bussolotti, gioco ordinativo e schematico, stucchevole e funzionale all’indirizzo comune di ogni teoria filosofica? Un velo di dubbio cala così su tutta la consistenza teorica dell’esistenzialismo positivo di Abbagnano che sta dietro l’esistenza problematica messa in risalto? Potrei rispondere, l’apparenza del fare. E tutte le preoccupazioni per saldare i circoli e i salti dialettici? Tecniche obsolete per restare alla larga dagli scogli del niente, sempre affioranti nel caotico mare dell’essere.

Sorvolo sul problema della matematica e della logica che, nella trattazione di Abbagnano, non ha nessuna rilevanza. Si tratta di una serie di affermazioni superate e codine che direbbero poco all’attenzione critica del lettore di oggi. Alla fine è però bene leggere la conclusione del rapporto scienza-filosofia. Eccola: «La verità della filosofia non è la verità della scienza, l’universalità della filosofia non è l’universalità della scienza; e reciprocamente. La verità della scienza è determinata dalla realtà dell’oggetto, la verità della filosofia è determinata dalla autenticità dell’impegno. L’universalità della scienza consiste nell’accordo puro e semplice sui concetti e sui metodi e nella controllabilità dei risultati: l’universalità della filosofia consiste nella sua capacità di aiutare l’uomo a comprendersi nel suo vero rapporto con se stesso, con gli altri e col mondo. Nella ricerca dell’oggettività della natura, lo scienziato si pone come pura soggettività universale che si avvale di metodi e di procedimenti comuni a tutti; nella ricerca filosofica l’uomo si pone come individualità singola che deve trovare da sé la via per consolidarsi e fondarsi nella totalità dei suoi concreti rapporti. Su nessun punto, perciò, scienza e filosofia possono scontrarsi come rivali. Ma la filosofia non può ignorare la scienza che realizza l’autentico atteggiamento dell’uomo di fronte al mondo; e la scienza non può ignorare la filosofia dalla quale solo può attingere la consapevolezza della sua essenziale umanità e la chiarezza intorno ai suoi orientamenti fondamentali». (Ib., pp. 154-155). Queste contrapposizioni vivono ormai solo in questa stanca pagina, messa qui per dimostrare la pochezza del metafisico quando si occupa di cose che dovrebbe lasciare da parte. Tutta la tirata sulle reciproche incombenze è un’affannosa e inefficace sequenza di sforzi per provare la differenza di metodo tra scienza e filosofia, principalmente però ha lo scopo di assegnare alla filosofia il bastone del comando, se non altro nella ricerca del fondamento.

Si potrebbe concludere che i molti tentativi di Abbagnano di dare spazio positivo al problema dell’esistenza, almeno per quel che riguarda la scienza e la sua potenzialità utilizzabile, sono falliti. Non è vero. Il metodo filosofico non si prospetta mai chiarezze che possano dimostra la propria vuotezza. C’è sempre in esso una riserva di espedienti che salvano apparentemente i risultati, sia pure con un riottoso atteggiamento di difesa. Ma, dopotutto, questi pretesi risultati non erano forse diretti all’apparenza produttiva del fare? Quindi sono alla fine perfettamente correlati alle aspettative del filosofo e del meccanismo coatto stesso. Non ci sono contrasti né delusioni, tutto fluisce lento e pacifico come in un romanzo a lieto fine. La filosofia ha spesso analisi banali e irrilevanti, mai comportamenti teorici irresponsabili o irrispettosi nei riguardi del proprio compito di alimentatrice della caverna dei massacri. Essa sa sempre quello che dice, anche quando sembra andare avanti a braccio, inventandosi ingegnose giravolte o improbabili capovolgimenti.

Il problema filosofico della scienza

Dopo un’analisi delle differenze tra la scienza classica e quella contemporanea, qui poco interessanti, Abbagnano si chiede qual è il rapporto tra l’uomo e questi sviluppi scientifici più recenti. «Sotto un certo aspetto, nessuna parte o elemento dell’uomo si sottrae all’indagine della scienza. Ma sotto un altro aspetto, tutto l’uomo si sottrae a questa indagine: in quanto è egli stesso il problema di questa indagine. Nessun limite è possibile fissare alla scienza nell’estensione dei suoi mezzi di indagine e di misura all’uomo: tutti i problemi della scienza concernono l’uomo come qualsiasi altra cosa od oggetto. Ma essi hanno con l’uomo un altro modo di concernenza, assai più intimo e stretto di quello che hanno con uno qualsiasi dei loro oggetti possibili: perché sono l’uomo. Questo modo di concernenza è particolarmente evidente nello stesso scienziato, il quale vive dei suoi problemi a tal punto da farne l’interesse fondamentale della sua vita, il successo o l’insuccesso di essa. Ma esso può rivelarsi ugualmente in tutti gli uomini. Noi possiamo indicarlo col nome di soggettività: ma solo a patto che non s’intenda per soggettività un modo d’essere misterioso o comunque caratterizzato indipendentemente dalle osservazioni che precedono, ma s’intenda con essa solo che l’uomo è il problema dei problemi che lo concernono». (Filosofia, Religione, Scienza, op. cit., pp. 167-168). La buona disposizione di partenza – dovuta in parte alla teoria dell’indeterminazione ben conosciuta da Abbagnano – qui è sprecata in una involuzione dialettica. Quest’ultima riguarda il rapporto tra problematicità e modo scientifico di considerare la conoscenza, compreso l’uomo. Questa ipotesi è temibile perché azzera qualsiasi possibilità critica riguardo all’oggetto prodotto dal fare. Non si tratta di una schermaglia filosofica ma di un problema concreto che esploderà nella domanda, che cosa è il mondo? Ci sono certo degli elementi secondari, derisoriamente marginali, equivalenti più o meno, visti con l’ottica odierna, a una tortuosa conversazione da salotto, ma le conseguenze sono lo stesso micidiali. La scienza condiziona l’uomo e lo lega più strettamente al corso del fare coatto, nello stesso tempo però gli fornisce strumenti – oggetti anch’essi – che possono essere usati per turbare la tranquillità produttiva. Heisenberg e Gödel sono due fisici costruttori di strumenti pericolosi di questo genere. Abbagnano lo sa e cerca di recuperare. Non può evidentemente entrare nei punti nevralgici delle loro tesi limitative dei poteri di previsione e controllo, ma afferma che l’indagine scientifica deve includere l’uomo in quanto l’uomo “è il problema di questa indagine”. Banalità metafisica che poteva esserci risparmiata. Questa affermazione personalizza un problema che non aveva bisogno di essere problematizzato in questo modo. Il sogno di Hilbert di una matematica senza lacune è tramontato per sempre. Non si ricerca più l’assiomatizzazione della scienza, senza per questo fare mancare il proprio contributo alla caverna dei massacri. Solo che il fare coatto è un meccanismo molto duttile, ed è capace di adattarsi velocemente alla modificazione dei contributi. Abbagnano però non si accontenta. Teme che questi cambiamenti – descritti nelle pagine che ho evitato di esaminare perché presuppongo riguardanti argomenti a conoscenza di tutti – possano avere influssi pericolosi sulla quantificazione del mondo. La punizione, in questo caso, sarebbe un proliferare di coscienze diverse e di esperienze qualitative non facilmente recuperabili. Insomma una possibilità che accada quello che non è mai accaduto. Ecco, alla fine, il motivo per cui Abbagnano considera la scienza come la sola conoscenza autentica.

Ed ecco la risposta alla domanda precedente, che cosa è il mondo? «Se chiamiamo mondo quel modo di concernenza dei problemi scientifici per il quale l’uomo è uno dei termini dei problemi stessi, possiamo dire che l’uomo è nel mondo. Questa espressione significa che l’uomo è o può essere oggetto di qualsiasi tipo o forma di indagine scientifica. Ma significa anche che l’uomo si riconosce come parte o elemento di una totalità che lo ricomprende. Poiché questa totalità è essenzialmente caratterizzata dal fatto che l’uomo è sua parte o elemento, cioè da quel modo di concernenza per cui l’uomo è oggetto possibile di una indagine scientifica, si può chiamare mondo questa stessa totalità. Il mondo è allora la totalità di cui l’uomo fa parte». (Ib., p. 169). Il termine portante è qui “totalità”. Una cattiva totalità, perché ottenuta solo attraverso il fare coatto, un oggetto parziale e dimidiato, da cui è lontana la qualità. Ridurre questa totalità a porzioni ed assegnare lo studio alle singole specialità scientifiche – non a caso sono scelte come esempi la fisica e la psicologia – è mortificante. Abbagnano non vuole che questa condizione incerta della scienza travalichi nella filosofia, dove distruggerebbe il metodo dialettico, ma vuole che la filosofia possa continuare a controllare da sé i propri problemi, ponendoli in modo da garantire una risposta accomodante e sicura. Pensate a cosa potrebbe accadere nel caso di una estensione del teorema di Gödel al meccanismo dialettico. Pensate a cosa è accaduto – col mio piccolo contributo – con l’estensione del teorema di Heisenberg alla filosofia e alla logica. Per Abbagnano la formula, “tutta la conoscenza alla scienza”, mira a consegnare alla filosofia il monopolio di una conoscenza diversa. Ma in cosa consisterebbe questa diversità? Non certo in una ricerca della qualità. Il gioco eterno delle parole continua all’infinito. Vedremo a suo tempo. Per il momento è importante sottolineare che questa assegnazione di competenze è una limitazione non un allargamento. Implicitamente essa significa anche che la conoscenza – scientifica, a questo punto, andrebbe messa tra parentesi – non è l’obiettivo dell’uomo ma che questo obiettivo rimane la vita. Bella scoperta. Comunque fatta senza conseguenze per l’integrità del meccanismo produttivo. Qui si tratta solo di vita apparente e di conoscenza che giace nell’accumulo e da qui tristemente si incanala – con la supervisione metodologica della filosofia, questa sì – verso la caverna dei massacri. Ecco il santuario che Abbagnano vuole garantire da indebite intromissioni, in particolare lo vuole interdire alle rammemorazioni della qualità che incoscienti e coraggiosi pellegrini dell’ignoto possono fare pervenire sul grembo fecondo del fare, dove potrebbero trovare una sconvolgente risonanza. La monotonia di certe conclusioni di Abbagnano sta tutta qua, è il crociato della lucente armatura che combatte gli infedeli in nome di una apparenza che vuole a tutti i costi spacciare come l’essere.

Ed ecco come muove il suo immarcescibile meccanismo: «Per un uomo che si rifiutasse di riconoscersi nel mondo come parte di esso, non ci sarebbe certo conoscenza o scienza; ma non ci sarebbe neppure altra forma di sapere, di attività o di ricerca. Ogni sapere, attività o ricerca nasce infatti dal dubbio, dall’inquietudine, dall’incertezza, dall’indecisione: tutti nomi che esprimono una sola realtà fondamentale, che è il problema. L’uomo vive essenzialmente come problema, il problema è il suo modo d’essere fondamentale, la sua esistenza specifica: egli è continuamente problema a se stesso. A questa sua problematicità originaria non sfugge nessuna sua manifestazione: né la religione che è il problema della salvezza, né l’arte, né alcuna altra qualsiasi delle sue attività specifiche. Ma un problema, appena riconosciuto e formulato dall’uomo, include immediatamente l’uomo come uno dei suoi termini: lo include nel mondo». (Ib., p. 173). Ecco la “problematicità originaria”, concetto portante di questa pagina. Obbligo di accettare il mondo, in caso contrario, rifiuto di se stesso da parte dell’uomo. Ecco accennata la vera conoscenza, eccola fare ostacolo all’altra, quella scientifica, che pure era stata considerata l’unica possibile. Ma queste sono contraddizioni marginali. I fantasmi della metafisica si affacciano alla luce del sole. Chi aveva detto che appartenevano ai sogni? Un avvocato. Siamo davanti ad una grande manifestazione di perizia riguardo la sopravvivenza. I demoni della parzialità oggettuale sono sempre al lavoro. Sostengono la puerilità limitata del fare e lo portano alle soglie dell’illusione di completezza. Ma l’oggetto prodotto non riesce a uscire dalla propria dimensione fittizia di fantoccio. È la sua apparenza che regge il mondo ed è lui che fa infervorare i sostenitori del meccanismo. Sono fantasticherie che danno un ottimo frutto non solo come accumulo di conoscenza ma anche come possibilità di sfruttamento. Niente può bloccare per sempre questo meccanismo se non la sua distruzione totale e la costruzione di un mondo nuovo. Sconfiggere in modo parziale i demoni dell’oggettualità non è possibile, sono essi stessi la parzialità e sono proprio loro a dettare i termini dello scontro a loro favore. Per i filosofi – fare l’elenco di quelli dotati di una coscienza diversa mette vergogna – l’oltrepassamento verso la qualità è andare in braccio al diavolo. Anzi, riducendo il problema all’osso, per loro ogni critica della conoscenza che mette in dubbio i fondamenti del fare, è un imperversare foriero di cattive conclusioni.

Ma Abbagnano rincara la dose. «Queste considerazioni gettano luce su un altro aspetto del carattere umano della scienza. La scienza è, come si è detto, conoscenza disinteressata, giacché l’uomo non ha in essa diritto a nessun privilegio. Come considerazione del mondo, essa ricomprende l’uomo come uno qualsiasi degli oggetti della sua indagine. Ma al tempo stesso, la scienza serve l’uomo: contribuisce al sempre migliore e più sicuro soddisfacimento dei suoi bisogni, e può accrescerne indefinitamente il potere mediante la tecnica. Questa rispondenza nascosta tra la scienza e i bisogni dell’uomo, che la tecnica rivela in modo evidente, non è un miracolo. Essa ha la sua radice e la sua giustificazione nell’atteggiamento umano che dà luogo alla scienza, nell’atteggiamento per cui l’uomo si riconosce e si radica nel mondo come parte di esso. Questo atteggiamento che subordina l’uomo al mondo e lo rende dipendente e soggetto al mondo, cioè bisognoso, è anche quello per il quale è possibile quella conoscenza disinteressata del mondo che è la scienza». (Ib., pp. 173-174). La scienza al servizio dell’uomo. Anzi – ecco il salto logico – più essa si disumanizza e più risulta umana. Più è critica e più è capace di arricchire l’uomo e i suoi possessi che da problematici si concretizzano in modo da potere essere difesi. Abbagnano pensa che questo capovolgimento sia l’inevitabile effetto del radicamento della scienza nel mondo dell’uomo, ed ha ragione. Solo non si chiede come le prospettive più folli e sanguinarie vengano proprio da questo radicamento, sempre in nome della ragione. Questa domanda avrebbe dovuto porsela, se non altro per un certo senso di responsabilità. Ma allora avrebbe cessato di godere dello statuto di filosofo e sarebbe sceso a livello di cercatore di fuoco, immagine che più di tutte – ne sono certo – gli metteva paura. Meglio il rifornimento della caverna dei massacri accompagnato a una vita di modesto interesse. L’utilità professionale viene prima della qualità, cioè prima dell’essere. Per affrontare lo scontro col fare ci vuole quell’audacia di coscienza che ad Abbagnano mancava del tutto. Ecco perché – scrostando la dialettica metafisica – la sua difesa del fare è molte volte trasandata e goffa.

Abbagnano punta anche sul carattere sperimentale della scienza per insistere sul radicamento dell’uomo nel mondo. Egli scrive: «Non c’è scienza senza osservazione. L’indirizzo critico della scienza contemporanea esclude la legittimità di qualsiasi affermazione che non formuli il risultato di un’osservazione, non già solamente eseguibile, ma effettivamente eseguita. Ora l’osservazione è l’atto dell’inserzione dell’uomo nel mondo, il suo radicarsi nel mondo, e realizzarsi come parte di esso. Per osservare una realtà fisica qualsiasi, l’uomo deve egli stesso far parte della realtà fisica e diventare strumento di osservazione. Ma penetrando in quest’atto nella realtà fisica come parte di essa, egli altera la realtà stessa. Di qui si origina la relazione d’indeterminazione caratteristica della fisica odierna». (Ib., p. 175). Ancora la parola chiave è “radicarsi” nel mondo. Purtroppo niente è detto riguardo a questo mondo se non che lo si considera come “totalità”. Ma la totalità dei fatti non è il mondo completo, è l’incompletezza che cerca senza riuscirci di completarsi. Qui è del senso comune che Abbagnano dà conto, punto attorno a cui ruota buona parte della problematica esistenzialista positiva. Della solitudine che genera la qualità o, almeno, l’inquietudine della qualità, nemmeno l’ombra. Dell’esistenza di altre esperienze, nemmeno a parlarne. Della rammemorazione che parla al destino in termini di felicità o di morte, solo silenzio. Il fare soltanto, soltanto per il fare ha parole, soltanto per il fare Abbagnano è filosofo ed ha notevoli nessi dialettici. Dell’irresistibile appello alla conoscenza come avventura qualitativa – così come lo sospettavo io – non coglieva che l’aspetto contabile di un calcolo costi-benefici. Anzi, era convinto che aprisse la strada a una sicura rovina. Eppure passava, e continuò a passare, per un filosofo problematico, per un assertore del rischio, per uno che considerava l’esistenza come esposizione a questo rischio. Niente di più errato. Questa affermazione è comprovata dalla pagina dedicata al linguaggio della scienza, la matematica. Egli scrive: «Questo fondamento ultimo della scienza giustifica anche la scelta del suo linguaggio, la matematica. Ogni linguaggio è un tipo determinato di razionalità che implica un determinato ordinamento degli elementi del mondo. Il linguaggio comune costituisce un ordinamento di questo genere o, se si vuole, un insieme di ordinamenti che delineano il progetto di utilizzazioni, di comportamenti e di reazioni immediate. Il linguaggio comune significa il più delle volte cose la cui realtà è l’immediata possibilità di utilizzazione. Il linguaggio matematico non è un determinato tipo di razionalità e non implica un ordinamento determinato dei suoi elementi. Esso è piuttosto la possibilità stessa di ogni tipo di razionalità e di ogni possibile ordinamento, e come tale reca in sé la possibilità della misura. Esprimendosi in linguaggio matematico, la scienza si libera dalle suggestioni e dalle limitazioni del linguaggio comune, diventa capace di ordinare i risultati delle sue osservazioni in ogni forma possibile e quindi nella forma più opportuna, e di poter estendere indefinitamente la possibilità della misura. Nei limiti del linguaggio comune la scienza dovrebbe necessariamente esprimere i risultati dell’osservazione in una immagine del mondo che limiterebbe ai termini di questa immagine le possibilità dell’osservazione, quindi della misura e della previsione. Nel linguaggio matematico, la scienza non incontra nessun limite nell’ordinamento dei risultati delle sue osservazioni, e quindi garantisce a se stessa la più ampia possibilità di misura e di previsione». (Ib., pp. 176-177). Questa esaltazione dell’onnipotenza matematica ha qualche risvolto discutibile per chi possiede un minimo di preparazione in merito. All’epoca non la possedevo e mi mostravo scettico ma cauto. Non avevo modo di controbattere. Adesso mi sembra di sfondare una porta aperta. Il mito dei metalinguaggi è svanito da tempo. Gli uomini hanno sempre sognato un linguaggio capace di superare gli inconvenienti della genericità e della conflittualità dei linguaggi comuni, ma questo sogno si è infranto nel silenzio delle formule. Una superstizione come un’altra. A fare abbassare la cresta metalinguistica è stata la stessa tracotanza tecnica che è andata via per la tangente, senza preoccuparsi di salvare, se non altro, il proprio ruolo ancillare. Abbagnano non persevera nel sogno – non suo, peraltro – egli si trova dapprincipio nell’errore, è tutto. Non capisce che a uccidere la funzione che la matematica assolve per il fare e per l’essenzializzazione della conoscenza è proprio il suo stesso estremismo linguistico, la sua tecnica di notazione. In fondo il fare subirebbe un gran danno dalla riduzione del linguaggio a un ruolo di semplice supporto della ricerca scientifica, ma la cosa non mi farebbe sciogliere in lacrime. Non tenere conto che la ricerca della qualità, pur essendo l’assolutamente altro, parte sempre dal fare, cioè dalla conoscenza, è uno degli ostacoli più grossi per l’oltrepassamento, oltre a rendere praticamente non intelligibile la rammemorazione.

Il ruolo che la filosofia deve coprire è quindi quello accennato prima, e qui Abbagnano lo ribadisce confermando la scienza come totalità della conoscenza. «L’affermazione che la scienza è conoscenza significa soltanto che nel suo ambito rientrano tutti i problemi possibili che concernono il mondo: intendendo per mondo la totalità di cui l’uomo fa parte allo stesso titolo degli altri oggetti considerabili. La natura della conoscenza o della scienza è perciò caratterizzata e definita unicamente dal modo di concernenza che i suoi problemi hanno con l’uomo: l’uomo rientra in questi problemi come uno dei loro termini a fianco degli altri.

«Ora ogni problema ha con l’uomo (come si è visto) un secondo modo di concernenza assai più intimo e stretto. In qualche modo l’uomo è il problema (non uno dei suoi termini); è anzi l’essenziale, insostituibile, ineliminabile problematicità del problema. La filosofia deve, se è possibile, trovare una via d’accesso a tale problematicità: una via d’accesso che deve chiarire questa problematicità in maniera da garantirne il modo d’essere specifico.

«Questa via d’accesso non è conoscenza. Un problema conoscitivo è un problema di cui l’uomo è soltanto uno dei termini senza privilegio di sorta rispetto agli altri. Ma la problematicità di un problema è l’uomo stesso, e in quanto è questa problematicità l’uomo non è un termine del problema». (Ib., pp. 178-179). Ritorno alla problematicità come essenza dell’uomo stesso. Nessun disinteresse tra filosofia e uomo, mentre questa è la regola tra scienza e uomo. Distinzione opinabile. Abbagnano parte dal presupposto che l’uomo giace in silenzio all’interno della protezione filosofica che lo coglie nel momento del rischio possibile e lo accompagna fino al fondamento possibile di se stesso. Tutto questo è privo di senso. Oppure ha senso in sovrabbondanza, un buonsenso che mette a posto gli oggetti prodotti dal fare evitando qualsiasi dispersione. Queste operazioni filosofiche – eminentemente tecniche – hanno il compito di dare l’apparenza ai problemi umani di essere riconducibili alla natura più intima della realtà. Non è così. L’essere rimane immanifesto di fronte alla filosofia, legato alla rete qualitativa da cui non può separarsi per il semplice gioco metafisico. Il facitore filosofico può smaniare rendendosi conto della propria impotenza davanti alla incompletezza del fare, ma le sue pretese conquiste sono lì a testimoniare la propria inconseguenza. A volte la teoria filosofica dà l’impressione di essere pronta a denunciare l’imbroglio del fare, di sapere come affrontare un potere che riesce a gestire se stesso nella più assoluta sopraffazione. Ma si tratta soltanto di una impressione.

Ancora meglio chiarisce il suo pensiero conservativo Abbagnano. «La filosofia è un impegno dell’uomo di fronte a se stesso. La problematicità di cui essa tende a chiarire il significato non è ad essa presente come un oggetto di indagine, come un essere oggettivo, ma sempre e soltanto come un dover essere, una norma che richiama incessantemente alla decisione e alla scelta. Chiarire la problematicità costitutiva dell’uomo significa non già renderne espliciti i significati oggettivi, ma decidersi sull’autentico significato di essa ed assumere l’atteggiamento che ne risulta. La problematicità stessa diventa, in ogni tentativo di chiarirla, la propria misura e la propria norma, e l’analisi di essa, propria della filosofia, non ha altro compito che quello di mantenerle e di garantirle sempre aperte e vive nell’avvenire». (Ib., pp. 179-180). Una volta di più un “dover essere”, una “norma”, parole riconfortanti ma che nulla hanno a che fare con l’essere. Ancora una volta Abbagnano mostra la filosofia come la intende lui, come uno scudo protettivo contro ogni intromissione avventurosa della qualità. Solo la versione fittizia dell’essere, cioè l’apparire fattivo coatto, si connette con le filosofiche conseguenze che conducono tutte alla caverna dei massacri. La complicità filosofica è evidente – per la verità non solo riguardo all’esistenzialismo positivo – non appena si solleva il velo mistificatorio che circonda e copre l’egemonia del fare. Ecco perché c’è sempre una particolare benevolenza di questa filosofia, in apparenza arrischiata, verso l’accomodamento possessivo garantito. In fondo essa è una semplice modificazione metafisica del meccanismo fattivo coatto. La tela di ragno di questa metafisica collaborativa si potrebbe squassare facilmente, e lo abbiamo provato più volte, ma non ne vale la pena inseguire questa possibilità fino in fondo, infierire su di essa ad oltranza. Dopo tanti anni, mi sono accorto che Abbagnano ha elaborato il suo esistenzialismo positivo, questa sua creatura in apparenza febbrile e convulsa, per rispondere alle necessità storiche del momento – anni Quaranta-Cinquanta – e per potersi ritirare in tutta sicurezza e respirare dopo il breve bric-à-brac col fascismo. Altri, parallelamente, si lasciavano consumare con altre teorie e ciò non accadeva loro impunemente, anche senza volere con questo affermare che correndo dei rischi più concreti si rendessero conto di dove agganciare la qualità. Non credo. Mi riferisco a filosofi come Gentile, Rensi, Paci, non certo a filosofi come Aliotta e Croce, schierati su opposti orizzonti. Ma forse il riferimento è fuori luogo. Per quel che so Abbagnano non si è mai gloriato di un contributo conservativo, anzi ha sempre pensato di dare una spinta verso la problematicità e il rischio dell’esistenza. Ebbene, in questo si sbagliava.

Riguardo al linguaggio della filosofia – quello della scienza, si è detto, è la matematica – Abbagnano è ancora più accomodante. Cerca di rifutare il tecnicismo di un metalinguaggio filosofico, mutuato dalla matematica, come le difficoltà di molti linguaggi usuati dai filosofi, che pure li ricavano dal cosiddetto linguaggio del senso comune. E qui scrive: «Come ogni filosofia autentica, pur nella sua diversità dalle altre, è sempre filosofia, così il linguaggio filosofico deve avere una intersoggettività fondamentale, che è sempre più o meno esplicitamente espressa nelle premesse della filosofia, ma va sempre anche al di là di esse e può agire e verificarsi anche quando non agisce e non si verifica secondo le intenzioni espresse di essa. Ora l’unico protagonista della filosofia è, come si è visto, l’uomo, in quanto è vivente problematicità o vivo problema a se stesso. Sicché il modo tacito od espresso dell’intersoggettività del linguaggio filosofico è la possibilità del linguaggio di promuovere nell’uomo la chiarezza intorno a se stesso e ai propri atteggiamenti». (Ib., pp. 183-184). Parola portante qui è “chiarezza”, la chiarezza persuasiva. Insomma, la base per ogni fare che non voglia cadere in confusione. Ma come si può catturare il mondo, lo stesso mondo del fare coatto, nell’alveolo striminzito della chiarezza? Come strappare i tanti viluppi che lo rendono, in fondo, un mondo sconosciuto? Possibile che Abbagnano non si sia accorto della esiguità di questo progetto? Avrà pensato che è molto meglio conservare che mettere a rischio? Forse. Molto più probabilmente non ha pensato ciò, ma esattamente il contrario. Le illusioni della filosofia sono infinite. Il suo compito gli era del tutto chiaro, solo che non era esattamente quello che lui pensava di vedere davanti a sé. I fantasmi dell’apparenza sono perniciosi e duri da strappare via, specie quando ogni sforzo che si fa li rinfocola nel loro compito di fare apparire fondata e solida l’apparenza stessa. Occorrerebbe agire con coraggio e con sapienza, due doti non in possesso del filosofo, di qualsiasi filosofo, almeno con poche eccezioni. La via dell’oltrepassamento non può accettare i fantasmi dell’apparire, deve metterli criticamente in discussione. Per fare questo ha bisogno della conoscenza. La diatriba filosofico-scientifica di Abbagnano su questo punto è un ridicolo tentativo di confondere le acque. Ma questa conoscenza, non può essere utilizzata nell’avventura qualitativa, almeno non può essere imposta con il piglio assoluto dell’oggettualità. Ogni tentativo del genere, anche se coraggioso, è destinato a tornare indietro. La stessa rammemorazione non è in grado di capire bene il perché. La qualità è libertà dai fantasmi ed è anche libertà dalla conoscenza, accesso alla sapienza, svuotamento quantitativo. In caso contrario si rimane sfigurati. C’è un moto dell’animo che non si può tradurre in accorgimenti metafisici, è un rapporto diretto – una volta effettuato l’oltrepassamento del fare – con la qualità. Siamo di fronte a una forzatura delle nostre difese fisiologiche, contro le quali non è sempre facile andare. Il più semplice respiro profondo può diventare qualcosa di avventato e la più grande garanzia un peso da cui ci si vuole liberare a tutti i costi.

Il paradosso della tecnica

Dopo avere lumeggiato i guasti causati dallo sviluppo dissennato della tecnica, ai suoi tempi nemmeno paragonabile a quello che oggi abbiamo sotto gli occhi, Abbagnano affronta il problema calandolo nel rapporto tra l’uomo e il mondo. Egli afferma: «… bisogna subito affrontare l’equivoco nel quale si cade fatalmente concependo lo sviluppo della scienza e del lavoro umano, del regnum hominis, come un progressivo distacco dell’uomo dal mondo naturale. L’uomo, certo, non è schiavo delle cose o delle forze della natura quando arriva a servirsene; ma questa sua indipendenza dal mondo non significa rottura del suo rapporto col mondo, ma rafforzamento e approfondimento di tale rapporto. Il che vuol dire che la tecnica, tra gli altri miracoli, non può fare quello di isolare l’uomo dal mondo e di conferirgli quella specie di indipendenza che gli consenta di ignorare completamente il mondo circostante e di vivere come se non ci fosse. Al contrario, essa moltiplica all’infinito le determinazioni del rapporto fondamentale tra l’uomo e il mondo e così moltiplica e rafforza i fili che da tutte le parti stringono l’uomo alla totalità naturale di cui fa parte. Perciò la tecnica moltiplica i bisogni nell’atto stesso che dà i mezzi per soddisfarli. L’indipendenza che essa conferisce all’uomo non consiste in un’impossibile autosufficienza, che renderebbe inutile l’uso di qualsiasi strumento, semplice o complesso che sia, ma soltanto nella possibilità sempre meglio garantita di un rapporto col mondo che non si risolva con la sconfitta o con la rinunzia dell’uomo di fronte ad esso». (Filosofia, Religione, Scienza, op. cit., pp. 189-190). Anche qui la parola portante è possibilità “garantita” meglio. Ecco cosa fa la tecnica. Rafforza il rapporto col mondo e radica autenticamente l’uomo nella sua scelta. Sappiamo che questa affermazione è almeno dubbia. Basare questo rapporto sul maggiore vantaggio possibile da ricavare è proprio un’affermazione che si regge sulla logica del fare accu-mulativo. Più si fa e meglio è. Forse Abbagnano avrebbe modificato le sue opinioni se avesse visto i guasti che negli anni Cinquanta non erano prevedibili, forse no. Ma anche allora, a una riflessione pacata e non ottusa saltava all’occhio il pericolo di un uso dissennato delle risorse, problema economico di cui il filosofo ignora le basi essenziali. Egli difatti si limita a mantenere una certa distanza da questo problema. Per lui le forze della tecnica sono nelle mani dell’uomo, questo le usa e le controlla. Non gli viene in mente che potrebbero verificarsi imprevisti risultati disastrosi dovuti alle conseguenze di uno sfrenato delirio. Le apparizioni dei fantasmi nucleari non lo turbano, guarda all’utilizzo per l’uomo e lo fa con sollievo. Dopotutto, l’uomo non è forse il signore e padrone del mondo? Basta seguire la tecnica nelle sue produzioni e nelle sue modificazioni per goderne i benefici e vivere felici davanti ai massacri. Di più un onesto facitore di teorie filosofiche non può chiedere. Questa è la sostanza recondita del suo insegnamento ed è anche il suo modello di libertà quantitativa.

Ecco la risposta-soluzione. La potenza distruttiva, confusa artatamente con la potenza costruttiva viene risucchiata nello stesso mezzo. Eccolo come continua: «Ora questo rapporto non si risolve a vantaggio dell’uomo se l’uomo abbandona l’atteggiamento che dà luogo alla tecnica. Se l’uomo tralascia la ricerca della strumentalità delle cose e il lavoro diretto a riplasmarle ai fini della loro utilizzabilità, non perciò rescinde il suo rapporto col mondo ma lo disconosce e se ne rende schiavo perché diventa incapace di provvedere ai suoi bisogni più semplici. Perciò l’unica vera alternativa che gli si prospetta è quella di accettare e di realizzare fino in fondo il rapporto col mondo è di spingere coraggiosamente innanzi, per quanto è possibile, la ricerca scientifica e l’organizzazione tecnica del proprio lavoro. Può ben darsi che tutti i mali lamentati derivino, non dalla tecnica, ma dalla insufficiente o timida accettazione di essa, e che perciò l’unico rimedio efficace consista nell’esplicita e radicale accettazione di tutto ciò che essa è e deve essere.

«In tal caso, la correzione della tecnica non potrebbe essere che la tecnica stessa. La sua anti-umanità deriverebbe soltanto dal fatto che essa non è ancora sufficientemente tecnica, che essa non è ancora realizzata come tale. E a sua volta questa mancata realizzazione dipenderebbe dalla timidezza e dalla fuga dell’uomo di fronte ad essa, dalla paura di cui l’uomo stesso è talvolta preso di fronte ad essa». (Ib., pp. 190-191). Ancora una volta la soluzione è indicata nel rafforzare la strada che si sta percorrendo. Il massimo livello del conservatorismo credo si raggiunga in questo punto preciso. In fondo questo atteggiamento nei confronti del mondo non è soltanto cieca fiducia nelle forze del fare, che reggono la struttura produttiva e rendono intelligibili gli oggetti, ma è anche paura del diverso. Ora, come sappiamo, questa paura ne nasconde un’altra, più grave e più grande, la paura della morte. Tutto l’esistenzialismo positivo è una fuga dalla pericolosità dell’incertezza che si accosta pericolosamente alla morte. Va bene un accenno alla problematicità della vita che potrebbe perdersi nella morte – anche adesso, improvvisamente potrebbe arrivare l’ospite inatteso –, purché si tratti di un accenno subito ricondotto, tramite i soliti salti dialettici, all’ordine e al ritmo della misura. La paura della morte è, considerando il problema in tutti i suoi aspetti, presenza degli dèi che sollecitano alla perfezione completante proprio ciò che non può completarsi, nel mondo del fare, che con la morte. Come uscire da questo cerchio di paure che si stringe sempre di più? Lasciando che le cose vadano come sono sempre andate, si evita di attirare l’attenzione della morte. Nessuno deve disturbare la sacrale immobilità del fare e il filosofo è il sacerdote di questo rito che cambia solo per rimanere lo stesso. Il nocciolo del conservatorismo sta proprio qui. Restare a casa propria o invadere la casa altrui, solo quando si è sicuri di farla diventare propria con poco rischio. I conservatori sono i capitalisti del 3%, non sono banditi o predoni.

Ecco come si dovrebbe correggere la tecnica con la tecnica. Abbagnano rasenta l’incredibile in questa pagina decisamente fuori tempo: «A misura che la tecnica si sviluppa, cioè diventa veramente tecnica, i compiti del lavoro diventano più complicati e difficili. Una macchina complicata richiede uno spirito attivo di vigilanza, di controllo e di iniziativa. Il numero dei tecnici e degli operai specializzati si moltiplica nelle officine tecnicamente attrezzate. La manovalanza non sparisce, ma in un certo modo è fuori dalla tecnica, la quale esige per ogni compito una capacità o un talento determinati. La tecnica promuove e mette in luce i singoli talenti, rendendo possibile la loro utilizzazione; e con ciò consente ad ognuno di fare il lavoro per il quale è adatto e promuove la differenziazione così dei compiti come degli uomini. E si determina altresì la formazione di una gerarchia di compiti e di funzioni nella quale la direzione spetta naturalmente all’intelligenza e alla buona volontà. Essa esige, è vero, una disciplina rigorosa senza la quale l’organizzazione intera si inceppa o si guasta, ma questa disciplina non ha nulla di arbitrario perché rappresenta l’ordine di un dispositivo intrinseco del quale ogni elemento ha la sua propria ragion d’essere». (Ib., p. 192). Parole portanti sono ancora una volta “gerarchia” e “disciplina”. Uno sforzo immane per rendere sicuro lo sviluppo della tecnica, per tacitare gli dèi malvagi che in essa si nascondono. Non più gli scongiuri dei tempi andati, ma la filosofia. Il fatto è che il conservatore non si sente mai al sicuro per cui moltiplica i suoi accorgimenti e la sua prudenza finisce per diventare ossessione. Se filosofo, egli restringe il suo campo di osservazione, in modo da trovare più facilmente riscontri confortanti. Quello che gli manca è un punto solido dove poggiare i piedi per sviluppare le sue catene di ragionamenti confortanti. Il fare è certo un punto solido ma non completo, quindi richiama l’arbitrio e l’incertezza e, pertanto, ancora una volta, la paura della morte. Nelle tenebre dell’incompletezza oscure forze sembrano ostacolare i meccanismi quantitativi e il filosofo le avverte al lavoro, sente che il pericolo è talmente grave che tutto il mondo potrebbe crollare e che la coesistenza col mondo diventare anch’essa incerta. Ecco perché vuole porvi rimedio. Ma le sue teorie e, peggio ancora, i suoi ghirigori dialettici, sono soltanto un balbettio.

Quindi la tecnica è umanizzata dall’uomo e non lo disumanizza. Abbagnano scrive: «…la tecnica non è la macchina, ma la creazione e l’uso consapevole di macchine sempre più complesse, richiedenti funzioni nelle quali la parte dell’iniziativa singola e della solidarietà dei compiti diventa sempre maggiore. La tecnica include la macchina nella totalità di una organizzazione propriamente umana, che non può reggersi, svilupparsi se non sul fondamento di un atteggiamento specificamente umano, quindi spirituale. La tecnica include come prima e fondamentale condizione di sé la comprensione della tecnica; e la comprensione della tecnica è l’uomo in un suo atteggiamento fondamentale». (Ib., pp. 193-194). Qui c’è un rifiuto assoluto del pericolo che l’uomo cada prigioniero del meccanismo fattivo, di cui la tecnica è l’apoteosi della capacità di sfruttamento. Non sono parole sincere, non mi pare possibile che Abbagnano credesse veramente a questo oltranzismo conservativo. In fondo – se si vuole per convenienza o per ignoranza, la scienza economica non era il suo forte – da metafisico doveva sapere che nessun meccanismo dialettico è in grado di ricomprendere se stesso nella giustificazione a cui è chiamato. Nel fare ci sono forze oscure, impossibile chiarirle fino in fondo, ed è questo che conduce la filosofia alla caverna dei massacri. Lo scatenamento di queste forze – indispensabile per altro alla produzione coatta – produce visibili effetti loschi di cui si sa poco o niente perché coloro che potrebbero approfondirli preferiscono non correre rischi e non trovarsi in balia dell’inquietudine. Esiste un modo diverso di fare teorie filosofiche? Non lo so. La tristezza mi sembra generalizzata. Quando uno dei collaboratori di Croce, Antonio Bruno, all’esame di filosofia morale mi disse di non parlargli delle solite chiacchiere filosofiche ma delle mie esperienze in carcere, credo si sia un po’ avvicinato a questo problema. Solo questione di millimetri, nulla di più. Abbagnano non ne sarebbe stato capace, pure essendo incommensurabilmente più addentro di Bruno alla conoscenza filosofica. Da cui si ricava che non è questione di conoscenza. Questo problema non mi concede tregua, non me l’ha mai concessa, anche adesso, nelle terribili notti del carcere greco dove scrivo questo libro all’età di settantatre anni. La vanità di tutto ciò dovrebbe apparirmi chiara, eppure ecco che i miei fantasmi vengono a farmi visita avvolti nella solita caligine che volteggia attorno alle mie esperienze rammemorative. E il desiderio di conoscenza riprende il sopravvento, e ripercorro con la mente e col cuore i tanti percorsi iniziati e non finiti, le tante letture, i sistemi che mi avrebbero garantito una infinita molteplicità di apprendimento, le tecniche di memorizzazione, a quando la fine di tutto ciò? A quando lo svuotamento? A quando la saggezza? Non ho paura della morte, anche se la mia attuale debolezza fisica favorisce i pensieri che la riguardano. Non ho paura dell’ospite inatteso perché so come parlare al destino, almeno credo.

Ma torniamo ad Abbagnano, la sua posizione sulla tecnica è completamente errata. La stessa abilità dialettica non riesce a nasconderlo. Purtroppo per i filosofi, quando parlano di cose concrete sono costretti ad alzare la zampa, e allora si vede la coda. Egli scrive questa frase lapidaria: «Ora la tecnica per la stessa necessità intrinseca della sua realizzazione, esclude che l’uomo si meccanizzi o perda le sue capacità propriamente umane perché questo equivarrebbe immediatamente al suo arresto e alla sua dissoluzione». (Ib., p. 195). E invece la tecnica è proprio il contrario per quanto perfezionate possano essere le sue realizzazioni. Se il filosofo non agisce – e come potrebbe se il suo ideale è solo l’oggetto filosofico – egli rimane imbrigliato nella potenza della caverna dei massacri. Se ne sta seduto comodamente a sistematizzare la sua bella teoria, osserva che questa teoria prende corpo e che si incanala verso la sua sotterranea dimora, ma non può e non vuole intervenire, distoglie gli occhi, dopo tutto egli è soltanto un filosofo perché insistere dicendogli qualcosa di più? Che altro può fare se non sviluppare la sua teoria? E se qualcuno come me gli indica il sangue, laggiù, nel sotterraneo custodito e remoto agli occhi di tutti, questo qualcuno rimane inascoltato. Il filosofo è sordo per professione. La filosofia è un argomento contro la qualità, riconferma e custodisce solo la ragione dominante, la quantità prodotta dal fare. Non può andare oltre. Come è accaduto che si sia indebolita a tal punto? Non lo so. Mi chiedo se c’è stata mai un’epoca in cui era diversa, più forte, capace di oltrepassare. Forse le intuizioni dei primi filosofi? Non lo so.

Ecco come queste affermazioni di Abbagnano sulla tecnica trovano la loro natura, il loro modo di collocarsi nel punto esatto in cui il mondo aveva, e forse ha, bisogno di loro. Questo mondo fondato sulla melma, naturalmente. Le ultime parole di Abbagnano su questo problema della tecnica sono una pietra tombale sulla sua filosofia. «Col riconoscimento, da parte dell’uomo, del suo rapporto col mondo come essenziale e costitutivo di sé, la prima condizione della autoumanizzazione della tecnica, cioè della sua realizzazione come tecnica, è garantita. La seconda condizione è il limitarsi dell’uomo in un determinato compito di lavoro e di impegnarsi in questo compito. L’impegno suppone la libera scelta del compito e la capacità di effettuarlo. La tecnica esige non solo che ognuno compia il lavoro per cui è adatto, ma che questo lavoro sia scelto liberamente e che la scelta avvenga come un impegno. Una selezione automatica delle attitudini è contraria al principio della tecnica, perché suppone che questa si regga sull’automatismo del lavoro mentre invece essa è fondata sulla libertà e sulla capacità di iniziativa dei singoli nell’ambito di una solidarietà comune.

«La tecnica è un ordine, nel quale ognuno compie il lavoro o la funzione per cui è adatto e che egli stesso riconosce come proprio di sé. Questo implica che nella determinazione del compito di lavoro di ciascuno entri soltanto la considerazione della capacità, della sua iniziativa e della sua scelta, e sia esclusa invece ogni considerazione estranea, cioè non desunta dalla necessità intrinseca dell’organizzazione tecnica. La tecnica esige che in quella determinazione non entrino privilegi né pregiudizi di qualsiasi genere e che ognuno abbia il posto che gli spetta in relazione alle sue attitudini e alle sue capacità di iniziativa e di impegno». (Ib., pp. 195-196). Quello che qui Abbagnano si lascia scappare di bocca è esattamente il contrario di ciò che la tecnica realizza. Si potrebbe riscrivere questa pagina rovesciandola e trovarsi alla fine di fronte a un’analisi accettabile. Da notare che qui – segno di esasperazione o di stanchezza? – manca del tutto il salto mentale metafisico della dialettica. Le sue parole sono un inno alla conservazione ma un inno in cui il tono e l’abilità soliti sono di molto scaduti. Le ho riportate perché appartengono al suo modo di vedere il mondo ma anche perché sono un esempio raro di quanto può essere modesto il contributo di un filosofo ad argomenti di natura pratica. Egli ha una visione del fare produttivo che non sfiora nemmeno la realtà. Osserva la tecnica come un fantasma e ne preconizza movimenti da fantasma. L’apparenza del fare è violentemente concreta, non ha l’inconsistenza di un ectoplasma. I suoi prodotti, gli oggetti – quindi anche le riflessioni dei filosofi – viaggiano lontano in compagnia di altri oggetti, e giocano un ruolo essenziale di corrispondenza e coordinamento. Che non ci si possa compiacere molto di questa situazione destinata a peggiorare è riflessione che molti altri filosofi facevano all’epoca. Abbagnano però perseguiva un suo programma positivo – quello che poi sarà il neo-illuminismo – al quale voleva essere fedele fino all’ultimo. Ma, dopotutto, il compito della filosofia – particolarmente della sua metafisica apparenza – non è forse quello di essere intimamente coerente, cioè di non tradire le proprie premesse? E questo era in fondo l’intendimento suo e della sua sparuta scuola, che si andò sbriciolando nel breve volger del tempo. La ricerca si indebolisce sempre nella conservazione e il banco di prova della tecnica è da considerare un vero ponte dell’asino. Abbagnano non è riuscito ad andare oltre una giustificazione del fare, cosa che potrebbe suonare strana per un filosofo problematico, ma questa incertezza era solo nella tensione intellettuale del rapporto con la possibilità, una tensione solo apparente, l’antico cadavere dell’oggetto giaceva accanto ai suoi salti logici e dialettici, inanimato.

* * * * *

«Il filosofare non può risolversi né nell’autosservazione della coscienza, né nella costruzione della sempre presente coscienza in generale, né nel sapere storico. La coscienza è un limite. Anche quando è oggetto di considerazione si sottrae ad ogni considerazione oggettiva. La tesi secondo la quale, nel filosofare, noi partiamo dalla coscienza, è falsa se pretende di considerare già come un pensiero filosofico le analisi universali condotte in sede logica, psicologica e storica da quella coscienza che è in ogni tempo a disposizione di tutti, è vera se si riferisce a quelle chiarificazioni che hanno come punto di partenza e ambito di realizzazione la coscienza esistenziale. L’essere è rimasto in sospensione per l’incomprensibilità dell’essere-in-sé. Esso è apparso come un limite nell’analisi dell’esserci. Ma mentre l’essere-in-sé mi resta del tutto inaccessibile perché, come assoluta alterità, è quasi nulla per il pensiero, io sono a mia volta quell’io che è posto come limite all’analisi dell’esserci. Nella ricerca dell’esserci è questo il passo ulteriore che bisogna compiere. L’esser-io come esserci empirico, come coscienza in generale, come esistenza possibile. Se mi domando che cosa intendo quando dico “io”, la prima risposta, nasce da quel processo di oggettivazione che si realizza quando rifletto su me stesso, e per il quale io sono questo corpo in quanto sono questo individuo, con una autocoscienza indeterminata che riflette ciò che valgo in quell’ambito di cose e persone che mi circondano: io sono come esserci empirico. In secondo luogo io sono un “io” essenzialmente identico ad ogni altro io: sono sostituibile. Questa sostituibilità non si riferisce all’identità delle qualità medie degli individui empirici, ma all’esser-io in generale che esprime la soggettività come condizione di tutto l’essere-oggetto: io sono come coscienza in generale. In terzo luogo mi sperimento nella possibilità per l’incondizionatezza. Io non voglio sapere solo ciò che c’è per ragioni e controragioni, ma voglio sapere partendo dall’abissalità di un’origine; e agendo ho degli istanti in cui sono certo che ciò che ora voglio e faccio, lo voglio autenticamente. Voglio essere in modo che questo voler sapere e questo agire mi appartengano. Nel modo in cui voglio sapere e agire entra in azione la mia essenza, di cui sono certo anche se ancora non la conosco. Per questa possibilità, che è libertà di sapere e di agire, io sono “esistenza possibile”. L’io dunque non è determinato univocamente, ma possiede molti significati. Come coscienza in generale io sono la soggettività per la quale gli oggetti sussistono come realtà oggettive e universalmente valide. Ogni coscienza reale partecipa a questa coscienza in generale in quanto coglie l’essere che si fa oggetto così com’è per tutti. Io sono individualità empirica in quanto soggettività oggettivata. Come tale rientro nell’indefinita molteplicità degli individui come individuo particolare che si presenta una sola volta. Per la coscienza in generale sono questa individualità come esserci empirico, e come tale divengo oggetto della psicologia, un oggetto, in verità, inesauribile. In questo modo posso osservarmi e indagarmi, ma non posso riconoscermi come totalità. Da ultimo, come esistenza possibile, sono un essere che si riferisce e si relaziona alla sua possibilità, e come tale non è oggetto di alcuna coscienza in generale. Con la comprensione del senso dell’esistenza possibile si spezza il circolo di tutti i modi dell’essere oggettivo e soggettivo. Il filosofare si riferisce ai modi dell’esser-io nel senso che ne ammette l’esistenza ed evita di risolverli in un’identità generica. Ognuno di questi modi possiede, da un determinato punto di vista, un primato che nel filosofare è condizionato al primato assoluto dell’esistenza possibile. Il primato dell’io empirico è riconosciuto a quell’io che è sottoposto alle condizioni dettate dalla necessità dell’esserci, si tratta di un io relativo che non sussiste per se stesso. Il primato della coscienza in generale consiste nell’essere per la mia soggettività la condizione di ogni essere. Si tratta di un primato formale che domina ogni soggettività e ogni oggettività e che può essere chiarito da questi due ordini di considerazioni. Io non mi limito ad esserci come la vita, ma so di esserci. Penso che potrei anche non-esserci. Se però tento di pensarmi come non esistente in generale, allora non posso fare a meno di notare che col mondo lascio sussistere involontariamente anche me stesso, nella forma di una puntuale coscienza in generale per la quale questo mondo sarebbe. Penso inoltre che potrebbe non esserci nulla in generale. Ma anche questo pensiero lo posso solo esprimere e non realizzare veramente, perché a pensarlo sono sempre e ancora “io”, e quindi non posso evitare di supporre la mia esistenza anche se nego quella del mondo. Rimane sempre l’essere di chi interroga come sua coscienza in generale, per cui sembra che io possa realmente continuare a pensare tutto l’altro essere. L’essere del pensante esige quindi un suo specifico primato come coscienza in generale, se non altro in quel senso limitato che prevede l’impossibilità di non pensarlo, almeno provvisoriamente, come l’ultimo essere senza il quale non se ne dà altro. L’io come esistenza possibile detiene il primato decisivo per il filosofare, perché irrompe nel circolo dell’essere formato dall’essere-oggetto e dall’esser-io. L’esistenza possibile è quel muoversi sull’essere in sé che in questo circolo è presente solo negativamente come limite. Essa forse dischiude nel mondo degli oggetti quel cammino che è precluso alla coscienza in generale. Questo filosofare, che per l’esserci empirico è nulla, e che per la coscienza in generale è un’immaginazione infondata, per l’esistenza possibile è la via che conduce a se stessa e all’essere autentico. L’esistenza è ciò che non diventa mai oggetto, è l’origine partendo dalla quale penso e agisco, è ciò di cui parlo in quella successione di pensieri che non giungono ad alcuna conoscenza; l’esistenza è ciò che si rapporta a se stessa, e in ciò, alla sua trascendenza. Può esistere ciò che non può realizzarsi come oggetto tra gli oggetti? Evidentemente non può essere oggetto l’“io sono” che è accessibile solo se lo si concepisce come esserci empirico e come coscienza in generale. Il problema è ora quello di stabilire se con la comprensione dell’essere in tutta la sua oggettività e soggettività ho concluso il mio compito, oppure se posso rendermi presente come me stesso anche in altra maniera. Con ciò siamo giunti al punto intorno a cui per noi si muove il senso del filosofare. Non è possibile definire l’essere dell’esistenza con un concetto che dovrebbe supporre un riferimento ad un determinato essere-oggetto. Innanzitutto la parola è una di quelle che significano solamente essere. Da un oscuro inizio questa realtà entrò nella storia, ma nel pensiero filosofico fu solo un presentimento a cui, in seguito, Kierkegaard diede espressione con questa parola dal contenuto per noi storicamente condizionato. Essere significa decidere originariamente. Per me sono come sono ora e per una sola volta, anche se, come individuo, sono un caso dell’universale, sottoposto alla legge causale e ossequiente alle richieste legittime di ciò che si impone oggettivamente come doveroso. Ma là dove sono origine di me stesso non tutto è ancora deciso fino in fondo e secondo leggi universali. Io non solo non so, a causa dell’indefinito numero delle condizioni, come dovrà essere deciso qualcosa, ma, su un altro piano completamente diverso, io sono anche colui che decide da sé ciò che è. Questo pensiero che non si può oggettivare, è la coscienza-della-libertà dell’esistenza possibile. In base ad essa non posso pensare che in definitiva tutto segue il suo cammino, e che a me non resta altro da fare se non ciò che più mi piace, giustificando il tutto con argomenti generali che sono sempre a disposizione, perché, prescindendo da tutta la dipendenza e la determinazione del mio esserci, alla fine mi rendo conto che qualcosa dipende solo da me. Ciò che posso afferrare o lasciare, ciò che antepongo come primo e unico, ciò che è ancora custodisco nell’ambito della possibilità e ciò che realizzo non risulta da regole universali capaci di garantire la correttezza del mio comportamento, né da leggi psicologiche che mi condizionano, ma scaturisce, nell’inquietudine del mio esserci, dalla certezza di esser-se-stesso in virtù della libertà. Là dove non mi considero più condizionato psicologicamente e quindi non agisco più ingenuamente sotto la spinta dell’inconscio, ma, partendo dalla positività del mio slancio, nella chiarezza di una certezza che, pur non offrendomi alcun sapere, fonda il mio essere proprio, là decido che cosa sono. Conosco un appello a cui rispondo interiormente con la realizzazione del mio essere. Avverto chi sono, ma non come individuo isolato. Invece che nella casualità del mio esserci empirico chiuso nella sua ostinazione, mi colgo nella comunicazione. Infatti non sono mai così sicuro della mia identità come quando mi metto a completa disposizione dell’altro e, in questa contrapposizione rivelatrice, giungo ad essere me stesso perché anche l’altro perviene alla sua identità. Partendo dall’esistenza possibile colgo la storicità del mio esserci che, dalla molteplicità delle realtà conoscibili, giunge alla profondità dell’esistere. Ciò che esteriormente è determinazione e limite, interiormente è manifestazione dell’essere autentico. Chi ama solo l’umanità, non ama nessuno, ama invece chi si volge ad un uomo determinato. Chi è razionalmente conseguente e tiene fede ai patti non è ancora fedele, è fedele invece chi accetta come suo e si riconosce in ciò che ha fatto e nei luoghi che ha amato. Chi vuole l’esatta e definitiva organizzazione del mondo non vuole assolutamente nulla, vuole invece qualcosa chi, nella sua situazione storica, afferra il possibile come suo. Se sono radicato nella storicità, l’esserci temporale non ha senso in sé e da sé, ma solo se nel tempo è deciso per l’eternità. Il tempo, infatti, come futuro è possibilità, come passato è fedeltà, come presente è decisione. Il tempo, quindi, non è un semplice trascorrere, ma è manifestazione dell’esistenza che, in esso, si realizza attraverso le sue decisioni. Nella misura in cui si riconosce alla temporalità questo senso e se ne è consapevoli, la si supera immediatamente non a favore di una atemporalità astratta, ma nel senso che, nel tempo, io sono oltre il tempo e non fuori del tempo. Come coscienza di una vita dominata da impulsi vitali e dal suo finito anelito di felicità, voglio il perdurare del tempo come se la soluzione dell’angoscia dell’esserci fosse nella cieca durata. Come coscienza vivente non posso annullare questa volontà, così come non posso eliminare il dolore della fugacità. Entrambe appartengono alla natura del mio esserci. Ma se nel tempo agisco e vivo incondizionatamente, nel tempo è l’eternità. Il mio intelletto non è in grado di comprendere questa verità che si illumina solo in qualche istante e poi in qualche incerto ricordo. Da parte mia non la posso raggiungere come si raggiunge un possesso esteriore. La differenza che la costituisce non dice nulla all’intelletto in quanto coscienza in generale, ma è un appello per l’esistenza possibile. In tutta l’oggettività conosciuta l’essere reale smarrisce la sua realtà nella durata temporale, nel determinismo naturale, o nella nullità di ciò che è solo passeggero; l’esistenza, invece, si realizza operando delle scelte nella storicità temporale dove ha la possibilità di proiettarsi, nonostante il dissolversi dell’oggettività, verso la compiutezza del tempo. L’eternità non è né l’atemporalità, né la durata temporale, ma la profondità del tempo come fenomeno storico dell’esistenza. L’esistenza si incontra con l’altra esistenza nella situazione come nel mondo, senza diventare conoscibile come essere-del-mondo. Ciò che è nel mondo lo colgo in quanto sono coscienza in generale: dell’esistenza, invece, non mi accerto se non nel trascendere dell’esistenza possibile. L’essere che è possibile riconoscere in modo vincolante è lì davanti a me come cosa. Lo posso afferrare direttamente, e con esso posso fare qualcosa sul piano tecnico se si tratta di cose, o sul piano logico se si tratta di argomentazioni tra me e un’altra coscienza. In esso c’è la resistenza propria di un dato, sia che si tratti della resistenza materiale della realtà empirica, sia che si tratti di quella logica che accompagna ciò che è necessario o impossibile per il pensiero. In ogni caso si tratta di un essere oggettivo, o come oggetto originario, o come qualcosa che si oggettiva adeguatamente come nei modelli e nei tipi impiegati come strumenti d’indagine. L’esistenza, che per sé non c’è sul piano empirico, appare come esserci per l’esistenza possibile. Ovviamente il salto che esiste tra mondo ed esistenza, tra ciò che si può conoscere e ciò che si può solo chiarire, tra l’essere-oggetto e l’essere-libero dell’esistenza è ineliminabile nel pensare. Ma entrambi questi modi d’essere di fatto sono tra loro così intimamente connessi che separarli, per una coscienza che è ad un tempo esistenza possibile, è un compito infinito, nel cui adempimento la conoscenza dell’essere del mondo e la chiarificazione dell’esistenza si producono insieme. Solo in astratto è possibile esprimere in formule la scissione tra l’essere oggettivo e l’esistenza come essere della libertà. L’essere oggettivo è dato come meccanismo, vita e coscienza; mentre come esistenza, io sono origine, ovviamente non origine dell’essere in generale, ma origine per me nell’esserci. Per l’essere delle cose non c’è alcuna libertà, per la libertà l’essere delle cose non è un essere autentico. L’essere come sostanza e l’essere come libertà non costituiscono una contrapposizione di due modi d’essere coordinabili. Pur essendo in un rapporto reciproco, sono tra loro assolutamente incomparabili. L’essere nel senso di essere-oggetto e l’essere nel senso di essere-libero si escludono. L’uno passa dal tempo all’atemporalità o alla durata senza fine, l’altro dal tempo all’eternità. Ciò che è o è valido in ogni tempo è oggettività, ciò che, pur sparendo nell’istante, è eterno, è esistenza. L’uno esiste solo per un soggetto che lo pensa, l’altro, pur non essendo mai senza oggetto, esiste realmente solo per l’esistenza in comunicazione. Dal punto di vista del mondo ogni manifestazione dell’esistenza è pura oggettività, quindi coscienza, io, ma non esistenza; da qui non si può mai intendere ciò che si pensa con l’esistenza. Dal punto di vista dell’esistenza il suo vero essere è solo una manifestazione nell’esserci, e l’esserci, che non sia manifestazione dell’esistenza, né autentico esser-se-stesso, è solo caduta. È come se originariamente tutto l’esserci dovesse essere esistenza, e ciò che in esso è solo esserci dovesse intendersi come uno svuotamento, un travisamento, una perdita dell’esistenza. Non c’è dunque alcuna indicazione capace di guidare dall’essere oggettivo all’altro essere, se non, indirettamente, la spaccatura e l’apertura di questo essere. Eppure l’esistenza, penetrando le forme dell’essere oggettivo, le intende come mezzi per la sua realizzazione e come possibilità per la sua manifestazione. Situata al limite tra mondo ed esistenza, l’esistenza possibile vede tutto l’esserci non solo come esserci. Dal punto di vista più remoto, dal meccanismo, l’essere, per così dire, si fa più prossimo nella vita e nella coscienza, per trovarsi autentico nell’esistenza. Oppure, da questo limite, si pensa, con la coscienza in generale, all’esserci come puro e semplice esserci; ma ogni esserci ha la possibilità di poter essere rilevante per l’esistenza come suo impulso o suo mezzo. Se l’esistenza esiste solo con e in virtù di altre esistenze, dal punto di vista oggettivo non ha alcun senso parlare di una molteplicità di esistenze. Poiché il loro essere è sempre storico e si realizza in quella comunicazione tra esistenza ed esistenza che fa di ciascuna di esse, nell’oscurità dell’essere del mondo, un essere l’una-per-l’altra, questo loro essere, che non consente altri modi d’essere se non quello del reciproco riferimento, non ha alcun valore per una coscienza in generale che può giudicare solo dal di fuori. Essendo invisibili dall’esterno, le esistenze non possono essere considerate come una molteplicità. Da un lato all’esistenza possibile si offre l’essere del mondo articolato nei modi d’essere previsti dalla coscienza in generale, dall’altro le esistenze sono. Da nessuna parte c’è un essere chiuso in se stesso, né oggettivamente come potrebbe essere il costituirsi del solo esserci-del-mondo, né esistenzialmente come potrebbe essere il costituirsi del solo mondo delle esistenze come unico ambito di pensiero e di possibili considerazioni. Quando penso un essere si tratta sempre di un essere determinato, non dell’essere. Quando mi accerto dell’esistenza possibile non considero l’esistenza come un oggetto, né mi accerto di un’esistenza in generale, ma solo di me stesso e dell’esistenza che comunica con me. Noi siamo di volta in volta assolutamente insostituibili, e non casi di un genere concettuale come potrebbe essere quello di “esistenza”. A questo punto l’esistenza diventa il segno per indicare la direzione dell’autoaccertamento di un essere che non si può pensare oggettivamente, né in termini di universale validità; è l’essere che nessuno conosce e che nessuno può affermare nella pienezza del suo senso, né riferendosi a se stesso, né riferendosi ad altro. La domanda iniziale: “Che cos’è l’essere?” non ha trovato una risposta unica. La risposta a questa domanda soddisfa solo chi, ponendola, riconosce in essa il proprio essere. Ma la stessa domanda che chiede dell’essere non è univoca, perché dipende da chi la pone. Per l’esserci come coscienza in generale la domanda non ha alcun senso originario, perché questa coscienza si disperde nella molteplicità dell’essere determinato. Solo dall’esistenza possibile nasce la passione che fa porre in questione l’essere in sé al di là di tutto l’esserci e di tutto l’essere-oggetto, ma la risposta definitiva non le giunge da un sapere determinato. Ciò che c’è è l’apparire non l’essere, e neppure nulla. In questa proposizione il senso del termine “apparire” possiede la sua origine categoriale nella relazione particolare e oggettiva che si instaura tra come una cosa appare da un punto di vista e come è in se stessa prescindendo da questo punto di vista. Nel senso oggettivamente, quindi, l’apparire è l’aspetto di qualcosa che si pensa come fondo oggettivo, qualcosa che, pur non essendo in sé l’oggettivo, come oggetto è solo pensato, perché, in linea di principio, potrebbe essermi noto come tale (ad esempio gli atomi). Nella categoria dell’apparire, trascendendo con essa quella determinata e oggettivante relazione che si instaura tra ciò che giace come fondo e ciò che appare, si pensa tutto l’essere quando si cerca l’essere. Ma ora nell’esserci temporale, l’essere che appare rimane in una duplicità insuperabile che prevede l’inaccessibilità dell’essere-in-sé della trascendenza, che è impensabile come fondo oggettivo, e l’essere presente a se stesso dell’esistenza che non è coscienza empirica. Esistenza e trascendenza sono eterogenee, ma in reciproca relazione. Anche questa relazione si manifesta nell’esserci. In quanto l’esserci è oggetto di indagine, è apparire di qualcosa che teoreticamente si pone come fondo. Né l’esistenza né la trascendenza sono accessibili all’indagine».

(K. Jaspers, Filosofia, tr. it., Torino 1978, pp. 123-132).

Breve conclusione

Fatti i conti, questi non tornano. Fatica sprecata? Non proprio. A me è stata consigliata non dalla rammemorazione ma dal ricordo. Povera cosa, potrei – e dovrei – aggiungere, una vanità aggiuntiva, una debolezza senile, ricordarsi del buon tempo andato? No, non è così. Non era un buon tempo e non è ancora del tutto andato. Non si tratta di nostalgia, ma di rafforzamento dell’antico campo di forza. Ridicola consolazione, qualcuno potrebbe aggiungere, forse con un filo di ragione, ma solo un filo. C’erano nella mia antica pretesa di imporre un modello inaccettabile per il grande maestro, una sfrontatezza giovanile e una ignorante ottusità, certo vi erano questi aspetti, ma c’era anche una cieca voglia di andare oltre, non il desiderio dell’oblio di me stesso in un luogo confortevole e sicuro. C’era il senso dell’unione profonda, viscerale, intima, tra me e la conoscenza, senza intermediari esplicativi, senza incisi giustificanti, senza scissioni di alleggerimento. Non ascoltavo, non leggevo, non selezionavo, mi limitavo a vivere e la mia vita era conoscere in qualsiasi modo, la mia materia prima era la conoscenza, non solo filosofica ma di qualsiasi genere. Le tecniche di memorizzazione mi permettevano di incamerare – e dimenticare – afflussi incredibili di conoscenze. Quello che entrava in circolo nel campo di forza, era forse un minimo residuo – sempre nel senso quantitativo – ma procurava diffusione e riverberi impensabili, del tutto incomprensibili ad una mente cattedraticamente condizionata. Una macchina da guerra di questo genere suscita attorno a sé un alone di diffidenza e di fascino, due tendenze opposte e stridenti tra loro, nei riguardi delle quali non facevo assolutamente nulla. Ero capro espiatorio e guida spirituale, facevo il vuoto attorno a me e mi procuravo amicizie impensate fra bari e giocolieri. Non potevo essere altrimenti.

Altrimenti era Abbagnano. Le sue analisi sono costantemente orientate a ricondurre la problematicità della vita all’autenticità della certezza, dove riposa la ridicola coscienza conservativa. Non poteva fare diversamente, tutto in lui convergeva verso questo ideale di garanzia e di sicurezza. Lasciare a se stessa la problematicità della vita, sarebbe stato per lui un oltraggio alla santità laica della filosofia, alla missione di cui si sentiva investito. A chiedergli di sottrarsi un poco alla verità quotidiana dei suoi poveri interessi, avrebbe risposto che non c’era in questo atteggiamento un secondo fine, uno scopo soltanto personale, ma a reggere tutto era l’ovvia e naturale connessione dei propri presupposti teorici. Sono un filosofo, avrebbe potuto dire, e non posso essere altro.

Nella mia analisi ho più volte parlato del fare coatto. Si tratta di uno dei punti cruciali della mia visione della vita, non è una terminologia di Abbagnano. Eppure è per il fare come apparire e contro l’agire come essere che tutta la sua filosofia è organizzata. Essa è legata alla oggettualità – attenzione, non all’oggettività – con una catena corta, e non avrebbe gradito queste mie analisi proprio perché mettono in questione non dico la sua catena ma almeno la lunghezza di essa.

I diversi elementi dell’esistenzialismo positivo, la problematicità, l’autenticità, il radicamento, la garanzia, la scelta, il rischio, ecc., – cito a caso – sono solo simboli, o meglio, immagini munite di un segno particolare che ricorda il loro significato semantico ma con esso non si identifica completamente. L’uso di questi simboli è collegato sempre con un recupero dialettico che riconduce l’ipotesi estrema che il simbolo potrebbe contenere nell’immagine, a una condizione ridotta e addomesticata, direi casalinga, carica di buon senso e di positivo ottimismo. Non si tratta di un gioco, anche se può sembrarlo. Queste immagini sono reali e Abbagnano le ricava dalla società del suo tempo – la guerra e il dopoguerra – ma dalla stessa società ricava anche il bisogno di sistemare le cose al meglio, anche sacrificandoci sopra non solo le legittime conclusioni ma la stessa logica. Egli vive questi simboli così costruiti, spinti alle conseguenze loro connaturate, e poi recuperati in un salvataggio dialettico. La ferita che la scelta dovrebbe imporre nel singolo e nel corpo sociale non c’è, c’è solo l’emblema, il segno di una ferita. Non che questa ferita sia scomparsa o guarita, su di essa è stato posto un tampone e un semplice disinfettante. La cancrena viene lasciata sotto a cuocere a fuoco lento, in modo che il suo risultato possa tranquillamente indirizzarsi verso la caverna dei massacri. Da parte loro anche i movimenti metaforici della dialettica sono simboli che si riassumono in emblemi.

Di per sé, queste pagine di esistenzialismo positivo potrebbero considerarsi come banali esercitazioni universitarie, ma secondo me sono qualcosa di più. Sono il segno della pertinacia nel non volere vedere le condizioni della realtà, di non prendere in considerazione la crudeltà del meccanismo che la regge e la giustifica. E questo non vedere non è necessariamente partito preso, partigianeria da vigliacco, è anche incapacità di non potere sopportare il crollo di un mondo, irrimediabilmente compromesso da un coinvolgimento attivo nella qualità. Il filosofo si arrende, depone il fardello critico e si limita ad accennare alla conservazione come unico sbocco possibile. Forse c’è anche un invischiamento misero in qualche interesse di bottega, e questo l’ho soltanto accennato qua e là, ma non è il perno principale del mio atteggiamento critico. In alcune applicazioni della sua dialettica ci sono delle perdite di corrispondenza. Clamorosa quella riguardante la tecnica. Come se fra le righe il filosofo volesse erraticamente fare passare una differenza di livello, uno scambio non bene accettato, qualcosa di metafisicamente acefalo. Non è considerazione pietosa la mia, ma supposizione critica, nulla di personale. Non sto scrivendo una sentenza di condanna, non sono un giudice. Non sto girando attorno ad ostacoli concreti, questi ci sono e non ho mai cercato di mitigarli. Però mi sembrerebbe di partorire un topolino incidendo più a fondo sugli aspetti tecnici a volte palesemente insufficienti.

L’essere non ci permette di individuare al suo interno una struttura. La qualità è una esperienza che impedisce qualsiasi irrigidimento, la si affronta nella tempesta e nel pericolo, poi la si può anche rammemorare, ma potrebbe trattarsi di un parlare al muro solido e impenetrabile della caverna. Abbagnano non ha mai concesso un cenno all’essere, tutte le volte che la sua filosofia ne ha parlato si trattava del suo contrario, dell’apparire, per come lo conosciamo quotidianamente nel fare. Il “radicamento” di cui parla lascia intendere una vita dispersa che per salvarsi si àncora da qualche parte nell’essere, ma quale potrebbe mai essere questo ancoraggio in un qualcosa che non concede soste né si fa cogliere in una struttura sia pure destinata a profonde modificazioni?

L’essere è un vento improvviso che sconvolge l’assetto preordinato delle nostre paure e genera profili confusi. Immersi nel fare non ci accorgiamo neppure della sua esistenza. Abbagnano, abusando del termine, ha spesso parlato di esistenza che si trascende nell’essere. Bubbole da metafisico, ultima resistenza di un pauroso di fronte al pericolo. Tutto quello che non è comprensibile alla logica del fare, codificata nell’amministrazione dell’a poco a poco, denuncia l’avvicinarsi del vento dell’essere, gesti involontari, metafore paurose e remote, riflessi ritardati, obblighi disattesi, segreti covati per anni che vengono alla luce come fantasmi usciti dalle tombe. Il vento del deserto non ha pietà per nessuno.

Lo strumento recuperativo della dialettica può confortare cuori deboli, per i forti è solo una metafora logica, un passaggio da un lato all’altro della stessa affermazione. Il verso contrario, negazione fittizia, prende il posto del verso diritto, affermazione fittizia. Tutto si gioca in un processo scandito da movimenti che non esistono se non proiettati nel muro della caverna del lago di sangue. L’essere riposa lontano dalle ferite e dalle sofferenze umane, volute e imposte da una cattiveria che persegue il raggiungimento dell’apparire e per questo apre la carne e ne fa assassinio e macello. Ma non è l’essere che uccide, solo la sua metafora vissuta come vita, dove la morte aveva da tempo preso dimora e non aspettava altro che una piccola spinta per salutare la sua presenza con una disarticolazione oggettuale. La vita così vissuta muore senza accorgersi di se stessa, cioè dell’essere che avrebbe potuto attingere se non avesse avuto paura di morire. Abbagnano rovescia spesso questi piani senza accorgersene e lo scambio è continuo oltre che inavvertito per il lettore poco critico. La dialettica ha in lui il compito di scalzare l’oggetto dal ruolo assegnatogli dal fare e di presentarlo con tensione o rapporto o progetto o trascendenza verso l’essere. Cosa impossibile. L’oggetto è adiacente alla quantità e qui vive e si modifica, qui è reso denso e sordo, privo dell’anelito che potrebbe avvertire verso la qualità se una coraggiosa coscienza diversa – quindi oggettivamente non più immersa nell’oggettualità – lo trascinasse nell’oltrepassamento. Questo movimento arrischiato non è una sorta di sdoppiamento, ma è come il respiro della qualità che tutti avvertiamo e che pochi si chiedono che vuol dire, che cosa vuole dirci?

Filosofi e non filosofi, di fronte al fare, siamo tutti piccoli uomini afflitti da paure maligne. Ognuno si difende come può, con i mezzi a portata di mano. Se poi qualcuno vuole ribellarsi a questa legge normalizzante, gli altri lo guardano come se fosse assalito dagli spiriti maligni. Attaccare l’apparato del fare, dichiarare guerra alla riduzione ad oggetto di tutto quello che ci circonda, cioè ad apparenza, è considerato segno di nevrastenia cronica da molti psicologi. Possedere se stessi ridotti ad oggetto è indicato come modello di guarigione, di salute ritrovata, di radicamento nell’essere – direbbe Abbagnano. Ma quale essere? È ancora una volta abbracciare e stringere a sé un’ombra mentre l’essere si allontana sempre di più. La ricerca dell’essere è una sorta di sradicamento, in pratica esattamente un movimento inverso a quello pronosticato da Abbagnano. Ogni difesa allontana dall’essere, ogni attacco al castello teutonico del fare avvicina. Certo ci vuole del discernimento nel prendere in considerazione la conoscenza impacchettata dal fare, ma non è proprio quello che si riscontra in Abbagnano. Eppure i mezzi tecnici non gli mancavano e nemmeno una certa quale ironia, più nell’eloquio che nello scrivere. Ma tutto questo si sbriciola davanti al compito di cui evidentemente si sentiva investito. Recuperare era la sua necessità storica, fare dell’esistenzialismo una filosofia positiva senza gettare un’occhiata a dove finiva per confluire questo sforzo di riassetto.

Gli indirizzi considerati nullisti dell’esistenzialismo erano non solo filosofie contrarie, teorie diverse dalla propria, ma erano pericoli per l’essere, considerando quest’ultimo una trascendenza attingibile dove radicare o stabilizzare la problematicità della vita quotidiana basata sul fare. Ecco che la tecnica metafisica è uno strumento per lottare alla frontiera contro i corsari del nulla, gli avventurieri dell’impossibile. Che poi questi filosofi – Sartre, Heidegger e Japsers – fossero parimenti lontani dalla qualità, questo è un altro problema. La loro lontananza era qualcosa che non poteva permettere radicamento alcuno, nessuna positività. Anzi, gettava il caos proprio nel fare, non lo faceva intravedere soltanto, come in dettaglio ho fatto in queste pagine e come confusamente facevo all’epoca difendendo il mio personalissimo modo di conoscere e gestire la conoscenza. Abbagnano reagiva a queste prospettive che gettavano il caos nel suo ordinatissimo mondo problematico. Svelava, a chi voleva ascoltarlo, i pericoli segreti di quelle altre metafisiche, lontane dalla sua, almeno così lui pensava. Ma non si accorgeva di stare conducendo una lotta fratricida. In fondo tutte le versioni dell’esistenzialismo si danno la mano nel fare ogni sforzo per restare legate soltanto all’apparenza. Non c’è una parte soverchiante sulle altre, forse sul piano tecnico ci sono differenze ma sulle proposte teoriche queste svaniscono nelle equivalenze e nei contorsionismi della metafisica. Vedere in Sartre un nullismo esasperato per le sue forti rappresentazioni delle equivalenze delle scelte non è altro che un approccio parziale, in fondo lo stesso andirivieni delle sue posizioni lascia intendere che anche lui vuole recuperare ma in modo diverso. L’essere è nulla. Se intende riferirsi al fare come apparire dell’essere, all’oggetto spacciato come unica realtà, l’espressione è ineccepibile. Ma le cose non stanno così. Non andare all’essere o non uscire dal niente si equivalgono come movimento, sono espressioni di tensioni acutissime ma solo nell’apparenza. Non ci sono crolli reali né recuperi reali, tutto è semplicemente rappresentato sul muro della caverna dei massacri.

Abbagnano non accetta questa rappresentazione negativa perché vuole mettere in scena la sua rappresentazione positiva. Sempre di pupari si tratta. Pupari che fanno la ninna alla gente, che non vogliono svegliarla, che vogliono al contrario consigliarla come sopportare la vita, più precisamente una sequenza produttiva amministrata con le sembianze apparenti della vita. Come valutare questo ruolo di pupari? Il modo più semplice sarebbe quello di lasciar perdere, di abbandonare all’oblio le pagine di questi recuperatori, Abbagnano in primo luogo. Non mi è sembrata la soluzione migliore. E poi, avevo una questione personale per chiudere i conti con Abbagnano, come se volessi chiudere i conti con una parte importante della mia giovinezza. Ho voluto invece legare i tanti elementi in una serie logica, contrapponendovi ogni volta quello che era stato messo da parte, cioè la qualità. Così sono risalito all’archetipo dell’“autenticità radicata nell’essere”, formula assurda, visto che l’essere rimane incontaminato e remoto, immanifesto. Nessuna di queste misure dialettiche è originale, ma non è nemmeno una copia delle tante modulazioni che da Aristotele ad Hegel riempiono la storia della filosofia. C’è un aspetto innovativo e c’è un aspetto performativo. Ogni salto dialettico che Abbagnano compie nel tentativo di recuperare la problematicità inserendola nel vivo della sua preoccupazione, è un ibrido tra archetipo e applicazione, a volte correndo il rischio di perdere la stessa capacità di convincimento che da queste operazioni è legittimo aspettarsi. Ogni salto è così proiettato al recupero, a volte affannoso, che è interessato a giustificare logicamente, in base alle regole conosciute della dialettica. Ogni volta l’arcaicità dell’archetipo fa sobbalzare il lettore provveduto – non è possibile che questi armamentari obsoleti vengano ancora impiegati – e ogni volta è lo scopo a prevalere coprendo con una patina di necessaria contemporaneità quello che generava il senso di distacco. C’è una sorta di miscuglio tra diacronia e sincronia, mai chiarito fino in fondo. Quello che si muoveva in questo regno di pupari è il fantasma del recupero. Nessun pericolo in effetti si profila all’orizzonte ma il filosofo è addestrato a combattere con le ombre, e sente a distanza la possibilità, per quanto remota sia, di un pericolo. Le singole possibilità sono un’immagine di pericolo, la problematicità di un’esistenza legata al fare pericolosa quanto attraversare una strada. Abbagnano non se ne cura e non accetta conforti per moribondi.

L’autenticità, di cui parla tanto, è apparenza e movimento di oggetti, coattamente amministrati nell’apparenza. È solo un concetto ricavato rovesciando la dispersione e la perdita. Di per sé potrebbe essere ma non è, cioè non è collocato nell’essere, non è qualità, ma è al contrario un oggetto prodotto dal fare, nell’ambito tecnico della metafisica, è una esperienza fattiva, quindi incompleta, quindi – a stretto rigore del termine – inautentica. L’esperienza diversa tende a completarsi nella qualità, ciò non è mai neanche accennato da Abbagnano, che anzi si preoccupa di radicare questa esperienza fittizia nel possesso fittizio di una fittizia trascendenza. Quello che dovrebbe gettare le basi per un passaggio a una forma non sistematica di esperienza vitale, è incapsulato in un’apparenza strettamente sistematica, catturato nel mondo del fare e così obbligato a tenersi in relazione con gli altri oggetti prodotti lontano dalla qualità.

L’apparenza ha molte somiglianze, gli oggetti hanno in fondo qualcosa in comune, siano essi teorie filosofiche o ghigliottine. Solo l’essere che da loro è sfuggito li differenzierebbe uno dall’altro, non più oggetti ma esperienze qualitative, rammemorazioni in cui l’oggetto rivive accanto a una illuminazione diversa, proveniente dalla qualità sperimentata nell’oltrepassamento. La vita non è più una separazione infinita e una infinita difesa contro i pericoli della parzialità, ingigantiti dalla paura. Diventa completa – anche se per la durata dell’agire – e poi vivificata dalla rammemorazione che riesce a parlare al destino. Adesso c’è una connessione che prima, nel fare, mancava, non c’è più l’inquietudine e l’assillo del possesso con tutte le conseguenti necessarie garanzie. Nella estrema condensazione fattiva l’oggettualizzazione produce l’identico, o quasi, le differenze non sono mai oggettive. Nell’esperienza qualitativa la completezza produce una vera e oggettiva differenza. Nella rammemorazione l’equilibrio tra essere e apparire – non la loro fusione, che produce il niente – elimina ogni necessaria individuazione oggettuale, ogni preoccupazione amministrata coattamente. L’apparenza è un continuo modificarsi, l’essere è un continuo completarsi. Ecco perché l’immagine che viene subito in mente riguardo all’essere è il caos. Solo il caos può per un attimo – o per sempre, se si va al di là del punto di non ritorno – dare completezza, cioè qualità. Nella qualità c’è un’esperienza diversa non un radicamento. Non c’è più neanche la problematicità fittizia del fare, non c’è neanche conoscenza accumulabile. Le tracce che si rinvengono nella rammemorazione sono residui di un’esperienza diversa non sono la qualità, aiutano a sconvolgere l’assetto coatto del fare e a prendere in considerazione in maniera diversa il futuro come destino, ma sono solo tracce, il movimento originale dell’oltrepassamento è stato di già lasciato alle spalle come l’essere sconosciuto che è stato vissuto, sia pure caoticamente, e da cui la vita della diversità come coscienza di sé risulta trasformata. Pur potendosi indicare una sorta di logica del tutto e subito, questa è sempre sui generis, non può considerarsi una continuazione della logica dell’a poco a poco. È di un altro universo che stiamo parlando, non conoscibile fino in fondo, dove anzi la conoscenza, man mano che si avanza, diventa una zavorra di cui occorre liberarsi. Tutta questa esperienza non travalica mai in una legge o in qualcosa di simile a una legge.

Abbagnano si accontenta del fare e pianta le sue tende nel campo trincerato della coazione. Qui parte da una apparenza problematica, produzione oggettuale come qualsiasi altra. Ora non può esserci vera problematicità nel fare perché nel fare non c’è niente di vero se non sotto la forma dimidiata del rispecchiamento tautologico. Pochi sanno che Stalin è stato un teorico e uno strenuo difensore di questa forma di verità. Ora, non essendoci problematicità nel fare non c’è bisogno di operare scelte perché queste sono sostanzialmente impossibili. Non potendo scegliere non si sceglie che in apparenza mentre si resta legati a un meccanismo che decide al nostro posto. Continuando su questo piano inclinato tutto è fittizio. Lo stesso recupero è apparente, in altri termini Abbagnano si difende da un pericolo che in effetti non esiste, è solo un’ombra proiettata nella caverna dei massacri.

Molti si potrebbero chiedere, ma questi massacri sono solo apparenti? Certo, anche la morte di milioni di uomini è apparenza se la vita di milioni di uomini, quegli stessi milioni massacrati, era solo apparenza. Ciò non toglie nulla alla consistenza del dolore e dello sfruttamento, alla fisicità corporea ridotta a oggetto e prodotta in serie. Non per questo la sofferenza è minore, anzi, al contrario, essa viene raddoppiata dall’inquietudine e dalla paura e, in fondo, dalla coscienza immediata che percepisce nebulosamente di stare sprecando la propria vita.

Abbagnano dissemina il suo lavoro di punti di riferimento dove ancorare le sue preoccupazioni. Queste permangono strumenti costanti, come se ogni singolo radicamento non lo soddisfacesse, come se cercasse un collegamento di radicamenti, una rete di ribaltamenti dialettici dove, singolarmente, ogni rischio è avanzato e poi ritirato nell’acquietamento della riduzione a oggetto. C’è una preoccupazione costante che riemerge e non vuole scomparire, può la problematicità attingere l’essere? La risposta è negativa, malgrado le etichette positive dell’esistenzialismo di Abbagnano. Perché diciamo questo? Perché in caso contrario non si spiegherebbe la ricerca continua del radicamento, una sorta di arché che dovrebbe fornire stabilità ma non la fornisce. Le stesse trovate dialettiche non sono né risolutive né dimostrative, servono solo a ribaltare i vari problemi, anzi le varie paure di sperdersi nella inautenticità. Il che sarebbe come dire di perdersi nell’apparenza. Ma se nulla è veramente mai uscito fuori dall’apparenza, come ci si può perdere in essa? La paura crea fantasmi e poi crea anche gli antidoti contro di essi.

L’insieme dei movimenti dialettici realizzato da Abbagnano non è un tutto unico, presupposto alle sue applicazioni, è invece immanente a queste, per cui ogni volta si ricomincia daccapo con risultati metodologicamente dubbi ma filosoficamente acquietanti. La storicità di questa ricompensa non esiste, Abbagnano la propone ogni volta ma, quale che sia il modulo recuperativo impiegato, alla fine essa sfugge per cui è più un segno che una vera e propria apparenza nel senso oggettuale. L’oggetto che ne viene fuori è così catturato in continui movimenti senza tregua il cui scopo originario è quello di tranquillizzare ma che non ottengono questo scopo rendendosi soltanto comprensibili a se stessi, movimenti di fantasmi inseriti nel contesto generale dell’apparire fattivo. Ciò rende intelligibile più il presente del ricercatore che quello della cosa ricercata. A tranquillizzarsi è proprio il filosofo che disattendendo all’evidenza la nega e la sostituisce col suo contrario dialettico. Qui non discuto la sua capacità di capire la realtà del suo tempo – né la contrappongo alla mia, per motivi evidenti acerba e presuntuosa – dico soltanto che non era questo l’oggetto che voleva produrre, quanto una muraglia cinese che difendesse dal rischio di annientamento la realtà che avrebbe dovuto prima capire e poi difendere. Alla fine, la necessità di difendere, alimentata da fantasmi di un pericolo forse inesistente, faceva velo alla capacità di capire.

Abbagnano è troppo professore di filosofia per immaginarsi nelle acque gelide della vita. Preferisce di più stare sulla riva a guardare facendo ipotesi e rovesciandole nel loro contrario. Questo è stato il suo limite. Non poteva essere diversamente. Così, per lui, la problematicità non è nella vita che un accidente, un segno di un difetto probabile, dovuto al fatto che l’uomo non è l’essere, ma vi aspira soltanto. C’è nella vita il segno rintracciabile di una instabilità originaria, dovuta alla natura dell’uomo e alla sua incapacità di scegliere la possibilità autentica. Dobbiamo quindi, egli pensa, noi filosofi, sorreggerlo in questa scelta in modo che lui individui il segno del problema, ne segua la traccia e pervenga a un radicamento che azzeri le possibilità di perdita. L’apparenza, di cui il mondo del fare è impregnato, è come una superficie su cui sono indicate tracce di percorsi per arrivare all’essere che non è nell’apparenza ma in un qualcosa di trascendente. Lo psicopompo di questo itinerario è il filosofo. Egli scava nell’oggetto e scende nel suo significato e ne individua i pericoli per l’essere. Contro questi pericoli lotta il filosofo.

Quello che Abbagnano non vuole vedere è che la bufera passa sopra la sua testa. Il mondo del fare ha problemi che non intaccano l’apparenza che permane, solo che alcuni di questi problemi, ad esempio l’assassinio, contrassegnano in modo particolarmente pernicioso il meccanismo che li produce. A produrre questi problemi è la vita e la natura dell’essere, il suo essere lupo per altri uomini più che angelo o semplicemente uomo. Questo miscuglio appare intricato e inestricabile nel fare coatto. L’originaria bestialità si unisce agli slanci della bontà, le regole si ribaltano in capricci, la novità in stucchevole convenienza. Tutto ciò è conflitto di oggetti senza qualità, penoso conflitto incapace di interrogare il destino. Il filosofo rimane attardato a sistemare le cose, a ridurre i pericoli, a conservare il patrimonio della conoscenza, così rifornendo il lago di sangue dove dilaga l’assassinio.

A parte i motivi personali, dei quali ho cercato di tenere conto il meno possibile in questo saggio, quello che mi ha spinto di più in questa impresa, che spero non vana, è stato il convincimento che se la filosofia di Abbagnano a suo tempo mi aveva detto qualcosa, anche oggi avrebbe potuto dirmi altrettanto, o forse di più. Devo ammettere che questo tentativo ha dato risultati grami. Ripercorrendo i suoi itinerari mi sono reso conto che quale sia stata all’epoca l’impressione che fecero su di me, alla lunga non hanno lasciato tracce sensibili. Questa ostinazione conservativa, che in lui solleva tanta polvere, mi è scivolata addosso come acqua fresca. Non era certo la completezza che il filosofo insegnava, non era la completezza che perseguiva. La strada indicata non l’ho mai seguita, era troppo asfissiante per me e per la macchina da guerra che avevo costruito nella mia testa. Avevo troppo coscienza di un me stesso per accettare un suggerimento di prudenza, un dettaglio di fortificazioni difensive. Quello che Abbagnano non poteva accettare – o forse capire – era la tensione verso la qualità, che in me all’epoca si concretizzava nella ricerca della conoscenza come lotta e prova del fuoco, non come semplice raccolta di strumenti in vista di uno scopo da raggiungere. Questa tensione mi rendeva, e mi rende, imprevedibile, anche quando sembro distante da me stesso.

È il coraggio che suggerisce il modo di dare alla realtà la sua dimensione completa, senza racchiuderla nell’oggetto da difendere e senza innalzare l’apparenza a essere che non è. Venendo a mancare tutto si raggrinza nella difensiva, dispiegandosi si allarga nell’oltrepassamento. Ma questi due movimenti antitetici non sono senza conseguenze su chi li compie. Racchiudendosi nel fare ci si racchiude nella propria miseria e si portano in sé i segni e i contrassegni della coazione, le tracce della catena. Oltrepassando, la qualità trascina con sé in un’avventura sconosciuta, trascina nell’essere, contrassegnando l’itinerario nella foresta con i segni caotici della libertà. Abbagnano non esce dall’apparenza e cerca di mimare la problematica e il rischio della qualità rimanendo nell’ambito quantitativo. Apparenza è la scelta che propone, apparenza tutto il resto. Non si può difendere qualcosa che non può mai correre pericolo alcuno. Così egli si inventa la condizione di possibile pericolo, mette in scena la perdita, realizza il recupero e la difesa. Queste in poche parole le sue mosse metafisiche, opportunamente disposte in modo dialettico.

A custodia di questa recita dell’apparenza Abbagnano pone i segni specifici del recupero. Sono parole simboliche e portanti una segnatura particolarmente forte. Di volta in volta abbiamo messo in evidenza le più ricorrenti e le più cariche di significato conservativo. Nel “possesso”, per esempio, non c’è soltanto la cattura di un oggetto ma, di più, c’è la reciproca appartenenza. Il possessore e il possesso si contrassegnano a vicenda, si scambiano garanzia e sicurezza. Il filosofo funge da intermediario tra chi possiede e la cosa posseduta, che bisogna difendere dal rischio che svanisca nella perdita. L’aspetto duplice del meccanismo dialettico consente al filosofo di sigillare i due lati di questo rapporto. Senza il ricorso alle parole che fissano una delimitazione di recupero e senza la dialettica del rovesciamento, il discorso di Abbagnano avrebbe lo stesso mantenuto il suo fondamento positivo? Non è facile rispondere. Forse no. Forse le sue ipotesi di rischio sarebbero rimaste aperte o, comunque, sarebbero rimaste ipotesi di possibilità dell’apparenza, denunce chiare dell’incompletezza, analisi degli effetti disastrosi della coazione fattiva. Ma Abbagnano ha ritenuto suo compito essenziale ancorare l’esistenzialismo positivo al sicuro, sviluppando, cancellando un’ampia iconografia del rischio riassorbita nella parallela iconografia della sicurezza.

Come dicevo, Abbagnano ha voluto caratterizzare in senso positivo il suo esistenzialismo, ma che cosa ha veramente inteso con tutto ciò? Si è forse rimandato senza volerlo a un fondamento scientifico? No di certo. Ad una tradizione salvifica o religiosa? Nemmeno questo. Tali riferimenti ci sono familiari, ma la discussione sulla “fede” lascia aperti parecchi interrogativi per avvicinarla a un Marcel. Vi resta lontana. Alla specificazione “positiva” egli assegna un titolo differente che caratterizza in modo tutto suo l’oggetto in questione. Il riferimento lega la sua filosofia al suo modo di concepire la vita, alla sua esistenza. La prima potrebbe rimanere incomprensibile se quella segnatura non la timbrasse in modo particolare. Non è una filosofia positiva, è una filosofia che descrive come rendere positiva l’esistenza, in altri termini, come tenerla lontana dai pericoli. Gli spazi della coesistenza non cancellano ma sottolineano il pericolo che questa esistenza, salvata così dalla perdita, cada nell’anonimato di una falsa autenticità. Allo stesso modo i mezzi tecnici con cui questa salvaguardia si realizza non sono altro che ulteriori oggetti accumulati per realizzare un oggetto ulteriore, la positività. Ma questo accumulo, nella prospettiva del pericolo, ha l’aria di un reticolo che si fonda soltanto sull’autorità di chi lo intesse, il filosofo, non su di una pretesa oggettività che non esiste.

Di volta in volta, il recupero di una singola proposta di pericolo – non di un pericolo vero di perdita, che non è mai seriamente delineato – si accartoccia su se stesso nella pretesa dialettica di acquietare sigillando. Ma non si tratta che di parole disposte secondo uno schema conosciuto che coprono come un velo pudico nudità inesistenti. Non c’è quindi, come Abbagnano lascia intendere, un rapporto semiotico tra proposta di pericolo e sistema di recupero, c’è il fatto che insistendo su questa relazione, senza mai che in effetti essa venga alla luce, la si sposta in un ambito produttivo e si fabbrica un oggetto che viene poi inserito in una rete oggettuale di altri oggetti pragmaticamente dotati del significato fornito loro dal meccanismo complessivo del fare coatto. La positività non è quindi nell’impiego dei mezzi dialettici di recupero e, meno che mai, nel modo a volte ambiguo in cui si propongono i pericoli da cui fuggire, ma risulta spostata altrove, in una sfera che indica al fruitore come utilizzare l’esistenzialismo positivo e come considerare il suo autore in quest’ambito di partecipazione rassicurante.

La positività di cui Abbagnano vuole gratificare il suo esistenzialismo non è quindi una caratteristica di quest’ultimo ma una giustapposizione che esprime il comportamento tenuto dal filosofo nel recuperare i pericoli presupposti ma non comprovati come veramente attinenti alla problematicità della scelta autentica. La scelta è assegnata all’esistenza, ma non è precisato che essa è in sostanza inaccessibile come scelta che potrebbe sconvolgere l’assetto del fare. L’unica scelta del genere sarebbe quella tra quantità e qualità, ma Abbagnano non ne fa mai cenno. Usa un incredibile termine che dovrebbe sostituire la qualità, “autenticità”, termine notarile che rimanda alle procedure amministrative del fare, dove radicandosi si ottiene una qualche certezza di fronte al futuro, una garanzia per i nostri possessi. In definitiva la positività è solo un rimedio non una caratteristica dell’esistenza e della riflessione di Abbagnano sull’esistenza, e questo rimedio funziona grazie alle tecniche metafisiche di cui abbiamo parlato.

Togliendo questo rimedio, l’esistenzialismo di Abbagnano funzionerebbe lo stesso, ma come proposta aperta, dove si potrebbero inserire ipotesi di sviluppo critiche nei riguardi di qualsiasi tipo di radicamento. Ma le varie aperture in questo modo realizzate dovrebbero essere scelte concrete non apparenti, dovrebbero singolarmente indicare la possibilità di un oltrepassamento, esattamente il contrario di un radicamento. I punti morti della fedeltà sarebbero così ricondotti in dubbio o verrebbero privati di senso, resterebbero muti e senza ragione di indicare una direzione logica. La conoscenza adesso concorrerebbe a determinare queste scelte reali, non più apparenti, comprendenti ciascuna l’indicazione segnata a fuoco del rischio vero che si corre, del rischio che per essere corso occorre che venga affrontato con coraggio. Molte potrebbero essere le ipotesi da fare in questa eventualità, possibile ma assente in Abbagnano, e nessuna riconducibile a un recupero. Con questa segnatura sulle scelte l’esistenzialismo si poteva avviare ad altre conclusioni, non necessariamente nulliste, privandosi beninteso dei salti dialettici di cui Abbagnano è tanto generoso.

Il processo di recupero, al cui servizio Abbagnano si mette, ha il suo punto di riscontro nel meccanismo dialettico che abbiamo tante volte ricordato. Non è poco importante tenere presente adesso che il movimento di affermazione e negazione è in sé inerte e muto, per cui per realizzare il recupero deve essere animato da un programma di pericolo fatto balenare ma non realizzato fino in fondo. Il segno di pericolo è l’affermazione e si colloca in genere in una tensione oggettualizzata, cioè presentata come un oggetto. Il segno del recupero è la negazione, anch’essa oggetto ma non tensione, anzi qui la tensione è ridotta ai minimi termini, proprio nel radicamento. Queste figure irreali, perfettamente a loro agio nella metafisica e nell’apparenza fattiva, si prestano reciprocamente realtà, come accade a delle ombre che si calpestano a vicenda senza per questo farsi male. Di per sé questi procedimenti dialettici hanno fatto il loro tempo ma potrebbero avere una qualche credibilità se servissero realmente a recuperare di fronte a un pericolo vero. Dopotutto, per un conservatore, il recupero è il suo pane quotidiano, ma qui non c’è nulla da recuperare perché il pericolo è solo immaginario, per cui il meccanismo fa il suo lavoro ma stride a vuoto. Arrotola continuamente un oggetto che ha ben altre conseguenze – prima di tutto l’incompletezza e poi la parzialità arroccata in se stessa – non certo il pericolo o il rischio indicati da Abbagnano.

Non c’è dubbio che Abbagnano si è reso conto di adoperare un recupero fuori luogo, come si vede da certe perdite di coesione riguardo alla scienza e alla coesistenza nel mondo, per non parlare delle affermazioni sulla tecnica. Evidentemente il suo scopo era irreale, non aveva in mente pericoli concreti, per lui silenziosi come la sua stanza da lavoro, ma pericoli filosofici, cedimenti e perdite teoriche, così come le scelte non erano scelte della vita ma di una interpretazione della vita di cui tanto si cura la filosofia. Ecco perché predispone artificiosamente, e senza curarsi troppo dei particolari, un recupero dialettico ormai fuori della filosofia, proprio perché sa che bastava quello per fermare una valanga immaginaria e rivolgersi – a cuor contento e a compito assolto – al meccanismo del fare sollecitando una controprova che confermasse che tutto è tornato al suo posto nella caverna dei massacri.

L’esistenzialismo positivo non coincide con il segno che Abbagnano ha scelto per lui, diciamo con l’etichetta. Ciò è comune, neanche l’esistenzialismo nullista usa un’etichetta adeguata, ma l’intelligibilità positiva è più arrischiata in quanto coinvolge in un processo a ritroso, svuotando di senso l’oggetto, non solo l’ipotesi di rapporto con l’essere ma anche le giustificazioni di recupero. La conoscenza di questo meccanismo inaffidabile imprime a sua volta nel fruitore l’idea che solo il suono vuoto del termine ha una funzione rappacificante, e che questa vuotaggine funziona bene essendosi i contendenti rappacificati da canto loro bene per tempo. La scelta è priva di rischio nella vita perché è veramente priva di qualità. Nel suo proporsi come realtà di quantità, e soltanto di questo, non può che avere l’alea limitata e innocua di una maggiore o minore quantificazione. L’aggirarsi nel dedalo fattivo ha bisogno di queste marcature di riferimento, fantasmi messi a indicare svolte fittizie in un percorso di fantasmi, e i filosofi, nel loro sonno dogmatico, sono lì proprio per fornire questi pupazzi di cartapesta. Tutto il mondo del fare è un’apparenza che si profila e si mantiene visibile, senza scomparire del tutto, grazie a una continua manutenzione che trapassa dalla produzione alla spiegazione e viceversa. All’interno dell’oggetto non c’è l’essere, non c’è un ipotetico mondo spirituale, non c’è niente se non il panico della mancanza, l’inquietudine dell’incompletezza. Il linguaggio naturale dell’oggetto è l’aggiunta, e la vita fatta di aggiunte e conservazioni, è un oggetto neanche tanto bello. Ma il fondamento di questo oggetto, perduto nella continua ripetitività della coazione, sta altrove, nella qualità, cioè nell’essere suo che gli è stato sottratto dalla cupidigia e dalla paura che alitano sul mondo.

Le parole, di cui si pasce il filosofo, non sono in grado di dire la qualità. Neanche come rammemorazione, per quanto in questo caso possono arricchire l’oggetto fin quasi a completarlo e parlare al destino strappandolo alla sua banalità di avvenire. Sono solo in grado di attendere alla manutenzione del meccanismo coatto al cui interno l’oggetto si dibatte nella sua incompletezza. La parola è quindi strumento efficace e modello della quantità non della qualità. Io posso parlare di pericolo ma dirlo non fa sorgere per questo il pericolo vero e proprio, posso parlare di coraggio, ma non c’è coraggio nella parola. L’azione è al di là delle parole, anche di quelle che eventualmente sono chiamate a rammemorarla. Eppure un segno la parola lo incide nell’oggetto e, insistendo, può provocare una sorta di sommovimento conoscitivo, cioè l’apprestamento e la selezione di strumenti adeguati all’oltrepassamento. L’operare dell’azione è diverso dal fare oppressivo e controllato, quindi non può consentire che la parola lo copra e lo giustifichi allo stesso modo di quest’ultimo. Se ciò accadesse si conferirebbe alla parola la forza del coinvolgimento attivo che è opera della coscienza diversa, sarebbe una sorta di iniziazione malinconicamente oggettiva, un esorcismo. Non ho bisogno di parole per agire ma solo per rammemorare la mia azione, e queste parole, in questo caso, hanno una carica particolare e sconvolgono l’assetto coatto dell’oggetto – dentro certi limiti – ma non hanno partecipato allo scatenamento dell’azione.

Allo stesso modo in cui pensavo mezzo secolo fa, anche oggi penso che la filosofia, conoscenza fra le conoscenze, non può essere solo usata per l’alimentazione dei massacri, per come accade nel suo impiego corrente, ma anche per rendere possibile l’oltrepassamento. C’è nella parola che guarda alle grandi domande della vita un mistero non ancora risolto, nemmeno dalle tante analisi ermeneutiche, e questo mistero è legato alla messa in atto dell’azione. C’è un rapporto tra l’agire e la conoscenza? C’è ma non è facile dirlo. Si può accerchiare il fare e costringerlo a retrocedere nella semplice roccaforte dell’oggetto, ma alla fine bisogna mettere da parte la parola e gettarsi nella mischia. Se ciò non avviene, il segno della parola è non solo sprecato ma anche funzionale al recupero. Non c’è garanzia alcuna con le parole, e la filosofia che le usa lo sa bene, solo che spesso le storce secondo i propri fini che sono sempre quelli dell’assassinio. Tornando all’esistenzialismo positivo di Abbagnano e all’uso di questa parola mi sono sempre chiesto quale sarebbe stato il risultato di un più conseguente uso del termine “fattivo”. Il sostegno fornito alla parola “positivo” era di natura metafisica, aprendo il campo all’intervento correttivo degli ipotetici rischi, come ho detto inesistenti. La parola “positivo” non avrebbe fornito nessun sostegno metafisico, ma avrebbe innestato apertamente la sua riflessione filosofica nel fare coatto, nella produzione di oggetti, una preventiva dichiarazione di modestia che certo non avrebbe fatto male alla sua credibilità filosofica, volendo distinguersi dal dilagante esistenzialismo nullista.

Eppure il ricorso alla parola “positivo” ha un suo fondamento logico che non può essere taciuto. Abbagnano non lo ha mai precisato fino in fondo, ma questo è normale essendo i filosofi spesso i meno indicati a capire la propria filosofia. Questa parola significa in partenza, prima della prospettazione del rischio, la progettualità limitativa del recupero, di per sé non conferisce nulla di concreto alle scelte di cui l’esistenzialismo in generale si fa portatore, ma il concetto di recupero viene messo in risalto e quindi, per la proprietà commutativa della dialettica, anche il concetto di pericolo e di smarrimento. Tale parola istituisce una condizione propizia per fare muovere due fantasmi impegnati in uno scontro del tutto apparente, lo smarrimento e il recupero.

Limitatamente al fare, regno di fantasmi, debbo riconoscere alla parola di cui discuto qui, una certa efficacia, come è efficace una figura retorica ben articolata o uno scritto ben riuscito a paragone di uno sciatto e spiacevole alla lettura. Non posso dire che sono questioni poco importanti, solo che riguardano alla lontana, oppure per niente, la filosofia di Abbagnano e la sua pretesa di salvare l’uomo e la sua esistenza dai pericoli dello smarrimento e della perdita nel niente. Penso che Abbagnano abbia fatto un ragionamento abbastanza vicino al seguente. La parola “positivo” non produce effetti recuperativi in modo diretto ma prepara, grazie al meccanismo dialettico, il processo recuperativo e quindi, in questo modo, ha una sua efficacia. In altri termini, “positivo” è un segno che nello stesso tempo etichetta e prepara, ovviamente permanendo nell’apparenza del fare coatto. La preparazione può però restare occulta se non si mette in moto il processo di capovolgimento dialettico e quindi l’operazione concreta di recupero.

Tutta l’opera di Abbagnano tende alla conservazione. In essa l’esistenza rimane una sorta di habitus da non mettere alla prova se non in astratto, cioè nella scelta che non è scelta. Questa attitudine conservativa produce e accumula nell’esistenza una potenza che tiene lontano dai pericoli semplicemente perché essa ha un carattere positivo, cioè è ordinata al radicamento nella tensione trascendentale. Il carattere positivo dell’esistenza è nell’essere, e quanto più è in questo radicato, tanto più il segno di questa positività è nell’esistenza impresso profondamente. Qui c’è un doppio equivoco, il primo colloca l’essere nell’apparenza del fare, il secondo riconduce il carattere della positività alla conservazione. Conclusione paradossale che si preoccupa di fissare con precisione correlazioni forse inesistenti in Abbagnano. Alla fine, seguendo il filo del segno, stiamo seguendo quello che esiste solo nel mondo da noi immaginato, non in Abbagnano. Giusta punizione di chi si ostina a frequentare metafisici.

Non avendo quindi che cosa controbilanciare con il suo radicamento, nessun pericolo da scongiurare, Abbagnano crea nella sua filosofia un superamento – non un oltrepassamento – dialettico del tutto immaginario. Come tutti i sostenitori di qualcosa di astratto, in linea di principio egli è ancora più radicale di quanto sarebbe stato necessario di fronte a pericoli concreti. Le sue intenzioni recuperatrici sono ancora più conservative. Nella realizzazione della difesa c’è più deputazione al pericolo di quanto ce n’è nell’indicazione del pericolo stesso. Trattandosi di un movimento di fantasmi che agiscono nell’ambito dell’apparenza, la cosa ha il suo effetto. Il pericolo è intravisto dal fruitore non nell’indicazione della scelta ma nel radicamento di difesa. Che senso avrebbe apprestare difese senza una direzione precisa da cui si avverte il pericolo? E Abbagnano questo pericolo lo mette sempre prima del provvedimento conservativo. Dal ristretto ambito metafisico la relazione invertita di capovolgimento ha considerevole potenza dimostrativa ed è questa che fa risaltare l’inesistente pericolo come se fosse veramente davanti al lettore. La scelta rimane impossibile, l’ambito del fare rimane sigillato nel modo consueto, ma la conservazione è attivata e produce i suoi effetti. Come dire che il pericolo non è un movimento reale dell’esistenza, non la mette in gioco, ma la conservazione designata nel procedimento dialettico lo fa venire alla luce come una segnatura impressa sull’oggetto stesso che in questo modo è pericolosamente innocuo. Attraverso il filosofo, il fruitore vive come in sogno una condizione di pericolo, viene messo a rischio – fittiziamente – e viene tratto fuori e radicato nella conservazione.

Quello che stiamo sottolinenando in Abbagnano vale per qualunque filosofo. Esattamente, nella teoria che sviluppa il filosofo – in Abbagnano la cosa è solo più evidente a causa del suo conservatorismo ad oltranza –, viene istituita una relazione di segno opposto rispetto alla realtà, per cui il semplice fatto di dirla questa realtà è assimilata alla teoria. Questo è il modo in cui produce oggetti la filosofia, e questo produrre è sempre indirizzato verso la caverna dei massacri. Sganciata da ogni impegno di corrispondenza con l’organizzazione produttiva, la filosofia affonda le sue radici in conseguenze imprevedibili, nel suo passato come nel suo futuro. Con tutti i suoi elevati sentimenti lavora sempre per alimentare l’assassinio, ma non è un qualsiasi meccanismo produttivo, o almeno non funziona come tutti gli altri meccanismi del fare coatto. Ecco perché può dare vita a oggetti che pur restando tali – come i meccanismi dialettici – entrano nel mercato in altro modo e vengono usufruiti in maniera differente. Non creano una coscienza diversa, questo non possono farlo, non si fabbrica una coscienza diversa, ma affascinano con una rete di correlazioni che il fondamento rigido di controllo stenta a mantenere nei limiti prefissati dalla coscienza logica basata sull’a poco a poco. Le figure che vengono fuori alimentano un vasto mondo immaginario che si estende con ampi confini dilagando parallelo al fare e rispettando le regole di quest’ultimo ma a modo suo. C’è sempre nell’oggetto filosofico la presenza impalpabile di un compagno segreto, soltanto immaginato dal fruitore ma alimentato dall’abilità del filosofo, e questa cifra nascosta fa le veci, molte volte, di una immaginazione sempre apparente dell’essere, e consola e aiuta, copre e si muove accortamente complice per garantire il rifornimento sotterraneo dei massacri.

Le giustificazioni dei filosofi sono per questo enigmatiche, e ciò anche quando sembrano dirette e chiare, animate da ferrea logica deduttiva. Non hanno come fondamento gli oggetti del fare per come sono nella produzione coatta, ma per come appaiono nell’immaginazione del filosofo, in questo molto vicino a ciò che accade nella poesia o nella letteratura e più vicino ancora a ciò che accade nella musica o nelle arti figurative. Le immagini filosofiche non rispecchiano la realtà e non sono duplicati degli oggetti, pur essendo oggetti anche loro, ma sono operazioni immaginarie raccolte e concentrate su di un problema che è esso sì un oggetto non filosofico. È questo problema, ad esempio l’esistenza per Abbagnano, che contrassegna una filosofia e che costituisce quello che fornisce il contenuto o il significato o, se si preferisce, la radice dell’immaginazione filosofica. L’influsso della riflessione filosofica e della conseguente sua immagine sull’oggetto della produzione coatta costituisce la traccia che la filosofia, grazie al proprio significare, imprime sull’oggetto in modo da renderlo un’apparenza più adeguata alla funzione a cui è destinato. Questo legame, o impressione o marchio, è il modo in cui la filosofia segna la realtà e il mondo coatto che tutti ci imprigiona, coprendolo con una coltre di verosimiglianza che tiene lontana ogni velleità di oltrepassamento. La positiva posizione di Abbagnano, con le sue preoccupazioni conservative, è molto rappresentativa di questo modo di lavorare del filosofo. In questa impressione si legge più di quello che il filosofo ha scritto, e che qui abbiamo seguito passo passo, e indica una zona di indecidibilità, un luogo ricco di sorprese immanifeste per chi ha la voglia e il coraggio di sollevare il velo di Maya.

Fra i tanti sentieri nascosti nella foresta che si indirizzano improvvisamente verso la qualità, senza con questo accampare privilegio alcuno, c’è questo dell’immaginazione filosofica. Di per sé, racchiusa nella logica dell’a poco a poco, questa forza immaginativa finisce per coprire l’oggetto coatto e condurlo verso la caverna dei massacri. Eppure, in modo inconsueto, può distogliersi da questo suo compito istituzionale e trovarsi proiettata altrove, verso il coinvolgimento nella qualità. Purtroppo non è il caso di Abbagnano e me ne dolgo per me non per lui.

Non posso dire che all’epoca riuscissi a cogliere fino in fondo questa intenzione, cioè di come l’immagine filosofica potesse prendere una impensabile strada diversa. Col tempo però, e adesso, in questi durissimi giorni della tarda sera della mia vita, mi rendo conto che un vero e proprio suggerimento mi è venuto da quella stessa ottusità conservativa che mi stava davanti. Forse per una virtù di contrasto, come appartiene al mio carattere, quando mi trovo davanti all’assolutamente ottuso sento in me le migliori intuizioni, il respiro farsi più largo e le speranze alzarsi in volo. Come un fiore della terra più arida e ostile, gracile sulle prime e poi sempre più robusto e sicuro di sé, è proprio qui che è nata l’idea dell’oltrepassamento. L’esperienza della qualità era ancora di là da venire, per il momento stavo solo inoltrandomi nella foresta.


Finito nel carcere di Korydallos (Atene) il 21 marzo 2010

 
 

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