Titolo: La corrida
Note: Opuscoli provvisori N. 84
Prima edizione: agosto 2015
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    Nota introduttiva

    La corrida

      I

      II

      III

      IV

      V

      VI

      VII

      VIII

      IX

      X

      XI

      XII

      XIII

      XIV

      XV

      XVI

      XVII

      XVIII

      XIX

    Demolire l’autorità

Nota introduttiva

Queste bellissime pagine di Cœurderoy non sono un contributo “animalista”, sarebbe riduttivo leggerle in quest’ottica. Sono un commovente e grandioso appello contro l’indegnità dell’uomo, contro le sue atrocità, contro le sue miserie, contro il piacere abietto che prova nell’infliggere dolori e sofferenze.

Toglierle dal luogo dove stavano, I giorni dell’esilio, è stata forse una forzatura editoriale, ma non me ne dolgo.

Io stesso, di certo non indulgente verso i parzialismi di qualsiasi genere, e quindi anche nei riguardi dell’ottica miope dell’animalismo, mi sono commosso tutte le volte che ho letto queste pagine.

E non mi capita spesso.


Trieste, 18 maggio 2014

Alfredo M. Bonanno

* * * * *

Il dolore è limitazione dell’esserci, è parziale annientamento; dietro ogni dolore c’è la morte.

Karl Jaspers

* * * * *

La corrida

Madrid, luglio 1853

Gli animali, secondo la corrispondenza, significano le affezioni, gli animali utili, le affezioni buone.

Emanuel Swedenborg

I

Il genio di un popolo si può osservare soltanto nelle grandi manifestazioni della sua vita pubblica. In Francia bisogna vedere una rivoluzione; in Svizzera una festa civica; in Inghilterra una corsa col sacco; in Italia i musei e i teatri pieni di folla; in Spagna la corrida de toros.

Mentre l’uomo si spoglia facilmente del proprio carattere davanti alle esigenze del progresso, la nazione resiste molto di più. Ogni sua festa si collega con profonde radici alle sue tradizioni e alla sue tendenze. Appartenendo a tutti, le solennità nazionali non sono proprietà di una persona precisa; solo il tempo può farne giustizia quando esse sono cadute in disuso. Da ciò deriva che molto tempo dopo che gli usi della vita quotidiana sono stati cancellati, le lingue modificate e i costumi trasformati, le feste del popolo si conservano ancora, come una testimonianza che la storia può consultare e come un culto che la presente generazione accorda a quelle che l’hanno preceduta.

È ciò che accade per la Spagna, trascinata da qualche tempo, a tutta velocità, sulla china rapida della civilizzazione. Mentre il vento della rivoluzione spazza senza pietà i suoi costumi, la sua lingua, le sue abitudini, i suoi canti e le sue danze, le feste tauromatiche invece si conservano ancora molto brillanti.

In effetti, tutto il carattere spagnolo si trova là. La corrida è il più grande godimento, mille volte più preziosa al cuore del popolo di tutte le preoccupazioni politiche che esso disdegna, dei balli, del teatro e delle preoccupazioni religiose che si pongono appena al secondo posto nelle sue più care distrazioni.

Per assistervi l’operaio non mangia un’intera giornata, vende i suoi abiti, fa digiunare la famiglia, dimentica tutto. La più feroce virtù non sa resistere all’attrazione di un biglietto offerto gratuitamente. Il più vecchio vi si fa portare e la madre vi conduce i bambini dal momento che si reggono in piedi. Quel giorno non ci sono interessi, affari, amicizia o piaceri che tengono; per quattro ore secondo quanto dura la funzione, sembra che il cuore della capitale si ritiri dal suo centro per andare a battere con tutta la sua forza in un’arena all’estremità dei sobborghi.

Il vero re di questo paese è l’uomo che sa meglio di tutti affondare la lunga spada tra le spalle della bestia; il vero trono è il cadavere di un toro. Ai matador famosi, a Montes, Cuchares e Chiclanero vanno le simpatie del pubblico, i favori dell’opinione, i sentimenti più teneri, omaggi reali e nomi che i posteri ripeteranno quando avranno perduto la memoria di tutti gli altri.

Sono convinto che il mezzo più sicuro per sollevare una rivoluzione in Spagna sia quello di proibire le corride dei tori. Questo popolo sopporterà tutto: la miseria, la fame, il colera, sette anni di guerra civile atroce, commozioni e prove senza fine. Ma disgrazia al governo che porterà la mano sui piaceri e il lusso che sono l’anima della sua vita!

Bisogna comunque convenire, per quanto si possa essere avversari di questi divertimenti sanguinari, che nessun altro spettacolo al mondo può dare un’idea della magnificenza di una corrida di tori nella molto eroica capitale di tutte le Spagne; nessun’altra cosa può fare nascere nell’anima umana emozioni più forti, più terribili. Il grande genio di Shakespeare non riuscirebbe ad immaginare un dramma più complicato.

II

Ascoltate e vedete! Le trombette suonano. L’eccellentissimo ayuntamiento occupa, nel mezzo dell’arena una tribuna riservata che espone i colori spagnoli, oro e porpora. L’arena è immensa. Glorioso Anfitrione delle feste del mezzogiorno, il sole scintilla sugli anfiteatri che rigurgitano di spettatori. Nemmeno un posto vuoto, nemmeno una faccia triste. Che lusso! Che profusione di colori brillanti sui vestiti della festa! Che parasoli e ventagli graziosamente mossi! Quanti frutti d’oro nelle mani dei fanciulli! Quanta seta, quanti diamanti, quanto bianco e scarlatto!

È un’impazienza, un delirio, un entusiasmo, un tuono di esclamazioni brucianti, una gioia, una follia che non si trova in nessun altro posto; è la frenesia. La febbre percorre questo recinto più rapidamente della scossa elettrica. Chi potrebbe raccontare le conversazioni, i proverbi, i frizzi lanciati a caso, a proposito di tutti i dettagli seri o insignificanti di questo dramma?

Per tentarlo bisognerebbe sentirsi animati da una certa verve castigliana così piena di ironia e ben centrata; bisognerebbe possedere una scienza tauromachica. Soprattutto bisognerebbe essere iniziati a tutti i segreti di questa lingua così espressiva, così elegante, così ricca, così soffice e musicale che sembra non se ne possano parlare altre una volta che la si è sentita risuonare tra i denti bianchi delle ragazze di Madrid. Bisognerebbe vivere, sentire, amare come questo popolo fiero, nello stesso tempo il più sobrio e il più artistico di tutti quelli che l’Europa nutre nel suo seno fecondo.

Lascio agli scrittori dominati da un ristretto amor proprio nazionale di risollevare l’oziosa ed eterna discussione che dovrebbe decidere della superiorità della Spagna o della Francia. Queste rivalità hanno fatto il loro tempo, esse sono per lo meno ridicole nel mezzo alle nazioni che cercano di unirsi. Non hanno più interesse oggi che i costumi e le lingue si confondono, che gli uomini corrispondono da un capo all’altro del mondo, grazie alle scoperte del secolo, alle incessanti relazioni commerciali e industriali, al gran numero e alla rapidità delle vie di trasporto.

Per me, gitano del socialismo, figlio della Francia per nascita, ma figlio dell’umanità per gli atti, io penso che non vi sia popolo superiore, inferiore o eguale ad un altro; ma che tutti sono differenti e che l’armonia dell’insieme risulta dalle diversità. Se esistesse una nazione che non fosse diversa dalle sue sorelle, essa non avrebbe né genio né ragione di esistere; sarebbe inutile e condannata, perché i popoli inutili non vivono.

Oh! per il coraggio, lo spirito, le arti e l’amore è una grande patria questa terra di fuoco dove combatté il Cid, dove Cervantes pensò, dove dipinse Murillo, dove Byron concepì l’idea del più immortale dei suoi poemi! Che i suoi figli ne siano fieri, essi non hanno nulla da invidiare agli altri!

III

Ma perché tutta questa pompa? Perché la calle d’Alcala rigurgita di folla, di militari, di cavalieri e di vetture, come nei giorni della rivoluzione? Perché questo apparato da grandi cerimonie?

Involontariamente lo spirito si riporta a quei tornei medievali dove la lancia si spezzava contro la lancia, dove il nobile cavaliere cercava tra le grandi dame la bellezza che portava i suoi colori. Oppure il pensiero vola ad uno di quegli scontri a singolar tenzone in cui dio pronunciava il proprio giudizio tra due illustri campioni.

Purtroppo! nulla di tutto questo; si tratta soltanto di un compito da mattatoio. In questa lotta, una decina di macellai ammazzeranno un povero animale, e dio sarà dal lato dei colpevoli. Quanto a questi piccoli borghesi vestiti da castellani, essi vi apparterrebbero, come tanti altri, se potreste pagarli. Qui il ruolo migliore è quello del bruto: tutti gli esseri umani riuniti in questo recinto sono più feroci del toro che sta per morire.

IV

La fanfara scoppia di nuovo. Due alguaziles vestiti di nero si avanzano sopra dei corsieri d’Andalusia, si scoprono e s’inchinano davanti ai membri della municipalità. Che cosa chiedono? Il permesso d’introdurre nell’arena la laida Morte di cui portano i colori.

Come una muta di cani senza museruola al seguito degli alguaziles, sfila la banda sanguinaria. Questi uomini sono vestiti con i più ricchi costumi spagnoli, alcuni portano su di se più di duemila franchi di seta, di velluto, di pagliuzze d’oro e di argento.

Ecco i matador pieni di sangue freddo, i banderilleros agili, i picadores sopra ronzini scheletrici e veloci come il lampo. Ecco le mule con le stoffe fluttuanti e le loro mille bubbole risuonanti. Poi vengono i conduttori che si sforzano di trattenerle e infine la massa dei toreri confusi con i mastini avidi di sangue. – Tutti hanno premura e bruciano della voglia di ammazzare.

Infine le chiavi del toril sono date agli alguaziles; tutte le formalità legali sono compiute perché l’uomo possa in tutta coscienza cominciare ad uccidere. I torero si disperdono nell’arena, agitando pezzi di stoffa scarlatta, speronando i cavalli, aspettando il nemico.

V

Una porta si apre. Eccolo! Eccolo! È il toro. In un salto l’animale è nel mezzo dell’arena...

Mille grida l’accolgono: “Com’è grande! Com’è forte! Com’è bella la sua pelle! Un buon toro! Un toro da battaglia!”. – Si ripete il suo nome e il nome dell’allevatore e quello degli animali della stessa razza che si difesero validamente. – Gli si mostra il pugno, lo si arringa, lo si fischia, lo si provoca: voci di odio e di morte lo perseguono. In questa folla immensa non c’è una donna né un bambino che verserebbero una lagrima per salvare la vita della povera bestia, che volontariamente si priverebbero dello spettacolo della sua morte.

L’animale si è fermato. Si meraviglia, abituato com’è a correre libero nelle praterie, di trovarsi solo in mezzo a tanti uomini riuniti in uno spazio così stretto. Ascolta confuso tutti quei rumori; aspira l’aria carica di elettricità, di caldo e profumi; le sue orecchie si drizzano, le sue narici sono apertissime, si batte i fianchi con la coda.

E poi, a poco a poco, si irrita a causa di tutte quelle esclamazioni furiose, di quei colori sgargianti e del suono straziante degli strumenti di rame. Freme sui suoi forti garretti, gli occhi rossi di sangue fa volare la polvere con gli zoccoli anteriori.

Attenzione, attenzione! Infelice chi attaccherà!

Perché fuggite toreri avidi di diventare famosi? Perché saltate dietro la barriera e non lo aspettate? Adesso sarebbe glorioso farlo inginocchiare davanti al vostro valore.

Il nobile animale è degno di voi. Chiedete ai rudi pastori che lo custodivano sui bordi della Guadiana se indietreggiava davanti all’uomo; domandate se è vigliacco, se mai rivale poté avvicinarsi alla sua bianca innamorata.

Essi non l’attaccano. Davanti ai suoi piedi biforcuti spiegano qualche stoffa brillante per eccitarlo e sapere quello che vuole fare. Come uno sciame di mosche multicolore essi turbinano attorno all’animale, lo pressano da ogni lato, lo punzecchiano davanti e di dietro avanzano, rinculano e fuggono quando si sentono minacciati.

VI

Nel frattempo il picador ha bendato gli occhi del proprio cavallo e lo sperona senza tregua per portarlo di fronte al toro.

Ahora! Ahora! L’animale rincula di un passo, si chiude in se stesso, si slancia sul gruppo vivente. Ma l’uomo è ben in sella e il legno della picca è molto solido. Il toro cede; ha sentito il ferro mordergli il collo.

Il primo sangue scorre. Furioso il toro balza sugli stracci che gli presentano. Uomini e bestie si animano fino alla rabbia.

Ahora! Ahora! Di nuovo gli avversari si scontrano, di nuovo l’animale si slancia sull’uomo, una seconda volta scorre il sangue. Ma la picca si spezza nella mano del cavaliere, uomo e cavallo sono sollevati con un colpo di corna e il toro fruga nella carne viva.

Tutti sono in piedi, tutti tendono il collo e aprono la bocca. Gli uomini applaudono; le donne giudicano opportuno lanciare grida strazianti. – Com’è bello, com’è sublime, questa è della vera emozione, abiti strappati, ferite e sventramenti! Senza dubbio morirà un uomo: non c’è una buona corrida senza che ciò accada.

Ma no! tutto si aggiusta. Il toro smette di colpire prima che le donne siano stanche di guardare. Il corsiero sfugge, galoppando sulle proprie budella, marcando il passaggio con una striscia di sangue. Il picador, bardato di ferro si è rimesso pesantemente sui suoi piedi; gli si conduce la sua cavalcatura, la farà andare fino alla morte.

Due volte, tre volte ancora il toro si slancia sui cavalli. Ogni volta è ferito, ogni volta affonda fino alla radice le sue corna nei loro fianchi: ogni volta l’arena risuona di clamori appassionati.

Qua e là, senza briglia, un cavallo si dibatte nelle convulsioni dell’agonia.

VII

Si aguzzano i ferri delle banderillas, si decorano con carte colorate, si immergono in polvere da sparo!

Ahora! Ahora! Questa volta sono gli uomini che corrono davanti al toro, che lo chiamano, e questo piomba su di loro, fuggendo gli affondano nel collo due dardi gemelli.

Il toro urla e si torce su se stesso scuotendo il ferro e il fuoco. L’impressione della sofferenza è penetrata fino al suo cuore, tutte le sue membra sono scosse; la schiuma esce dalle narici; salta in tutte le direzioni radendo con le corna i petti dei torero che passano veloci come frecce.

Chi dirà i suoi trasporti di furore e i suoi istinti di vendetta? Chi dirà le passioni assassine da cui è spinto?

“Che vogliono da me questi uomini? Che gli ho fatto, e perché mi straziano così? Che cosa ho in comune con loro? Quando finirà questo supplizio? – Che fare? Vendere a caro prezzo la mia vita, abbattermi sul gruppo più compatto e uccidere tutti al mio passaggio senza contare i nemici?”.

È quello che vuol fare il toro; lotterà fino a quando sarà abbattuto. Ma i suoi assalitori sono inafferrabili; quando li avvicina essi fuggono lasciandogli i loro dardi per ricordo.

Ansante, stanco, rantolante di dolore, irto di frecce e tutto coperto di sangue, il toro fa il giro della barriera, cercando di scuoterla con la testa o di saltarla d’un balzo.

Oh! gli uomini, i vigliacchi, dicono che gli animali non hanno un’anima! Ed eccoli che rispondono agli ultimi muggiti della bestia con lunghi scoppi di risa! Eccoli, più barbari delle fiere, che la respingono a colpi di bastone dal recinto dove si è rifugiata per morire!

De muerte! De muerte! Mai il toro è uscito vivo dalle arene spagnole. Qui credono che la pietà disonori.

VIII

Il tamburo rimbomba come un convoglio funebre. Un uomo si avanza davanti i magistrati. Nella sua mano sinistra tiene un pezzo di stoffa scarlatta tesa su di una lunga spada. Alza la mano destra per prestare questo spaventoso giuramento: “Io ucciderò questa bestia feroce per la regina Isabella II, o questa bestia feroce mi ucciderà: lo giuro davanti a dio!”.

Ma se il dio che tu prendi a testimonio fosse giusto, imbecille matador, tu moriresti!

Molti uomini vanteranno il coraggio e il sangue freddo di questo famoso macellaio, molte donne si appenderanno al suo collo taurino, molta gente celebrerà il suo facile trionfo. Io dico che il suo portamento e la sua faccia sono ignobili; dico che egli va a commettere un atto infame e che è altrettanto ributtante del carnefice.

Guardate piuttosto questa fronte bassa e stretta, questi zigomi sporgenti, questo cranio depresso e sfuggente, questi piccoli occhi infossati nelle orbite; guardate e ditemi se questa bestiale organizzazione potrebbe avere altro che sete di sangue, stupida vanità e istinti feroci.

L’atroce giuramento è prestato, il corregidor l’ha ricevuto, pieno di deferenza. Adesso l’espada è più di lui, più del re, più del vero carnefice, è tutto ciò che si rispetta sulla terra.

Il matador ha gettato la moña sulla sua testa. Adesso avanza nell’arena presentando al toro pieno di rabbia la sua sciarpa rossa. L’animale si slancia. Diverse volte l’uomo lo evita attirando il suo impatto sulla muleta risplendente. Infine, approfittando del momento in cui il toro abbassa la testa gli attraversa il petto.

Il colpo è stato buono; gli organi essenziali della vita sono stati colpiti; il sangue sfugge a fiotti di schiuma dai denti dell’animale. Il toro fa ancora qualche passo piegandosi sui garretti come se fosse ubriaco. Poi fiuta il suolo come se cercasse un posto dove riposare in pace, dà un muggito straziante, si accascia su se stesso e muore... Il vincitore pulisce la sua spada.

Urlate fanfare! Che si suoni l’hallali! Gloria al gran Montes! Per lui gli applausi, i sigari e i fiori! Per lui i sorrisi delle donne graziose! Lunga vita alla lunga spada!

IX

Restano le vittime da portare via. Di già l’insaziabile pubblico chiede altri sacrifici. L’orchestra diffonde sulla folla torrenti di allegria. Sento le campane delle mule che sono portate a piccoli passi presso il primo cavallo morto. Si passa la corda attorno al suo collo.

Hasta! Hasta! Le fruste vibranti risuonano, i colori nazionali fluttuano sulla quadriga che si precipita al galoppo dalla porta principale dell’arena.

Hasta! Hasta! Il toro esce per ultimo; eliminate le tracce di sangue che lascia, scomparso anche l’ultimo segno della sua presenza. Adesso l’arena è pulita, tutto è a posto. Ma la coscienza degli uomini conserva il ricordo dei delitti molto più a lungo della sabbia.

X

Se tutto si fermasse là. Invece no; quando l’uomo ha lasciato per una volta invadere la sua anima dagli appetiti del bruto, egli mette della logica nella sua ferocia e quasi del genio nelle torture che infligge.

Vi sono dei tori, – il numero è ristretto, – che si rifiutano di attaccare il cavallo, sia perché il loro umore del momento non è battagliero, sia perché portano un buon ricordo dell’animale che pascolava con loro.

Questi sono i vigliacchi: cobardes! cobardes! E muoiono della morte dei vigliacchi, de la muerte ignominiosa!

Volenti o nolenti bisogna che essi lottino e che ne consegua la morte.

Sette otto bulldog sono scatenati nell’arena. Essi corrono contro il toro, lo assalgono alcuni alla gola, altri ai fianchi, altri ai garretti. La maggior parte guidati da un sicuro istinto passa tra le sue gambe di dietro e lo strazia alle sorgenti stesse della forza e della vita.

È un dolore spaventoso. Fuori di sé il toro getta in aria due o tre cani, li sventra quando ricadono, poi cade vinto dal numero. Allora arriva un uomo che gli affonda l’espada tra le ultime costole e lo stende morto.

Esiste una tortura ancora più spaventosa. Bisogna esservi stati testimoni per farsi un’idea della barbarie dell’uomo spinta fino al delirio.

Quando l’espada non arriva a sacrificare il toro tanto presto da soddisfare l’impazienza generale, si alza un grido, dapprima qua e là, lanciato dagli afecionados più scrupolosi: la media-luna! la media-luna!

– La media-luna è una specie di lunga falce curva tagliente nella parte concava.

A poco a poco il clamore ingrossa e diventa sinistro, immenso, imperioso. Il corregidor finisce per cedere ai reclami del pubblico e i torero, confusi della loro impotenza, devono ubbidire all’ordine che ricevono.

D’un colpo l’animale è piegato. Non gli restano che tre gambe. Ma anche così mutilato fa ancora faccia al nemico.

Si accascia di nuovo. Due volte, tre volte ancora colpito dalla falce nelle articolazioni spezzate.

E tuttavia ecco la nobile bestia che si trascina sul moncherino e si difende valorosamente.

Niente irrita più l’uomo che la contemplazione della propria vergogna. Fin quando quel toro non sarà uscito dall’arena il matador vi vedrà la causa del proprio disonore.

“Che lo si finisca”, grido anch’io. Questo macello è di quelli di cui non si può sopportare la vista.

Ancora un rullo di morte! È la volta del cachetero. – Qui ogni scena d’assassinio è una specialità che deve essere eseguita da un abile attore. – L’uomo nero sale sul dorso del toro; con mano ferma gli pianta tra le due prime vertebre una lama stretta con la quale non si colpisce mai due volte.

Quando si è visto ciò si può vedere di tutto!

XI

In questo secolo di decente materialismo, in cui le più ingloriose tirannie e le più fastidiose mode hanno forza di legge grazie all’apatia generale, vi sono abiti che non si possono portare e sentimenti che sarebbe ridicolo fare conoscere quando si sono concepiti.

Che un uomo si atteggi a tribuno nel recinto di un’assemblea; ciò si vede tutti i giorni, è originale ma parlamentare. Che acquisti un’influenza nella pubblica piazza ancora lo si tollera; si tratta di una posizione temibile che dà diritto agli omaggi di una paurosa borghesia. In questo ruolo l’ambizione trova il suo interesse; si trascina un partito dietro di sé, prima o poi simili abnegazioni trovano la loro ricompensa.

Che ci si inscriva per l’emancipazione del sesso debole, è galante e alla moda; i prodi falansteriani sono gente di mondo e, grazie a dio, vi sono ancora delle bellissime donne che sanno essere riconoscenti. Che ci si interessi alla sorte dei bambini, e allora si può invocare il padronato di S. Vincenzo da Paola che li raccoglie, del signor Dupin che fa ridurre le loro ore di lavoro e del signor Carnot che ha sempre delle buone intenzioni liberali per la riforma dell’istruzione pubblica.

Ma che si faccia appello alla sentimentalità degli uomini a favore delle bestie più grosse e più selvagge, che si abbiano simpatie per le sofferenze di un toro; per fare ciò bisogna essere privi di senso comune come il povero Jean-Jacques o le società filobestie di Londra.

– Per quanto mi riguarda ho sempre disprezzato l’opinione generale, questo tiranno dalle mille teste che i più umili non disarmeranno mai. Sempre mi è sembrato che non avere il pubblico contro di sé rende colpevoli delle sue ingiustizie. E se qualche volta l’ho consultato non è stato per mendicare i suoi favori ma per procurarmi le emozioni di cui avevo bisogno. Non lo nasconderò oggi più di quanto abbia fatto in passato.

Io sono diverso dagli altri e sarebbe desiderabile che quello che dico non sembri pretenzioso o inverosimile. È tempo infine che gli uomini non si rispecchino sul glorioso modello che si chiama saper vivere, opinione moderata, uso, convenienza… o che so io.

Io simpatizzo per il toro; è bestia, ma è giusto. Io rivendico per lui perché non parla la nostra lingua, perché possiamo affermare che non comprendiamo i suoi muggiti di dolore. Mentre l’uomo che soffre può alzare le braccia, mentre la donna e il bambino possono intenerire con i loro singhiozzi, per cui è impossibile che i lamenti umani non siano compresi in quanto umani.

In ogni caso non mi si accuserà d’ambizione, perché essendosi l’uomo aggiudicato in virtù del diritto divino il dominio sugli animali, tutti gli effetti del mio intrigo non potrebbero elevarmi ad una più eminente dignità.

XII

Non amo scrivere di cose che non conosco. E siccome volevo scrivere sulle corride di tori, ne ho dovuto vedere parecchie durante il mio soggiorno in Spagna.

Ebbene! tutte le volte che sono uscito dall’arena ero molto seccato di avere aumentato il numero dei curiosi e ho considerato quei giorni tra i peggio impiegati della mia vita. Perché ho sempre pagato queste ore di emozione con sogni spaventosi in cui vedevo cavalli sventrati, cani che si dibattevano in aria, uomini morti e tori amputati.

Certamente se io provo questi sentimenti significa che essi sono umani, perché sono nato da donna e molti altri li avranno sentiti come me. E quand’anche fossi il solo a sentirli vorrei esprimerli lo stesso.

Domando soltanto cosa vi sia di straordinario che un uomo, le cui impressioni non siano state falsate dall’abitudine, si chieda vedendo una corrida di tori:

“Sì, sono feste splendide, e questo popolo ha il genio delle grandi pompe! Sì, questi uomini sono temerari, queste donne incantatrici e la gioia dei fanciulli è contagiosa. Sì, questi costumi sono brillanti, quest’arena immensa, questo sole radioso, questa folla entusiasmante e felice!

“Ma è tutto là? Queste grandi qualità sono dirette verso uno scopo che si possa approvare? Io rispondo di no”.

No, non è una buona cosa abituare i fanciulli a questi spettacoli, non è buono far loro toccare con le dita le viscere fumanti che sporcano la sabbia insanguinata.

L’odore del sangue inebria e questa ebbrezza è follia. Quando un uomo arriva a sacrificare un animale senza riflettere, senza rimorsi, si abitua ben presto a fare poco caso alla vita nel suo insieme. Colui che si è abituato a maneggiare la spada pesante troverà più tardi molto leggero il coltello nella propria mano.

Si dice che le corride dei tori mantengono l’energia del carattere spagnolo, la sua indomabile foga, l’odio potente contro ogni forma di dominio straniero che batté nel petto di Viriate e nelle donne di Saragozza l’indomita.

Non è così. Ne passa tra l’audacia vanitosa di un istrione da circo e il freddo coraggio, l’eterna resistenza di un Pelagio o di un Padilla.

Il primo sa a che cosa si espone, conosce il terreno dove cammina. Il colpo che dà oggi lo riporterà domani e se è abile nell’arte di uccidere, morirà tranquillamente nel suo letto. I secondi, al contrario, affrontano ogni giorno nuovi pericoli; le ferite, la disgrazia e l’assassinio li seguono; la loro testa è messa in gioco nella ruota della Fortuna la cui rotazione dà le vertigini, che alza, abbassa e scortica tutto ciò che trascina.

E poi chi sarebbe così stupido da paragonare l’uomo salariato che uccide animali che non gli hanno fatto nulla a colui che combatte per il proprio paese oppresso?

Nelle arene spagnole si prendono lezioni di meschino interesse e di crudeltà; non vi si apprende il patriottismo e la sublime ambizione. È nelle arene che i migliori d’Iberia convertirono il proprio coraggio in quella specie di empio furore che poi spiegarono nelle ultime guerre civili.

Non vi fanno orrore questi soldati che amputano uomini come lo fu Abelardo, che tagliano le teste dei bambini, che fucilano le donne, che gettano vecchi ai cani e inseguono Mina, Torrejos e Valdes come bestie selvagge? Non fremete alla lettura di queste rappresaglie sempre ingiuste, sempre atroci e sempre rinascenti? Vi piace la Spagna di Isabella la grande e Carlo V retrocedente verso la barbarie e la carneficina in questo modo? E non c’è un uomo tra coloro che hanno fatto questa esecrabile guerra che domanda perdono a dio nelle sue preghiere di ogni sera.

Ecco cosa producono i giochi dell’arena. Il sangue chiama sangue. È funesto per l’uomo giocare con la vita di cui non conosce l’essenza. Se le esecuzioni dei tori sono necessarie per mantenere il coraggio in Spagna, allora disgrazia su di essa! La vista di uno spettacolo barbaro ha sempre fatto nascere istinti detestabili.

Ma non è così; vi sono troppe gloriose tradizioni in questa terra ardente, troppa forza nelle braccia e passione nei cuori perché gli Spagnoli abbiano bisogno di apprendere il valore alle scuole di tauromachia.

XIII

Dopo tutto la Guerra, la nobile guerra, la guerra brillante e rinomata, ricca di sangue e di bottino, è forse altra cosa di una lotta da circo avente la terra per arena e per tori gli uomini di cui i despoti sfruttano la demenza e la vanità? Una vecchia Minerva che ancora oggi l’Europa civilizzata incensa e ammira, consunta dal vino, smagrita dalla carneficina, che si torce disperata su uno scudo arrugginito!

Che senso hanno difatti questi tronconi mutilati che popolano gli ospedali degli invalidi di tutte la nazioni, disgraziati strumenti di un’ambizione gigantesca? Che senso hanno i settari ignoranti di una tradizione feroce, gli imbecilli adoratori di emblemi che raffigurano il sangue, gli idolatri del cappello frigio e del tricorno imperiale davanti ai quali la Francia voleva fare inginocchiare i popoli?

Certo, i nostri padri furono grandi e audaci quando pensarono di aprire la strada della Libertà col ferro del terrore! Essi seppero pagare le loro false opinioni con la propria testa e non spetta a nessuno dubitare della sincerità di uomini che muoiono per la propria fede. Certo, i popoli coalizzati contro la Francia furono ammirevoli anche per patriottismo e pazienza, quando per ventidue anni difesero le proprie frontiere contro la furia della nostra ambizione uscendo vincitori da questa lotta di Titani!

Ma lasciamo alla storia, la becchina del passato, la cura di rendere giustizia alle morte generazioni. Che faccia la parte della fatalità, della coscienza, dell’ignoranza dei tempi, della buona volontà degli uomini, dell’amore di Patria e della dedizione alla Rivoluzione.

Sia lodata la pace. Siamo lontani da quei tempi di volontaria carneficina. Che il suolo d’Europa venga pulito da ogni sua traccia. Pionieri dell’avvenire storniamo gli sguardi dal sangue e non ci facciamo spingere dall’odore dei cadaveri verso esecrabili rappresaglie.

La scienza cammina. Accanita nella sua lotta contro dio, l’Umanità raggiunge rapidamente le altezze che la condurranno fino al suo trono, essa si dirige nell’aria, devia i torrenti, scarica le nuvole, oscura i fulmini. Non indietreggerà mai…

Nella prosperità come nella sfortuna i cittadini di tutti i paesi si sono dati la mano. Tra la Spagna e la Francia i Pirenei si sono abbassati, non per l’alleanza dei re ma per quella degli uomini. I privilegiati allo stesso modo dei proscritti delle due nazioni sono solidali; alla fine hanno compreso che non si tratta di fissare dei limiti tra i popoli, ma diritti tra gli individui. Nello stesso tempo in cui la guerra internazionale diventa impossibile, si generalizza la guerra civile. Non vi saranno lotte decisive in avvenire che tra la Reazione e la Rivoluzione universali.

So bene, e per primo l’ho anche scritto, che al Nord vi è una nazione che non ragiona in questo modo e alla cui invasione le altre non potranno resistere. Ma la guerra degli imperatori non sarà che un incidente nella grande lotta sociale; dal momento che la Russia si confonderà con i popoli d’Occidente, la loro vita diventerà la sua vita, le loro polemiche e i loro interessi le sue polemiche e i suoi interessi. Anch’essa spinta dagli imperiosi bisogni del suo organismo s’impegnerà nella guerra civile, la guerra per il pane e la libertà, e sotto la sua mano selvaggia la vecchia Civilizzazione salterà in aria.

XIV

Amo vedere combattere due animali di uguale forza, quando arricciano il pelo e sollevano i fianchi, quando si precipitano l’uno contro l’altro superbi di corruccio. La natura ha dato loro le stesse armi, lo stesso coraggio e le stesse astuzie; tra di loro le possibilità sono uguali. Questo spettacolo mi emoziona senza sollevare in me l’impaziente collera che prova ogni uomo giunto davanti a una lotta ineguale in cui uno dei rivali è sicuro di vincere e l’altro di morire.

Lo confesso, può essere cinicamente, ma nelle corride spagnole tutte le mie simpatie sono per i cavalli e per il toro, tutto il mio odio per l’uomo. Io non soffro quando il provocatore di questa carneficina è ferito, e piango quando il cavallo trascina dietro di sé le proprie viscere, quando il toro vomita la sua anima guerriera con fiotti di sangue.

Sono animali, dite voi, sono destinati ai sacrifici e ogni giorno i macellai li abbattono e li tagliano per soddisfare i bisogni della nostra esistenza.

Purtroppo ciò è vero! La scienza dell’uomo non ha ancora trovato il mezzo di risparmiare la carne saporosa delle bestie e quindi le sue mani sono sporche del generoso liquore della vita. Ma il tempo è un gran maestro; il seno della terra è sempre fecondo, e la nostra intelligenza perseverante se non altro. Sono vicini i giorni in cui la nostra costituzione sarà talmente modificata che i vegetali potranno formare la base del nostro nutrimento. La nostra specie si rimpicciolisce nel corpo ma diventa più grande nello spirito man mano che la cultura eleva, abbellisce, fortifica le piante e versa al loro interno succhi più animalizzati. Il nostro regime è più vegetale di quello delle generazioni che ci hanno preceduto, e di già si discute seriamente dappertutto l’opportunità della temperanza e la compassione per gli animali. Ogni concezione arriva al momento giusto, quella che ci occupa commuove l’Inghilterra e denuncia una irreversibile tendenza del secolo.

Se non vedremo queste epoche fortunate e se siamo obbligati a massacrare per vivere, cerchiamo almeno di liberare le nostre vittime da inutili sofferenze. Soprattutto non gioiamo tagliando i loro muscoli, segando le loro ossa mentre sono ancora vivi. Non cerchiamo di persuaderci che non soffrono mentre muoiono sotto il coltello, il piombo o la mazza, quando invece si dibattono e gemono nelle convulsioni supreme. Non abusiamo più a lungo della nostra crudeltà.

Che si alzi davanti a noi il fantasma della morte coi capelli incollati sulle tempie, spingendo gli agnelli al mattatoio e gli ostaggi dei campi di battaglia sotto la canna del fucile. Che il nostro genio si applichi quindi a scoprire processi che rendano la morte meno penosa agli animali. Sappiamo di già esentare l’uomo dai dolori delle grandi operazioni, perché non estendere questo beneficio alle bestie che immoliamo? Ciò costerebbe di più in tempo e denaro, ma acquisteremmo a questo prezzo la pace della coscienza.

XV

Quando la cura della nostra conservazione esige che ingoiamo animali non siamo certo liberi di non farlo; abbiamo ancora muscoli rossi e denti da carnivori. Ma quando questi sacrifici servono solo ai nostri piaceri, non esitiamo a sopprimerli. Il paganesimo immolava per i suoi dèi anche esseri umani, così gli uomini cadevano sotto il suo coltello sacro. Tutto ciò non esiste più; lo stesso sarà per le corride dei tori.

Non saprei dire quanto mi fanno male queste crudeltà inutili. Io sono chirurgo, posso senza emozione tagliare la gamba di un uomo che spero di salvare, ma non posso vedere ammazzare un animale senza una grande tristezza.

Si ripete che la vita di qualche toro non può paragonarsi con le gioie che la loro morte procura a tutto il popolo. Domando a mia volta se queste gioie siano naturali; – se la prima volta che i fanciulli sono testimoni di queste scene barbare non si mettono a piangere; – se non sono necessari tutti gli insegnamenti dei loro genitori, il rispetto umano e l’abitudine per far loro superare il disgusto; – ed infine se è vantaggioso combattere ripugnanze così istintive?…

Ci si scusa per altro con ragioni che si sanno infondate. Si pretende che il toro non soffra per niente in quanto non può prevedere la sorte che l’attende e che solo l’apprensione della morte sia terrificante.

Che ne sapete delle ultime angosce degli animali? Avete tenuto nelle vostre mani una pernice ferita, avete visto gli uccelli piccolissimi snidati da un fanciullo crudele, avete avuto modo di fermarvi davanti al mattatoio quando i pastori vi fanno entrare le loro greggi?… Non vi è sembrato che tutti questi esseri fossero annientati dalla paura della morte? Non tremavano forse? Non lanciavano lamenti, avvertiti da un istinto che non inganna mai?

Con tutti i suoi studi e la sua filosofia che cosa sa l’uomo della morte più degli animali? Prevede la sua venuta molto tempo prima? Può scongiurarla? Non la teme come tutti gli altri esseri del mondo, lui che dovrebbe invece vedere in essa una fonte inesauribile di vigore e di fecondità?

Egli pretende che gli animali non hanno anima. Chi glielo ha detto? Parlano forse la sua lingua? Comprende forse la loro? Chi ha mai potuto intrattenersi con loro e conoscere l’idea che si fanno dell’uomo, della natura e di se stessi? Chi potrebbe dire quanta poesia vi sia nel canto di un usignolo nella notte, quanto amore nel tubare della tortorella, quanta tenerezza nei lamenti della capinera privata dei suoi piccoli, quanta fedeltà negli urli del cane perduto, quanto valore nel ruggito del leone, e quanto coraggio nel grido della rondine marina? Siamo iniziati ai misteri che l’aquila apprende al di là delle nuvole, ai segreti che il suo occhio superbo legge nel disco bollente del sole?

Nel suo orgoglio di autocrate l’uomo si pone in un mondo superiore ai mondi conosciuti, si isola dagli animali, e sotto il pretesto che essi non comprendono, rifiuta loro ogni libera partecipazione ai suoi lavori, ai suoi pensieri. Ma lui li comprende forse di più per distruggere le loro opere e la loro esistenza secondo come gli piace? A simili iniquità egli non pretende di essere trascinato dal suo diritto ma dalla sete di dominio e dall’orribile necessità del vivere della morte degli esseri, necessità contraria alla giustizia e che la scoperta dovrà fare sparire ben presto.

La vita è sacra dappertutto. Essa descrive attraverso i mondi un’immensa spirale che comincia con la pietra e si ferma all’uomo; – almeno per quanto sappiamo fino a questo momento. – Vi fu un tempo in cui il marmo era capolavoro della creazione. Tempo verrà in cui l’uomo conterà sopra la sua testa ben altre sfere d’esistenza. Conosce egli quando si completerà la catena delle trasformazioni universali di cui è un semplice anello? Potrebbe affermare che un giorno terminerà?…

Che l’uomo sia l’ultimo nato tra gli animali; che egli abbia la facoltà di riflettere e di comparare i suoi atti; che possa migliorare la sua sorte e vivere secondo le leggi dell’equità; che la sua organizzazione sia la meno incompleta tra tutte: ciò mi sembra vero. Ma sarebbe meglio guardare più da vicino la fraternità che regna tra di noi prima di dichiararci assolutamente soddisfatti del nobile uso che facciamo della nostra natura d’elite.

Ma arrivare da una superiorità così problematica alla conclusione che sia nostro diritto e nostro interesse distruggere gli animali, disboscare le montagne, disseccare i corsi d’acqua, sterilizzare la terra, rendere insalubri i climi e sostituire la morte, l’uniformità, il vuoto e il deserto all’abbondanza, alla fertilità, al troppo pieno, alla vita che la natura semina sotto i nostri passi: ecco cosa è falso e ciò su cui si compiace l’orgoglio dell’uomo che diventa in questo modo la prima vittima del suo stesso vandalismo.

Non ci priviamo delle risorse che ci possono salvaguardare; non giriamo contro di noi l’arma così pericolosa dell’industria; non alteriamo l’ordine delle cose se non quando i nostri bisogni lo esigono imperiosamente e solo quando abbiamo delle nuove scoperte da mettere al posto delle rovine che accumuliamo ogni giorno intorno a noi.

È veramente uno spettacolo ridicolo vedere l’uomo forte fare continue rivoluzioni contro i suoi re e poi basarsi sull’impero assoluto che gli è stato dato sugli animali per sacrificarli senza discernimento e senza pietà.

“Assassino contro natura, se ti ostini a sostenere che essa ti ha fatto per divorare i tuoi simili, esseri di carne e d’ossa, sensibili e viventi come te, respingi dunque l’orrore che ti ispirano questi spaventosi pasti. Uccidi gli animali da te stesso e con le tue proprie mani, senza ferri, senza coltelli, dilaniali con le tue unghie come fanno i leoni e gli orsi, mordi questo bue e fallo a pezzi, affonda le tue grinfie nella sua pelle, mangia vivo questo agnello, divora le sue carni ancora calde, bevi la sua anima assieme al suo sangue. Fremi? non osi sentire palpitare sotto i tuoi denti una carne viva. Uomo tu fai pena! Uccidi l’animale e poi lo mangi, ciò significa come ucciderlo due volte. Ma non ti basta, la carne morta ti ripugna, le tue viscere non possono sopportarla, bisogna trasformarla col fuoco, bollirla, arrostirla, condirla con droghe che la mascherino; ti bisognano salumieri, cucinieri, arrostitori, gente di ogni tipo per attenuare l’orrore dell’assassinio e abbigliare dei corpi morti al fine che il senso del gusto ingannato da questi mascheramenti non rigetti ciò che gli è estraneo e accetti con piacere cadaveri che l’occhio stesso ha pena a sopportarne la vista”. Così diceva Jean-Jacques. [Si tratta, in effetti, di una citazione di Plutarco contenuta nell’Emilio o dell’educazione di Rousseau].

Vi è in me stesso un sentimento innato di giustizia che i pregiudizi ricevuti dall’uso esasperano ancora di più. Mi immagino l’uomo spoglio dei mezzi di dominio che ha conquistato sulla natura; lo vedo nudo, senza armi, senza il soccorso di animali domestici. Una nuova rivoluzione si è operata nell’universo, una razza superiore si è sostituita alla nostra; l’uomo occupa soltanto il secondo posto tra gli esseri. In questa ipotesi tutto è razionale in quanto le razze si succedono come le generazioni, in quanto nulla nel tempo e nello spazio si sottrae alla forza trasformatrice.

Allora, se gli spettatori sanguinari esistono sempre, sarà la volta dell’uomo di figurare nelle arene come i tori che noi vediamo oggi. Allora il re dell’universo detronizzato si ricorderà del suo impero e si pentirà della crudeltà che espia così duramente. Pertanto, dato che egli è mosso solo dal proprio interesse, che rifletta sul fatto che un giorno sarà soppiantato da esseri meno imperfetti e che servirà nei loro lavori e nei loro piaceri!

XVI

Che l’uomo insegua il bufalo nelle savane, che getti il forte laccio tra le sue gambe agili, che attacchi alle sue corna dei rami di alloro e lo porti in trionfo nella sua casa. Che ne faccia il compagno dei suoi lavori, senza eccedere nella fatica, che non lo mutili e che sappia eccitarlo in modo diverso che con cattivi trattamenti e che si mostri riconoscente verso di lui per le ricchezze che il suo lavoro fa nascere.

Allora l’animale, trattato con bontà, diventerà più robusto e più buono; ai tesori dell’uomo esso aggiungerà ogni anno la sue giovani generazioni; ben curato, godente di una tranquilla sorte, non rimpiangerà la sussistenza precaria che a mala pena trovava nello stato selvaggio. Senza mostrarsi barbaro l’uomo avrà acquistato dal destino un alleato che gli è indispensabile.

Che si lascino dei tori in mezzo all’immensa pianura, che degli arditi cavalieri li inseguano e li blocchino; che queste corse siano seguite da un gran numero di amatori: sarei molto contento di simili lotte che mettono in rilievo la destrezza, l’agilità, il sangue freddo dell’uomo e le astuzie naturali dei tori.

Che la corsa seguente mostri gli stessi animali meno nemici dell’uomo, meno indomabili e io celebrerò l’ascendente che esercita il nostro genio sulla selvatichezza del bruto.

Più tardi li si attacchi a due a due a dei carretti di legno di quercia, li si faccia scavare un solco nella buona terra, e sarò fiero delle capacità e della perseveranza dei miei simili.

Che si rivestano due tori di scarlatto, che si introduca una bella giovenca nel recinto che essi percorrono; che essi si eccitino, si misurino con lo sguardo e si accaniscano l’uno contro l’altro; e sarei felice di attendere la conclusione della lotta piena di incertezza.

Che i pegadores portoghesi, vestiti di rosso, si slancino risolutamente alla testa del toro, che l’arrestino sostenendosi alle sue corna spuntate; io ammirerei il loro coraggio e la loro forza.

Ma che a ogni costo non si versi più sangue, che non si rivolti più la nostra coscienza con queste vigliacche carneficine dove, più barbaro della bestia, l’uomo avanza contro di essa sicuro di ucciderla. Sarebbe esasperante per il nostro buon senso e la nostra immaginazione pensare che non siamo capaci di trovare altri spettacoli più grandiosi, più ricchi e meno rattristanti di questo.

Che si interrompano tutte le forme di corride di tori simili a quelle di oggi. La Spagna non sarà né meno grande né meno gloriosa. Non ha le sue danze nazionali così affascinanti che soltanto a vederle le ore fuggono come secondi? Non ha i suoi canti popolari, il suo inno di Riego, le sue poesie, i suoi romanceros, il suo teatro? Non raccoglie a Nord i prodotti dell’Europa e a Mezzogiorno quelli dell’Africa? Non è stata cullata tra gli oceani e i cieli con la sua verde cintura di oliveti, le sue ragazze brune, i suoi giovani nervosi, i suoi corsieri eleganti, i frutti dell’aranceto, i fiori del granato? Quali ricchezze di fecondità, di succo e di sole risplenderebbero sulla sua esistenza!

XVII

Mi rappresento la Spagna così favorita dalla natura, così voluttuosa, così grande per le sue pompe, dopo una rivoluzione che non incatenerà più lo slancio delle passioni umane.

Allora la mano del popolo farà giustizia di questi recinti troppo stretti dove il privilegio racchiude per sé solo i capolavori e le cerimonie che sono di tutti. Allora biblioteche, teatri, musei, circhi, chiese e monumenti pubblici saranno convertiti in veri bazar artistici accessibili alla folla. Ognuno vi si potrà istruire e divertire. I libri, i dipinti, le statue e le orchestre saranno diffusi a profusione. Che teatri, che scenari! Che processioni musicali e danzanti! Che cori immensi! Che armonia, che entusiasmo nel mezzo di questo popolo così profondamente ammiratore del bello! Che luci, che splendore, che lusso! Che vigore e che gioia nelle giovani generazioni! Che feste accompagneranno, precederanno e seguiranno il lavoro messo in rapporto con le attrazioni più diverse!

Allora lo studio sarà ricompensato, sostenuto e incoraggiato dappertutto perché la scienza e il lavoro contribuiscono alla felicità di tutti. Allora non si vedranno più giovani autori morire di miseria all’ospedale e poveri attori suicidarsi per essere stati fischiati da un uditorio di borghesi. Allora gli artisti saranno pieni di gloria e di onori e occuperanno nella società il posto che loro appartiene. Allora i giovani lavoreranno con passione per farsi una reputazione che risuoni nel mondo. Allora le vocazioni più differenti saranno riconosciute e rispettate e non le si schiaccerà più come si fa oggi. Allora i grandi talenti, a migliaia, continueranno l’opera di gloria nazionale, cominciata da Cervantes, Lope de Vega, [Pedro] Calderón de la Barca, [Bartolomé Esteban] Murillo, [Leandro Fernández de] Moratín, [Pedro] Berruguete, Velasquez e Garcia.

E quando questo popolo avrà gustato queste gioie, quando saprà quali ricchezze vengono prodotte dall’associazione degli interessi, dall’attrazione per il lavoro, dalla produzione e dal consumo liberi di ostacoli, dalla diversità delle funzioni e dalla giustizia nella ripartizione dei beni comuni; quando tutto ciò sarà là, proponetegli di andare a vedere il meschino spettacolo di una corrida di tori o di una processione religiosa, cercate di appassionarlo per un matador o per una reliquia. Allora le corride avranno fatto il loro tempo e le ardenti immaginazioni meridionali non saranno più obbligate ad esaurirsi sulle figure mistiche che il cattolicesimo presenta loro e che esse cercano di animare a forza di poesia e di amore.

XVIII

L’assassinio, di qualsiasi specie sia, testimonia una profonda divisione tra gli esseri. Ciò non accade nella natura; qui dipende da una cattiva organizzazione generale i cui effetti nascono, ingrandiscono e sono abbattuti in un sol colpo.

Se si guarda più da vicino ci si convince che le corride dei tori sono in via di decadenza e che sono minacciate da una prossima scomparsa malgrado tutto il lusso che ancora spiegano. Allo stesso modo sotto i suoi splendidi orpelli la civiltà nasconde la sua miseria e l’imminenza della sua rovina.

Di già la scienza della tauromachia è tacciata di barbarie e di ridicolo. Di già il giornalismo l’attacca per l’immoralità. Di già molti Spagnoli hanno fondato sulle loro letture e sui loro viaggi una ragionata avversione per simili massacri. Di già le donne non osano più confessarsi aficionadas come per il passato, ciò potrebbe far dubitare del loro sentimento. Di già, sintomi ben più gravi, una sola corrida per settimana è sufficiente alle esigenze della popolazione e i buoni matador mancano.

Oggi non è tanto il desiderio di vedere uccidere che attira la gente alla funcion, ma l’inoccupazione, la curiosità, la magnificenza dello spettacolo, la presenza delle donne, il movimento e il rumore. Soltanto i Castigliani di vecchio ceppo si appassionano completamente alla lotta, la giudicano, la seguono da un capo all’altro con attenzione scrupolosa e si mostrano inesorabili per gli errori commessi. Ma le vecchie generazioni muoiono e non sono più rimpiazzate da loro simili, esse portano i vecchi divertimenti nelle tombe mute.

La forma si armonizza con il fondamento. Spesso una profonda modificazione nei costumi è generata da una semplice riforma nelle mode. Ciò si nota soprattutto presso i simpatici popoli del Mezzogiorno. Imprigionando la sua testa bruna nel tubo di stufa britannico e la sua taglia forte nell’abito borghese, la Spagna ha preso l’impegno di adottare i costumi regolari del bottegaio europeo. Da quel giorno essa ha spuntato la sua grande spada da combattimento. Qualche anno dopo essa ha avuto gli ippodromi, i teatri italiani e francesi, i caffè, i concerti, i balli altrettanto fastosi di quelli delle altre nazioni civili. È la gioventù che ha portato i suoi divertimenti dall’estero, che ha messo tutto il suo amor proprio per renderli popolari, che vive di attività, di speranza, d’amore e d’avvenire.

Si può affermare che le nostre feste siano generali, grandiose, animate e gioiose come quelle dei nostri antenati? Che non dobbiamo rimpiangere le distrazioni che li rendevano felici? Certamente no. Noi viviamo tristi, mesti, filosofi, parsimoniosi e impregnati di un endemico spleen; nel nostro cuore c’è un ferro che ci rode e ci intristisce. Siamo uomini della transizione posti tra le società del passato che erano meno divorate dai bisogni e le società dell’avvenire che saranno più ricche di risorse.

Ma bisogna essere quello che si è. Una voce imperiosa spinge l’umanità sulla sua strada seminata di rovi e la fa camminare fino all’esaurimento, fino alla morte. Avanti dunque, e periscano le corride dei tori, come i toreri, le arene, le battaglie e tutti quei giochi che fanno ruscellare il sangue!

XIX

Matador, carnefice, uccisore di bestie, assassino d’amore, insieme di muscoli, di ossa e di sangue che sogni ricami d’argento e d’oro! Non ti parlerò di sensibilità, di crudeltà, dell’universo, dei rapporti degli esseri tra loro, dei diritti dell’uomo e di quelli dell’animale, del principio della tua esistenza e della loro. Tu non sai nulla di tutto ciò, il tuo mestiere è di distruggere per vivere!

Esiste un terribile proverbio, ripetuto in tutte le Spagne: il miglior torero è il toro. Ecco ciò che è vero, ecco ciò che dovrebbe andare fino in fondo alla tua anima volgare. I più abili sono caduti nell’arena, come loro finirai con un colpo di corna.

E questo pubblico che ti fischia, che ti applaude, ti paga e ti considera come un suo giocattolo, questo stesso pubblico è contento della tua morte perché gli fornirà un’emozione ancora più forte delle altre.

Cammina per adesso, raddrizzati nella bruciante arena: tu sei venduto! Quando il gladiatore combatteva nel circo, quando la vergine cristiana spirava sotto gli artigli della tigre, almeno l’amore della patria, dell’indipendenza o della religione santificava la loro morte. Ma tu, carne comprata, tu morirai come il toro dei tuoi sacrifici, senza un rimpianto, senza una lacrima!

Ah! se senti nel tuo petto battere il cuore di un uomo, se vi passa col sangue un nervo, un soffio divino, un raggio di tenerezza, getta questo costume d’istrione, getta lontano da te questa spada sanguinante, inizia qualche buona professione che ti renda utile ai tuoi simili e non consumare più le tue forze a distruggere quello che non sapresti rifare.

Presidenti degli ayuntamientos di Spagna smettete d’incoraggiare e di autorizzare con la vostra presenza simili carneficine. Se la nazione vi dà il mandato imperativo di presenziarvi, se ciò fa parte necessariamente del vostro incarico: rifiutatelo! Si inganna il popolo e ci si inganna, dato che si tratta di una riunione di uomini tutti soggetti ad errore. Ma ogni magistratura cessa di essere onorevole se assume attribuzioni contro le quali la giustizia si ribella. Il colmo della malizia umana è di umiliare i suoi governanti fino a renderli complici dei suoi atti e dei suoi capricci più mostruosi e ciò fa applaudendoli.

E voi, figlie di questa terra immortale, donne dal portamento slanciato, dagli agili movimenti, dai lunghi capelli neri, dagli sguardi pieni di fuoco: tenerezze selvagge, orgogli ribelli, civetterie spontanee, i vostri fieri ardori non saprebbero scatenarsi altro che alla vista del sangue? Non amate di più vedere un uomo baciare il vostro piccolo piede che un toro mordere la polvere? Le vostre mani non saprebbero meglio tendere una scala di seta che applaudire al momento giusto ai colpi di stocco di un matador? E queste veementi esclamazioni che sprecate nelle arene non sarebbe meglio usarle per l’amante che vi muore tra le braccia? Tutto ciò è possibile, tutto ciò è benedetto, tutto ciò ci eleva per un istante da questo soggiorno di dolore per trasportarci nei cieli!

L’amore consola, fa più grandi, migliora. L’insensibilità vanitosa fa più agri, rimpicciolisce e ci appiattisce la testa come quella del serpente. La donna appassionata comunica al suo amante una nuova vita. La donna insensibile scoppia a ridere quando il toro muore. L’amore è pieno di lotte, di pericoli e di ostacoli che lo rendono caro a tutti i cuori generosi. Il macello dei tori è vigliaccheria ed è privo di pericoli imprevisti. Donne, angeli guardiani dell’umanità, amate la vita e non andate a vedere coloro che sanno soltanto uccidere.

Così la donna, così la nazione. Disgrazia ai paesi in cui le più nobili ragazze si sentono attirate dalle forme atletiche di un matador! Disgrazia ai paesi in cui le donne preferiscono le emozioni sanguinose ai profondi affetti della vita di ogni giorno! Ogni uomo sembrerà loro disprezzabile, piccolo e indegno se non avrà la ferocia del macellaio, gli abiti brillanti, anelli alle dita, una spada nella mano e lo sguardo di una maledetta fissità. Che queste donne adorino uno spadaccino, un artigliere, un valletto, un Vitellio, un cavallo come la reale Pasifae; che si chiudano insieme a dei caproni! Questi animali possono sostituire gli uomini, hanno tutti gli attributi del vigore e della bellezza che loro cercano.

Ma delle strette di mano, dei lunghi sospiri nei quali due anime si scambiano, dello spirito, del colpo di fulmine, del vero, eterno dio delle illusioni e dei sogni, degli amori che attraversano i tempi e i mondi, che si ritrovano da secolo a secolo e da sfera a sfera, sempre più grandi, più eterei e più soavi: no! non parlate di tutto ciò alle donne a cui la vista dei matador accende la carne e il sangue!

Consento a veder morire ancora un toro, ma che trascini con lui l’ultimo dei toreador e che non si facciano più corride da un capo all’altro della Penisola!


[Pubblicato in Ernest Cœurderoy, I giorni dell’esilio, vol. II, tr. it., Trieste 2013, pp. 374-393]

Demolire l’autorità

Per fare passare la Rivoluzione attraverso questo secolo come un ferro rovente, bisogna fare una sola cosa:

Demolire l’autorità.

Questa proposizione non ha bisogno di essere dimostrata. Che ciascuno s’interroghi e dica se è per sua volontà o per forza che sopporta che un altro si proclami suo padrone e agisca come tale.

Dica se non ritiene di valere quanto un altro.

Dica se è contento di fare ingrassare sempre papi, imperatori, re, rappresentanti, monopolisti, medici, istitutori, giudici, giornalisti, tribuni, direttori, dittatori.

Dica se non desidera essere al più presto sollevato da tutto ciò.

Dica se non capisce meglio da solo ciò che gli è utile e se volentieri si rimette nelle mani di altra gente.

Dica se non è intimamente convinto che la vera carità bisogna farla prima a se stessi, e che le proprie cose è giusto che siano più importanti di quelle degli altri.

– E io direi a quest’uomo: hai ragione di fare prima i tuoi interessi; la natura lo impone.

Sappi pertanto perché il tuo particolare interesse è sempre assorbito da un interesse più forte, comprendi infine che cosa ti isola dai tuoi simili.

Vedrai che è la sostituzione del segno alla cosa, della finzione alla realtà, della moneta al lavoro, dell’elemosina all’uguaglianza, della proprietà al possesso, dell’eredità all’usufrutto, dell’ingorgo alla circolazione, del dovere alla felicità.

Non era così tra i primi uomini; ognuno di essi trovava abbondantemente di che soddisfare i propri bisogni. Adesso, che abbiamo un maggior numero di strumenti sia di lavoro che di diletto è forse un buon motivo perché la ripartizione si faccia in modo ingiusto?

Bisogna scoprire l’iniquo principio in base al quale la maggior parte dell’umanità si trova esclusa dal diritto alla vita. Bisogna sapere perché i tesori della natura e i prodigi dello spirito umano sono confiscati subito e per sempre, salvo a rivendicarli.

Uomo! È grazie alla presenza della forza e dell’autorità che non è possibile avere fede nei princìpi.

Insieme, smascheriamoli sotto qualsiasi camuffamento, qualsiasi pretesto, qualsiasi santa apparenza essi si presentino. Sono pericolosi perché non si presentano mai nudi ai nostri occhi.


Proletari del XIX secolo! le ore corrono rapide nel quadro eterno del tempo. Un’attesa terribile eccita l’intelligenza, appassiona il sentimento, rende brucianti le palme delle mani, inonda di sudore la fronte. È la grande vigilia!... Un mondo si sfascia!... I tempi sono vicini!... Sono troppo febbricitante perché non sia vero.

Non bisogna più esitare. Non abbiamo più il tempo d’essere eunuchi. Pertanto affermiamo:

Che quello che essi chiamano Dio, è l’autorità che benedice il Delitto;

Che quello che essi chiamano Prete, è l’autorità che consacra il Delitto;

Che quello che essi chiamano Carnefice, è l’autorità che protegge il Delitto;

Che quello che essi chiamano Professore, è l’autorità che indirizza al Delitto;

Che quelli che essi chiamano Proprietario, Banchiere, Imprenditore, Commissionario, Borghese, Padrone, Re, Avvocato, sono infine le autorità che alimentano il Delitto.

Abbiamo già chiesto ai signori Mazzini, Louis Blanc, Ledru-Rollin, Étienne Cabet e altri aspiranti dittatori se la loro posizione consentisse di dire alla civilizzazione:

“La tua proprietà! è il furto; essa genera il furto – da distruggere.

“Il tuo matrimonio! è la prostituzione; esso perpetua la prostituzione – da distruggere.

“La tua famiglia! è la tirannia; essa sviluppa la tirannia – da distruggere.

“La tua morale! è la mutilazione; essa riproduce la mutilazione – da distruggere.

“Il tuo dovere! è la sofferenza; esso rende più dura la sofferenza – da distruggere.

“La tua religione! è l’ateismo; essa crea l’ateismo – da distruggere.

“La tua giustizia! è l’ingiustizia; essa giustifica l’ingiustizia – da distruggere.

“Il tuo ordine! è il disordine; esso riproduce il disordine – da distruggere”. – (Barrère du combat).

essi non hanno osato!... Non oseranno mai!...

Guardati soprattutto, Proletario! di marcare con le stimmate dell’infamia i tuoi fratelli che essi chiamano Ladri, Assassini, Prostitute, Rivoluzionari, Galeotti, Infami. Cessa le tue maledizioni, non li coprire di fango, salva la loro testa dal colpo fatale.

Non vedi che il soldato ti approva, che il magistrato ti chiama a testimoniare, che l’usuraio ti sorride, che il prete batte le mani, che lo sbirro ti eccita?

Insensato, insensato! non sai che prima di abbattere il toro minaccioso, il torero fa brillare nell’arena gli ultimi lampi della sua rabbia? E che essi si prendono gioco di te, come si gioca con il toro prima d’ammazzarlo?

Riabilita i criminali, ti dico, e ti riabiliterai. Non puoi sapere se domani l’insaziabile cupidigia dei ricchi ti costringerà a rubare quel tozzo di pane senza il quale moriresti di fame!

In verità ti dico: tutti coloro che i potenti condannano sono vittime dell’iniquità dei potenti. Quando un uomo uccide o deruba si può dire a colpo sicuro che la società dirige il suo braccio.

Se il proletario non vuole morire di miseria o di fame: o diventa cosa di altri, supplizio mille volte peggiore della morte; – o insorge insieme ai suoi fratelli; – o, infine, insorge da solo se gli altri rifiutano di condividere la sua sublime risoluzione. E questa insurrezione, essi la chiamano Delitto.

E tu, suo fratello, che lo condanni, rispondimi: hai mai visto la morte così da vicino per gettare la pietra contro il povero che sentendo l’orribile stretta, ha spinto il pugnale nel ventre del ricco che gli impediva di vivere?

La società! la società! ecco la criminale, carica di anni e di omicidi, che bisogna giustiziare senza pietà, senza più tardare.


Vi offro questo libro, proletari, ed impongo lo scandalo ai borghesi, questi pezzenti arricchiti da cui sono uscito.

Che i ri-vol- [furto] u-zionari ottusi si lamentino di me; che i loro Giovi mi fulminino; non c’è bisogno d’essere giganti per affrontare la collera degli dèi moderni.

Lo so, i partiti si scateneranno contro di me, il silenzio e l’isolamento copriranno la mia anima ardente. So benissimo che mi schiacceranno fin quando nel mondo la forza sarà la legge e la misura suprema.

Non importa, non ho paura degli uomini, perché parlo con sincerità, per spingere gli altri a seguire il mio esempio.

Ma non credo di avere forze sufficienti. La lotta e la meditazione affaticano e la solitudine compie ben presto l’opera di distruzione ch’esse hanno cominciato sulla nostra debole macchina. La fisionomia dell’uomo prende l’impronta della sua anima. I tratti del mio viso accusano la tensione del mio spirito e i tristi pensieri.

Mi sono impegnato su di una strada sapendo bene dove mi condurrà; ma mi sono detto: trascinare la mia vita nell’ozio dell’esilio è come morire ogni giorno ancora più dolorosamente, e con meno coraggio.

Pertanto, marcerò senza paura.

Fino alle officine dove l’uomo soffre, fino alle bicocche dove la vergine si prostituisce, fino agli orfanotrofi dove si martirizzano i poveri bambini... andrò.

E perseguiterò i governi nel loro prestigio, i partiti nella loro ipocrisia, i privilegi nel loro furto, i giudici e i carnefici nel loro crimine legale, la famiglia nella sua prostituzione, le nazioni nel loro isolamento, gli uomini nel loro servilismo.

Fin quando la mia voce potrà essere sentita, oserò; fin quando la mia energia vivrà, oserò; fin quando dureranno le mie forze, oserò sempre.

Lontano fin dove si estende il mondo, avanzerò; penetrerò profondamente dove si nasconde la miseria; attaccherò Dio, per quanto alto si mantenga.

Libertà, Libertà! dammi la forza di scrivere, di pensare e di vivere solo, fino al giorno in cui la mia vita monotona potrà precipitare nell’universale cataclisma.

Quando verrà la sera, veglia su di me, notte misteriosa!

Amica di quelli che soffrono, aprirò la mia finestra per riceverti. Conserva la voce del grillo del mio focolare, per farmi felice con il tuo canto.

Notte! ti chiamo durante tutto il giorno. Quando tu appari ho fatto un solco di più nel campo della vita, coperto di rocce; tanto meglio. Notte! tu rispetti il lavoro, e io amo il tuo silenzio; amo sentire il fuoco che scoppietta nel camino, il vento che geme al di fuori, le vetture che passano sulla lunga strada. I sogni della sera mi sorridono, quelli del mattino mi spaventano.

Quando suona mezzanotte, la società dorme qualche ora: mi appartengo. Gli ultimi colpi si sentono sui portoni; le coppie attardate si sbrigano ad andare a letto. È l’ora in cui si esce dai teatri, dai balli e dai caffè sontuosi; l’ora in cui la lussuria s’imporpora nelle taverne di Haymarket, l’ora della morte e della vendetta.

Neve! piangi sul mio tetto le tue lacrime d’argento. Mi sembrerà che la natura pianga con me sui crimini degli uomini.

Fin quando la mia mano non seccherà, continuerò ad accendere una lampada ogni sera. Domanderò l’ispirazione alla notte. Alla notte che sorveglia col suo occhio scuro i colpi assestati nel modo più sicuro!

Scriverò così, quando ogni rumore sarà cessato, perché le dispute dei civilizzati mi straziano il cuore.

Fino all’ora in cui il canto del gallo li sveglierà.


Ho sondato il mio cuore; l’ho riconosciuto diritto e fermo. Ho consultato il mio giudizio; l’ho trovato staccato da ogni forma di ambizione del potere o della fortuna. Ho provato la mia voce; essa è forte. Ho preso la penna e la mia mano non ha tremato. E ho scritto tutto ciò che la passione e il buonsenso mi dettavano. E non ho potuto dire che delle cose oneste. E tutto ciò che sostengo in questo libro è vero.

L’autore che calcola sa di mentire; soltanto, lo fa il più abilmente possibile. Quando sono riuniti in mucchio, come le mosche, i borghesi s’incoraggiano a vicenda ridendo della verità. Ma in fondo ognuno è uomo prima di tutto e chi leggerà questo libro sono sicuro che non riderà. Perché io non ho riso lavorandoci.

Notifico la sentenza di morte portata dall’eterna rivoluzione contro le vecchie società. Impongo la lettura a tutti in base al diritto che ha l’uomo che sa irritare le passioni della sua specie.


Gloria a te, Libertà!

Vi fu un tempo in cui leggevo molto; in quel tempo non vivevo. – Vi fu un tempo in cui accettavo le idee ricevute; in quel tempo non vivevo. – Vi fu un tempo in cui seguivo le mode; in quel tempo non vivevo. – Vi fu un tempo in cui mi comparavo a tutto; in quel tempo non vivevo. – Vi fu un tempo in cui mi guardavo attorno per vedere se non ero solo; in quel tempo non vivevo.

Ora penso e vivo; – mi tengo al di fuori di tutto, e vivo; – cammino in avanti, e vivo.


Gloria a te, Libertà!

I miei contemporanei non mi comprenderanno. Non ho la pretesa di allungare la vista ai miopi. I civilizzati non vivono che nel presente, essi sono incompleti. Io non vivo che nell’avvenire e sono anch’io incompleto. Io mi sono impadronito delle grandi linee del contesto sociale; essi non comprendono che dei dettagli infinitamente piccoli. Noi differiamo e l’umanità non è ancora completata per l’accordo di questi contrasti. Non ci può essere un’intesa tra me e il mio secolo.

Se sono impressionato per le cose dell’avvenire, non posso esserlo per quelle del presente. Se guardo a mille passi non posso vedere a dieci. Se mi lascio trascinare nell’orbita dell’eterna rivoluzione, non posso avvolgermi nei maneggi giornalieri dei civilizzati. Io ho scelto l’avvenire, l’immensità, la bella vita libera del pensiero.

Se avessi bisogno del giudizio degli altri per sapere ciò che vale questo libro, sarei singolarmente da compiangere. Perché i miei contemporanei mi rimprovereranno d’avere la vista troppo lunga; e le generazioni future d’averla troppo corta.

Se cercassi il successo non avrei altra risorsa che la disperazione. Perché il successo è di colui che traduce servilmente l’opinione del pubblico. Ora, io penso che il pensiero è l’uomo, e soltanto lo schiavo non osa dire quel che pensa. Sarei umiliato di essere dello stesso avviso di tutti.


Gloria a te, Libertà!

L’orgoglio non mi acceca, ho fiducia in me stesso. Lo scrittore è sottoposto alle stesse impressioni dei suoi lettori. Quando mi viene un’idea paradossale, esito ad ammetterla; sono colpito dalla mia stessa audacia. E poi, man mano che l’esamino più da vicino, mi rassicuro e scrivo, forzando il cervello pubblico a sostenere la lotta sostenuta dal mio. Naturalmente non uno solo di quelli che mi leggeranno si rivolgerà contro di me così come io mi sono rivolto.

Che cosa mi fa dopo di ciò la disapprovazione generale? Quelli che la elargiscono non hanno certamente riflettuto più di me sulle proposizioni che avanzo; nessuno mi giudicherà più sinceramente di quello che ho fatto io stesso. Lo ripeto: sono disinteressato e senza timore.


Gloria a te, Libertà!

In più, che cos’è un libro? Una conversazione un poco più ragionata, alla portata di tutti, nei termini fissati dallo stampatore. Il pubblico ha il diritto di domandarmi un certo numero di pagine; per controparte io ho il diritto di domandare un certo numero di apprezzamenti. Non posso esigere che approvi le mie idee; esso non può esigere da me che approvi i suoi pregiudizi. Consegno delle sensazioni che mi vengono restituite: è tutto. Se condividessi le opinioni banali sarebbe del tutto superfluo scrivere. Ho bisogno di intrattenermi col mondo, ma non voglio essere il suo schiavo. Tanto peggio per coloro che gli indirizzano introduzioni supplichevoli; essi autorizzano la sua insolenza. Non adulerò mai la folla; è il solo mezzo per farsi rispettare da questa.


Gloria a te, Libertà!

La Rivoluzione m’ha dato la febbre; non mi lamento, e non prego nessuno di compiangermi. Ma non posso esigere che tutti abbiano la febbre. Volere che i civilizzati s’appassionino alla rivoluzione sociale è presentare l’acqua ai cani idrofobi.

I borghesi mi leggeranno e diranno: “È una orribile sofferenza che lo fa delirare! Vedete: quest’uomo è giovane, e già le sue mani sono secche, le sue orecchie ronzano, i suoi occhi sono pieni di sangue; la tempesta delle idee si è scatenata nel suo cranio, e la sua testa geme come un abisso profondo. Terribile destino!”.

Se dicessi loro che la febbre ingrandisce, centuplica l’esistenza, che percorre i secoli in qualche ora: – riderebbero. Se dicessi che non esiste luce senza ombra, gioia senza dolore, Prometeo senza avvoltoio, fuoco divino senza bruciature, originalità senza febbre: – riderebbero. Se dicessi che non cambierei la mia sovreccitazione con la loro calma, il mio isolamento con le loro feste, la mia selvaggia mediocrità col loro lusso di servitori: – riderebbero ancora.

Non mi abbandonare fiducia in me stesso, prima delle qualità! Nero scoraggiamento resta sotto i miei piedi. Non voglio più sentire la voce della disperazione. Voglio sapere quello che l’organizzazione umana può sopportare come lavoro, come febbre e come delusione. Avanzerò nel dominio del Pensiero, fino al regno della Follia; saggiando i limiti della Rivolta, fino al Crimine, bevendo il contenuto della coppa di fiele. Soltanto allora potrò dire chi è pazzo o criminale nella Babilonia che crolla. Non m’importa che gli uomini mi accusino di follia, ma non voglio che possano accusarmi d’idiozia, di schiavitù e di menzogna.


Gloria a te, Libertà!

Chiunque abbia sofferto o gioito a causa del pensiero sarà toccato da questo libro, in quanto mi sono proposto di dipingere fedelmente le reazioni provocate in un uomo dall’ambiente che lo circonda. A prescindere dal partito cui appartiene, il lettore imparziale troverà nel testo dei passaggi che approverà, altri che condannerà; ma non ne troverà che lo lasceranno freddo. Sarebbe così di tutti i libri se gli autori apprendessero l’osservazione e si curassero meno dell’opinione degli altri.

Io non temo che qualcuno intraprenda un lavoro simile, poiché questo libro è me stesso. Non ho preso alcun impegno, nel passato come nell’avvenire, con gli altri o con me stesso. Se domani le idee che oggi sostengo mi sembreranno false, non avrò paura a contraddirmi. Per gioire completamente del suo pensiero l’uomo dovrà restare padrone di se stesso senza lasciarsi prendere dalla routine. La testardaggine è figlia dell’orgoglio e madre delle sette. Io non domando il permesso a qualcuno per pubblicare ciò che mi sembra giusto. Facciano attenzione tutti coloro che si sporcano le mani con l’inchiostro a seguire taluni consiglieri. Non mi ci sono mai trovato bene.


Gloria a te, Libertà!

Firmo questo libro come tutte le cose che faccio. Il velo dell’anonimato nasconde l’ipocrisia e la paura; non credo alla modestia, per questo non mi metto sotto il padronato di qualche celebrità. Non sono dell’umore adatto a sollecitare protezioni o a ricevere rifiuti. Non intendo rispondere che di me stesso. In merito alle idee non riconosco né amico né compagno né fratello né padre né madre né maestro né discepolo. Ho creduto in Dio senza conoscerlo, ho creduto negli uomini, e sono stato deluso; ho creduto nelle donne e sono stato tradito. Ora non credo che in me stesso. Perché io so quel che voglio nel bene come nel male, ma non esiste un uomo del quale posso dire la stessa cosa.

Per scrivere, bisogna che io senta vivamente; renderei incomprensibile il più bel pensiero di un altro, perché non l’ho concepito in me stesso nella forma che conquista il mio spirito. Non potrei pensare né come un altro né dopo un altro né con un altro. Allo stesso modo in cui non potrei digerire insieme ad un altro. Quello che la mia coscienza crede grande è grande, anche se tutta questa società corrotta sostiene il contrario. Sono più sicuro di me stesso che degli altri. L’uomo è perduto dal momento in cui cessa di pensare. Perché dovrei essere un altro? Perché gli altri dovrebbero essere me stesso?


Gloria a te, Libertà!

Avrei potuto benissimo mettere in testa a questo libro: “... di Ernest Cœurderoy, dottore in medicina, interno anziano degli ospedali di Parigi, membro della società anatomica, ex-delegato del popolo al comitato democratico-socialista della Senna, ex-membro del comitato delle Scuole, membro della società Elvezia, proscritto, condannato alla deportazione dall’alta Corte di Versailles, ecc., ecc.”. Ciò viene fatto e ha risultati positivi. Queste litanie di titoli si chiamano riconoscimenti. Singolare abuso di una lingua elastica!

Mi sembra, al contrario, che più accumulerei titoli davanti al mio nome e più annienterei il mio carattere individuale, per confonderlo, con una infinità di punti di contatto, con le caratteristiche della specie. Mi farei simile a tutti e differente da me stesso. Chiunque può diventare dottore in medicina, interno di ospedale, delegato del popolo e membro di società accademiche e strane, ma nessuno può essere me stesso e io non posso essere nessun altro. Il mio nome è l’epigrafe della mia vita. I miei titoli non faranno apprendere nulla su di me, le distinzioni non mi distingueranno. Essi potranno, al più, far sospettare che condivida i pregiudizi della classe medica e di quella politica. Perciò tengo moltissimo al mio nome e non ai miei titoli.

Solo i dignitari si rifiutano di capire una verità così semplice. L’orgoglio di questa gente è simile a quello della mula che porta i sonagli, o del cavallo che si porta dietro il postiglione. Più sono schiavi e più ne vanno fieri. Dignità di mastini che si disputano un osso!

I titoli sono i collari, le onorificenze le catene. I più alti funzionari sono gli ultimi dei servitori.


Gloria a te, Libertà!

Sterne, il critico amaro, affermava di aver preso la decisione di leggere soltanto i propri libri: egli tradiva così il nostro intimo segreto. È infatti nella natura dell’uomo considerarsi il centro del movimento universale e di rapportare tutto a se stesso. La storia, è lui; l’arte, è lui; la poesia, è lui; ogni cosa è in lui; egli è dappertutto. L’egoismo è la salute degli esseri; l’amore di sé regge l’umanità. Niente di più naturale, dunque, che trovi ciò che io faccio molto meglio di quello che fanno gli altri. Gli avversari di Sterne gli hanno rimproverato molto questo passo; ma ognuno di essi ha sicuramente pensato ciò che Sterne scriveva, a metà ridendo, a metà filosofando, secondo il suo stile.

Tengo talmente all’integrità del mio pensiero, che se dovessi mai diventare celebre, il mio più grande supplizio sarebbe quello di essere commentato dai bibliofili. Quale rabbia hanno questa gente di scarabocchiare il proprio nome sui monumenti! Essi credono di onorare Goethe, Shakespeare, Hoffmann, interpretandoli! Profanatori di genio, quanto vi paga l’editore Charpentier per ogni libro? Dio mio! salvatemi dai facitori di prefazioni. La gloria diventa veleno quando essi intingono la penna nella sua coppa immortale.


Gloria a te, Libertà!

Vi è chi costruisce sulla sabbia, basandosi sugli elogi dei suoi simili. Preferisco non sollecitare le carezze degli uomini politici; non cercherò mai l’appoggio di un partito. Chi è ferito grida. Le vendette dei partiti sono le più atroci. Attaccando tutti, invoco lo scandalo, passando avanti a tutti gli odi.

Vorrei essere tanto forte da riunire tutti i partiti in una lega contro di me. Farei vedere che possono strappare tutte le loro bandiere e su di un solo stendardo nero scrivere le sinistre parole: Ambizione, Guerra. Li sfiderei a tapparmi la bocca; a tutti costoro che hanno l’intrigo nel cuore, mostrerei ciò che può l’amore della libertà.

Certo, sarebbe utile far rotolare nella polvere tutte le maschere, e provare che il meno pericoloso dei partiti è ancora quello che governa, perché è meno ipocrita, e più attaccato dagli altri; e che la si può finire con esso in due giorni di buona volontà.

Che gli uomini cessino di fare delle rivoluzioni prima d’aver appreso a fare a meno del potere. Ch’essi non scrivano più prima d’essere in grado di superare le opinioni.


Gloria a te, Libertà!

Le foglie d’autunno coprono la terra d’un mantello di porpora; gli alberi abbandonano la veste e il sangue e allo stesso modo i miei anni s’involano come foglie disseccate: eccomi a contare i giorni.

La mia impresa non avanza come vorrei; l’esecuzione segue troppo lentamente le rapide ali del desiderio. Oh! quali angosce soffro quando sento la terra tremare sotto i miei piedi e il tuono percorrere il cielo grondante! Perché ho soltanto una testa e dieci dita che si stancano tanto facilmente? Vorrei dire tutto in una volta, ma vi è tanto da dire... non ho il tempo d’essere completo. Vorrei presentare i miei pensieri in tutta la loro luce; ma gli avvenimenti pressano facendoli numerosi; non ho tempo per essere corretto. Detesto scrivere a spezzoni. Vorrei fare un solo libro in tutta la vita, pesando ogni parola. In questo modo mi riassumerei. Non ho il tempo di conoscermi a fondo.

Una irresistibile potenza mi forza a dire presto e velocemente ciò che accade confusamente e presto. Scrivo sulle rovine di un mondo; come potrei non essere agitato? Annuncio l’anarchia universale, quale ordine potrei osservare?

Guardate l’uccello dei naufraghi. Il suo volo è irregolare, il suo grido penetrante, la sua ala acuta. Sulle onde vive solo e triste. Soltanto a proposito di disgrazie si parla di lui; ciò che tutti gli altri fa tremare è la sua unica gioia. Peraltro occorre che tutto venga contato, moltiplicato: la tempesta, il caos e le rivoluzioni.

Sono l’uccello dei naufraghi. Non mi spaventa il maremoto dell’animo umano, né le generazioni né le razze. Libero la mia ala ai venti furiosi e su ogni città sulla quale mi getto, volteggio, lanciando un grido sinistro.


Gloria a te, Libertà!

Scrittori circondati da tutte le comodità del lusso! – Voi che lavorate accanto ad un fuoco scoppiettante, in mezzo ai libri, ai quadri e ai fiori; – voi che poggiate i piedi su molli tappeti e le reni su divani; voi che riposate delle brevi giornate di lavoro con lunghe notti di piacere... voi non sapete quanta perseveranza occorre per scrivere, fare stampare e mettere in circolazione un libro come questo. Non avete mai fatto letteratura di contrabbando.

Quando scrivete non avete paura che la polizia vi disturbi con una perquisizione domiciliare, gettando i vostri scritti nei suoi dimenticatoi. Non avete bisogno di attraversare il mare per andare a cercare, nelle nebbie di Londra, le sole tipografie che siano d’accordo a riprodurre il vostro pensiero. I vostri libri sono pagati, annotati, diffusi in anticipo. Non vi siete mai privati di nulla per economizzare soldo su soldo la somma che vi domanda lo stampatore, l’editore e il contrabbandiere. Non avete la necessità di misurare la lunghezza delle frasi col peso della borsa: crudele supplizio! Vivete a Parigi, a Londra, a Vienna, avete a portata di mano tutti i documenti necessari. Siete ricchi; prendete come segretari poveri giovani pieni d’intelligenza, che vi intrecciano corone in cambio d’un pezzo di pane. Così scrivete: “La nostra società sboccia come un fiore alla rugiada e al sole, diffondendosi dappertutto agli occhi che la contemplano”. Quando Augusto ha bevuto, la Polonia è ubriaca. Scrivo una pagina a Madrid, una a Londra, un’altra in una diligenza, in un battello a vapore, in un albergo, a Parigi, quando sono nascosto a Losanna, a Bruxelles, su una tavola che zoppica, su di una pietra, sui ginocchi, nel letto, quando fa troppo freddo. Malgrado tutto faccio editare le mie opere. Se lo sapessero i miei familiari se ne farebbero una malattia. Quando questo lavoro uscirà la proscrizione si farà sentire. Poi mi avvolgeranno nel sudario. Infine, la polizia imperiale e demagogica, che mi avrà un poco dimenticato, tornerà a onorarmi della sua sollecitudine. Ecco che avrò guadagnato.

Sia: in qualsiasi posizione si trovi l’uomo non deve lasciare che il suo cuore si paralizzi, e gli incitamenti non gli mancheranno mai. L’esilio abbatte soltanto coloro che si vogliono lasciare abbattere, rafforza coloro che si irrigidiscono. Mi aggrapperò alla roccia della resistenza fino a farmi sanguinare le unghie; cercherò la voluttà nell’eccesso della riprovazione.


Gloria a te, Libertà!

Mi si chiede perché non scrivo in versi. Perché, pur avendo l’anima del poeta non ho la pazienza del rimatore; – perché non è il momento delle modulazioni; – perché l’ispirazione poetica non consiste nella prosodia; – perché grandi poeti, il Salmista, Ezechiele, Gesù, Maometto, Budda, San Giovanni, hanno scritto in prosa; – perché gli ultimi, Byron e Goethe, hanno calpestato le scuole; – perché voglio restare libero, mentre il poeta si rende schiavo del metro; – perché nel dominio delle idee, come in quello dei fatti, noi soffriamo il governo; – perché nell’umanità futura, i veri poeti saranno gli spiriti più ribelli a ciò che oggi chiamiamo poesia.


Gloria a te, Libertà!

Perché non arrivate a delle conclusioni? Che cosa volete? Qual è il vostro sistema? – Non ho sistemi o conclusioni da presentare; non posso e non voglio: non desidero nulla. E qualora volessi stabilire un governo tipo Licurgo o tipo Icaria, o qualche organizzazione di lavoro – cosa molto facile – non lo potrei. Guardate cosa resta dei magnifici piani di riedificazione dei signori: Owen, Étienne Cabet e Louis Blanc! Di Fourier restano soltanto le sue giuste critiche, le analogie universali e le grandi predizioni.

Chi si occupa di scienza sociale può fare soltanto una cosa: sottolineare con una matita rossa gli edifici che devono sparire. L’uomo è troppo limitato per comprendere l’insieme degli oggetti e dei secoli che concorrono alla ricostruzione sociale. Solo l’umanità nel suo insieme può ricostruire; eterna e signora della propria azione a tutti i livelli.

L’uomo che cerca di elevarsi non fa altro che creare, contro la società, sette transitorie. Un solo uomo, armato di piccone e di coraggio, può abbattere una casa, ma non saprebbe costruirla. Per ricostruirla occorre impiegare lavoratori specializzati nei diversi settori: quelli che sanno tagliare la pietra, quelli che limano il ferro, quelli che scelgono il legno, quelli che tappezzano, che arredano, che decorano. Per quanto ben organizzato un uomo non può riuscire bene che in un solo lavoro. La società è più grande del signor Louis Blanc, più saggia del signor Étienne Cabet, più progressista dei ri-voluzi-o-nari. Non sono con i ri-voluzi-o-nari ma con la Rivoluzione. Non sono a favore dei creatori di sistemi, ma a favore della scienza.


Gloria a te, Libertà!

Qualcuno mi dirà: perché non sei stato più lungo? Qualcun altro: perché non sei stato più breve? Perché non sei stato soltanto filosofo o soltanto poeta? Perché non svolgi ciò che affermi? Perché nel momento in cui abbiamo tanto bisogno di unione ti assumi il compito di dividerci? Perché non risparmi nessuno? Perché tanto sarcasmo? Perché tanto sentimento? Quale genere, quale ordine hai adottato? Perché non indicare alcune idee? Perché insistere su altre? Perché ripetersi? Perché non essere completi? Perché tante digressioni, oscurità, strofe? Perché i giochi di parole? Perché i canti lugubri?... Perché? Perché?...

E voi, uomini seri, perché vi radete? Perché portate la giacca? Perché prendete lezioni di danza? Perché vi fate mettere i denti? Perché vi dedicate alla ginnastica della riproduzione? Perché impiegate un’ora a mettervi la cravatta? Perché pescate alla lenza? Perché mi leggete?... Perché? Perché?...

La vita è lunga, e ognuno la passa a suo modo. Io spendo il mio tempo nel modo che più mi aggrada. Chi mi garantisce che domani sarò vivo? Voglio scrivere oggi quello che penso oggi. Considero tempo perso le ore passate a magnificare la grammatica e l’arte poetica di Boileau, principe dei poeti frrrancesi. Se l’uomo domanda sempre il perché e il come di ciò che vuole fare, non farà mai nulla. L’esitazione è madre dell’Ozio accomodante e della Schiavitù smagrita.


Gloria a te, Libertà!

Il mio scopo è stato quello di dare coscienza a ciascuno del proprio valore, intraprendendo da sconosciuto un’orgogliosa rivolta contro le autorità che gravano sugli uomini. L’unità umana non ammette più di un individuo; l’unità sociale non comprende meno di tutta l’umanità. Sarò pertanto contro gli interessi dei partiti che annullano l’individuo e contro i pregiudizi delle nazioni che scindono l’umanità.

Sarei curioso di fare uscire anonimo il mio libro; vorrei sapere a quale autore celebre lo attribuirebbero. Mi rallegrerei dell’imbarazzo di questo pover’uomo che non oserebbe né accettare la responsabilità dei miei paradossi, né declinare il merito d’essere stato tanto originale.

Perché ho riflettuto e ho trovato notevole questo libro, in un secolo in cui nessuno osa pensare come me. Il giudizio del pubblico è l’ultima delle mie preoccupazioni. Il pubblico non è forse fatto per divertirci?


Gloria a te, Libertà!

Il mio scopo è quello di essere letto da tutti i popoli con un uguale interesse. Mi sono immerso nella vita nazionale di ognuno. La mia esistenza errante mi ha permesso di vedere parecchio. La sola lingua che scrivo pressappoco correttamente è la più diffusa in Europa. I Francesi sono favoriti nella loro ignoranza.

Pongo la prima pietra di quell’edificio che gli uomini eleveranno scambiando i loro pensieri da un capo all’altro del mondo. Rompo con la tradizione letteraria francese. I popoli vanno l’uno verso l’altro. Quando si tendono le braccia invece delle spade abbisognano di una lingua comune. E come il pensiero precede la lingua, cerco di interpretare il pensiero dei popoli in quest’ora solenne.

(23 marzo 1854). Ecco arrivare la primavera. Ecco gli alberi germogliare, i fili d’erba spuntare nel terreno come migliaia di spade. Gli uccelli riprendono i canti gioiosi, i ruscelli corrono più veloci: la terra si prepara a ricevere il terribile sole. Sento da lontano gli eserciti che si allineano, le trombe che risuonano, e i nitriti dei corsieri. I fucili luccicano: – l’umanità si prepara a ricevere un sole non meno terribile. Andiamo incontro a grandi giorni e grandi liberazioni.


Gloria a te, Libertà!

Ogni cosa arriva a suo tempo: frutti, fiori, estati e inverni. – Ogni astro ha la sua ora e ogni uomo il suo secondo. – Una rivoluzione non è un accidente. – Un libro non si fa per caso.

Questo risponde alle aspirazioni di libertà che gli individui posseggono, e alle tendenze unitarie che agitano i popoli. La sua ora è suonata. Non sono più padrone di fermarlo, più di quanto non fossi padrone di concepirlo.

Gli uomini non saranno sempre divisi dai capi. Verrà un tempo in cui mi si ringrazierà d’aver detto delle cose vere. – Non mi abbasserò fino a domandare l’approvazione degli uomini di oggi.


Gloria a te, Libertà!

Privilegiati, senza gusto, – diseredati senza pane! Ricchi senza cuore, – poveri senza famiglia! Soddisfatti senza viscere, – proletari senza istruzione! – Sazi e affamati! Tiranni e schiavi!... Ascoltatemi.

Cani da palazzo, puliti ma capaci di mordere nell’ombra; – lupi della grande foresta, magri e coraggiosi! Voi tutti che avete ancora una vena sotto la pelle, un muscolo sull’osso, voi le cui orecchie sentono ancora e i cui occhi ancora vedono!... Ascoltatemi.

L’abisso dei futuri angeli mi attira. In fondo, vedo il Tempo che aguzza il ferro sulle ossa, e che falcia le generazioni come l’erba delle praterie.

Il Tempo è ben più potente di me, io sono soltanto un mortale. Ciò che egli mi spinge a dire lo dirò.

Malgrado il riso di sarcasmo e le urla di odio; malgrado la furia delle folle umane che le mie parole solleveranno come un gran vento; malgrado le trappole che i partiti tenderanno sulla mia strada.

Perché l’esplosione del mio riso e il ruggito della mia ironia saranno più forti dei loro bisbigli. Perché mi cullerò in mezzo alle folle e i clamori saranno dolci alle mie orecchie: strapperò le trappole con i denti.

Sfuggirò i civilizzati ad uno ad uno, perché hanno giurato di farmi tacere. Lascerò dietro di me minacce che li faranno tremare. Si sentiranno come i rulli del tamburo sul mare, molto tempo dopo che la nave è passata.

Sfuggirò dappertutto i civilizzati, perché il rumore dei loro piccoli affari distoglie la mia attenzione dalla grande opera dei tempi. Ma il mio nome li ossessionerà quando saranno tristi, i campanelli d’allarme lo ripeteranno, e, sopra le croci delle tombe, lo leggeranno le vedove e gli orfani.

Mio padre e mia madre dopo avermi generato si riposarono. Lo spirito divinatorio dell’una e le aspirazioni di rivolta dell’altro si sono mescolati nel mio sangue. Il midollo delle mie ossa grida. Soffro tutto ciò che questa penna scrive.

Ho morso, pieno di avidità, il frutto della scienza e mi sono rotto i denti. I dottori ridono, loro che tagliano i frutti saporosi con coltelli d’argento dorato e lasciano il nocciolo ai segretari.

Mi domandano perché faccio questo libro; rispondo: perché il fanciullo protesta quando si commette un’ingiustizia davanti a lui; – perché il marinaio che vede biancheggiare le onde da lontano, sa che porteranno ben presto dei cadaveri sulla riva; perché l’uomo che non si preoccupa degli interessi presenti, sente col cuore di un fanciullo e vede col colpo d’occhio dell’uomo di mare.

Maledetti quei milioni di civilizzati che non vedono e non sentono. Saranno trovati leggeri sul piatto dell’eterna bilancia.


Gloria a te, Libertà!


[Pubblicato in Ernest Cœurderoy, I giorni dell’esilio, vol. I, tr. it., Trieste 2013, pp. 49-61]

 
 

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