Titolo: Critica della ragione politica
Note: Pensiero e azione N. 40
Prima edizione: maggio 2015
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“La forza è un potere fisico e io non so vedere quale conseguenza morale essa possa avere. Cedere alla forza è un atto di necessità, non di volontà, tutt’al più, è un atto di prudenza. In che senso potrebbe costituire un dovere? Dobbiamo dunque convenire che la forza non crea il diritto, e che non si è obbligati a obbedire”.

(J.-J. Rouseau, Il contratto sociale)

“Ogni forza è morale, perché si rivolge sempre alla volontà: e qualunque sia l’argomento adoperato – dalla predica al manganello – la sua efficacia non può essere altra che quella che sollecita infine interiormente l’uomo e lo persuade a consentire. Quale debba esser poi la natura di questo argomento, se la predica o il manganello, non è materia di discussione astratta. Ogni educatore sa bene che i mezzi di agire sulla volontà debbono variare a seconda dei temperamenti e delle circostanze”.

(G. Gentile, Che cosa è il fascismo)

Introduzione

I testi raccolti in questo libro non sono strettamente connaturati al concetto corrente di “politica”. L’accento va posto quindi sul termine “ragione”, più che sull’altro che correda il titolo “critica”. Vediamo perché.

Scarnificare argomenti strettamente politici non è possibile e, a farlo, sarebbe opera vana. Molti fantasmi si assiepano davanti alla porta della caverna dei massacri all’interno della quale gorgoglia la melma dell’attività umana che si fregia di questo titolo poco commendevole, il titolo appunto di “politica”. È quindi opportuno dimenticare l’antico segno lasciato da Aristotele e rendersi conto che si tratta della scienza dello Stato, la sola che si può chiamare politica in senso stretto.

Ma cos’è la “scienza dello Stato” se non lo studio di come massacrare e opprimere nel migliore dei modi, e pagando il minore prezzo possibile, coloro che per motivi vari finiscono per essere soggetti passivi dello sfruttamento? Discutibile pertanto che si possa parlare di una “filosofia dello Stato”, di cui mancherebbe il fondamento teorico minimo, viaggiando la pratica sanguinosamente repressiva a breve e a medio termine, senza principi e senza regole logiche. Forse si potrebbe ripiegare sul significato crociano di “filosofia politica”, ma anche questa scelta pretenderebbe una distanza paludata e una circospezione che non ci appartengono.

La sostanza è che non si può pensare il problema politico se non pensando il problema del potere. Ne deriva che quando parliamo di politica parliamo di potere. E, in fondo, è questo il motivo, lo stimolo principale, perché ci interessiamo di una “critica della ragione politica”, per entrare e meglio conoscere i meccanismo che rendono funzionante – più o meno in maniera comprensibile – il potere.

Hobbes ha definito il potere come “consistente nei mezzi per ottenere un qualche vantaggio”, ma è definizione troppo generalizzata per contribuire a illuminare i comportamenti repressivi dello Stato, legittimati o meno che siano a esercitare una repressione e un controllo.

In fondo è il concetto di potere dell’uomo sull’uomo che contrassegna la politica, quanto di più odioso abbia escogitato questa bestia maligna per farsi spazio nel mondo a scapito dei più deboli. Bertrand Russell ha parlato del potere come “l’insieme dei mezzi che permettono di conseguire gli effetti voluti”. Ciò comprenderebbe due tipi di dominio, quello sugli uomini e quello sulla natura, quest’ultimo non potrebbe essere definito potere se non per le eventuali ricadute che ha – quasi sempre in quanto siamo ormai di fronte a un uso dissennato delle risorse – sul dominio sull’uomo. In senso stretto il potere è quindi dominio sull’uomo, contrapposizione tra governo e governati, tra inclusi ed esclusi.

Alla fine, considerando le cose dell’uomo nella loro brutalità essenziale abbiamo tre tipi facilmente comprensibili di potere, quello politico in senso stretto, quello economico e quello ideologico. Pur potendo separarli per amore di discussione e, qualche volta, per meglio rendersi conto dei livelli e della compattezza della mota che rischia di fare apparire tutta la caverna dei massacri come qualcosa di indistinto, non si deve dimenticare però che tra queste tre forme ci sono connessioni ineliminabili, tali che rendono necessarie compresenze che non sono mai estraneità messe in parallelo, ma consanguineità e corresponsabilità più o meno feroci. Non c’è dubbio che il possesso dei mezzi di produzione, e la loro gestione economica – riguardo la quale parlare di “ragione” ha un sottile afflato cinico – si riversa con estrema pesantezza nel campo della gestione politica della cosa pubblica in senso stretto. Allo stesso modo, e con un intreccio non districabile, l’elaborazione ideologica, la costruzione di modelli interpretativi del mondo, contribuisce al mantenimento del potere sia politico (in senso specifico – democrazia o dittatura sono solo differenze di sfumature) – che economico.

Pensiamo alla guerra, pratica costante di tutti gli Stati, anche nei tempi presenti nei quali le grandi nazioni democratiche sembrano a essa estranee, e vediamo subito quanta importanza abbia la guerra all’interno della gestione di potere, come sostenga l’economia e l’occupazione, quindi come riceva dalla produzione copertura ideologica, camuffamento e giustificazioni per continuare a svolgere il proprio compito. All’interno di questo aspetto del potere, che è stato definito coattivo, esiste l’apparato di guerra interno, organi di polizia in senso specifico, carceri e tutti gli armamentari che rendono possibile la repressione del dissenso sotto qualsiasi forma quest’ultimo si presenti. Dal generale che “democraticamente” ordina di sparare sugli insorti di un qualsiasi Paese lontano migliaia di chilometri, all’ultimo dei torturatori che opera nelle stanze oscure di ogni questura sotto la tutela e la compiacenza di dirigenti benevoli, il filo è ininterrotto. Come non si taglia neppure quando si esaminano le connessioni tra questa gentaglia, produttrice di fanghiglia politica in modo oscenamente scoperto, con i bravi operai che lavorano nella industria degli armamenti – l’Italia è ai primi posti nel mondo in questo settore molto remunerativo – senza battere ciglio sotto lo sguardo benevolo e protettivo dei sindacati che ne difendono il salario.

La ragione segreta, il punto interno essenziale, tanto nascosto da non vedersi quasi nella sua più spaventosa chiarezza, la “ragione” di cui qui discutiamo la “critica”, è “la forza” del potere. La politica, e con essa l’economia e l’ideologia, hanno una ragione, essa è data dal mezzo specifico della forza, mezzo efficace per imporre certi comportamenti al posto di altri che risultano pertanto impediti.

Certo, l’ideologia “spiega” coinvolgendo, il suo scopo è quello di fare partecipare all’ubbidienza, e fare diventare ogni suddito carabiniere di se stesso. Però questo modello repressivo – oggi capace di raggiungere livelli di importanza una volta impensabili nelle forme capillari in circolazione grazie ai moderni mezzi di informazione – è subordinato alla radicale forma coercitiva dell’obbligo indiscusso e indiscutibile, nei confronti del quale non ci sono eccezioni se non per la classe degli inclusi che, promotori e decisori degli obblighi stessi, se ne sono ritagliati una modulazione diversa più confacente alle proprie necessità.

Sia l’ideologia che la forza bruta – malamente legittimata con varie coperture legali fissate dallo Stato – non sono esclusivo possesso del potere, quest’ultimo è obbligato a condividerle con altre ideologie e altre forze, spesso parallelamente concorrenziali (lotta fra Stati con motivazioni ideologiche diverse, lotta fra vari gruppi di pressione, ecc.), ma anche con una resistenza più o meno armata in grado di frenare e, al limite, disinnescare la forza primaria del potere, ingenerando una situazione rivoluzionaria. In condizione di “normalità gestionaria”, il potere ha comunque, tranne fenomeni marginali abbastanza facilmente riconducibili al controllo e alla repressione, l’esclusiva di questa forza, ed è qui la sua “ragione d’essere”, in altre parole, il suo fondamento essenziale.

Ecco perché in questo volume non si troveranno solo scritti di natura politica in senso convenzionale, ma anche scritti che a tutta prima sembrano affrontare temi economici, i quali, osservati attentamente scoprono la propria intima connessione con quella politica economica che è la leva principale per l’uso della forza. Gli inclusi non avrebbero la propria “ragione” per esercitare il potere se non possedessero i mezzi di produzione, le loro leggi sarebbero mera espressione astratta di opinioni prive di contenuto pratico. La definizione di Max Weber è illuminante in questo senso. “Per Stato si deve intendere un’impresa istituzionale di carattere politico nella quale – e nella misura in cui – l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima, in vista dell’attuazione degli ordinamenti”.

Il potere non ha conoscenza reale della propria “ragione”, usa la forza per raggiungere l’obiettivo di garantire la supremazia degli inclusi, ma questo scopo è mediato dall’esistenza delle leggi che fissano un campo più o meno delimitato di legittimità. Apparentemente l’impiego della forza è diretto a impedire che gli esclusi fuoriescano da questo campo creando altre forze in concorrenza più o meno in grado di soppiantare la “ragione” primaria del potere, ma in effetti lo scopo essenziale è quello di difendere gli interessi economici degli inclusi, la loro ricchezza, la loro proprietà e la loro possibilità di continuare a sfruttare gli esclusi. In questa prospettiva l’impiego di potenti mezzi ideologici è una variante della forza, esso è diretto a rendere meno dure le conseguenze che questo impiego, puro e semplice, porta sempre con sé. Nemmeno il regime più dispotico può fare a meno dei mezzi ideologici, intendendo inserito in questi anche l’uso strumentale della religione. In questo senso insiste Weber: “Non è possibile definire un gruppo politico – e neppure lo Stato – indicando lo scopo del suo agire di gruppo. Non c’è nessuno scopo che gruppi politici non si siano talvolta proposto. Si può pertanto definire il carattere politico di un gruppo sociale solamente mediante il mezzo, che non è proprio esclusivamente di esso, ma è in ogni caso specifico, e indispensabile per la sua essenza: l’uso della forza”. Qui la tutela degli interessi strettamente economici degli inclusi da parte del potere non è più distinguibile dalla tutela della legittimità di campo che rende possibile la prima.

In ultima analisi l’uso della forza corrisponde all’uso della ragione intrinseca della politica, cioè ad una tautologia. Il potere cerca solo di perpetuare se stesso, non ha altri scopi. Tutto quello che fa, perfino la ricerca di quel poco di benessere degli esclusi, da cui dipende pur sempre il consenso e quindi l’accettazione del dominio, lo fa in vista di continuare a persistere in quanto potere. Non è esatto andare alla ricerca di altre forme di potere in grado di perseguire altri fini, ad esempio il potere di un ingegnere che ha per fine quello di costruire una casa e in tal senso dà ordini ai suoi operai, si tratta di esempi fuorvianti incentrati sempre sul concetto di “specialismo”. Il potere politico non è nemmeno una forma degenerata di potere per il potere, esso è il potere più connaturato all’uomo che vive in società, in questi modelli di società che la storia da millenni continua a metterci sotto gli occhi. Sono state molte le variazioni ma il modulo resta sempre lo stesso, una minoranza decisa a sfruttare la propria situazione di potere, con qualsiasi mezzo, legittimo o illegittimo (l’illegittimità fa presto a cangiarsi in legittimità), per sottomettere una maggioranza non in grado di difendersi o con scarse possibilità di contrattaccare.

Amici e nemici, la dicotomia di Schmitt non vale molto, al più potrebbe servire per illustrare la metodologia di poteri non esclusivi, quindi diversi dallo Stato. Il mondo della politica, letto attraverso questa forma, si cristallizza in una astrazione che fugge via da ogni contrapposizione basata su interessi specifici da difendere, e in base alla quale operare distinzioni e prevedere progetti repressivi o di liberazione. Per quanto la precisione di questo autore possa meglio inquadrare il problema per certi aspetti, alla fine si rivela inutilizzabile. Così egli scrive: “La caratteristica dello Stato è di sopprimere all’interno del suo ambito di competenza la divisione dei suoi membri o gruppi interni in amici e nemici, allo scopo di non tollerare se non le semplici rivalità agonistiche o le lotte dei partiti, e di riservare al governo il diritto di designare il nemico esterno”. Chiarificazione che dimentica il modo in cui lo Stato può utilizzare una parte dei suoi apparati in funzione repressiva, tutelare una parte preponderante economicamente perché costituisce la fonte essenziale della propria sopravvivenza, ideologicamente condizionare la gran parte dei sofferenti allo scopo di ridurre il loro potenziale sovversivo, ecc. Comunque, in caso di tensione non controllabile, è sempre il ricorso alla forza che caratterizza la “ragione” fondamentale della politica, la tutela massima del suo unico scopo, la sopravvivenza del potere, immutabile nel suo continuo cambiamento.

Altrettanto inutilizzabile è oggi la classica distinzione di Hobbes nei tre concetti fondamentali di libertas, potestas e religio. È da questa distinzione che deriva la contrapposizione altrettanto classica tra Stato assoluto e Stato liberale. Nella realtà attuale queste forme statali sono state abbandonate per forme miste, perfino le dittature più recenti avevano bisogno del consenso e lo cercavano con massicce dosi di interventi ideologici.

Com’è ovvio, gli studi pubblicati in questo libro non hanno una connessione logica, ma semplicemente una comunanza di interpretazione e un intento collettivo, quello di mettere in luce la melma che sta alla base della politica, di qualsiasi politica, anche quella che si veste dei panni apparentemente allettanti della rivoluzione.


Trieste, 10 dicembre 2010

Alfredo M. Bonanno

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“La sovranità, dapprima soltanto concetto universale di quest’idealità, esiste soltanto come soggettività certa di se stessa e come autodeterminazione astratta – e, pertanto, priva di fondamento della volontà, nella quale si trova l’estremo della risoluzione. È questa l’individualità dello Stato in quanto tale; il quale, esso stesso, soltanto in ciò è uno. Però, la soggettività è nella sua verità, soltanto in quanto soggetto; la personalità è soltanto in quanto persona, e ciascuno dei tre momenti del concetto ha il suo aspetto separato per sé, reale, nella costituzione sviluppata a razionalità reale. Questo momento assolutamente decisivo della totalità non è, quindi, l’individualità in generale, ma un individuo, il monarca”.

(G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto)

“Dobbiamo distinguere il fatto del pluralismo ragionevole dal fatto del pluralismo in quanto tale. Non si tratta semplicemente del fatto che istituzioni libere tendono a generare un’ampia varietà di dottrine e opinioni, com’è prevedibile data la diversità degli interessi degli uomini e la loro tendenza ad adottare punti di vista limitati, ma del fatto che fra le opinioni che si sviluppano c’è un’ampia varietà di dottrine comprensive e ragionevoli. Non sono soltanto frutto di interessi egoistici e di classe, o della comprensibile tendenza umana a considerare il mondo politico a un punto di vista limitato; sono parte integrante dell’opera della ragione pratica libera, entro la cornice di libere istituzioni. Dunque, il fatto del pluralismo ragionevole [...] non è un aspetto sfortunato della condizione umana; e nel dare alla nostra concezione politica una forma che possa, nel suo secondo stadio, conquistare l’appoggio di dottrine comprensive e ragionevoli, stiamo adattando questa concezione non alle forze brute del mondo, ma agli esiti inevitabili della ragione umana”.

(J. Rawls, Liberalismo politico)

Critica della ragione politica

Alcuni movimenti nella formazione del capitale e nella struttura degli Stati occidentali agli inizi degli anni Ottanta, lasciano scorgere l’inizio di una profonda modificazione nei processi produttivi. Il capitale tende ad autonomizzarsi, risolvendo alcune contraddizioni che lo avevano afflitto per tutta la durata degli anni Settanta. La strada scelta è quella di realizzare la propria superiorità nei riguardi dei produttori attraverso procedimenti indiretti, cioè attraverso un controllo e una gestione delle risorse materiali. Per fare ciò, si doveva però superare una sorta di incapacità endemica di raggiungere gli obiettivi prefissati da quelli che appaiono come interessi di classe precisi. In altre parole, negli anni precedenti, il capitale, specialmente col fallimento della programmazione economica e con la caduta delle ideologie relative, aveva manifestato alcune incapacità intrinseche, cioè non era stato in grado di massimizzare le proprie reali possibilità di dominio. Per risolvere il problema, agli inizi degli anni Ottanta, chiese apertamente un intervento massiccio dello Stato.

Il concetto di dominio si è molto diversificato nel corso degli studi sociali, per cui dall’originale superiorità di un soggetto singolo o collettivo su uno o più altri soggetti, si è giunti alla definizione per cui, in un sistema sociale, un elemento controlla a proprio vantaggio, per quanto possa sembrare diversamente all’esterno, le risorse materiali e la distribuzione delle idee, come pure tutti i rapporti politici che in un modo o nell’altro risultano attinenti a questa distribuzione. Per i marxisti, il dominio indica la possibilità delle classi, appunto dette dominanti, di prelevare ed impiegare a proprio favore il prodotto dalle classi sfruttate. Un’altra tesi, dovuta principalmente a Max Weber, considera il dominio come una forma di aggregazione imposta con la forza e dall’esterno a una qualsiasi associazione di individui, la quale associazione proprio perché obbligata nella sua totalità prende il nome di surplus. Altri autori, sempre di origine tedesca, pongono una differenza tra dominio e potere, considerando il dominio come la capacità di ottenere l’obbedienza senza che l’obbligato aderisca anche con i suoi sentimenti, e il potere come la capacità di coinvolgere anche questi sentimenti nell’obbedienza. Gli studiosi di origine anglosassone invece non si sono dati pensiero di ricondurre il concetto di dominio alla conflittualità originale tra le classi, per cui nelle loro opere, da Herbert Spencer fino a Charles Cooley, il dominio appare come la semplice concentrazione di potere economico, politico, organizzativo e intellettuale nelle mani della classe dominante. Solo più recentemente, con Charles Wright Mills, si è usciti da questa concezione con gli studi sulle elite del potere.

Il dominio è un concetto esclusivamente modificativo, in quanto le sue varianti sostanziali, apparendo nell’ambito delle effettualità superiori, assumono tutt’altro significato. Noi possiamo dominare alcuni aspetti dell’accumulazione, costituire strutture che nella graduatoria della complessità e dell’efficacia produttiva, sono superiori ad altre, e quindi costituire condizioni di dominio. Poi possiamo anche dominare alcuni movimenti in altro modo. A esempio, esistono intensificazioni relazionali che non sono strutture, ma dominano certi affievolimenti. Esistono poi le condizioni di maggiore efficacia effettuale, quali quelle interpretative o trasformative. Si tratta di differenze che vengono colte costantemente nella realtà, la quale non è né uguale a se stessa, sempre e comunque, né pacificamente concorde.

Il fatto che il conflitto domini la realtà, non significa necessità del dominio. I due aspetti non sono legati insieme da vincoli di causa ed effetto. Nell’ambito modificativo il dominio si realizza all’interno del campo. Qui approfitta delle condizioni protocollari quantitative e si trasforma da differenza qualitativa, ineluttabile, in differenza quantitativa, ovviabile, anzi condannabile come prevaricazione ed esproprio, violenza e sfruttamento. Non c’è quindi un concetto statico di dominio, anche se qui ne parleremo soltanto riferendoci all’effettualità modificativa, cosa che ce lo farà considerare soltanto sotto l’aspetto del dominio sociale, politico ed economico, insomma nell’ambito del campo. Ciò non vuol dire che l’attività della coscienza diversa non possa innestarsi in esso, provocarlo in uno scontro costante, e spesso sanguinoso, insidiarlo, scuotendone il privilegio all’interno delle condizioni quantitative.

Osserviamone comunque i movimenti dalla parte stessa del dominio, cioè dalla parte della coscienza immediata, che è anche la nostra coscienza, in quanto, nell’ambito del conflitto di classe, del tutto interno alle condizioni protocollari del campo, non c’è la coscienza del dominio e quella del dominato. L’immediatezza è sempre coscienza del dominio, che viene esercitato nell’ambito del fare coatto, del mondo della produzione, ma viene anche subito. La differenza tra dominanti e dominati, tra inclusi ed esclusi, si colloca nelle diverse intensità di questa partecipazione al dominio o alla condizione di dominati. Allo stato attuale dell’effettualità modificativa, le cose stanno così, in prospettiva, e secondo i programmi dei dominanti, potrebbero costruirsi strutture specifiche dell’immediatezza, dove il dominio potrebbe passare quasi inosservato, richiedendo solo una partecipazione indiretta. Ma su questi problemi torneremo più avanti.

Quello di cui discutere in queste pagine è quindi una delle più significative razionalizzazioni del dominio che si siano mai verificate. Lo sviluppo di questo processo ordinativo è stato caratterizzato da forti spinte collaborazioniste interne alle strutture di organizzazione del lavoro, sindacati e partiti della cosiddetta sinistra. L’insieme di questi elementi recuperativi ha consentito il passaggio, in maniera sufficientemente omogenea, dal dominio formale o repressivo al dominio razionale e quindi più tollerante, tutto ciò dentro certi limiti in quanto il passaggio a modelli più rigidi di controllo e repressione è sempre possibile. Nell’indagine che svilupperemo qui, sarà necessario distinguere tra capitale e Stato, il primo fondato sulla produzione economica, intesa come creazione di oggetti e come oggettualizzazione del fare coatto, e produzione di pace sociale, intesa come creazione di ideologie e simboli della reciproca tolleranza e del reciproco interesse, insomma tutte le condizioni della collaborazione alla gestione del dominio.

Tra queste due strutture è sempre bene fissare una differenza, in quanto anche nella piena realizzazione del dominio razionale, cioè nella costituzione di un’effettualità modificativa del tutto priva di contraddizioni e difetti strutturali, cosa per altro impossibile ma che qui consideriamo come ipotesi al limite, esisterebbe sempre in queste due strutture un differente intendimento gestionario e in fondo anche differenti obiettivi. Il ruolo produttivo dello Stato si ripropone sempre a livello di riassunzione della oggettualità prodotta nel quadro generale della produzione di pace sociale.

Anche nei Paesi dove era applicato il socialismo reale non si arrivava mai a una semplificazione unitaria di questo rapporto, tanto è vero che le necessità dell’economia, cioè della produzione, hanno suggerito di abbandonare la strada politica fino a questo momento [1991] mantenuta e intraprendere quella della democrazia occidentale, operazione più o meno corrispondente a uno svuotamento di potere degli organi della cosiddetta rappresentanza popolare e un parallelo accentramento del potere nelle strutture dell’esecutivo politico. A quanto sembra questa è la strada più agevole per la costituzione di esclusioni efficaci e perfettamente funzionanti, come saranno quelle dei prossimi decenni.

Lo Stato non può quindi essere il capitalista unico, come di fatto tendeva ad essere nel socialismo reale, come non può essere un capitalista a parità di diritti con gli altri, come teoricamente dovrebbe essere nella libera concorrenza. E ciò non solo negli aspetti strutturali caratteristici degli anni Ottanta, ma in qualsiasi altro aspetto si consideri, almeno per quello che è possibile dedurre dalle condizioni attuali del fenomeno statale.

Che nella democrazia si sostituiscano parte dei contenuti ideologici di periodi precedenti del dominio, con contenuti di natura tattica o procedurale, questo è un fatto accertato. Lo Stato cerca la sua strada, e lo fa sulla base delle procedure di approssimazione che reggono la logica dell’a poco a poco. Lo scopo è quello di dare fondamento razionalizzato al dominio. In altri termini, di legittimarlo in quanto sistema logico che persegue il suo scopo di controllo e di garanzia della produzione, secondo regole fondate sulla ragione, quindi sperimentate, non su illusioni e mitologie irrazionali che potrebbero ricordare movimenti specifici del tipo di dominio che si identifica con la dittatura.

È ovvio che la legittimazione è dominio essa stessa, in quanto processo di razionalizzazione. Difatti non esiste dominio senza legittimazione. Anche le dittature si legittimano, in maniera differente, ma si legittimano lo stesso, non ne possono fare a meno. Ciò è importante per evitare di cadere negli equivoci fisiologici o meccanicistici, nelle analogie facili ma fuorvianti. Difatti, dando molto spazio a questi aspetti procedurali, si nasconde il fondamento ultimo dello Stato, che è il monopolio della violenza, fondamento che rende possibile la democrazia come apparato ufficiale di natura tollerante e permissivo. Sia l’attività dello Stato che quella del capitale sono caratterizzate dall’incertezza e della contraddizione.

All’inizio degli anni Ottanta, periodo di considerevole importanza per capire il movimento che stiamo studiando, si aveva una caratteristica generalizzata di incertezza e di casualità nella produzione. L’incontro e lo scontro dei singoli interessi dei capitalisti produceva situazioni che spesso avevano un profondo contrasto con gli interessi stessi della produzione. Nonostante questa situazione, che si potrebbe definire irrazionale, il capitale non perdeva la sua supremazia di classe e riusciva a mantenere il dominio, sia pure a prezzo di riduzioni del profitto, di conflittualità eccessive fra i diversi settori della produzione, insomma tutta la situazione che di regola si presenta nella giungla produttiva. Uno degli elementi che consentivano questa resistenza, malgrado condizioni esterne negative, era la capacità di adattamento del capitale. Di volta in volta, senza scrupoli o falsi pudori, il capitale si adattava, non solo nei metodi, ma anche negli obiettivi.

Questo concetto di adattamento è molto importante perché spiega molti aspetti dei conflitti sociali, al di là dei risultati che in esso sono visibili esternamente. È chiaro che le strutture produttive, come quelle del dominio, che poi sono le stesse, ma solo considerate da un punto di vista diverso, preparano il terreno al superamento delle irrazionalità del singolo capitale proprio grazie all’adattamento. Da Leopold von Wiese l’adattamento è considerato proprio uno dei gradi del processo di associatività. Così egli scrive: «Nell’adattamento è possibile rinvenire l’associazione stessa; dove per la verità già la parola medesima mostra che viene presa in considerazione la differenza dei partner che si associano. Si possono adattare soltanto ed esclusivamente gli esseri simili, ma non quelli uguali. Ogni processo di adattamento sarà costituito dall’accentuazione e dall’utilizzazione della somiglianza; l’attenzione sarà rivolta a ciò che nelle grandezze vi è di uguale e non meno a ciò che in esse vi è di disuguale. Trascurare e dimenticare le diversità, significa annientare il punto di partenza» (Sistema di sociologia generale, tr. it., Torino 1968, p. 462). Per Talcott Parsons l’adattamento è invece molto più importante, esso rappresenta una delle condizioni essenziali del funzionamento di ogni sistema sociale. Egli scrive: «La difesa e l’adattamento sono concepiti come processi equilibratori, che si oppongono secondo certi modi alle tendenze al mutamento del sistema» (Il sistema sociale, tr. it., Milano 1965, p. 215). Da notare che nel senso di Parsons l’adattamento si pone come elemento di riequilibrio e non di razionalizzazione. Difatti, ci sembra che proprio in questo senso l’irrazionalità del sistema produttivo nel suo complesso e del livello della produzione economica in particolare, non venga corretta o superata, ma semplicemente ricondotta all’interno di dimensioni tollerabili.

Un altro degli elementi che permettono la resistenza del capitale è dato dalla capacità di eliminare comportamenti contraddittori che si ripresentano con una frequenza superiore a una certa media tollerabile. Pur non attenendo al problema che ci occupa, mi sembra importante specificare meglio quali possono essere questi comportamenti irrazionali. Cominciamo col dire che non si tratta di comportamenti considerati irrazionali alla luce di un modello specifico ben precisato che per motivi riconosciuti validi viene evaso dal singolo capitale. Si tratta piuttosto di comportamenti spontanei che finiscono però, a posteriori, per risultare in contraddizione con l’interesse generale della classe dominante. Certo, lo scopo generale del capitale è quello di massimizzare il profitto, ma in concreto, il singolo capitale, un determinato gruppo di capitali, possono trovarsi a compiere azioni economiche che si rivelano sconsiderate, irrazionali, ripetitive, legate a concezioni tradizionali ormai superate e affette da sentimentalismi extraeconomici. La teoria ha approntato tutto un armamentario del calcolo dei costi e dei ricavi, ma sono ben pochi i singoli capitali che agiscono partendo da questo genere di previsioni. Per altro, non esistono strumenti realmente efficaci per la soluzione dei problemi tecnici della produzione: quantità da produrre, composizione dei fattori di produzione, prezzi da portare sul mercato, ecc. A esempio, non c’è dubbio che nella formazione dei prezzi non gioca solo l’analisi economica ma anche la componente storica, specifica del singolo capitale, per cui esso si trova obbligato a produrre con quelle percentuali di macchinari, mano d’opera e capitali variabili senza poter fare gli opportuni cambiamenti in tempi ragionevolmente brevi. Non bisogna sottovalutare l’aspetto irrazionale di questa componente storica nella determinazione dei prezzi e in fondo nella stessa collocazione di mercato del singolo capitale. Come vedremo più avanti, l’avere se non risolto, almeno aggirato, questa vischiosità aziendale ha consentito la svolta degli anni Ottanta e il risorgere delle fortune del capitale a livello internazionale.

Un altro luogo delle approssimazioni e delle incertezze, per quel che concerne il comportamento del singolo capitale, è dato dal fatto che la massimizzazione del profitto, quindi la livellazione del costo e del ricavo marginali, è fatta partendo da valutazioni che sono esclusivamente soggettive o immaginate da uomini i quali procedono a questo genere di calcoli e prendono questo tipo di decisioni. Certo si tratta di uomini sufficientemente preparati e ragionevoli, ma non per questo le loro decisioni si possono considerare razionali nel senso che viene preteso dalla massimizzazione del profitto come principio generale della produzione a livello economico. La realtà è che quasi nessun capitale singolo è in grado di conoscere realmente i suoi costi, sia perché difetta di esperienza, sia perché non gliene importa molto preferendo orientarsi all’interno della stessa tendenza storica della propria azienda. Le cose stanno allo stesso modo per quel che riguarda il prezzo e le previsioni di ricavo. Su quest’ultimo punto s’immagina una domanda ipotetica, anche facendo ricorso a tecniche di indagine di mercato o di statistica pubblicitaria, cose molto sofisticate ma sempre affette dalla malattia congenita di tutte le previsioni, cioè l’incertezza, e su quella domanda ipotetica imposta il suo programma di produzione. Ma le variazioni della domanda, in realtà, non sono prevedibili, l’elasticità di quest’ultima è un fatto legato a troppe incognite. Può quindi darsi che il singolo capitale aumenti il prezzo quando invece una riduzione gli avrebbe fatto avere un ammontare d’affari maggiore e un più alto guadagno. Ma questo nessuno può saperlo prima e nessuno lo potrà mai sapere dopo.

Anche l’influsso dei cambiamenti sulle singole decisioni del capitale non è chiaramente conoscibile. Infatti, se ipotizziamo un aumento delle tariffe di trasporto si dovrebbe avere una certa reazione da parte dei singoli capitali, ma può essere che questo non accada. Il singolo capitale potrebbe non sapere nulla dell’aumento e potrebbe anche non importargliene in quanto riesce a fare entrare il maggiore costo all’interno della composizione storica individuale del prezzo, la quale comprende spazi economici solo a lui noti.

Il singolo capitale, inoltre, si basa per le sue decisioni su di una dimensione temporale di anticipazione. Ma qual è il tempo minimo o massimo che rende più o meno plausibili queste anticipazioni? E poi, sono più utili le previsioni a breve, a media, o lunga scadenza? Quali sono le più attendibili? A esempio, quando il capitale singolo fa previsioni a lunga scadenza in genere si pensa che ciò comprenda forti variazioni nelle attrezzature, cioè stabilimenti, macchinari, ecc., ma ciò avviene perché per variare il capitale fisso ci vuole molto tempo o perché per affrontare le variazioni a lunga scadenza nel livello della produzione ci vogliono variazioni del capitale fisso? Nessun uomo d’affari potrebbe rispondere a questa domanda. In genere, le cose si fanno in un certo modo perché ci sarà un costante aumento della domanda e allora si investono capitali nella costruzione di un nuovo stabilimento, ecc. Ma ciò potrebbe andare incontro a sorprese non proprio piacevoli, e tante cattedrali nel deserto del meridione italiano sono la conferma di questo modo irrazionale di procedere dal singolo capitale. Si potrebbe obiettare a questo punto, sbagliando, che quelle cattedrali non sono state prodotte dal capitale singolo ma dallo Stato. La realtà è che quelle cattedrali sono state prodotte da ambedue questi aspetti del dominio, quello capitalista e quello statale. Comunque quelle imprese restano cattedrali nel deserto solo dal punto di vista del capitale singolo e non dal punto di vista della produzione di pace sociale, in quanto in quest’ultimo caso hanno assolto al loro compito.

Certo, vi sono delle tesi economiche che prendono in considerazione anche altre scelte facendole entrare lo stesso nel calcolo del capitale. A esempio, un’azienda potrebbe decidere di vendere a prezzi ridotti agli appartenenti a un determinato gruppo o partito o chiesa, ecc., oppure potrebbe decidere di comprare a prezzi maggiorati da un gruppo di aziende consociate per scopi non sempre confessabili, come un uomo d’affari potrebbe rinunciare a ingrandire la sua attività perché preferisce non avere troppi fastidi e ama la vita comoda. Vi è chi sostiene che queste decisioni si possono quantificare in una speciale ricompensa o ricavo per cui si ha sempre una logica economica anche in questo. Ma quello che qui sostengo è che se questo genere di fatti assume una frequenza superiore alla media diventa intollerabile per la produzione nel suo insieme, anche se a livello psicologico individuale si può sempre trovare una giustificazione che abbia tutto l’aspetto della razionalità. Non mi sembra utile continuare quest’analisi che è stata iniziata a titolo di chiarimento.

A un determinato livello il comportamento irrazionale del singolo capitalista, persistendo nella sua situazione conflittuale con l’interesse complessivo del capitale, finisce per saltare fuori dalle condizioni di mercato. Il processo di concentrazione delle multinazionali, che si oppone al persistente sistema molecolare del piccolo e medio capitale, è un esempio di come agisca questa capacità di aggiustamento e di autodelimitazione del capitale nel suo insieme.

Come vedremo, l’effettualità modificativa nella sua realtà produttiva, quindi nel suo insieme di realizzazioni dell’oggettualità, è molto più omogenea del singolo aspetto economico. La parte razionalizzante della produzione di pace sociale, cui si dedica lo Stato insieme a tutte le altre strutture sociali che bene o male lo costituiscono in maniera diretta o indiretta, si potrebbe dire che pareggia il conto. Molte contraddizioni economiche vengono saldate dall’intervento statale e molte deficienze statali vengono azzerate dall’esistenza della produzione economica. I due sistemi, costituendo due elementi di un tutto omogeneo, si integrano e si sostengono a vicenda, per quanto lo Stato si possa considerare l’elemento di superiore razionalizzazione, avendo una carta nella manica, il monopolio della violenza, ultima spiaggia di qualsiasi riottosa intenzione irrazionale.

Per comprendere meglio il funzionamento di questa maggiore omogeneità che si riscontra a livello complessivo dell’effettualità produttiva, studiamo il fenomeno dell’infortunio sul lavoro. La tesi precedente alla prima legislazione sociale contro gli infortuni sul lavoro, cioè prima del 1883 per quel che concerne l’Italia, faceva riferimento chiaro al concetto di fatalità. Un incidente sul lavoro era considerato alla stessa stregua di scivolare per strada su una buccia di banana. La tesi successiva, pur ribadendo la non colpevolezza dell’imprenditore e quindi riconfermando la fatalità, sostiene che è l’industria, nel suo insieme in quanto fatto organizzato, a dovere sopportare il carico dell’infortunio, in quanto l’evento non appare prevedibile e quindi limitabile con maggiore prudenza, o prevenzione, ma resta inevitabile come un rischio accessorio dell’industria stessa, una condizione inevitabile dell’esercizio della produzione. L’attuale [1991] estensione delle coperture assicurative in caso d’infortunio non ha abbandonato questa tesi, per quanto esistano anche altre leggi che indicano norme di prevenzione, ecc. Quello però che bisogna notare è che con l’intervento dell’obbligo assicurativo l’imprenditore non viene danneggiato in quanto non dà in più nulla agli operai, ma questi risultano lo stesso avvantaggiati dall’assicurazione obbligatoria, perché non devono più sottostare all’onere, assolutamente insostenibile per loro, di provare la colpa dell’imprenditore, vengono risarciti e basta. Ciò conduce a una indiretta razionalizzazione del comportamento imprenditoriale, che continua a essere irrazionale ma con danni minori. Cioè l’imprenditore continua a sfruttare i lavoratori ma non corre più il rischio di essere condannato per colpa sua, basta che paghi l’assicurazione obbligatoria, quindi basta che consideri nel suo problema commerciale questo aumento dei costi di produzione, trasferendolo sul prezzo. A sua volta, il lavoratore si sente coperto e quindi legato a un sistema sociale che non lo lascia in balia del padrone. Non si accorge del danno che subisce, sia per l’illusorietà della protezione sociale, che non riesce mai, né vuole farlo, a coprire i rischi effettivi che si corrono, sia perché adesso è veramente nelle mani dell’imprenditore, il quale sentendosi al sicuro da qualsiasi pericolo della dimostrazione di colpevolezza, si abbandona a uno sfruttamento più intenso e brutale per recuperare il maggiore costo che eventualmente non riesce a trasferire sul prezzo di vendita. In una parola, l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni fa aumentare i rischi degli incidenti anche se copre i danni, razionalizza in parte l’opera dell’imprenditore sottraendolo a un rischio legale, sia pure aleatorio ma presente, lo spinge a un maggiore sfruttamento, ma omogeneizza il processo produttivo nel suo insieme strappando ai lavoratori un maggiore consenso.

È quindi semplicistica l’ipotesi di chi sostiene che il capitale avanzi richieste specifiche allo Stato, nel senso di protezione o di sostegno economico, come è superficiale ammettere, con altri, che il capitale obblighi lo Stato a un certo comportamento. Lo stesso per l’ipotesi inversa, in cui appare lo Stato come costrittore del capitale. Occorre considerare bene questa interpretazione del rapporto tra capitale e Stato. Come sappiamo, uno dei classici luoghi comuni del marxismo è stato sempre quello di considerare lo Stato come lo strumento del dominio borghese, per cui abbattuto il dominio economico di questa classe, lo strumento Stato sarebbe passato nelle mani dei rivoluzionari e, in attesa della sua naturale e rapida estinzione, sarebbe stato utilizzato per scopi appunto rivoluzionari contro gli antichi dominanti. Questa favola, smentita sistematicamente da tutti gli avvenimenti storici di questi ultimi cento anni, e ancor più recentemente clamorosamente distrutta da quello che è accaduto in questi ultimi due anni, oggi non ha più credito.

Senza voler trascinare il cadavere di Ettore nella polvere, mi pare importante sottolineare come dietro il suddetto ragionamento ci stava il concetto di utilizzo. Se uno strumento del potere come lo Stato, struttura principale ed essenziale del dominio degli ultimi sette secoli, è stato utilizzato contro di noi perché non utilizzarlo contro i responsabili del regime precedente? In fondo, a ben considerare, non si tratta soltanto di un errore di natura diciamo pragmatica, cioè di un errore basato sul fatto che coloro che si trovarono davanti ai problemi organizzativi dell’indomani della rivoluzione, in primo luogo ai problemi della lotta armata e della difesa delle conquiste e dei miglioramenti ottenuti, pensarono di utilizzare uno strumento già pronto ed efficace, illudendosi poi di gettarlo alle ortiche. L’errore più grave fu di natura dialettica. Infatti, perché mai la classe vittoriosa, o che almeno tale si considerava, avrebbe dovuto aver paura di utilizzare lo Stato, che così diventava proletario, visto che avrebbe dovuto non solo concludere vittoriosamente l’avviata rivoluzione, ma trasformare il mondo, chiudendo la storia e realizzando la filosofia? Se il meccanismo dialettico garantiva tutto questo, come poteva esserci contrasto con l’uso temporaneo dello Stato? Gli anarchici venivano pertanto considerati come stupide Cassandre in delirio.

È di fondamentale importanza che si chiarisca come si realizzano praticamente questi rapporti tra Stato e capitale, come e in che termini si può parlare di utilizzo, e come si deve parlare di due modi, di due angolazioni differenti, di vedere la medesima cosa. Facciamo un esempio. Esistono delle leggi. Queste, da un punto di vista formale, possono considerarsi come contratti che impegnano due parti, lo Stato che le emette e i cittadini che le devono osservare. Ma il capitale riesce quasi sempre ad evadere la maggior parte di queste leggi quando intralciano il suo cammino, per altro spesso irragionevole. Allo stesso modo riesce a utilizzare pienamente altre leggi, quando la cosa torna comoda. Si ha cioè un differente modo di porsi di fronte alla legge, un modo che permette alla classe dominante di ottenere benefici da cui è esclusa la classe dominata. Sarebbe comunque superficiale pensare che il dominio venga esercitato dal capitale imponendo richieste dirette allo Stato, e viceversa. Nel primo caso, la cosa non avviene neanche formalmente, nel secondo caso, cioè dallo Stato al capitale, l’imposizione ha – come si è visto – carattere spesso ovviabile. In fondo, non dobbiamo dimenticare che capitale e Stato sono due espressioni del medesimo movimento.

Vediamo adesso il livello della produzione economica sotto l’aspetto dei limiti che incontra un processo di razionalizzazione diretto a regolamentarla. Prima di tutto si trovano i limiti derivanti dal conflitto tra interessi dei singoli capitali e interesse complessivo della classe degli inclusi. Non c’è dubbio che singole azioni del capitale, specialmente a livello multinazionale, hanno la possibilità di imprimere una certa forza alla fase di passaggio alla produzione di pace sociale, e ciò nel senso di sollecitare lo Stato a una certa politica fiscale, a certi sgravi, a privilegi, a sovvenzioni, ecc. Non c’è dubbio, allo stesso modo, che a un determinato livello il capitale, consociandosi e rafforzandosi, razionalizza alcuni suoi comportamenti e quindi riesce a spendere bene quanto è necessario per realizzare la massima utilità dal processo produttivo di pace sociale. Scendendo ancora più giù, è anche certo che il capitale può intervenire nella fase di produzione di pace sociale in modo indiretto, con un’opportuna politica degli investimenti, delle esportazioni di capitali, dei tassi d’interesse, ecc., come pure dell’informazione a livello di massa, e della stessa formazione dell’opinione elettorale, tutte cose che si riflettono, in un certo senso, nella possibilità da parte dello Stato di realizzare, con maggiori o minori difficoltà, il processo di produzione per la parte che lo concerne. Ma al contrario non c’è nemmeno dubbio che queste possibilità abbiano dei limiti. La somma dei comportamenti dei singoli capitalisti o gruppi di capitalisti, non corrisponde mai al totale massimizzato dell’interesse della classe degli inclusi.

Spesso la spinta del capitale si realizza nel senso di cercare il modo per superare quelle strutture statali che invece sono rigide e non possono essere superate senza grave perturbamento proprio nella produzione di pace sociale. È classico esempio quello della politica della massima occupazione, vista in due modi opposti dal capitale e dallo Stato. Le leggi sulla massima occupazione sono strumenti per contenere gli effetti negativi del mercato libero del lavoro. Le conseguenze di quest’ultima situazione si riflettono sulla produzione di pace sociale. Non potendo eliminare la disoccupazione, lo Stato la contiene con una serie di interventi, aumento della spesa pubblica, prolungamento della scolarità, abbassamento dell’età di pensionamento, turni di lavoro, settimane corte, ponti, cassa integrazione. Il capitale, prima della metà degli anni Ottanta, non trovava modo di inserirsi negli effetti immediati che scaturiscono da questa politica sociale. In alcuni casi, una decurtazione rigida poteva risolvere il problema, ma esistevano preoccupazioni di natura sociale. Il superamento di questo ostacolo, su cui torneremo in dettaglio più avanti, costituisce il punto nodale della svolta del capitalismo post-industriale.

Un altro ordine di limiti è contenuto nei comportamenti difensivi dei singoli capitali. A esempio, organizzazione degli industriali, finanziamenti a gruppi politici, corruzione a diversi livelli, reperimento di fondi neri, ecc., non è detto che in assoluto risultino funzionali allo sviluppo complessivo del capitale. Spesso fanno derivare conseguenze assolutamente contrarie e richiedono riparazioni che sono veri e propri comportamenti difensivi di segno contrario, i quali se sistemano una situazione danneggiata non fanno di certo recuperare i danni subiti dal capitale nel suo insieme.

Il lavoro a domicilio può considerarsi una forma di difesa dell’imprenditore di fronte alle norme collettive, alla contrattazione sindacale, alle norme di sicurezza sociale, ecc. Col lavoro a domicilio, le aziende realizzano una sorta di decentramento aziendale, evitando così le leggi sulla protezione del lavoro subordinato. Inoltre, impongono ai lavoratori la mobilità voluta, riducono il costo della manodopera, indeboliscono le organizzazioni sindacali, ecc. Come contropartita, le aziende che ricorrono a questi espedienti perdono la maggiore capacità di contrattazione che avrebbero nei riguardi dello Stato in quanto aggregati produttivi con un quantitativo superiore di mano d’opera, non possono realizzare produzioni di largo respiro che richiedono impianti speciali, ecc. Tutto questo comunque tende a sfumarsi nella intervenuta nuova condizione post-industriale. Trattandosi di una razionalizzazione di alto livello, ne parleremo più avanti, per esteso.

Vi sono poi i limiti derivanti dal tempo. La situazione concorrenziale in cui si trova ad operare il singolo capitale lo obbliga a comportamenti che, se sono adeguati alle situazioni contingentali, risultano qualche volta non adeguati a modificazioni che si realizzano nel corso del tempo a livello complessivo della produzione economica. Valutando i possibili sviluppi dell’economia italiana all’inizio degli anni Ottanta, sulla base delle condizioni di quel momento, sembrava abbastanza probabile che molte produzioni industriali avrebbero trovato, dopo qualche anno, una forte concorrenza estera non solo a livello dei mercati internazionali ma anche sullo stesso mercato italiano. Poiché la soluzione protezionista non poteva essere accettata, dati gli accordi in corso e anche per le insostenibili conseguenze di chiusura e di difficoltà a livello politico, restava la soluzione dell’aumento delle esportazioni sia per coprire i maggiori costi delle materie prime, sia per affrontare le nuove importazioni. In altre parole, ciò significava che l’industria italiana doveva diventare competitiva. Ma in che modo ci si poteva programmare questa scadenza non tanto lontana nel tempo? Non era facile saperlo. A esempio, la piccola industria stava facendo qualcosa per conquistare mercati prima impenetrabili, ma la grande e la media impresa non si muovevano nella stessa direzione. Per fare muovere questa parte della produzione occorreva una conversione radicale. Ma come realizzarla?

Un innalzamento del livello di pace sociale avrebbe permesso un miglioramento, sia pur minimo, della funzionalità, ma questo non poteva essere sufficiente. Per avviare la ristrutturazione con buone speranze occorreva un proporzionale processo di accumulazione, tenendo conto delle condizioni tecniche della struttura produttiva dell’epoca e dell’incidenza del costo del lavoro. La previsione più ragionevole era quella di una riduzione produttiva e di sempre maggiori difficoltà sociali nella gestione del mercato del lavoro. Un capovolgimento di tendenza era invece legato a un maggiore processo accumulativo, cosa impossibile in quegli anni. Restava lo Stato. Ed è proprio quello che la grande e media industria si aspettavano. Un’accumulazione realizzata dallo Stato non avrebbe però risolto i problemi irrazionali dell’assetto produttivo. Più facili sembravano le previsioni relative ai cambiamenti non strutturali. Un ricorso alla stagnazione, a esempio, poteva dare alcuni benefici, cioè uno sforzo diretto a mantenere le esportazioni nella misura dell’inizio degli anni Ottanta, parallelo alla correzione, qua e là, del livello di investimenti che sarebbe potuto così restare molto basso. Ma ciò avrebbe determinato un insufficiente sviluppo produttivo, a causa dei bassi investimenti, per cui di fronte all’aumento della domanda per consumi sarebbe tornata la minaccia dell’inflazione e degli squilibri della bilancia dei pagamenti. La cosa avrebbe delimitato la produzione di pace sociale al solo ambito della politica monetaria, cioè di una politica di controllo della domanda globale, politica che agisce solo nel senso della deflazione e non certo in quello della promozione degli investimenti. Ma la soluzione trovata dal capitale doveva essere radicalmente diversa.

Esaminiamo adesso la produzione di pace sociale e i limiti ad essa relativi. Per primi emergono i limiti della struttura stessa, cioè i limiti istituzionali dello Stato, leggi, diritti costituzionali, norme regolamentari, burocratiche, ecc. Tutto ciò finisce per costituire un confine di campo all’interno del quale lo Stato stesso si trova rinchiuso. Spesso la produzione di pace sociale avviene ricorrendo ad aggiustamenti che sono vere e proprie violazioni della struttura istituzionale, clientelismi, sottobosco governativo, rapporti mafiosi, ecc. Il problema che pongo qui è amplissimo e riguarda le tecniche di produzione della pace sociale. La produzione è fatto complessivo e unico e la distinzione tra diversi livelli, poniamo quello economico e quello sociale, non è altro che un espediente teorico per meglio comprendere i problemi. Da ciò consegue che le regole dell’accumulazione sono valide in tutta l’effettualità modificativa, non in uno o più dei suoi ipotetici settori, in cui per amore analitico la stiamo dividendo. La prima di queste regole è l’autonomia produttiva, cioè questa produzione deve essere identificabile in una parte precisa del campo e non costituire elemento compositivo di tutto il campo nel suo insieme. In questo caso non avrebbe più significato parlare di produzione di pace sociale e si ritornerebbe al vecchio modello dello Stato tutore dell’ordine pubblico e della legalità capitalista. In altri termini, si deve poter individuare una regione della pace sociale, nell’ambito del campo, in cui questa produzione si realizza. Un’altra delle regole da tenere presente, prima di parlare di produzione di pace sociale, è la sua economicità, cioè la rispondenza di questa produzione agli scopi che si prefigge la struttura produttiva.

Altri limiti sono quelli che derivano dalle limitata disponibilità delle risorse. Il raccordo tra i due livelli produttivi si contrae anche a causa della scarsa omogeneità della produzione economica, la quale finisce per restringere più del necessario l’estensione del livello statale. L’uso irrazionale delle risorse moltiplica negativamente il limite della loro disponibilità di già scarsa.

I limiti che derivano dallo sviluppo informatico si inseriscono nella profonda trasformazione causata proprio da questo sviluppo, trasformazione che ci permette di parlare addirittura di una nuova epoca della produzione capitalista, l’epoca post-industriale. Come ho detto, più avanti tratteremo in dettaglio di questo problema. Qui, specificamente riguardo la descrizione dei limiti produttivi, dobbiamo dire alcune cose che concernono gli aspetti tecnici di un’applicazione informatica su ampia scala, quale quella in atto [1991].

Il successo dei progetti informatici, e delle relative strategie di dominio, dipende, sia sotto l’aspetto tecnico che economico, quindi sia per quanto riguarda l’applicazione che lo sviluppo, sia per quanto riguarda la produzione e la progettazione, dal superamento di ostacoli che non sono soltanto quelli attinenti alla tecnologia avanzata, alle macchine, ai linguaggi, alla velocità e alla memoria, ma sono di natura differente. Prima di tutto, la razionalizzazione del lavoro di fondo, che deve fornire i dati per alimentare il sistema nel suo insieme. Ciò richiede un’educazione degli utenti nei confronti del sistema di dati, cosa questa che condiziona non solo l’utilizzo del sistema ma anche e principalmente la formazione di sistemi di sviluppo. Non si deve dimenticare un certo livello di perturbamento della struttura sociale, che non può superarsi nel qual caso si deteriorano le possibilità d’impiego del sistema di dati e principalmente la sua alimentazione. Questo ostacolo, che fino a qualche anno fa si considerava centrale e importante, è scaduto di significato di fronte ai risultati ottenuti dal capitalismo che abbiamo definito post-industriale. Da tenere anche presente le difficoltà di superare i problemi umani e sociali che la semplice operazione di rilevamento comporta, difficoltà su cui si è lavorato a lungo in questi ultimi anni ma con scarsi risultati. Fra queste difficoltà c’è da segnalare il riflesso conflittuale causato dalla posizione. Infine vi sono i danni provocati dall’estremismo stupido delle ideologie tecnocratiche che potrebbero bruciare un utilizzo dei sistemi spingendolo al di là delle sue presenti possibilità, e ciò parallelamente alle visioni assolutamente irreali di molti tecnici delle memorie, terminali, stampanti, linguaggi e programmi, i quali nella fretta di farsi mettere nel libro paga del potere, spingono il mezzo al di là della sua potenzialità d’utilizzo.

Oltre alle suddette difficoltà, bisogna tenere presenti le scelte che una politica d’impiego massiccio dell’informatica può fare. Queste non sono infinite, anche se potrebbero ricevere soluzioni differenti a seconda dei progressi tecnici del settore, ma questa ipoteca nessuno al momento la può sciogliere. Grosso modo esse si possono ripartire in tre direzioni, la prima, riguarda la massima concentrazione dei dati nel centri di elaborazione, considerando gli utenti come semplici soggetti passivi, la seconda, fornendo una qualche autonomia all’utente, almeno a livello di linguaggio, la terza, decentrando l’utilizzo sia delle memorie che dei linguaggi e facendo dell’utente un collaboratore attivo. Queste tre scelte corrispondono non solo a scopi differenti, ma anche ad epoche differenti del controllo sociale attraverso l’informatica. Con la prima scelta siamo a livello del controllo centralizzato, tipo questura o grandi banche, con la seconda scelta decentralizziamo il controllo, arrivando al livello casa per casa, aggiungendo la possibilità dell’utente di chiedere informazioni al sistema in quanto ne condivide il linguaggio, con la terza scelta siamo al controllo capillare in cui si può dire che l’utente si controlla da sé, condividendo col sistema non solo i dati e il linguaggio, ma anche la memoria. Gli spazi di resistenza al controllo totale sono decrescenti dalla prima alla terza scelta, e anche le difficoltà di costruire il controllo decrescono nello stesso modo. Veniamo ora ai limiti ideologici. Questi sono dati dall’involucro complessivo che avvolge la struttura istituzionale. Esso si estende dal primo livello produttivo, quello economico, al livello statale e agisce in ragione diretta dell’omogeneità specifica del livello di produzione. Il livello della produzione economica, a causa della sua scarsa omogeneità di movimento, impedisce un’azione efficace dell’ideologia come mezzo di contenimento e controllo. L’inefficacia a questo livello si è vista chiaramente in questi ultimi anni nei Paesi dell’Est, man mano che si maturavano le condizioni del loro abbandono del socialismo reale.

Limiti si riscontrano anche nella capacità del sistema produttivo nel suo insieme, di impedire il verificarsi di alcune condizioni dannose agli interessi della classe dominante. Riguardo questo problema che è stato definito dei “non-eventi”, con alquanta imprecisione per la verità, Ralph Miliband scrive: «Le maggioranze parlamentari conservatrici operano a favore degli interessi capitalistici, per questo, per il perseguimento di molti dei loro scopi, fanno affidamento non tanto nella superiorità numerica in Parlamento quanto su altri fattori favorevoli. Uno di tali fattori è costituito dal fatto molto importante che ai potenti interressi costituiti è spesso sufficiente – per non essere, per così dire, spossessati – impedire l’approvazione di leggi e di provvedimenti che intacchino i loro privilegi» (Lo Stato nella società capitalista, tr. it., Bari 1974, p. 107).

La stessa necessità di mettere in circolazione una grande quantità di notizie attraverso gli organi di stampa a grande tiratura e la televisione, comporta la conseguenza che si deve mantenere una certa coerenza in quello che si dice, in caso contrario si va incontro a una vera e propria crisi di credibilità, quest’obbligo costituisce uno dei limiti che spesso provoca quelli che comunemente sono definiti scandali.

L’apparato repressivo – polizia, esercito, magistratura, carceri, ecc. – costituisce il limite periferico estremo alle realizzazione di alcune possibilità produttive. A esempio, la pirateria, il ricatto o l’estorsione sono attività produttive ad alto reddito, ma non vengono di regola poste in atto dal capitale, se non in alcune sue espressioni marginali e particolarmente specializzate, quelle che si riuniscono sotto l’impropria definizione di malavita organizzata. Su questo limite scrive un teorico del marginalismo economico: «L’osservanza delle leggi e dei regolamenti rappresenta uno speciale problema dell’analisi della condotta degli affari. Dipende infatti dalla moralità del commercio se alternative illegali e proibite possano essere considerate come definitivamente escluse e perciò non esistenti; o come possibilità soggette soltanto a certi particolari rischi. Assumiamo, per esempio, che per la vendita di un prodotto venga fissato un prezzo massimo e siano contemplate multe per le violazioni. Per l’uomo di affari che è incondizionatamente fedele alla legge, il prezzo massimo è il solo prezzo possibile, indipendentemente dall’insistenza con cui qualcuno dei suoi clienti può tentarlo con offerte migliori. Per l’uomo d’affari che si attiene alla legge soltanto per timore di essere scoperto e penalizzato, i prezzi della domanda superiori a1 prezzo massimo costituiscono reali possibilità ed i rischi delle ammende vanno aggiunti al costo o dedotti dal ricavo. Se poi le sanzioni per violazioni includono pene carcerarie, il rischio perde l’spetto monetario e tocca al virtuale violatore o all’economista teorico “convertirlo” o meno in termini monetari. I prezzi del mercato nero sono in parte il risultato di tali conversioni del rischio» (F. Machlup, La concorrenza ed il monopolio, tr. it., Torino 1956, p. 48).

Al livello della produzione di pace sociale questi limiti risultano molto più evidenziati, anche a causa della maggiore omogeneità presente nei movimenti produttivi. Di regola la composizione produttiva di pace sociale ricorre all’uso di strumenti repressivi solo in forma indiretta, come minaccia. Quando il conflitto si esaspera, e minoranze sempre più agguerrite si staccano da certi comportamenti per metterne in moto altri, più aggressivi, allora il ricorso agli strumenti repressivi prevale e lo Stato sostituisce nella sua combinazione produttiva la violenza bruta alla violenza indiretta, la legislazione penale a quella sociale.

Tutti i limiti che abbiamo considerato riguardano l’azione di razionalizzazione che il dominio è costretto a portare avanti per raggiungere una propria legittimazione, abbiamo anche rilevato la differenza tra i limiti della produzione economica e quelli della produzione di pace sociale, per quanto entrambi si possano compenetrare e fondersi ottenendo conseguenze differenti e non facili a prevedersi. Fra i motivi che spingono alle cautele nella considerazione dell’elenco dei limiti di cui abbiamo discusso, c’è il fatto molto importante che pur non potendo mettere in dubbio l’esistenza dei limiti stessi, non si può essere certi degli ostacoli che essi pongono al raggiungimento degli interessi complessivi di classe del capitale. In altri termini, per fare un esempio, se siamo certi che la credibilità costituisce un limite piuttosto ben precisabile, non la stessa cosa si può dire riguardo la quantità di notizie che vengono messe in circolazione dai grandi mezzi di informazione e il rapporto con la tutela e il raggiungimento dei predetti interessi. Scrive in tal senso Pio Baldelli: «L’inquinamento della ragione a causa dell’uso burocratico e capitalistico dei mezzi di comunicazione di massa, procede in maniera capillare. L’alluvione delle informazioni manovrate fa coesistere una condizione di sovrapproduzione informatica con la distruzione di forme autonome di coscienza sociale. Il potere informatico derivante dal monopolio delle informazioni e dei messaggi e dal loro circuito controllato nel tempo e nello spazio, predispone la coincidenza tra il sovraccarico di notizie e il sovraccarico di ignoranza. L’immediatezza planetaria dei messaggi distribuiti dai mass-media in luogo di portare i Paesi della terra alle misure comunicative del “villaggio” – secondo quanto affermano certi intellettuali mediatori per incarico del sistema dominante – frantumano i dati reali in un polverio di apparenze verosimili. La diaspora dei significati autentici e la carenza di informazioni precise investono strutture di potere, statuali e private, codificate come dissimili, anzi talora opposte» (Informazione e controinformazione, Milano 1972, p. 84).

Per potere arrivare, partendo dallo studio dei limiti, a una visione dei meccanismi che condizionano la razionalizzazione del dominio, e quindi la sua legittimazione, occorrerebbe saperne di più in merito alle affinità che corrono fra le strutture, i processi e i fatti che fanno emergere i limiti e gli interessi di classe dei dominatori. In caso contrario si possiede una nozione negativa, che ci fa vedere solo un aspetto del problema, cioè in che modo agisce in un caso limite e basta e non in che modo il limite si produce, processo quest’ultimo che non appare separato dall’azione vincolante del limite stesso. Tornando all’esempio della credibilità, il non sapere l’affinità tra messa in circolazione di notizie e interesse di classe degli inclusi, ci porta a non conoscere bene in che modo si fa sentire il peso della necessità della coerenza come fatto capace di determinare ostacoli alla razionalizzazione.

Il problema che si pone è visibile, a esempio, in una forma di ipertrofia dei grandi mezzi di comunicazione. Essi sviluppano un modello comunicativo che si basa su determinati canoni ritenuti ottimali. A esempio, per i telefilm Baldelli scrive: «L’intracorpo primario aneddotico del telefilm – la falsificazione storica dei fatti narrati, l’eroe asessuale e la violenza – occulta il messaggio latente, ossia l’ideologia totale o le informazioni semantiche veicolate dal messaggio. Il messaggio latente, elemento infrastrutturale nell’informazione telefilmica, ha il contenuto proposto dalle forze egemoniche: un ideale ultraindividulista della vita e la conservazione dello statu quo economico e politico» (Ib., pp. 88-89). Ma quello che Baldelli non ci dice è in che cosa consista la capacità delle forze egemoniche di cogliere puntualmente il nesso tra messaggio e interesse di classe, nel tempo e nel modificarsi delle reazioni. Abbiamo il problema, per esempio, di serie di telefilm che vengono ripresentate a distanza di quindici anni, magari da televisioni private. In questo caso la rispondenza è sempre la stessa? ha il potere, la capacità di orientarsi verso una scelta ottimale? Non c’è la possibilità di dare una risposta a questi problemi, perché non esiste un orientamento massimizzante da parte del potere, né in merito al problema di cui discutiamo né su tanti altri problemi.

Ma questo modo di ragionare nasconde un equivoco. I limiti non agiscono come catalizzatori di razionalità per il sistema di dominio, perché escludono o contribuiscono ad escludere la cosiddetta irrazionalità esterna. Sarebbero in questo caso semplici confini destinati a realizzare una realtà meno complessa e più strutturata deducendola da un’altra realtà più complessa e soltanto possibile. Invece i limiti sono essi stessi elementi del dominio, condizione essenziale perché quest’ultimo venga esercitato in un certo modo e non travalichi in un altro, forse meno adeguato. Essi non sono accidentalità ma elementi costitutivi della scelta di classe, non concorrono come elementi periferici alla razionalizzazione ma sono essi stessi razionalizzazione, quindi legittimazione del dominio.

La razionalizzazione del dominio, in vista della sua legittimazione, si può quindi considerare come un vasto movimento, un processo contraddittorio in corso, un flusso casuale di relazioni, una totalità. Essa realizza la modificazione del dominio in potere. A sua volta, questa modificazione non è un fatto compiuto e fissato staticamente, neanche nell’ambito di quelle permanenze relazionali che siamo abituati a considerare stabili, per quanto in fondo non lo siano del tutto. Non esiste una modificazione definitiva del dominio in potere. I tentativi fatti da Max Weber per spiegare questo passaggio con il richiamo a un valore, non sono altro che sforzi per cristallizzare qualcosa che non può essere mummificata. Scrive Weber: «Che questo tipo di fondazione della propria legittimità non sia per il potere una questione di speculazione teorica, o filosofica, ma valga a giustificare differenze reali delle strutture empiriche del potere, è cosa che ha la sua base nell’esigenza generale di autogiustificazione, propria di ogni tipo di potenza e anzi di ogni possibilità di vita. La. sussistenza di ogni potere, nel nostro senso tecnico della parola, fa affidamento nel modo più forte sull’autogiustificazione mediante l’appello ai princìpi della sua legittimazione» (Economia e società, vol. II, tr. it., Milano 1961, p. 256).

Se la prospettiva di un valore, a esempio, la triade proposta da Weber, legge, tradizione e carisma, oppure qualsiasi altra sua sostituta, poniamo quella costituita da una società tecnologica, fosse sufficiente ad assicurare la definitività della suddetta modificazione, non si spiegherebbero le deficienze che vedremo subito dopo. In fondo, il processo di razionalizzazione non si distingue facilmente dall’esercizio stesso del dominio, come l’esercizio del potere non è sempre riconducibile alla presenza di un determinato valore capace di fondare la legittimazione indispensabile a distinguerlo dal dominio. Ma è proprio in questa sua contraddittorietà che questo processo trova nuova forza per ripresentarsi, sempre modificato e sempre lo stesso, un fiume impetuoso in grado di scorrere, sempre diverso, nel medesimo letto, apparentemente uguale a se stesso. È l’effettualità trasformativa il coinvolgimento della diversità, quindi l’azione rivoluzionaria, che mette scompiglio in quelle acque, capaci sempre di riprendere la via della quiete e dell’ordine.

Da quanto sopra emergono alcuni elementi nuovi riguardo il processo di razionalizzazione che stiamo esaminando. Il primo si può individuare in una generale mancanza di progettualità. Il potere non possiede una strategia globale che si possa indicare chiaramente, o rintracciare nelle cose che fa. A posteriori si può sempre ricostruire un filo logico negli avvenimenti, fino a un certo punto, ma a priori ciò non è possibile. Questo fatto non si può spiegare con generiche affermazioni tipo la contingentalità della politica o l’empirismo dei fatti. Si tratta di tautologie, le quali si limitano a ripetere l’evidenza della non spiegazione. Un altro elemento si può indicare nella mancanza di una tattica. Il potere, al massimo, possiede una tattica spicciola, che è quella della conservazione di se stesso. Ma, ben considerando, questa non è una tattica del potere, quanto il principio fondamentale di ogni organizzazione, anche di quelle che si pongono in antitesi al potere. Riguardo alla tattica spicciola di tutti i giorni, essa è individuabile solo se non si scende troppo nei singoli eventi, nel qual caso ci si trova di fronte a una miriade di fatti che non hanno una vera logica in comune e che presi tutti insieme costituiscono la negazione di qualsiasi concetto tattico.

La conoscenza non adeguata della propria struttura è un altro degli aspetti di cui discutiamo. Gli elementi istituzionalizzati del potere, come di già abbiamo visto, costituiscono solo una parte della struttura, il resto non sembra riducibile a una unità conoscitiva dettagliata, se non con grande approssimazione e attraverso analisi che sul piano operativo si rivelano assolutamente insufficienti. Le diverse scuole sociologiche non hanno ottenuto grandi risultati in questo senso.

Anche dei meccanismi di disturbo si ha una conoscenza inadeguata. L’approfondimento in questa direzione è oggettivamente impossibile senza stravolgere l’assetto capitalista nel suo insieme. Infatti, la maggior parte dei meccanismi di disturbo, è a livello del singolo capitale. In sostanza, il potere può avvicinarsi, poniamo, a un’attenuazione della concorrenza a livello dei prezzi, man mano che i disturbi si accentuano e dilagano, perché lo stesso capitale sente il bisogno di un aumento della produzione di pace sociale. In questa fase, la maggiore omogeneità statale fornisce uno strumento di chiarificazione dei meccanismi di disturbo, la quale però non è di origine teorica, ma trova la sua stessa formulazione nel corso della risoluzione dei conflitti fra singoli settori del capitale. Lo Stato arriva allora a meglio conoscere questi meccanismi ma perde subito, o affievolisce di molto, la sua conoscenza non appena le cose tornano a un livello accettabile di calma, mentre i profitti di medio periodo si ristabiliscono per i singoli capitali. Allora il passo tra produzione economica e produzione di pace sociale si allarga, mentre i meccanismi di disturbo tornano nella loro condizione di insufficiente conoscibilità.

La scienza e la tecnica, come strumenti produttivi di base, costituiscono un elemento fondamentale per la razionalizzazione produttiva, ma spesso anch’esse rientrano nella logica di mercato e non trovano un impiego razionale, se non dopo un intreccio di privilegi a favore dei maggiori gruppi di capitali, i quali finiscono così per monopolizzare la ricerca nel proprio interesse. Solo a livello della produzione di pace sociale maggiormente omogeneo, si ha un minimo di programmazione scientifica, ma anche qui gli sprechi e gli usi approssimativi delle risorse sono di portata colossale, condizionando buona parte dell’utilizzo immediato dei ritrovati scientifici. In altri termini, limitandosi alla produzione economica, non si può parlare di un programma razionale di superamento dei limiti e delle contraddizioni. Ciò determina interventi massicci del secondo livello, ma non appena questi interventi fanno vedere i loro risultati ordinativi, si mettono in moto spinte endogene al primo livello, verso la riconquista della passata autonomia e quindi verso un ritorno all’insufficiente utilizzo delle risorse.

Da qualsiasi lato la si voglia considerare, abbiamo una realtà di potere fluente e caotica, la quale si dispone come una corrente tumultuosa, un processo in corso in cui si conoscono, solo con molta approssimazione, le condizioni di funzionamento. Inoltre non è possibile costruire una teoria analitica del dominio capace di fornire indicazioni definitive, si può solo sviluppare un’analisi che poi dovrà adattarsi nel corso stesso dello scontro sociale. È chiaro, in questa prospettiva, l’influsso che esercita sulla modificazione l’esistenza, contraddittoria e potentemente critica, della diversità effettuale. La nascita di una diversa coscienza segna un punto di possibile incrinatura nell’apparente perfezione del fare coatto.

Vediamo adesso come si sviluppa l’azione del potere. La prima fase è quella del reperimento del consenso. Lo scopo è di pervenire a un’apatia sufficientemente generalizzata della massa degli esclusi, capace di garantire attese fondate di accettazione dei progetti del potere stesso. Progetti, spesso, nemmeno preventivabili in dettaglio. Il concetto di reperimento del consenso ha un duplice aspetto. Oltre a fondarsi sull’apatia di massa, si basa sul mantenimento di un certo livello di conflitto tra i diversi gruppi di interessi che costituiscono il potere. Ogni scompenso nel livello di questo conflitto, determina disturbi nel consenso di massa. La copertura ideologica ha un certo effetto di credibilità ma l’improvviso profilarsi di conflitti interni al potere, anche a livello di semplici scandali, può avere conseguenze pesanti sul consenso.

Svariati aspetti problematici inducono alla cautela nell’uso del concetto di consenso. Il consenso è reperibile solo dopo l’avvenuta legittimazione del dominio, quindi quando si è realizzato il passaggio dal dominio al potere, o anche prima? Non c’è motivo per ricondurre il consenso all’accettazione della legittimità, salvo che non si voglia sottovalutare la componente passiva del consenso, l’apatia, e invece ricorrere solo alla componente attiva, cioè l’adesione a una comunanza di valori, fatto che non è per nulla documentato. Se il conflitto tra i diversi gruppi di interessi fa emergere una prevalenza di alcuni valori al posto di altri, in base a quale criterio si ha comunanza di valori fra quelli che emergono dal conflitto e non fra quelli che invece vengono respinti? A parte queste due fondamentali alternative, praticamente prive di risposta, altre domande riguardano la quantificazione del consenso, la misurazione della sua intensità, i rapporti tra consenso e comportamento politico, e quelli tra consenso e ideologia. Domande che non hanno mai risposte soddisfacenti.

Occorre comunque fare subito una distinzione tra reperimento del consenso e razionalizzazione del dominio. Il primo è solo una delle attività possibili che il potere intraprende, ed è dato dal duplice incontro dell’apatia delle masse e dalla sufficiente omogeneità del conflitto dei gruppi d’interesse interni al potere. La seconda è data dall’insieme delle operazioni che il potere realizza per rendere stabile il dominio. La legittimazione è il corrispettivo della produzione intesa globalmente, quindi come produzione economica e di pace sociale.

Occorre anche distinguere tra reperimento del consenso e produzione di pace sociale. Il primo è sempre una delle possibili attività del potere, la seconda è l’insieme della produzione nella prospettiva statale, quindi dovrebbe di regola comprendere il consenso come uno degli elementi produttivi. Solo che il consenso ha una sua particolare disponibilità a permettere il superamento di molti limiti incontrati dal dominio. Infatti, se tutto il processo di razionalizzazione e legittimazione può considerarsi come la costruzione del dominio, al meglio delle proprie possibilità, però nell’ambito dei limiti della stessa irrazionalità dei comportamenti, il consenso permette di superare questo perimetro facendo dilagare l’irrazionalità tipica del dominio al di là dei limiti stessi. Saranno quindi differenti i modi di reperimento del consenso, in relazione al grado di razionalizzazione raggiunto dal dominio. A un livello ancora non sostanziale, il reperimento è accompagnato da una pesante copertura ideologica, simbolica. Appare instabile, con zone di autonomia nelle reazioni di massa, e con strutture politiche troppo centralizzate anche a livello istituzionale. Nel caso di più elevate razionalizzazioni, il procedimento non ha bisogno di molte bardature ideologiche.

La decentralizzazione che di regola accompagna questi livelli ormai legittimati del potere, permette un reperimento del consenso vasto e agevole, sottoposto a una costante manutenzione, resa possibile da strutture democratiche che nascondono le vere leve di gestione sotto il manto popolare. Questo livello del potere utilizza, svuotandole, le strutture democratiche e le apparenze istituzionali, trasferendo il potere reale all’esecutivo con processi di copertura ideologica che non sono strategie simboliche ma vere e proprie mistificazioni organizzative. In altre parole, la reale funzione di un organo del potere viene camuffata attraverso un altro organo e così via, per cui non è sempre facile cogliere l’effettiva rispondenza dell’attività di ogni organo con la reale gestione del potere. Tutto avviene con un sottile velo ideologico in genere basato sul decentramento, la democrazia, l’autogestione fittizia.

Fronteggiare le richieste irrazionali della produzione economica, spesso caotiche anche all’interno dei limiti di già visti, è un altro aspetto dell’azione del potere. Si parla spesso di crescita economica equilibrata, ma la cosa non ha molto senso. Gli equilibri sono sempre concetti relativi e richiedono un punto fisso per essere significativi. Punto che stabilisce anche il metro di valutazione del meccanismo di equilibrio. Tutto ciò non è realizzabile in concreto. Quello che il potere vuole raggiungere, quando riesce a formulare con chiarezza il progetto, il che accade raramente, è una crescita economica equilibrata, la quale incontra gli ostacoli classici di qualsiasi programmazione.

Con il concetto di stabilità economica si vuole sottolineare il momento conservativo del processo della produzione nel suo insieme. Quindi, non tanto il mantenimento di una situazione di fatto, che risulta impossibile ed ha tutte le caratteristiche del suicidio economico, ma il mutamento coordinato e programmatico perché si evitino situazioni di estremo pericolo per l’economia nel suo insieme. Ciò viene di regola realizzato intervenendo nelle più gravi situazioni di scompenso con investimenti talmente attraenti da scoprire gli scompensi dei diversi settori capitalisti. Sgravi fiscali, sostegni verso nuovi mercati, sovvenzionamenti a fondo perduto, ecc., sono tutti tentativi di penetrare con la forza stabilizzatrice dello Stato nell’ambito della produzione economica.

Non che nelle condizioni irrazionali della produzione lo Stato, con il suo potere regolativo e razionalizzante, fosse lontano, separato irrimediabilmente. Si tratta sempre di lontananze per modo di dire, che fissiamo per rendere più chiaro il discorso. Infatti, in quella condizione, la stabilità è cercata attraverso altre strade, come la massiccia copertura ideologica, gli appelli al sacrificio, alla nazione, all’imperialismo conquistatore, al militarismo e, in altri casi, all’internazionalismo proletario e così via. Lo Stato è presente, non può però omogeneizzare lo spazio delle produzione economica in quanto il suo intervento è puramente periferico e di ultima istanza. Anche gli aspetti più brutali del fascismo o dello stalinismo non si possono considerare che tentativi estremi di coprire zone conflittuali che per altra strada non possono essere raggiunte e tanto meno stabilizzate, se non tramite grandi sconvolgimenti come guerre, deportazioni di massa, ecc., le quali ricorrono al silenzio dei cimiteri per risolvere i problemi che non possono affrontare direttamente.

Al livello legittimato del potere, Stato e capitale si pongono come portatori di due elementi indispensabili alla produzione. Il capitale porta la propria irrazionale struttura e permea di sé lo Stato, questo porta la propria tendenza alla razionalizzazione e permea di sé il capitale. Ma né l’uno né l’altro diventano mai completamente negazione di sé, totale superamento dell’irrazionalismo capitalistico e totale realizzazione della razionalità statale. In questo senso, la ricerca della stabilità economica non è semplice operazione di politica e di economia, diretta ad arrivare alla piena occupazione. Ciò significherebbe interpretazione miope di un progetto che, con tutti i suoi limiti, s’inserisce all’interno di qualcosa di più complesso, che comporta modificazioni anche nei limiti dentro cui si riassume l’insieme della produzione.

Il raggiungimento infine degli equilibri internazionali e militari costituisce il terzo scopo del potere, ormai definitivamente legittimato, sempre nei limiti visti prima. I diversi interventi internazionali si diversificano in base alle zone d’influenza e alla ripartizione degli interessi economici. Anche a questo livello, la produzione di pace sociale si inserisce come strumento di ulteriore razionalizzazione. Basta ricordare la politica degli armamenti e la politica monetaria, per rendersi conto facilmente di come giochi, a favore del superamento delle scelte irrazionali dei singoli capitali, l’omogeneizzazione statale nella sua produzione concreta di pace sociale.

Vediamo adesso di approfondire il funzionamento dello Stato da un punto di vista delle sue recenti modificazioni strutturali, in particolare tenendo conto di alcune limitazioni intrinseche, come appaiono dall’analisi ideologico-funzionale del suo documento programmatico periodico più importante, il bilancio annuale. Lo Stato è la struttura che si è resa indispensabile per mantenere il dominio di un gruppo di uomini su altri gruppi, facendo permanere la distinzione tra sfruttati e sfruttatori, tra esclusi e inclusi. Questo strumento fonda pertanto il fare coatto a livello collettivo, rendendo possibile l’organizzazione dello sfruttamento all’interno della modificazione produttiva. L’esistenza di una struttura così estesa e pressante, così puntuale nella vita quotidiana di tutti noi, rende la produzione dell’oggettualità un insieme organizzato, visibile e individuabile all’interno di ogni singolo oggetto prodotto. La coscienza diversa non può svilupparsi se non contrastando fortemente con questa struttura.

Lo Stato non è rimasto sempre uguale a se stesso. La sua natura strumentale lo rende soggetto a continue modificazioni per meglio adeguarsi alle necessità produttive. Con il crollo dell’economia americana nel 1929, caddero pure le illusioni di mantenere inalterato per sempre il dominio del capitale. Quello che la rivoluzione del 1917 non aveva compiuto, lo realizzò in pochi giorni la caduta dell’indice dei titoli della borsa di New York. Scompare definitivamente la figura dello Stato liberale, l’ideologia della separazione tra struttura statale e struttura economica, tra potere coercitivo delle leggi e potere dissuasivo della concorrenza. I due aspetti si riuniscono in un unico progetto che, se non diverrà mai chiaro, almeno fino alla seconda guerra mondiale, sarà sufficientemente comprensibile negli anni della ricostruzione.

Le forze che si scatenarono nel 1929 fecero vedere anche agli economisti, che in genere sono persone di vista corta, la capacità di lotta degli esclusi, degli sfruttati. Scrive Dudley Dillard: «La differenza fra la teoria tradizionale e quella monetaria keynesiana del saggio di interesse è un aspetto fondamentale della differenza fra l’economia basata sul pieno impiego e quella caratterizzata da un livello inferiore a quella del pieno impiego» (Guida all’economia keynesiana, tr. it., Milano 1964, p. 207). In sostanza, il rapporto tra il livello dei redditi e le possibilità d’investimento, rapporto considerato attraverso l’intermediario del risparmio sollecitato dallo Stato, non era mai stato preso in seria considerazione dagli economisti. Secondo i classici, infatti, il livello dei redditi dipende, in un sistema, dalla capacità produttiva di quest’ultimo e non ha relazione alcuna con le variazioni della domanda globale. Le sollecitazioni della lotta di classe portarono Keynes proprio a riflettere su questo punto. Le scuole accademiche del suo tempo, come fanno in parte anche quelle dei nostri giorni, continuarono ad applicare allo Stato produttivo la logica individualista del mercato concorrenziale. Così scrive Joan Robinson: «Il punto centrale di differenza fra la teoria neoclassica e la General Theory che la sostituì riguardava l’accumulazione di capitale e le relazioni fra risparmio e investimento. Secondo la teoria neoclassica, il saggio di accumulazione di capitale è determinato dalla disposizione a rinunciare al consumo. “Risparmio”, “attesa”, “astinenza”, sono le fonti della crescita della ricchezza nazionale. Proprio come per un individuo, così per l’intera economia, l’astensione dal consumo è un mezzo di accumulare ricchezza. Questo punto di vista fu più che una teoria economica, fu un’ideologia. Dette una giustificazione morale al reddito da proprietà, perché il rentier ha diritto a essere ricompensato per il nobile sacrificio di non consumare tutta la sua ricchezza... Per questa ragione l’asserzione di Keynes che il risparmio è una causa di disoccupazione destò una sconcertata irritazione» (Nuovi problemi di sviluppo economico, tr. it., Torino 1962, pp. 56-57).

Da quel momento, ogni considerazione sulle pretese leggi eterne del capitale, se non voleva apparire vana esercitazione accademica, doveva dare conto di questo problema, fornire un contributo alla sua risoluzione. Lo scontro di classe entrava nell’analisi economica e politica. E gli economisti, a principiare da Keynes stesso, si misero al lavoro. La ricerca dell’equilibrio economico divenne fatto politico, da ottenersi con ogni mezzo, coercitivo e concorrenziale. Lo Stato non era più il produttore dell’improducibile o del non economicamente producibile, ma uno dei tanti produttori in un mercato che vedeva scatenarsi forze mai viste prima. Così scriveva Antonio De Viti De Marco: «Nell’assenza di cause politiche perturbatrici, l’impresa pubblica tende a specializzarsi nella produzione di beni destinati a soddisfare bisogni collettivi, a condizione e sino al limite in cui essa produce più economicamente dell’impresa privata. La delimitazione non è data da una linea che fissi stabilmente e a priori le funzioni produttive dello Stato. Considerando specialmente lo sviluppo dei bisogni collettivi, al margine esiste continua comunicazione tra le due imprese e la linea di confine si sposta continuamente, secondo il principio del minimo mezzo, che regola la divisione del lavoro tra tutte le imprese, al fine di rendere più economico l’intero organismo della produzione dei beni, sia pubblici che privati. Lo Stato è una di queste aziende specializzate nella produzione di una data categoria di mezzi» (Teoria della produzione dei beni pubblici, in Teorie della finanza pubblica, Milano 1975, p. 92).

La visione di fondo di questa posizione è quella classica del liberalismo per altro presente in altri teorici con sfumature diverse. Maffeo Pantaleone, a esempio, rimproverava proprio a De Viti De Marco di “aver voluto confinare le attività finanziarie alla soddisfazione di tutti i bisogni collettivi e soltanto dei bisogni collettivi, con esclusione dell’impresa privata”. Posizione in cui è evidente la preoccupazione che lo Stato penetri troppo oltre nella sacra regione individuale.

La violenza dello scontro non ha adesso più nulla di quello che, nell’approssimazione paretiana, rendeva il mercato il luogo dell’incontro placido delle forze economiche della concorrenza. «I beni economici – scriveva Vilfredo Pareto – possono trasformarsi gli uni negli altri sia materialmente mercé la produzione, sia economicamente mercé lo scambio. Tra le trasformazioni materiali comprendiamo quelle che han per fine di recare l’oggetto alla nostra portata (commercio). Tutte queste trasformazioni sono rette dal principio che l’homo oeconomicus trasforma l’oggetto A nell’oggetto B, o viceversa, a seconda che l’ofelimità di B è per lui maggiore di quella di A e viceversa. Non si fa che esprimere il principio elementare per cui, lasciato libero, l’uomo segue la via che preferisce» (Corso di economia politica, tr. it., Torino 1961, pp. 27-28).

Ora lo scontro è cruento, l’obiettivo non è più la produzione o l’aggiustamento del prezzo, è la sopravvivenza stessa del capitalismo, la costruzione di una diga abbastanza solida per resistere alle ondate crescenti di una sotterranea disgregazione che attraversa tutta la struttura produttiva, covando come una malattia incurabile, come un morbo di cui si è arrivati a conoscere il nome e l’aspetto ma non la cura radicale, soltanto mezzi crudeli per tenerlo a freno. Il sogno di Adam Smith della mano invisibile si chiudeva non solo praticamente, nel 1929, ma anche teoricamente, nel 1935, con la General Theory. Questa dimostrò l’evidenza teorica del fatto concreto che le forze cosiddette spontanee del mercato capitalista non erano in grado di riassorbire la disoccupazione e superare la condizione fallimentare in cui la struttura produttiva agiva nel suo complesso.

La teoria di John M. Keynes si presenta come un’analisi del breve periodo ma contiene sostanzialmente una valutazione del medio e del lungo periodo in vista di suggerimenti da dare a una politica di stabilizzazione dei conflitti sociali. Così egli scrive: «Durante il diciannovesimo secolo, lo sviluppo della popolazione e delle invenzioni, l’apertura di nuove terre, lo stato della fiducia e la frequenza delle guerre nella media, poniamo, di ogni decennio, sembra siano stati sufficienti, insieme con la propensione a consumare, a stabilire una tabella dell’efficienza marginale del capitale la quale faceva si che un livello medio di occupazione ragionevolmente soddisfacente fosse compatibile con un saggio di interesse abbastanza alto per essere psicologicamente accettabile ai possessori di ricchezza. Questo risultato non era accidentale. Giustamente lo si attribuisce a un equilibrio di forze contrapposte in un’epoca nella quale i singoli gruppi di datori di lavoro erano abbastanza forti per impedire all’unità di salario di salire molto più rapidamente dell’efficienza della produzione, e nella quale i sistemi monetari erano nello stesso tempo sufficientemente fluidi e di carattere sufficientemente conservatore per offrire una quantità media di moneta in termini di unità di salario che permettesse lo stabilirsi del saggio medio di interesse a quella minima cifra che fosse facilmente accettabile ai possessori di ricchezza, sotto l’influenza delle loro preferenze di liquidità. Il livello medio dell’occupazione era, naturalmente, notevolmente al di sotto dell’occupazione piena, ma non in misura tanto intollerabile da provocare mutamenti rivoluzionari. Oggi, e presumibilmente nel futuro, la tabella dell’efficienza marginale del capitale è per svariate ragioni assai inferiore a quanto fosse nel diciannovesimo secolo» (Occupazione, Interesse e Moneta. Teoria generale, tr. it., Torino 1963. pp. 273-274).

La storia di questi ultimi decenni, sicuramente dalla fine della seconda grande guerra fino agli inizi degli anni Ottanta, è caratterizzata non tanto dall’approfondimento teorico del capitalismo diretto a risolvere i suoi problemi di sopravvivenza, quanto dal divario tra questo approfondimento e le realizzazioni pratiche messe in atto sulla scorta di quelle riflessioni teoriche. Lo Stato, nelle economie più avanzate, ha ampliato sempre di più la sua partecipazione alla produzione, sviluppandosi come azienda non privata ma agendo con criteri privatistici. In molte situazioni delle economie occidentali si è visto costretto a intervenire per correggere gli indirizzi che i capitali singoli correvano il rischio di prendere in senso contrario agli interessi complessivi del capitale stesso.

L’esempio inglese di questi ultimi dieci anni [1991] è importante. Sostituendo l’economia assistenzialista, voluta dai laburisti, i conservatori hanno riequilibrato il rapporto tra Stato e capitale gettando le condizioni della futura privatizzazione, un capovolgimento che dal loro punto di vista era più che necessario. Non un ritorno all’economia libera di mercato, piuttosto la costituzione di un mercato controllato dall’intervento del potere statale, quest’ultimo rafforzato da una situazione produttiva risanata e in crescita. Tutte le condizioni che il capitalismo tradizionale estorceva alle colonie, con la forza bruta dei suoi eserciti, adesso il capitalismo ammodernato li cava via con i processi economici e con le leggi dirette a ristabilire law and order. La situazione di quest’ultima forma del capitale, per come appare in Gran Bretagna oggi, è fra le più avanzate del mondo, sia a livello tecnico che a livello di produzione di pace sociale.

Le ventate conservatrici di questi ultimi dieci anni, si sono innestate profondamente nelle necessità di tutela dei capitalisti. Quindi non si tratta di un controsenso o di una remora. In un certo senso, quello che il progressivismo di sinistra, laburista, che resta ancora in piedi in non pochi comuni, e che potrebbe anche tornare alla carica senza con questo manifestare intenzioni di cambio di rotta, aveva potuto dare al capitale inglese e ai suoi problemi, ormai ha fatto il suo tempo, assistenzialismo in testa. Non era possibile continuare con la permissività e con lo Stato sostenitore della domanda. La privatizzazione consente al capitale di riguadagnare in prima persona settori della produttività che gli erano stati sottratti dalla stessa iniziativa statale. In questo modo, il processo di ottenimento del consenso non avviene più in maniera diretta, a esempio come assistenza sociale, ma indiretta, come riduzione dell’inflazione, aumento delle possibilità lavorative, selezione nella domanda, sostegno della domanda qualificata, accentuazione della stratificazione sociale, chiusura fisica dei ghetti di miseria, repressione, ecc.

La realtà inglese si sta orientando verso una stratificazione a tre grossi livelli, abbastanza omogenei dal punto di vista quantitativo, una parte produttiva ad alti guadagni, una parte produttiva a guadagni bassi ma con domanda contenuta, e una parte priva di guadagni con una grossa repressione a carico che a seguito dell’introduzione della poll tax [1989] sarà costretta a cercare e trovare piccoli lavori di sopravvivenza. I filtri sociali vengono ridotti, la qual cosa in un tessuto sociale ancora chiuso, come quello inglese, è possibile. L’incentivazione torna a far trovare spazi d’investimento all’interno, mentre il capitale prima era andato a cercarseli all’estero, specie in quell’America che il tasso del dollaro rendeva tanto allettante. Così il rapporto monetario dollaro-sterlina dovrebbe permettere gli investimenti del settore privato e il mantenimento delle idee conservatrici al potere.

Lo Stato capitalista avanzato, in tutte le sue possibili varianti, spesso non proprio sostanziali, pur nella sua vasta disponibilità di mezzi, deve risolvere grossi problemi di struttura e di equilibri politici. La sua attività economica si svolge con interventi sulla massa monetaria, con la distribuzione del credito, con la produzione diretta. Non contando ovviamente, in questa fase del ragionamento, la produzione di pace sociale che congloba in un tutto unitario queste differenti attività. Per realizzare tale attività economica in senso stretto, lo Stato reperisce una massa enorme di risparmio, attraverso le banche o le sue organizzazioni, uffici postali e casse di risparmio, e la investe in attività produttive pubbliche, o miste, e finanzia le attività private, con una presenza tale da caratterizzare tutta la produzione. Le sovvenzioni sono roba di tutti i giorni, gli investimenti nell’industria delle armi sono dappertutto considerevoli. Inoltre, lo Stato pianifica per meglio coordinare il suo progetto unificante dell’economia, si fa carico dei settori meno efficienti, il cui costo trasferisce sui lavoratori e lascia al settore privato quelli più produttivi, che comunque deve finanziare lo stesso, gestisce in proprio buona parte dei settori di punta, nucleare, informatica, trasporti aerei, ecc.

Non potendo trattare di tutti questi aspetti, e dovendo anche occuparci di alcune contraddizioni interne al meccanismo stesso della democrazia parlamentare, taglieremo per così dire in maniera trasversale questa enorme massa di problemi. Per prima cosa, come si è detto, lo Stato pianifica. Sulla pianificazione il capitalismo ha sviluppato tutta una mitologia, allo scopo malcelato di rassicurare gli spiriti deboli, che paventavano non poco per le possibilità di sviluppo delle proprie iniziative economiche e per lo stesso futuro del capitalismo come sistema sociale. In fondo, uno degli elementi di maggiore difficoltà per il capitale, oltre a quelli cui si riferiscono le analisi di Marx e Keynes, è dato dalla mancanza di una programmazione razionale, per cui si vengono a creare delle strozzature mortali fra i diversi settori produttivi, oppure si determina un modo non coordinato, e quindi inefficiente, di sviluppo dell’occupazione e dell’offerta di servizi. Anche la stessa incapacità cronica di imporre una politica fiscale adeguata, incapacità dipendente dalle necessità di non turbare troppo gli interessi dominanti e più ancora gli interessi del ceto bottegaio, il più sensibile e permaloso, causa scompensi che si cerca di curare con una formula magica, assolutamente inefficace ma molto appariscente, con la formula della pianificazione. Riguardo l’Italia, nella Nota aggiuntiva alla Relazione sulla situazione economica del Paese, presentata nel 1962, si indicava la necessità di mantenere un elevato saggio di crescita in modo da potere in breve tempo riassorbire gli scompensi territoriali e settoriali. Trattandosi di un documento italiano ci si riferiva quindi al Mezzogiorno e ai suoi problemi, oltre che alla situazione del settore primario, cioè dell’agricoltura. Ma, anche in questo documento, pur nella sua sostanza ideologica, non si nasconde il fatto che per far ciò, o per avviarsi a far ciò, non sono sufficienti i tassi normali di aumento delle esportazioni e della domanda privata di beni di consumo, occorre ricorrere ad azioni specifiche riguardo la ristrutturazione dei settori produttivi più arretrati, riguardo il settore pubblico, riguardo gli investimenti sociali, allo scopo di creare una forte domanda di consumi pubblici e una presenza notevole di investimenti sociali. In effetti, quindi, questi documenti di pianificazione, in quanto documenti ideologici, si limitano a quantificare i problemi, per cui risultano troppo rigidi e troppo vaghi nello stesso tempo. Questi piani non affrontano, in concreto, nessun problema economico, non indicano scadenze a medio termine, non hanno direttive o prescrizioni riguardo la messa in opera di strumenti capaci di produrre quello che essi stessi auspicano, né danno prova di conoscere con chiarezza i limiti dell’impiego dei pur numerosi strumenti di cui il capitalismo dispone. Parlando di questo programmi di sviluppo, così scrive Giovanni Sarpellon: «Lo sviluppo sociale non è perseguito razionalmente da alcun attore specifico: è lo sviluppo materiale, economico, che ha una propria dinamica, una propria logica e coerenza entro parametri di efficienza dell’intervento che rispondono in primo luogo alla convenienza di chi promuove l’intervento (e come ci si potrebbe ragionevolmente aspettare qualcosa di diverso?). Se alla società viene qualche vantaggio, esso è il prodotto delle lotte sociali grazie alle quali i vantaggi dello sviluppo economico sono forzatamente diffusi nella società economica nella quale si realizza» (Proposta metodologica per lo sviluppo sociale, in Dalla crisi alla crisi, Milano 1976, p. 173).

Poiché sulla statistica programmatoria ci sono state illusioni anche da parte rivoluzionaria, è bene dire qualcosa di più su questi ostacoli. Essi non sono soltanto di natura politica e neanche pratica, sono principalmente di natura concettuale. Il modello matematico della pianificazione è sostanzialmente un grosso imbroglio consolatorio. Cerchiamo di spiegare il perché. È naturale che essendo innumerevoli gli obiettivi che lo Stato vuole raggiungere attraverso l’attività economica e l’uso dei mezzi di cui dispone, nel senso visto prima, non si può pensare a una programmazione di tutti questi obiettivi, però di almeno due parrebbe necessario fare tutti gli sforzi per ottenerla, cioè dell’occupazione e del reddito nazionale.

I metodi applicati per dare delle risposte sono di due tipi, il primo chiamato della grandezza-obiettivo, il secondo chiamato della funzione-obiettivo. Cosa vogliono dire? Il primo consiste nell’indicare le quantità rispettive in termini di numero di occupati e miliardi di lire di reddito nazionale. Il secondo consiste nell’indicare il massimo o il minimo di occupazione dentro i limiti da tenere presenti, il massimo e il minimo di reddito nazionale dentro i vincoli da tenere presenti. Ma questi obiettivi, i quali sono quelli che si vogliono fare raggiungere al sistema economico, sono dipendenti dai mezzi che si hanno a disposizione e che vengono usati dal politico e dal pianificatore. Così si stabilisce un dato livello di occupazione e un ammontare del reddito nazionale, ma non c’è modo di ottenere direttamente questo livello e questo ammontare se non modificando i mezzi che si hanno a disposizione, cioè le variabili indipendenti. Con un modello matematico di equazioni si possono mettere in relazione variabili dipendenti e variabili indipendenti, cioè obiettivi e mezzi. Gli obiettivi assumeranno i valori che si desiderano raggiungere, mentre i mezzi costituiranno le incognite. Ne viene fuori un sistema di equazioni in cui il numero delle equazioni è uguale al numero degli obiettivi, e il numero delle incognite è uguale al numero dei mezzi. Ma un sistema del genere è risolvibile solo se il numero delle equazioni non supera il numero delle incognite che si vuole conoscere. Quindi gli obiettivi non devono essere superiori ai mezzi disponibili. Il che significa che di fronte al numero sempre crescente dei bisogni e dei desideri ci sta l’ostacolo dei mezzi sempre ridotti. Noi possiamo programmare con una certa attendibilità solo dopo avere selezionato gli obiettivi, cioè dopo avere stabilito quali sono quelli che vogliamo raggiungere e quelli che dobbiamo scartare per poter fissare la programmazione, in caso contrario, se il numero degli obiettivi è superiore ai mezzi, il sistema di equazioni non è risolvibile.

Fissare valori agli obiettivi porta a una pianificazione rigida e senza giustificazioni che non siano arbitrarie o ideologiche. Non c’è infatti un buon motivo per fissare una cifra invece di un’altra dell’avanzo della bilancia dei pagamenti. Se gli obiettivi vengono lasciati indeterminati, e si impiegano i mezzi che massimizzano gli obiettivi, il sistema di equazioni produce una serie infinita di soluzioni, fra cui bisogna scegliere con altrettante arbitrarietà e indeterminatezze. Anche l’altra strada, accennata prima, quella di fissare i massimi e i minimi, può essere seguita solo su valori astratti e quindi avere senso matematico, ma per valori economici che non possono essere negativi, il sistema di equazioni non è risolvibile, ciò porta a decisioni arbitrarie e a semplificazioni che rendono il modello matematico di fatto inutile.

Come vedremo adesso, il controllo dei compiti produttivi dello Stato, teoricamente affidato al Parlamento, viene gestito in proprio dall’esecutivo. La copertura costituzionale gestisce questo passaggio, ammesso che ci sia stato un tempo in cui il Parlamento rappresentava veramente il Paese reale in un qualsiasi tipo di democrazia. Il capitalismo attuale, avviandosi a perfezionare le condizioni produttive post-industriali, ha bisogno di una gestione dello Stato più rigida e meno legata agli umori politici dell’intero Paese. Naturalmente, il governo è, da parte sua, controllato, dentro certi limiti, dai gruppi di interesse economico che gestiscono nei fatti il Paese. Questo meccanismo è assicurato sia dal dibattito politico, sia dalle organizzazioni specifiche, come sindacati e partiti, sia da gruppi più piccoli che operano in modo non visibile per garantire gli interessi dominanti.

Su questo punto scrive Mareur Olson: «Il numero e il potere delle organizzazioni di pressione che rappresentano l’industria americana sono davvero sorprendenti in una democrazia che funziona in base alla regola della maggioranza. Il potere che i vari segmenti della comunità degli affari esercitano in questo sistema democratico, a dispetto della loro piccola dimensione, non è stato giustificato in modo adeguato. Vi sono state delle generalizzazioni vaghe, e perfino di specie mistica, circa il potere dell’industria e degli interessi legati alla proprietà, ma queste generalizzazioni non spiegano di solito perché i gruppi legati agli affari abbiano l’influenza che hanno di fatto nelle democrazie; si limitano ad asserire che essi hanno sempre tale influenza, come se fosse ovvio che così debba essere» (La logica dell’azione collettiva, tr. it. , Milano 1983, p. 162).

Nessuna spiegazione quindi, se non che i gruppi oligopolistici, proprio per questo costituiti da pochissimi elementi, in genere grandi industrie, si organizzano più facilmente, agiscono più velocemente, sono più informati e dispongono di maggiori mezzi, di quanto non possano fare i grandi gruppi di resistenza o di difesa, del genere partiti e sindacati. Ciò, che è anche la tesi di Olson, convince fino a un certo punto, in quanto bisognerebbe precisare che i grandi gruppi sono si di difficile messa in moto, ma poi potrebbero coinvolgere forze di natura del tutto differente da quella degli oligopoli. Solo che queste forze vengono imbrigliate da questi stessi gruppi i quali perseguono, in quanto organizzazioni, soltanto scopi di sopravvivenza e di mantenimento del potere, non scopi di difesa dei propri rappresentati.

Il fatto che il Parlamento non abbia strumenti idonei per controllare l’attività economica dello Stato, e quindi la sua attività in ogni senso, fa parte del processo di razionalizzazione in corso che dovrebbe rendere possibile una riduzione delle contraddizioni e dei limiti di cui ci siamo occupati prima. Come si vede ci si è avvicinati alla gestione tipica delle società per azioni. Qui, infatti, l’assemblea dei soci, che teoricamente è il massimo organo deliberativo della società, è sistematicamente tenuta all’oscuro di tutto, gli si serve un piatto freddo già pronto e la si manipola attraverso l’intervento di tecnici che preparano relazioni del tutto irreali. I soci inghiottono il responso del bilancio, senza avere la minima possibilità di intervenire. Lo stesso avviene con il Paese reale di fronte alla gestione dello Stato. Il Parlamento, che dovrebbe rappresentarlo, è messo fuori causa, serve per costruire il governo che, a sua volta, è strumento nelle mani dei gruppi di potere. Ma, mentre pilotare il Parlamento presenta maggiori difficoltà a causa di quel minimo di pubblicità che i contrasti di interessi spesso possono prendere, pilotare il governo è più sicuro e più efficace. L’esame della formazione del bilancio statale ci convincerà.

Il bilancio dello Stato può essere preso in considerazione sotto molti punti di vista. Come strumento contabile per le previsioni finanziarie della gestione statale e per la valutazione dei risultati della stessa, come strumento giuridico per regolare rapporti e, infine, come strumento economico. Col tramonto dell’illusione neutralista dello Stato e della finanza, si è imposta una teoria intorno alla finanza di tipo funzionale, teoria in cui il bilancio diventa lo strumento più efficace. Così Keynes sottolineava la fine dello Stato neutrale: «Lo Stato dovrà esercitare un’influenza direttiva circa la propensione a consumare, in parte mediante il suo schema di imposizione fiscale, in parte fissando il saggio di interesse e in parte, forse, in altri modi. Per di più, sembra improbabile che l’influenza della politica bancaria sul saggio di interesse sarà sufficiente da sé sola a determinare un ritmo ottimo di investimento. Ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento si dimostrerà l’unico mezzo per consentire di avvicinarci alla occupazione piena; sebbene ciò non escluda necessariamente ogni sorta di espedienti e di compromessi coi quali la pubblica autorità collabori con la privata iniziativa» (Occupazione, interesse e moneta. Teoria generale, op. cit., pp. 335-336).

Per comprendere meglio l’importanza che il bilancio statale riveste come mezzo per regolare i comportamenti repressivi dello Stato, occorre tenere presente che tutte le attività statali, quindi anche la repressione interna, sono attività produttive che trovano la loro corrispondenza nel bilancio sotto l’aspetto di spese, ma non come entrate. Il servizio prodotto tramite la polizia, l’esercito, la magistratura, le carceri e tutto il resto dell’apparato repressivo, viene considerato indivisibile, quindi non dà vita a un prezzo di mercato, ma viene venduto globalmente attraverso le imposte che costituiscono quindi le entrate corrispettive a quelle spese. Considerando che a sostenere il maggior peso delle imposte, e delle tasse, siano proprio gli esclusi, per cui ogni singola quota di imposta finisce per avere un peso maggiore che non la stessa quota per gli strati inclusi della società, se ne ricava che a pagare la propria repressione sono gli stessi repressi. Scrive André Breton: «Quando uno Stato, per esempio, acquista missili, aerei, navi da guerra e bazooka, non cerca di offrire missili, aerei, navi da guerra e bazooka alla popolazione della sua giurisdizione, ma vuole invece offrire ciò che chiamiamo difesa nazionale; allo stesso modo, quando uno Stato acquista ufficiali di polizia, muniti o meno di manganelli, automobili, rivoltelle e cani, quello che offre è l’ordine pubblico e nessuna delle voci elencate. Ciascuna voce dovrebbe invece essere considerata come un input nella produzione della difesa nazionale e dell’ordine pubblico. In altre parole, lo Stato dovrebbe essere considerato come una unità produttiva che acquista i fattori della produzione e li trasforma in beni pubblici che poi offre agli individui che si trovano sotto la sua giurisdizione. Tra l’altro, questa impostazione renderebbe chiaro perché per analizzare il comportamento dello Stato si debbano mettere in evidenza le sue politiche: sono queste le produzioni degli Stati» (Una teoria della domanda di beni pubblici, in Teorie della finanza pubblica, op. cit., p. 262).

Le nuove scuole teoriche della finanza pubblica cercano di esaminare il bilancio dello Stato sotto l’aspetto della sua incidenza sull’attività economica. «Sono gli effetti del bilancio statale sull’attività produttiva in genere e su alcune attività in particolare, il contributo alle formazione di nuova ricchezza o alla distruzione di ricchezza accumulata, i trasferimenti di redditi a danno di alcune categorie e a favore di altre, il costituire i presupposti per un migliore e più elevato livello di vita o, al contrario, la precostituzione di oneri per le generazioni a venire, che devono interessarci» (G. Passalacqua, Il bilancio dello Stato, Milano 1977, p. 10). Per la vecchia scuola finanziaria invece i significati più interessanti del bilancio venivano colti in rapporto all’evoluzione del diritto costituzionale e al perfezionamento della democrazia parlamentare. Qualche importanza secondaria veniva data agli aspetti finanziari, mentre nessuna importanza rivestivano gli aspetti economici in quanto, per questo modo di vedere le cose, il bilancio aveva la sola funzione di strumento di raccolta, dei mezzi tributari e di erogazione di spesa per i pubblici servizi, in un concetto neutrale della attività dello Stato.

La differenza tra le due concezioni è da riportarsi a due valutazioni economiche di fondo che corrispondono non solo a due modi di vedere l’analisi economica, ma anche a due modelli d’intervento di politica economica. La prima, considerando il meccanismo di mercato come sufficiente ad assicurare la piena occupazione dei fattori produttivi, vedeva nell’attività finanziaria, un semplice prelievo di una parte del reddito prodotto dall’attività economica privata e vedeva nelle imposte un modo di coprire i costi dei servizi pubblici. Il meccanismo dell’equilibrio del mercato, in questa prospettiva, doveva essere disturbato il meno possibile da interventi statali finanziari e quasi per nulla da interventi economici produttivi. Si tratta della tesi liberale in senso più o meno ortodosso che corrisponde, a un livello di sviluppo del capitale, alla saturazione di una data capacità produttiva, alla fine dello Stato di diritto inteso meccanicamente e idealisticamente, alla fine dell’egemonia della classe dominante intesa come assoluta libertà di sfruttare.

Questa posizione riconosce la conflittualità della realtà economica. La sola coscienza della lotta intestina per il potere, in una situazione di larghe possibilità economiche, compendiata dall’ideologia dell’equilibrio armonico così come venne esposta da Frédéric Bastiat, comportava una concezione statica dell’economia. Il riconoscimento che gli sfruttati si organizzano e si danno strutture di lotta, quindi il riconoscimento della lotta di classe come componente della realtà economica, comporta una modificazione in senso dinamico delle ideologie precedenti. I tentativi di suggerire un’evoluzione verso un equilibrio dinamico, cioè capace di autoregolarsi di fronte alle sollecitazioni interne, sono ampiamente criticati sia dai fatti, poniamo dalla crisi del 1929, sia dalla teoria keynesiana, ampiamente accettata dalla scienza economica odierna, almeno su questo punto. Dato che gli sfruttati hanno raggiunto questo livello di pericolosità, occorre fare rientrare le punte più organizzate ed efficienti nell’arco del gioco produttivo, quindi dell’ideologia produttiva, facendoli compartecipi di quelli che una volta erano i consumi signorili, estendendo questi consumi e massificandoli. Il resto dei produttori verrà a trovarsi in una posizione subalterna che, da per sé sola, sarà già in grado di scatenare una reazione contro la parte più privilegiata della classe stessa. Contro la minoranza più battagliera di questo secondo strato tagliato fuori, in ultima analisi, basterà scatenare le repressione, sotterrando del tutto l’antica unità di lotta.

Per fare questo lo Stato ha bisogno non solo di un controllo dell’economia, controllo che viene esercitato in molti modi, ma ha anche bisogno di essere esso stesso economia, ha bisogno di trasformarsi da Stato cassiere della classe dominante, in Stato banchiere, da osservatore in attore primario della produzione. La stessa legittimità, in quanto Stato, la ricerca in questo nuovo compito, ergendosi a paladino degli interessi dominanti e non a semplice arbitro di una lotta che minacciava di coinvolgere in modo radicale le stesse strutture statali.

In una situazione di non piena occupazione della manodopera, situazione normale per il capitalismo avanzato l’attività dello Stato si finalizza verso il mantenimento dell’ordine sociale attraverso provvedimenti economici. La finanza risulta quindi in maggiore luce nel suo aspetto funzionale. L’imposta non è più considerata come un mezzo per provvedere ai servizi pubblici, ma come uno strumento per spostare il potere di acquisto dalle mani di alcuni settori a quelle di altri settori, allo scopo di incidere sulla domanda. In questo modo, si spiega una disponibilità a un aumento dei salari nominali, perché i salari reali persistono nella loro capacità di acquisto di fronte all’alzarsi dei prezzi determinato in non ultima sede, proprio dallo stesso aumento della domanda e quindi della produzione. Il disavanzo del bilancio pubblico, cioè un eccesso di spesa, rappresenta pertanto non una malattia, ma un sostegno della domanda che stimola la ripresa economica.

Si tratta di una differente impostazione del problema economico e politico della produzione. L’esistenza di un bilancio in disavanzo non è più un ostacolo tecnico da superare, ma un mezzo per raggiungere la stabilità. La vecchia concezione liberale considerava il pareggio del bilancio dello Stato come la prova che il Parlamento funzionava e che il Paese era affidato in buone mani. Così Pantaloni: «Il bilancio dell’uscita che rappresenta una certa somma complessiva di soddisfazioni, ovvero di appagamento di bisogni, si contrappone alla somma complessiva di pena che suscita l’esazione delle imposte ed equivale per lo meno la medesima nella mente del legislatore, cioè secondo l’apprezzamento della media intelligenza contenuta in seno al Parlamento. Questo apprezzamento potrà naturalmente essere più o meno sensato in ragione della concorrenza di molteplici condizioni, fra le quali certamente non è ultima quella della costituzione del Parlamento, essendo assai meno probabile un giudizio felice se la media intelligenza sta bassa, di quello che sia se è elevata» (Contributo alla teoria del riparto delle spese pubbliche, in Teorie della finanza pubblica, op. cit., p. 53).

Riflettere su questo cambiamento non è senza importanza. Oggi gli economisti, dovendo approntare per il potere che li paga una ricetta di semplice impiego, si sono chiesti se il raggiungimento di un equilibrio particolare cosiddetto instabile, ma capace di garantire comunque la pace sociale, non fosse da preferire a modelli del passato che, sulla carta, nemmeno prendevano in considerazione l’ipotesi di conflittualità. La risposta ha consigliato al posto del controllo un certo abbandono all’inflazione, proprio allo scopo di raggiungere una certa stabilità del sistema. La svalutazione risulta così un ulteriore prodotto dello Stato in vista sempre della produzione conclusiva di pace sociale. Scompare quindi ogni implicazione negativa nel termine inflazione, salvo che per i discorsi demagogici dei partiti che spesso tornano sulla necessità di continuare la lotta contro la svalutazione. Lo Stato che ricerca questo tipo di stabilità non proietta le sue forze solo nella direzione della massima occupazione raggiungibile a partire da una certa distribuzione delle forze produttive, ma anche nel campo della politica monetaria. La combinazione dei due aspetti ci dà indicazioni più chiare sulle possibilità che un uso spregiudicato del bilancio fornisce ai gruppi di potere. Il livello di occupazione che, a giudizio degli esperti, risulta ottimale in un dato momento in uno Stato, costituisce, come si è detto, l’obiettivo principale della produzione di pace sociale. Ma quest’obiettivo può essere raggiunto per diverse strade. Con un pesante disavanzo del bilancio, una bassa tassazione e un alto saggio di interesse, oppure con nessun disavanzo ed elevate imposizioni, oppure con un bilancio in attivo e bassi saggi di interesse. Ma quest’ultima soluzione porterebbe subito a una diminuzione del consumo con negative influenze sull’occupazione. Allo stesso modo, una politica di elevate imposizioni produrrebbe sensibili modificazioni nel risparmio individuale con diminuzione della propensione al consumo. Quindi, pur essendo svariate le strade non sono uguali i risultati. Se lo Stato presuppone possibile imporre un basso saggio di interesse monetario, diventa inutile ricorrere alla politica monetaria per ottenere la stabilizzazione, in quanto l’unico strumento da impiegare resta quello fiscale. Viceversa, se il saggio presupposto è alto, potendosi attuare con notevoli effetti i controlli monetari, allora saranno questi a portare alla stabilizzazione, cioè a quel grado di inflazione pilotata, anzi sollecitata, che consente il raggiungimento di una domanda in grado di determinare un certo livello di occupazione ritenuto idoneo alla produzione di pace sociale.

In realtà, attraverso questa utilizzazione del bilancio si realizza un indirizzo di politica economica che tende all’occupazione ottimale, cioè quella che permette salari proporzionalmente bassi e assenza di conflittualità estreme. Gli obiettivi che lo Stato oggi [anni Ottanta] si pone sono quindi un alto livello di consumi privati, la soddisfazione dei bisogni collettivi, come sanità, pensioni, infrastrutture, ecc., una redistribuzione del reddito attraverso il prelievo fiscale, oppure un’assistenza, una elevata occupazione, un equilibrio della bilancia dei pagamenti con l’estero e, infine, una stabilità dei prezzi. Tutti questi elementi, che mischiano insieme obiettivi di politica finanziaria, monetaria, di amministrazione e organizzazione produttiva, trovano, o meglio dovrebbero trovare, la loro coordinazione nel bilancio dello Stato.

Scrive Antonio Marzano, «Il bilancio dello Stato è il documento che riassume l’insieme delle risorse e degli impieghi preordinati dalla pubblica amministrazione per il conseguimento delle finalità statali» (Il bilancio dello Stato e la programmazione economica, Milano 1963, p. 28). Quindi, non semplice atto di controllo o autorizzazione, ma strumento per le finalità statali. Così Salvatore Buscema: «Il bilancio si materializza in un documento contabile che contiene l’indicazione delle entrate e delle spese che si prevede saranno realizzate ed erogate in un periodo di tempo determinato, generalmente un anno. Ma l’enunciazione contabile del bilancio, nello Stato moderno, è l’espressione di una scelta di natura politica. Il bilancio non enuncia infatti un programma di azione politica che si deve svolgere in un dato periodo di tempo (esercizio finanziario), ma è diretta manifestazione di esso, ossia è la trascrizione, per così dire, in termini contabili, dell’indirizzo e del programma politico deliberato» (Il bilancio dello Stato, delle Regioni e degli enti pubblici minori, Milano 1960, pp. 20). E Ubaldo Rogari: «Il bilancio è a un tempo strumento politico-costituzionale e strumento di politica economica. Quale strumento politico-costituzionale, il Parlamento autorizza il governo all’esercizio di determinate podestà, gli impone degli obblighi e gli segna dei limiti. Quale strumento di politica economica, il bilancio si presenta come un programma finanziario a breve termine (un anno) che si inserisce in un programma più lungo (piano pluriennale di sviluppo o programmazione) per contribuire a produrre certe conseguenze economiche e sociali, (redistribuzione del reddito, correzione degli squilibri economici e sociali, cambiamento dell’equilibrio del mercato, stimolo allo sviluppo economico)» (Il bilancio dello Stato, Padova 1977, p. 86).

Gli scopi che si vogliono raggiungere attraverso il bilancio, in quanto strumento operativo, sono diversi. Rendere possibile una ragionevole valutazione delle entrate e delle spese dello Stato, rendere possibile una valutazione di quali saranno gli effetti che le spese e le entrate produrranno nell’economia del Paese, rendere possibile un ragionevole equilibrio tra le varie voci, mettere il Parlamento in condizione di verificare se l’esecutivo realizza effettivamente la politica alla quale, con l’approvazione del bilancio, il potere legislativo ha dato il proprio assenso.

Il bilancio, dopo la sua approvazione, diventa quindi una regola di condotta per quanto riguarda le spese e le entrate, un punto di riferimento, un indirizzo politico per il governo. Il governo, una volta approntato il bilancio da sottoporre al Parlamento, effettua delle scelte di natura economica, ma non sempre queste risultano dirette a massimizzare la soddisfazione dei bisogni pubblici, potendo indirizzarsi verso obiettivi che indirettamente arrivano a produrre soltanto pace sociale.

Tenendo conto di come anche la valutazione sulle scelte del carico tributario, quindi sul reperimento dei mezzi, abbia implicazioni politiche, si capisce meglio la natura del bilancio. È stato sottolineato come questo problema si sia andato modificando negli ultimi decenni, a seguito della crisi di rappresentatività del Parlamento e dell’aumentato potere dei gruppi di pressione e dei partiti. Precisa Rogari: «La decadenza della teoria del controllo e le deviazione dal principio dell’indirizzo politico preparato dal governo sono conseguenze della trasformazione in atto della democrazia rappresentativa e del rafforzarsi di gruppi di pressione fuori del Parlamento» (Ib., p. 108).

La spregiudicata utilizzazione delle risorse da parte dei gruppi di potere non sarebbe possibile se non fosse stato nullificato per tempo ogni controllo sul loro operato. Modificare questo aspetto corrisponderebbe a una razionalizzazione economica che, perfezionando lo sfruttamento, al momento attuale potrebbe non corrispondere con gli interessi del capitale. Occorre ammettere che anche adesso, una delle caratteristiche del capitalismo avanzato resta sempre la pulsione alla rapina, più che la razionalità pura e semplice, la spinta distruttiva verso ogni risorsa naturale dell’uomo e dell’ambiente, il progetto a breve termine, la decisione fredda di rinviare alle generazioni future tutte le conseguenze sociali del proprio malaccorto progetto attuale.

Nell’iniziale spinta al consumo il capitale non faceva molta differenza tra consumo privato e pubblico, poi, diminuendo la propensione del primo, per l’esaurirsi delle possibilità di spinta dei beni durevoli, e restando ferme le necessità del livello occupazionale, si passò a una differente considerazione dei rapporti tra i due tipi di consumo, per arrivare a una rivalutazione del secondo tipo, quello sociale. I gruppi di potere agirono sullo Stato indirizzando gli investimenti e le relative sovvenzioni verso ipotetiche trasformazioni strutturali o progetti di ristrutturazione nemmeno avviati. Qui intervennero gli economisti, teorizzando che i consumi pubblici avevano la caratteristica di essere non monetabili direttamente, se non in realtà marginali. Se chi aveva bisogno di prendere l’autobus poteva accettare di pagare il biglietto, lo stesso non poteva fare chi aveva bisogno di fare il bagno in un mare pulito o di non essere intossicato dagli scarichi delle industrie. Questi divennero, nella concezione degli economisti, bisogni sociali o collettivi, bisogni di cui andava fatta responsabile la classe politica che, tramite il suo intervento, poteva soddisfarli allargando quegli investimenti che avrebbero così, indirettamente, recato sollievo al problema occupazionale.

Subito il capitale si gettò a capofitto in questa direzione. L’esperienza americana, per la verità, non lasciava immaginare nulla di buono. La creazione di strutture sociali di sostegno della domanda aveva avuto come risposta un incredibile dilagare di violenza, specie da parte dei neri e di altre minoranze ghettizzate. Anche in Gran Bretagna la creazione di una struttura sociale di tipo welfare state aveva avuto come risposta un aumento di violenza generalizzata. Non è possibile tenere lontane le minoranze desalarizzate dai torbidi sociali con poche sterline la settimana. Nessuna risposta critica da parte degli economisti, almeno non in tempi brevi. Fatto normale, in quanto questa gente si lega amorosamente a un modello e non divorzia con facilità. Solo qualche voce isolata: «Quel che spaventa, non è tanto o soltanto l’incontrollato aumento di spesa e le sacche di spreco e di privilegio che ciò comporta; spaventa piuttosto e specialmente l’irrigidimento e 1’incancrenimento dell’intervento sui moduli più antichi e tradizionali proprio perché essi sono quelli che garantiscono maggiore privilegio corporativo; spaventa l’appiattimento e l’invecchiamento del servizio reso; spaventa la massificazione dell’intervento senza alcuna adeguata crescita delle capacità di rispondenza alla crescente articolazione e diversificazione dei bisogni» (G. De Rita, L’intervento in campo sociale dalla crisi alla crisi, in Av.Vv., Dalla crisi alla crisi, op. cit., p. 85). Queste parole cercano di cogliere il difetto di razionalizzazione nella pratica del potere, ed è per porre rimedio a questa situazione che si è andato sempre di più snaturando l’antica natura contabile del bilancio dello Stato.

La seconda considerazione che bisogna fare, riguardo il bilancio, è quella di natura economica. In effetti, proprio come documento economico, il bilancio non risulta molto utile. Le sue spiegazioni delle scelte economiche alternative, e quindi i motivi degli indirizzi adottati nell’uso delle risorse da parte del governo, non sono uno specchio fedele della politica fiscale realizzata. Da questo punto di vista, le deficienze sono molteplici. Prima di tutto, la mancata indicazione delle ipotesi su cui si reggono le previsioni di entrata e di spesa in relazione a un certo livello di reddito nazionale lordo, di occupazione e di prezzi. Poi, la mancata indicazione delle conseguenze che si prevedono, a seguito delle spese, sulla produzione e sulla distribuzione delle risorse private, sul reddito disponibile a breve e a lungo termine e quindi sul consumo e sull’investimento.

In sostanza, il bilancio dello Stato non sembra possa essere valutato come un qualsiasi bilancio aziendale. La gestione del denaro pubblico, ricavabile dalla sua lettura, non viene valutata dal Parlamento alla stessa stregua di un’assemblea di azionisti. Infatti, il Parlamento, pur risultando il rappresentante della volontà popolare, in sostanza non rappresenta che gli interessi della classe dominante, quindi non è certo in grado di rappresentare tutte le classi dei contribuenti, specie quella fascia dei redditi minori la quale sopporta proporzionalmente il peso più alto. Quindi, il governo rende conto a un organo, il Parlamento, che non ha alcun mandato da parte dei contribuenti, né può averlo. La cosa è importante e spiega l’interesse relativo con cui il Parlamento si occupa del bilancio e i ritardi continui riguardo la sua approvazione. Lo stesso governo non ha un potere di valutazione in merito al significato economico della gestione del denaro pubblico, spettando il controllo di legittimità alla Corte dei conti, almeno per la situazione italiana, ma funzionamenti più o meno simili accadono negli altri Paesi. La stessa funzione ispettiva, che spetterebbe al Parlamento, è esautorata dagli interessi dei partiti o, almeno, dei partiti che concorrono a formare la maggioranza di governo.

L’attivo del bilancio comprende tutte le risorse disponibili, quindi sia la ricchezza prodotta che quella importata, cioè il reddito nazionale e l’importazione di merci e servizi. Il passivo comprende i consumi, gli investimenti e le esportazioni di merci e servizi.

Le differenze tra il bilancio dello Stato e il bilancio economico nazionale sono molteplici. Il primo concerne la parte di ricchezza che ad esso affluisce tramite i tributi per essere erogata dagli organi dell’amministrazione statale. Il secondo riguarda tutta la ricchezza prodotta e gli impieghi relativi. Il bilancio dello Stato è un documento finanziario e preventivo in quanto contiene le entrate e le spese finanziarie che si prevede saranno acquisite od erogate nell’esercizio di competenza. Il secondo è un documento economico e consuntivo in quanto riguarda la ricchezza già prodotta ed impiegata. L’indirizzo della pubblica amministrazione, obbligatorio dopo l’approvazione parlamentare, è contenuto nel primo documento, mentre il secondo fa parte della relazione generale sulla situazione economica del Paese, la quale è diretta a illustrare al Parlamento la condizione dei diversi settori dell’attività pubblica. Infine, il primo documento ha valore giuridico, cioè attraverso di esso il Parlamento conferisce al governo obblighi e facoltà, mentre il secondo ha valore puramente politico.

Conclude Rogari: «Bilancio pubblico e bilancio economico nazionale diventano documenti paralleli, rappresentando, il primo la valutazione che i soggetti pubblici fanno delle spese pubbliche in relazione alle entrate, e che variano secondo l’importanza dei fini che lo Stato intende raggiungere in un determinato momento storico, il secondo l’ammontare del prodotto nazionale e la sua distribuzione fra i vari aggregati nello stesso periodo di tempo» (Il bilancio dello Stato, op. cit., p. 90). Proprio nel momento in cui lo Stato è sollecitato a intervenire direttamente nella produzione, sostanzialmente come oligopolista, proprio mentre i veri rapporti con l’estero vengono trattati non tanto dal ministero degli esteri ma dal ministero dell’economia, mentre i rapporti internazionali corrispondono sempre più a un quadro di borsa titoli e merci, il bilancio contabile del passato, che rendeva stranamente chiare alcune cose, fra cui dove erano stati presi i soldi e a chi erano stati dati, adesso invece di essere perfezionato all’altezza delle sofisticate elaborazioni della scienza amministrativa, viene abolito e sostituito con un bilancio economico che rende illeggibili le due cose precedenti ma mette in evidenza il flusso della ricchezza prodotta.

Quando Keynes scriveva, sostenendo la necessità che lo Stato diventasse agente economico diretto, nella prospettiva del mantenimento del sistema capitalista al di là delle crisi, non si accorgeva di assumere, e di fare assumere dopo di lui a quasi tutta la scienza economica, il ruolo di Cassandra solo parzialmente inascoltata. In effetti, il capitale ha raccolto l’innovatrice proposta keynesiana usando gli strumenti che possiede per metterne in pratica non lo spirito razionalizzante ma la natura stabilizzatrice diretta. Questo è quello che si realizzato a partire dalla metà degli anni Ottanta.

Con la discussione parlamentare sul bilancio si sottopone a un riesame annuale l’intera politica. del governo. Per discutere il bilancio il governo deve essere in carica, non dimissionario, cosa che sarebbe un controsenso, mentre il Parlamento da parte sua può approvare come non approvare, togliendo la fiducia al governo. È chiaro che un rifiuto dell’approvazione del bilancio, senza concedere l’esercizio provvisorio, mette il governo nell’impossibilità di fare qualsiasi spesa o di obbligare i creditori a pagare. In Italia c’è stato un solo caso di rifiuto dell’approvazione, nel 1893. C’è però un uso continuo dell’esercizio provvisorio. Questo sistema permette un sottile gioco politico e un raccordo tra strategia del capitale e classe politica al governo. Permette anche all’opposizione di svolgere, con una parvenza di correttezza, il suo compito, in quanto non partecipa all’approvazione del bilancio nei tempi previsti, cosa che viene diffusa dalla stampa di partito come un atteggiamento di rifiuto e un modo di gestire la pubblica amministrazione con le mani pulite.

Vediamo adesso come avviene la formazione tecnica del bilancio dello Stato italiano. Nel 1964 vennero approvate importanti modifiche che riguardavano la presentazione al Parlamento nel mese di luglio del rendiconto generale dell’esercizio scaduto il 31 dicembre precedente, insieme al bilancio di previsione per l’anno successivo. Insieme a queste scadenze vennero anche approvati alcuni cambiamenti molto importanti. Lo stato di previsione dell’entrata e gli stati di previsione della spesa, con relativi allegati, cioè i bilanci delle amministrazioni autonome, e con il quadro generale riassuntivo, venivano a costituire un unico disegno di legge, inoltre veniva impiegata una classificazione economico-funzionale delle entrate e delle uscite.

È evidente che l’unificazione dello stato di previsione delle entrate e degli stati di previsione della spesa, con i vari allegati dei diversi bilanci, rendono molto debole la funzione di controllo sull’operato del governo e delle singole amministrazioni, da parte del Parlamento, che così viene privato della possibilità, per quanto teorica possa questa essere stata in passato, di un’approfondita discussione delle direttive politiche del governo nei diversi settori dell’attività pubblica. La scusa trovata per fare passare questa modifica è stata quella di cercare di evitare l’esercizio provvisorio, accelerando i tempi di approvazione del Parlamento, scusa del tutto priva di senso se si pensa che i motivi per cui si ricorre all’esercizio provvisorio sono quelli di approvare il bilancio nel momento più favorevole agli interessi, non sempre confessabili, dei gruppi di potere.

Riguardo la sostituzione della classificazione di tipo aziendale-patrimoniale, con quella di tipo economico-funzionale i motivi che potrebbero giustificarla sono dati da un cresciuto intervento diretto e indiretto dello Stato nell’economia, quindi dalla necessità di un bilancio capace di fare vedere i rapporti tra attività finanziaria ed economica, dall’importanza di evidenziare gli orientamenti di politica economica rappresentando gli oneri sulla base della loro destinazione.

Il Parlamento provvede all’esame del bilancio nelle commissioni permanenti, competenti per ciascuna branca dell’amministrazione. I regolamenti prevedono l’abbinamento dell’esame del bilancio preventivo a quello consuntivo della gestione precedente, allo scopo di dare fondatezza alle previsioni e rendere possibile il lavoro in commissione. Queste fanno una relazione che viene trasmessa all’assemblea. Gli emendamenti possono essere avanzati alle commissioni se si tratta di modifiche compensative, per modifiche di spesa riguardanti stati di previsioni differenti, l’approvazione spetta alla commissione bilancio e programmazione.

Le entrate e le spese del bilancio da approvare vengono rilevate dall’esame delle possibili fonti di risorse e oneri. Per cui possono entrare negli stati di previsioni solo spese e entrate previste dalla precedente legge di bilancio. Questo limite non ha conseguenze pratiche per quel che riguarda le entrate, ma per le spese la cosa è diversa. Non possono inserirsi nel bilancio spese che non trovino fondamento nelle disposizioni di legge a carattere sostanziale o, almeno, che non siano in relazione con provvedimenti in via di perfezionamento. In quest’ultimo caso, le voci specifiche vengono inserite in uno speciale capitolo concernente appunto i fondi occorrenti per far fronte ad oneri dipendenti da provvedimenti legislativi in corso. Si tratta di un accorgimento per aggirare quanto disposto dalla costituzione.

Da quanto sopra si capisce quali elementi di spesa possono essere contenuti nel bilancio. Prima di tutto gli stanziamenti per il nuovo esercizio in prosecuzione di quelli già autorizzati negli esercizi precedenti, in modo che conservino la loro efficacia. Poi, le modificazioni delle assegnazioni già stabilite, per adeguarle all’effettivo fabbisogno. Infine, le spese riguardanti i programmi da svolgere nel nuovo esercizio in base a leggi di già approvate.

Ora, mentre le spese hanno quasi sempre la loro motivazione, potendosi giocare solo sullo spostamento nel tempo e sulle relative sostituzioni, le entrare non hanno vincoli del genere. Ciò determina una considerevole incertezza nelle previsioni, che se da un lato costituisce un elemento di instabilità nella politica degli investimenti statali, elemento per altro recuperato dallo sciupio causato dall’uso irrazionale delle risorse, dall’altro costituisce uno strumento nelle mani dei gruppi di potere per fare apparire più accettabili i risultati del bilancio che si presenta al Parlamento. Infatti, quando le previsioni di entrata vengono calcolate in meno significa che il governo si riserva dei mezzi per affrontare, nel corso dell’esercizio, altre spese, sulla base delle sollecitazioni che riceve dai gruppi di potere, aggirando l’ostacolo della Costituzione che richiede per ogni spesa un apposito finanziamento. Inoltre, il governo può anche cercare di fare risultare nel documento consuntivo una gestione migliore di quella che era nelle previsioni, cosa che può avere non trascurabili effetti politici al momento opportuno. Al contrario, il governo può presentare un bilancio avente un forte disavanzo, molto più elevato di quello ragionevolmente prevedibile, alzando le previsioni dell’entrata al di là del verosimile, facendo in questo modo pressione sulla classe politica e su tutto il Paese per accettare quelle scelte che sostengono una mitica razionalizzazione dell’economia

Il primo requisito del bilancio è l’annualità. È il principio più antico. I Comuni inglesi concedevano i fondi alla Corona per dodici mesi, dopo i quali il sovrano era obbligato a convocarli per dimostrare come i fondi erano stati spesi. Questo principio è legato al concetto del controllo. Oggi le deroghe sostanziali sono diverse, come a esempio la possibilità di trasferire a un esercizio successivo le disponibilità di bilancio destinate a un dato esercizio per la copertura di oneri derivanti da leggi perfezionate nei termini dell’esercizio stesso. Un’altra deroga è data dalla possibilità di sostenere spese in esercizi diversi da quelli di competenza, fatto quasi inevitabile visto l’incremento dell’attività economica dello Stato, attività che non è possibile troncare artificialmente ogni anno. Scrive ancora Rogari: «Finché il bilancio era il mero progetto di un’attività finanziaria “neutrale”, che si limitava ad acquisire, attraverso il prelevamento fiscale, i mezzi per esercitare funzioni fondamentali e originarie dello Stato, cercando di disturbare il meno possibile l’equilibrio economico preesistente, esso aveva, prevalentemente, una funzione giuridico-costituzionale. Ma da quando il bilancio è diventato strumento di redistribuzione del reddito e, ancor più, quando è diventato strumento di intervento economico per prevenire o correggere le fluttuazioni economiche e di intervento economico ai fini della stabilizzazione monetaria, anche il principio dell’annualità ha cominciato ad affievolirsi» (Ib., p. 128).

Il secondo requisito è l’unità. Le entrate sono considerate come un tutto inscindibile, un fondo unico per tutte le spese. Non è possibile destinare alcune entrate per determinate spese, costituire fondi separati per singole uscite. Questo principio trovò la sua prima affermazione in Francia dopo la rivoluzione, portando a una forma di centralizzazione amministrativa che corrispondeva a una parallela centralizzazione contabile. I bilanci autonomi sono un’ovvia deroga a questo principio. Considerando la loro entità, trattandosi delle ferrovie, dei monopoli statali, delle poste e telegrafi, ecc., si capisce come possano concorrere a privare di significato l’insieme del bilancio.

L’universalità, terzo requisito, prevede che tutte le entrate e tutte le spese devono figurare nel bilancio, in modo da non sfuggire ai controlli. Violazioni sono le cosiddette gestioni para-bilancio, costituite con fondi regolarmente previsti in bilancio che però sono dati in assegnazione ad organismi interni della pubblica amministrazione, i quali li utilizzano liberamente, senza controllo.

Il principio della specificazione fissa che tutte le entrate e uscite devono essere specificate nel bilancio in relazione alla natura e all’origine e funzione. Lo scopo è sempre quello del controllo parlamentare. Nel caso delle entrate, una specificazione minore non ha grandi conseguenze in quanto allo Stato le entrate interessano nel loro complesso per fissare i limiti di destinazione delle spese pubbliche. Certo, è anche importante conoscere la ripartizione del carico tributario, ma non così importante come conoscere le spese. Nel caso delle uscite, la specificazione assume aspetti fondamentali, dovendo distinguere tra spese rigide e spese che hanno un certo margine di discrezionalità. In quest’ultimo caso, le possibilità del potere risultano maggiori per eventuali raggiri, quando non si trova in bilancio una dettagliata specificazione. Le spese correnti sono quelle considerate di funzionamento, cioè relative allo svolgimento dell’attività statale. Le spese in conto capitale sono quelle relative agli investimenti diretti e indiretti, e le operazioni per la concessione di crediti. Per come queste spese risultano scritte in bilancio si vede subito che non è un documento contabile quello che le contiene, ma soltanto un documento funzionale, infatti non permette controlli quantitativi, ma solo un generico controllo di corrispondenza delle poste del bilancio con i programmi economici generali, con tutta la vaghezza e imprecisione che questo fatto comporta.

La veridicità è l’ultimo principio del bilancio statale, in base ad essa si richiede che il bilancio deve contenere le entrate e le spese che effettivamente si presume si verificheranno. È subito evidente l’elasticità di un simile principio. Solo un considerevole scostamento dai dati reali può essere colto dal Parlamento, ma queste grosse deroghe non si verificano quasi mai, infatti le manovre politiche sono sempre a livello di deroghe più modeste ma di considerevole entità.

Il deficit del bilancio, assolutamente cronico, conduce alla svalutazione. Si è visto come questa sia una delle strade che porta alla stabilità economica, quindi a una migliore condizione di sfruttamento, a una razionalizzazione del processo produttivo. Ma deve essere un’inflazione guidata, cosa che allo stato attuale delle cose non appare applicabile. Lo Stato affronta situazioni di indebitamento che non può sostenere, per il quale motivo il Tesoro s’indebita. Da qui la sistematica inflazione. Queste operazioni di indebitamento si possono definire come operazioni di gestione del bilancio e sono sostanzialmente operazioni di natura bancaria, con particolari caratteristiche. Lo Stato raccoglie risparmio tramite conti correnti che però devono essere sempre attivi e concede anticipazioni all’amministrazione postale. Per queste operazioni il Tesoro, a differenza delle banche di credito ordinario, non è tenuto a mantenere le riserve. I conti di raccolta del risparmio alimentano la Cassa depositi e prestiti, attraverso cui lo Stato concede prestiti agli enti locali. Questi movimenti di liquidità, incontrollati, consentono di ovviare all’unitarietà del bilancio e permettono di impiegare fondi per scopi diversi da quelli previsti nel documento fondamentale approvato dal Parlamento.

Consideriamo adesso un altro aspetto della struttura produttiva di pace sociale. Lo Stato può realizzare quest’attività anche attraverso una sua strategia di politica monetaria. Come tutti gli altri aspetti produttivi di pace sociale, la politica monetaria può avere due effetti nello stesso tempo. Può costituire strumento di rallentamento del conflitto sociale e può invece esacerbarlo. Per quanto le analisi sulla moneta e sui suoi effetti all’interno dei sistemi economici, siano vecchie quanto la stessa scienza dell’economia, solo recentemente è stato sottolineato lo stretto legame che esiste tra politica monetaria degli Stati e progetti che il capitale intende realizzare, con tutti i rapporti che questi progetti hanno nella situazione internazionale complessiva.

Ma cos’è la moneta? In modo approssimativo essa può essere considerata come l’insieme dei mezzi di pagamento in circolazione in un Paese. Alcuni studi più recenti la definiscono piuttosto come l’insieme delle attività direttamente spendibili per l’acquisto di altre attività reali o finanziarie, purché le prime attività abbiano la caratteristica di essere altamente liquide e di avere valore certo a qualsiasi data futura. Questo insieme è formato dai biglietti di banca e da una grande varietà di strumenti di pagamento che si definiscono come moneta fiduciaria. La funzione che questi due tipi di moneta assolvono nel capitalismo di ogni genere è quella di permettere lo scambio di tutte le merci offerte sul mercato. Abbiamo quindi che l’insieme delle unità monetarie, moltiplicato per il numero di volte che queste vengono scambiate, deve essere uguale al valore delle merci in circolazione. Nel caso in cui la moneta è in eccesso sul valore delle merci si ha inflazione.

Ma la vera caratteristica della moneta è la sua liquidità. In altri termini, la moneta è quell’oggetto che con maggiore o minore prontezza è in grado di trasformare una merce in un’altra. La liquidità è una funzione della possibilità di convertire un’attività finanziaria qualsiasi in strumenti di pagamento con maggiore o minore velocità. Questo spiega la preferenza per la liquidità della moneta considerata come circolante, anche se, dal punto di vista finanziario, non è produttrice di interessi. Possono esserci attività con un alto grado di liquidità, ma non aventi valore certo, come a esempio le obbligazioni che variano secondo le quotazioni di mercato. Tenendo conto di questa liquidità e considerando che non tutta la moneta è costituita da biglietti di banca, ma che una gran parte di essa è formata da oggetti non liquidi subito, cioè non utilizzabili subito, si ha la domanda di moneta da parte del mercato, domanda che varia non solo in base alla quantità di moneta in circolazione e alla sua velocità di scambio, ma anche in base alla sua composizione tecnica, cioè in base alla percentuale di componenti liquidi sul totale complessivo.

Considerando allargata la definizione di moneta ed includendo quindi anche quelle attività non liquide subito, si può individuare il concetto di domanda di moneta basandolo non solo sulla mancata sincronizzazione tra incassi e pagamenti, ma anche sulla considerazione che la moneta diventa qualcosa, un’attività, in cui si vuole investire parte della ricchezza. Su questa base, l’intera ricchezza si può dividere in moneta e altre attività. In merito alla domanda di moneta, la teoria neo-quantitativa si distingue dalla teoria keynesiana per la diversa considerazione degli effetti dei tassi di interesse e del grado di sostituzione delle altre attività sulla domanda di moneta. Per questa teoria, il livello dei tassi di interesse non ha importanza nei confronti della domanda di moneta, mentre tutte le attività finanziarie e reali, compresi i beni di consumo, sono sostituibili alla moneta e non è possibile individuare una diversità nel grado di sostituzione. Per la teoria keynesiana, il livello dei tassi di interesse incide sulla domanda di moneta, in quanto questa è funzione del tasso di rendimento atteso dalle attività alternative, mentre per il grado di sostituzione tra la moneta e le altre attività, essendo questo più alto nelle attività a breve termine, ne segue che le variazioni nella domanda di moneta influenzano in modo più forte i tassi a breve termine.

L’offerta di moneta costituisce il movimento di quell’insieme di attività che si definisce base monetaria. In Italia, per fare un esempio, entrano a fare parte della base monetarie tutte le passività della Banca d’Italia, cioè moneta legale e depositi presso di essa effettuati dalle aziende di credito. Inoltre, si devono considerare le passività a vista del Tesoro, cioè depositi postali e altri crediti a breve termine presso il Tesoro. A questo si aggiungono l’ammontare disponibile dei conti di anticipazione delle aziende di credito presso la banca centrale, nel caso in cui il loro utilizzo a mezzo moneta è libero. Infine, i Buoni del Tesoro a riserva obbligatoria e le disponibilità di valuta nei limiti delle disposizioni valutarie. La base monetaria, così costituita, viene aumentata o, come si dice, viene creata, con i crediti della Banca d’Italia e dell’Ufficio Cambi a favore di diversi settori, con l’aumento delle attività liquide in valuta possedute dalle banche, con l’emissione di moneta e Buoni del Tesoro. L’utilizzazione della base monetaria è fatta dal pubblico e dalle banche.

Il controllo di questa base monetaria è l’essenza della politica monetaria dello Stato. Esso viene di regola limitato ad alcune componenti, cosa che è di già sufficiente per controllare la totalità. A esempio, non è possibile determinare nel breve termine l’avanzo o il disavanzo della bilancia dei pagamenti, e neppure il deficit del Tesoro. È possibile regolare la posizione netta sull’estero delle banche, tramite opportune disposizioni, amministrative, e stabilire il volume di titoli che il Tesoro deve emettere per coprire il suo deficit senza creare nuova base monetaria. Lo scopo della politica monetaria si divide grosso modo in tre direzioni, una prima, riguarda il pieno impiego, che viene però considerato come un semplice miglioramento nell’impiego dei fattori produttivi non come vera e propria scomparsa della disoccupazione. Il secondo indirizzo è costituito dalla manovra del livello degli investimenti, in quanto un insufficiente livello determina un ostacolo all’occupazione. Allo stesso modo, una diminuzione degli investimenti in settori a tecnologia avanzata impedisce una politica di ampliamento energetico secondo i piani del capitale a livello internazionale. In senso contrario, invece, una diminuzione degli investimenti nei settori meno avanzati potrebbe determinare maggiore competitività dei monopoli internazionali e quindi mettere in difficoltà i settori produttivi interni e anche lo Stato nell’ambito della sua politica di omogeneizzazione dei diversi livelli produttivi. Il terzo indirizzo è costituito dal controllo delle variazioni dei prezzi che, se avvengono in modo rapido e considerevole, possono riportare il germe della contraddittorietà concorrenziale all’interno del processo di razionalizzazione.

Il concetto tradizionale di bilancia dei pagamenti internazionali di un certo Paese, basato sulla posizione finanziaria, cioè sui rapporti di dare e avere in un certo periodo di tempo e sui sistemi di aggiustamento relativi, si è ultimamente modificato e approfondito per arrivare alla conclusione che la bilancia dei pagamenti è, più o meno, l’insieme dei rapporti tra l’economia interna di un Paese e il resto del mondo. Su questo argomento Francesco Masera scrive: «Mentre in passato la bilancia dei pagamenti doveva rappresentare lo strumento idoneo ad analizzare il modo di operare dei prezzi e del tasso d’interesse sugli scambi e sul movimento di capitali con l’estero, nella loro azione intesa e riportare l’equilibrio in una economia avente una eccedenza o un disavanzo nelle merci e nei servizi scambiati a titolo oneroso con il resto del mondo, oggi invece costituisce lo strumento che consente di esaminare la relazione fra la variazione del reddito e il complesso delle operazioni con l’estero, sia a titolo gratuito sia oneroso» (Bilancia dei pagamenti. Definizione. Processo di aggiustamento. Movimenti di capitali, in Bilancia dei pagamenti e sistema monetario internazionale, Milano 1975, pp. 3-4).

È facile capire la grande importanza di questo strumento così come viene concepito oggi ai fini della razionalizzazione del dominio. Uno degli scopi della politica monetaria di uno Stato è proprio il controllo della bilancia dei pagamenti, controllo attraverso il quale si arriva a legare gli interessi del capitale nazionale con quelli del capitale internazionale. In effetti, l’acquisto o la vendita di oro e valute da parte della banca centrale è uno dei mezzi per la creazione della base monetaria. Volendo ridurre le oscillazioni del valore esterno della valuta nazionale, la banca centrale acquista oppure vende valuta estera a fronte dell’offerta o della domanda di valuta che si ricava dall’andamento delle partite correnti e dei movimenti di capitale della bilancia dei pagamenti. Attraverso queste operazioni si ha quindi creazione o distruzione di base monetaria.

Gli obiettivi di politica monetaria sono diretti a individuare, per un certo periodo di tempo, un livello intermedio della quantità di moneta posseduta dalle banche, allo scopo di regolare la quantità del credito. Questi obiettivi cercano di essere quanto più vicini possibile alla situazione reale che deve essere tenuta sotto controllo. La banca centrale governa poi opportunamente, in modo da manovrare con la base monetaria, e raggiungere gli obiettivi prefissati.

Se, a esempio, si verifica un disavanzo imprevisto nella bilancia dei pagamenti, questo si trasforma in una riduzione della base monetaria attraverso il canale estero. Ma se la banca centrale ha un obiettivo intermedio, può cercare di compensare questa riduzione tramite un aumento di base monetaria, attraverso i canali interni. Questo comportamento contrasta con l’ipotesi teorica del regime aureo, in base alla quale l’equilibrio del sistema monetario internazionale impone un movimento di oro dai Paesi in disavanzo a quelli in avanzo. Il Paese in disavanzo perdendo oro determina una minore offerta di moneta al suo interno, ne segue un abbassamento del livello dei prezzi interni e quindi una maggiore convenienza ad esportare beni e servizi. Allargamento delle esportazioni che determina il ritorno all’equilibrio della bilancia dei pagamenti. L’inverso si verifica nel Paese in avanzo. Tutto questo solo in teoria.

Ora, le autorità monetarie, allo scopo di accelerare i tempi del riequilibrio della bilancia dei pagamenti, sono portate a sovrapporre all’effetto restrittivo, derivato a seguito del disavanzo, una ulteriore riduzione attraverso i canali interni. In altri termini, lo Stato può seguire due strade alternative. Nel pieno rispetto delle regole del capitale, le variazioni della componente estera della base monetaria si possono accompagnare con variazioni dello stesso segno delle componenti interne. Oppure, tenendo conto della base monetaria totale, variazioni della componente estera si possono compensare con variazioni di segno opposto delle componenti interne.

È stato osservato che questi meccanismi sono piuttosto teorici e che l’imprevedibilità concorrenziale s’inserisce anche all’interno del processo di razionalizzazione che stiamo studiando, portando le conseguenze di comportamenti contraddittori. In questo senso scrive Tibor Scitovsky: «In una economia complessa, dove la moneta è soltanto uno dei vari tipi di risorse finanziarie e rappresenta una piccola frazione dello stock totale di ricchezza, gli argomenti sopra enunciati non appaiono veritieri. Il possesso insufficiente di moneta in un’economia di questo genere, non provoca un taglio nel flusso di spesa, bensì il desiderio di ricostituire le riserve di moneta attraverso la vendita di altre attività, questo non porta già a una riduzione della produzione, ma a una caduta del prezzo delle attività finanziarie e a un aumento dei loro rendimenti. Questi cambiamenti possono e spesso riescono a limitare la spesa in consumi e investimenti, riducendo quindi il flusso della produzione; ma il modo nel quale essi agiscono non è così semplice e diretto» (Moneta e bilancia dei pagamenti, tr. it., Firenze 1979, p. 79).

Con maggiore precisione e fornendo l’esempio della situazione italiana alla fine del 1977, due altri autori scrivono in merito alle manovre del Tesoro per la difesa della lira: «Nella crisi che andiamo esaminando, dunque, il centro da cui emanarono gli sviluppi negativi fu proprio il Tesoro. Del resto, fu proprio dagli ambienti del Tesoro che venne data una indicazione alla speculazione, l’ipotesi di svalutazione del dieci per cento, che precostituì il traguardo sicuro della speculazione. Sapendo di poter guadagnare il dieci per cento in poche settimane, senza fatica, né rischi, chiunque poteva puntare contro la lira non si sarebbe tirato indietro» (C. Piccozza e R. Stefanelli, La difesa della lira, Bari 1978, p. 20).

Questi due ordini di obiezioni, diversi tra loro ma animati dallo stesso spirito razionalista e socialdemocratico di fornire un riassetto alla politica monetaria dello Stato, sono infondati per lo stesso motivo, essi non danno spiegazione e non si pongono il problema del comportamento contraddittorio dello Stato. Il processo di razionalizzazione può essere perseguito con interventi diversi e perfino di segno contrario, ma tutti in una logica politica che qualche volta non può essere giustificata dal punto di vista economico. La pace sociale è uno dei primari interessi del capitale, ma quest’ultimo ne prende coscienza solo quando si sviluppa, con un processo lento e mai definitivo, dalla fase del dominio formale a quella della legittimazione del potere. In quest’ultima fase, quella che stiamo vivendo adesso, la pace sociale diventa preponderante e finisce per caratterizzare tutto il processo produttivo.

La politica monetaria di uno Stato ha quindi lo scopo indiretto di sostenere e sviluppare gli interessi del capitale. Fa in modo che si creino le condizioni favorevoli all’azione dei monopoli internazionali attraverso un opportuno sostegno dell’inflazione, prolunga le fasi di espansione capitalista, incide nella composizione qualitativa delle spese private, genera artificialmente differenze nella struttura della domanda e dell’offerta, modificando in questo modo i saggi di profitto, sollecita aumenti delle spese improduttive, quelle militari in primo luogo.

Tutte queste operazioni hanno lo scopo a breve termine di aumentare la differenza tra reddito reale e reddito nominale, col risultato di saldare meglio la catena che lega i sindacati ai gruppi di potere. Almeno nel breve periodo, queste operazioni sono sufficienti a garantire considerevoli margini di profitto alla classe dominante.

Inoltriamoci adesso negli aspetti dell’opposizione politica e della resistenza sindacale per come si sono andati caratterizzando all’interno di strutture democratiche e concorrenziali. Quest’analisi ci porterà a vedere il funzionamento dell’opposizione politica nella democrazia e quello della resistenza sindacale in regimi capitalisti a struttura democratica. Di volta in volta, saranno date anche indicazioni più precise sulla situazione italiana, la quale pur non avendo caratteristiche di particolare eccezionalità conflittuale, negli ultimi decenni ha manifestato interessanti peculiarità. Si tratta di uno studio che dimostrerà come l’opposizione e la resistenza di cui parliamo, si pongono sempre come processi di razionalizzazione e di miglioramento del dominio.

Una forma qualsiasi di opposizione al potere, nelle diverse strutture che quest’ultimo è andato assumendo nella sua storia, c’è sempre stata. Anche il potere assoluto, nella sua espressione totalitaria estrema, necessita di una base di consenso, di un fluire costante di accettazione delle sue decisioni, e proprio per ottenere questo, permette una sorta di dissenso fittizio. Ma la forma del dissenso maturo, cioè criticamente giustificato e prima di tutto capace di autolimitarsi nella propria critica, nasce con lo sviluppo della democrazia maggioritaria, e si costituisce come opposizione.

Fin dall’inizio i teorici del sistema democratico maggioritario si trovarono di fronte all’ostacolo di spiegare quale sorte veniva a subire la minoranza a seguito di una scelta operata dalla maggioranza. Sulla base del vecchio ragionamento fondato sul potere assoluto, la decisione del vertice era valida per tutti i membri della comunità in quanto quella decisione si trovava al di là delle possibilità d’intervento dei suoi membri. Ma, a rigor di termini, con l’avvento della regola maggioritaria, soltanto i membri della maggioranza dovrebbero sentirsi obbligati al rispetto della legge da loro approvata, non i membri della minoranza.

Su questo problema Locke scriveva: «Quando gruppi di uomini hanno così consentito a costituire un’unica comunità o governo, sono con ciò senz’altro incorporati, e costituiscono un unico corpo politico, in cui la maggioranza ha diritto di deliberare e decidere per il resto. Infatti, quando gruppi di uomini hanno, col consenso di ciascun individuo, costituito una comunità, hanno con ciò fatto di questa comunità un solo corpo, il che è soltanto per volontà e decisione della maggioranza. Infatti, poiché ciò che una comunità delibera non è che il consenso degl’individui che la compongono, e poiché a ciò ch’è un sol corpo è necessario muovere in un sol modo, è necessario che il corpo muova nel senso in cui lo porta la forza maggiore, ch’è il consenso della maggioranza; altrimenti è impossibile ch’esso deliberi o continui ad esser un solo corpo, una sola comunità, che il consenso di tutti gl’individui riuniti in essa aveva convenuto che deliberasse e fosse tale, e quindi ognuno è tenuto, in base a quel consenso, ad attenersi alle decisioni della maggioranza» (Due trattati sul governo. Secondo Trattato, tr. it., Torino 1948, pp. 311-312).

Appare chiaro qui come lo Stato democratico debba muoversi nella direzione voluta dalla maggioranza, come analogia con l’organismo fisico che è retto dagli organi più importanti. Ciò, comunque, non spiega perché la minoranza debba sottomettersi. Con Rousseau la soluzione viene trovata nel contratto sociale, per mezzo del quale le volontà discordi e particolari vengono trasformate nella volontà generale del corpo collettivo. La sua dottrina dell’uomo “costretto ad essere libero”, servirà poi, ai filosofi politici idealisti, a giustificare la repressione operata dagli Stati, in ogni caso a danno dell’individuo.

La concezione della prevalenza nello strumento democratico della volontà maggioritaria, pur nel rispetto della volontà dei meno, emerge, a livello politico concreto, nella Costituzione degli Stati Uniti, a sua volta frutto di un compromesso tra grandi e piccoli Stati, tra sostenitori di un potere centrale forte e sostenitori di una decentralizzazione, tra la democrazia federalista degli autoritari, Hamilton, Madison, Adams, e la democrazia liberale di Jefferson. Così, la dottrina della volontà generale che prevale su tutto e su tutti, viene mitigata dai diritti inalienabili dell’individuo in conformità alle leggi di natura. La larga accettazione di questi principi non ha ostacolato, specialmente nel Novecento, il diffondersi del fenomeno del partito unico e dei regimi totalitari di destra e di sinistra. In questo modo, l’opposizione scompare, riemergendo il principio di unanimità, per quanto non scompare il dissenso che si sviluppa anzi in maniera più violenta e radicale.

Qui ci occuperemo dell’opposizione nel senso istituzionale, cioè dell’aspetto che essa prende partecipando alla formazione del consenso generale. In questo senso, l’opposizione si fonda sul rifiuto totale delle decisioni del potere ma sull’accettazione del quadro costituzionale dentro il quale quelle decisioni vengono prese. All’origine di queste fondamentali esperienze si colloca il dibattito politico inglese tra whigs e tories. Per i teorici inglesi di quel periodo, la costituzione era fuori questione, il concetto e la pratica dell’opposizione si sviluppavano solo in merito all’attività di governo. I tories si differenziavano sulla base del landed interests, con una venatura anticapitalista e feudale, o meglio agraria, quindi avversari del debito pubblico. I whigs sostenitori del moneyd interests erano legati al commercio internazionale e alla finanza. I fondi raccolti da Guglielmo III nel 1696, la base iniziale del debito nazionale inglese, fanno parte del sistema dei whigs.

Ma questi contrasti, evidenti alla fine del Seicento, in breve sfumarono. I tories entrarono a far parte dell’amministrazione della Compagnia delle Indie. Al momento della rivoluzione, la compagnia era in mano ai tories. La struttura sociale inglese, alla fine del Seicento, aveva ancora caratteristiche whigs. Per altro, la maggior parte dei mercanti arricchiti si affretta a trasformare la sua ricchezza in proprietà fondiaria. Nel periodo del dominio politico di Robert Walpole, cioè in quel quarto di secolo che va dal 1720 al 1741, i due partiti non sono più in opposizione tra di loro, riguardo le linee fondamentali della politica statale. La base dei due partiti è di fatto la stessa, il loro ruolo sarà quindi quello di essere, di volta in volta, gli ins e gli outs della classe dominante inglese.

Sarà Henry Bolingbroke a riflettere fra i primi sul compito di una forza d’opposizione. Scrive Giuseppe De Vergottini: «Bolingbroke partiva dal tradizionale diritto di resistenza per formulare quello di opposizione come funzione non sporadica ma permanente, tendente a istituzionalizzarsi nell’ambito dei rapporti fra il Parlamento e quella parte dell’esecutivo che veniva progressivamente separando il proprio ruolo da quello del monarca, acquistando parallelamente alla pienezza dei poteri governativi di indirizzo pienezza di responsabilità politica» (Lo “shadow cabinet”. Saggio comparativo sul rilievo costituzionale dell’opposizione nel regime parlamentare britannico, Milano 1973, p. 12).

Edmund Burke, nei suoi tentativi di indicare i limiti e le garanzie di movimento di un membro del Parlamento inglese, fissa con migliore chiarezza il posto che un partito di opposizione deve avere all’interno del Parlamento e nei confronti del governo. Per Burke, la posizione teorica di Bolingbroke era poco chiara, gli restavano residui di individualismo e di resistenzialismo nel senso tradizionale. Nelle Riflessioni scrive a proposito di Bolingbroke: «Chi legge ancora Bolingbroke? E chi l’ha mai letto per intero? Se volete sapere che cosa è avvenuto di tutti questi luminari del mondo, chiedetene a qualsiasi libraio di Londra. In ogni modo, quali che essi fossero e siano a tutt’oggi, rimasero sempre, e sono ancora individui alieni dal formare un partito. Da noi hanno sempre mantenuto la loro natura propria di individualisti, alieni dall’associarsi. Non hanno mai agito in gruppi organizzati» (Riflessioni sulla Rivoluzione francese, in Scritti politici, tr. it., Torino 1963, p. 260).

Indirettamente, dalla sua visione dell’attività politica di un partito, emerge anche il concetto di opposizione politica, sempre nell’ambito della Costituzione. Per Burke, il fatto che i whigs avessero nel 1688 deposto il sovrano, nella “gloriosa rivoluzione”, diventa un fatto secondario di fronte al principale avvenimento, cioè la difesa della Costituzione. Se il nuovo stato di cose emergeva da una rivoluzione, esso però trovava fondamento nella tradizione costituzionale che non è scelta di un giorno. E di quella rivoluzione Burke parlava addirittura con ammirazione, malgrado il fondamento antirivoluzionario di tutto il suo pensiero.

Dopo la rivoluzione industriale, si andò lentamente sviluppando il principio che l’opposizione poteva costituire un punto di riferimento per una rotazione della maggioranza. Ma la possibilità della Corona di incidere nella formazione dei governi, determinava situazioni non sempre chiare. Nel 1852 di fronte all’organizzazione approssimativa del partito al potere si fece un governo di coalizione e l’indicazione di Lord Aberdeen venne da parte della Regina Vittoria. Nel 1859 Lord Palmerston venne scelto dalla Corona, al posto di Lord John Russel. Comunque questi fatti andarono affievolendosi negli anni successivi. Nel 1860 Bagehot poteva affermare che l’Inghilterra era il primo Paese ad avere inventato un’opposizione di Sua Maestà, cioè il primo governo che aveva adottato la critica dell’amministrazione come parte dell’amministrazione stessa.

Frattanto, la problematica del parlamentarismo e della sua opposizione andava diffondendosi parallelamente al liberalismo concorrenziale in economia. L’opposizione entrava così a far parte del complesso organismo parlamentare e le si dava il compito di controllare l’andamento del governo. Si hanno quindi due tendenze, quella fondata sulla rotazione tra maggioranza e minoranza, e quella intesa in termini di controllo. Comunque, nessuna di queste due posizioni forniva una definizione concettualmente valida dell’opposizione in se stessa, esse preferivano rifarsi agli aspetti pratici. Quando avanzavano contenuti teorici, l’opposizione appariva come un gruppo opposto a un altro sul piano delle idee, delle strategie e dei programmi politici, come pure sul piano della gestione effettiva del potere, definizione troppo povera per risultare utile. In effetti, oltre a non sapere cosa è un’opposizione, si avevano idee confuse anche sulla funzione oppositiva all’interno di una struttura di potere e sulla natura dei rapporti da mantenere con chi gestisce questa struttura.

Difatti, se l’opposizione si fermasse al gioco della maggioranza e della minoranza, resterebbe solo un’apparenza oppositiva, come può accadere di fatto in un Parlamento democratico, senza riuscire ad entrare nella sfera dell’esecutivo, cioè in quella della realizzazione governativa delle decisioni prese dalla maggioranza. Questa ha infatti il proprio strumento esecutivo e quindi possiede il potere, l’opposizione non possiede uno strumento del genere. Occorre pertanto esaminare la possibilità organizzativa dell’opposizione. La funzione oppositiva è quindi connessa con questo aspetto strutturale. In questo senso Robert A. Dahl parla di una opposizione attiva e di una passiva, fissando in questo modo i termini della differenza: «È prassi comune distinguere tra opposizione attiva, che si ha quando B intraprende delle precise azioni dirette a modificare la condotta del governo, e una opposizione passiva, quando B riconosce il conflitto ma non delibera nessuna azione per ostacolare la condotta governativa» (Political Opposition in Western Democracies, ns. tr., London 1961, p. XVIII).

Quindi, un’opposizione attiva può essere soltanto quella che riesce a coordinare la forma organizzativa della propria struttura e la linea di principio che qualifica la funzione, in senso modificativo, dei provvedimenti e delle decisioni del potere centrale. È i1 concetto di alternativa che fonda questo tipo di opposizione, ed è chiaro che comprende una struttura diversa dalla semplice minoranza, tale da rendere possibile un indirizzo costruttivo ma non identico a quello suggerito e posto in atto dal governo. Questa dimensione alternativa, completa in tutte le sue parti, può delinearsi in modo anticostituzionale, quindi essere fuori dei limiti dell’opposizione democratica, ma può anche delinearsi nell’ambito della Costituzione e perfino nell’ambito del programma di governo, almeno per grandi linee, mentre non essere d’accordo sulla realizzazione del programma stesso per quel che riguarda i metodi.

Il caso più comune, e di cui dobbiamo occuparci qui, è quello dell’opposizione con intenzioni modificative riguardo l’indirizzo governativo. Alcuni elementi oppositivi sono molto importanti. Prima di tutto la concentrazione dei contrasti e delle sfumature all’interno della stessa opposizione, poi la competitività di questa organizzazione, infine un avvicinamento tra l’ideale oppositivo e la pratica di governo. Tutto ciò considerando il fatto che si tratta di elementi da tradurre in scontri politici, di fronte all’opinione pubblica e in vista della gestione della stessa, dello scontro elettorale e della presenza in Parlamento. Naturalmente, tutto è molto diverso a seconda delle differenti forme di democrazia, ma in genere questa distinzione regge.

Riguardo gli scopi, lo stesso autore citato parla di controlling goals, come di obiettivi che l’opposizione cerca di raggiungere per ottenere il cambio del governo, o almeno delle modificazioni nei suoi progetti. A questo soggetto, l’opposizione impiega diverse strategie che comunque appaiono insufficienti a raggiungere un concetto unitario di politica alternativa. Essa può cercare di ottenere un più alto numero di voti per costituire una differente maggioranza, oppure può cercare di entrare nei corpi dirigenti della struttura statale, dove si decide la vita del Paese. In casi particolari, può mettersi d’accordo con la maggioranza. Non basta l’individuazione di un insieme di forze che si considerano più o meno di opposizione, occorre che queste forze agiscano in concreto come elemento oppositivo del governo parlamentare, in vista di un rinnovo della maggioranza. L’opposizione di questo tipo non ha nulla di quelle improvvise forze contrarie al governo che sorgono nei periodi di crisi.

Negli anni Settanta si può dire che nei regimi parlamentari europei, ma anche nella democrazia americana, l’opposizione abbia trovato molte difficoltà, smarrendo il suo ruolo che, anche a prescindere dall’ipotesi della rotazione, che ha caratteristiche del tutto britanniche, resta legato a una funzionalità alternativa. Questa crisi ha svariate origini. Scrive De Vergottini: «Non è semplice sintetizzare le cause della crisi dell’opposizione, siano o meno direttamente connesse alla crisi del regime a governo parlamentare o, più in generale, alla crisi delle assemblee rappresentative. È tuttavia opportuno tentare di indicare le più importanti ragioni che sembrano influire sul declino dell’opposizione. Queste sono: l’affermarsi di nuovi centri di dibattito politico e di informazione, il riemergere degli interessi settoriali, il consolidarsi del prepotere dell’esecutivo, l’affermarsi del carattere negoziato delle decisioni politiche, la perdita di competitività dell’opposizione sulle grandi opzioni politiche e la sua riduzione al ruolo di propulsione di scelte marginali» (Lo “shadow cabinet”, op. cit., p. 35).

Le profonde modificazioni intervenute nella struttura del potere, la circolazione dell’informazione, la gestione dei grandi mezzi di diffusione delle idee che ha spostato fuori delle tradizionali collocazioni i punti decisionali dello Stato moderno, tutto ciò ha contribuito se non a devalorizzare, almeno a disinformare lo strumento legislativo. Per motivi svariati, motivi che vanno dalla razionalizzazione dei servizi all’entrata dello Stato in prima persona nel mondo della produzione, dall’acuirsi dello scontro sociale alla diffusione degli strumenti della conoscenza, almeno fino agli inizi degli anni Ottanta, si è verificato un predominio dell’esecutivo. In questo modo, l’opposizione, almeno di regola, si è trovata fortemente svantaggiata, in quanto non ha con l’esecutivo quei rapporti diretti che possiede con la maggioranza parlamentare. Molte contrattazioni vengono fatte direttamente dai sindacati, e gli stessi partiti scavalcano il dibattito parlamentare anche su argomenti di fondamentale importanza. Vi sono casi in cui accordi preventivi tra governo e opposizione impediscono una chiara puntualizzazione parlamentare, riducendo quindi lo spazio pubblico e il ruolo dell’opposizione stessa a livello d’immagine politica. Infine, le stesse sfumature ideologiche si sono ridotte, anche in merito a problemi istituzionali, la divaricazione ideologica tradizionale si è sfumata, per cui siamo di fronte a un nuovo tipo di parlamentarismo molto diverso da quello del passato.

Fra i motivi che hanno contribuito alla stabilizzazione del sistema bipartitico in Gran Bretagna, ha avuto un ampio ruolo il regime elettorale basato sullo scrutinio uninominale maggioritario, per cui in ogni collegio può essere eletto un solo candidato, cioè quello che ha riportato il maggior numero di voti rispetto agli altri. Col sistema della maggioranza relativa richiesta per l’elezione di un candidato, si ha il risultato che il successo del partito vincitore viene ad essere ampliato al di là del numero dei voti ottenuti, arrivando anche all’assurdo che qualche volta, come è accaduto nel 1951, con i conservatori, può vincere il partito meno votato. Si tratta di un discutibile sistema che però può essere goduto vicendevolmente dai due grandi partiti e quindi non viene modificato.

Nel sistema inglese è quindi l’ordinamento stesso che pone il partito di opposizione in una situazione di attesa per potersi modificare in partito di governo. Per fare ciò, questo partito deve avere una struttura organizzativa tale da diventare, da un giorno all’altro, partito di governo. L’eventualità e la necessità di un partito di centro, sostenute da qualcuno, hanno subito una critica fondata sul fatto che questo partito, anziché mediare la posizione dei due partiti fondamentali, non avrebbe altra funzione che quella di ritardare il loro impegno nella realizzazione dei programmi sociali ed economici del governo in carica.

Il sistema britannico, con il suo riconoscimento della legittimità dell’opposizione, riafferma uno dei vecchi principi dell’ordinamento aristocratico, quando il bipartitismo, tra conservatori e liberali, era una ripartizione all’interno della stessa classe, quella dei proprietari terrieri e dell’aristocrazia commerciale e mercantile. Con l’entrata nella scena politica del partito laburista, contrassegnato da una diversa composizione di base, questa divisione doveva cadere, ma così non è stato perché le organizzazioni di classe in quel Paese hanno fin dal primo momento evitato ogni contrapposizione diretta, sia pure ideologica, anche nei momenti di maggiore tensione sociale. Il partito laburista avrebbe dovuto collocarsi in modo differente nella gestione di governo, ma in questo modo sarebbe stata impossibile l’alternativa alla gestione del potere nel progetto stesso di continuazione istituzionale. Ci sarebbero state delle traumatiche interruzioni e dei bruschi cambiamenti d’indirizzo.

Ciò è stato possibile perché il partito vincente ha l’obbligo di attenersi al programma presentato, il quale ha dettagli sconosciuti altrove. In questo senso sottolinea Costantino Mortati: «I mutamenti dei partiti al potere, e la logica modificazione dell’indirizzo politico, renderebbero possibile la realizzazione di quelle sole riforme ormai mature nella coscienza del paese e come tali mai rinnegabili o annullabili totalmente una volta che abbia perso la maggioranza il partito fautore di tali riforme (un esempio molto significativo in tal senso riguarda la politica di nazionalizzazione svolta dai governi laburisti, essa, nelle sue linee fondamentali, non è stata rinnegata – anzi è stata rispettata perché ritenuta in molti aspetti conforme agli interessi generali del paese – dai conservatori succeduti al potere in seguito alla sconfitta dei laburisti)» (Le forme di governo, Padova 1973, p. 168).

È stato notato che tutto ciò risulta poco comprensibile alla tradizione europea, in quanto questa politica esprime con caratteristiche più movimentate l’alternanza al governo. Non bisogna dimenticare che le vicissitudini che nell’ultimo secolo hanno travagliato la crescita e la decadenza della borghesia continentale francese, tedesca e italiana non sono paragonabili in alcun modo a quelle della borghesia inglese. Invece di fare ricorso, come spiegazione, al fatto che i due partiti dominanti in Gran Bretagna hanno un’alta considerazione della libertà, come fa Mortati, per cui sono «disposti ad accettare il risultato del voto popolare, a rispettare l’avversario perdente e a garantirgli libertà di azione nell’esercizio della sua funzione oppositiva», (op. cit., p. 168), occorrerebbe anche chiarire come queste posizioni siano una conseguenza delle possibilità di sfruttamento che la Gran Bretagna ha avuto su scala mondiale, possibilità che hanno portato la classe operaia inglese, in epoca imperialista, alla mistificazione dell’interclassismo collaborazionista, mistificazione che continua a reggere anche oggi [anni Ottanta], sia pure con maggiori difficoltà.

In un sistema come quello inglese dove, in base al principio della sovranità parlamentare, non ci sono ostacoli formali al potere del governo che venga sostenuto da una maggioranza parlamentare sufficientemente compatta, non esistono possibilità che, tra due elezioni, il governo perda la propria maggioranza. Così, il sistema bipartitico è pienamente operativo in continuità, in quanto il partito d’opposizione finisce per partecipare indirettamente al governo, senza che possegga scopi particolari come quello di determinarne una caduta anticipata.

Fin da quando i laburisti hanno cominciato le loro esperienze di governo, fin dal momento delle coalizioni durante la seconda guerra mondiale, i loro leader hanno sempre cercato di dimostrare una capacità di governo, cosa che ha riconfermato in maniera indiretta l’accettazione del modo di concepire la gestione del potere, tipico dei conservatori. Così, anche se questo partito rappresenta una base più popolare e proletaria, finisce per solidificare il proprio comportamento politico sulla tradizionale classe dominante, che resta quella conservatrice. Ma non si tratta di una deformazione dovuta all’abbraccio aristocratico, come è stata definita. In fondo, la corrente socialista fabiana, anche alle sue origini, fu sempre una corrente di elite. Il suo programma era a carattere meritocratico, avente lo scopo di portare la giustizia sociale alle masse e non lo scopo di fare apprendere a quest’ultime a cercarla per proprio conto.

L’opposizione inglese si articola quindi nella figura del leader che viene chiamato anche shadow prime minister, il quale è la persona più rappresentativa del partito e spesso ex primo ministro. Segue da lontano tutte le funzioni del primo ministro in carica, svolge pubblicamente le sue critiche, ed è pronto a succedere all’avversario nel caso di cambio del governo. Pur essendo tagliato fuori dalle decisioni governative in materia politica e amministrativa, il leader dell’opposizione, nell’ambito parlamentare, ha una notevole importanza sulle decisioni che vengono prese dalla maggioranza governativa, partecipando con la propria azione e con quella del proprio gabinetto ombra, a condizionare le decisioni del governo.

L’organizzazione del gabinetto ombra è faccenda molto complessa, con qualche sfumatura di differenza tra conservatori e laburisti, non limitandosi al solo gabinetto ombra ma estendendosi a una serie di rapporti, in genere tutti sotto il controllo del leader dell’opposizione, che legano quest’ultimo e i suoi collaboratori a persone del proprio partito i quali, pur non facendo parte del gabinetto, assumono importanti funzioni di opposizione, partecipando al fronte oppositivo nel suo insieme. I comitati dell’opposizione corrispondono ai diversi ministeri e sono presieduti dai ministri ombra.

Parlando adesso della situazione italiana [1991], si deve dire subito che la democrazia qui dimostra una incapacità strutturale ad assicurare il ricambio governativo. Ciò dipende sia da una inefficienza politica dell’opposizione, la quale ha convinto il partito di potere della propria sostanziale inamovibilità, sia dalle condizioni storiche del Paese, dalla discutibile tradizione democratica, sia infine dalla particolare composizione del capitale e dalle dipendenze internazionali di quest’ultimo.

Questa insufficiente opposizione, anche negli aspetti ideologizzati del vecchio Partito Comunista, contribuiva ad atrofizzare il grosso partito di centro che, privo di preoccupazioni elettorali, o quasi, si adagiava su vaghe affermazioni, ricadendo spesso in un confessionalismo sempre più stantio. Scriveva in questo senso Otto Kirchheimer: «La completa democratizzazione ha determinato la confluenza della funzione di espressione delle opinioni e della funzione di governo negli stessi partiti politici, al governo o in un governo alternativo, ma ha mantenuto la funzione espressiva, del partito in uno stato di ambiguità. Per ragioni elettorali, il partito democratico pigliatutto, preoccupato di estendere il più possibile la sua rete di influenza su una clientela potenziale, deve continuare ad esprimere temi popolari ampiamente condivisi. Tuttavia, teso a mantenere il potere, e ad assumerlo, svolge questa funzione espressiva con molteplici limitazioni e con diverse modificazioni tattiche» (La trasformazione dei sistemi partiti nell’Europa occidentale, in Sociologia dei partiti politici, Bologna 1971, pp. 189-190).

Questa contraddizione è chiaramente visibile nella condotta di partito e di governo della Democrazia Cristiana in questi ultimi trent’anni. Assicuratasi la soddisfazione dell’elemento reazionario, garantita dal funzionamento più o meno efficace delle strutture parlamentari di destra, che hanno da sempre svolto una funzione di sostegno del centro, la democrazia cristiana ha avuto come modello, almeno nei momenti in cui ha creduto opportuno pensare seriamente a modificare se stessa, l’ideale di un partito di maggioranza assoluta, sempre costruito su base clientelare, ma assolutamente esente dalla necessità di fare ricorso a quelle combinazioni di governo che potevano obbligarla a modificazioni troppo radicali. A partire dal dialogo coi socialisti qualche volta ciò non è stato possibile, ed è stato questo il caso in cui il partito si è riconosciuto più come forza di contrattazione che come partito di governo.

Un discorso approfondito merita il Partito Comunista Italiano come partito d’opposizione. Oggi [1991] ha cambiato nome e si chiama Partito Democratico della sinistra, ma non si tratta che di un cambiamento d’insegna, la sostanza resta sempre la stessa e il processo che disegneremo nelle pagine che seguono resta valido anche come possibile guida per una evoluzione futura di questa forza governativa latente, ancora tutta da sperimentare.

Non è il luogo questo per fare una storia del Partito Comunista Italiano, dalla Resistenza ad oggi, che sarebbe impossibile, ma nemmeno dalla Resistenza agli inizi degli anni Ottanta, quando cioè il partito possedeva, o almeno si illudeva di possedere, una determinata caratteristica di classe. Quello che conta è sapere in che modo questo partito abbia superato due grosse crisi, quella degli anni Cinquanta, crisi di crescita e di impatto con le forze clericali, e quella degli anni Sessanta, crisi teorica e di scontro con le forze di sinistra. Pur essendo una forza dell’opposizione parlamentare di sinistra in Italia, e ciò resta definizione pur sempre valida, possiamo cercare di individuare le basi reazionarie che lo hanno da sempre inquinato, sconvolgendone i programmi e la loro eventuale buonafede.

Nel 1944, Togliatti parla del partito come strumento della classe operaia, la quale non è stata mai estranea agli interessi della nazione. Cerca così di cancellare l’impressione del partito come ristretta associazione di propagandisti dell’idea di comunismo. Emerge la necessità di sviluppare una politica di collaborazione con le altre forze sociali e con gli altri partiti sulla base della solidarietà nazionale. Anche la lotta ai fascisti deve essere messa da parte. Le “Isvetsie” anticipano la pubblicazione di questa politica addirittura battendo sul tempo lo stesso Togliatti. Nemmeno la monarchia, con tutto lo schifo che ne deriva, può costituire un ostacolo.

Ma scoppia una crisi. Qualcuno, come Mauro Scoccimarro, solleva obiezioni. Le minacce sono più forti di qualsiasi generoso movente. Spesso la base insorge direttamente, come a Ragusa, a Schio, a Torino, ma il partito inizia una repressione interna e qualifica questi compagni come rigurgiti della reazione fascista. Frase classica che costituirà la costante con la quale il partito condannerà analisi e azioni fuori della sua linea programmatica. L’amnistia di Togliatti del 1946 fa uscire i fascisti dalle galere e fa entrare i partigiani che non avevano accettato la linea reazionaria del partito. Il gioco per la Democrazia Cristiana è favorevole. Questa, non rispondendo alle attese collaborazioniste dei comunisti, dà inizio alla gestione peggiore del proprio dominio. Il terrore bianco entra nelle fabbriche, il Sud cade nelle mani dei mafiosi di Scelba. I principali responsabili del freno posto all’iniziativa popolare di riscossa sono i comunisti. L’ultima occasione è infatti l’attentato a Togliatti, quando il partito fa di tutto per impedire ai ribelli di prendere l’iniziativa. Centinaia di partigiani vengono incarcerati, mentre il partito ne accusa alcuni di tradimento, Valerio Borghese esce in libertà. Il partito cerca quindi di organizzare, contro l’iniziativa popolare e contro alcune componenti minoritarie al suo interno, quella che dovrebbe essere un’opposizione parlamentare e costituzionale.

La prima vera e propria crisi, il PCI la registra alla fine degli anni Cinquanta, quando si hanno le notizie delle prime conquiste comuniste in Algeria e a Cuba. Ma la via italiana al socialismo era ormai maggioritaria nel partito, malgrado lo scacco subito nella divisione del potere con la Democrazia Cristiana. Niente rivoluzione ma la creazione di una società socialista basata sulle nostre tradizioni di un sistema pluripartitico, nel pieno rispetto delle garanzie costituzionali e delle libertà religiose e culturali, insomma tutto quello che era necessario per costituire un’opposizione ufficialmente riconosciuta. Molti dirigenti del partito entrano in contrasto ma vengono schiacciati dalla macchina propagandistica, gettati fuori o messi da parte con oscuri incarichi.

La crisi degli anni Sessanta emerge dalla profonda trasformazione della struttura economica italiana e mondiale in senso monopolistico, trasformazione che non può essere seguita con la dovuta efficacia dalle analisi e dalle prospettive riformiste elaborate negli anni precedenti. Da ciò una caratteristica debolezza teorica del partito, proprio in corrispondenza dell’inizio della sua espansione o comunque dell’aumento della sua influenza elettorale. La vicenda dello scontro con gli intellettuali vicini o legati al partito non può essere risolta nello stesso modo del “Politecnico”. Questa volta lo scontro coglie di sorpresa i dirigenti. Uomini come Raniero Panzieri, Gianni Bosio, Franco Fortini e altri non hanno nulla a che vedere col Partito Comunista, ma portano avanti un lavoro critico che influenza fortemente le nuove leve, gettando forse le basi per quei movimenti che emergeranno, con ben altra violenza, alla fine degli anni Sessanta. Dopo le ovvie condanne iniziali, verrà iniziata dal partito una sorta di recuperazione delle istanze anti-istituzionali.

Superate le sue crisi, affrontato il grave travaglio dei fatti d’Ungheria, giustificato con rocambolesche fughe all’indietro l’annebbiamento stalinista, il partito, come un vecchio cavallo da battaglia, riesce a trovare la strada della caserma fra tanti cadaveri. È ancora Togliatti a guidarlo, cercando di strutturarlo in modo da diventare un argine contro l’avanzata democratica delle masse, avanzata causata proprio dalla stessa reazione bianca operante nelle fabbriche. Ma l’insieme del partito, come organizzazione strutturata, non era ancora all’altezza di un compito di opposizione istituzionale. Bisognava distruggere al suo interno quelle componenti che ancora credevano nel partito come dedizione salvando, nello stesso tempo, anzi rendendo proprio per questo maggiormente possibile, l’accentramento rigido, il collegamento verticale, il controllo delle cellule di base. E il partito inizia una operazione che ha non poche trovate geniali, tutte nell’orbita del recupero riformista.

Nello stesso tempo in cui viene portata avanti questa epurazione ideologica, si gettano le basi per l’impiego in senso politico del nuovo partito. La vecchia anima, sovversiva, che potrebbe disturbare l’avanzata dei tecnocrati, viene messa da parte. Per realizzare tutto ciò si doveva puntare sull’accentramento rigido, sul collegamento verticale all’interno della struttura. Così veniva valorizzata la funzione del dirigente comunista non più nel senso sovversivo, ma nel senso tattico, come specialista in strategia politica, costantemente diretto alla conquista del potere previo uno studio approfondito delle diverse possibilità di approssimazione. La base veniva ridotta a massa di manovra in vista dell’obiettivo da raggiungere.

Da questa nuova configurazione del partito emergono due aspetti precisi. Il nuovo leader medio e la nuova rete organizzativa di base. Il leader che necessita al partito, diciamo tra l’inizio degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, non è più quello degli anni delle lotte di liberazione, delle lotte contadine e operaie. Non si devono più occupare le terre e non si devono più affrontare i fascisti che, più o meno, anche loro sono utili in una democrazia, se non altro a rafforzare il centro. Ora c’è bisogno d’un funzionario in doppio petto, capace di parlare alla gente con chiarezza e calma, spiegando le cose secondo le direttive del partito, gettando acqua sul fuoco in tutte le occasioni, spingendo alla moderazione e all’attesa. Se il vecchio militante comunista era capace di mettere insieme una dimostrazione dura, il nuovo militante non sa fare ciò ma sa impedire ogni iniziativa autonoma della base. Lo scopo è la creazione del nuovo modello di opposizione parlamentare.

La costruzione della nuova rete organizzativa di base viene anche condizionata da questo andamento del partito verso una progressiva strumentalizzazione della struttura e della base in particolare. Si precisano i primi fenomeni di clientelismo, adesso possibili in una prospettiva di smembramento della lotta, anche in zone dove era da sempre esistita una consistente compattezza. Nel Meridione il problema era esistito da sempre. Qui la struttura del partito aveva sempre avuto caratteristiche clientelari. Nel Nord invece le clientele comuniste si creano a seguito della collusione sindacale e della politica fallimentare del centro-sinistra. Non bisogna confondere questo processo attuato dal PCI con quello tradizionale dei partiti avversi. Anche se gli scopi non divergono molto, le differenze ci sono. Il Partito Comunista ha dalla sua parte il vantaggio di dovere costruire le proprie clientele nel rispetto di una struttura democratica di fondo, la Democrazia Cristiana ha lo svantaggio di poterne fare a meno, dando quindi ai propri uomini più campo libero, maggiore spazio agli accordi sotterranei col potere, al peculato e così via. Al contrario, il PCI costruisce le sue clientele in maniera democratica, svendendo la classe dei lavoratori tramite un’adesione alla politica di potere che viene contrattata attraverso la gestione delle lotte sindacali, parlamentari e così via. Un esempio considerevole di questo particolare clientelismo è dato dalla rete di cooperative create dal partito, strumenti di sfruttamento esse stesse e strumenti di potere elettorale.

Organizzato in questo modo il partito è pronto per svolgere il ruolo ordinativo di un’opposizione parlamentare. Il primo punto di questa collaborazione è stato l’incontro con le forze governative sul piano della programmazione, dove venne per la prima volta sviluppato un dibattito politico sufficientemente omogeneo con quello governativo. Ma si trattava di una convergenza puramente superficiale. In fondo, non si poteva scegliere un punto di confronto politico comune, tenuto conto della crescente importanza del ruolo dell’economia in generale e delle remore che ancora sussistevano all’interno del partito comunista, specialmente dopo le vittorie elettorali della metà degli anni Settanta.

Ma di già, qualche anno prima, quindi ai primissimi anni Settanta, il partito si era reso conto che non poteva assumersi il gravoso compito di giocare da solo il ruolo dell’opposizione lavorando per il re di Prussia. Doveva avere anche qualche speranza di risultati concreti, di un avvicendamento governativo. Per fare ciò si doveva allargare a tutti i settori politici, non restare soltanto sul piano della programmazione economica, per altro visibilmente destinato a risultati fallimentari. Comincia così un’opposizione molto cauta a più ampio raggio, qualche volta addirittura più arretrata di quella del Partito Socialista, che pure partecipava alle scelte governative. Spesso questa opposizione del PCI si traduce in emendamenti che poi magari vengono ritirati e sostituiti con un’approvazione della legge e il completo rifiuto di tutti gli emendamenti precedenti.

Tutto questo lascia intendere sempre di più la disponibilità del partito a razionalizzare la fase di passaggio dal vecchio al nuovo capitalismo, almeno per come lo si prospettava verso la metà degli anni Settanta. L’accostamento al potere è un fatto molto più complesso della semplice corsa elettorale, basta pensare che in ultima analisi le stesse amministrazioni rosse sono condizionate dalle grandi banche per cui restano sempre all’interno del gioco fissato dai padroni. Quando nel 1972 lavoravo al giornale comunista “L’Ora”, un mio studio sulla gestione rapinosa dei piccoli prestiti su pegno della Cassa di Risparmio Vittorio Emanuele di Catania, non venne pubblicato con la scusa, per altro fondatissima, che il giornale si stampava grazie alle scoperture concesse proprio da quella banca e quindi non la si poteva disturbare pubblicando i risultati della mia ricerca.

Il nuovo dirigente medio del Partito Comunista Italiano, e le cose non sono molto cambiate in epoca recentissima con la modificazione in Partito Democratico della Sinistra, è un tecnico dell’organizzazione con vasta competenza in campo politico. Più del 50% di questi dirigenti risulta iscritto al partito prima dei ventun’anni ed ha svolto incarichi all’interno prima dei venticinque. Si tratta di elementi che hanno assunto cariche nei consigli provinciali o comunali, con una consistente percentuale munita di esperienza sindacale. Siamo davanti a una vasta burocrazia decentrata che rifornisce sia il gruppo dei deputati, sia le strutture di controllo periferico. La formazione di questa classe dirigente non è avvenuta per caso. Potenti forze di discriminazione hanno agito dall’esterno, condizionando certi atteggiamenti del partito verso il movimento sindacale e quindi selezionando gli uomini più adatti a sostenere e avvalorare quegli atteggiamenti. L’esclusione dell’ala dura, maturatasi definitivamente in tempi recentissimi con la fuoriuscita del gruppo che si è dato il nome di Rifondazione Comunista, è un processo di selezione che trova origini lontane e che tende ad escludere tutti i dirigenti non adatti a svolgere questo ruolo di mediazione. I punti fondamentali di questa selezione sono le alleanze sociali, i rapporti fra le forze politiche e quindi i problemi del pluralismo e della democrazia.

Unica pregiudiziale, l’abbandono di ogni velleità rivoluzionaria, uso cauto della capacità di lotta delle masse, processo di coordinamento delle tendenze recuperatrici dei sindacati. Tutto ciò allo scopo di creare uno schieramento maggioritario, complesso e articolato, con la presunzione di modificare gradualmente la società portandola verso il socialismo. Per la verità, questa presunzione, in tempi recentissimi si è ancora di più addomesticata. Naturalmente, una classe di burocrati di partito è sempre pronta a ritenere che sia possibile un progressivo avvicinamento alle leve del potere, per il semplice motivo che non è capace di elaborare una strategia differente, lontana com’è da ogni visione totale del problema. Pertanto, ha bisogno di affermare e di credere che simile processo garantirà conquiste e rinnovamenti sociali.

Questi movimenti del Partito Comunista diretto a presentarsi come unica forza d’opposizione, hanno modificato la tradizionale formula dell’opposizione parlamentare. Si è avuta così una certa rivitalizzazione del Parlamento, che ha avuto la sua punta massima a metà degli anni Settanta, intendendo con questo che una certa parte, a momenti anche considerevole, dello scontro politico si realizzava in questo periodo nel luogo fisico del Parlamento. Un esempio potrebbe essere quello del dibattito parlamentare in merito ai criteri di nomina degli amministratori e dei dirigenti degli enti pubblici economici, che verso l’epoca indicata assumeva un’ampiezza mai raggiunta prima. È in questa fase che trovano origine i primi riferimenti alle riforme istituzionali che poi occuperanno molta parte del dibattito nella seconda metà degli anni Ottanta. Comunque, per quel che in questa sede ci riguarda, il ruolo di opposizione del Partito Comunista Italiano si può inserire perfettamente nell’ambito della razionalizzazione in corso, anche se non può dirsi matura una possibile soluzione bipartitica, per come sembrava vicina a metà degli anni Ottanta. Forse, ci si avvia verso una ulteriore disgregazione dei ruoli dell’opposizione oppure verso la nascita di nuove forme oppositive sempre a livello parlamentare.

La posizione del nuovo partito, quello che si è dato il nome di Partito Democratico della Sinistra è, se possibile, ancora più contraddittoria e precaria del precedente Partito Comunista. L’abbandono, adesso ufficiale, dei vecchi luoghi comuni del centralismo operaio, del ruolo di lotta del sindacato, della funzione della classe lavoratrice, tutto ciò è passato quasi sotto silenzio, ma si tratta di scelte importanti, che legittimano una forza oppositiva come possibile forza di governo, se non altro di coalizione governativa. Al nuovo carrozzone politico, i vecchi comunisti hanno mosso l’accusa di essere fumoso e inconsistente, di andare verso un’alternativa senza sapere bene cosa fare. Questa accusa viene dai vecchi facinorosi forcaioli che almeno quando mettevano in moto la ghigliottina, o si prestavano a sostenere qualcuno che la metteva in moto al posto loro, sapevano cosa facevano e facevano quello che volevano fare. Certo non si può avere rispetto per gente simile, ma rispetto per la coerenza questo bisogna averlo. I nuovi dirigenti riprendono quindi un discorso che è quello di qualsiasi partito di governo, oggi all’opposizione, domani con la speranza di arrivare a una coalizione di potere. Discorso pulito e democratico, asettico fino alla nausea. È il metodo della politica. Tutto qua. Occorre che le antiche illusioni, dure a morire, vengano definitivamente soffocate.

Esaminiamo adesso il ruolo e il funzionamento del sindacato in una società democratica, allo scopo di individuare la condizione e i processi attraverso cui questa struttura interviene collaborando alla razionalizzazione del dominio e dello sfruttamento, quindi facendo sentire la sua influenza ordinatrice, proprio in quanto struttura, sia nell’ambito politico che in quello più specificamente economico. Poiché si tratta di una struttura che alimenta ancora adesso illusioni ideologiche piccole e grandi, di difesa ma perfino di attacco, occorrerà anche precisare in che modo queste illusioni siano oggi ingiustificate, e se mai lo furono per quali motivi un tempo trovarono una qualche giustificazione.

Considerando il ruolo del sindacato occorre fare una distinzione tra quello che accadeva prima della metà degli anni Ottanta e quello che sta accadendo adesso, dopo la radicale e per molti aspetti geniale ristrutturazione tecnologica che il capitale si è dato a livello mondiale, processo quest’ultimo che, fra le tante cose, ha anche profondamente modificato il ruolo del sindacato, spingendolo ancor più al margine della semplice collaborazione. Nel periodo precedente il sindacato, diciamo di sinistra, lasciando quindi perdere la funzione dei sindacati gialli che negli ultimi decenni, in situazioni come quelle europee, è diventata trascurabile, sosteneva una difesa del lavoro di natura giuridica, di natura contrattuale ed infine cercava di inserirsi in un processo di razionalizzazione economica, diretto ad assicurare il pieno impiego delle risorse e una fase di rinnovamento delle energie produttive. Tutti aspetti che erano utili anche per il capitale, mentre qualche elemento di difesa, come quello salariale o quello occupazionale, incontrava contrasti anche considerevoli, appesantendo eccessivamente i costi. Come vedremo, i sindacati si renderanno conto della difficoltà che il capitale attraversava agli inizi degli anni Ottanta e collaboreranno alla massiccia riduzione della mano d’opera, consentendo il passaggio indolore alla nuova formazione capitalista post-industriale.

Il potere che si cerca di ottenere è qui chiaramente indicato, si tratta della possibilità di azionare le leve del sottogoverno perché, indirettamente, si faccia sempre più posto all’organizzazione sindacale nel quadro più ampio del governo-economico del Paese. In questa prospettiva, la figura del delegato sindacale si è adeguata a quella del tecnocrate del partito, entrambi corrispondendo più o meno al quadro amministrativo della struttura capitalista. Come questo è addetto al controllo della produzione e all’applicazione delle tecniche amministrative e contabili, così il delegato garantisce la persistenza dell’indirizzo sindacale all’interno della dimensione azienda, dimensione che spesso potrebbe trovarsi in contrasto con quello che il sindacato ritiene necessario. Molte volte i contrasti tra sindacati e capitalisti sono proprio sul filo della razionalizzazione produttiva e i primi si trovano più avanti dei secondi che, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, sono perennemente afflitti da contraddizioni e da mancati adeguamenti all’interesse complessivo del capitale.

Nella pratica quotidiana aziendale è facile rendersi conto di quanto i lavoratori diffidino dei sindacati. Si iscrivono perché pensano di trovare un appoggio in caso di licenziamento, nel caso di una bega personale col caporeparto, insomma perché ritengono di essere genericamente più tutelati. Ciò è senza dubbio vero. Di fronte alla concentrazione del capitale, almeno storicamente, la concentrazione sindacale ha svolto il suo ruolo. Naturalmente col tempo questo ruolo si è incancrenito, mostrando la radice iniziale e ineliminabile, cioè il collaborazionismo. Sia nella sfumatura dell’autoritarismo marxista, come in quella del possibilismo cristiano, i sindacati non possono eliminare la loro vera vocazione, quella della partecipazione, sempre più ampia e massiccia, al potere.

Fra le tante critiche all’operato del sindacalismo, occorre mettere da parte subito quella dei teorici comunisti, per i quali il sindacato è limitato solo alla resistenza corporativa, mentre il partito dovrebbe assumersi il ruolo di trasmissione tra dirigenza e massa, allo scopo di passare alle fasi risolutive della rivoluzione. Abbandonato a se stesso, questo schema non merita più neanche una critica seria, come l’ebbi a fare quasi vent’anni fa [1975], per il momento questa parte deve essere accantonata. Molte delle critiche anarchiche del sindacalismo si fermano ad aspetti specifici, per cui concludono sulla possibilità di un sindacalismo che sia veramente rivoluzionario, di svolgere un compito diverso da quello della semplice collaborazione di classe. Anche su questo punto ho svolto critiche puntuali in altri miei libri, qui riprenderò pertanto solo gli elementi essenziali, solo quelli che ci saranno utili per completare il quadro del processo di razionalizzazione che sto descrivendo.

Fatte le dovute proporzioni, e ritenendo possibile l’esistenza d’un sindacato anarcosindacalista, cosa che personalmente penso assai problematica, restano non tanto delle critiche, quanto delle analisi. Occorre eliminare l’equivoco di fondo che continua a confondere il sindacato, in quanto strumento in grado di difendere su alcune cose i lavoratori, con uno strumento di attacco contro gli interessi dei capitalisti, confusione plausibile decenni or sono, specie quando si usciva dalla parentesi fascista, ma del tutto inaccettabile oggi. Il sindacato è un’organizzazione di servizio pubblico che, come tale, può avere un’efficienza più o meno limitata, dipendente dal funzionamento della propria burocrazia, ma non può assumere prospettive differenti e, meno che mai, prospettive rivoluzionarie.

Quale la critica del movimento anarchico? Forse uno dei dibattiti più chiari su questo argomento è quello intercorso tra Monatte e Malatesta al Congresso di Amsterdam del 1907. Monatte vi sostenne un programma in cui sindacalismo e anarchismo trovavano il loro completamento migliore, realizzando attraverso l’accrescimento del benessere immediato del lavoratore, l’espropriazione del capitalista. Per Malatesta il sindacalismo poteva essere accettato solo come mezzo mai come fine. Lo stesso sciopero generale non era altro che un mezzo. Successivamente, sempre Malatesta, tornando sull’argomento in più riprese indicava gli elementi di degenerazione presenti nel sindacalismo, tali da corrompere anche le migliori buone intenzioni.

Questa tesi di Malatesta deve essere oggi sottoposta a una critica ulteriore. Senza dubbio il sindacalismo non è un fine, ma perché possa considerarsi un mezzo occorre che vada inteso come mezzo di attacco e non come semplice mezzo di difesa. È questo il problema. Il problema della presenza del sindacato nelle società è problema di potere concorrenziale allo Stato.

In tale senso, diventa anche poco attuabile il discorso di Malatesta che, non bisogna dimenticarlo, guardava al ribollente ambiente del sindacato francese dell’inizio del Novecento, un ambiente in cui gli anarchici erano attivissimi, un ambiente che aveva visto l’opera di Fernand Pelloutier, il fondatore delle Borse del Lavoro. Oggi il sindacato ha la sua principale preoccupazione centrata sulla gestione dell’economia statale. La correlazione sindacato e potere politico si traduce nella sua realtà più tragica per il lavoratore, quella tra sindacato e capitalismo.

Vediamo di cogliere i limiti teorici e pratici del sindacalismo rivoluzionario, che ormai ha fatto il suo tempo sotto ogni profilo. Intorno al 1880 nelle tendenze sindacali di ispirazione più o meno libertaria, in Francia, si vengono a sviluppare diverse correnti. Un’accentuazione dell’autoritarismo di tipo blanquista, si spingerà in avanti arrivando subito a contrattazioni col potere e a un compromesso con l’esperienza dittatoriale boulangista. Una tendenza riformista, diretta da Paul Brousse, perderà subito la sua importanza, salvo che nel settore del libro, dove è forte anche oggi. Una tendenza anarcosindacalista, che creerà le Borse del Lavoro. Una tendenza sindacalista rivoluzionaria, mescolata alla precedente, forse più politicizzata, violenta, sostenitrice dell’ insurrezione.

È Georges Sorel che teorizzerà il sindacalismo rivoluzionario in modo più o meno completo e forse involontario. Lo sciopero generale viene indicato come un mito da sostituirsi al mito del Progresso, al mito dell’Uguaglianza, al mito della Libertà. Una prospettiva finale che coincide con la Rivoluzione, lo sciopero parziale, al contrario, viene visto come una ginnastica rivoluzionaria. L’elite rivoluzionaria utilizzerà questa ginnastica per guidare le masse alla rivolta contro il potere, partendo dalle rivendicazioni sindacali, via via per gradi, procedendo alla costruzione della nuova società sulla base del modello sindacale.

La Carta di Amiens, considerata il documento fondamentale del sindacalismo rivoluzionario, approvata nel 1906 quasi a maggioranza assoluta, quindi con una convergenza di voti sia rivoluzionari che riformisti, è un documento piuttosto generico che mette insieme obiettivi di miglioramento con obiettivi di emancipazione ed espropriazione. Il punto essenziale del sindacalismo rivoluzionario era quindi il concetto di azione diretta, logica conseguenza dell’apoliticità, nel senso di indipendenza dai partiti, e della spontaneità dell’organizzazione sindacale. Ma quest’ultima non può basarsi sulla spontaneità più di quanto non lo possa fare il partito, anche se si definisce rivoluzionario. Allo stesso modo l’organizzazione sindacale non può restare separata dalle attività dei partiti politici e finisce, prima o poi, per sentirne l’influenza. Così, il problema dell’azione diretta si trasforma nella prospettiva dell’organizzazione sindacale, da mezzo della base a mezzo per strumentalizzare la base.

Se l’organizzazione dei produttori deve essere nelle mani dei produttori stessi, come vuole il principio dell’anarchismo, quindi in nessun caso diventare impedimento o ostacolo, non può essere un’organizzazione sindacale. Non si deve dimenticare che il sindacato è un organismo costituito dai produttori, ma guidato da uomini con un’elevata politicizzazione, se non proprio come funzionari di partito, almeno come dirigenti sindacali. La scelta di questi uomini propenderà per l’organizzazione sindacale, e allora questa verrà tutelata fino a diventare elemento di collaborazione, oppure la scelta andrà alla lotta diretta e allora il sindacato andrà in frantumi. Il concetto di anarcosindacalismo prevede l’esistenza della struttura che si prefigge la difesa degli interessi economici e normativi dei lavoratori. Di per sé questo fatto non può non degenerare o morire, annullarsi in un modo o nell’altro.

Qualsiasi forma sindacale oggi, o accetta e si dispone nell’ottica collaborazionista, o scompare. Tutta l’attività dei sindacati è quindi attività di collaborazione, visione unitaria del fatto economico, richiesta solo di miglioramenti. Il capitalismo, uscito dalle crisi del passato, cresciuto alla scuola della moderna democrazia, agile e padrone di sé, animato da un forte spirito di trasformazione ed innovamento, incapace di concepire meschinerie nazionali, se non vi è costretto, desideroso di adeguarsi alle prospettive internazionali, questo capitalismo, lontano anni luce dal vecchio è amicissimo del sindacalismo. Caduto il mito dell’uomo di affari pirata e rapinatore, creatosi quello più moderno del tecnocrate, ci si accorge della grande familiarità che esiste tra dirigente sindacale e dirigente d’azienda, delle comunanza degli scopi, della parallela direzione degli sforzi, della similarità della preparazione. Il vecchio rappresentante sindacale, dalle mani callose, capace di agitarle violentemente sotto il muso del padrone, è sostituito dall’intellettuale uscito dalle università, dalle mani pulite e dal colletto bianco, da persone cioè capaci di trattare da pari a pari con l’altro intellettuale, uscito dalle stesse università, che ha preso il posto del vecchio padrone in fabbrica. Se il capitalismo è sfuggito di mano ai vecchi leoni, il sindacalismo è sfuggito ai vecchi capi sindacali, si è adeguato prima del tempo alle esigenze. Sono convinto che anche nel momento in cui il vecchio rappresentante sindacale metteva paura, con la sua grinta, al padrone, esistevano i germi della presente situazione sindacale, come nel vecchio capitalismo esistevano i germi dell’evoluzione manageriale del capitalismo di oggi. Nel corpo sociale il fatto degenerativo non è mai del tutto un fatto nuovo, ma è sempre una modificazione di fatti precedenti. Ed è l’uso dei mezzi che condiziona i fini. Anche qui l’uso indiscriminato dei mezzi rivendicativi, l’adeguarsi della struttura minoritaria alla monoliticità della struttura di contrasto, ha costituito in passato una scelta di mezzi che non è stata senza influenza sull’attuale incapacità di vedere bene i fini.

Qualcuno potrà obiettare che non è questa la prospettiva dell’anarcosindacalismo, e avrà ragione. Però, altro è parlare di morte e altro è morire. Altro è costruire belle fantasie sociali, altro scontrarsi con la realtà. Altro è pretendere di salvare i princìpi anarchici anche all’interno dell’organizzazione sindacale, altro è cercare di farli entrare, a forza, nelle rivendicazioni parziali, a cui il sindacalismo, volente o nolente, è legato. E non vale qui insistere sull’azione diretta. Nel migliore dei casi, quando veramente si costruisce un’organizzazione di lotta fondata sull’azione diretta, o essa non è un’organizzazione sindacale in quanto manca di quella struttura territoriale, rappresentativa, assistenziale, ideologica, tipica del sindacato, o è un’azione diretta ingannatrice. Cioè, un’azione diretta che apparentemente utilizza metodi e procedure tipici dell’azione diretta, ma non ne ha il fondamentale requisito, l’autonomia di base.

In tempi recentissimi, stabilizzato a sufficienza il capitale a seguito della radicale ristrutturazione di cui parleremo nelle prossime pagine, il sindacato ha dovuto rivedere ancora più a fondo il proprio ruolo di compartecipazione e di sostegno. All’interno della C.G.I.L. c’è stata una mezza rivoluzione con l’emarginazione definitiva di tutti quei dirigenti che ancora mantenevano un rapporto ambiguo con la base, utilizzando proposte demagogiche e del tutto non accettabili per la sofisticata altezzosità adesso raggiunta dai nuovi padroni. Per altro, il sindacato si è dovuto muovere anche in funzione dell’evoluzione parallela dei partiti della cosiddetta opposizione politica in Parlamento. Insomma un progressivo accostamento alle istituzioni. Nessuna pratica di disturbo dell’imprenditoria che non sia preventivamente concordata, allo scopo di influire positivamente sul processo di risistemazione istituzionale in corso. Il sindacato scopre così fra l’altro, e forse principalmente, la sua anima di gestore politico del mondo economico.

Per altro, anche a volerlo, nessun dirigente può più sperare in una possibilità di mobilitazione. I lavoratori non seguono più né i vecchi rappresentanti, ormai fuori gioco, né i nuovi. La strada più seguita è quella del riflusso, della puntualità, della mimetizzazione, del rifiuto della lotta. Anche nelle situazioni di scompenso tra la ristrutturazione del capitalismo privato e l’arretratezza ancora perdurante dei settori del capitalismo pubblico, il sindacato opera soltanto nell’ottica dell’adeguamento, cercando di migliorare le condizioni arretrate portandole ai livelli del massimo sviluppo. Non si fa nessuna scoperta affermando tutto questo.

L’esperienza dei Cobas, come nuclei di base, di cui avevo cercato di promuovere l’iniziativa proprio fra i ferrovieri, fin dal 1977, ovviamente con intendimenti diversi come è possibile vedere nei documenti a suo tempo pubblicati in diversi miei libri, si inserisce adesso all’interno dell’ottica sindacale di riflusso. Comunque da essa ci arrivano alcuni importanti insegnamenti che non posso qui esaminare in dettaglio, ma soltanto per grandi linee. C’è da dire che in merito alle cose positive i Cobas hanno fatto vedere una maggiore disaffezione di alcuni ceti di lavoratori riguardo i sindacati, una difficoltà di questi ultimi a recuperare fasce di contrattazione che una volta erano scontate, una certa intenzione di discutere, di approfondire problemi settoriali, come fra i ferrovieri o nella scuola. Ma questi dibattiti sono stati poveri, limitandosi ai costi sociali, ai rapporti con gli altri sistemi di trasporto, al processo produttivo in genere, alle tecnologie sporche, ecc. E poi, gli aspetti negativi. Prima di tutto la pretesa di una apoliticità che è segno di stanchezza e di incapacità, più che segno di purismo anti-ideologico. I vari tentativi di recupero interno, o le scorribande pirata di autoritari in vena di riciclaggio, andavano affrontati con ben altra serietà e non demonizzati. Così, per evitare di bagnarsi, non si esce nemmeno di casa quando c’è il sole. Spesso la cautela di qualche vecchio sindacalista è proprio diretta a nascondere le sue cattive intenzioni.

Poi, la chiusura settoriale. L’universo Ferrovia. L’universo Scuola. Ognuno con i suoi problemi, certo aperti alle connessioni per quanto riguarda le cause e le motivazioni, gli sbocchi delle decisioni di vertice, le leggi, gli investimenti, i finanziamenti di settori, ma il tutto ricollegato al proprio universo solo in funzione dei problemi specifici di quest’ultimo. La scuola, carriere, stipendi, categorie, programmi, ecc. Certamente, anche riferimenti ai discorsi politici ed economici generali, ma come fatto subordinato. Infine, i sistemi di lotta. Lo sciopero, il boicottaggio. Nel caso dei ferrovieri lo sciopero, nel caso della scuola il boicottaggio degli scrutini. Ma gli scioperi sono senz’altro manifestazioni di dissenso e di pressione, però hanno una regolamentazione che sta per diventare sempre più efficace per cui, in se stessi, costituiscono uno strumento molto relativo. Lo stesso per il boicottaggio, il quale, se applicato su vasta scala, potrebbe avere frutti ma ridotto ai soli scrutini può facilmente aggirarsi.

Un esempio limite del ruolo del sindacato nell’ambito della difesa corporativa è quello delle industrie degli armamenti. In pratica, la crisi del mercato del cannone ha messo in difficoltà diverse industrie medie, non in grado di riconvertire con la velocità delle grandi industrie, meglio provviste di riserve finanziarie e più tutelate dall’ipocrisia governativa. I sindacati, d’accordo con i consigli di fabbrica, parlano in questi casi di potenziamento e sviluppo dei prodotti, dei processi, dei mercati e delle tecnologie. Ha poco importanza che si tratti di cannoni da 35 mm, di cui un’industria di Milano ha pieni i magazzini perché sembra siano obsoleti. Il sindacato cerca di fare superare la contraddizione a questi capitali isolati per inserirli meglio nella produzione complessiva. Nessun tentativo di allargare il problema, anzi quegli spunti inevitabili che emergono in situazioni simili, sono stati definiti dai sindacati come luddismo referendario, perché si è minacciato, da parte di alcune piccole frange sindacali, di fare ricorso al referendum per bloccare un certo tipo di produzione di armamenti.

A partire dagli anni Ottanta si sono verificati cambiamenti nella struttura sociale in genere e produttiva in particolare, che penso siano di radicale importanza. È bene quindi soffermarsi con più attenzione su alcuni aspetti di questi cambiamenti che si possono riassumere nella condizione attuale definibile come condizione post-industriale. La razionalizzazione raggiunta dal dominio ha segnato il passaggio da un rapporto di padroneggiamenti a discrezione, a un rapporto basato sull’aggiustamento e sul compromesso. Ne è conseguito un considerevole aumento della domanda di servizi nei confronti della domanda di beni tradizionali, in primo luogo i classici beni di consumo durevole. Ciò ha determinato l’accelerazione degli aspetti produttivi fondati sull’informatica e la relativa robotizzazione dei settori produttivi facendo prevalere il settore terziario, costituito dal commercio, dal turismo, dai trasporti, dal credito, dalla pubblica amministrazione, ecc., sugli altri settori, cioè l’agricoltura e l’industria.

Ciò non significa che il settore industriale abbia perduto di consistenza o di significato produttivo, ma solo che percentualmente occuperà sempre meno lavoratori, pur restando fissi o anche aumentando i livelli della precedente produzione. Lo stesso vale anche per l’agricoltura che vedrà una potente accelerazione dei processi di industrializzazione produttiva e quindi potrà distinguersi dal settore industriale solo dal punto di vista statistico e non da quello sociale. In sostanza, la situazione si prospetta come quella di un passaggio, ma non netto e chiaro, come una linea di tendenza. Non esiste uno stacco tra periodo industriale e periodo post-industriale. La fase che attraversiamo [1991] è certamente quella del superamento di strutture produttive obsolete che si stanno ristrutturando, ma non è quella della chiusura delle fabbriche e dell’instaurazione diretta del regno della produzione computerizzata.

Certamente la tendenza verso la disgregazione delle unità produttive e la creazione di piccoli nuclei indipendenti di produzione, basati anche sull’autosfruttamento, sempre all’interno di un progetto unitario industriale centralizzato, sarà dominante negli anni futuri, ma, come si conviene all’incertezza programmatica del capitale, sarà accompagnata da lenti aggiustamenti all’interno dello stesso settore industriale nel senso tradizionale del termine. Ciò vale molto di più per la situazione italiana che, da questo punto di vista, si presenta assai più arretrata del modello giapponese o americano.

Strappati fuori dalle fabbriche, in un processo lento e irreversibile, i lavoratori di ieri vengono a poco a poco proiettati in un’atmosfera di elevata competitività che cerca, con ogni mezzo, di alzare la loro qualità produttiva, unico bene commerciabile nella logica dei centri produttivi computerizzati. La conflittualità capitalista polverizzata è quanto di più micidiale esista come elemento capace di spegnere le conflittualità lavorative. I maggiori guadagni degli abitanti delle isole produttive, la loro apparente maggiore libertà, la possibilità di autodeterminare l’orario di lavoro, le variazioni qualitative, sempre nella logica competitiva del mercato pilotato dai centri che forniscono le ordinazioni, tutto ciò produce il convincimento di essere arrivati alla scomparsa dell’antico rapporto di dipendenza e di sfruttamento. Guadagni sempre più alti e creatività sempre più esacerbata. E queste isole della morte si circonderanno di barriere ideologiche e pratiche dirette, per prima cosa, a ricacciare indietro, nel mare tempestoso della sopravvivenza, tutti coloro che non ne faranno parte. Perciò il problema che si pone è quello riguardante gli esclusi.

Prima di affrontare questo problema, centrale nella nostra analisi, dobbiamo vedere meglio questo rapporto tra fabbrica e qualità. Una battaglia per la qualità del prodotto, meritato riflesso produttivo dell’ideologica e superata battaglia per la qualità della vita, ha avuto da qualche decennio lo scopo di conquistare sempre più larghe fasce di mercato, come ha dichiarato un paio d’anni fa uno dei responsabili della Fiat, proponendo sistemi organizzativi considerati avveniristici. Ma la conquista di nuovi clienti è una giustificazione che ne nasconde un’altra, forse parecchie altre, che non è privo d’interesse portare alla luce.

Prima di tutto, una battaglia per la qualità, dentro certi limiti, c’è sempre stata, in quanto i controlli di qualità si sono sempre fatti in tutte le aziende, solo che negli ultimi anni i responsabili di gestione si sono accorti che il ricorso alle tecnologie informatiche faceva aumentare il costo dei controlli a posteriori e spesso li rendeva inutili, in quanto così in questo modo si finiva solo per controllare la mancata qualità, inviando sul mercato un prodotto medio spesso non accettabile. Il passaggio che costituisce una vera rivoluzione ristrutturativa, al di là di quello che in apparenza può sembrare, non sarebbe stato possibile nella vecchia catena di montaggio, dove ogni singolo operaio doveva rispettare tempi scanditi sul modello tayloristico dei primi del Novecento. In effetti, il vecchio sistema era basato sulla riduzione dei tempi di lavoro e sulla quantità, mentre la qualità del prodotto era legata soltanto agli aspetti periferici del problema tecnico dell’imprenditore, cioè materie prime, utilizzo delle macchine, eliminazione degli scarti, ecc.

La sostituzione della vecchia catena di montaggio con le nuove linee produttive robotizzate, ha reso possibile un rapporto differente, anche con le residue maestranze che continuano a provvedere a tutti quegli aspetti di completamento che non possono essere automatizzati, almeno per il momento. Questa manodopera è stata quindi attirata all’interno dell’ideologia clientelare, seguendo una trovata americana sviluppatasi successivamente fino alle estreme situazioni delle industrie giapponesi. La trovata si ricollega con un retroterra storico che è quello della cogestione e delle tecniche avveniristiche impiegate dall’inizio degli anni Settanta alla Volvo, cioè le tecniche delle cosiddette isole produttive. Il lavoratore viene considerato come fornitore di un ipotetico cliente, del tutto interno alla stessa azienda. Poniamo, il lavoratore addetto a perfezionare la maniglia della porta di un’automobile viene considerato come fornitore del lavoratore successivo, che perfeziona la porta dell’automobile. Questo, a sua, volta, è considerato fornitore di chi controlla l’assemblaggio della carrozzeria, fino ad arrivare a un cliente finale che non è l’acquirente dell’automobile ma il capo officina o il settore produttivo che controlla il prodotto finito. A ogni passaggio, attraverso premi e incentivi alla produzione, viene spinto il lavoratore a denunciare le eventuali carenze. Così, chi sta sistemando la maniglia, se lascia passare pezzi difettosi, il lavoratore della fase successiva lo denuncia, accorgendosi nell’assemblaggio della porta che la maniglia non funziona. La denuncia avviene applicando dei cartellini gialli in un apposito quadro nella stessa linea di produzione. Ciò non comporta nessun provvedimento punitivo, perché in questo caso ci sarebbero state delle resistenze, non essendo tutti disposti a fare le spie. L’indicazione riguarda solo il cattivo funzionamento di qualcosa. È come se un cliente facesse un reclamo al suo fornitore, cioè come se all’interno dell’azienda ci fossero tante aziende che producono e si scambiano prodotti fra loro. Il cartellino giallo promuove una riunione a livello di settore dove si discutono i motivi delle carenze tecniche e si trovano i rimedi.

Questa collaborazione interna chiesta ai lavoratori è possibile perché c’è stato negli ultimi anni una forte disgregazione nell’antica unità di classe, unità che quasi certamente non potrà ricostituirsi. Pur trattandosi di un’idea non proprio recente, rifacendosi alla cogestione, questa che abbiamo visto è ancora più sicura per i capitalisti in quanto mette in conflitto i lavoratori all’interno dello stesso livello produttivo, cosa che rende impossibili eventuali utopie autogestionarie e nientifica eventuali crescite della coscienza di classe specifica. In secondo luogo, queste iniziative, che per ora appaiono limitate solo alla linea di produzione, ma che coinvolgono e coinvolgeranno sempre di più l’amministrazione, la ricerca, la vendita e tutti gli altri settori, sono state possibili grazie all’inserimento della telematica, che ha trasferito ai processi automizzati quelle incombenze quantitative che restavano legate ai ritmi di produzione. Infine, c’è da sottolineare le conseguenze sociali di simili iniziative. Lo scollamento della classe sul posto di lavoro, la concorrenzialità fittizia per la produzione qualitativa, una professionalità concorrenziale e irreale nello stesso tempo circoscritta solo al proprio piccolo raggio d’intervento, un rifiuto delle eventuali residue sollecitazioni di lotta sindacale, la scomparsa di ogni altro tipo di conflittualità più avanzata. Le utilità per i singoli capitali sono facili a capire. Si evitano i controlli di qualità, si raggiunge più facilmente una competitività di mercato, si controlla la conflittualità aziendale riducendola in termini di concorrenza. Strumenti contro cui la lotta rivendicativa classica, salariale e normativa, non ha mezzi. L’ideologia della difesa è stata superata dalle iniziative del capitale.

Dicevamo degli esclusi e degli inclusi. Dapprima coloro che resteranno al margine. Espulsi dal processo produttivo, penalizzati dalla loro incapacità di inserirsi nella nuova logica capitalista, spesso non disposti ad accettare i livelli minimi di sopravvivenza assegnati da un assistenzialismo statale visto, per altro, sempre più come un rudere del passato in una situazione produttiva che tende ad esaltare le virtù dell’uomo che si fa da sé. Costoro non saranno soltanto le fasce etnicamente condannate a questo ruolo sociale, a esempio gli west-indiani nella società britannica di oggi, spinta propulsiva delle sommosse agli inizi degli anni Ottanta in quel Paese, ma, con il cambiamento sociale di cui discutiamo, vi parteciperanno anche fasce precedentemente avvolte nella soporifera salarizzazione, e ora proiettate in un veloce e radicale cambiamento. Anche i residui sostegni di cui queste fasce aggiuntive potranno godere, pre-pensionamento, cassa integrazione, assistenzialismo, ecc., non potranno fare accettare agevolmente una situazione sempre più discriminante. Non dimentichiamo che il livello di consumo di queste fasce di esclusi non può essere paragonato con quello dei gruppi etnici mai inseriti nelle zone di salarizzazione. Ciò porterà sicuramente ad esplosioni di malessere sociale.

Poi ci sono gli inclusi, quelli stessi che soffocheranno nelle isole del privilegio. Qui il discorso che minaccia di diventare complicato si essenzializza solo se si è disposti a dare credito all’uomo e ai suoi reali bisogni di libertà. Saranno poi i ritornanti da questo settore ad essere quasi sicuramente fra i più spietati esecutori della logica dell’attacco. Forse andiamo incontro a un periodo di sanguinosi scontri e durissime repressioni. La pace sociale, sognata da un lato e temuta dall’altro, resta il mito più inaccessibile di quell’utopia del capitale che si credeva erede della logica pacifica del liberalismo, che puliva il salotto della poca polvere del giorno e massacrava in cucina, che si dava atteggiamenti assistenzialisti in patria e uccideva nelle colonie.

Le nuove opportunità di piccole, miserabili, oscene libertà quotidiane saranno pagate da una profonda, crudele e sistematica discriminazione nei confronti di vastissime fasce sociali. Ciò comporterà, prima o poi, all’interno delle stesse fasce privilegiate, la crescita di una coscienza dello sfruttamento che non potrà non causare ribellioni, anche se circoscritte. C’è da dire, infine, che non manca nella nuova prospettiva capitalista un supporto ideologico, certo meno forte del passato, ma capace di dare sostegno agli sfruttatori, specialmente ai quadri intermedi. Il benessere per il benessere potrebbe essere troppo poco, specie per gruppi numerosi di individui che in un passato più o meno recente hanno sperimentato direttamente, oppure semplicemente letto, di utopie e sogni rivoluzionari. E questi ultimi non tarderanno a raggiungere i primi. Non tutti gli inclusi vivranno beatamente la felicità artificiale del capitale, molti di loro si renderanno conto che la miseria di una parte della società avvelena l’apparenza di benessere della parte restante e fa della stessa libertà, circondata da filo spinato, una prigione reale.

Il progetto industriale ha assunto, in questi ultimi anni, alcune modificazioni di percorso, anche a seguito della chiarificazione dei rapporti con l’apparato statale, con la produzione di pace sociale e con le componenti dell’opposizione politica e sindacale. Vedendo gli aspetti tecnici del problema si può osservare come l’organizzazione produttiva sia in corso di profondo cambiamento. Non è più centrale l’attività da svolgersi in un luogo preciso, a esempio la fabbrica, ma diventa sempre più sviluppata la diffusione nel territorio della struttura produttiva, anche a notevole distanza.

 


[Finito a Londra, giugno 1991]

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“La mistificazione che la dialettica subisce nelle mani di Hegel, non impedisce in alcun modo che egli per primo abbia descritto le sue forme generali di movimento in modo comprensivo e consapevole. In Hegel, la dialettica poggia sulla testa. Bisogna capovolgerla, per scoprire il nocciolo razionale nell’involucro mistico”.

(K. Marx, Il Capitale)

“1. Ci sono cose che esistono indipendentemente dalla nostra coscienza, indipendentemente dalle nostre sensazioni, al di fuori di noi. 2. Non esiste e non può esistere alcuna differenza di principio tra il fenomeno e la cosa in sé. La sola differenza effettiva è quella tra ciò che è conosciuto e ciò che non lo è ancora. 3. Sulla teoria della conoscenza, come in tutti gli altri campi della scienza, si deve ragionare sempre dialetticamente cioè non supporre mai invariabile e già fatta la nostra conoscenza ma analizzare il processo per cui la conoscenza nasce dall’ignoranza o grazie al quale la conoscenza vaga e incompleta diventa conoscenza più adeguata e precisa”.

(V. Lenin, Materialismo e empiriocriticismo)

L’ape e il comunista. Critica a un Trattato di entomologia teologica

“Vi fu mai una dominazione che non sembrasse del tutto naturale a coloro che la esercitavano?”.

(J. Stuart Mill, The Subjection of Women)

“Uno degli insegnamenti dell’epoca... è che è sciocco volerla sapere troppo lunga”.

(T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo)

Parte prima

Perché una critica

L’ampio Trattato pubblicato dal “Collettivo prigionieri comunisti delle Brigate Rosse” (“L’ape e il comunista”, in “Corrispondenza Internazionale” nn. 16/17 ottobre-dicembre 1980, pagine 308) come “elementi per la critica marxista dell’economia politica e per la costruzione del programma di transizione al comunismo”, merita un’approfondita analisi perché costituisce la summa theologiae del partito comunista combattente.

(Nel corso di queste pagine citeremo da questa rivista indicando di volta in volta soltanto la pagina) Come compendio scolastico il Trattato ha minore importanza di quella che invece riveste come documento di un progetto che dimostra, finalmente con chiarezza, i limiti del proprio fondamento teorico che lo condannano a una ripetitività del modulo avanguardistico e al ruolo storico di spegnitoio di ogni iniziativa rivoluzionaria della massa.

Il preteso superamento del ruolo di avanguardia e il passaggio all’azione leninista nella massa e non sulla massa, come vedremo, non sono altro che illusioni o luoghi comuni di una propaganda che cerca di rintuzzare l’accusa di militarismo oltranzista.

A nostro avviso si rende necessaria una critica quanto più possibile puntuale e precisa di questa analisi teorica fornita dalle Brigate Rosse per ovviare al rischio che molti compagni, anche critici nei confronti di alcune posizioni specifiche, si lascino affascinare da un’architettura e da una complessità teoriche che sono tali appunto per incutere paura e non per altro.

Come, a suo tempo, siamo stati tra i pochissimi a batterci perché i documenti di questa organizzazione armata venissero pubblicati anche sulla nostra stampa, senza cappelletti o prese di posizione, perché ci pareva giusto che ai compagni venisse fornita un’informazione quanto più ampia possibile, lasciando che i fatti parlassero da sé, adesso riteniamo che sia venuto il momento per un’analisi se non proprio definitiva, almeno sufficientemente approfondita perché possa servire da strumento di valutazione.

Divideremo il nostro lavoro in due parti. Nella prima vedremo tutti i punti in cui l’analisi del Trattato di entomologia teologica ricorre allo strumento dell’intimidazione intellettuale e tutti i punti in cui afferma delle sentenze teoriche inappellabili dichiarando che la verità è quella che viene qui fornita perché è così e basta, in quanto così è stata fissata, una volta per tutte, dai sommi padri della chiesa marxista. Questo lavoro potrà sembrare superfluo e sarà quasi certamente monotono, però ci pare indispensabile per sventare sia il meccanismo di intimidazione che si vuole fare agire sul movimento rivoluzionario, sia l’architettura teorica che dimostra così le basi fragilissime su cui è fondata l’intera costruzione.

Nella seconda parte svilupperemo una critica dell’analisi economica e delle conclusioni politico-organizzative.

Dall’inizio alla fine

Il Trattato comincia con l’economia e finisce tenendo conto della centralità di questa scienza per l’analisi rivoluzionaria. I marxisti non hanno mai avuto dubbi su questo. Il carattere storico dell’economia la rende una scienza legata allo scontro di classe, il suo carattere storico equivale quindi al suo carattere di classe. «Se l’economia politica ha per oggetto lo studio della natura e dello sviluppo dei rapporti di produzione delle diverse formazioni sociali, e, quindi, anche dei rapporti tra le classi nelle varie società, ciò vuol dire che essa ha un carattere di classe: così, l’economia politica borghese esprimerà il punto di vista e gli interessi della borghesia e delle sue frazioni, mentre la critica marxista dell’economia politica rappresenterà il punto di vista e gli interessi del proletariato» (p. 17). Questa divisione non ha senso. La critica marxista si autoinveste della capacità di operare una distinzione assoluta che separerebbe in modo netto l’economia borghese e l’economia proletaria. L’equivalenza marxista = proletaria è un passaggio non provato e non provabile. Se viene svolta una critica dell’economia su basi metodologiche marxiste si avrà una critica marxista dell’economia e, quindi, un’economia marxista; ma ciò non prova che un’altra critica dell’economia su basi metodologiche diverse dal marxismo (pensiamo alla critica su basi anarchiche) non possa essere utile strumento per la rivoluzione e per lo stesso proletariato. Caso mai bisognava dire che la critica marxista dell’economia rappresenta il punto di vista dei marxisti, punto di vista che potrebbe essere utile per i bisogni rivoluzionari del proletariato (cosa che resta da provare).

Radicando il capitalismo nella prospettiva storica il Trattato afferma giustamente che prima della forma produttiva capitalista ne esistevano altre: la comunità primitiva, la schiavitù, la società feudale. Da ciò conclude: «Il superamento rivoluzionario del capitalismo consentirà di costruire il modo di produzione comunista; mentre, al “socialismo”, in quanto transizione dal capitalismo al comunismo, non corrisponde un modo di produzione originale» (p. 20). Questa tesi di Marx è frutto del suo determinismo dialettico e non ha valore alcuno, se non in due prospettive: come propaganda per la costruzione di un partito, come alibi per il mantenimento di una burocrazia. Gli stessi autori del Trattato hanno il pudore di avanzare delle riserve: «Non è corretto, tuttavia, pensare allo sviluppo dei modi di produzione in termini unilineari. Inoltre, la successione dei modi di produzione non segue un ordine ovunque necessario. I modi di produzione richiamati non sono, in altri termini, tutti necessariamente presenti in ciascuna linea di evoluzione delle formazioni sociali [...]. Occorre, tuttavia, fare molta attenzione a non schematizzare meccanicisticamente l’uso di questi concetti, poiché forze produttive e rapporti di produzione sono in continua interazione e si determinano a vicenda, essendo un’unità di opposti» (p. 20). Il concetto di unità di opposti che mira ad evitare lo schematismo tra forze produttive e rapporti di produzione, è quanto meno sbalorditivo. Se gli autori vogliono riferirsi al superamento delle contraddizioni in seno al meccanismo dialettico, la cosa non è chiara; se vogliono riferirsi a una ipotetica unità scaturente da una reciproca interazione tra due opposti, la cosa è tutt’altro che dialettica. Mistero!

Venendo al problema delle forze produttive il Trattato denuncia due posizioni controrivoluzionarie e mistificatrici: quella dei revisionisti e quella degli operaisti (o soggettivisti). Secondo i primi le forze produttive sarebbero neutrali riguardo il capitale e quindi anche la classe operaia in quanto forza produttiva potrebbe svilupparsi di pari passo con lo sviluppo della tecnica. Per i secondi invece di essere le forze produttive a determinare i rapporti di produzione sono questi ultimi che determinano le prime.

L’una o l’altra di queste posizioni possono essere accettate dalla classe operaia – precisa il Trattato – «[...] solo a condizione di negarsi in quanto negazione vivente del capitale, e assolutizzare la sua funzione di forza produttiva capitalistica [...]. Ciò, indubbiamente, ha ritardato ed ostacolato il processo rivoluzionario, ma è la stessa natura del rapporto di capitale che impedisce oggettivamente il buon esito di questa operazione controrivoluzionaria [...]. Infatti [...] lo sviluppo delle forze produttive capitalistiche procede contro la classe operaia, che, dal movimento del plusvalore (essenza del capitale), resta sempre più sfruttata materialmente, repressa intellettualmente e schiacciata politicamente. Ma, quanto a lungo può agire la classe operaia contro se stessa?» (p. 21 ). Qui il giusto elemento metodologico della totalità di partenza, cioè il modo genericamente fondato dell’analisi storicistica del marxismo, quello per dirla in parole chiare che nega la visione parziale del fenomeno, doveva portare ad esaminare la contemporanea azione reciproca tra rapporti e forze, per cui diventa assurdo attribuire alla classe un comportamento soggettivo nei confronti delle sollecitazioni riformiste, mentre sarebbe necessario determinare le cause del comportamento della classe non davanti alle sollecitazioni soltanto ma davanti alle sollecitazioni interrelate con il consenso fornito. Con l’aggravante che poi l’accusa di soggettivismo viene rilanciata sulla posizione cosiddetta operaista. Qui non si vuole difendere l’operaismo di sinistra e nemmeno il riformismo, ma non si può tacere davanti al mascherato soggettivismo strumentale di cui il Trattato si fa carico negando i fondamenti stessi dell’analisi storicistica che pure viene sbandierata ai quattro venti.

Abbiamo pertanto che tra le forze produttive del capitale si deve includere la classe operaia. Nell’analisi di Marx la considerazione dell’operaio sociale come forza produttiva del capitale è diretta a riunificare l’intero del capitalismo, salvando il conflitto di classe ed evitando di parcellizzare la realtà. La cosa è accettabile come finestra aperta sull’orizzonte critico diretto a riconsiderare il ruolo rivoluzionario della classe operaia stessa. Dal consenso al dissenso la strada non può essere quella fittizia della risoluzione delle contraddizioni in seno al movimento dialettico della realtà. Questo sarebbe stato possibile, forse, per Hegel, ma non lo è più oggi che ci siamo scaltriti a sufficienza sui giochini della metafisica. Ma il Trattato seraficamente deduce: «Tra tutte le forze produttive, la classe operaia è senz’altro quella più preziosa perché, essendo direttamente contrapposta al capitale, ne è anche la sua principale e virtuale negazione. Essa, dunque, ha un’esistenza contraddittoria. In quanto forza produttiva capitalistica produce plusvalore, è cioè la negazione di se stessa come classe. In quanto produce materialmente la sua negazione, essa è oggettivamente posta nelle condizioni migliori per risolvere questa contraddizione. Prendendo coscienza della sua posizione nel modo di produzione capitalistico, dell’ insieme delle contraddizioni che esso genera, delle latenze che si formano nel suo seno, delle possibilità di trasformazione che maturano sulla sua base [...], la classe operaia può organizzarsi in forme antagonistiche al capitale e, affermando un proprio autonomo potere, liberarsi infine dalla schiavitù del lavoro salariato. Essa è, dunque, la forza centrale della rivoluzione proletaria» (pp. 21-22). È il motivo conduttore dell’entomologia rossa. La classe operaia è la forza più importante del capitale, ne costituisce anzi l’anima produttiva, ma siccome è in contrapposizione con esso ne costituisce contemporaneamente la negazione. Ma la negazione in che modo? in modo virtuale? in modo potenziale? o in modo effettivo? Questo non è chiarito. Se l’esistenza attuale della classe operaia (ma poi che diavolo sarà mai questa esistenza di una classe?) è il fondamento del capitale, essa, almeno in quanto produce la possibilità stessa di esistenza del capitale, non è contraddittoria. Potrebbe esserlo, ma solo negandogli questa base. Finché questa negazione non verrà fuori la sua esistenza (ammesso che si possa parlare di ciò) non sarà contraddittoria, ma perfettamente adeguata. Se il movimento della negazione è intrinseco all’ordine naturale delle cose, allora, prima o poi, si verificherà per come previsto, per cui non vale battersi oggi, in condizioni minoritarie contro il capitale. Se, viceversa, questo movimento è una fandonia hegeliana, allora la sola strada è la lotta, anche individuale e soggettiva, perché l’esistenza contraddittoria della classe è un mito e solo attraverso la lotta si parteciperà alla formazione di quelle condizioni che determineranno l’emersione delle contraddizioni reali tra classe operaia e capitalismo.

Insistendo sulla contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, gli autori la definiscono dialettica e sottolineano il suo carattere oggettivo. Poi s’impauriscono del fatto di apparire troppo deterministi e cercano di salvare il lato soggettivo. La falsa dottrina dei livelli di contraddizione viene loro incontro. Essi scrivono: «Questa contraddizione ha un carattere oggettivo, ed è alla base della crisi generale del modo di produzione capitalistico. Dicendo che “ha carattere oggettivo” non intendiamo affatto negare il ruolo decisivo che vi svolge la soggettività rivoluzionaria. Vogliamo, invece, dire che la soggettività si produce e si manifesta proprio sulla base di questa contraddizione oggettiva, e non può prescindere da essa senza raccogliere vento e tempesta. Riconoscere la contraddizione dialettica, l’interazione reciproca tra forze produttive e rapporti di produzione, quale base oggettiva della crisi del modo di produzione capitalistico, non comporta alcuna concessione al determinismo. Perché, se è vero che ogni modo di produzione instaura nel suo seno la latenza del modo di produzione successivo, è ancor più vero che solo la classe che più di ogni altra è interessata al mutamento può rapire queste latenze dal campo del possibile, fissarle in potenti idee forza nel proprio programma, e trasformarle in forza materiale scardinante, calandole nella coscienza e nell’azione delle masse» (p. 24). Da questo punto in avanti, per quasi due pagine, si canta una serenata all’azione rivoluzionaria, ma sempre con la tattica prudente del recupero. «La rivoluzione proletaria non rovescia una classe dominante per sostituirla con un’altra» (p. 25). L’obiettivo dei proletari della metropoli che fanno la rivoluzione è quello di promuovere un «[...] processo di produzione automatico autoregolato [parallelo ad] un’appropriazione per una gestione sociale dei mezzi di produzione» (p. 25). Per questo la «[...] rivoluzione proletaria nelle metropoli è una rivoluzione epocale» (p. 25). E per concludere: «L’agire rivoluzionario è un progetto scientifico di trasformazione, modellazione dell’avvenire, sulla base della conoscenza del passato, del presente e delle sue latenze; è fantasia creatrice che non teme di costruire connessioni “impensabili” per la razionalità dominante del capitale [che è la razionalità del plusvalore]; è azione intelligente, di avanguardia e di massa, tesa al raggiungimento di un determinato scopo il cui modello codificato, è, nelle sue linee generali, fissato in un programma. L’agire rivoluzionario è costruzione, nel corso dell’azione, di nuove configurazioni di potere delle masse proletarie, che si riappropriano, nella lotta, di mille saperi; che ricompongono in se stesse ciò che il capitale aveva loro rapinato e ad esse contrapposto; che decidono la loro iniziativa, e, nella trasgressione rivoluzionaria di tutte le ingiunzioni del capitale e del suo Stato, si responsabilizzano a tutti i livelli. Attività cosciente, responsabilizzazione, trasgressione. questi sono i caratteri essenziali del movimento di massa rivoluzionario che costruisce, intorno al suo programma di transizione al comunismo anche se stesso ed il suo sistema di potere, e che aggredisce la formazione economico-sociale, in ogni sua regione senza falsi pudori» (p. 25). Come si regga questa digressione con quanto detto prima e con tutto quel che segue resta un mistero!

Un’altra colossale trovata è l’analisi della totalità nel senso marxista di formazione economico sociale. Si tratta, in altre parole, della base su cui si regge la società. Il Trattato condanna il riduzionismo economicistico affermando che il rapporto tra base economica e sovrastruttura non è causale ma dialettico. Come se la stessa architettura del Trattato, con il fatto che per più di tre quarti risulta dedicato a chiacchiere economiche, non neghi questa affermazione. In fondo gli autori dichiarano però che (secondo i padri della chiesa) l’economia è pur sempre l’ossatura della società, mentre la “carne” e il “sangue” sono le idee, istituzioni, relazioni giuridiche, politiche, ideologiche, artistiche, religiose, ecc. E concludono: «Il fatto che la base economica sia sempre determinante in ultima istanza non comporta, pertanto, che essa sia anche la ragione dominante in ciascuna formazione sociale esistita e in ciascun momento del divenire di una formazione sociale» (p. 26). Appare chiaro quindi che il termine riduzionismo economicistico va letto nel senso dispregiativo (da notare “economicistico”, da contrapporsi ad “economico”) e che si può parlare tranquillamente di determinismo economico, sia pure con la cautela (o con il rafforzamento?) che il metodo dialettico rende sempre possibile.

All’elaborazione degli strumenti dell’intimidazione intellettuale sono dedicate le pagine che concludono il capitolo. «Per legge generale di un fenomeno s’intende la sua contraddizione principale espressa in categorie (ad esempio economiche), o simboli (ad esempio matematici), tra loro connessi secondo procedure logiche (o matematiche) materialistiche e dialettiche che ne spieghino il processo reale. Le leggi secondarie si riferiscono a contraddizioni secondarie. Per l’analisi della tendenza si intende lo studio simulato della contraddizione principale come processo, e cioè la sua dialettica quantitativa e qualitativa, nei suoi diversi stadi: dall’inizio alla fine» (p. 28). «La legge non descrive il movimento della realtà immediata, ma piuttosto cerca di coglierne, al di là delle forme, la sua “bronzea” necessità. Il fenomeno è sempre più ricco della legge, e ciò è dovuto al fatto che la legge si riferisce solo ai rapporti necessari, generali, stabili, essenziali, tra i lati di un fenomeno o tra i fenomeni. Mentre a determinare un fenomeno concorrono sempre, incrociandosi con le sue leggi generali, molte altre leggi particolari [...]. Marx, di conseguenza, per costruire il modello dinamico del modo di produzione capitalistico non si accontenta di descrivere la genesi, lo sviluppo e la forma più avanzata, a lui contemporanea, di questo modo di produzione; bensì va a ricercarne le leggi generali e le tendenze necessarie. Sono questi gli strumenti che gli consentiranno le più ardite operazioni del pensiero; gli consentiranno, cioè, di spingersi per via analitica fino agli estremi limiti del modo di produzione capitalistico, oltre i quali si spalanca la breccia di una discontinuità qualitativa epocale e, a partire di lì, riguardare con occhi nuovi, e secondo nuove prospettive, anche il presente!» (p. 29). Quindi: la legge generale è una contraddizione che comprende tutte le contraddizioni di un fenomeno, però essa è l’espressione della necessità del fenomeno, come dire che l’essenza necessaria del fenomeno è la contraddizione che comprende tutte le altre contraddizioni. Si tratta di una delle più chiare dimostrazioni del meccanicismo dialettico, per altro abbandonata come insostenibile dalla maggior parte degli stessi marxisti. Dall’uso di queste formule si vede quanto poche siano le possibilità di salvare l’autonomia e la creatività della lotta.

Si conclude che: «Il criterio logico di disposizione delle categorie economiche non è soggettivo. La logica dialettica di Marx è una logica oggettiva e materialistica» (p. 30). Chi si trova fuori da questo limite e impiega un’altra logica oggettiva e materialistica, è illogico e controrivoluzionario.

Forma e contenuto

Comincia la visitazione dei luoghi sacri della summa theologiae. Nella seconda parte di questo lavoro affronteremo il problema dell’analisi economica contenuta nel Trattato in termini generali. Qui, come abbiamo detto, ci limiteremo a cogliere solo i punti in cui si sviluppa l’intimidazione intellettuale diretta contro coloro che non accettano l’ortodossia marxista cristallizzata.

La distinzione tra valore d’uso e valore di scambio è profondamente scolastica. Non c’è traccia di dubbio sulle possibili (e pregnanti) modificazioni di senso che questi termini hanno ricevuto davanti alla realtà capitalistica odierna. Ma quando mai i teologi hanno avuto dubbi?

La teoria del valore-lavoro porta gli autori ad affermare: «Nel capitalismo ogni padrone produce per il proprio interesse, senza sapere con precisione di quali merci abbia bisogno il mercato ed in quali quantità, né se egli potrà vendere la merce prodotta. Tutti i capitalisti, inoltre, conducono una spietata concorrenza sia nella produzione che nella vendita delle loro rispettive merci. Con tutto questo, la produzione sociale si sviluppa in modo relativamente ordinato tra i diversi settori produttivi. Ciò può avvenire perché la produzione e la circolazione sono soggette alla regolazione spontanea della legge del valore. Essa ci dice che il valore di una merce è determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrla. Questa legge, che è la legge economica fondamentale del modo di produzione capitalistico, il “cuore della critica dell’economia politica”, rappresenta prima di tutto lo strumento che consente di comprendere il processo di formazione e l’origine del plusvalore, di ricostruire scientificamente il concetto di sfruttamento capitalistico. Lo sfruttamento, infatti, non è prerogativa del solo modo di produzione capitalistico; solamente nel capitalismo, tuttavia, lo sfruttamento assume la forma storica e determinata di appropriazione di lavoro non pagato» (pp. 39-40). Questa tesi non può essere sottoposta a critica. Indipendentemente dalle intenzioni dei critici (non importa chi questi siano) essi sono “insulsi epigoni contemporanei degli economisti classici”. Quando questi critici si arrischiano a usare Marx, allora lo manipolano e lo falsificano, quando non lo usano non meritano nemmeno che si parli di loro.

Per gli autori il valore costituisce l’essenza delle cose, il prezzo la loro forma fenomenica. Su ciò non si discute. Chi si arrischiasse a mettere in discussione la cosa si vedrebbe sbattuto sul muso il Marx del Capitale (Libro III) che diceva come la scienza “sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero”. Se ne conclude che: «L’astratta legge del valore governa dunque la realtà indipendentemente dal fatto che quest’ultima sembri discostarsi da essa. Infatti, le oscillazioni dei prezzi delle merci gravitano sempre attorno al valore, senza allontanarsi troppo da esso (ad esempio, il prezzo di un televisore sarà sempre più alto di quello di una saponetta) e, in un periodo di tempo abbastanza lungo, le quote di aumento e di ribasso dei prezzi possono compensarsi a vicenda, dimostrando che, sui lunghi periodi, prezzi e valori delle merci si equivalgono» (p. 40).

Per noi, e non siamo i soli, il discorso che un televisore avrà sempre un prezzo più alto di quello di una saponetta perché il suo valore sarà sempre più alto, ci sembra non solo discutibile ma mostruoso, sia perché impedisce la comprensione reale di alcuni fenomeni dello sfruttamento capitalista, sia perché fa vedere la mentalità orribilmente e ciecamente determinista di coloro che fanno simili affermazioni. Le credenze paleolitiche che il capitale sia ancora fermo all’appropriazione del lavoro non pagato e che la legge del valore governa necessariamente il mondo, impediscono di cogliere il tramonto attuale della legge del valore e la nascita del dominio reale del capitale, impediscono di capire come la produzione delle merci sia stata finalizzata alla produzione di una singola merce: la pace sociale.

Di più: questa posizione riguardo la legge del valore e l’appropriazione del lavoro non pagato, riduce la comprensione del concetto di classe a quello di classe operaia. «Così, alcuni economisti “ultrasinistri” considerano “produttivo” il lavoro utile (ad esempio, quello dei medici, dei professori, degli scienziati, e, probabilmente dei clowns, categoria, quest’ultima, alla quale appartengono di diritto...) e “improduttivo” il lavoro che in una società “razionale” (!) non verrebbe svolto (per esempio, quello degli operai impiegati nella produzione militare). Certi loro discepoli, più o meno “organizzati”, sempre pronti a definire le classi sulla base di valutazioni soggettive, arrivano a sostenere che la classe operaia comprende tutti i salariati, quando non addirittura i “non garantiti”, oppure semplicemente coloro che “lottano”. In tal modo, essi danno prova di non saper rinunciare al loro “naturale” empirismo e di abdicare all’analisi marxista per scadere nel più grezzo sociologismo di maniera» (p. 42). L’errore di una posizione del genere non viene naturalmente colto dove risiede realmente, cioè nel volere legare la potenzialità rivoluzionaria in modo deterministico al processo di sfruttamento e nel susseguente disperato tentativo di salvaguardare la soggettività attraverso il filtro della classe, ma viene visto ancora più a monte nella non ortodossa distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Il modello della grande fabbrica viene proiettato nella dispersione sul territorio della produttività (che non può essere oggettivamente negato) per cui secondo il Trattato la distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo si ripresenta integra anche nel lavoro nero (al limite). Chi non beve questa pozione è dichiarato piccolo borghese. «La ricerca di un “nuovo soggetto rivoluzionario” da contrapporre a una “categoria [di] classe operaria [che] va in crisi”, appare allora per quello che essa è realmente: il frutto letterario e snobistico dei pruriti “rivoluzionari” della piccola borghesia travolta dalla crisi capitalistica ed in via di proletarizzazione [...]. In sostanza, le tesi dei soggettivisti, diverse nella forma, appaiono unificate da un medesimo contenuto: quello di negare non soltanto la scientificità della categoria marxista di lavoro produttivo, ma soprattutto la centralità operaia, il ruolo egemone e dirigente che gli operai svolgono all’interno del proletariato metropolitano. Lavoro produttivo, infatti, è fondamentalmente quel lavoro che, mentre produce e riproduce il capitale, riproduce anche il suo contrario, ne è il becchino e gli scava inesorabilmente la fossa. Lavoro produttivo è, cioè, quel lavoro che direttamente si contrappone al capitale e che, perciò, mentre gli è indispensabile, direttamente lo minaccia» (p. 43).

Lungi dai trattatisti l’idea che una critica di questa posizione soggettivista sia da collocarsi nel patetico tentativo di ancorare all’analisi marxista una visione della realtà che ha subito la lezione dello sconvolgimento dei rapporti tradizionali del conflitto di classe. Se il vecchio concetto di classe operaia non risulta più idoneo, perché eccessivamente deterministico, a focalizzare la soggettività rivoluzionaria di oggi, non per questo la sola strada percorribile è quella di allargarlo per farci entrare tutto quello che Marx (e con lui i trattatisti teologici) non poteva farci entrare. L’errore è quello tipico di chi essendo abituato allo schematismo non riesce più a farne a meno e, nel migliore dei casi, lo modifica allargandone i confini senza però rinunciarci del tutto.

La produzione del plusvalore

Seguendo passo passo l’analisi di Marx il Trattato delinea storicamente il passaggio dalla fase del dominio formale del capitale alla fase del dominio reale, fissando ciò come modificazione della struttura tecnico-produttiva capitalistica. La fase del dominio reale è vista come totale sottomissione del processo di lavoro alla produzione del plusvalore. Ciò avviene secondo una tendenza necessaria individuata nell’aumento della forza produttiva del lavoro e nella riduzione del lavoro impiegato nella produzione. Qui è individuata una contraddizione definita esplosiva. «Quanto sia vero che “il capitale è esso stesso la contraddizione in processo”, qui trova la sua conferma. Infatti, in quanto plusvalore riproducentesi, esso pone il tempo di lavoro come suo unico elemento determinante; ma, per accaparrarsi quote crescenti di plusvalore relativo, esso è costretto (in seguito all’assorbimento progressivo di conoscenze scientifiche e applicazioni tecnologiche nel sistema delle macchine) a ridurre il lavoro produttivo a proporzioni sempre più esigue! Il capitale impiega il sistema delle macchine solo per aumentare il tempo di pluslavoro, ma, facendo ciò, senza volerlo, riduce a un minimo la quantità di lavoro necessario alla produzione di un determinato oggetto. Sicché, mentre la massa dei valori d’uso si accresce enormemente in seguito alla aumentata produttività del lavoro, si riduce il tempo di lavoro necessario alla loro produzione e, dunque, il valore di scambio in essa contenuto. In conclusione, poiché nel modo di produzione capitalistico il processo lavorativo si presenta solo come mezzo per il processo di valorizzazione, ne consegue che la contraddizione tra valore d’uso e valore di scambio tende a divaricarsi sempre più. La dinamica divaricantesi tra valore d’uso e valore di scambio nella massa di merci prodotte, conseguente alla sostituzione di lavoro vivo con sistemi di macchine, è alla base della crisi generale storica del “modo di produzione capitalistico”» (p. 58).

Non è chiaro se questa crisi sia una crisi di produzione o una crisi di controllo. Cioè non è chiaro se sia il meccanismo produttivo a mettere in difficoltà il capitale o il meccanismo di dominio complessivo. Le due cose, infatti, a un certo punto, di fronte al crollo della produzione basata sul valore di scambio, a nostro avviso, tendono a divaricarsi.

Certo, da una citazione di Marx: «Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo produttivo materiale immediato viene a perdere esso stesso la forma della miseria e dell’antagonismo», (Grundrisse, citato a p. 59), sembrerebbe che questa ipotesi venga presa in considerazione, ma – intervengono i trattatisti – si è davanti a una tendenza, ancora nulla di tutto ciò è avvenuto, quindi possiamo agire come se non sia nemmeno probabile che avvenga. «Il modello della tendenza “al limite” pone le condizioni dell’agire cosciente che costruisce il proprio scopo senza abbandonarsi al fatalismo deterministico o all’ubriacatura irrazionale dell’utopia [...]. Il limite della tendenza, individuato teoricamente, è appunto lo scopo al quale dovrà essere subordinata coscientemente l’attività e la volontà del soggetto rivoluzionario. Questo, in definitiva, è anche il senso della parola d’ordine leniniana “senza teoria niente rivoluzione”. Il “crollo” della produzione basata sul “valore di scambio” di cui parla Marx, non si lascia trasferire facilmente, spontaneamente, automaticamente, pacificamente, dal modello logico alla storia reale, anche se è proprio l’indagine scientifica del movimento storico reale del modo di produzione capitalistico ad aver consentito la costruzione teorica del modello che lo prevede» (pp. 59-60).

E con questo gli autori bloccano anche le più modeste fughe in avanti.

L’accumulazione capitalistica

Ulteriore approfondimento dell’ortodossia teologica. «La trasformazione del plusvalore in capitale si chiama accumulazione del capitale» (p. 63). Di più: «Nel divenire dell’accumulazione, la spietata concorrenza tra capitalisti provoca la progressiva centralizzazione del capitale. Solo a condizione di accumulare senza posa è possibile, per i capitalisti, migliorare continuamente le tecniche e allargare la produzione, dunque potenziare le proprie capacità concorrenziali e attuare una crescente centralizzazione del capitale, a scapito del piccolo capitalista che viene mandato in rovina dal grande capitalista. Questa concorrenza si sostanzia in una divisione del lavoro sempre più scientifica: aumento dello sfruttamento della forza-lavoro, introduzione nel processo produttivo di tecnologie sempre più sofisticate, che si traduce, tra l’altro, in una costante sostituzione dell’operaio da parte delle macchine, ecc. Si crea così, a un polo, ricchezza e, al polo opposto, miseria, e si genera il cosiddetto “esercito industriale di riserva”, cioè una massa permanente e crescente di disoccupati» (p. 64). Visione dicotomica del capitalismo che oggi non può essere più accettata per buona. Lo stesso dicasi per la tendenza all’aumento della composizione organica del capitale (rapporto tra valore e composizione tecnica della produzione la quale, a sua volta, è data dal rapporto tra capitale costante e capitale variabile). Se questa tendenza fosse reale si avrebbe un avvicinamento progressivo e necessario alla crisi rivoluzionaria e con ciò non si comprenderebbe non solo il ruolo delle minoranze rivoluzionarie, ma nemmeno quello preteso decisivo della classe operaia.

Teorie sulla crisi

Critica della teoria keynesiana del sottoconsumo. Fondata per quanto riguarda il meccanismo psicologico della propensione al risparmio, meno fondata per il problema stesso della riduzione del consumo. Infatti, se è giusta la critica a Keynes per quanto riguarda il fatto che il sottoconsumo è una conseguenza della crisi di produzione, non è giusto affermare che egli non si sia reso conto di ciò. Semplicemente la sua teoria è da considerarsi come un tentativo di aggiustamento degli equilibri di potere, tentativo che viene suggerito al capitale internazionale per fare fronte alle crisi periodiche. Uno dei diversi tentativi (e tra i più interessanti) del capitalismo di fare fronte all’azione delle forze disgregatrici endogene ed esogene.

Anche la critica della teoria della sproporzionalità, sostanzialmente diretta contro le velleità pianificatrici dell’economia sovietica, potrebbe essere condivisa solo se non cercasse di basarsi esclusivamente sul meccanismo dialettico. Scrivono i trattatisti: «Poiché, per abolire la crisi, sarebbe sufficiente “riproporzionare” i diversi settori dell’economia, in virtù di una buona ed efficiente programmazione, il sistema capitalistico riuscirebbe a soddisfare, espandendosi progressivamente senza contraddizioni laceranti, tutti i bisogni della società [...]. L’errore fondamentale in cui cadono gli apologeti del capitalismo è quello di ritenere che il modello teorico marxiano sia un modello semplificato, una raffigurazione essenziale e standardizzata della realtà del modo di produzione capitalistico, che sarebbe possibile modificare liberamente con la semplice aggiunta di presupposti inizialmente trascurati od omessi. Più in particolare, tale metodo consiste sostanzialmente nell’eliminare dapprima gli aspetti particolari ed inessenziali dei fenomeni osservati (astrazione) e nel reinserirli successivamente per gradi nel modello teorico (approssimazione) senza alcuna mediazione dialettica» (p. 69).

Il modello marxista della crisi viene presentato come crisi di sovrapproduzione, quindi come crisi di un elemento intrinseco al capitale stesso, come elemento che determina necessariamente la crisi stessa. In questo modo ogni altro elemento viene messo da parte (accusa di soggettivismo rivolta verso le posizioni dell’autonomia) o considerato come supporto secondario. «La crisi generale-storica che investe il capitalismo nella sua totalità e che si estende nel tempo quanto più aumentano le difficoltà di valorizzazione, è un processo, una situazione oggettivamente rivoluzionaria, il presupposto perché l’intervento attivo del partito e del proletariato sia sicuramente vittorioso. La teoria marxista della crisi, proprio perché consente di prevedere scientificamente in quali condizioni una situazione rivoluzionaria data oggettivamente possa e debba sorgere, è una guida per l’azione, un faro capace di rischiarare a distanza il “crepuscolo borghese degli dèi” e di indicare il percorso per il “giorno del giudizio” alla classe operaia» (p. 74). La posizione cosiddetta soggettivista sottolinea invece la crisi come accrescersi di difficoltà nel processo di valorizzazione. La lotta per il salario basato sulla produttività diventa lotta per il salario basato sui bisogni. Il processo lavorativo diventa processo sociale, mentre la legge del valore diventa legge strutturale del comando. Di queste posizioni i trattatisti non forniscono una critica vera e propria, si limitano a dire che sono contro coloro che affermano che «[...] tutto nasce dalla “spinta continua che viene sviluppandosi da parte della composizione operaia”, e che, valicando ogni limite di proporzione del sistema, mette in crisi il “sistema capitalistico di controllo” e la capacità stessa del modo di produzione di riprodursi in quanto tale. Teorie sviluppate o rivisitate oltre confine: rimasticate e disseppellite dai “nostrani razzolatori”» (p. 71). Si limitano ad aggirare l’ostacolo dicendo che per loro «[...] durante le crisi di sovrapproduzione, la lotta di classe si inasprisce. Da una parte, i padroni tentano di ridurre i salari per poter aumentare il saggio di plusvalore e far pagare alla classe operaia la ripresa dell’accumulazione; dall’altra, gli operai intensificano la loro lotta “come conclusione in cui si risolve il movimento e la soluzione di tutta questa porcheria”. Diventa ora comprensibile per quale ragione, nella crisi, la lotta per la ripartizione dei profitti e dei salari fra i capitalisti e gli operai non è soltanto una lotta per il miglioramento del tenore di vita delle classi che vi prendono parte, ma è soprattutto una lotta che, avendo per posta la possibilità stessa della ripresa capitalistica, da pura lotta economica, si trasforma necessariamente in una questione di potere, in una lotta politica» (p. 76).

Dal capitalismo al comunismo

Questa parte interlocutoria è diretta a fissare alcuni punti essenziali del discorso del Trattato. Qui il ricorso al metodo teologico è larghissimo. La strada percorsa fin qui ha fornito – secondo i trattatisti – gli elementi per individuare una tendenza oggettiva del capitale alla crisi di sovrapproduzione. Da questa semplice premessa si conclude che, allo stesso modo, si ha una tendenza cosciente nella rivoluzione proletaria a scavare la fossa al capitalismo. Come questa ultima tendenza possa ricavarsi dalla prima non è detto, per quanto possa essere stato fatto il rinvio all’unità degli opposti, mistero dialettico che troppe cose viene chiamato a risolvere. «Crisi e rivoluzione si alimentano a vicenda» (p. 78), ma come? in che modo? «Nella crisi generale storica [...] tutte le contraddizioni giungono a maturazione» (p. 78). «Sorge quindi in milioni di proletari il bisogno vitale di una trasformazione rivoluzionaria» (p. 78). Se questa non è fede cieca nelle oscure forze del determinismo economico, non sapremmo trovarne esempio migliore.

«Tradurre questo bisogno in teoria, programma politico, forza materiale dispiegata sul terreno del potere è l’impegno che hanno assunto in questi anni migliaia di avanguardie comuniste» (p. 78). Qui si scopre che il presupposto illusorio (o, comunque, non provato) può trasferirsi sul piano operativo di una minoranza, e la cosa ci sembra più che normale. Anzi, se questa minoranza si presenta sotto la specie del partito comunista combattente, è sempre meglio che il presupposto sia ridotto, quanto più possibile, all’osso.

«A differenza del ’17 sovietico o del ’49 cinese, nella metropoli imperialista, contenuto e forme della rivoluzione proletaria coincidono perfettamente. Ciò significa che qui è effettivamente data la condizione materiale per eliminare, insieme al rapporto di capitale, anche la maledizione del lavoro sfruttato. Sono date cioè le condizioni materiali per il passaggio epocale dalla “comunità illusoria” alla “comunità reale”, dalla divisione del lavoro al pieno sviluppo dell’individuo sociale. Certo, “come il sistema dell’economia borghese si è venuto sviluppando passo a passo, così avviene anche per la sua negazione, che ne è il risultato ultimo”, ma questa negazione è qui immediatamente transizione rivoluzionaria al comunismo. Potere proletario e dittatura proletaria per la transizione rivoluzionaria al comunismo!» (p. 78). Come sia possibile questa coincidenza non è spiegato. Se era una divaricazione, com’è che adesso questa divaricazione ha raggiunto il massimo per poi, con un salto qualitativo, far coincidere contenuto e forma? Non si sa. Se si tratta di una banale parola d’ordine, essa è ben funzionale a un partito, ma allora sarebbe meglio chiudere qui la discussione.

Sulla crisi

I trattatisti aprono una importante parentesi da loro definita filosofica. Attaccano tutti coloro che «[...] definiscono Il Capitale di Marx superato» (p. 99). Sia che si tratti di “domestici economisti borghesi”, sia che si tratti di “posizioni di sinistra”, l’attacco non ammette differenze.

«Il contenuto controrivoluzionario di questa tesi [quella che Il Capitale è superato] balza immediatamente agli occhi: che la borghesia perciò si affanni a propagandarla, è comprensibile e anche giustificabile, che però la stessa operazione venga compiuta da gente che si proclama di sinistra, “i più a sinistra di tutti”, ci sembra, se non proprio sospetto, frutto almeno di una notevole dose di doppiezza. Ma tant’è! Buttato, in questo modo sbrigativo, Marx nella pattumiera, costoro ci vengono propinando ogni giorno una nuova “teoria”, mutuata, con una verniciatura di rosso scarlatto, dall’ultima scoperta di qualche professorone di Università. Ma, avendo abbandonato l’unica teoria scientifica – la teoria che Marx ci ha lasciato con Il Capitale, appunto – costoro precipitano inevitabilmente, nonostante le roboanti e “rivoluzionarissime” affermazioni, o nell’empirismo più cieco, o nell’idealismo più sfrenato. Successivamente ritorneremo su questo punto. Qui ci preme semplicemente ribadire come Il Capitale di Marx, in quanto analisi scientifica dell’economia capitalistica, sia tutt’altro che superato, e resti, anzi, l’unica base scientifica per analizzare l’attuale società» (p. 99). L’identità tra controrivoluzionario e rigetto de Il Capitale è un motivo costante dell’analisi del Trattato, si tratta della perla più grossa della loro collana di intimidazione intellettuale. Anche 1’affermazione che Il Capitale costituisca l’unica teoria scientifica non è da sottovalutare. In genere il termine scientifico trova molto spesso questa collocazione intimidatoria. Lo stesso dicasi per una frase del genere: “Il Capitale è l’unica base scientifica per analizzare l’attuale società”.

Ritornando sull’argomento centrale della crisi del capitalismo gli autori esaminano anche la posizione della Luxemburg e riducono la tesi della crisi come sovrapproduzione a crisi come sottoconsumo. Non è importante qui discutere la fondatezza di questa riduzione, quanto notare che non si vuole ammettere come sia diversa la posizione di sottoconsumo della Luxemburg da quella poniamo dei neo-keynesiani. La prima cercava di dare una base deterministica all’andamento autodistruttivo del capitale, e ciò per assicurare una continuità al processo rivoluzionario, i secondi cercano di dare consigli per aggiustare le condizioni di produzione nel medio termine. Ma per i trattatisti quello che conta è che le due posizioni non rispecchiano la loro, la sola scientifica, quindi sono ambedue controrivoluzionarie. «Interpretare le crisi come “crisi di sottoconsumo” ed individuare così la contraddizione principale non nella produzione, ma nella circolazione, implica pertanto la possibilità di compiere un errore gravissimo: ritenere eliminabili le crisi intervenendo sulla circolazione, cioè sul “movimento del denaro”, sarebbe ritenere sufficiente aumentare la massa monetaria in circolazione e il problema sarebbe facilmente risolto, lasciando inalterato il modo di produzione capitalistico» (p. 105). Ma è certo che questa non poté mai essere l’intenzione della Luxemburg come, riteniamo, non sia quella dei keynesiani che non arrivano a illudersi fino a tanto. Ma per i nostri autori «[...] entrambe le posizioni sono adialettiche» (p. 105), ed è questo che conta. Di più, continuano sempre i trattatisti: «Non essendo l’analisi concreta di una situazione concreta, scivolano inevitabilmente nel meccanicismo: per i riformisti il capitalismo scomparirà naturalmente, in modo graduale e indolore, per la Luxemburg scomparirà pure naturalmente, ma in modo traumatico e violento (“crollerà”). Per entrambi, la soggettività rivoluzionaria scompare, e al suo posto subentra un rigido determinismo fatalista, un imbelle attesismo» (p. 105). Incredibile ma vero: ad essere accusati di determinismo fatalista sono proprio gli altri che vengono anche considerati come negatori della soggettività rivoluzionaria (ma come? i soggettivisti, non erano piccolo-borghesi?).

Comunque, a parte questo palleggiamento di accuse che a lungo andare non dovrebbe impressionare nessuno, la preoccupazione dei trattatisti è quella di dare al movimento rivoluzionario la fede che l’economia è in ultima analisi determinante per il crollo del capitalismo.

Sulle classi

L’analisi sulla composizione delle classi nella società italiana serve agli autori per “riaffermare la centralità operaia” allo scopo di dare «[...] un corretto sviluppo alla lotta rivoluzionaria» (p. 145). Questa centralità si basa sul concetto di proletariato metropolitano come totalità complessa a dominante operaia.

Ognuno si rende conto dell’importanza di queste premesse e di dove si vuole andare a parare.

Rigettando giustamente l’interpretazione riduttiva del sociologismo accademico, gli autori affermano che le classi non si possono ridurre ai gruppi di status. «Le classi, invece, sono delle strutture oggettivamente motivate e determinate dalla base economica e dai rapporti complessivi storico-sociali, nei quali gli individui, volenti o nolenti, si generano e ricadono [...]. La ricerca dei gruppi e degli insiemi è teoricamente rilevante se permette un allargamento della prospettiva grazie alla proiezione della struttura delle classi sui fenomeni che la circondano. Una totalità globale, cioè una formazione economico-sociale storicamente determinata, dopo la sua scomposizione deve essere di nuovo colta non come un complemento accidentale, ma come un tutto organizzato intorno a dei nodi di massima condensazione, che diventano specificanti della totalità pur senza appiattirla [...]. I gruppi senza le classi sarebbero come suoni senza senso [...]. Classi e gruppi si trovano in un rapporto di comprensione reciproco. Le classi non esistono se non nei gruppi, negli insiemi, negli individui, e questi scaturiscono solo dalle classi e attraverso la mediazione delle classi. D’altro canto, le classi sono possibili solo a partire dagli individui, dagli insiemi, dai gruppi. Le classi, anche storicamente, sono parimente il prodotto e lo strumento dei gruppi, classi e gruppi non possono essere separati, ma le classi contengono e riassumono in sé i gruppi, anche se l’azione dei gruppi è quella che modifica e trasforma le classi. Vi è cumulo e lotta, non sostituzione, ma cumulo come sviluppo e inviluppo di connessioni-correlazioni, non equiprobabili, non equipollenti, e ciò si rende soprattutto evidente durante le crisi e la guerra di classe» (p. 147).

La ricostituzione della totalità globale è garantita dalla legge della divisione del lavoro. Ma la struttura della classe è un’entità in continua trasformazione. Comunque per i trattatisti il proletariato è costituito da «[...] tutti coloro che, espropriati dei mezzi di produzione, dipendono e devono vendere la loro forza-lavoro per un salario ai proprietari dei mezzi di produzione» (p. 159). Mentre per classe operaia si intendono «[...] i produttori di plusvalore, cioè tutti quei lavoratori manuali della sfera della produzione che valorizzando il capitale entrano direttamente in rapporto con il capitale e con i capitalisti come classe sociale antagonista. Ciò che distingue la classe operaia è che essa, mentre produce capitale, riproduce il modo stesso di produzione capitalistico: produce non solo merci ma rapporti sociali. Dunque, la classe operaia è oggettivamente rivoluzionaria perché produce contemporaneamente la fine di questo modo di produzione e la fine di questi rapporti sociali» (p. 161). Il suo essere rivoluzionaria però non dipende dal fatto che è in lotta, ma dal fatto che riproduce le condizioni della lotta e riproduce queste condizioni perché in quanto classe in sé corrisponde all’oggettività dei rapporti di produzione. Solo dopo, «[...] negandosi come capitale variabile, la classe operaia diventa classe per sé, rendendosi autonoma dai partiti borghesi – forza sociale che si contrappone alla forza sociale del capitale. Coscienza di classe in questa fase significa essenzialmente costruzione del partito combattente del proletariato e del sistema del potere rosso!» (p. 161).

Il processo di proletarizzazione è visto nel Trattato secondo le regole dell’ortodossia teologica: «Intendiamo per proletarizzazione quel processo, indotto dallo sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici, che espropria quote sempre più rilevanti e progressive di popolazione, separandole violentemente dai mezzi di produzione, mentre sussume, eliminandoli, modi di produzione diversi da quello capitalistico, fa tendenzialmente di ogni lavoratore un salariato del capitale [...]. Da ciò si può facilmente dedurre che la pigrizia della merda intellettuale ed opportunista è una tendenza egualmente mondiale in ogni tempo. Intendiamo riferirci alle sciagurate “teorie” di quei professori che, partendo dall’analisi della scomposizione del ciclo di lavorazione delle scatole di bon-bon a Gorgonzola, ne generalizzano i risultati, tentando di farli apparire come una tendenza globale del modo di produzione capitalistico. Occorre, al contrario, una lettura internazionale che sappia capire come la struttura interna delle classi, in uno Stato-nazione, non sia che il riflesso dell’internazionalizzazione del capitale. La centralità della classe operaia diventa un vuoto slogan se non è pienamente vista e compresa in e da questo contesto, in e da questi dati» (p. 155).

Con l’aumento del capitale si sviluppa anche la sua componente variabile costituita non solo dalla classe operaia ma anche da quella frazione di proletariato che sta fuori della fabbrica, cioè dell’esercito industriale di riserva. Qui i trattatisti svolgono un’analisi dettagliata del proletariato extralegale che prende in considerazione sia la massa che fluttua intorno alla fabbrica in modo più o meno fluido, come pure le sacche di sottosviluppo regionale e zonale. L’accumulazione della ricchezza è sempre vista come corrispondente all’accumulazione della miseria.

La distinzione tra proletariato extralegale e sottoproletariato cerca di ridurre quest’ultimo solo ai «[...] residui degli strati in putrefazione, surclassati dall’espansione dei rapporti capitalistici di produzione, (i quali) si sono ridotti al lumicino e non possono essere confusi con quei fenomeni che vanno sotto il nome di “criminalità di massa” (come vengono definiti dai timorosi ideologi della borghesia), i quali rappresentano piuttosto un nuovo “banditismo sociale” di tipo urbano, che ha delle analogie con quelle fiammate di ribellismo che si manifestarono nelle società contadine all’origine dell’industrializzazione. Il “banditismo sociale” è una pratica sociale destinata a durare e a moltiplicarsi nelle megalopoli in disfacimento dell’area metropolitana. Gli apparati specifici di contenimento, controllo e annientamento del proletariato emarginato e del proletariato extralegale sono le “istituzioni totali” (ospizi, manicomi, carceri, ecc.)» (p. 165).

Ma sia l’uno che l’altro vengono subordinati alla classe operaia. «La classe operaia e la sua avanguardia comunista devono farsi carico dei problemi degli strati proletari più oppressi e devono bloccare, impedire, con ogni mezzo e con ogni arma, queste forme bestiali di sfruttamento» (p. 168). La conclusione è l’attacco e in questo, nell’esaminare le armi della lotta, gli autori parlano di sabotaggio, prendendo subito le distanze dal “sabotaggio individuale”. Essi scrivono: «[...] la classe operaia deve saper sviluppare nuove forme di lotta che, saldandosi con la Lotta Armata, respingano e annientino questo attacco. La lotta contro gli apparati di comando e di controllo significa – oltre alle linee di combattimento già consolidate nel patrimonio della coscienza di classe –: sabotaggio. Sabotaggio non come forma di lotta esistenziale e soggettiva, ma come lotta di massa organizzata, come una delle articolazioni della Lotta Armata dentro la fabbrica. Il sabotaggio individuale è una costante vecchia quanto il lavoro e lo sfruttamento, essendo una forma spontanea di resistenza e di difesa contro il lavoro capitalistico. Ma se esso non viene indirizzato ed organizzato, non può incidere sui rapporti di forza tra le classi. Il sabotaggio dell’operaio guerrigliero deve essere “scientifico”, deve rivolgersi contro tutto ciò che significa isolamento e che impedisce la lotta! Deve rivolgersi contro le macchine del comando, contro le strutture del controllo, contro i luoghi e le cose ove si coagulano e si concretizzano le attività controrivoluzionarie. Il sabotaggio dell’operaio guerrigliero deve costruire in questo attacco l’organizzazione di massa del Potere Rosso. La parola d’ordine è quella che la classe operaia più matura, la classe operaia Fiat e Alfa Romeo ha già lanciato: Portare ed estendere la guerriglia in fabbrica!» (p. 187).

In questa analisi la classe operaia è vista come l’oggetto di una lotta che anticipa la distruzione del capitale, e come il soggetto di un movimento che afferma la centralità della classe. L’operazione analitica realizzata in questo modo tende a proporre un’ipotesi di totalità suggerendo che la proposizione della classe operaia, come elemento di centralità politica, non è da ricercarsi in una tesi teorica specifica ma è da individuarsi nel complesso della situazione colta nel suo insieme. Il progetto di lotta è oggettivamente visto come se emergesse dalla realtà, come Minerva dalla testa di Giove. Ciò accade perché la classe operaia è considerata centrale all’interno dei rapporti di produzione, ma, nello stesso tempo, la necessità di dare alla classe operaia il compito del cominciamento del processo di lotta la fa vedere centrale. Dopo tutto la classe operaia è per certo riproduttrice dei rapporti di produzione stessi, quanto a essere anche distruttrice, questo resta da provare. Dal concetto di centralità si passa a quello di centralità politica, con una pretesa eguaglianza tra centralità produttiva e centralità politica, dal concetto di centralità politica infine si passa al concetto di direzione politica su tutti gli strati del proletariato metropolitano. I passaggi manco a dire non sono per nulla scontati, ma vengono dati come se lo fossero.

Un solo tentennamento: «[...] la classe operaia può assumere la direzione di questa ricomposizione solo negandosi come forza-lavoro che valorizza il capitale» (p. 170). La qual cosa scombussola non poco. Ci si chiede: se per aversi la direzione politica bisogna avere la centralità politica, se per avere la centralità politica bisogna avere la centralità produttiva, se per avere la centralità produttiva bisogna essere riproduttrice dei rapporti di produzione del capitale; come si spiega che per avere la direzione politica bisogna negarsi come forza-lavoro che valorizza il capitale (cioè che riproduce i rapporti di produzione)? Mistero!

Sullo Stato

In questa parte del Trattato gli autori rispolverano tutti i vecchi luoghi visitati dai padri fondatori. La cosa è tanto palese che loro stessi si sentono in dovere di precisare: «[...] occorre riaffermare alcuni punti fermi che l’analisi di Marx, Engels e Lenin ci hanno lasciato. Non si tratta di un omaggio formale e scontato ai grandi padri fondatori, ma del riconoscimento che il rapporto tra divisione del lavoro e Stato, tra economia e politica, non si è modificato nella sostanza, e che, pertanto, i caratteri generali della dittatura borghese che avevano colto Marx, Engels e Lenin restano a fondamento, ancora oggi, nel cosiddetto tardo capitalismo, dell’analisi dello Stato» (p. 196).

Da Marx vengono riesumati due concetti: a) l’obiettivo della conquista del potere politico per il proletariato, b) la dittatura rivoluzionaria del proletariato. Marx (più o meno) non aveva detto parole chiare sull’uso della macchina statale, e i nostri autori più o meno devono ammetterlo, però, essi aggiungono: «La storia recente ha insegnato molte cose al riguardo, e proprio le esperienze sovietica e cinese hanno fatto giustizia dei facili ottimismi sulla possibilità di una rapida modificazione dei rapporti sociali di produzione, senza una lunga e dura lotta di classe anche nella fase della dittatura proletaria» (p. 198). E quindi: «La transizione, infatti, non coincide con un modo di produzione originale; ma, piuttosto, con una formazione economico-sociale estremamente contraddittoria, in cui permangono le classi sociali diverse, una delle quali, il proletariato, esercita la propria dittatura rivoluzionaria sulle altre. Permangono gli antagonismi di classe e la contraddizione fondamentale resta quella tra il proletariato e la borghesia. Differenza essenziale è la forma che lo Stato assume e che, come appunto aveva previsto Marx, è, necessariamente, quella della dittatura rivoluzionaria del proletariato» (p. 199).

Si tratta di concetti operativi che verranno ripresi dai trattatisti in occasione dell’approfondimento politico-organizzativo. Per il momento essi servono per riconfermare la contraddittorietà totale della classe operaia all’interno della realtà del capitale. Nessuna titubanza: lo Stato per i nostri autori riflette in pieno ed esattamente la contraddittorietà del modo di produzione capitalistico: «Riproduzione complessiva delle classi sociali e riproduzione della classe operaia in particolare, sono dunque funzioni che i singoli capitalisti delegano allo Stato in veste di “capitalista collettivo ideale” e che, perciò, incontrano come limite invalicabile di attuazione, il processo di accumulazione capitalistico, rispetto al quale non possono entrare in aperta contraddizione» (p. 200).

Le modificazioni oggettive determinate dalla modificazione dello Stato cassiere in Stato banchiere sono minimizzate. Certo le tesi di una emancipazione globale dello Stato dal processo economico andavano trattate con maggiore approfondimento. Il cosiddetto revisionismo nostrano che le avanza, non basta condannarlo con qualche motto di spirito, e nemmeno con qualche citazione di Engels. La conclusione più acuta è la seguente: «Lo spazio sociale della formazione capitalistica, infatti, è, per così dire, “curvo”, non euclideo, non omogeneo, multitemporale, scomponibile in molteplici regioni – dell’economico, del politico, del giuridico, delle forme ideologiche, delle forme artistiche, delle forme religiose, [...] – mai totalmente riducibili l’una all’altra per semplice “sussunzione” e dotate di un movimento relativamente autonomo dal rapporto fondamentale. Due questioni sono importanti al riguardo: la irriducibilità delle diverse regioni tra di loro, poiché esse esprimono forme diverse di relazioni sociali fissate in istituzioni storicamente determinate; la velocità diversa del movimento di ciascuna di esse. Nella formazione capitalistica, la forma di interdipendenza e di reciproca determinazione tra queste diverse regioni muta di continuo in relazione al movimento della contraddizione basilare. Quest’ultima, sempre determinante “in ultima istanza” dell’intero movimento, non è però necessariamente anche dominante in ciascun momento. Così, per esempio, quando i rapporti di produzione strozzano una ulteriore espansione delle forze produttive, quando cioè si produce il fenomeno di crisi generale del modo di produzione, il “politico” è indotto ad accelerare decisamente il suo movimento, fino ad assumere un ruolo dominante. È l’“economico”, naturalmente, che promuove, spinge, questa accelerazione del “politico”, essendo questa posizione dominante determinata in ultima istanza dallo stato esplosivo della contraddizione fondamentale. La dominanza del “politico”, infatti, non elimina la determinazione in ultima istanza dell’“economico”, ma ne garantisce la permanenza forzosa, o, perlomeno, tenta di farlo, in una fase potenzialmente rivoluzionaria» (p. 205). Straordinariamente qui è un cieco che accusa di cecità un altro cieco. Infatti quella che si palleggia è proprio l’accusa di determinismo meccanicistico. Ma la conclusione ecletticamente assai modesta è: «Le forme politiche, in sostanza, seguono il movimento della produzione anche se ciò avviene nell’ambito di un relativa indipendenza e secondo un movimento dialettico che non esclude affatto sfasature temporali, né l’assunzione da parte del “politico”, in circostanze determinate, di una funzione dominante» (p. 205).

Ma lo Stato che si trasforma in imprenditore, dicono gli autori, deve accettare le regole dell’economia, quindi, ancora una volta si avrà una dominanza dell’economico e non del politico. «Non la politica determina le sue scelte, ma le leggi dell’accumulazione capitalistica, alle quali soggiace, plasmano la sua politica. E questa metamorfosi strutturale ed irreversibile non è priva di rovinose conseguenze tanto dal lato delle mediazioni degli interessi fra le varie frazioni della borghesia, quanto da quello della simulazione della sua pretesa autonomia formale che, come abbiamo visto, era la condizione del suo rappresentarsi come portatore di un determinato interesse generale. La frazione del capitale produttivo di Stato sulla quale cresce una frazione di borghesia di Stato si trova, per così dire, in una posizione allo stesso tempo privilegiata rispetto alla frazione di capitale produttivo privato e svantaggiata, dovendosi in qualche modo legittimare. Il privilegio ha tuttavia un costo politico assai caro, perché mina alla base l’edificio ideologico e fino ad oggi ha sorretto gli Stati borghesi» (p. 217).

Fallimento per la prospettiva assistenziale e necessità di una maggiore forza repressiva. Lo Stato si avvia verso il controllo sociale totale. Per cui: «La tendenza alla guerra civile è strutturale all’interno degli Stati imperialisti, essendo il modo di produzione capitalistico incapace di sviluppo lineare indefinito, e perciò incapace di soddisfare le richieste sociali crescenti di un proletariato metropolitano che espande i suoi bisogni economici e politici ed è deciso a sbarazzarsi anche con le armi di un sistema entro il quale essi non potrebbero mai essere soddisfatti» (p. 228).

A nostro avviso la persistente tendenza a riportare tutto, anche l’attività dello Stato, all’interno di una formula unitaria di natura economica ha lo scopo di schematizzare una realtà per farla entrare all’interno di un programma che rischia di risultare troppo restrittivo. Il compito storico della classe operaia deve, per i nostri trattatisti, restare in piedi a qualunque costo.

Per quanto possa sembrare evidente che una profonda modificazione strutturale è oggi in corso nel seno stesso del meccanismo economico, proprio anche per la colossale trasformazione dello Stato del passato in Stato imprenditore, questa non viene colta. Le leggi dell’economia per i teologi dell’ortodossia operaia imperano sempre tranquillamente e, per quanto venga sbandierata la loro storicità, esse sono esattamente quelle che la grande e preveggente mente di Marx ebbe a indagare più di cento anni fa.

Le fatiche di Procuste furono un semplice stiracchiamento a paragone di quelle dei nostri trattatisti.

Parte seconda

“Quando avrete fermata la catena delle idee nella testa dei vostri cittadini, potrete allora vantarvi di guidarli e di essere i loro padroni. Un despota imbecille può costringere gli schiavi in catene di ferro; ma un vero politico li lega più fortemente con la catena delle proprie idee; è al piano fisso della ragione che egli ne attacca il primo capo; legame tanto più forte perché ne ignoriamo la tessitura e lo crediamo opera nostra. La disperazione ed il tempo corrodono i legami di ferro e di acciaio, ma nulla vale contro l’unione abituale delle idee, non fanno che rinserrarsi sempre di più; sulle molli fibre del cervello è fondata la base incrollabile dei più saldi imperi”. (J. M. Servan, Discours sur l’administration de la justice criminelle, 1767).

L’analisi economica marxista come base per comprendere la crisi del capitale

La contraddittorietà del modo di produzione capitalistico viene vista dai nostri trattatisti come conseguenza diretta della contraddizione tra valore d’uso e valore di scambio. Infatti, gli oggetti “utili” possono essere prodotti solo come merci. L’oggetto “merce” è visto contemporaneamente come unità di due opposti, unità di valore d’uso e di valore di scambio. Però, mentre il valore d’uso è sempre qualcosa di concreto (una utilità), sia considerandolo dal punto di vista individuale del consumo che dal punto di vista generale del lavoro, il valore di scambio è astratto, fondato su di una mera logica dell’equivalenza. Essi scrivono: «Gli oggetti socialmente utili possono essere prodotti solo in quanto merci, mezzi di valorizzazione del capitale, di cristallizzazione di valore e plusvalore. Quella tra valore d’uso e valore di scambio è quindi contraddizione, unità di opposti fondamentale del modo di produzione capitalistico, determinazione essenziale della contraddizione più generale tra forze produttive e rapporti di produzione. In essa il ruolo dominante è svolto dal secondo termine, il valore di scambio» (p. 100). Questa “unità di opposti”, però, proprio perché osservata nella prospettiva di una “divaricazione contraddittoria” fa uscire fuori il motivo per cui il ruolo dominante al suo interno è svolto proprio dal valore di scambio. Ciò dipende dal fatto che viene dato per scontato il ruolo del valore d’uso e del proprio fondamento (l’utilità). Continua il Trattato: «Lo sviluppo delle forze produttive determina, da una parte una produzione su scala sempre più ampia di valori d’uso e, contemporaneamente, una riduzione del tempo di lavoro necessario alla loro produzione, quindi del valore di scambio in essi incorporato (poiché il valore di scambio di una merce è dato dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrla). Sinteticamente: mentre il valore d’uso tende, teoricamente, all’infinito, il valore di scambio tende a zero» (p. 100). Ma questa ipotesi implica una equivalenza tra insieme dei bisogni, che in quanto sede dell’utilità si trova a costituire il fondamento del valore d’uso, insieme del lavoro sociale astratto su cui si basa il valore di scambio.

Nulla ci viene detto in questa analisi sulla reale collocazione storica del sistema astratto dei bisogni e quindi sulla storicizzazione del valore d’uso. Questo sembra restare sempre fedele a se stesso, crescere col crescere della produzione, non darsi pensiero di quanto succede sul terreno dello scontro di classe e di quanto il potere possa fare per manipolarne la reale consistenza in termini di utilità.

Eppure lo stesso Marx aveva insistito su questo argomento, parlando del “carattere storico-specifico” del valore d’uso, come i trattatisti notano di passaggio a p. 36, ma la cosa non viene sviluppata sufficientemente.

Oggi sappiamo che il sistema astratto dei bisogni e il concetto di utilità sono stati stravolti dalla dimensione produttiva di pace sociale. Presupporre – come fanno i nostri trattatisti – una divaricazione sulla crescita differenziata del valore d’uso e del valore di scambio, significa idealizzare in astratto un rapporto che subisce in concreto modificazioni ben precise, e ciò perché lo scambio, così come viene preso in considerazione dall’economia marxista, si basa comunque sul presupposto dell’utilità che viene razionalizzato nel corso dello scambio stesso.

La misura del livello di incomprensione di questo problema è data – nel lavoro dei nostri entomologi – dalla funzione che essi assegnano allo Stato nei confronti del capitale. Essi parlano ancora di Stato come “capitalista reale”, ripetendo la tesi del “capitalista complessivo”, ma non si rendono conto che la visione dello Stato come “strumento” del capitale tende a tramontare, comportando, nel corso stesso dello svolgimento di questo tramonto, tutta una serie di profonde modificazioni nei rapporti di produzione e nelle contraddizioni che ne derivano. Su questo problema essi scrivono: «Le condizioni di relativa autonomia che sul piano formale ha sin qui caratterizzato il rapporto tra capitalista privato e personale politico statale (tanto a livello del sistema dei partiti, quanto a quello più profondo dell’apparato amministrativo) perde la sua valenza per lo Stato in quanto capitalista reale. Qui, la dipendenza sostanziale del politico dall’economico, rivelandosi anche nella forma, disegna una diversa simmetria nel soddisfacimento degli interessi particolari e costruisce un dualismo aperto agli sviluppi più contraddittori [...]. L’intervento dello Stato nell’economia è una necessità indotta dal processo di accumulazione capitalistica e dalle contraddizioni sociali che esso genera a partire da un dato grado del suo sviluppo. L’accrescersi di questo intervento, indica l’aggravarsi degli antagonismi che minano il modo di produzione capitalistico e lungi dal risolverli li diffonde e li proietta a tutti i livelli e in tutti gli interstizi della formazione sociale. L’obiettivo di neutralizzare le crisi cicliche che l’intervento diretto dello Stato nell’economia si propone, ha come effetto l’esportazione della crisi nello Stato. Questa dialettica perversa, mentre spinge verso esiti sempre più totalitari, contribuisce a creare le condizioni economiche, sociali e politiche per una trasformazione rivoluzionaria» (p. 217). Emergono chiaramente alcuni punti che confortano la nostra tesi: i trattatisti partono da una anacronistica separazione tra politico ed economico, cioè da una mai perfettamente percepibile autonomia (sia pure relativa) dello Stato, ammettono, al massimo, una funzione capitalistica oggettiva dello Stato, ma separata dal resto della produzione economica, parlano di un intervento dello Stato nell’economia e concludono che ciò viene a perturbare una situazione di già contraddittoria in se stessa, aumentandone la contraddittorietà e spingendo avanti gli antagonismi fino alla disgregazione del processo di produzione capitalistico. Ma come questo avviene non è dato saperlo. Perché l’intervento dello Stato debba causare un aumento delle contraddizioni e un aumento del totalitarismo, nemmeno questo è detto. Forse che lo Stato “autonomo” (ma quando mai è esistito uno Stato del genere) non si può definire uno Stato totalitario? E che cosa si deve considerare “Stato totalitario”, la Germania di Hitler o l’URSS di Stalin? Si tratta di affermazioni di principio che vogliono creare nel lettore la fiducia che il processo di incremento delle contraddizioni sia scientificamente un fatto oggettivo. Tutto qui.

È chiaro che partendo da questi presupposti non si esce dalla dimensione mistica del processo rivoluzionario, dall’imposizione autoritaria di una “oggettività” che tale non è. Personalmente riteniamo che il processo produttivo (o di valorizzazione) sia un tutto unico all’interno del quale, posti su di un piano di interrelazione, si collocano due livelli produttivi: il livello della produzione economica e il livello della produzione di pace sociale. Riteniamo anche che questo secondo livello (quello che vede agire in prima persona lo Stato), abbia una maggiore omogeneità e quindi concorra non ad accelerare (come dicono i nostri teologi) ma ad attenuare le contraddizioni del processo produttivo nel suo insieme.

Ma torniamo al nostro problema del rapporto tra valore d’uso e valore di scambio. Scrivono i trattatisti: «L’opposizione valore d’uso-valore di scambio ha, quindi, una dinamica divaricantesi, che costringe il modo di produzione capitalistico a uno sviluppo sempre più squilibrato. Una prima considerazione. È evidente, da quanto detto, che più il capitalismo si sviluppa più si pone per la borghesia la necessità di controllarne, regolarne, le contraddizioni, nello stesso tempo, però, ciò si manifesta sempre più chiaramente come un sogno, una utopia che trova nella “squilibrata realtà” la sua “bronzea” inevitabilità. Questa “dinamica divaricantesi”, ha la sua espressione più profonda nella legge fondamentale dello sviluppo capitalistico: nel divenire dell’accumulazione aumenta la composizione organica del capitale complessivo, cioè il capitale costante (macchine, materie prime, ecc.) – il lavoro morto – sostituisce sempre più il capitale variabile (gli operai) – il lavoro vivo» (p. 100). Le cose non possono stare ovviamente così. Al di là di questa visione dolcemente deterministica, si colloca una diversa relazione del rapporto contraddittorio tra valore d’uso e valore di scambio. Tutto il vastissimo discorso della trasformazione del dominio del capitale parte sostanzialmente da questo, come pure il discorso sul rapporto tra livello della produzione economica e livello di produzione di pace sociale. Il fondamento metafisico del valore d’uso, inserito all’interno dell’oggetto “merce” come suo statuto essenziale e cumulabile all’infinito, viene svelato proprio nella fase che stiamo vivendo, in cui l’intervento del secondo livello produttivo, quello diretto alla produzione di pace sociale, genera tutta una profonda modificazione del “sistema dei bisogni”. Non comprendere questa modificazione in corso significa chiudere gli occhi davanti alla “storicizzazione” del valore d’uso e alla sua possibile fluttuazione (e diminuzione) a seguito delle modificazioni dei rapporti di produzione (nel loro insieme). Significa imporre il valore d’uso, e quindi il rapporto con l’utilità, come qualcosa di oggettivo, quindi di razionale e di concreto, quindi di scientifico. Un ulteriore modo per terrorizzare intellettualmente qualsiasi intenzione contraddittoria.

Lo stesso statuto teorico della merce andrebbe pertanto sviluppato anche per il bisogno. Oggi il capitale produce bisogni come produce merci. Una volta comprendere questo non era possibile, oggi non comprenderlo può diventare delittuoso. Ancorare la realtà al valore d’uso nella speranza che l’utilità dia il fondamento concreto di cui un’analisi ha bisogno, di più: partire da questo per assegnare tempi e scadenze ineluttabili alla rivoluzione, può diventare operazione illusoria e mistificatrice. Il bisogno non è più articolato direttamente col soggetto singolo, al contrario si è staccato da quest’ultimo per diventare oggetto, a sua volta, di manipolazione dell’attività produttiva in senso lato. Si capiscono quindi i pericoli che si nascondono dietro affermazioni come: «Nello stadio del dominio reale del capitale, la logica di sviluppo (condizione, forme, settore di applicazione) del macchinario, come dell’applicazione tecnologica della scienza, è tutta interna al processo di valorizzazione. Essa risponde alla duplice esigenza di ridurre incessantemente il tempo di lavoro necessario, e di assumere il controllo sui lavoratori. L’aumento della forza produttiva del lavoro e la riduzione del lavoro necessario a un minimo è la tendenza necessaria del capitale [...]. La dinamica divaricantesi tra valore d’uso e valore di scambio nella massa di merci prodotte [...] è alla base della crisi generale storica del modo di produzione capitalistico [...]. La barriera insuperabile contro la quale il capitale tende a schiantarsi, fissa anche, necessariamente, i contenuti della rivoluzione proletaria. Questa linea di frontiera, questo limite ultimo del movimento del capitale, questo punto d’avvio della rivoluzione nell’epoca della crisi generale-storica del modo di produzione capitalistico, Marx li deduce spingendo al limite l’analisi teorica della tendenza» (p. 58).

Come altre categorie economiche il binomio bisogno-merce (corrispettivo al binomio valore d’uso-valore di scambio) viene considerato come una “unità di opposti”. La cosa non è un semplice espediente gnoseologico, o un modo tipicamente idealista di superare l’ostacolo di due cose che si contrappongono. Si tratta di un vero e proprio passaggio dalla “possibilità” alla necessità della crisi.

Ma andiamo con ordine. Consideriamo la cosa nel suo significato generale, cioè quello della relazione tra due oggetti (o categorie, o altro) che si contrappongono in quanto contrari. Si ha un primo livello di un’analisi relazionale che non consente il passaggio a livelli successivi, quali sono quelli in cui viene affermata la necessità di un sempre più ampio divaricarsi del contrasto stesso. Affermare che l’uguaglianza pura e semplice di due oggetti (o categorie) è un’ipotesi astratta e che in realtà non si verifica mai nulla del genere, non ci dice nulla di nuovo, o almeno nulla di diverso di quello che una certa critica a Hegel ci aveva detto fin dal tempo di Kierkegaard. O si dice una cosa estremamente stupida, come a esempio che l’interazione consente all’oggetto di trovare il proprio complemento nell’altro, oppure si va alla ricerca di una funzionalità dei due poli, ciascuno rispetto all’altro. Ma quest’ultima ipotesi finirebbe dritta nelle nebbie dell’interclassismo o del revisionismo. L’economia liberale, ad esempio, cercava una volta di dimostrare che il capitalista e l’operaio devono andare d’accordo perché si completano a vicenda. Invece, e giustamente, proprio per uscire fuori dalla tautologia, e proprio per evitare il pericolo di una funzionalità reciproca tra i contrari, il marxismo ha fatto ricorso al concetto di contrari che si escludono a vicenda. Ma questo fatto spiega in che modo si debba leggere il rapporto tra contrari, quindi ci fornisce un elemento di analisi gnoseologica. La sua applicazione allo svolgimento dei rapporti conflittuali della società, allo svolgimento del rapporto di classe, non è consequenziale, o almeno non lo è se non si tiene conto e non si spiega in che modo i termini stessi del contrasto si storicizzino a loro volta, evolvendosi e contrapponendosi in figure che non sono mai identiche o ripetitive.

Il Trattato recita: «[...] ciascuna categoria dell’economia politica, essendo un rapporto, un’unità di opposti, contiene in sé la possibilità della crisi. È il movimento delle categorie economiche, considerate nella loro interdipendenza e nella loro connessione, a tradurre questa possibilità in necessità, dimostrando che, potendo lo sviluppo capitalistico avvenire solo attraverso successivi momenti di crisi, il modo di produzione in cui esso si inscrive ha un carattere storico, transeunte, come storico e transeunte è il carattere dei concetti che ne definiscono le leggi e le proprietà» (p. 71). E quindi conclude: «Lo sviluppo che seguiremo [nell’analisi], pertanto, sarà uno sviluppo logico, non direttamente uno sviluppo storico: la dimostrazione storica dell’inevitabilità della crisi della produzione capitalista non comporta, né riflette, l’inevitabilità del suo crollo immediato nella realtà, in quanto tra il modello teorico di Marx e la realtà concreta esistono scarti che, solo con una serie di mediazioni intermedie successive, potranno essere colmati» (p. 72). A questo punto non si capisce più bene cosa si deve fare, almeno da parte di un lettore che voglia trovare nella lettura delle tesi del Trattato un’indicazione per l’azione. Il meccanismo dialettico era stato fatto intervenire per mettere ordine nella contraddizione di fondo, cioè nella categoria economica, adesso viene fatto intervenire per mettere ordine nel “movimento” della stessa categoria economica. Di più, con un’operazione di tipo engelsiano si stacca lo “sviluppo logico” dallo “sviluppo storico”, finendo per considerare il primo una versione “pulita” del secondo, cioè con l’eliminazione di tutte quelle contingenze che appunto caratterizzano la storia. Ma questo modo di procedere conduce ancora una volta o alla mera operazione gnoseologica di tipo neo-kantiano o alla scomparsa del “movimento” delle stesse contraddizioni, ridotte a puri momenti del pensiero.

Ma i nostri trattatisti intravedono il pericolo e vi pongono rimedio provvedendo a distinguere la teoria della crisi dalla teoria del crollo immediato del capitalismo. Sbarazzano pure il campo di ogni parentela con le conseguenze attendiste del revisionismo e con le attese elitistiche del bordighismo, e concludono: «La teoria marxista della crisi, nella misura in cui nega la possibilità di uno sviluppo illimitato ed equilibrato dell’accumulazione capitalistica, disperde le nebbie delle concezioni che deducono il comunismo dall’ingiustizia e dalla malvagità del capitalismo e dalla pura volontà rivoluzionaria del proletariato. In questo senso, la teoria marxista della crisi è anche, e soprattutto, la teoria della necessità del comunismo, della sua possibilità oggettiva» (p. 72).

Per meglio fondare questa possibilità oggettiva i nostri entomologi si rivolgono alla ricerca di una causa oggettiva della crisi e la individuano nella diminuzione del saggio di profitto. Essi scrivono: «L’accumulazione capitalistica avviene attraverso un aumento continuo della composizione organica del capitale variabile: il rapporto fra la parte costante (c) e la parte variabile (v) si sviluppa con un movimento decrescente della parte variabile rispetto a quella costante. Si giunge, così, a una diminuzione del saggio generale di profitto, in quanto il plusvalore cresce sempre meno del capitale complessivo (c + v). In altre parole, una massa determinata di lavoro vivo (gli operai) mette in azione, con lo sviluppo della produttività sociale, una massa di lavoro morto (macchine, materie prime, [...]) sempre maggiore. Poiché il saggio di profitto è calcolato sul rapporto fra il pluslavoro (plusvalore) prodotto dalla forza-lavoro ed il capitale complessivo messo in opera, esso decresce con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico [...]. Quanto più si sviluppa l’accumulazione, tanto più il saggio del profitto cade, in quanto la massa di profitto, pur potendo aumentare in assoluto, aumenta in maniera insufficiente a consentire la valorizzazione del capitale sempre crescente sulla base precedente: “l’estensione della produzione e la valorizzazione” entrano in conflitto» (pp. 72-73). Quanto detto costituisce una esposizione elementare (e superficiale) della legge marxiana della caduta del saggio di profitto. Diciamo subito (cosa che i nostri trattatisti sanno benissimo) che questa legge è uno dei punti più controversi dell’economia marxista e che anche nello stesso Capitale (tra l’altro l’inizio del cap. XIII del Libro III) non mancano passi in cui, ad esempio, il saggio di plusvalore viene estrapolato come costante, cosa questa che porta a concludere che se il saggio di sfruttamento è costante, il salario reale aumenta man mano che aumenta la produttività, cosa che contraddice con le condizioni di fondo della legge della caduta del saggio di profitto. Ma anche volendo mettere da parte i casi in cui Marx parla di questo saggio di plusvalore costante, non è vero che si possono considerare “a parte”, cioè come elementi di “controtendenza” le condizioni che determinano un aumento della produttività e quindi un aumento del saggio di plusvalore. In altri termini, è vero fino a un certo punto che il saggio di profitto decresce in quanto è “calcolato sul rapporto fra il pluslavoro (plusvalore) prodotto dalla forza-lavoro ed il capitale complessivo messo in opera”. La cosa può essere inversa – sia pure relativamente a un incremento della massa assoluta del plusvalore acquisito – e quindi le prospettive sono due: o la composizione organica del capitale e il saggio di plusvalore sono semplici variabili con la conseguenza che la variazione del saggio di profitto diventa non prevedibile, o il meccanismo in se stesso non è così oggettivo come si cerca di spacciarlo, sia pure con la migliore buona intenzione di questo mondo.

In molti casi la stessa considerazione delle oscillazioni del capitalismo porta a concludere che il saggio di profitto potrebbe cadere solo davanti a una ritardata o distorta capacità produttiva del lavoro, fermo restando il progressivo aumento della composizione organica del capitale. In altri termini l’aumento della produttività del lavoro fa diminuire il valore dei mezzi di produzione e capovolge la composizione del capitale. Ma ciò non è che una ipotesi di pari logicità o illogicità, a seconda delle preferenze, non è né una legge né un punto fermo su cui basare una condotta rivoluzionaria che si prefigga la distruzione del capitale.

Ma i nostri teologi mostrano bene di quale corda è fatto il loro cappio. Essi continuano con un tentativo di trasferire il ragionamento sul piano di una legge dell’aumento della composizione organica del capitale che non va riguardata solo dal lato del valore ma anche dal lato della materia, cioè dal punto di vista quantitativo. Essi scrivono: «A un determinato livello dell’accumulazione, quindi, la scala della produzione è data tecnicamente: poiché, per la sua espansione, è necessaria una quantità definita di capitale, la grandezza del plusvalore che si richiede per consentire la valorizzazione non è arbitraria, ma sottoposta a vincoli tecnici» (p. 73). La cristallizzazione del rapporto si traduce però in una ben misera prospettiva. Crisi del capitale come crisi di sovrapproduzione. L’involucro economicistico si chiude e rende sempre più impenetrabile il modulo interpretativo marxista alle dinamiche attuali dello scontro di classe.

Appare evidente, a questo punto, il progetto contenuto nell’analisi economica svolta nel Trattato: trovare nella crisi del capitale il fondamento oggettivo per la tattica e la strategia rivoluzionaria. Le “controtendenze” vengono riassunte all’interno del meccanismo produttivo ricorrendo alle tecniche della dialettica applicate come riassorbimento e superamento dei contrari. «Infatti, le “controtendenze” non sono elementi introdotti dall’esterno nel modello, ma elementi propri del modello; sono gli “anelli di congiunzione” che consentono l’ascesa dal piano della teoria a quello della storia. In sostanza, il modello marxiano è fondato sulla dialettica e solo con la dialettica è possibile la sua corretta interpretazione. Soltanto in tal modo risulta comprensibile come fattori che attenuano la tendenza all’aggravarsi della crisi e che consentono il suo provvisorio superamento, siano, allo stesso tempo, veicoli che conducono di nuovo e più rapidamente l’economia capitalistica nella direzione dello sfacelo» (p. 75).

Analisi economica marxista e costruzione del Partito Combattente

Il fondamento fornito dall’analisi economica marxista è indispensabile per una metodologia autoritaria d’intervento nel processo rivoluzionario, una metodologia che si indirizzi alla costruzione del partito. Trattando questo problema il Comitato Giuliano Naria in un intervento pubblicato sugli “Atti preparatori al Convegno sulla repressione”, Milano 30-31 maggio 1981 scrive: «La negazione della base materiale, economica, della rivoluzione proletaria, la sua riduzione a una generica lotta per una generica libertà ha reso nebuloso e ha vanificato nella coscienza di molti compagni ogni riferimento materiale, collettivo, di classe per la strategia e la tattica. Ha cioè tolto al singolo militante un termine di riferimento, un metro con cui decidere, verificare e misurare la sua attività. L’avanguardia della lotta del proletariato decide e verifica la sua attività in riferimento ai movimenti del proletariato, sa che l’elemento decisivo dell’esito della lotta è la classe, che il suo compito è servire alla mobilitazione e all’organizzazione della classe e delle masse popolari. Tutto ciò che è coscienza immediata dell’avanguardia trova nella classe il suo termine di paragone e la sua verifica. Adeguarsi alle leggi del movimento economico della società e alle leggi secondo le quali questo movimento materiale si riflette nelle coscienze è ben diverso che proclamare rivoluzionaria ogni coscienza immediata degli individui. La negazione del carattere oggettivo e in definitiva necessario delle leggi del capitalismo comporta la convinzione che l’evoluzione dei rapporti politici e sociali dipenda dalle arbitrarie decisioni di individui, che non vi sia prima e come fonte delle decisioni e delle aspirazioni degli individui una realtà di rapporti produttivi sul cui svolgimento, nel modo di produzione capitalista, la volontà e le scelte e l’intelligenza dei singoli capitalisti e di gruppi di capitalisti non può in definitiva nulla. Ne segue che la lotta tra le classi è ridotta a lotta tra intelligenze, tra politiche. Allora nel momento in cui la borghesia coglie dei successi, ciò sembra la sanzione della sua vittoria almeno per questa fase. Negare la tendenza inevitabile della società borghese alla crisi economica e alla distruzione come soluzione della crisi e sostenere che la crisi è una manovra oculata dei capitalisti per mantenere il loro dominio, comporta non capire ciò che costituisce la base della possibilità di vittoria del proletariato, e quindi lasciare via libera allo scoraggiamento e alla diserzione» (p. 3). Appare chiaro, in questo testo, il ruolo strumentale che svolge l’analisi economica in momenti di riflusso come quello che attraversiamo [1981]: tra le tante altre cose fornisce una fede oggettiva che serve per evitare lo “scoraggiamento”, dando ai militanti l’illusione che comunque vadano le cose esiste un potente mezzo “oggettivo” che lavora in modo sotterraneo per la rivoluzione. Questa concezione dell’“agente segreto proletario” che sabota dall’interno il processo di sfruttamento è uno dei tanti miti che servono per incrementare illusioni e false coscienze. La lotta rivoluzionaria è, prima di ogni cosa, lotta cosciente dell’individuo sfruttato che agisce volontariamente ed in prima persona contro gli strumenti che lo opprimono e contro coloro che mettono in moto questi strumenti, e continua la sua azione rivoluzionaria dovesse avere contro anche tutto il mondo e tutte le leggi pretese “oggettive” del capitalismo. Che un’analisi economica, più o meno fornita di dati obiettivi, possa fornire indicazioni probabili riguardo una tendenza contraddittoria o irrazionale visibile all’interno del processo produttivo stesso, ciò non può che tornare utile in quanto strumento aggiuntivo agli strumenti essenziali e primari della lotta rivoluzionaria che sono la volontà del singolo e la sua coscienza di sfruttato. La riduzione della coscienza rivoluzionaria a un punto di riferimento oggettivo, per cui quella diventa il “rispecchiamento” di questo, fornisce il mezzo principale di ogni condizionamento partitico e autoritario. In nome della scientificità del dato di fatto, dell’analisi svolta una volta per tutte, dell’autorità del lavoro di Marx e dell’autorità dell’esegesi del partito, si ricaccia indietro la volontà rivoluzionaria, la volontà di attaccare e sconfiggere lo strapotere del capitale e dello Stato.

Sottomettersi alle presunte leggi del movimento economico della società si traduce inevitabilmente in un modellamento della coscienza rivoluzionaria sulla forma (presunta) del movimento suddetto, in una limitazione gravissima della libertà e della creatività rivoluzionaria.

Infine, non si tratta di negare la tendenza alla contraddizione intrinseca al capitale, quanto al contrario di negare che questa tendenza si trasformi in un ben preciso movimento contraddittorio che dia origine a forme di crisi ben circoscrivibili, senza che nello stesso tempo non si producano nelle variabili che costituiscono la contraddizione stessa del capitale, modificazioni che rendano necessarie forme d’intervento diverse. In altri termini, non vogliamo dire – come gli apologeti del capitalismo di solito fanno – che il capitale viaggia sicuro verso la sua ripetizione all’infinito, verso la sua rigenerazione perpetua, perché figlio astorico della convivenza umana. Vogliamo dire, al contrario, che il capitale è afflitto da contraddizioni gravissime, alcune delle quali di ordine produttivo, ma che queste contraddizioni vengono, di volta in volta, oltrepassate dallo stesso capitale sia aggiustando i rapporti di produzione (a tutti i livelli) sia spostandosi dal livello della produzione economica al livello della produzione di pace sociale.

Dalla centralità della classe operaia alle “Venti tesi finali”

Nella prima parte del presente lavoro avevamo visto la funzione della classe operaia all’interno del progetto politico sottinteso al Trattato nel suo insieme (pp. 114-117). L’oggettività rivoluzionaria della classe operaia corrisponde all’oggettività del meccanismo della produzione e del meccanismo della crisi. «Il suo [della classe operaia] essere soggetto rivoluzionario coincide totalmente con l’oggettività dei rapporti di produzione di cui è espressione e creazione. Non è rivoluzionaria solo perché lotta, ma perché riproduce continuamente le condizioni di questa lotta. All’operaio è subito chiaro che esiste una dicotomia tra lavoro salariato e capitale, tra se stesso e il capitalista. Ma da questa constatazione non deriva immediatamente la comprensione dei rapporti politici e sociali tra le classi, non deriva la coscienza della contraddizione tra borghesia e proletariato. Alla coscienza della dicotomia tra lavoro salariato e capitale corrisponde una coscienza trade-unionistica; alla coscienza della contraddizione borghesia-proletariato corrisponde la coscienza comunista. Ma quest’ultima non discende dalla semplice esperienza di fabbrica e di lotta economica, la si può conquistare solo attraverso il rapporto della classe operaia con le altre classi e strati, attraverso il rapporto-scontro con la borghesia e il suo Stato solo attraverso la lotta politica rivoluzionaria. La coscienza di classe si distingue dunque dalla coscienza dell’antagonismo tra lavoro salariato e capitale, perché in quest’ultimo caso, l’operaio non difende che se stesso in quanto merce forza-lavoro e si difende ancora secondo il diritto borghese, il quale riconosce che la merce deve essere venduta al suo valore. Ma già nella fabbrica il rapporto di classe, in quanto rapporto complessivo tra le classi, è un rapporto politico, e la lotta operaia che parte dalla fabbrica contiene in sé la potenzialità della sua trasformazione. Una lotta generale contro il capitalismo non può che partire dalla sfera dei rapporti di produzione» (p. 161). Siamo davanti a un’analisi chiarificatrice sul ruolo della classe operaia. Gli elementi principali di questa analisi sono: coincidenza tra rapporti di produzione ed essenza rivoluzionaria della classe, riproduzione delle condizioni di lotta da parte della classe, determinazione storica dell’essenza rivoluzionaria della classe a seguito di una certa distribuzione dei rapporti produttivi, chiara visione da parte dell’operaio (e della classe) del confronto-scontro tra capitale e lavoro, superamento della coscienza semplicemente sindacale attraverso la lotta politica, potenzialità rivoluzionaria della sfera produttiva che contiene in sé la possibilità del superamento del capitalismo. Come tutto ciò possa essere preso sul serio resta un mistero. Quasi nessuna di queste affermazioni, che pure appaiono collegate tra di loro da una logica stringente, ha un fondamento concreto nella realtà delle cose, quasi sempre si tratta di schemi teorici – ricavati dall’analisi marxista – su cui si pretende fare entrare a forza fatti e atteggiamenti, allo scopo di far vedere come razionale e determinata una realtà che non lo è per nulla. Cosa significa l’“essere soggettivo rivoluzionario” della classe operaia? Come mai si può partire da questo concetto (che andrebbe dimostrato e che quindi si dovrebbe trovare alla fine della catena delle deduzioni) per far partire il ragionamento? Se avanzate un’obiezione del genere, il marxista vi risponde subito che questo modo di procedere è tipico della dialettica che tiene conto della totalità nel disporre i concetti e non si lega agli schemi borghesi della logica razionale. Giusto. Ma allora questi schemi borghesi della consequenzialità razionale non possono essere fatti valere come fondamento dell’analisi e, nello stesso tempo, come elemento di terrorismo intellettuale nei confronti di coloro che avanzano dubbi e perplessità. L’analisi che doveva servire a dimostrare il perché della centralità operaia nel processo rivoluzionario, come si vede, parte proprio dal concetto che la classe operaia è un “soggetto rivoluzionario”, con la qual cosa non si spiega nulla ma si dà l’impressione fortissima che tutto è chiaro e a posto nella catena delle deduzioni logiche. Altra affermazione gratuita: la “riproduzione” da parte della classe operaia delle condizioni della lotta. Ciò è valido solo ammettendo che è proprio la classe operaia a costituire l’essenza stessa del capitale, il fondamento primo e indissociabile dello sfruttamento. Senza classe operaia non ci sarebbe capitale. In questo senso non c’è dubbio che la classe operaia riproduce le condizioni del capitalismo. Ma si tratta di una tautologia: come dire che la classe operaia è la classe operaia. Evidentemente il senso che i nostri entomologi vogliono dare all’affermazione che la classe operaia “riproduce” le condizioni della lotta è che essa le riproduce conflittualmente, cioè, non solo collaborando, ma anche contrapponendosi al capitale. Ora ciò non è dimostrabile, anzi molte prove di fatto, molte tragiche considerazioni che si possono fare tutti i giorni, porterebbero alla conclusione che non solo la classe operaia costituisce la “base produttiva” del capitale (cosa quest’ultima ormai pacifica) ma tende a smarrire la propria conflittualità, o comunque tende a non superare il livello di coscienza della conflittualità che si riassume nel sindacalismo. Fenomeno che invece si manifesta diversamente per quanto riguarda altre componenti della classe degli sfruttati (sottoproletariato, emarginati, criminalizzati e così via), problema su cui i nostri trattatisti si guardano bene dal fermarsi. Che poi il superamento della coscienza sindacale possa realizzarsi attraverso la lotta politica, questa è un’affermazione che torna utile solo alla costituzione del partito e non si discosta per nulla dalle chiacchiere di Gramsci sulla funzione del partito come leva che consente il passaggio dal livello sindacale della lotta al livello politico e quindi rivoluzionario. Sono tutti luoghi comuni del più bieco strumentalismo partitico che non meriterebbero un approfondimento, o una critica vera e propria, ma che vengono qui analizzati perché indicativi sia del processo di mistificazione che viene posto in atto nel Trattato, sia del metodo tipico dell’autoritarismo marxista.

Su questa stessa direzione si pone il passaggio tra crisi storica del processo di valorizzazione del capitale e crisi dello Stato o crisi del dominio politico. Le contraddizioni del capitale, secondo i nostri entomologi, si riflettono pari pari sullo Stato. Certo non come semplice contagio, non come semplice relazione di causa ed effetto: «Tra crisi e crollo c’è di mezzo, infatti, la complessa vicenda della lotta di classe, la concreta capacità del proletariato di organizzarsi in un movimento politico rivoluzionario sapiente e deciso nello sfruttare ogni contraddizione al fine della conquista, della distruzione, della macchina statale borghese. Per motivi diversi, conquista e distruzione sono processi di lungo periodo che si snodano dentro e contro le articolazioni dello sfruttamento e del dominio borghese, e non invece in modo “indipendente” e “separato” da esse. Dentro il rapporto di produzione e contro la valorizzazione del capitale. Dentro la famiglia e la scuola e contro l’interiorizzazione dei rapporti sociali borghesi. Dentro ogni istituzione ed ogni piega della formazione sociale ormai sussunta nei meccanismi di dominio dello Stato e contro ogni istituzione di controllo, dominio e disciplina dei comportamenti proletari. Questo è il percorso di guerra, guerra di classe, sul quale crescono il potere rivoluzionario e la forza della vita, e cioè le manifestazioni effettive dei bisogni vitali, non già di singoli militanti o di gruppi particolari, ma dell’intera classe. Ed è proprio qui, sul terreno dell’identificazione di questi bisogni e dei rapporti di produzione in gestazione, che si devono creare le condizioni materiali del loro appagamento, che dobbiamo costruire, nella pratica della guerra, e dell’organizzazione di ciascuna figura proletaria per la guerra, il programma politico di transizione al comunismo. Programma operaio e proletario, programma comunista!» (p. 195). Il lavoro rivoluzionario viene visto come qualcosa che agisce all’interno dei meccanismi produttivi, servendo al massimo da acceleratore dell’oggettiva tendenza disgregatrice. È l’intera classe operaia che si colloca al centro del movimento rivoluzionario e che dichiara guerra ai rapporti di produzione capitalisti. Ed è essa classe che costruisce e impone il programma rivoluzionario comunista. Come ciò può avvenire? Per i nostri teologi non ci sono dubbi: sulla scorta del pensiero del più metafisico Marx essi affermano che qualsiasi classe che vuole conquistare il potere deve cominciare con la conquista del potere politico. A questa regola non fa eccezione nemmeno il proletariato, per quanto il millenarismo marxista assegni ad esso un compito ben diverso di quello di una “qualsiasi classe”, e precisamente il superamento e la distruzione di ogni forma della vecchia società e di ogni forma del dominio dell’uomo sull’uomo.

Il Trattato recita: “La tesi è precisa: il percorso rivoluzionario verso la conquista del potere politico si identifica con la capacità pratica del proletariato di demolire, spezzare la macchina militare e burocratica dello Stato. Questa è la condizione preliminare! Il secondo concetto è quello della dittatura rivoluzionaria del proletariato. Riaffermare anche oggi la centralità di questa tesi non è questione di veteromarxismo, come, d’altro canto, negarla non costituisce uno sviluppo creativo del marxismo, ma solo il suo abbandono» (pp. 197-198). Come si vede le tesi dell’autoritarismo marxista sono estremamente consequenziali l’una con l’altra. Dal fondamento economico e dal meccanismo gnoseologico della dialettica, si arriva fino alla conquista del potere politico e alla dittatura esercitata dal partito. Ma qui siamo già all’interno delle “Venti tesi finali”.

La fase attuale che attraversa la situazione italiana nel suo complesso viene definita come fase di transizione, determinata sia dagli impensabili sviluppi della crisi del capitale (nei termini più o meno esaminati sopra), sia dall’azione che la classe rivoluzionaria, cioè il proletariato metropolitano svolge. Questa azione è vista come tendenza verso la costituzione del Partito Combattente e sviluppo di un sistema di Potere Rivoluzionario.

Il radicalizzarsi del proletariato metropolitano è posto come effetto della crisi. «Gli organismi di massa rivoluzionari sono sorti e sorgono in conseguenza del divenire oggettivo della crisi-ristrutturazione-internazionalizzazione del capitalismo, che modifica la composizione della classe e spinge specifici settori del proletariato metropolitano a vivere in modo sempre più accentuato un rapporto antagonistico con il modo di produzione e con lo Stato. Dall’altro canto, a questo movimento oggettivo, si è intrecciata l’iniziativa di Propaganda Armata che negli ultimi dieci anni le Organizzazioni Comuniste Combattenti hanno sviluppato incessantemente per radicare nel proletariato la coscienza della necessità e della possibilità della rivoluzione comunista nella metropoli imperialista. Oggi, questa iniziativa non è più adeguata alle nuove condizioni oggettive e soggettive, e l’avanguardia politico-militare, per qualificare la sua funzione, deve mettersi in grado di organizzare e dirigere sul terreno della lotta armata per il comunismo interi settori e strati di classe. Il salto di qualità, da Organizzazione Comunista Combattente a Partito si verifica su questo banco di prova e non tanto nel confronto diretto tra organizzazioni. O, più precisamente, questo confronto di linee politiche deve immergersi e vivere in primo luogo all’interno degli organismi di massa rivoluzionari che il proletariato metropolitano si dà per esprimere i suoi interessi, i suoi bisogni, le sue aspirazioni, il suo potere» (p. 270). Su che cosa si basi la valutazione di questo “divenire oggettivo della crisi” che consente di identificare due fasi ben distinte del processo complessivo di valorizzazione: una fase in cui era logica la propaganda armata (anzi una fase in cui sarebbe stata velleitaria la costruzione del partito) e una seconda fase in cui diventa oggettivamente palese la possibilità di questa costruzione, non è dato saperlo. Sappiamo solo che lo sviluppo della crisi modifica “la composizione di classe” e spinge il proletariato metropolitano verso l’“antagonismo”. Sono queste modificazioni di fatto che rendono possibile il salto di qualità. Infatti, una volta che queste modificazioni agiscono all’interno del processo di valorizzazione si ha che larghi strati di classe risultano facilmente organizzabili verso la lotta armata. Oppure si potrebbe dire il contrario: che l’organizzazione della lotta armata spinge sempre più ampi strati di classe a un antagonismo più aperto. Partendo dalle premesse del Trattato non è possibile uscire da questo dilemma se non con affermazioni che suonano come tanti giudizi “a priori”.

Procedendo abbiamo che la crisi ha determinato alcuni comportamenti antagonisti della classe, pervenendo poi a un alto livello oggettivo di qualità. Questo salto di qualità, che da un lato consente il passaggio dalla propaganda armata al partito combattente, dall’altro consente anche una omogeneizzazione dei comportamenti antagonisti stessi in un Movimento Proletario di Resistenza Offensiva, legato dialetticamente alle organizzazioni combattenti. I nostri entomologi scrivono: «In questi anni si è andata organizzando un’area di comportamenti antagonistici che abbiamo chiamato Movimento Proletario di Resistenza Offensiva. Questi comportamenti, pur non esaurendosi in esse, hanno assunto varie forme politico-militari organizzate, e una incerta dialettica li lega alle Organizzazioni Comuniste Combattenti più consolidate. Nell’attuale congiuntura non possiamo limitarci a prendere atto di questa magmatica eterogeneità, ma dobbiamo moltiplicare gli sforzi per cogliere le tendenze destinate a crescere e quelle condannate a perire. Il criterio che ci consente di effettuare questo bilancio di esperienze è quello che abbiamo sempre adottato in tutta la nostra storia: tutto ciò che esprime movimenti reali della classe, anche se parziali, ciò che è suscitato da profonde cause oggettive, è il nuovo che cresce e si rafforza [...]. Il lavoro di massa dell’Organizzazione non deve trascurare questa dialettica, se non vuole appiattire il Movimento Proletario di Resistenza Offensiva ad una totalità omogenea, priva di contraddizioni, di movimento, di vita» (pp. 270-271). Quindi la costruzione del partito all’interno del movimento proletario deve avvenire non partendo dal presupposto che gli organismi di massa siano cinghie di trasmissione del partito, ma al contrario dal fatto che essi sono strumenti di potere delle masse. Più precisamente: «[...] gli organismi di massa rivoluzionari non vanno intesi come “organismi di partito” o “cinghie di trasmissione”, ma come strumenti di potere delle masse all’interno dei quali il Partito opera insieme ad altri militanti rivoluzionari e agli elementi più avanzati e combattivi della classe. Occorre avere sempre presente che la guerra civile è la guerra che il proletariato rivoluzionario scatena per conquistare il potere e affermare la sua dittatura. Non si tratta di “guerra comunista” né di “dittatura comunista”. I comunisti lottano non per affermare se stessi come “Partito”, ma per affermare gli interessi del proletariato e la sua dittatura» (p. 272). Qui siamo davanti a un altro dei misteri teologici di cui si fa bella mostra nel Trattato. Questi organismi di massa, questi strumenti di potere rivoluzionario, sono qualcosa che lo stesso movimento proletario fa germinare in funzione della catena di causalità dialettica che lo lega alla crisi del processo di valorizzazione. Tutti i misteri partono sempre di là. La centralità dell’analisi economica marxista per comprendere la logica (e la teologia) dell’autoritarismo stalinista deve essere tenuta presente per capire questi svolgimenti, e con ciò si possono mettere il cuore in pace tutti quei compagni anarchíci che si illudevano (e si illudono) su una certa quale asetticità (o utilizzabilità obiettiva) di questa analisi per fini realmente rivoluzionari. Tagliando la catena del loro modo di ragionare cade tutta l’impalcatura fideistica per cui, al contrario, diventa stupido pensare a un uso parziale di alcuni concetti (come quelli economici) senza farsi carico di tutta quanta l’impalcatura.

In realtà sarà proprio il partito a determinare le caratteristiche specifiche di centralizzazione degli organismi di massa che trovano origine in questo modo. Al contrario, quando succede che organismi di massa trovano origine in maniera autonoma e spontanea, per far fronte a precise situazioni rivoluzionarie venutesi a creare, allora il partito resta davanti alla porta, costretto a bussare a lungo per farsi ricevere, e quando finalmente ci riesce non fa altro che trasformare quegli organismi libertari e rivoluzionari, precisamente in cinghie di trasmissione e in mattoni per la costruzione dell’edificio della dittatura.

Queste fanfaluche sugli organismi di massa come strumenti del potere proletario, e non come strumenti del partito, sono immediatamente contraddette dal progetto avanzato con la Linea di Massa del partito che viene imposta agli organismi attraverso il Programma di Transizione al Comunismo. «Questo programma, d’altra parte, non nasce dal nulla, ma dieci anni di lotte proletarie, di critica pratica e radicale della fabbrica e della formazione sociale capitalistica, lo hanno a grandi linee già abbozzato nei suoi contenuti essenziali, che possiamo così riassumere: a) riduzione del tempo di lavoro: lavorare tutti, lavorare meno, liberazione massiccia di tempo sociale e costruzione delle condizioni sociali per un suo impiego evoluto, b) ricomposizione del lavoro manuale – e del lavoro intellettuale, di studio e lavoro, in ciascun individuo e nell’arco della vita, c) rovesciamento dell’esercizio dei poteri e del flusso di progettazione delle finalità collettive, a tutti i livelli della vita sociale, d) riqualificazione della produzione, del rapporto uomo-natura, sulla base di valori d’uso collettivamente definiti e storicamente possibili, e) ricollocazione della nostra formazione sociale secondo i princìpi di un effettivo internazionalismo proletario. Condizione di questo programma è il superamento dei rapporti di produzione capitalistici, della produzione basata sul valore di scambio. L’utopia non c’entra. Qui si tratta di un programma che, come direbbe Marx, “non lascia restare in piedi i pilastri della casa”, essendo già pienamente maturato alle sue fondamenta. Si tratta di un programma continuamente alluso dalle lotte dei soggetti proletari più coscienti che rompe violentemente con le tendenze immanenti e conservatrici dello sviluppo capitalistico e si scontra in forme antagonistiche con lo Stato. Si tratta, tuttavia, di un programma incompiuto che ricerca nella lotta rivoluzionaria la sua più matura identità. La crescita del potere proletario coincide con questa ricerca e tocca alle organizzazioni rivoluzionarie farsene promotrici. Questo è il compito decisivo dell’agire da Partito in questa congiuntura!» (p. 272). L’imposizione del programma avviene quindi attraverso una giustificazione e una prospettiva. La giustificazione è data dal fatto che il programma stesso sembra proporsi come qualcosa che è stato “elaborato altrove” ed esportato negli organismi di massa. La prospettiva è data dal fatto che il programma si pone sulla stessa linea oggettivante del processo di valorizzazione, non proponendo, in fondo, che radicalizzazioni dello stesso processo, sia pure di tale portata da farlo cadere se riuscisse ad arrivare fino in fondo. Gli scarti finali e ogni possibilità di fondo che rendono inconciliabili il Programma di Transizione al Comunismo con la situazione oggettiva di crisi del processo di valorizzazione, e quindi con la situazione storica effettiva del proletariato, vengono superati con il Programma Politico Generale di Congiuntura, che viene elaborato (questo apertamente) dal Partito. Infine, all’interno di questo Programma Politico Generale si articola un Programma Immediato. Su questo punto il Trattato specifica: «Il rapporto tra Programma Generale e Programma Immediato non è un rapporto di separazione, ma vive invece una dialettica precisa. Vale a dire che, congiuntura dopo congiuntura, il primo vive, si realizza e si concretizza nel secondo, oltre che, naturalmente, della pratica diretta del Partito, degli organismi di massa rivoluzionari e dei movimenti di massa rivoluzionari. Il programma immediato non è, come ritengono gli spontaneisti, l’immediata rappresentazione dei più urgenti tra gli interessi che ciascun settore proletario ha la necessità di risolvere. Esso esprime piuttosto quegli interessi reali, strategici, che i rapporti di potere conquistati consentono di porre all’ordine del giorno. Il programma politico immediato va dunque inteso come Programma di Potere che esprime un rapporto di potere, che ha come obiettivo il potere statale. Per questo, esso costituisce l’anima rivoluzionaria che fa vivere l’organizzazione di potere della classe, gli Organismi di Massa Rivoluzionari, oltre alla contingenza, oltre l’immediato, oltre la parzialità, collocandoli entro la dialettica decisiva tra rivoluzione e controrivoluzione» (pp. 273-274). Questa è la conclusione del Trattato di entomologia teologica. In fondo in fondo, il lungo viaggio che aveva avuto inizio con le categorie economiche e che si era svolto con alterne vicende tra le nebbie della dialettica, aveva questa destinazione: la costruzione di un programma politico immediato, o meglio, di un Programma di Potere che il Partito costruisce e impone al movimento di massa, attraverso la strumentalizzazione degli organismi di massa rivoluzionari, per sollevare quest’ultimi dalla “contingenza” e avviarli alla costruzione della dittatura di una minoranza, la costruzione del Potere Rosso. Per assolvere questo compito il Trattato ha scomodato una lunghissima analisi, cercando di dare fondamento scientifico (a suo modo) al progetto di costruzione di un partito stalinista che sì prefigge il controllo e la guida delle forze rivoluzionarie in Italia. Spetterà alle analisi e alle azioni realmente rivoluzionarie distruggere, nella teoria e nella pratica, questo progetto profondamente controrivoluzionario.

 


[Alfredo M. Bonanno (Gruppo di ricerche sulla decodificazione), “L’ape e il comunista. Critica ad un Trattato di entomologia teologica”, Parte prima, in “Pantagruel” n. 2, maggio 1981, pp. 97-120; Parte seconda, in “Pantagruel” n. 3, ottobre 1981, pp. 45-78]

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“Il formalizzarsi della ragione conduce ad una paradossale situazione culturale. Da una parte, in quest’epoca raggiunge il culmine il distruttivo antagonismo di io e natura, un antagonismo in cui si riassume la storia della nostra civiltà. Abbiamo visto come il tentativo totalitario di soggiogare la natura riducesse l’ego, il soggetto umano, a semplice strumento di repressione. Tutte le altre funzioni dell’ego, espresse da concetti e idee generali, ne sono state screditate. Dall’altra parte il pensiero filosofico, cui spetta il compito di tentare una riconciliazione, è giunto a negare o a dimenticare l’esistenza stessa di quell’antagonismo. Quella che viene chiamata filosofia supera superficialmente l’antagonismo – e lo stesso fanno le altre forme della cultura – aumentando così i pericoli della situazione. La nostra analisi è fondata in buona parte sull’assunto che se la filosofia diventerà consapevole di questi processi, tale consapevolezza potrà contribuire a invertire il corso di essi”.

(E. Fromm, La crisi della psicoanalisi)

“Diversamente dalla scienza, l’ontologia, nucleo della filosofia tradizionale, tenta di derivare l’essenza, la sostanza, la forma delle cose da una qualche idea universale che la ragione crede di trovare in se stessa. Ma la struttura dell’universo non può esser dedotta da un principio primo scoperto nel nostro stesso spirito; non c’è nessun motivo di credere che le qualità più astratte d’una cosa debbano essere considerate essenziali. Nietzsche si è reso conto di questa fondamentale debolezza dell’ontologia forse meglio d’ogni altro filosofo: ‘L’altra idiosincrasia dei filosofi non è meno pericolosa: essa consiste nel confondere le ultime cose con le prime. Essi mettono ciò che fa la sua apparizione per ultimo... il concetto supremo, cioè il più generale, il più vuoto, l’ultimo nebbioso baluginare della realtà svaporante, al principio del principio. A sua volta, questo è solo il loro modo di esprimere la loro venerazione: la cosa più alta non deve essere nata dalla più vile, addirittura non deve essere nata... Così arrivano al loro stupendo concetto di Dio. L’ultima cosa, la più tenue, la più vuota è postulata come la prima, causa assoluta, ens realissimum. Chi si sarebbe mai figurato che l’umanità dovesse prendere sul serio i disturbi mentali di morbosi ragni filatori! E ha pagato caro per averli presi sul serio!’. Perché a ciò che logicamente viene prima o alla qualità più generale deve essere riconosciuta una precedenza ontologica? L’ordinamento dei concetti in base alla loro generalità rispecchia la repressione esercitata dall’uomo sulla natura, più che la struttura di quest’ultima. Ordinando i concetti a seconda della loro priorità logica, Platone e Aristotele derivarono questo ordinamento non tanto dalle segrete affinità delle cose quanto, inconsapevolmente, da rapporti di potere. La ‘grande catena degli esseri’ platonica nasconde male la propria dipendenza dalle tradizionali concezioni della gerarchia degli dèi dell’Olimpo e quindi dalla realtà sociale della città-stato. Ciò che logicamente viene prima non è vicino all’essenza intima di una cosa più di quanto lo sia ciò che viene prima in ordine di tempo: identificare la priorità con l’essenza della natura o dell’uomo significa degradare quest’ultimo riducendolo alla condizione primitiva a cui il motivo del potere tende a ridurlo nella realtà, cioè alla condizione di puro ‘essere’. L’argomento più valido contro l’ontologia è questo: i princìpi che l’uomo scopre in se stesso mediante la meditazione, le verità liberatrici ch’egli tenta di trovare, non possono essere quelli della società o dell’universo perché né l’una né l’altro sono fatti a immagine dell’uomo. L’ontologia filosofica è inevitabilmente ideologica perché cerca di mettere in ombra la separazione di uomo e natura e di affermare l’esistenza di un’armonia teorica smentita di continuo dal pianto degli infelici e dei diseredati”.

(M. Horkheimer, L’eclisse della ragione)

Repressione e controllo sociale

L’argomento è un po’ antipatico perché parlare di repressione e di controllo sociale, come faremo adesso, richiede un minimo di buona volontà reciproca. Innanzi tutto, ognuno di noi sa o pensa di sapere cos’è la repressione e cos’è il controllo sociale, due cose che si integrano tra di loro e si manifestano spesso nell’aspetto più macroscopico della polizia, della magistratura, delle condanne penali, delle persecuzioni, del carcere, ecc. Ma la repressione, cioè quell’atto, o quella serie di atti, attraverso cui lo Stato cerca di colpire coloro che deviano da una presunta sua chiara – che poi non è affatto chiara – prescrizione legislativa, questa serie di atti non si può, se non commettendo un grossolano errore, risolvere nella fase repressiva, bieca e ottusa, che spesso perseguono gli organi di controllo diretto, quali possono essere polizia, carabinieri, magistratura, sistema carcerario, ecc.

Al di sotto di questo aspetto macroscopico ci sta un altro aspetto che normalmente viene assegnato ad altra parte della struttura sociale, ad altre funzioni della struttura sociale. Ci sta, cioè, quella che si intende come formazione economica complessiva, quello che normalmente, con una parola che lascia ovviamente molti limiti all’interpretazione e al dubbio, noi definiamo capitale, non metafisicamente ma concretamente. La dimensione economica della società, per come è strutturata ormai a livello mondiale, è una parte non la totalità della committenza, cioè la parte che chiede che venga applicato un certo sistema repressivo.

Se dovessimo quindi, cosa che faremo in breve, tracciare la storia di un paese ipoteticamente significativo dal punto di vista del capitalismo avanzato, quale può essere l’Italia, o qualsiasi paese europeo simile all’Italia, la storia, cioè, della repressione dal ’68 fino alle vicende attuali che, tra parentesi, per convenzione, potremmo chiamare anche noi “Tangentopoli”, se dovessimo, quindi, fare questa storia, la si potrebbe racchiudere, diciamo, in un aspetto molto semplice: la fine degli anni Sessanta, gli anni Settanta, gli inizi degli anni Ottanta. Questi tre momenti che ci portano alla soglia degli anni Novanta e alle caratteristiche differenziazioni attuali, le quali adesso sono sotto gli occhi di tutti, si caratterizzano, da un lato, per una condizione dello svolgimento produttivo e delle difficoltà del capitale, e dall’altro, per una condizione specifica della repressione.

Se noi andiamo alla fine degli anni Sessanta, davanti all’esplosione di vitalità caratterizzata dal ’68 e tutto quello che significò, c’era di fronte un capitale in difficoltà, un capitale, cioè una situazione industriale, che scontava la perdita dell’impatto crescente, della spinta del boom economico. Finito il boom economico cominciarono le difficoltà. In questo contesto si inserisce il ’68 francese, si inseriscono i movimenti nascenti e si inserisce un certo tipo di repressione, cioè il ricorso ai vari modelli di golpe, quello strisciante o quello effettivo, il ricorso alle montature, il ricorso alle bombe, piazza Fontana, ecc. Questo cosa significa? Lo Stato viene chiamato a risolvere in una certa maniera, che oggi potremo definire preistorica, le difficoltà del capitale. Non dimentichiamo che le bombe di piazza Fontana sono del 12 dicembre 1969 e il 13 dicembre viene firmato il contratto dei chimici che spezza il fronte del cosiddetto autunno caldo. C’è una relazione precisa. Abbiamo, quindi, un certo tipo di repressione, un certo tipo di difficoltà del capitale. Superata questa fase, c’è tutto il corso degli anni Settanta e tutto l’insieme di lotte operaie, ma anche di lotte specifiche, come le organizzazioni combattenti, ecc, le quali caratterizzano quell’enorme fenomeno ancora tutto da esaminare, tutto da scoprire, e probabilmente ancora tutto da capire, che si è svolto fino, diciamo, al ’77-’78.

In questa fase il capitale sistema un po’ le sue difficoltà, si accinge a superarle, però resta ancora chiuso all’interno di una dimensione che potremmo definire del capitalismo neoclassico, cioè una dimensione produttiva impostata sulla grande fabbrica, sulla dislocazione territoriale dell’industria assegnata in posti precisi, le cosiddette cattedrali produttive, le cosiddette zone industriali. Questa concezione arcaica del capitale caratterizza indirettamente, come committenza, come richiesta, una repressione altrettanto arcaica. Siamo nella fase della polizia che carica nelle strade, nella fase dei servizi segreti che mettono le bombe sui treni. È alle soglie degli anni Ottanta che occorre capire meglio cosa succede nella struttura del capitale.

Questa fase dell’inizio degli anni Ottanta è estremamente importante per comprendere il mondo in cui viviamo oggi. La situazione era molto seria per il capitale: una condizione produttiva, specialmente quella della grande industria, estremamente precaria, estremamente critica, caratterizzata da un fortissimo carico del costo del lavoro. Sostanzialmente, le richieste dei lavoratori e le difese sindacali avevano portato ad appesantire la gestione del capitale e se fosse continuata quella situazione, e quindi se non ci fosse stata questa straordinaria e fantastica svolta che il capitale ha avuto a partire dall’inizio degli anni Ottanta, cosa avrebbero fatto i capitalisti? Avrebbero chiesto ulteriori finanziamenti per i grandi investimenti, ancora grandi strutture produttive, grandi cattedrali nel deserto, e dunque una ulteriore tipica repressione dello Stato: incarceramento dei dissidenti, attacco sulle strade, le carceri, l’articolo 90, la particolare repressione così come si poteva realizzare in quel momento. Che cosa succede invece di nuovo, di straordinariamente nuovo? Succede una conseguenza impensabile: la tecnologia telematica, che era di già entrata all’interno delle strutture produttive alla fine e a metà degli anni Settanta, comincia a dare frutti che prima non erano ipotizzabili. Essa crea una sinergia, cioè una conseguenza impensabile. Comincia a svilupparsi la possibilità di automatizzare una parte della produzione.

Questo annulla una diversa possibilità per il capitale: non più grandi investimenti, non più richieste finanziarie ma richieste di trasferimento degli investimenti dal settore industriale al settore del terziario, cioè un settore in potente sviluppo, il settore cosiddetto dei servizi, il settore capace di risolvere una gran parte dei problemi del capitale. Io non voglio tediarvi con aspetti tecnici, però un solo esempio lo vorrei fare, quanto più semplice è possibile, perché mi rendo conto che non tutti sono pratici di problemi aziendali. Avete un’idea di cosa vuol dire, ad esempio, per una azienda come l’IBM a livello mondiale e per le difficoltà che l’IBM aveva all’inizio degli anni Ottanta, eliminare il magazzino, gli stock di magazzino, cioè eliminare questa grande spesa e quindi rilanciare al livello produttivo investimenti che prima erano immobilizzati negli stoccaggi? Come li hanno eliminati? Anziché tenere grandi magazzini, poniamo, a Helsinki o a Bordeaux, dove appunto li avevano, hanno distribuito le rimanenze di magazzino a livello mondiale per cui bastava, come basta anche adesso, digitare in un terminale qualsiasi, per avere le disponibilità. Il prodotto che serve l’indomani, da Melbourne prende l’aereo e arriva a Roma. In questo modo è stato tolto completamente, con un’intuizione geniale da parte del capitale, un peso considerevole e su questo piano si potrebbero fare una serie enorme di esempi, ma basta questo solo per capire quale sconvolgimento c’è stato all’interno della struttura produttiva e quali enormi capacità di sviluppo il capitale ha avuto.

Ma, nello stesso tempo, che cos’è accaduto negli anni Ottanta? I capitalisti si rendevano conto che non bastavano le conseguenze positive che venivano tratte da questa tecnologia telematica che si andava sviluppando, via via, all’interno della struttura produttiva, occorreva dimezzare, tagliare, il costo operaio, il costo del lavoro e, su questo punto, gli economisti avevano avanzato delle tesi di suggerimento al capitale. Ad esempio, due economisti particolarmente benemeriti per la sorte del capitale, uno si chiama Modigliani ed è ancora vivente, credo gli abbiano dato pure il premio Nobel e l’altro si chiama, si chiamava, Tarantelli ed è stato ucciso dalle Brigate Rosse, questi due avevano sviluppato un teorema che si chiama appunto Tarantelli-Modigliani, il quale diceva: non c’è pericolo nel licenziare gli operai purché si creino le condizioni di maggiore stabilità monetaria, economica, istituzionale, governativa.

Questa tesi, che sembrava balzana, – poiché il pericolo era evidente in quanto le lotte operaie erano forti, la struttura organizzativa degli operai era forte e in più c’era anche il rischio che si potesse innestare un raccordo tra strutture operaie e organizzazioni armate dell’epoca, – questo teorema, diventa leggibile in una maniera diversa ed agisce diversamente dopo l’innesto della tecnologia telematica, dopo che il capitale trova risorse impensabili prima. Ecco, tutto ciò sviluppa quella condizione del capitale che oggi definiamo post-industriale.

Quando si parla di questa analisi, riguardante la nuova struttura capitalista che ho definito post industriale, bisogna puntualizzare bene il fatto che si tratta di una linea di tendenza la quale, pur avendo come pretesa la totalità dell’esistente, e quindi la totalità di tutte le formazioni possibili del capitale oggi esistenti al mondo (non c’è più la distinzione del mondo in blocchi e faccende varie), è chiaro che si realizza in modo differenziato. È importante capire questo concetto che io, ovviamente, ho saltato a pie’ pari. Il capitale non ha più alcun interesse a uniformare la totalità dell’esistente nel senso di applicare un unico modello produttivo, e quindi indirettamente repressivo. Anzi è interessato a differenziarlo, non soltanto a livello di paesi molto sviluppati e di paesi molto arretrati, ma anche all’interno delle compagini degli stessi paesi molto sviluppati, come potrebbe essere, ad esempio, la situazione europea, e anche all’interno di singoli paesi sviluppati dove oggi – poniamo come nella situazione italiana – non è più possibile parlare di zone sviluppate e di zone sottosviluppate, poniamo il nord e il meridione, ma di macchie di leopardo, ormai visibili dappertutto, di uno sviluppo a scacchiera.

Quindi, sviluppi differenziati. In questo rapporto di sviluppi differenziati ridiventa possibile che, in determinate condizioni o in determinate zone, vecchi sistemi repressivi vengano impiegati ancora adesso. Questo è possibile per due motivi: primo, per la struttura differenziata del capitale, come abbiamo detto, secondo, perché mai nulla nella realtà viene superato, cioè non esiste il concetto di progresso nel senso storicistico, hegeliano, marxista, come ce l’hanno continuato a spiegare negli ultimi venticinque anni con tanta forza e scarso convincimento, ma esiste la compresenza di qualunque capacità repressiva, anche delle peggiori capacità repressive che l’uomo ha ideato da che il mondo è mondo.

Abbiamo pertanto condizioni come quelle della ex Jugoslavia, in cui ci sono espressioni di ferocia repressiva che si credeva e si sperava fossero scomparse per sempre. Invece non è vero, perché l’uomo alberga sempre dentro di sé questi aspetti e, al momento opportuno, determinati interessi, determinati imbrogli e determinate sollecitazioni glieli fanno tirare fuori. Quindi, tornando al nostro discorso, le forme repressive più arretrate vengono scartate dal capitale come linea di tendenza, ma nella fattispecie della sua differenziazione a seconda delle diverse zone, a seconda delle diverse realtà produttive, possono ancora continuare ad essere impiegate.

In queste condizioni, il capitale comincia a richiedere una repressione di tipo differente. Non chiede più o, comunque, non chiede soltanto poliziotti, non chiede soltanto di spezzare i cortei, non chiede soltanto di distruggere le organizzazioni armate, ma si programma tutta un’altra serie di repressioni: incomincia cioè a svuotare dall’interno quelle che sono le realtà antagoniste, e, prima di tutte, la classe operaia. Spezza l’unità della classe operaia e la spezza principalmente agendo all’interno di quelle che sono le principali tattiche resistenti, cioè incomincia a fare proposte del tipo licenziamenti assistiti, quindi con sostegni finanziari consistenti, prepensionamenti, offerte particolari per chi va via, alternative basate sulla mobilità, oltre ad una generale richiesta di dequalificazione.

Non occorrono più, non servono più al capitalismo post-industriale, giovani che escono dalla scuola con una qualificazione, ma serve una manodopera mediamente qualificata, cioè con un livello medio e con un livello piccolo di qualificazione. A questo punto si immette, come accade spesso in quelle strane vicende da romanzo giallo tipiche della storia, si innesta, una vicenda che di per sé sembrava camminare in senso contrario, i vecchi – molti di voi forse non sanno nemmeno cosa furono – i vecchi decreti delegati. Fu quel pacchetto di leggi che democratizzò la scuola sull’onda e sul tentativo di recupero delle lotte del ’68. Cioè, il movimento del ’68 impose, con la forza, all’interno della scuola, una democratizzazione dei rapporti scolastici fra docenti e scolari e una democratizzazione dei programmi. La risposta dello Stato fu uno svuotamento dei programmi, attraverso quel pacchetto di leggi che si chiamarono, a suo tempo, decreti delegati. Quest’azione, all’interno della scuola, sembrava innanzitutto fatta in nome di una battaglia positiva, democratica e, addirittura, in certi casi, con una pretesa rivoluzionaria, ma continuò a camminare sotterraneamente come continuo svuotamento. Gli studenti, allegramente, continuavano a chiedere il sei politico o il diciotto altrettanto politico e pensavano che la cosa andasse avanti. Perché sembrava una cosa positiva? Perché ci si illuse, almeno fino alla metà degli anni Settanta, che chi riusciva ad uscire con una laurea o con un diploma, potesse ancora trovare uno sbocco sul piano lavorativo. Man mano che questo sbocco si riduceva ci si accorse – per primi si accorsero di questo gli studenti stessi – che a causa di questo svuotamento, cioè a causa di come era avvenuto, a causa dell’imbroglio architettato dallo Stato, la scuola non produceva più qualificazione, o la produceva in maniera minima e si andava stranamente ad incontrare – il fatto che la scuola stava dequalificando tutti gli studenti – si andava ad incontrare con la nuova richiesta del capitale, al quale serviva esattamente quel tipo di manodopera dequalificata, cioè priva di quelle connotazioni che avevano, diciamo fino a prima del ’68, caratterizzato la scuola del privilegio. La scuola di massa diventa quindi funzionale al capitale post industriale e questo modo di gestire la struttura scolastica ha connotazioni repressive.

Uno degli ostacoli maggiori è quello di capire le nuove e considerevoli modificazioni della formazione sociale e quindi sia dell’aspetto repressivo che del concetto di democrazia che si legano al processo di modificazione. La scuola resta un ottimo campo di verifica per comprendere questo fenomeno. In effetti, la scuola è un’industria che produce la manodopera del futuro. Questo tipo di rapporto fra la scuola, investimenti nella scuola, scelte della scuola e mondo del lavoro, è abbastanza chiaro per gli economisti. Non è chiaro, invece, per gli studenti i quali si immaginano che la scuola fornisca la cultura e che di questa cultura si possa fare poi l’uso che uno meglio crede. Richieste ben precise provenienti dalla formazione produttiva, hanno svuotato alcuni residui che c’erano all’interno della formazione scolastica. L’hanno svuotati, se ci facciamo caso, non soltanto all’interno dei meccanismi istituzionali della scuola – pseudo gestioni collettive, pseudo situazioni assembleari, rapporto paternalistico differenziato tra professori e studenti – ma l’hanno svuotata principalmente a livello di programmi. Se prestate attenzione al contenuto culturale della scuola vedrete che quella iniziale lotta – iniziale appunto a partire dal ’68 – diretta a sconfiggere la piaga del “nozionismo”, in breve venne capovolta. E come venne capovolta? Venne capovolta trasformando la richiesta di novità e di approfondimento reale della conoscenza in svuotamento dei contenuti culturali. In fondo, allo studente non viene chieso adesso un contenuto in termini culturali, quanto un contenuto in termini di rapportazione umana nei confronti dei propri colleghi, nei confronti del mondo in generale, ecc. Quindi, non ha importanza la sua valutazione in quanto maturità culturale, ma la sua maturità in termini assembleari, in termini di rapportazione, di discussione, di modo di esprimersi e tutto il resto.

Ora, in effetti, la cultura è qualcosa d’altro o, se si vuole, è anche questo, perché in caso contrario si rischia l’autismo, ma non è soltanto questo. Però questa dimensione pluralista e possibilista, se prestate attenzione, è importante per realizzare quella dimensione universalizzata della democrazia che è la forma più raffinata del potere, almeno del potere conosciuto fino ad ora. E la forma più raffinata del coinvolgimento della gente è quella di farla partecipare ad una gestione. Questo avviene non solo nei momenti eccezionali in cui si va a votare, o si decide di dare il proprio assenso ad un referendum, o si partecipa ad un incontro come può essere quello di stasera, ma è anche importante per tutte le singole determinazioni della vita, per tutte le cose che si fanno, e tutto ciò ci viene costruito fin da piccoli, nella scuola, per poi riprodurlo costantemente nella vita. Lo Stato, in fondo, è costituito da queste costruzioni, da questa mentalità che viene sviluppata e dalla somma di queste singole disponibilità.

Tenete presente che da questo tipo di mentalità non sono immuni nemmeno gli anarchici, nemmeno una parte sia pur minima degli anarchici. A me preme prendere questo discorso perché mi interessa sempre fare notare che i rivoluzionari, gli anarchici, non sono marziani, ma sono persone come tutte le altre che hanno i difetti di tutti gli altri e se in una società si sviluppa un nuovo modello di repressione e di recupero, di reperimento del consenso, qual è appunto questo di tipo assembleare non vedrei come gli anarchici se ne possono dichiarare immuni.

Ad esempio, molti compagni anarchici sono dell’opinione che si possa avere un rapporto con i grandi mezzi di informazione. In questa stessa sala, poco prima di cominciare la conferenza, c’era un giornalista di Rai 3. Ora, mi chiedo: “È possibile che la televisione faccia di questa serata un servizio sufficientemente significativo?”. No, non è possibile. Ecco perché mi sono rifiutato di parlare con quel giornalista.

Ma vorrei adesso raccontarvi una storiella della durata di pochi minuti. Nel ’72 mi trovavo a Parigi e, parlando con alcuni compagni della Federazione anarchica francese, si discuteva se partecipare o meno a una trasmissione della televisione nazionale, una trasmissione come può essere a esempio una di quelle che fa Pippo Baudo qui da noi. Questa trasmissione era organizzata in questo modo: uno andava là e parlava per un quarto d’ora di qualunque cosa gli venisse in mente, in modo assolutamente libero, ed era organizzata da un presentatore molto brillante di cui non ricordo il nome. I compagni francesi decisero di partecipare. Il loro rappresentante, che si chiamava Maurice Joyeux, andò là e per un quarto d’ora parlò dell’anarchia: che cos’è l’anarchia, la bellezza dell’ideale, come si può organizzare una società anarchica e tutte queste cose. Liberamente, senza essere interrotto, il che sembrerebbe una bella cosa. Però, cosa fecero gli organizzatori? Siccome la serata era composta da tre interventi – erano sempre tre quelli che potevano parlare in questa trasmissione – prima di lui misero uno che si definiva l’enterré vivant, il sotterrato vivente, e dopo di lui misero uno che si chiamava le roi des grimaces che vuol dire il re delle boccacce. Pensate: prima del discorso sull’anarchia misero un tizio, il sotterrato vivente, che aveva inventato un meccanismo col quale il morto, nel caso di un risveglio nella bara, poteva suonare un campanello e chiamare il custode del cimitero; dopo, misero un altro tizio che faceva un sacco di boccacce quanto mai ridicole. La cosa si commenta da sé.

Secondo me, la grande informazione ha sempre modo di poter recuperare e impacchettarci come meglio crede e qualora, badate bene, – cosa ancora più tragica – non lo facesse, vuol dire che non saremmo nemmeno degni di essere impacchettati, saremmo salami da vendere al minuto.

È questo che costituisce uno degli elementi essenziali del ragionamento che vorrei fare. La repressione non è soltanto il carabiniere ma è anche la scuola dequalificata, è anche una gestione dei mezzi di informazione che condizionano il rapporto fra potere e utente. Anche questo è repressione. Questi progetti repressivi vengono realizzati dallo Stato sia direttamente, a partire comunque dalla metà degli anni Ottanta, sia indirettamente, forse senza neanche saperlo, a seguito delle conseguenze che l’innesto della nuova tecnologia ha determinato all’interno del sistema produttivo ed economico nel suo insieme.

Un altro aspetto che c’è da sottolineare sarebbe questo: sempre nello stesso periodo, nel momento in cui lo Stato si sente rafforzato da queste nuove possibilità che gli si aprono, quindi nel momento in cui arriva ad un tipo diverso di repressione, secondo come viene chiesto dalla formazione economica, cioè dal capitale, da questo momento sottilizza meglio questa repressione, inventa un nuovo tipo repressivo, un nuovo progetto di repressione che è basato sulla partecipazione. Cioè, man mano, l’insieme della realtà sociale si trasforma da una condizione, da una scala di valori basata su princìpi rigidi, ferrei, i cosiddetti princìpi forti, in una serie di valori basati su princìpi deboli.

Quello che una volta era l’autoritarismo nelle scuole diventa democraticismo: prima si ordinava adesso si discute. Però, quando chi stabilisce lo scopo, il fine a cui tende la discussione, non partecipa alla discussione stessa, quando lo scopo è stabilito da chi sta altrove, la tecnica di struttura assembleare, democratica, è funzionale al raggiungimento di questo scopo. Quando quello scopo è estraneo a chi discute in merito a come raggiungerlo, evidentemente la struttura assembleare è un fatto altamente repressivo.

Facciamo un esempio semplice. Durante la guerra, la grande guerra, l’ultima grande guerra, lo Stato americano aveva un problema: fare usare alle massaie americane le interiora di pollo poiché nella cucina americana è una cosa che non si usa. Perché volevano fare questo? Perché la carne la volevano destinare alla preparazione delle scatolette per l’esercito. Questo problema, che sembrava semplice, venne affidato dallo Stato, dal Congresso americano, a Kurt Lewin, un grande sociologo e psicologo tedesco (chi ha studiato psicologia ne avrà sentito parlare). Questi organizzò due campagne per convincere la gente a usare le interiora di pollo: una, basata sulle conferenze (un tizio, l’imbecille dietro il tavolo che parla dell’utilità e di come usare le interiora di pollo), un’altra, basata invece sulle assemblee, in cui tutte le massaie messe insieme, discutevano di come si potessero cucinare queste interiora. Ebbene, i risultati nelle zone in cui venne applicato il metodo assembleare paragonati a quelli delle zone in cui venne applicato il metodo delle conferenze, erano sbalorditivi: nelle prime, ci fu un aumento di consumo delle interiora di pollo di quasi il 60% in più. Così si dimostrò per sempre che il metodo assembleare è un metodo altamente repressivo perché l’oggetto “consumo delle interiora di pollo” era stato stabilito altrove, non era stato stabilito nell’assemblea stessa.

Questo metodo, misurato quantitativamente per la prima volta da questo psicologo tedesco che lavorava in America, è applicato adesso massicciamente. Ecco, adesso siamo in una struttura altamente repressiva e altamente democratica, nella quale i partecipanti al dibattito, alle assemblee, al volontariato, alla partecipazione sociale più larga, gestiscono sostanzialmente la propria miserabile esistenza, la propria miseria, e la gestiscono nel migliore dei modi, sicuramente meglio di quanto non accadesse con un tipo di repressione basata su principi autoritari.

Siamo partiti dal ’68 e abbiamo segnato tre momenti salienti e ci siamo soffermati sugli inizi degli anni Ottanta. In questi piccoli flash, gettati sullo sviluppo di un processo inarrestabile e forse non documentabile, sono dell’opinione che prevalga, in tempi più recenti, l’utilizzo del consenso come fatto repressivo, come elemento essenziale dei nuovi orizzonti repressivi. Però, non c’è dubbio, che la repressione continua a funzionare anche alla vecchia maniera.

Penso che il reperimento del consenso, pur essendo frutto di determinate tecniche, non è legato soltanto ai risultati di queste tecniche. Penso che ci sia, connaturato nell’individuo, un bisogno essenziale di non vivere sulle barricate, un bisogno di convivenza che, erroneamente, viene definita civile mentre forse è il massimo della barbarie.

Molti anni fa ho scritto parecchio su questo argomento, sulla produzione di pace sociale da parte dello Stato, come produzione di merce ben precisa. Come ha dimostrato molto bene La Boétie, che è un autore non di ieri ma dell’altro ieri, in quanto è un filosofo francese del Seicento, l’uomo sceglie volontariamente la propria schiavitù e spesso si immagina di camminare non malgrado le catene ma grazie alle catene e non è facile spiegargli il contrario.

L’accettazione del consenso è, secondo me, un fenomeno sociale inspiegabile e, difatti, se facciamo mente locale sul discorso che facevamo prima, sulla questione del teorema Tarantelli-Modigliani, teorema evidentemente economico che si formula attraverso un grafico di natura matematica, ci accorgiamo che lo stesso ha una base di ordine psicologico, la quale si può illustrare in questo modo: comunque, in ogni caso, c’è sempre maniera di recuperare il dissenso; i tempi possono essere più o meno lunghi, i rischi più o meno alti, si tratta di trovare gli strumenti combinatori validi per ottenere i risultati che si vogliono raggiungere.

Nel caso in specie, quale era il problema? Licenziamenti indispensabili, sennò non si sbloccava la situazione, rischi sociali certi. Quali le soluzioni per ottenere un miscuglio politico ed economico in grado di ovviare ai secondi e fare realizzare i primi? Queste furono identificate in un rafforzamento del governo. Se vi ricordate, l’inizio degli anni Ottanta è caratterizzato dal cosiddetto tatcherismo. Craxi, ad esempio, in Italia rappresenta il riflesso del tatcherismo inglese, anche a livello della muscolatura che pretende mostrare. Questo tipo di mentalità governativa ebbe la sua importanza – o comunque fu uno degli ingredienti e non l’ultimo – alla stessa maniera dell’innesto della nuova tecnologia, delle trasformazioni di automatizzazione all’interno delle fabbriche, del fatto che la gente pensa che le cose, in fondo in fondo, si possono aggiustare, dei riflessi negativi di determinati contrasti sociali caratterizzati dal cosiddetto fenomeno della lotta armata gestita in modo militare. Non è semplice verificare questo tipo di operazioni di consenso.

Anche oggi [1993], per esempio, davanti alla serie abbastanza diffusa di scuole occupate, di istituti scolastici occupati, di fabbriche in lotta, non mi sento di concludere che viviamo in una condizione abbastanza interessante dal punto di vista sovversivo. Non mi sento di arrivare a questa conclusione, perché vedo dietro questo tipo di manifestazione, indiscussamente di protesta, ed è questo il termine esatto, una coscienza di sé profondamente miserabile, coscienza di sé di tipo rivendicativo; e finché non si scosta, non si scrosta, non si elimina, non si scioglie questo tipo di coscienza rivendicativa, questi momenti di lotta, da per se stessi, troveranno la propria fine, mentre a noi, nella migliore delle ipotesi, potrebbe toccare soltanto il ruolo di riverniciatori, in quanto ogni volta andiamo là, ne parliamo e così finiamo per svolgere il ruolo di esaltatori di condizioni che in fondo sappiamo che sono molto simili al serpente che cerca di mangiarsi la coda.

Non vorrei continuare a lungo, però occorre dire un’altra piccola cosa. Io penso che non bisogna metafisicizzare il capitale, cioè non bisogna ridurlo ad una condizione ipoteticamente astratta, come accade spesse volte quando si usa questa parola. Dicendo Capitale, con la C maiuscola, si corre il rischio di non far capire cos’è veramente il capitale.

Il capitale è indiscussamente costituito da uomini i quali agiscono in base a precisi interessi. Questi interessi si possono polarizzare attorno a raggruppamenti che vengono normalmente definiti gruppi di pressione. Però, fatta tutta questa bella spiegazione, non si è affatto identificato chi ha commissionato quella operazione. In effetti quella operazione non è stata commissionata ma si è verificata in gran parte spontaneamente. Ad un certo punto poteva spegnersi. Però, siccome corrispondeva agli interessi di certi gruppi di pressione, non solo non è stata commissionata, ma non è stata neanche spenta in tempo, e quando un incendio di quel tipo non si spegne in tempo devasta tutto quello che deve devastare.

Il punto da cui si partiva era questo: c’è o non c’è una committenza precisa, una committenza esatta chiesta dal capitale alla magistratura o alla polizia? Questo, secondo me, non c’è. Non c’è un momento in cui il capitale riflette sulla propria condizione. Sembrerebbe una banalità. Da un punto di vista economico, si cade spesso nella personificazione del movimento produttivo, delle decisioni produttive. A livello macroeconomico non è possibile una cosa del genere, mentre lo è a livello microeconomico, dove risulta individuabile la strategia del singolo imprenditore. Ma la somma delle decisioni dei singoli imprenditori non dà mai il risultato macroeconomico, c’è un gap considerevole che si finisce poi per non capire. Solo a livello, diciamo, di racconto popolare, il fenomeno si può benissimo personificare nel senso che al capitale, ad un certo punto, non andava più quel tipo di gestione e basta. Allora sono una serie di concomitanze che si verificano. Spesso si ha una concezione deterministica del meccanismo che è sbagliata.

Il fatto che il capitale sia riuscito a entrare oggi all’interno della composizione di classe, sostanzialmente nientificando la vecchia struttura, non significa che sia scomparsa una possibile identificazione di classe. Non significa quindi che si siano nientificate le condizioni di una conflittualità sociale. Semplicemente sono cambiate. Questo occorre capire bene. Che cosa è cambiato? È cambiato un processo in corso, non si è sigillata una condizione. Cioè, non siamo davanti ad un capitale che ha definitivamente seppellito lo scontro di classe, ma siamo davanti ad una modificazione radicale di questi rapporti perché si intende costruire una società divisa in due parti: una piccola minoranza di “inclusi” in grado di potere ancora attingere a livelli culturali, gestionali, considerevoli (cioè tutti i contenuti che la scuola non dà più e che quindi verrebbero dati dalle scuole specializzate, dai master, in pratica dallo stesso capitale, finanziati dallo stesso capitale), e una maggioranza di “esclusi”. La quale maggioranza di esclusi ha una qualificazione media piuttosto modesta, la capacità di attingere considerevoli condizioni di manualità che una volta nessuno si immaginava di potere avere, ma nessuna capacità creativa o culturale in senso lato.

Per realizzare questo progetto il capitale deve svuotare non solo l’aspetto culturale ma, principalmente (cosa che non so quanto può essere visibile oggi, ma che se si fa attenzione diventa visibile), deve svuotare il linguaggio dal suo contenuto, privarlo di significato come struttura, come capacità di comunicazione. L’impoverimento del linguaggio, la riduzione del linguaggio a codici estremamente semplici, è uno degli elementi repressivi più considerevoli che oggi vengono impiegati.

Oggi, quando noi usiamo gli strumenti di comunicazione di massa, vediamo in atto la realizzazione di uno sforzo teorico-pratico commissionato dal capitale a particolari specialisti per realizzare un linguaggio estremamente essenziale in base al quale si possa comunicare soltanto il rapporto fra esclusi. Pensate che la storia è contrassegnata dallo scontro di classe, senza alcun dubbio in maniera netta fino agli anni Ottanta, da un certo particolare scontro di classe, uno scontro di classe che si può riassumere in una cosa molto semplice: gli sfruttati e gli sfruttatori desideravano la stessa cosa, solo che gli sfruttati non l’avevano e gli sfruttatori la possedevano, e non c’è peggiore odio di quando si desidera una cosa che uno ha e l’altro non l’ha. Lo scontro di classe era caratterizzato da questo fatto.

Se invece si dovesse realizzare un ipotetico muro, molto più forte del muro che è cascato a Berlino perché non costruito con le pietre, ma costruito con una differenza linguistica, con una differenza culturale in cui ogni appartenente ai due lati del muro desidera una cosa diversa, assolutamente incomprensibile per l’altro, cosa potrebbero chiedere gli esclusi, come potrebbero desiderare non capendolo quello che è invece desiderio esclusivo degli inclusi? Ora questo è il processo in corso di realizzazione.

Non è possibile – perché esiste una soglia rigida che tecnicamente si chiama “soglia del senso comune” – non è possibile portare le macchine al livello dell’uomo, in quanto è impossibile costruire un computer capace di comprendere una frase semplicissima, come potrebbe essere, ad esempio, due moschettieri a cavallo della regina. Una frase del genere blocca qualunque computer perché il computer si immagina che i due moschettieri sono a cavallo della regina, mentre un bambino di cinque anni capisce benissimo che sono due soldati a cavallo, non a cavallo della regina. Ora, questo tipo di soglia, che si definisce come soglia del senso comune, dice con chiarezza che è impossibile portare la macchina al livello dell’uomo, però è possibilissimo portare l’uomo al livello della macchina, cioè abbassando le sue capacità linguistiche, riducendo le sue capacità culturali generali. E questa è la caratteristica repressiva degli anni in cui viviamo, degli anni in corso.

Un ultimo argomento e poi concludiamo, anzi due argomenti e poi concludiamo.

Come leggere gli avvenimenti che si riassumono sotto la parola “Tangentopoli” visto che siamo partiti con un excursus personale di natura storica dal ‘68 fino ad oggi? È certo che nella storia, in tante occasioni, a esempio nella Rivoluzione francese, molto è stato fatto in nome della virtù. All’inizio di quella rivoluzione questo fu un elemento che veramente venne capito dalla gente perché attaccava la cosa più visibile, la differenza tra le persone che morivano di fame e quelle che suggerivano di mangiare brioche, come Maria Antonietta. Ecco, se all’inizio era tutto ciò, questa spinta popolare e genuina, nella sua maturità più orrenda, divenne il giacobinismo. Il giacobinismo è una struttura politica che si fonda sulla Virtù come metro di convivenza civile e non c’è niente di peggio della Virtù come mezzo di convivenza civile. Guai se dovessimo andare incontro ad un governo virtuista, impossibile nella condizione moderna, però come tendenza certamente non c’è peggio di essere governati dai virtuosi poiché ti arrestano anche se sputi sul marciapiede. Raggela il solo pensare di avere a che fare con governanti virtuisti.

Io, personalmente, in quel caso, se dovessi necessariamente essere governato da qualcuno e non potessi fare diversamente, preferirei essere governato da Andreotti e non da un virtuista. Con i ladri ci si intende, con il virtuoso no. Quest’ultimo mette subito in moto la ghigliottina.

Quindi, fatta questa premessa, bisogna leggere in effetti cosa sta succedendo. Si tratta di una richiesta che viene dalla capacità nuova della struttura del capitale di darsi un nuovo slancio produttivo basato su una ristrutturazione diversa. Contrariamente a quelle che sono le chiacchiere da cortile fatte su tutti i giornali economici, i quali sostengono che le cose vanno male, non è vero che vanno male.

Questa gente piange semplicemente per chiudere ancora di più nel sacco le condizioni di forza, di resistenza operaia e sfruttare a destra e a manca. Andrebbero male certamente se loro avessero l’intenzione di tenere in piedi strutture superate da un punto di vista produttivo, ma siccome loro questa intenzione non ce l’hanno, sanno benissimo che le cose non vanno male. In avanti, in futuro, potrebbero andare ancora meglio dal loro punto di vista. Quindi, considerato tutto questo, viene chiesta l’eliminazione dei bubboni a quanto pare estremamente diffusi, bubboni di qualunque genere, di qualunque natura, bubboni costituiti da gente che si mangiava i soldi e non forniva una gestione politica efficiente. In termini semplici, questa richiesta è da leggersi come un progetto di rigenerazione della classe politica e quindi come proposta fatta ai nuovi tecnocrati di adeguarsi alla nuova realtà del capitale.

Sarebbe stato strano infatti che questa grande, fantastica, trasformazione del capitale, verificatasi in pieno tra la seconda metà degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, continuasse a fornire committenza repressiva a una classe politica che era valida e adeguata alle condizioni di sviluppo del capitale della metà degli anni Settanta e dell’inizio degli anni Ottanta. Ci sarebbe stata una contraddizione in termini, impossibile da vivere. Occorreva che quella classe, ormai superata, la quale aveva fatto il suo tempo, venisse sostituita. E questo processo poteva avvenire in tanti modi. Poteva avvenire, a esempio, con un rigurgito di tipo golpista o con la sollecitazione di una sommossa di tipo popolare. Per tante strade poteva avvenire: tagliando le teste o semplicemente mandandole a casa. Si è scelto di mandarle a casa.

Però, si potrebbe dire: “È poco probabile che veramente avessero fin dall’inizio un progetto di questo tipo”. Sono d’accordo, non avevano un progetto di questo tipo. Non si può dire in tutta coscienza, come è stato detto, che a partire dall’arresto di Chiesa, a Milano, ci sia stato tutto un progetto e che questo progetto si chiamasse Di Pietro. Non è affatto vera una cosa del genere. Queste cose nascono e si sviluppano come un’epidemia. Nessuno può prevedere l’andamento di fenomeni che sono regolati dalla legge del caos. Però, una volta che questi fatti si mettono in moto, si sviluppano secondo una logica. Allora, se questa logica corrisponde agli interessi della committenza, cioè del capitale, in questo caso specifico l’epidemia non viene arrestata, al contrario essa viene diffusa. Se invece contrasta con questi interessi, immediatamente viene bloccata, racchiusa, come dire, spenta.

Quindi, secondo me, il caso – per usare una parola che a me non piace molto – di “Tangentopoli” io l’ho interpretato in questo modo: un metodo repressivo per mantenere adeguata la classe politica alle nuove condizioni del capitale.

L’altro discorso che resta fare, e così concludiamo, riguarda il “che fare?”. Ogni volta, nel corso di incontri simili a quello di questa sera, nel momento in cui la discussione volge alla fine, mi sorge spontanea una domanda: va bene questo discorso, lungo e abbastanza tedioso, ma, insomma, dopo tanto parlare, alla fine, bisogna pure dare qualche indicazione su che cosa si potrebbe fare? Dobbiamo ridurci al dissenso?

In effetti, quando noi parliamo di dissenso parliamo di una scoria dell’atteggiamento di contrapposizione. Non ci si può sempre limitare a dissentire. Il dissenso che cosa vuol dire? Il potere fa e noi diciamo il contrario di quello che fa il potere. Ma fra il fare del potere e il nostro dire il contrario c’è un abisso incolmabile. Occorre fare anche noi qualcosa di contrario a quello che fa il potere. Se dovessimo continuare solo a manifestare il nostro dissenso, si finirebbe per creare una collaborazione repressiva, una partecipazione involontaria a costruire e a perfezionare quelle che sono le condizioni repressive.

Sul “cosa fare?” bisogna smitizzare tanti aspetti che ci hanno accompagnato fino ad oggi, principalmente il mito del quantitativo, quello fondato sull’ipotesi che per fare bisogna essere in tanti, discorso alimentato purtroppo da una scelta errata sviluppata dalle organizzazioni combattenti che ci hanno assillato negli ultimi anni, concezione che vedeva la sua logica conclusione nella propaganda attraverso i media, considerata come la parte finale, e forse più importante, delle azioni che venivano realizzate.

Pensate a due fatti, in fondo ambedue clamorosi, ambedue pubblicizzati dai mass media: l’uccisione di Calabresi e il rapimento Moro, lontani nel tempo, però ambedue occupanti parecchio spazio nei giornali. Nel primo caso non ci sono state rivendicazioni. Quindi, chi ha eseguito questo fatto, non ha finalizzato il fatto stesso alla pubblicazione sul giornale di comunicati, ecc. Il rapimento Moro continua ancora oggi, a distanza di tanti anni, a torturarci con questi comunicati, contro comunicati, disvelamenti e cose del genere, perché fin dall’inizio fu programmato come operazione eminentemente diretta ad essere ospite gradita dei grandi mezzi di comunicazione. Ma quel tipo di operazione, il rapimento Moro, cosa creava in chi la riceveva attraverso i grandi giornali, la televisione ecc., anche se ne poteva condividere, entro certi limiti, l’obiettivo, le tecniche, la realizzazione, lo scopo e tutto il resto? Chi la riceveva alzava le braccia davanti all’aspetto eminentemente militare e così complesso della sua esecuzione, davanti a quella geometria di cui parlava Calogero una volta, che evidentemente non può essere alla portata di tutti. Il “che fare?”, per tanto tempo, sembrò doversi delegare soltanto a determinate organizzazioni, specificatamente attrezzate, nel bene come nel male (qui non sto sviluppando un giudizio di valore, ma semplicemente analizzando un fenomeno tecnico). Quindi, per tanto tempo, sembrò che soltanto in quel modo ci si potesse muovere, mentre del modo in cui venne ucciso il commissario Calabresi si perse la memoria.

Analizziamo per un attimo la seconda metà degli anni Settanta, quando comincia l’articolo 90 e così via. Sono stato in galera sia prima dell’articolo 90, sia sotto l’articolo 90, sia dopo l’articolo 90, sono quindi in grado di valutare tutti questi tre momenti.

Io non mi sento di porre l’equazione BR uguale articolo 90, legge Reale uguale condizioni dello scontro armato. Non mi sento per una serie di motivi che è fuor di luogo illustrare. Mi sento, invece, di fare alcune riflessioni, perché questo è il livello del mio intervento, che si vuole mantenere sulle linee generali cercando di dare le indicazioni di uno svolgimento ipoteticamente teorico. Secondo me, quel fenomeno particolare – il rapporto tra articolo 90, legge Reale e Brigate Rosse – si colloca all’interno di una ulteriore richiesta da parte delle strutture del capitale, in difficoltà, di ottenere un’intensificazione repressiva.

In quel periodo la struttura capitalista viaggiava su un progetto di tipo tradizionale. Le cattedrali nel deserto avevano grosse masse operaie pericolosamente unite, messe insieme in un luogo fisico e quindi più facilmente raggiungibili anche con un semplice volantino, un semplice accadimento, una sola persona che lavorasse all’interno di una fabbrica. E questo fatto aveva spesso conseguenze molto gravi per i padroni. Questo era il modello che loro avevano davanti quando sollecitarono la maggiore attuazione repressiva.

Quindi io ho sempre cercato di spostare l’accento esplicativo su questa parte del discorso: maggiore richiesta o ulteriore richiesta di repressione da parte del capitalismo nell’ambito della sua linea storica di sviluppo, non presenza delle Brigate Rosse come causa esclusiva. Se si prestasse il fianco all’equazione legata alle Brigate Rosse, si potrebbe anche arrivare ad un tipo di equazione diversa: più dura la mettiamo, più dura arriva la repressione, e meglio è per il processo rivoluzionario, affermazione su cui non sono mai stato d’accordo. Adesso la situazione è mutata. I recenti avvenimenti del Leoncavallo si spiegano, secondo me, con un’avvenuta modificazione nel concetto repressivo. Oggi non si usa più tanto il carabiniere o, se lo si usa, lo si usa in certi casi, in altri non si può e si usa invece un modello repressivo indiretto. In effetti, loro non vogliono reprimere il Leoncavallo, ma vogliono tenere sotto osservazione altri possibili sviluppi di quella situazione (sviluppi anche di tipo organizzativo) e, in questo senso, indirizzano la repressione.

In fondo in fondo, se l’azione si identifica e si vede, come dire, direttamente nei confronti dell’obiettivo A, mentre invece si vuole colpire l’obiettivo B, agendo sull’obiettivo A si storna l’attenzione dall’obiettivo B e non dimentichiamo che i processi di diminuzione dell’attenzione sono sostanzialmente fatti repressivi.

Sono convinto che il “che fare?” debba essere riconsegnato alla fantasia dei compagni, alla loro immaginazione creativa, alla loro capacità di analisi. Pensate semplicemente a questo fatto: lo sviluppo attuale del capitale ha caratteristiche differenti da quelle di una volta. Oggi, il capitale post-industriale, opera in modo orizzontale sul territorio; cioè non è più racchiuso all’interno di grandi concentrazioni ben guardabili, ben custodibili e ben difendibili, perché si allarga necessariamente, per forza di cose sul territorio. La telematica è una scienza, direi quasi una condizione fisiologica del capitale, il quale ha bisogno di una rete che, come la rete venosa o arteriosa del corpo umano, attraversa, si può dire, la quasi totalità del territorio. Intervenire su questa rete non è impensabile, non occorre nessuna struttura di tipo militare, ma occorre però una struttura di tipo analitico e di tipo documentativo. Quindi, adesso, i progetti del “che fare?” non passano, non debbono più passare, – dobbiamo impedire che si ricada un’altra volta nell’errore del passato – attraverso la concezione militare, al contrario, essi devono passare invece attraverso la concezione documentativa. Perché è possibile operare dei piccoli tagli nei posti precisi.

È certamente sicuro che sull’autostrada che ognuno di noi percorre, si può dire ogni giorno o una volta alla settimana, passa un cavo, in un posto preciso, cavo di eccezionalissima importanza per una grande parte della struttura produttiva della zona e noi non lo sappiamo: ci passiamo di sopra con la macchina e non lo sappiamo. Quindi non venitemi più a parlare di rapimento Moro: questa è archeologia rivoluzionaria. Il futuro è legato a queste micro possibilità operative che sono alla portata di tutti, solo che spesso non pensiamo, non guardiamo e conseguentemente non comprendiamo perché non vediamo. Ed è tutto questo un “che fare?” da costruire. Questo intendovo dire poco fa quando parlavo di invenzione, di capacità di prendere l’iniziativa.

Vorrei fare un piccolo cenno all’obiezione che viene fatta quasi sempre in questi casi: “Ma che senso ha operare dei piccoli interventi di queste dimensioni?”. Il senso ce l’ha perché danneggia il nemico, perché ci fa prendere coscienza della nostra possibilità di attaccarlo, perché dimostra che il capitale è attaccabile, perché in fondo si tratta di cose piacevoli a farsi.

Apriamo, a questo punto, una parentesi sui problemi attinenti al fenomeno tanto discusso della mafia.

I due grossi attacchi contro Falcone e contro Borsellino, che tanto hanno colpito l’immaginazione collettiva, credo che siano faccende specifiche, non direi esclusivamente siciliane, ma comprensibili all’interno di equilibri siciliani. Non è una questione nazionale, secondo me. Infatti, è chiaro che questo tipo di operazione sia la risposta di determinate strutture perdenti alle nuove formazioni mafiose che stanno sostituendo le precedenti.

In fondo, bisogna capire, la mafia è una cosa specificamente siciliana, mentre nei giornali, spesso, si fa una grande confusione tra ‘ndrangheta, mafia e camorra: tre cose differenti. Certo, si tratta di strutture finalizzate a scopi quasi simili, però la struttura mafiosa siciliana è una cosa diversa. In più, la struttura della Sicilia occidentale è diversa da quella orientale. Invece vedrei un parallelo tra l’arresto di Riina e Santapaola e le bombe precedenti, questo sì.

Non bisogna dimenticare che la struttura mafiosa siciliana è piramidale, per cui quando, ad un certo momento, avverte di stare per perdere la possibilità di difendere i capi, decide di uccidere i massimi esponenti antimafia della magistratura, senza stare tanto a soppesare i pro e i contro. In fondo, guardate che questa gente – io ne ho conosciuto parecchia in galera – contrariamente a quello che dicono i giornali è di una grandissima astuzia, di un grandissimo coraggio ma dell’intelligenza di un bambino di cinque anni.

È questa la realtà: non avendo scrupoli l’astuzia diventa un’arma pericolosissima, perché che cosa blocca in fondo un uomo normale, diciamo una brava persona? il proprio scrupolo morale. Prendiamo invece una persona di media intelligenza, però astuta, ad esempio un contadino, tagliamogli i suoi pregiudizi morali e ne viene fuori una persona pericolosissima. Ecco, è questa la gente che comanda, non sono mostri di grande capacità organizzativa. Certo, poi gli investimenti in termini di migliaia di miliardi vengono fatti a cura di persone che escono da istituti come Oxford o da quelli americani di alta tecnologia economica, questo è logico. Però i capi militari di queste strutture sono persone veramente ridicole da un punto di vista dell’intelligenza e quindi potrebbero anche avere immaginato il fatto che attaccando e distruggendo questi due grossi personaggi si riuscisse a risolvere il problema.

Dunque, questi due fatti, secondo la mia opinione personale naturalmente, li legherei alla questione prettamente siciliana.

Viceversa un minimo di riflessione la meritano le altre bombe [maggio-luglio 1993], così poco significative per come sembrano, che poi sono costate anche dei morti, il che per me è sempre una cosa dolorosa. Queste hanno una loro caratteristica e sono differenti dalle bombe, poniamo, di piazza della Loggia e di piazza Fontana e la differenza è importante. Non dico di spiegarla qui fino in fondo, ma almeno di approfondirla un minimo. Le bombe di piazza Fontana sono bombe terroristiche nel senso etimologico del termine: la specificità dell’intenzione di ingenerare terrore nella popolazione.

Teniamo presente che erano dirette verso una banca, quella di piazza Fontana, e verso una manifestazione sindacale, quella di piazza della Loggia. Quindi scelte terroristiche pure e semplici, che assumevano significato nel contesto complessivo di lotta del paese. Queste bombe, invece, secondo me, sono bombe degli anni Novanta, sono bombe comunicative, cioè ti stanno facendo un discorso tramite i grandi mezzi di informazione, sono bombe fatte esplodere proprio perché ne parli il committente diretto o indiretto che sia, ne parlino i grandi mezzi di informazione, perché arrivi un preciso messaggio. Sono bombe che sono state pensate altrove ma volute da una certa condizione in cui viviamo noi oggi, che è quella della comunicazione di massa. Sono bombe di massa, le quali non hanno l’obiettivo di creare gravi danni – tenete presente che se queste bombe fossero esplose un attimo prima o un attimo dopo avrebbero potuto generare decine di morti – quindi sono bombe calibrate perché esprimono un messaggio diretto ovviamente a chi comprende questo tipo di messaggio, alle forze in carica che stanno per spostarsi forse al di là di certi limiti di tolleranza, ecc.

Poniamo, a esempio, i processi di rigenerazione della struttura politica voluti da “Tangentopoli” e così via, può anche essere che ad un certo punto si siano spostati al di là di quelli che potevano essere certi loro immaginari equilibri ed allora con quelle bombe si siano volute dare delle indicazioni. Io vedrei questa differenza tra le bombe di una volta e le bombe di oggi, mentre metterei in una ben differente situazione interpretativa le bombe siciliane di Borsellino e di Falcone.

Oggi dovremmo aspettarci altre operazioni di questo genere realizzate un poco dappertutto. Notate, ad esempio, la pagliacciata della Falange Armata, la quale sembra una cosa ridicola, ma che invece è una cosa che si collega perfettamente a questo tipo di interpretazione, per cui, ad un certo punto, una bomba come fatto fisico, come oggetto contenente materiale esplodente, comincia a diventare una cosa secondaria. Non ha importanza, basta che se ne parli soltanto, basta che ci sia una rivendicazione, basta che ci sia una minaccia, e magari la bomba non c’è ma genera lo stesso effetto.

Non è possibile identificare una struttura decisionale che si riunisca, ad esempio, come si pensa faccia la cupola mafiosa che ci viene descritta in tutti i processi, come una riunione di personaggi mafiosi, con l’anello al dito, che fanno una discussione. Pensate a quanto sia ridicola una cosa del genere al livello di Agnelli o di De Benedetti. Però, questa ipotesi non è più assurda quando la si vede come fatto legato a decisioni di ordini dello Stato che hanno il compito “istituzionale” di fare cose del genere. E i servizi, certamente, questo compito ce l’hanno e siccome i capi dei servizi sono gli stessi personaggi a stretto contatto o essi stessi possibile oggetto di inquisizione futura, non è impensabile una decisione programmata a questo solo scopo, cioè di depistaggio, di frastornamento, di inquinamento di quelle che sono alcune condizioni attuali dell’operazione che abbiamo accettato di definire “Tangentopoli”. Questo non è impensabile perché per quel che riguarda le organizzazioni specifiche – servizi segreti, civili o militari che siano – esse hanno questo tipo di procedura in modo certo. C’è un struttura clandestina che opera in questa maniera e questa struttura è addirittura prevista dallo Stato, finanziata dallo Stato, quindi questo non dovrebbe meravigliarci.

Ieri, sul giornale, ho visto che c’era un elenco di soldi che prendevano dai servizi segreti agenti e uomini politici. Non era neanche una tangente, era uno stipendio. Questi stipendi andavano ai dirigenti dei servizi segreti, ma anche al segretario di Andreotti, che probabilmente non c’entrava nulla col lavoro d’indagine però lo stipendio lo prendeva lo stesso. Questo ha segnato una traccia economica, un legame economico che ovviamente non è solo economico ma è di dipendenza, di cosca mafiosa, all’interno dello Stato.

È chiaro che lo Stato è nelle mani di cosche mafiose nel senso generico, non specifico siciliano, cosche cioè rette da rapportazioni mafiose. Questo tira l’altro, l’altro tira quell’altro e così via, uniti dall’interesse e dall’imbroglio, dall’interesse di tipo politico, dall’imbroglio personale ed economico. Una certa corrente politica non si esprime solo attraverso i suoi candidati al Parlamento, ma si esprime principalmente attraverso le sue strutture di sottogoverno: nelle banche, nelle casse di risparmio, nelle camere di commercio, in tutte le strutture, nelle strutture di sottogoverno a livello locale. Una corrente ha anche i suoi uomini nelle strutture repressive, nei carabinieri, per cui se domina quella struttura a capo dei carabinieri ci andrà quel generale e non quell’altro, perché quell’altro è nelle mani della struttura avversaria. Perché mai non dovrebbe essere la stessa cosa nei servizi segreti i quali sono costituiti da uomini che provengono dalla polizia, dai carabinieri e così via? La cosa la trovo più che naturale. Ecco perché queste strutture sono il braccio di progetti repressivi più o meno palesi, e certe volte il braccio comincia a camminare per i fatti propri.

Spesso, in questi casi, comincio a fare una piccola riflessione di natura personale, e dico questo: la repressione è indiscussamente un compito istituzionale dello Stato. Abbiamo visto che lo realizza secondo la committenza, secondo come gli viene chiesto dalla formazione economico-sociale, in primo luogo dal capitale, ma gli sfruttati, quindi io stesso, in primo luogo, la maggior parte di noi stessi, è vero non abbiamo nulla a che vedere con la repressione, è vero che la subiamo soltanto?

Vi siete mai posti questo problema? Noi siamo soltanto soggetti passivi della repressione oppure siamo anche soggetti attivi? Oppure anche noi siamo repressori? Oppure anche noi siamo responsabili della repressione? Oppure anche noi costituiamo una grossa leva repressiva nella mani della committenza? Oppure anche nei nostri confronti, nei confronti dei rivoluzionari, di coloro che credono di essersi chiamati fuori da una struttura che invece ci coinvolge, ci continua a coinvolgere tutti, viene rivolta una committenza da parte dello Stato? Ecco delle riflessioni interessanti che una volta fatte non lasciano facilmente dormire la notte.

Consentitemi, per un attimo, di ritornare all’iter pseudo storico che abbiamo fatto, alla situazione degli anni Settanta, quando noi – mi ci voglio mettere pure io, per quanto in tutta coscienza credo che da questo peccato sia stato immune – quando noi, dicevo, credevamo fermamente nell’efficacia rivoluzionaria o, comunque, di contrasto, dei partiti, dei sindacati, delle organizzazioni combattenti armate, quando noi, o alcuni di noi, credevano in tutto questo, non è stato questo un errore e quindi un sostegno sia pure indiretto fornito alla repressione? Non è stato uno degli elementi che ha reso possibile un certo progetto repressivo?

E quando noi anche oggi pensiamo che soltanto attraverso la quantità possiamo riuscire a fare qualcosa e aspettiamo seduti pensando che bisogna essere in un numero sufficientemente grande per potersi muovere e fare qualcosa, non stiamo in effetti realizzando attraverso l’applicazione di questo mito del quantitativo proprio quello che lo Stato ci sta commissionando? Stare buoni, stare seduti. Lo stare seduti è impossibile. È impossibile chiamarsi fuori perché siamo tutti qua, tutti dentro la realtà, nessuno se ne può andare sulla luna, non esistono queste condizioni di privilegio. E una volta che siamo tutti qua, questo star seduti, questo non far nulla, questo attendere che si realizzino le condizioni oggettive perché poi, soltanto poi, in quelle condizioni, sarà possibile fare qualcosa, tutto questo non è repressione?

Quindi, come vedete, la repressione è una cosa estremamente complessa, non è soltanto il poliziotto ad essere repressore; non è soltanto Berlusconi o la Rai, i grandi sistemi di comunicazione, i grandi giornali, imbroglioni e mistificatori, ma siamo anche ognuno di noi, repressori di noi stessi e degli altri se aspettiamo sempre seduti che venga il giorno in cui riusciremo a mettere il mondo a soqquadro, mentre, se non ci sono queste condizioni per mettere il mondo a soqquadro, continuiamo a restare seduti in attesa che il mondo un bel giorno riesca a mettersi a soqquadro da solo. Non è possibile così. Evidentemente dobbiamo svestirci di questo abito che non ci appartiene, che non è il nostro, che ci viene imposto.

L’analisi potrebbe essere ancora più acuta, il coltello penetrare ancora di più nella piaga. Pensate quante volte siamo andati dietro alle scadenze altrui, come il cane va dietro alla salsiccia, quante volte lo abbiamo fatto, quante volte abbiamo ritmato le nostre iniziative pseudo rivoluzionarie, o considerate tali, sulle scadenze del capitale. Quante volte loro facevano iniziative e noi là... incapaci di prendere l’iniziativa, di decidere noi cosa fare, di trovare noi gli obiettivi da attaccare. Aspettavamo sempre, e questa è una collaborazione repressiva.

La repressione, occorre comprendere, è un fatto molto più complesso della semplice divisa del carabiniere. Io voglio concludere con tre sole parole: secondo me, occorre riprendere l’iniziativa, se mai l’abbiamo avuta nelle mani, e riprenderla significa guardare, comprendere, decidere e agire.

Grazie.

 


[Conferenza tenuta nella sala della Regione ad Aosta il 29 ottobre 1993 dal titolo “Repressione e controllo sociale dal 1968 fino a Tangentopoli”. Trascrizione della registrazione su nastro]

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“Su questo specchio – e il nostro intelletto è uno specchio – succede qualcosa che mostra con regolarità come ogni volta una determinata cosa segue di nuovo un’altra determinata cosa, – questo, quando lo percepiamo e vogliamo dargli un nome, noi lo chiamiamo causa ed effetto, noi folli! Come se noi qui avessimo compreso e potessimo comprendere una qualsiasi cosa! Infatti non abbiamo veduto nient’altro che le figure di “cause ed effetti”! Ed è proprio questa figuratività che rende anzi impossibile penetrare con lo sguardo in una più essenziale connessione, qual è quella data dalla successione!”.

(F. Nietzsche, Aurora)

“Se qualunque verità può essere sostituita da un’altra, lo stesso non si può dire della speranza”.

(E. M. Cioran)

La lotta contro il fascismo comincia con la lotta contro il bolscevismo

Ora che la tragedia storica del fascismo ha percorso tutto l’arco del suo sviluppo formale per darci, nello Stato moderno democratico, la sua forma sostanziale e conclusiva, possiamo leggere meglio le pagine di Rühle, dedicate, alla fine degli anni trenta, alla contemporanea lotta, su due fronti, contro il bolscevismo e contro il fascismo.

Oggi il dominio reale del capitalismo permette di cogliere quella unitarietà di progetto autoritario che fornisce la piattaforma sia al fascismo contemporaneo (camuffato da democrazia), sia al bolscevismo contemporaneo (camuffato da dittatura del proletariato).

Per meglio intenderci possiamo dire che il progetto capitalista, nel suo disporsi dal dominio formale (in cui aveva bisogno del fascismo dei simboli e delle croci uncinate), al dominio reale, si sviluppa nel senso del controllo totale. Questo controllo può essere realizzato attraverso due strade, che comunque conducono allo stesso punto: a) la strada della democrazia che si fonda su di un esteriore decentramento delle decisioni per ricostituire il dominio in un ulteriore accentramento del controllo: ciò avviene nelle cosiddette democrazie occidentali; b) la strada del capitalismo di Stato che si fonda su di una ideologizzazione della realtà di sfruttamento e su di un controllo diretto da parte del partito comunista: ciò avviene nei paesi cosiddetti comunisti, con varia sfumatura ma senza eccezione.

Valutando le due strade, e considerando quanto resta da percorrere per arrivare alla meta desiderata dagli sfruttatori, c’è da dire che i più avanzati sulla via del controllo totale sono appunto le democrazie occidentali e non i regimi totalitari “comunisti”. Infatti, questi ultimi, avendo scelto la strada più breve per arrivare al controllo totale (quella dell’ideologizzazione complessiva e del dominio dell’apparato) hanno nello stesso tempo scelto la strada più instabile e più pericolosa. Questi regimi sono seduti su un grande potenziale esplosivo di ribellione che non solo è specifico di una minoranza di emarginati (come accade nella realtà democratica occidentale) ma concerne la grande massa degli sfruttati. Al contrario, le democrazie occidentali – non tanto per merito loro ma per la virtù dello stesso meccanismo della competizione capitalista – si sono trovate davanti alla necessità di ricorrere a mezzi più sottili di costruzione del dominio e quindi davanti alla possibilità di progettare con maggiore cura ed intelligenza quel progetto di controllo totale che oggi caratterizza il vero fascismo.

Basterebbe esaminare la diversa concezione del fenomeno repressivo che si ha nei due modelli statali sopra indicati, per accorgersi di quanto il fascismo dei cosiddetti paesi della “dittatura del proletariato” abbia da imparare dal fascismo delle cosiddette “democrazie” occidentali. Nei primi la repressione colpisce non solo la dissidenza vera e propria ma anche larghi strati di operai e contadini che per svariati motivi non accettano, o accennano semplicemente a non accettare, il dominio dell’apparato. I campi di concentramento sono strutturati per ospitare non una minoranza criminalizzata di dissidenti ma vasti strati della popolazione, se non spesso intere comunità. In occidente, i lager speciali – come in Italia – selezionano una minoranza criminalizzata che, attraverso il meccanismo del consenso estorto dalla vasta massa degli sfruttati, è staccata dal corpo sociale e resta “diversa”. Il fascismo moderno delle democrazie occidentali ha questa caratteristica: si pone come struttura di potere che vuole “fare partecipare” tutti e che non vuole escludere nessuno, ma solo a condizione che il controllo resti nelle mani di una ristretta minoranza capace di coordinare i centri del potere economico con i centri del potere politico, in vista che uno sviluppo del controllo al punto da potersi dire definitivo possa fare combaciare perfettamente economia e politica. Il fascismo dei cosiddetti Stati “comunisti” si presenta chiaramente come più arretrato, come meno intelligente, per quanto l’uso massiccio della ideologizzazione dei rapporti possa far pensare diversamente. In fondo, comunque, la fase strettamente spettacolare del dominio (i grandi quadri di Lenin, di Mao, ecc., assolutamente impensabili nella loro possibile traduzione occidentale) rappresenta sempre, per quanto sofisticata (pensiamo alla Cina della rivoluzione culturale), un livello rozzo di fascismo, in fondo, non molto diverso dalle grandi parate del nazismo a Norimberga o dalle parallele pagliacciate di Palazzo Venezia.

C’è da dire che il fascismo cinese e russo si sta orientando [1981] verso una progressiva apertura alle concezioni del dominio tipiche delle democrazie occidentali, nel senso che anche i supremi vertici dell’apparato comprendono le difficoltà (vedi Polonia) di mantenere un dominio formale sulle masse sfruttate persistendo nella continua e immutabile rimasticatura della ideologizzazione spettacolare. Forse uno degli ostacoli maggiori a questo avvicinamento a forme di fascismo più razionali è dato dalla divisione politico-militare del mondo in blocchi di potere, ma ciò non toglie che ad esempio le recenti aperture cinesi abbiano consentito di prevedere una penetrazione del modello americano se non altro a livello della produzione e delle forme di consumo.

Il breve lavoro di Rühle mantiene quindi tutta la sua validità. Scritto a caldo esso coglie sorprendentemente rapporti che, per quell’epoca, erano quanto mai intricati ed oscuri. La lotta contro il fascismo comincia con la lotta contro il bolscevismo. Oggi possiamo ripetere allo stesso modo: la lotta contro il fascismo più sofisticato, comincia con la lotta contro il fascismo più rozzo e quindi più comprensibile. Approfondendo infatti la natura fascista di forme statali come quelle cosiddette comuniste, ci si rende conto come l’unica soluzione sia la distruzione immediata e definitiva del potere sotto qualsiasi forma si costituisca e come il modello anarchico di intervento nella realtà sia il solo che possa correttamente far progredire la lotta contro il fascismo sotto qualsiasi forma questo si nasconda.

 


[Introduzione a Otto Rühle, The struggle against fascism begines with the struggle against Bolshevism (La lotta contro il fascismo comincia con la lotta contro il bolscevismo), ed. inglese, Bratach Dubh Editions, London 1981. La traduzione italiana della suddetta Introduzione è stata pubblicata in “Pantagruel” n. 3, ottobre 1981, pp. 64-66. La traduzione italiana del breve lavoro di Rühle è stata pubblicata in “Anarchismo” nn. 16-17, luglio-ottobre 1977, pp. 247-256. L’originale inglese uscì la prima volta su “Living Marxism”, vol. IV, n. 8, settembre 1939]

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“Chiediamoci piuttosto se questi dolori per un cambiamento di convinzione siano necessari, oppure se non dipendano da un’opinione e da una valutazione errate. Perché si ammira chi rimane fedele alla sua convinzione e si disprezza colui che la muta? La risposta, temo, sarà questa: perché ognuno presume che a indurre a tale mutamento siano soltanto motivi di ordinaria utilità o il timore personale. Cioè: in fondo si crede che nessuno cambierà le sue opinioni sinchè queste gli saranno di vantaggio o almeno non lo danneggeranno. Ma se è così, ciò depone a sfavore dell’importanza intellettuale di tutte le convinzioni. Esaminiamo una volta come nascano le convinzioni, e vediamo se esse non siano troppo sopravvalutate: ne verrà che anche il cambiamento delle convinzioni viene in ogni caso misurato con un criterio errato, e che noi sinora abbiamo troppo sofferto di questo cambiamento”.

(F. Nietzsche, Umano, troppo umano)

“Dai tempi in cui gli uomini erano avvezzi a credere al possesso della verità assoluta, proviene un profondo disagio nei confronti di ogni posizione scettica o relativistica su qualsiasi problema della conoscenza; per lo più si preferisce votarsi incondizionatamente a una convinzione posseduta da persone autorevoli (padre, amico, maestro, principe) e, non facendolo, si prova una sorta di rimorso. È una tendenza quanto mai comprensibile, e le sue conseguenze non danno alcun diritto di muovere vivaci rimproveri contro lo sviluppo della ragione umana. A poco a poco, però, lo spirito scientifico deve far maturare nell’uomo la virtù della prudente astensione, quella saggia moderazione, più conosciuta nella sfera della vita pratica che in quella della vita teoretica, che per esempio Goethe ha rappresentato in Antonio, come oggetto di amarezza per tutti i Tasso, cioè per le nature non scientifiche e inattive allo stesso tempo. L’uomo della convinzione ha in sé un diritto a non comprendere l’uomo del pensiero prudente, il teoretico Antonio; l’uomo scientifico invece non ha alcun diritto di biasimare l’altro per questo; lo domina con lo sguardo e sa inoltre, in determinati casi, che quello si aggrapperà ancora a lui, come Tasso finisce per fare con Antonio”.

(F. Nietzsche, Umano, troppo umano)

Anarchismo e democrazia

I

Il tema di stasera è il rapporto, ovviamente conflittuale, che c’è fra anarchismo e democrazia. Cos’è la democrazia pensiamo di saperlo tutti quanti e gli anarchici, questa piccola minoranza appartata, poco conosciuta, sa, o almeno presume di sapere, cos’è l’anarchismo. Io appartengo a quella piccolissima minoranza fra gli anarchici che non sa bene con certezza cosa sia l’anarchismo. Quindi mi trovo nella strana situazione stasera di parlare della democrazia da un lato, di cui presumibilmente posso avere una lontana conoscenza come voi e dell’anarchismo dall’altro di cui non penso poi di avere questa grande conoscenza in grado di dare chiarezze o indicazioni.

Molte volte nella mia vita mi sono chiesto cos’è l’anarchismo e forse mi sono chiesto: lo sviluppo delle dottrine anarchiche, per come si sono realizzate teoricamente nella storia e l’insieme delle teorie che vanno da Godwin, Proudhon, Stirner fino ai nostri giorni, Bakunin, Kropotkin, è questo l’anarchismo? Oppure è l’insieme di alcune azioni di particolare significatività, i gruppi di persone, di compagni che hanno realizzato attacchi particolarmente significativi? È forse il gesto con cui Bresci ammazza Umberto, il re buono? È questo, oppure sono le gesta di Ravachol e di Bonnot, degli illegalisti francesi? È questo l’anarchismo?

Non ho saputo rispondere con esattezza, perché è l’una cosa e l’altra cosa, ma non come due aspetti separati, cioè non ci sono le teorie di Kropotkin da un lato, per fare un esempio, di Stirner, e l’azione di Bonnot, di Ravachol, e quelle di compagni che anche oggi continuano a lottare contro il potere, realizzando determinate azioni, dall’altro lato. Perché l’anarchismo io penso può essere indicato con questa caratteristica unica, essenziale. che è quella della non possibilità di distinguere con esattezza fra teoria e azione. In effetti, io in quanto anarchico sono nello stesso tempo sia le cose che so ma anche e forse in maniera primaria le cose che faccio. Ma le cose che faccio non avrebbero probabilmente senso se non fossero contemporaneamente contributo accrescitivo e chiarificativo alle cose che so.

Quindi non la conoscenza per agire, ma la conoscenza in quanto azione essa stessa, non l’azione per trasformare, ma l’azione in quanto conoscenza essa stessa. Questa duplice capacità di essere nello stesso tempo teoria e azione, pratica e realizzazione, non è una delle caratteristiche ultime dell’anarchismo.

Quindi, tutte le volte che critiche vengono rivolte agli anarchici, – critiche che partono da quello che gli anarchici pensano e che hanno realizzato – si esamina solo una parte della questione. Ad esempio, la critica essenziale che viene fatta agli anarchici da quella parte dei gestori del potere che si interessa di politica con altri punti di vista, è quella di utopismo. Si accusano gli anarchici di essere utopisti perché desiderano o progettano o sperano una società diversa, migliore.

E in effetti... Se gli anarchici fossero soltanto questo? Cioè a dire le teorie in merito ad una società assolutamente diversa da quella che invece ci ospita e della quale conosciamo aspetti e misfatti? Certamente sarebbero degli utopisti. Ma gli anarchici non sono soltanto questo. Sono anche la loro azione, cioè a dire quello che realizzano nella realtà come attacco alla situazione presente, come organizzazione e capacità di intervento distruttivo nei riguardi della situazione presente, che è ovviamente di natura eminentemente repressiva. Quindi nel momento cui sono questa cosa qua, non possono essere utopisti perché realizzano un contrasto reale, attuale, capace di generare determinate reazioni, determinate risposte. Però, nel momento in cui gli anarchici si limitassero soltanto a questo, cioè fossero soltanto la loro azione, sarebbero circoscritti in un avvenimento specifico, limitato e in fondo irrisorio. Ma nel momento in cui è la loro stessa azione che si trasforma in teoria, mentre le loro teorie ricevono una luce particolare dalle azioni che realizzano, il discorso è completamente tutt’altra cosa e vedremo perché.

Al momento può sembrare nebulosa la questione. Quindi, se gli anarchici vengono accusati di teoria, di cosa dovremmo accusare invece il potere in carica, il potere che oggi si è cristallizzato ormai nella forma chiamata “democratica”? Innanzi tutto dovremmo accusarlo di imbroglio, tanto per cominciare. Perché mai dovrebbe definirsi “democrazia” un potere che non certamente realizza la forza del popolo? A cosa serve la forza del popolo? E poi che cosa è il popolo? in quanto non è certamente la totalità delle persone che si trovano in un determinato luogo. Ad esempio se prendiamo come ipotesi l’Italia, la democrazia che c’è in Italia non rappresenta la totalità di tutti quelli che si trovano in Italia: ci sono delle minoranze che sono escluse dal potere; ad esempio io sono escluso dal voto come espressione di delega del potere; io personalmente non voto perché mi hanno tolto questo cosiddetto diritto, quindi appartengo a questa minoranza. E non sono solo io. Ci sono tanti altri come me, considerati “criminali” i quali non votano e conseguentemente questa minoranza, se non altro viene esclusa. Poi ci sono minoranze più consistenti che vengono escluse.

Quindi non è assolutamente la forza della totalità delle persone la democrazia, però viene spacciata come tale. E poi, cosa fa il meccanismo elettorale attraverso il metodo rappresentativo? Delega una minoranza, la quale al suo interno a sua volta delegherà una piccola minoranza e in questo modo arriviamo al dominio, all’esercizio del potere di una minoranza nei confronti della maggioranza. La forza della democrazia è costruita su questo imbroglio.

Come viene invece mantenuto questo imbroglio? Attraverso una cortina di fumo la quale si basa essenzialmente sulla produzione di informazione. Esiste una struttura ben oleata, ben determinata, che è costituita da grandi mezzi di informazione, dall’elaborazione delle teorie, la scuola, l’università, i giornali, la televisione. Attraverso queste viene prodotto a cascata un elemento essenziale della vita democratica moderna che si chiama opinione. Cioè a dire noi viviamo sommersi, come in un bagno di olio, nel contesto dell’opinione. Questo contesto produce una capacità di illusione nella gente, cioè le persone si illudono di potere capire, di potere gestire la propria vita in base a qualcosa che ritengono sia proprio, che siano le proprie decisioni, la propria volontà, mentre in effetti questo meccanismo è deciso dall’esterno, costruito attraverso questo processo informativo. Quindi io spesse volte davanti a qualcuno che utilizza cinque, sei, magari sette giornali mi chiedo: le persone si illudono di potere capire, di potere gestire la propria vita in base a qualcosa che ritengono sia proprio, che siano le proprie decisioni, la propria volontà, mentre in effetti questo meccanismo è deciso dall’esterno, costruito attraverso questo processo informativo.

Ora non possiamo in effetti più parlare di informazione distorta, la costruzione dell’opinione è fatta con informazioni che non sono poi tanto lontane dalla realtà. È la loro stessa presenza in quanto informazione, in quanto accumularsi di grandi quantità di informazioni, che determina una distorsione, una incapacità nel ricettore di poterle utilizzare in senso pratico. Quindi, questa opinione che viene costruita, serve per potere mettere in moto il meccanismo democratico. Cioè il concetto di delega non potrebbe funzionare nel modo più o meno accettabile in cui invece il potere funziona, se non ci fosse in atto questo processo di informazione e quindi di costruzione dell’opinione.

Di fronte a questo processo che accade davanti a noi il singolo individuo avverte spesso dentro di sé, nel chiuso di se stesso, un senso di insofferenza, di disgusto probabilmente, di dignità offesa, di qualcosa che lo colpisce negativamente. Ciò si fa luce a poco a poco dentro di noi, non soltanto fra gli anarchici; ricordate che è quasi la totalità della gente che si chiede non criticamente ma acriticamente che cosa stia succedendo. Allora in ogni coscienza dell’individuo si muove quasi come una piccola luce alla ricerca di una strada diversa.

Facciamo un esempio concreto. Perché mai dico queste cose che potrebbero ovviamente essere opinione del sottoscritto, senza alcun valore? Negli ultimi tre anni [1995] stanno costruendo e costruiscono in questo momento questa operazione di “Tangentopoli” che si chiama “Manipulite”. Riflettete un attimo su quello che di vergognoso è successo. È successo che attorno a un pubblico ministero, cioè a dire attorno a un boia, attorno alla persona, all’ultima delle persone che può veramente riscuotere la simpatia della gente, si è sviluppato un processo di accumulazione di opinioni favorevoli, per cui si sta verificando quasi un tifo da stadio nei confronti di un personaggio come Di Pietro che esercitando il mestiere del boia, non poteva assolutamente determinare una valenza, una rispondenza di tipo positivo nella gente, in tutti. Poteva determinarlo nei carabinieri, in quelli che sono i provveditori del boia, ma non certamente nella gente comune.

Questa è la prima volta che viene costruita una cosa del genere. Cioè a dire è stata costruita un’opinione di giustizia, un’illusione democratica, un imbroglio politico, attraverso la quale, attraverso il quale, si cerca di dimostrare che lo Stato, attraverso la sua funzione giurisdizionale, cerca di mettere riparo alle storture, agli imbrogli, alle nefandezze che sono state realizzate fino a questo momento e quindi cerca di costruire il nuovo Stato del futuro perfetto, migliore, garantista, capace di impedire che vengano perpetrati furti, latrocini e così via, una classe politica migliore, una elite comunque ma in ogni caso differente. Questa è la produzione di opinione.

Mentre, pensate, da un altro lato, che cosa ognuno di noi ha come cognizione dell’idea di giustizia. Quando noi pensiamo: “questa cosa è giusta”, “questa cosa è sbagliata”, in effetti abbiamo dentro di noi un senso della giustizia. Quando spesso molti di noi, alcuni di noi, uno di noi – non ha importanza – anche uno solo, si leva in nome della giustizia offesa, in nome di quello che la controparte, che gli avversari, che i tenutari, i gestori del potere hanno realizzato, si leva contro di loro in nome della giustizia, pensate che lo faccia alla stessa maniera con cui lo hanno fatto e lo continueranno a fare Di Pietro e i suoi successori?

Ecco la differenza fra un’idea che può svegliarsi dentro di noi, che può farsi strada a poco a poco dentro di noi, un’idea che non ha limiti, che non ha obblighi, che non ha punti di riferimento, che non ha categorie e invece l’opinione che viene costruita. Quella è la loro giustizia, questa è la nostra giustizia, l’idea che sta dentro ognuno di noi, che molti mettono a tacere, schiacciano per i loro interessi, per la loro vigliaccheria, per il loro impedimento – limiti se volete – ma che comunque, pur avendola schiacciata, non riescono a mettere a dormire per sempre, ma che tanti fra noi non vogliono schiacciare, ma la fanno fiorire e sviluppare dentro di sé.

È questa la piccola luce a cui faccio riferimento, è questa l’idea-forza, è questo il punto da cui possiamo muovere, è questo cui fa riferimento l’anarchismo per parlare di determinati concetti.

Pensate al concetto di libertà. Come viene costruita la libertà secondo l’opinione? Se leggiamo l’informazione corrente, che cosa vediamo nel concetto di libertà? Le libertà della Costituzione, la libertà che finisce dove comincia la libertà dell’altro, la libertà contrassegnata dai limiti del codice, oppure, se vogliamo ricorrere – visto che siamo in un’aula di filosofia – alle vecchie chiacchiere di Kant sulla libertà dentro di noi, oppure la libertà di Rousseau, la libertà delle poche leggi, poche, semplici, ma che comunque ci siano, senza le quali – diceva Rousseau – non c’è libertà. È questa la libertà? Oppure questa è la libertà del codice, è la libertà da qualcosa, è la libertà per fare qualcosa, la libertà di spostarsi nello spazio, la libertà di essere qui dentro e fare quattro chiacchiere insieme, è questa la libertà? È questo per cui siamo disposti a fare qualcosa sul serio?

Eh no! Questa non è la libertà, la libertà è un’altra cosa e non è una cosa che può fare piacere a tutti.

La libertà è un concetto mortale. La libertà è assenza assoluta di limiti. Assenza assoluta di limiti: questo concetto, una volta che incomincia lentamente, come una piccola luce, come dicevamo prima, a farsi strada dentro di noi, non ci lascia in pace, perché non è possibile fare convivere il concetto di libertà col concetto di limite. E allora è da questo punto che entriamo in contraddizione con noi stessi. Ecco perché la libertà è un concetto mortale, è un concetto che non ci permette di vivere: tutte le volte che vogliamo far prevalere su questo concetto quello bene o male necessario di vivere la nostra vita di tutti i giorni, di alzarsi la mattina – e bisogna pur avere un buon motivo per farlo – di andare a scuola, a lavorare, fare le cose di tutti i giorni, dobbiamo fare i conti con questo concetto che si agita dentro di noi e che in un certo senso costituisce quel tribunale segreto di noi stessi, di fronte al quale non abbiamo mai la possibilità di essere assolti, perché – non c’è dubbio – possiamo imbrogliare tutti, dai genitori, ai professori, al capo della fabbrica, al presidente della Repubblica, ma non possiamo imbrogliare noi stessi.

Ora, questa differenza che si va – penso – chiarendo un po’ meglio, fra quello che appartiene al mondo del fittizio, dell’apparente, fra l’apparente che invece viene spacciato per reale, il mondo della democrazia, della tolleranza, della possibilità, delle opportunità, e invece il mondo reale, il mondo che sta soltanto dentro di noi, che si agita dentro di noi, nebulosamente e non ci fa forse capire bene la realtà..

Ecco perché all’inizio dicevo: “Non so bene cos’è l’anarchismo”. Non è questa cosa, non è quest’altra cosa, questa teoria o quest’azione, ma è l’insieme di queste due cose. Questa piccola idea o queste piccole idee che si muovono, quali ostacoli incontrano nel momento in cui si estrinsecano? Se io dicessi: “Io voglio essere libero, davanti a me non ci devono essere ostacoli” e immediatamente dopo ci sono tantissimi ostacoli, è logico che al primo di questi ostacoli devo decidere cosa fare, devo pur prendere una decisione, devo pur dire cosa fare.

Ecco perché poco prima parlavamo dell’impossibilità di separare il concetto del fare dal concetto del pensare. Se al primo ostacolo decidessi immediatamente per l’accettazione di questo ostacolo, dovrei revocare in dubbio la tesi della libertà e accettare la tesi delle libertà democratiche. Quindi la tesi anarchica è essenzialmente una tesi che tutte le volte va verificata nelle cose che facciamo, nelle quotidiane cose che facciamo; non può essere una volta per tutte conclusa, assegnata. Non esistono anarchici per sempre, ma esistono anarchici che tutti i giorni, quotidianamente, nelle cose che fanno, revocano in dubbio non il proprio anarchismo, o la propria teoria oppure soltanto la propria azione, ma le cose che fanno, cioè a dire quello che sono, che revocano in dubbio se stessi.

Cosa che non accade, se non sbaglio, per le teorie della democrazia, il modo di essere dei politici. Pensate ad un politico perfetto, non il ladro Andreotti o il ladro Craxi, queste sono marionette del passato ma pensate invece alle possibili ipotesi del futuro, i politici giacobini perfetti che, in nome della virtù gestiscono la cosa pubblica. In fondo, in un piccolissimo punto, magari inconfessato, una certa simpatia per D’Alema, in confronto al fascista l’abbiamo. Ma come? siamo rivoluzionari, siamo anarchici, abbiamo sempre sostenuto che questa gentaglia è tutta uguale, che non c’è differenza, ecc., ecc, però – lasciatemelo dire – in fondo in fondo fra il fascista e il comunista, il fascista magari si picchia subito, col comunista prima si discute, poi si picchia, e già c’è una certa differenza. Ora, questa che sembra una stupidaggine apre un grossissimo problema, quello del cosiddetto progresso.

Noi abbiamo nella nostra stratificazione mentale – quando dico noi intendo anche gli anarchici, anzi principalmente gli anarchici, i rivoluzionari anarchici – abbiamo nella nostra stratificazione mentale una tradizione di natura progressista. Dal Settecento ad oggi – ben prima dunque che nascessero le teorie anarchiche – c’è il concetto che all’interno della storia, nella sua evoluzione, esiste un meccanismo oggettivo che è stato chiamato in tanti modi, che viaggia verso il miglioramento. Dalle nebbie e dalle barbarie del passato ci si avvia, a poco a poco, verso la luce del futuro. Nel concetto stesso dell’iconografia socialista del sole che nascerà e così via, si immagina l’ipotesi di un’alba di libertà che faccia diverso l’avvenire.

Questo è il concetto del socialismo riformista e democratico, ma anche il cosiddetto socialismo rivoluzionario aveva un’ipotesi del genere nella grande giornata, nella grande serata, come si chiamava allora, la gran “soirée”, in cui doveva verificarsi la rivoluzione, l’abbattimento del potere e la realizzazione della società libera del futuro. Questo concetto progressista che è stato vissuto in tanti modi (nato nel Settecento, dall’illuminismo, ma vivificato e principalmente portato a compimento dal romanticismo filosofico tedesco), è ancora qua, è ancora presente.

Cioè, molti degli anarchici oggi sposerebbero ancora una volta la tesi di Bovio che diceva più o meno in questo modo: “La storia va verso l’anarchia e quindi l’anarchia è una conseguenza ineluttabile della realtà in cui viviamo”. Ma, se così fosse, se veramente all’interno della storia ci fosse un meccanismo che si realizza automaticamente, malgrado le vicissitudini – come diceva Hegel – dello Spirito, le sue perdite, i suoi ritrovamenti, se questo realizzasse l’anarchia o la società libera o – come dicono i comunisti – la società comunista, la società libera di domani – a questo punto sono solo chiacchiere, non hanno importanza –, cosa dovremmo lottare a fare? Perché dovrei lottare oggi per una cosa che, anche qualora la mia lotta non ci fosse, si realizzerebbe da sola? Evidentemente non è così. Non è così per tanti motivi: primo, perché storicamente l’abbiamo sotto gli occhi, abbiamo pensato, per fare un esempio, che condizioni di barbarie estremamente serie, estremamente gravi come potevano essere i campi di concentramento nazisti, non si potessero più verificare, invece si tornano a verificare un’altra volta. Nella ex Jugoslavia di oggi ci sono condizioni di stupri di massa, di genocidi etnici, di organizzazioni di soluzioni finali molto simili, se non in alcuni casi addirittura peggiori di quelle dei nazisti. Come è possibile? Se la storia va verso un miglioramento, come è possibile che invece la barbarie di ieri torni a ripresentarsi ancora oggi?

È possibile, secondo me, con una spiegazione molto semplice: non è vero che la storia va verso il miglioramento, poiché all’interno del processo storico esistono condizioni che si tramutano, si cambiano, si modificano continuamente, ma non si escludono. Cioè, il processo di sviluppo della storia non viaggia secondo il modulo hegeliano del superamento, ma secondo processi di oltrepassamento, che sembrano modificare, sembrano trasformare alcuni aspetti, ma che semplicemente li dispongono in una maniera diversa. Questo ci può dare parecchi insegnamenti con una considerazione che, anziché far dormire, potrebbe anche svegliarci all’azione, perché – è chiaro – se non interveniamo in questo contesto potrebbero ripresentarsi le barbarie di ieri, potrebbero ripresentarsi le peggiori cose: il fascismo di ieri oggi sembrerebbe anacronistico, ma basterebbe una verniciatura di idee e di simboli e non lo riconosceremmo più, camuffato sotto le chiacchiere della tolleranza, sotto le chiacchiere della possibilità che non esiste, della tolleranza che non c’è, della discussione che non significa nulla se non abbiamo strumenti per discutere insieme; ridiventa fascismo e non ce ne accorgiamo.

Allora è chiaro che questo vuol dire che dobbiamo aver paura anche non soltanto di questo meccanismo del progresso, e sottoporlo quindi a un’analisi critica, ma anche della legge, in un certo senso, che ne è alla base, che viene presupposta in questo meccanismo.

I razionalisti illuministi del Settecento, e anche i romantici, avevano sostenuto che alla base del meccanismo del progresso stava la ragione umana, l’intelletto raziocinante, la logica dell’uomo pensante e benpensante che reggeva quel processo. E invece, cosa è stato detto specialmente da parte marxista (questa costituisce una delle analisi peggiori sul fascismo, la più fuorviante)? È stato detto: “No, il fascismo sono soltanto i manganelli, sono soltanto, per quanto riguarda l’Italia, gli agrari della pianura di Cremona organizzati da Farinacci, che avevano i loro interessi da salvaguardare e mettevano insieme le squadre dei picchiatori, il fascismo è soltanto questo”. Oppure, sui nazisti: “I nazisti sono solo degli irrazionalisti, Hitler era un pazzo”. Invece no. Il popolo tedesco accettò il nazismo nella quasi totalità; il popolo tedesco rappresentava in quel momento sicuramente il popolo che, dal punto di vista della ragione, dello sviluppo storico, filosofico, tecnologico e scientifico, era al primo posto nel mondo questa gente accettò il nazismo, non pazzi furiosi. L’organizzazione del nazismo e del fascismo era fatta da persone che li gestivano, li organizzavano, in nome della ragione.

Quindi non è affatto vero, come diceva Brecht, sottoscrivendo un manifesto con Lukács e compagnia, che il sonno della ragione genera mostri. I mostri vengono realizzati dalla ragione stessa, i mostri della barbarie sono cose ragionevolissime. Con l’Inquisizione i preti hanno messo ordine e razionalità nei processi precedenti. Quando si torturava una persona con la corda, gli si potevano dare solo venti bracci di corda, non di più, ci voleva un testimone, un protonotario apostolico per redigere il verbale, ci voleva anche un medico che si intendeva di rottura di ossa. Se al torturato gli si dovevano rompere le ossa, lo si poteva fare in un certo modo e non in un altra maniera.

Questo significa impiego della ragione nella barbarie, perché la barbarie possa diventare cosciente di sé. Il barbaro che arriva e apparentemente sembra distruggere il mondo, in fondo, non è il barbaro nella nostra concezione del termine, perché quel barbaro di una volta, quell’uomo che veniva dal Nord, portatore di valori sconosciuti al mondo che lo subiva, non era capace di organizzare la barbarie in base alla ragione, ma soltanto in base ai propri bisogni, ai propri sentimenti.

Quelli che sono venuti dopo, che barbari non erano, che impiegavano gli strumenti della barbarie in base alla ragione, hanno realizzato veramente la barbarie; quindi la barbarie non è assolutamente un fatto del sonno della ragione, ma è una esacerbazione della ragione, una ragione che non è sottoposta ai vincoli della critica, ai vincoli della reale consistenza della critica. Quindi, se tutto questo può tornare, allora pensiamo a cosa ci chiedono e a come possiamo contrastare tutto questo. Ci chiedono la partecipazione. Evidentemente le modificazioni che sono in corso, grossissime modificazioni all’interno della struttura produttiva, all’interno di quello che è il nuovo capitalismo a livello mondiale, richiedono al sistema democratico una maggiore affidabilità.

Ad esempio, lo stridore delle ruote politiche che si sente in questo momento attraverso le pagine dei giornali, queste pantomime che vengono recitate, che sono per me incomprensibili oltre che illegibili, chiedono una cosa, chiedono uno strumento politico più efficace, capace di dare leggi in tempi più brevi, più ragionevoli, ma di dare anche più strumenti per l’azione produttiva e per l’organizzazione dell’azione economico-produttiva. Quindi il sistema rappresentativo democratico, così come è stato visto in atto ai giorni nostri, potrebbe non essere più adeguato alle richieste della parte produttiva. Ecco perché oggi si fanno tante discussioni sulle possibili evoluzioni e sulle possibili attenzioni non solo in sede polititca.

Ad esempio, se voi pensate al nuovo ruolo, all’importante ruolo, che sta svolgendo oggi il volontariato all’interno delle strutture democratiche avanzate, vi rendete conto che si tratta di un ruolo in attesa di una possibile trasformazione del sistema democratico. Col volontariato si impegnano i giovani all’interno di strutture di base che apparentemente non sembrano politiche ma che costituiscono una delle basi essenziali del momento politico. Li si impegna all’interno di una partecipazione, del sentire le cose che si fanno come proprie, di un impegno anche di tipo creativo, di una globalizzazione del concetto di politico. Non è soltanto un fatto di semplice esecuzione di determinate idee, che sono altrui, all’interno delle strutture di volontariato c’è anche un minimo di dibattito, c’è un certo impegno, si riversa, cioè a dire, come un flusso periodico, all’interno di queste strutture che saranno funzionali alla democrazia partecipativa di domani, quelli che erano tanti dibattiti, tante cose interessanti che avvenivano negli anni passati, che continuano ad avvenire nelle scuole, all’interno di tanti gruppi cosiddetti “radicali”, “democratici”, “comunisti”, e così via.

Questo mare immenso non è costituito da poche persone, ma da decine di migliaia di persone. Dappertutto si riversa in questo contesto e produce un flusso, una linfa vitale che può essere utilizzata, la nuova democrazia.

Ma in effetti, perché tutto ciò? Gli anarchici su queste cose si sono spesso interrogati, qualche volta hanno avuto dei dubbi o dei tentennamenti. Come tutti sanno, siamo contro la democrazia rappresentativa, la delega, la periodicità, la lontananza, la costituzione delle elite di potere – sono tesi che conosciamo tutti – siamo contrari alla democrazia rappresentativa. Perché siamo anche contro la democrazia partecipativa?

Questo si sa un po’ meno. Innanzitutto c’è da dire che una piccola parte del movimento anarchico, quella parte di libertari che si richiama al cosiddetto municipalismo libertario, non è che siano contrari alla democrazia partecipativa in quanto sostengono, riprendendo una vecchia tesi di Rousseau, che, se nella parte terminale delle strutture dello Stato, cioè a dire nella dimensione del comune periferico, piccolo (Rousseau parlava di dimensione piccola e di potere), se si può realizzare una comunità municipale che abbia caratteristiche proprie, questa può anche essere retta, coordinata, con l’intervento degli anarchici. Discussioni che non è il caso di approfondire qua, ma che comunque si richiamano al discorso della democrazia partecipativa.

Le critiche che gli anarchici svolgono a questa tesi sono principalmente queste: innanzi tutto non è vero che sulla base della formazione delle opinioni la gente possa dare una risposta, possa operare veramente una scelta davanti a tanti problemi. I diversi problemi che verrebbero eventualmente proposti per la decisione della base, cosa proverebbero se non un’opinione, cioè a dire un’informazione costruita attraverso i mezzi di comunicazione? Quindi, se oggi tecnologicamente lo Stato può realizzare la democrazia partecipativa, in quanto c’è ormai la telematica, la fusione tra computer, televisione e telefono, se questo è possibile e lo sarà sicuramente molto di più nei prossimi decenni, non diventa con questo possibile l’ipotesi utopica che ognuno decida da sé tutti i problemi della collettività, in quanto non è affatto vero che può decidere da sé perché non ne ha cognizione.

L’altra tesi che viene suggerita come aspetto critico sarebbe questa: che non soltanto non ne ha cognizione, ma che automaticamente verrebbe lo stesso ad essere delegata sempre una minoranza anche qualora si venisse a realizzare la democrazia cosiddetta diretta, perché o il cittadino singolo della democrazia diretta si trasforma in un cittadino a tempo pieno che riflette sui vari problemi e quindi aumenta la sfera del politico e si restringe la sfera della vita quotidiana, della sfera dell’economico, oppure, viceversa, se si capovolge la cosa, si sente l’esigenza di designare dei leader rappresentativi per i vari problemi o comunque per le varie specializzazioni.

Quindi anche l’aspetto che viene suggerito di una possibile soluzione del problema democratico con l’innesto della democrazia della partecipazione non sfugge a quella che è la tirannia di questa minoranza che si impadronisce in ogni caso del potere e lo usa in nome degli interessi di dominio. Mentre, da un punto di vista nostro, da un punto di vista degli anarchici, riprendendo il discorso della libertà di cui parlavamo prima, se dovessimo veramente metterla in campo, ecco che immediatamente dovremmo trovarci al di là di tutte le discussioni. Perché mai dovere avere a che fare con persone, idee, concetti, che si richiamano alla democrazia?

A esempio cosa farsene del concetto di tolleranza? Pensate, a quanto è importante il concetto di tolleranza. Moltissimi sono disposti a discutere nei confronti di una critica della tolleranza. Però, se l’esaminiamo bene, la tolleranza è un concetto che serve esclusivamente a segnare determinati punti del potere, determinati limiti del potere, in quanto è un concetto che garantisce il potere stesso. La struttura democratica – come anche le strutture non democratiche, anche la struttura più dispotica, assolutista, di una volta, ha la necessità della tolleranza in quanto, l’ipotesi estrema dell’assenza di tolleranza qual è? Il fatto che tutti i cittadini siano schiavi di una determinata idea, di una determinata condizione, schiavi e privi di esercitare i cosiddetti “diritti democratici”. Questa condizione di Stato assoluto di polizia è la condizione più dispersiva e irrealizzabile per il potere; la polizia per il potere non può diventare l’unico strumento possibile, anzi è l’ultima cosa a cui ricorre.

Tra il potere come gestione e la polizia come ultimo strumento c’è tutta una struttura, una struttura di potere altamente repressiva e altamente graduata per livelli di penetrazione all’interno del convincimento della singola persona. È in questa struttura che si realizza il potere vero e proprio. Queste sfumature costituiscono la struttura e sono basate sul concetto di tolleranza. Quindi, se noi difendessimo il concetto di tolleranza, difenderemmo il potere. Difenderemmo non il potere possibile o il potere probabile, ma il potere realizzato, quel potere che gioca proprio sul concetto di tolleranza, perché è la tolleranza che lo allontana dall’ipotesi temuta dello Stato di polizia. Non è affatto vero che il potere sia ben felice di impiegare lo Stato di polizia estremo o i sistemi speciali o le leggi speciali o la rarefazione della libertà. Lo Stato è invece per la possibilità della discussione. Quindi, quando noi facciamo un discorso sulla validità della tolleranza, facciamo un discorso positivo se lo interpretiamo in senso positivo, facciamo una valutazione positiva dello stato reale possibile, portiamo un cero al santo del realismo politico.

Lo stesso discorso vale per il concetto di tecnicità, preparazione, discorso questo estremamente contorto. Ad esempio, spesse volte cadiamo in questo equivoco, diciamo: “Ma questo non capisce niente, come mai gli fanno fare questo lavoro?”, pensiamo ad esempio anche ai livelli di comando, di dominio, che ci debbano essere persone preparate, che facciano il lavoro per cui sono state preparate. Quindi il concetto di selezione dei migliori. Ecco, questo concetto non trova critiche chiare, secondo me, neanche da parte degli anarchici, perché d’altro canto che cosa potremmo sostituirgli? Mandare gli imbecilli al potere? Cos’è meglio, essere gestiti da uno stupido o essere gestiti da una persona intelligente? È meglio che l’elite di potere sia costituita di raffazzonati politici, raccattati, come Bossi, a destra e a manca nei baracconi di periferia, oppure specialisti come il generale Coccione che è il ministro della Difesa? Ecco, questo è il dilemma che ci fa dare di solito risposte massimaliste del tipo: “va bene!, noi siamo anarchici, che ci interessa, è tutta gentaglia”.

La struttura di dominio tende a selezionare le elite di potere sulla base della capacità di conquistare il consenso delle persone, di muovere una base delle clientele, ma non può basarsi soltanto su questo. Esiste, all’interno delle strutture di potere, tutta una struttura di sottopotere basata sulle competenze. Se non sviluppiamo una critica reale di questo concetto della competenza, caschiamo nel discorso dell’opinione, cioè a dire siamo schiavi dell’opinione. Quindi – come dicevamo prima – anche su questo argomento dobbiamo sviluppare una critica.

Noi non vogliamo milioni di individui tutti uguali, non vogliano appiattire l’individualità di ognuno, ma anzi, al contrario, vogliamo che questa individualità si esalti al massimo, che nella massima differenziazione ci sia la possibilità di uguaglianza, cioè a dire essere uguali nella capacità di diventare diversi, non essere uguali nella possibilità, nell’opportunità negativa, di essere identici.

La forza che l’anarchismo ha è quella di suggerire l’estrema differenza e fra le estreme differenze, fra le più serie differenze, c’è la differenza di competenza, di conoscenza, di approfondimento di un problema. Se schiacciassimo questa competenza, evidentemente distruggeremmo l’uomo, perché l’uomo è fatto per essere diverso, per non essere uguale. Tutti i tentativi di omologazione, di omologazione del pensare, di appiattimento del vivere, del gusto, del sentire, del vestire, dell’amare in modo identico, in modo clonato, sono appiattimenti, sono appiattimenti che distruggono l’uomo. Allora, se siamo per la competenza, siamo per la competenza che sia basata sulla realtà dell’autorevolezza, cioè a dire una competenza che non sia occasione per trasformarsi in punto di riferimento, in dominio, in elite dominante. Una competenza che non si possa trasformare, per il semplice fatto di esistere, in una superiorità esercitata sugli altri anche in nome delle migliori intenzioni possibili. Questo è il concetto anarchico di esaltazione delle competenze.

Non vorrei essere andato troppo avanti, troppo oltre e vorrei concludere su due o tre punti. Certamente gli anarchici hanno riflettuto sul problema di come intervenire nella realtà perché l’ipotesi da cui siamo partiti – ricordate? – la piccola luce che si muoveva dentro di noi, quella luce che aveva una sua possibilità di farci capire un qualcosa di diverso da quello che invece dall’esterno ci stavano costruendo, vi ricordate quando parlavamo del concetto di giustizia affidato nelle mani di un pubblico ministero e invece del concetto di giustizia che si alimenta e che a poco a poco può trovare una strada dentro di noi, questa differenziazione ve la ricordate? Partendo da questo siamo rimasti quindi all’interno del singolo individuo, racchiuso in se stesso, all’interno di questo singolo compagno che dentro di sé sente crescere questa coscienza, la coscienza della libertà, la coscienza della giustizia, la coscienza della bellezza della vita, vita che deve essere vissuta perché – è inutile illudersi – ne abbiamo una soltanto, non è che dopo ce ne sarà un’altra ancora. Se non riusciamo a viverla come vogliamo, se ci facciamo invece schiacciare, se ce la lasciamo vivere dagli altri, come gli altri vogliono, è chiaro che di questa possibilità prima o poi ce ne accorgeremo e rimpiangeremmo di averla perduta.

Quando una persona, diciamo a esempio, un anarchico, un compagno all’interno di sé comincia a far germinare queste idee, ad un certo punto deve muoversi, deve aprirsi ad altri compagni che hanno, verificando se è vero, idee simili alle sue, che hanno con lui un’affinità, che la pensano come lui. Per identificare questi compagni, deve parlare con gli altri, deve identificarsi con gli altri, deve vedere fino a dove arriva questa affinità. Ecco perché abbiamo parlato di gruppi di affinità, perché questi compagni che si conoscono, si avvicinano, costituiscono dei gruppi che hanno una caratteristica comune, che cercano di avere non idee simili, ma intenzioni che hanno un punto di partenza abbastanza vicino.

Questi gruppi di affinità sono stati stranamente, qualche giorno fa, oggetto di un mandato di perquisizione a Roma e a Rovereto. A Roma sono state perquisite case di compagni, cinque o seia Rovereto, compreso il centro autogestito “Clinamen” . Oggetto misterioso che veniva cercato in queste perquisizioni, pare fosse, oltre ai soliti documenti (hanno sequestrato documenti, computer, un giornale che stava per essere stampato ed altre cose), quello che veniva cercato erano i gruppi di affinità. Cosa fossero mai questi gruppi di affinità nella mente illuminata e democratica di poliziotti e carabinieri, resta da vedere. Non so come, cercheranno di dimostrare che sono una cosa, mentre per noi sono un’altra. È da quindici anni che noi parliamo di gruppi di affinità nel senso che abbiamo spiegato prima, cioè a dire il fatto che compagni i quali hanno una interpretazione della vita, un modo di considerare le cose, trovino altri compagni che vedano la vita come loro, interpretino la vita alla stessa maniera. È logico che questi compagni, mettendosi insieme, costituiscano dei gruppi che non hanno una caratteristica formale, che non vengono ratificati da nessun contratto, da nessun accordo, da nessun pezzo di carta bollata, da nessuna sigla, da nessuna significatività politica, ma soltanto da una comune intenzione rivoluzionaria di trasformare il mondo.

Questo concetto, eminentemente ostico per le menti di carabinieri, polizia e ministero degli Interni, di Grazia e Giustizia, temo resterà per sempre un oggetto misterioso per queste persone.

Qualche tempo fa invece, altre menti geniali dell’antiterrorismo, con altri mandati di perquisizione (quella volta credo fossero state fatte a Firenze e in altri posti, Milano, non ricordo), cercavano anarchici insurrezionalisti. Pensate un po’ come lavora questa gente. L’anarchismo insurrezionalista è un modo di concepire l’anarchismo, è un concetto in cui si può riassumere una buona parte di quello che ho detto stasera qua. Ma come può mai costituire l’anarchismo insurrezionalista e gli anarchici che considerano come insurrezionalista la loro visione della vita, come può costituire questa un’ipotesi di lavoro da cui partire per gente dell’antiterrorismo, poliziotti o altra gente del genere? Evidentemente nulla di buono.

Abbiamo parlato tantissime volte di gruppi di affinità, ne abbiamo parlato nell’ottica di compagni che si conoscono, si mettono insieme, discutono, poi decidono cosa fare, che decidono non soltanto di incontrare altri compagni, ma anche altri gruppi di affinità, per costituire con questi altre strutture, strutture sempre di natura pratico-teorica, di approfondimento di idee e di decisioni su quel che c’è da fare nella realtà organizzativa della vita, nella trasformazione della realtà. Perché il potere, se voialtri ci riflettete un momento, si realizza nella concretezza, nello spazio, perché il potere non è soltanto un’idea, non è costituito soltanto da uomini, da leggi, da libri, da teorie, ma è costituito essenzialmente da spazi.

A esempio, la giustizia, la giurisprudenza, non ci sarebbero se non ci fosse un tribunale fisico, come luogo, un oggetto, un palazzo che si chiama tribunale. Così la scuola, l’università, l’insegnamento, non ci sarebbero se non ci fossero le scuole, le università. Questi luoghi fisici (le fabbriche, – pensate – le caserme, ecc.), costituiscono i luoghi fisici, gli elementi oggettivi dove il potere trova il suo fondamento. Quindi, quel discorso individuale che facevamo prima, che comincia a uscire da quella piccola scintilla, nella dimensione del contatto, della conoscenza, della costruzione di questi gruppi di affinità, si estrinseca all’esterno quando affronta questo contesto, lo spazio concreto.

Cioè a dire, la lotta rivoluzionaria non si realizza soltanto nelle idee e nelle teorie, ma anche in quelle azioni che si sviluppano nello spazio, è una contesa che avviene nel territorio, nello spazio. La diffusione nell’ambito del territorio non è decisione di una piccola minoranza, ma di tutti i compagni che autonomamente, in base a quel processo di sviluppo della coscienza individuale che li aveva portati ad identificare il proprio nemico, ritengono di attaccare secondo i modi e le scelte che pensano. Queste scelte non sono suggerite, non sono programmate, non sono individuate e realizzate da una parte di questo tessuto rivoluzionario che si sviluppa in un modo autonomo, indipendente e che si basa su una modesta e variegata reciproca conoscenza, ma invece si basano su una vastissima e assolutamente irrinunciabile autonomia dell’individuo. È su questo che noi insistiamo, l’elemento portante su cui insistiamo noi anarchici insurrezionalisti.

È naturale che questo tipo di discorso non può essere capito in altre sedi (in fondo la cosa ci interessa poco), ma occorre che invece venga capito dai compagni che sono interessati. Cioè a dire, la possibilità della lotta rivoluzionaria è sempre una decisione dell’individuo il quale da solo, con i compagni che si sceglie, decide i mezzi, i luoghi, i tempi e i modi, in cui realizzare i suoi progetti. Se questo dovesse invece essere messo da parte, se il compagno anarchico, una volta arrivato a determinati approfondimenti, una volta che è convinto di avere capito determinate cose, dovesse mettere a tacere questa sua coscienza, passerebbe la vita a lottare dentro di sè e a cercare la soluzione ad un problema irrisolvibile, perché quando uno ha preso coscienza di determinate cose, non riesce a farne a meno, non riesce a porvi rimedio. O si decide per la lotta o per una sopravvivenza senza senso, per una vita senza significato.

Vi ringrazio.

 


[Trascrizione della registrazione su nastro di una conferenza dal titolo “Anarchismo e democrazia” tenuta il marzo 1995 presso la Facoltà di filosofia dell’Università di Firenze]

II

La differenza tra anarchismo e democrazia credo che costituisca uno dei problemi più interessanti non soltanto di filosofia politica, ma di quotidianeità della vita. Anche se spesso un aspetto del problema è sulla bocca di tutti e l’altro aspetto del problema, l’anarchismo, è sulla bocca di pochi e quando viene affrontato quasi sempre viene mistificato e scarsamente approfondito.

Perché? Perché questo problema? Perché queste due entità filosofico-etiche, perché questi due concetti storicamente si sono sviluppati, e oggi ce li troviamo davanti in una maniera antitetica? Io penso che non sia possibile una risposta di tipo immediato, non esiste un solo punto di vista per cui l’anarchismo è l’antitesi della democrazia. Occorre quindi che si faccia un piccolo sforzo per approfondire il concetto. Perché normalmente la propaganda ci suggerisce che l’antitesi della democrazia è la dittatura e siccome fra dittatura e anarchismo esiste una distanza incommensurabilmente maggiore di quella che esiste tra anarchismo e democrazia, finisce che non si dice nulla.

Quindi bisogna fare un piccolo sforzo, non solo di natura definitoria per capire cosa sono questi due concetti, consentitemi di circoscriverli, questi due concetti, per il momento. Occorre anche entrare su tutto ciò che normalmente ci viene servito, su tutti i giornali, anche sui libri di teoria politica, quando si parla di democrazia e anche quando, qualche volta, con più o meno correttezza, si parla di anarchismo.

Cosa significherebbe se qua dicessimo: la democrazia da un punto di vista etimologico significa il potere del popolo. Ma se minimamente siamo informati sulle questioni di tutti i giorni, vediamo come questa definizione non regge. Probabilmente dal punto di vista oggettivo non ha mai retto, non è mai esistito il potere del popolo. Ma sono esistiti, camuffati o etichettati col termine di democrazia, poteri di minoranze che hanno gestito la volontà delle maggioranze, se non della totalità dei sudditi, dei cittadini. E quindi non possiamo ritenere valida la definizione che viene data, ma si tratta di un luogo comune più che della definizione normale, tradizionale, del concetto.

Sappiamo che meccanismi automatici ben inseriti all’interno della società garantiscono la riproduzione di interessi particolari delle elite dominanti. Cosa abbiamo oggi nelle mani come elemento congetturale, come strumento di ragionamento, come possibilità per capire la realtà quando parliamo di democrazia?

Abbiamo quello che ci viene servito sulle pagine dei giornali, ci viene costruito nelle aule universitarie.

Se osserviamo la realtà del modo in cui vengono realizzate le leggi, le strutture, in paesi democratici, come può essere l’Italia, i meccanismi di costituzione delle leggi, che sarebbe quindi l’aspetto normativo e preventivo della regolamentazione della struttura della formazione sociale, questi meccanismi sono affidati nelle mani di elite dominanti. Le quali elite vengono certamente delegate attraverso processi che sarebbe veramente offensivo approfondire qua. Quali sono questi processi, quali ottusità, quale ignoranza, quale approssimatività, quale pressapochismo c’è alla base delle scelte? Quale gente va al potere? Che cosa è successo in Italia in effetti tra la democrazia che si definisce prima Repubblica e la democrazia che viene definita seconda Repubblica? Che differenza c’è tra Andreotti e Berlusconi? Mille differenze. Ma nelle mille differenze la differenza si appiattisce.

La reale capacità di gestire gli interessi di una piccola minoranza che domina la grande maggioranza è minima. E quindi come si fa a definire questo coacervo di imbrogli e di nefandezze? Come si fa a definirlo con quello stesso termine che attribuisce al popolo il potere, la forza? Certamente c’è un imbroglio. Quindi vedete che quell’antitesi, non è tanto tra anarchismo e quella cosa che è la democrazia, ma è tra anarchismo e quella cosa gelatinosa e politicamente informe che viene definita democrazia. In queste contrapposizioni, anche con la migliore disposizione d’animo, si resta bloccati davanti all’idea superficiale e inconsistente che gli anarchici sono contro la democrazia.

Vediamo di scendere ad un livello un pochino più profondo. Che cosa spinge la gente a consegnarsi nelle mani di una minoranza che gestisce i suoi interessi? Cerchiamo di scendere all’interno di quel meccanismo decisionale. Non soltanto delle decisioni, ma di scendere nei meccanismi che stanno al di sotto di queste decisioni. Cioè, in effetti in ognuno di noi, da circa centocinquant’anni viene costruito un modello di ragionamento che si basa su di una interpretazione della realtà. Con saccheggiamenti vari e così via, grosso modo questo modello di ragionamento si può chiamare progressista. Cioè ognuno si immagina che il futuro debba necessariamente essere migliore del presente se vengono assolte certe condizioni, ammessi certi postulati.

Quindi fra chi ci propone un futuro migliore e chi propone un futuro di maggiore autorità, di maggiore gravame, di maggiore chiusura, noi preferiamo il primo. E diciamo: il primo, consentitemi la parola, è di sinistra, il secondo è reazionario, e, consentitemi il termine, è di destra. Anche qua, entrando al di dentro del meccanismo democratico, perché all’interno dello spettacolo democratico è importante la destra e la sinistra. Quindi all’interno dello spettacolo democratico si pongono questi poli. Ma, ci si chiede, cosa vuol dire un futuro migliore. In che modo noi potremmo ipotizzare di migliorare realmente la nostra condizione? O cosa vuol dire un futuro più autoritario che si richiami ai valori di un passato, a esempio della tradizione e così via? In che modo possiamo realmente vedere una differenza sostanziale all’interno di queste nuove scene?

Certo tra un aumento delle tasse, una maggiore fiscalità repressiva, un maggior potere alla polizia, un maggiore impegno repressivo attraverso il codice penale e civile, e un assistenzialismo, la creazione di nuovi posti di lavoro, la scuola più illuminata, ecc., ognuno direbbe, è preferibile la seconda soluzione.

Ma sostanzialmente all’interno di questa dimensione come scelta realmente differente, cosa c’è di differente?, quando tutte e due le soluzioni sono legate a una condizione superiore che le utilizza come possibile scelta per realizzare il suo scopo? Se noi osserviamo il gioco politico, che continuiamo a chiamare politico, all’interno di questo gioco esistono delle scelte di destra, di sinistra, di centro. Questi ribaltoni, questi trasformismi, questi partiti fascisti di ieri che adesso diventano democratici, che si allineano verso il centro. Queste sinistre di ieri che adesso si spostano verso il centro e non si chiamano più comuniste, ma si chiamano in un altro modo. Tutti questi movimenti che cosa significano. Che cosa significano se non una migliore adeguatezza a quelli che sono gli interessi della struttura produttiva del paese, struttura produttiva del paese in relazione alle condizioni produttive internazionali alle quali dobbiamo relazionarci?

In un certo senso, senza voler fare un rapporto di spiegamento deterministico tra struttura produttiva e sovrastruttura politica, tipico di un certo modello di funzionamento marxista che oggi ha fatto il suo tempo, giustamente anche con tutte le modificazioni che si ipotizzano, con tutti i tentennamenti, un rapporto tra queste condizioni si impone. In fondo, il concetto di struttura democratica della politica e della condizione sociale, si fonda sulle leggi e sugli accordi comuni, fissati attraverso meccanismi costituzionali. E queste condizioni servono, sono in relazione a certi interessi progressivi. Per cui la modificazione di questi interessi di base contribuisce, non determina in modo assoluto ma almeno contribuisce, a creare modificazioni a livello politico. All’interno del concetto di democrazia operano pertanto movimenti che non sono più, singolarmente presi, riconducibili al vecchio modello democratico, abbiamo detto scarsamente significativo.

Ora, se si vuole, l’anarchismo diventa antitesi di questi movimenti, di questi imbrogli, di queste scelte, di questi trasformismi. Non antitesi di un modello astratto di possibilità del popolo di realizzare se stesso, che non è mai esistito.

Scendendo nell’analisi di questa antica inimicizia, occorre vedere un altro punto. Perché se partiamo da un’ipotesi di possibile risoluzione di problemi, e guardate che questo è uno dei punti nevralgici del ragionamento, è una delle condizioni del nostro modo di pensare attuale e che è stata perfezionata sicuramente negli ultimi cento anni di storia del pensiero. Noi pensiamo possibile la risoluzione di un problema sociale grazie all’intervento politico. Cosa accadrà a marzo, cosa accadrà a settembre? Non solo in termini di elezioni o di nuove figure che andranno al potere. Ma cosa accadrà realmente, cosa accadrà della lira, cosa accadrà dei cambi, della nostra possibilità di sopravvivere, dei nostri stipendi, del nostro posto di lavoro, cosa accadrà nei prossimi anni? Questo futuro è incerto.

Ora, se noi leghiamo la possibilità di attendere a piede fermo questo futuro, senza avere eccessive paure, se la leghiamo alla possibilità di risolvere i nostri problemi o uno solo dei nostri problemi entriamo in una dimensione particolare. Noi pensiamo possibile la risoluzione del problema. Ora il ritenere possibile la soluzione di un problema, che sembra la cosa più normale del mondo, se ci riflettete bene, risale ad una dimensione filosofica e logica del pensiero che è figlia del determinismo scientifico dell’Ottocento, consegnato allo sviluppo del pensiero positivista e così via del nostro secolo, fino a noi, moltissimo tempo fa. Cioè questo pensiero che cosa diceva: i problemi si possono affrontare in modo chiaro e distinto, singolarmente e si possono risolvere.

Registrazione interrotta.

 


[Trascrizione della registrazione su nastro di una conferenza dal titolo “Anarchismo e democrazia” tenuta nell’Aula Magna dell’ex Liceo di Rovereto il 29 gennaio 1995]

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“La maggior parte delle leggi che diminuiscono la mia libertà, vengono giustificate per motivi utilitaristi, per essere state emanate in funzione dell’interesse generale o per il benessere generale; se, come Bentham suppone, ciascuna di queste leggi diminuisce la mia libertà, nondimeno non sottraggono nulla di quanto io ho diritto ad avere. Ciò non vuol dire, nel caso della strada a senso unico, che, nonostante io abbia il diritto di guidare nel senso opposto in Lexington Avenue, nondimeno lo Stato, per speciali ragioni, è giustificato se mi toglie quel diritto. Questo mi sembra sciocco, perché lo Stato non ha bisogno di speciali giustificazioni, ma solo di una giustificazione, per questo tipo di leggi. Così si può avere un diritto politico di libertà, ma tale che ogni limitazione diminuisce o infrange quel diritto, ma solo in un significato talmente debole, che il diritto di libertà non è affatto in concorrenza con diritti forti come il diritto all’uguaglianza. Se invece pensiamo ad un significato forte di diritto, in conflitto con il diritto all’uguaglianza, allora non esiste affatto un generale diritto di libertà”.

(R. Dworkin, I diritti presi sul serio)

“Lo Stato è la realtà dell’idea etica, lo spirito etico, inteso come la volontà sostanziale, manifesta, evidente a sé stessa, che pensa a sé e che porta a compimento ciò che sa e in quanto lo sa. Nel costume lo Stato ha la sua esistenza immediata, e nell’autocoscienza dell’individuo, nel sapere e nell’attività del medesimo, la sua coscienza mediata, così come l’autocoscienza attraverso la disposizione d’animo ha nello Stato, come in sua essenza, in fine e prodotto della sua attività, la sua libertà sostanziale”.

(G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto)

L’analisi politica di Aldo Capitini tra Kant e Hegel

Se è difficile parlare dello svolgimento del pensiero di un teorico, ancora più difficile è indicare lo sviluppo del pensiero di un uomo che riuscì a trasformare la propria vita in un punto di riferimento costante per quello che può considerarsi un ideale di fusione tra teoria e pratica.

Scrivendo pochi mesi prima della morte, Capitini ricordava di essere passato dagli studi letterari agli studi filosofici, intorno al 1933, proprio per «costruire le giustificazioni dell’opposizione al fascismo e della costruzione libero-religiosa» (“Attraverso due terzi di secolo”, in “La Cultura”, 1968, p. 457. Adesso si trova in A. Capitini, Italia Nonviolenta, Perugia 1981, p. 11).

E, senza dubbio, in Capitini questa fusione fu caratteristica costante, certezza perseguita con calma e determinazione, in tempi oscuri e in tempi migliori, ma con pari fermezza, senza mai deflettere dalla visione dello scopo finale. In questa direzione risultano centrali nel suo pensiero sia il momento teorico-pratico dell’elaborazione liberalsocialista, sia il momento pratico-teorico della teoria e della pratica antifascista.

Uomo di prassi, lottatore e simbolo di un certo modo di condurre la lotta, egli seppe, nel momento stesso in cui assumeva un ruolo “politico”, rivisitare questo ruolo per respingerlo, almeno nella cristallizzazione che l’ipoteca profonda dell’istituzione finisce per gettare sul significato di “politico”. Contro questa integrazione la sua soluzione era quella che proviene dal basso, che contrappone al potere centrale quello di tutti, il potere dei centri sociali, delle assemblee deliberanti e consultive diffuse nella periferia. (Cfr., A. Capitini, Il potere di tutti, Firenze 1969, p. 88).

Per un altro verso, l’inesausta introspezione, elaborata negli anni della tirannia, quando per forza di cose l’azione esterna si riduceva al sussurro più che al grido, gli aveva fornito, e continuava a fornirgli, quegli strumenti squisitamente teorici che sono indispensabili elementi dell’analisi necessaria all’azione. Arrestato una prima volta agli inizi di febbraio del 1942, Capitini venne rilasciato perché la sua azione all’interno del movimento dei liberalsocialisti non venne ritenuta pericolosa, come anche il suo scritto Elementi di un’esperienza religiosa, pubblicato dalla Laterza di Bari nel 1937, considerato più che altro come l’opera di un mistico. Ma nel 1943 venne arrestato una seconda volta e restò in carcere fino alla caduta del fascismo.

Se una caratteristica c’è da sottolineare in Capitini, è proprio il suo rifiuto del dogmatismo, dello schematismo; donde quegli strumenti teorici non venivano accettati in un quadro immobile, di supina adesione a forme filosofiche del passato, ma servivano da momento di vitale rielaborazione, dapprima in attesa di un impiego preciso nella realtà, dopo, giunto il momento, nell’impiego stesso e nelle battaglie che ne derivarono.

Così nota Alberto Granese: «Poco interessato alla filosofia come istituzione culturale, attività accademica o esercizio di sottigliezza fine a se stessa, Capitini era uno studioso attento (di un’attenzione che diventava qualche volta scrupolo e puntiglio filologico) delle idee filosofiche, di cui a lungo si nutrì e con le quali volentieri si confrontava, nello sforzo di chiarire, prima di tutto a se stesso, le proprie posizioni e le proprie convinzioni» (La riflessione filosofica, in Av.Vv., Il messaggio di Aldo Capitini, Manduria 1977, p. 127).

Quindi, rifiuto del dogmatismo ma accurato apprestamento degli strumenti teorico-filosofici della ricerca, occasioni di riscontro per altri strumenti che la pratica altrui andava mostrando al mondo e che poi divennero anche per l’antifascista ridotto al silenzio, quando divenne possibile gridare in faccia a tutti i torti del passato regime e i pericoli del nuovo, punti di forza per l’intervento sul concreto. Sia detto qui tra parentesi. Capitini aderì al Fronte Popolare nel 1948 proprio partendo dall’appello di quest’ultimo rivolto a tutti. Ma il suo strumento politico d’azione era costituito dai COS, Centri d’Orientamento Sociale.

Concetti logici e filosofici, come quello di apertura, trovano così la loro piena applicazione in concetti immediatamente afferenti alla prassi, come quello di religione aperta, o di comunità aperta. Mentre spunti metodologici, come il principio della nonviolenza, trovano diversa valutazione, configurazione e utilizzazione alla luce di concetti filosofici come quelli di atto, persuasione, liberazione. Daremo conto, nelle pagine seguenti, della formazione degli uni e degli altri, della stratificazione successiva nel processo rielaborante operato dalla personalità di Capitini, cosa abbastanza complessa, data la vasta concezione, ricca di sfumature, che ogni singolo elemento dell’incontro teoria-prassi, prende nel suo pensiero.

Elementi di una grande sintesi che assume tre punti di maggiore pregnanza: la religiosità, intesa nei termini di unità logica del mondo; l’educazione, intesa come strumento di modificazione della realtà, la nonviolenza, intesa come metodo. Sarebbe arbitrario separare tutti questi elementi, come arbitrario e nozionistico sarebbe inserire a forza Capitini nella formula esclusiva del liberalsocialismo, cui egli pur appartiene. Se questo viene qui fatto, almeno in parte, lo si deve alle necessità della ricerca, ad un tentativo di prima approssimazione, senza per altro pretendere di risolvere tutto “l’universo” Capitini in una definizione storiografica esatta, in un’assonanza di letture, in una semplice presenza bibliografica.

Più che cercare di arrivare a delle affermazioni conclusive, avanzeremo delle domande a noi stessi, come amava fare lo stesso Capitini, che cercava in tutti i modi di fuggire alle chiusure dogmatiche anche per quello che riguardava il proprio stesso pensiero, e da queste domande trarremo fuori ipotesi interpretative, possibili linee di valutazione.

Ad esempio, nello sviluppo del pensiero politico Capitini occupa un determinato posto. Ciò è incontestabile. Dall’esame delle presenze tematiche questa posizione può delinearsi in un senso – ad esempio quello di una immediata collocazione all’interno del movimento liberalsocialista – ma potrà obiettarsi in modo ben più concreto solo dopo che verranno chiariti, almeno in parte, le azioni costruttive d’intervento nella realtà operate da Capitini, azioni che non possono dissociarsi da quelle presenze tematiche per lo stesso motivo per cui queste ultime non possono essere comprese se non alla luce delle prime.

Ecco perché ci aspettiamo qualcosa di più dalle ricerche che più avanti dettaglieremo riguardo il suo pensiero educativo, anche se eviteremo di penetrare singoli problemi tecnici di pedagogia. Proprio perché l’educazione occupa un posto centrale nel pensiero attivo di Capitini “politico”, proprio perché l’educazione non si riduce a semplice mezzo accidentale da delegare all’istituzione, ma costituisce strumento attivo di azione politica che i singoli possiedono e che devono gestire personalmente e direttamente. Il concetto di educazione aperta riassume tutti gli aspetti del pensiero di Capitini.

Lo stesso per l’analisi degli aspetti religiosi del suo pensiero, senza la quale non sarebbe comprensibile la sua critica del potere politico e la serie di soluzioni alternative proposte alla luce del concetto metodologico della nonviolenza come strumento d’azione politica.

Ma, al di là dei libri e delle letture, al di là delle teorie o dei concetti e, forse, anche al di là dei singoli fatti, cristallizzati necessariamente nella loro singolarità falsamente concreta, fissati in un passato che solo rivivendolo in piena responsabilità può avere un senso per noi, ora, resta il movimento alternativo cui la sua vita e la sua azione hanno dato origine, un movimento pacifista, nonviolento, realmente liberale e socialista, fondato sul concetto della compresenza di tutti, sia dei vivi come dei morti, e sul concetto del potere di tutti come possibile nientificazione dei danni e dei guasti del potere istituzionale.

La posizione di Capitini nella storia del pensiero politico. Il liberalsocialismo

Nel numero 9, del novembre 1941, nella rivista “Argomenti”, Ranuccio Bianchi Bandinelli, sotto lo pseudonimo di Filippo M. Paparoni, pubblica una lunga recensione dal titolo Terra e contadini. Si tratta del primo scritto a natura divulgativa dove vengono riprese le tesi del liberalsocialismo. Le cautele del modo in cui l’iniziativa prese le mosse non impedirono che il testo venisse letto e recepito nella sua sostanziale intenzione politica.

Il concetto di una teoria e di una struttura organizzativa politica di natura liberalsocialista non era certo nuovo. In Gran Bretagna, in Germania e in Francia, nel secolo scorso, c’erano state iniziative in tal senso, dal filantropismo di Barret-Browning fino all’utopismo di Robert Owen e, poi, fino alla Fabian Society e al Labour Party. A questo si potrebbe aggiungere sia il pensiero di John Stuart Mill, come quello di Eduard Bernstein. Ma questi precedenti hanno poco a che fare con l’iniziativa italiana specifica che se da un lato si rifa all’esperienza politica liberale di Merlino, di Salvemini, di Gobetti, dei fratelli Rosselli, di Croce, ecc., dall’altro nasce su iniziativa precisa sia di Guido Calogero che di Aldo Capitini.

La considerevole differenza tra questi due pensatori rende oggi necessaria una precisa discriminazione, come allora rese impossibile una vera e propria collaborazione sul piano operativo. Vediamo di chiarire meglio questo problema. Capitini scrive riferendosi proprio a queste differenziazioni: «L’esigenza di Calogero era soprattutto giuridica, costituzionale e altamente riformistica; l’esigenza mia era libertaria-popolare, pronta ad assimilare anche le rivoluzioni (se nonviolente) pur di allargare a tutti la società» (Antifascismo tra i giovani, Trapani 1966, p. 98).

Partendo dalla critica crociana del marxismo, Guido Calogero cercava di ripresentare un progetto politico che sviluppasse una tesi non socialista non marxista. Così egli scriveva nel secondo manifesto redatto nel 1941: «Liberalismo e socialismo, considerati nella loro sostanza migliore, non sono ideali contrastanti né concetti disparati, ma specificazioni parallele di un unico principio etico, che è il canone universale di ogni storia e di ogni civiltà. Questo è il principio per cui si riconoscono le altrui persone di fronte alla propria persona, e si assegna a ciascuna di esse un diritto pari al diritto proprio» (Difesa del liberalsocialismo ed altri saggi, Milano 1968, p. 222). Sono di già visibili in queste poche righe gli elementi essenziali del pensiero politico di Calogero, che poi prenderà sviluppo organico nella cosiddetta “filosofia del dialogo”. (Cfr., Filosofia del dialogo, Milano 1962).

L’analisi critica del pensiero marxista, per come venne sviluppata da Calogero anche nel volume dedicato all’Etica, del suo trattato di filosofia, pubblicato da Einaudi nel 1946, si articola su tre punti essenziali: a) critica dello sviluppo dell’analisi economica nel senso estraniante ai veri bisogni dell’uomo (un esempio considerevole, per Calogero, era l’esacerbazione delle ricerche matematiche degli economisti); b) critica alla tesi marxista di un mondo futuro costituito soltanto da lavoratori, quindi privo della tesi pluralista; c) critica della mancanza nel marxismo del principio etico che equipara il valore al lavoro, principio in astratto sostenuto dal marxismo ma in pratica dimenticato.

Da queste posizioni viene fuori un liberalismo che non accetta i fondamenti dell’economia marginalista, quindi dei neoclassici liberisti, che non ammette l’operaismo come liberazione dell’uomo, che propone un terreno etico, trovato appunto sulla equiparazione del valore al lavoro, dove fare nascere la nuova possibilità politica del liberalismo, da una parte, e del socialismo, dall’altra, in una formazione chiamata liberalsocialismo. A fondamento di questo egli colloca «[...] il concetto della sostanziale unità e identità della ragione ideale, che sorregge e giustifica tanto il socialismo nella sua esigenza di giustizia quanto il liberalismo nella sua esigenza di libertà» (G. Calogero, Difesa del liberalsocialismo ed altri saggi, op. cit., p. 159).

Questa posizione politica aveva bisogno di un sostegno “forte” e un sostegno del genere non poteva venirle che dallo storicismo assoluto di Croce. Ma il pensatore di Pescasseroli non poteva accettare l’intenzione implicita nel tentativo di Calogero di conciliare libertà e uguaglianza. Quindi non fu disponibile ad avallare nessuna “terza via”. Quella possibilità a cui si era riferito Carlo Rosselli in Socialismo liberale, («È possibile concepire, scrive Rosselli nel 1930, che il passaggio dall’una all’altra società si compia con processo graduale e pacifico: con un passaggio che, salvando i pregi ormai assicurati dell’una, li rafforzi progressivamente coi pregi dell’altra» Opere scelte, vol. I, Torino 1973, p. 45), rimase tale, appunto una semplice possibilità penalizzata dalla storia.

Commentando quasi a se stesso le ragioni del fallimento del liberalsocialismo, almeno per come lui l’aveva formulato e ipotizzato, oltre che concretamente cercato di realizzare, Calogero nel 1967 affermava di non credere in «[...] alcuna coerente autonomia o superiorità del liberalismo rispetto al socialismo né di questo rispetto a quello, l’uno non essendo se non il necessario completamento dell’altro. In qualsiasi situazione storica, infatti, l’uguaglianza politica promossa dal liberalismo non è mai sufficiente, se non viene integrata dall’uguaglianza economica promossa dal socialismo, così come quest’ultima non basta se non la soccorre la prima» (Quaderno laico, Bari 1967, p. 210).

Del tutto differente la posizione di Capitini, che pure collabora con Calogero rendendosi bene conto delle differenze che esistevano, ben chiare, tra i suoi appunti per la costruzione di un Movimento politico, redatti a partire dal 1936 su suggerimento di Walter Binni (cfr. A. Capitini, Antifascismo tra i giovani, op. cit., p. 97), e il “Manifesto” di Calogero che è stato successivamente definito da Bobbio, «[...] più che “manifesto” un trattatello di teoria politica» (N. Bobbio, Profilo ideologico del Novecento italiano, Torino 1986, p. 159). Ma si tratta di una collaborazione che reputa necessaria in nome della lotta antifascista. Da parte sua, scrive Capitini in prima persona: «Cercavo di accentuare gli altri aspetti [diversi da quelli giuridici e politici in senso stretto], più libertari, più popolari, più religiosi» (A. Capitini, Antifascismo tra i giovani, op. cit., p. 116).

Per prima cosa Capitini non pensa ci si possa accontentare dell’obiettivo politico come scopo del liberalsocialismo, egli vuole andare al di là. Per questo motivo non aderirà al Partito d’Azione, considerando che il referente sociale cui bisogna indirizzarsi non potesse essere soltanto il ceto medio ma l’intera comunità umana. Dietro il problema economico e politico egli vede il problema morale, quindi il problema religioso nella sua più larga accezione del termine. Così egli scrive: «Il problema politico ed economico rimanda a un compito morale: quello di portare l’anima alla libertà e alla socialità della civiltà futura; libertà, che è ricerca e affermazione del valore in tutti i campi della vita; socialità, che a questi valori incessantemente scoperti e affluenti nella storia fa partecipare esplicitamente tutti, per una ragione di benessere, di giustizia, per il bene comune di un maggior prodursi di valori nella storia e, più che per questo, per la gioia di celebrare la presenza infinita dell’umanità nelle singole persone» (Ib., p. 117). Siamo quindi davanti ad un pensatore e ad un riformatore religioso, ma non nel senso di una forma di istituzionalizzazione riformata della religione, ma nel senso della individuazione di una religione aperta, latente nella comunità umana, che bisogna però far venire alla luce, anche attraverso l’opera di organizzazione politica dal basso.

Anche l’aspetto economico non sfugge a questa legge morale superiore. Non tanto sulla linea del pensiero economico cattolico riformatore, quanto sulla tensione di una religiosità diversa, inquietante, aperta ad esperienze internazionali e di una sconvolgente modernità. «Il passaggio della proprietà dei capitali, egli scrive, ad organismi collettivi che facciano salire e tengano attiva la coscienza dei componenti, mira appunto a portare nella vita sociale quello che per una concezione religiosa è il fondamento intimo, già vissuto nell’animo: la socialità infinita e libera» (Ibidem). Qui è l’individuo da cui si parte, non la collettività. Vedremo meglio più avanti su quali basi Capitini sviluppa questi ragionamenti, e come queste basi siano tutt’altro che la tradizione economicista, da un lato, e quella cattolica, dall’altro.

Considerando alcuni temi del pensiero precedente e successivo all’esperienza liberalsocialista di Calogero, come ad esempio quello della compresenza e il tema importante della festa, si capisce la strana, ma solo apparente, contraddizione insita nella maggiore accentuazione data da Capitini al socialismo, maggiore di quella che aveva intenzione di sostenere Calogero, almeno limitandosi alla stesura del primo manifesto. Capitini vedeva nel socialismo non il momento dell’uguaglianza economica, ma quello della festa, dell’unione di tutti, della socialità intima e quindi religiosa nel senso etimologico del termine, di forza capace di unire tutti gli uomini.

Infine la differenza più radicale, allora forse non rilevata nelle difficoltà della lotta, quella tra la tesi nonviolenta sostenuta da Capitini e quella di Calogero, che giustifica la necessità di un ricorso alla violenza liberatrice. Calogero aveva difatti sostenuto: «Il diritto di usare la forza in tutti quei casi in cui, non solo la libera formazione delle leggi attraverso il consenso, ma la stessa libera formazione del consenso e del dissenso attraverso il gioco della pubblica opinione (in cui ciascuno deve contare solo per l’autorità della sua intelligenza, esperienza ed onestà individuale) appaia infirmata o gravemente ostacolata dal prepotere acquisito di certe posizioni finanziarie o politiche» (Difesa del liberalsocialismo e altri saggi, op. cit., p. 221).

A questo punto dello svolgimento del pensiero di Capitini, la nonviolenza si fonda sull’idea del massimo rispetto che ogni componente della socialità di cui abbiamo parlato deve agli altri componenti, ma non come contemplazione dell’altro, quanto come intima necessità di agire insieme all’altro, attraverso l’amore per tutti gli esseri, uomini, animali, cose, contro la cosiddetta civiltà dell’ordine e della sicurezza che si basa sulla forza. La stessa religione diventa un superamento delle religioni storiche in nome della costituzione di una religione corale capace di diventare religione di tutti. Qui si innestano, come vedremo meglio nel prosieguo di questa ricerca, sia il concetto di apertura, molto importante in Capitini, che parlerà di religione aperta, di educazione aperta e di società aperta, sia il concetto di compresenza, cioè compartecipazione alla società sia degli uomini del passato, sia di quelli del presente. Ha scritto Giuseppe Gangemi che «[...] il liberalsocialismo di Capitini è l’unione di Libertà, Uguaglianza e Fraternità, concetti che formano una trinità complessa in quanto ciascuno è necessario all’altro, pur essendo antitetico agli altri» (Il problema della pace in Italia dal dopoguerra al ’68, in Aa.Vv., La pace in cammino, Acireale 1991, p. 20).

Sul piano più strettamente organizzativo questa partecipazione alla vita comune, alla socialità intrisa di legame religioso, veniva visto da Capitini come un processo che partendo dal basso, ed escludendo qualsiasi struttura organizzativa centrale di natura dirigista, potesse dar vita ai consigli di tutti i partecipanti del mondo produttivo, aziende agricole e industriali socializzate, quindi, con un termine moderno, autogestite. Egli scrive: «Oggi sono una cosa sola liberalismo o senso della ricerca e dell’interiorità; socialismo o organizzazione della giustizia sociale su base comune togliendo la schiavitù dell’uomo dall’uomo; internazionalismo, federalismo giuridico e morale tra le nazioni per compensazione di civiltà e di prodotti; rinnovamento religioso perché le nuove strutture sociali abbiano nel loro seno nuclei religiosi» (Antifascismo tra i giovani, op. cit., p. 118).

Rifiutando l’entrata nel Partito d’Azione, Capitini non resta fermo. Nel luglio del 1944 dà vita nella sua città al primo COS, al primo Centro d’Orientamento Sociale. In un opuscolo pubblicato lo stesso anno, Capitini illustra il funzionamento di questi Centri. «Si costituisce, egli scrive, a Perugia un Centro d’Orientamento Sociale (C.O.S.). La Direzione non intende insegnare, ma lavorare insieme con gli altri. Essa ritiene che l’orientamento sociale non è principalmente risultato di cultura, ma di esigenze che vivono nell’animo, e la discussione con gli altri, la cultura, l’azione, aiutano queste esigenze a diventare più chiare e concrete. Il Centro compie perciò l’opera di ascoltare queste esigenze e di farle sorgere. Il Centro promuove lo studio dei problemi che la trasformazione sociale presenta nei diversi aspetti non solo economico, ma politico, giuridico, scientifico, morale, religioso, culturale. È a disposizione di tutti, e specialmente dei giovani ingannati dal fascismo nella loro formazione e informazione politica» (Prime idee di orientamento, Perugia 1944, p. 21).

Così, gli elementi culturali costitutivi di questi organismi risultano chiari e lontani dall’ipotesi dirigista di un qualsiasi partito sia pure democratico: ascoltare e parlare, libero e paritetico contributo degli intellettuali, libertà di ingresso a tutti, nonviolenza. In un altro scritto di qualche anno dopo, Capitini precisa meglio. «Il C.O.S. strumento di tramutazione. Con la sua opera di segnalazione e di insufficienza, di reazione al conformismo, di superamento del fatto “potere”, il C.O.S. è strumento di distacco dalla realtà vecchia. Ma può essere anche strumento di tramutazione, anzitutto perché, quanto più quell’opera di critica è appassionata, seria, profonda, tanto più pone inizi di positività. Questa tramutazione dell’uomo avviene, dunque, non per uno sforzo interiore, solitario, moralistico, ma per il fatto concreto di regolarsi autodeterminandosi trasparentemente nello spazio del C.O.S.» (Ib., p. 38).

È negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale che si perfeziona il pensiero politico di Capitini e quindi anche il divario che lo andava sempre più separando dal liberalsocialismo interpretato da Calogero. Così Capitini precisava i termini di questo distacco ormai incolmabile: «Per Calogero il principio etico è l’altruismo, la volontà buona, la volontà altruistica; non soltanto far posto al tu, ma che il tu faccia posto, a sua volta, al lui. Così la libertà si disciplina per generare altre libertà, e la giustizia è vista come convivenza delle libertà: la civiltà è una successiva neutralizzazione di disuguaglianze. La coscienza politica moderna, scriveva Calogero, sente di essere passata al di là della vecchia antitesi del liberalismo e del socialismo con la scoperta del nucleo comune dei loro valori» (Antifascismo tra i giovani, op. cit., p. 118).

Lo spirito dei C.O.S. è differente, e Capitini stesso lo riallaccia storicamente alla tradizione religiosa e socialista italiana. «Mi piace di segnalare la linea più interiore e più vera dello spirito con cui sorse il C.O.S., quella della sua anima ideale entro, tuttavia, la concreta situazione odierna; lo spirito, oso dire, di San Francesco, di Mazzini, di Matteotti» (Nuova socialità e riforma religiosa, Torino 1950, p. 238).

Alle radici del pensiero politico di Capitini. Educazione e libertà

Dall’accusa di storicismo Capitini si difende con chiarezza scrivendo: «Appartengo alla generazione dei Rosselli e di Gobetti, e quando, all’Università, dal 1924 (in ritardo), presi in mano i libri del Croce avevo già un orientamento ben diverso da quello umanistico-storicistico: ero da molti anni un libero religioso, implicitamente un kantiano con una prevalente attenzione alla “finitezza” dell’uomo [...] un kantiano-leopardiano, umanitario e socialisteggiante [...]. Dal Croce filosofo ho imparato un preciso senso dei valori [...] dal Gentile ho imparato quel portare avanti l’atto» (Educazione aperta, vol. I, Firenze 1967, p. 7).

Qui c’è un primo numero d’indicazioni che ci possono essere utili per disegnare le influenze di fondo agenti su Capitini, almeno al momento del passaggio della sua iniziale decisione di intraprendere gli studi letterari, alla successiva di approfondire le ricerche filosofiche e quelle politico-pedagogiche in particolare.

Negli anni immediatamente precedenti alla seconda guerra mondiale, anni tristi su cui incombeva – almeno per quel che gli spiriti più illuminati riuscivano a intuire – il senso della tragedia, si acuì l’attenzione per il fatto religioso. E questo venne vissuto da tutta una “generazione infelice” come stimolo per ripensare i problemi del male, della personalità della società umana. «Qui si accentuò [per Capitini], ha scritto Eugenio Garin, contro la violenza degli Stati, contro tirannidi, guerre e persecuzioni, un’aspirazione a un vincolo diverso, a comunità altrimenti fondate. Di qui, in molti, la sincera speranza in una ripresa dei valori cristiani, in possibilità non ancora esaurite di istituti: e la fiducia in un dialogo “cattolico” fra gli uomini di buona volontà» (Cronache di filosofia italiana, Bari 1959, p. 457).

Si tratta di uno sbocco religioso di alcune premesse dell’attualismo gentiliano, sbocco reso quasi necessario dall’impossibilità di accettare l’illuminismo, il razionalismo, il positivismo e lo stesso storicismo, davanti alle pretese assolutizzanti di un fascismo mussoliniano che pretendeva derivare dall’imperiale Roma antica la legittimità del manganello e dell’olio di ricino.

Quindi, prima del kantiano Capitini, si dovrebbe ricercare qualcosa del gentiliano Capitini, e del perché e del come, tanta parte del messaggio filosofico di Gentile, pervenne ad alimentare un certo antifascismo italiano.

Gentile era riuscito a collocarsi come il filosofo dell’Unità e, in questo a contrapporsi a Croce che, nel processo di storicizzazione della realtà, appariva come il filosofo della distinzione. E, se il problema centrale era, ancora una volta, la ricerca di Dio, per Gentile, Dio si trovava annullando di colpo tutte le cose particolari in una invocazione, un abbraccio, una preghiera, capace di unire tutti gli esseri del creato.

Ora, potendo tutto ciò sembrare un puro espediente retorico, e accorgendosene Gentile, egli procedette a inserire la sua filosofia nell’educazione, intendendo quest’ultima come richiamo alla fondamentale unità degli uomini. Quindi, nella sua forma originale, l’attualismo si pone come quel richiamo alla fiducia, quella tensione verso l’Unità in un mondo di uomini e cose dispersi e, spesso, privi di senso. Quasi null’altro. Le strutture logiche essendo molto tenui, addirittura ridotte al minimo, se si pensa alle giustificazioni fornite in merito al processo di generazione del concreto e ai modi d’intenderlo o al rapporto logico tra Unità assoluta e molteplicità infinita.

Ma non era certo il sistema filosofico di Gentile che interessava ai giovani, i quali riflettevano preoccupati, nel corso degli anni della dittatura fascista, e che assistevano alla strana (o almeno così sembrava loro) involuzione del filosofo attualista verso una giustificazione della forza e della violenza. Quello che nella filosofia di Gentile restava di valido era, per loro, ancora utilizzabile, ancora trasformabile in attività politica. E lo smarrimento di Gentile fu appunto quel suo volere realizzare un programma, un imperativo, qualcosa di fisso e di persistente; quando la sua stessa tesi, al contrario, lo portava verso il perenne risorgere dei problemi. Invece d’approfondire la infinita possibilità della vita, si abbandonò alla tremenda contraddizione mistica tra Atto e Fatto.

Capitini scrive: «Quando all’Atto del Gentile io sono tra quelli che hanno sentito il fascino di quel concentrare tutto qui, per tutto rifare in un totale impegno. Non la sommersione delle distinzioni e quei logicismi che ricadevano in sé stessi, ma la forza di quell’eticismo (o tensione religiosa, teogonica) ha operato su molti, anche estranei allo storicismo ed all’immanentismo del filosofo, e tanto più al suo fascismo, tanto scadente in confronto al romantico Atto!» (Educazione aperta, vol. I, op. cit., p. 9)

Capitini vedeva bene nell’Atto una possibilità di “Apertura”, il problema dell’aprire l’atto stesso al “tu-tutti”, «Aprire l’Atto, egli scrive, per me voleva dire vivere in atto il rapporto con i singoli tu come divino rapporto dall’intimo (da cui l’interiorizzazione e la nonviolenza), mentre il Gentile si perdeva nelle sue giustificazioni statalistiche e in tutto il suo peggiore hegelismo» (Ib., pp. 9-10).

Altrove lo stesso concetto è ribadito: «Di “apertura” dell’atto, in molte cose inteso idealisticamente, io parlai nei miei Elementi di un’esperienza religiosa del 1937, riassumendo una lunga ricerca teorico-pratica, orientata a porre le singole concrete persone a cui l’atto infinitamente si apre (e la nonviolenza, la non menzogna, dal punto di vista di un angusto idealismo non sono ammissibili)» (Il fanciullo nella liberazione dell’uomo, Pisa 1953, p. 73).

Se così facendo si giustiziava Gentile, a maggior ragione si eliminava Hegel. Per altro, appare chiaro che la polemica di Capitini, più che contro lo storicismo di Croce si appunta contro l’idealismo di Hegel da cui possono derivare – e sono di fatto derivate – non poche deformazioni autoritarie e non solo di destra.

Quindi, rifiuto della dialettica. Per quanto dinamica questa possa sembrare, è sempre il modello di un sistema chiuso, per cui, pensando all’importanza del concetto di “apertura” per Capitini, si può comprendere il motivo del suo attacco contro questo modello di processo logico.

Nel suo volume sulla “compresenza” egli scrive: «Nell’apertura alla compresenza lo schema della dialettica non è più assoluto, anche se serve per aprire dove sono chiusure, per portare movimento dove è immobilità. Ma per la compresenza vale la legge dell’aggiunta: ad esseri nuovi esseri, a valori nuovi valori; e quanto più la compresenza si svolge, tanto più sono possibili altre aggiunte, altre liberazioni» (La compresenza dei morti e dei viventi, Milano 1966, p. 108).

Quindi, rifiuto del particolare immanentismo di Hegel, del pensiero come centro della realtà, che poi è la realtà della vita e della storia. Rifiuto della necessità di uccidere l’individuo per salvare la storia. Rifiuto della storia come dialettica degli spiriti dei vari popoli particolari, con il rifiuto della relativa assunzione degli eventi nella loro pesantezza, della vita come guerra, come vittoria del migliore.

E, infine, attraverso Hegel, rilettura di Croce. Ma di un Croce che rivendica il primato dell’individuo sullo Stato. La moralità sarà, quindi, fatto dell’individuo e non semplice adesione alle leggi dello Stato. Da cui l’educazione come impegno a migliorare la convivenza comune (che può anche chiamarsi Stato) e non come semplice ubbidienza alle leggi. In questo modo dalla storia emerge il valore. E Capitini scrive: «Dal Croce filosofo ho imparato un preciso senso dei valori» (Educazione aperta, vol. I, op. cit., p. 7).

Se in Hegel, l’attività del singolo, e il concretarsi in cosa di questa attività, andavano perdute nel tutto; in Croce, la distinzione tra giudizio storico individuale e giudizio storico cosmico, consentiva un salvataggio dei valori. Dalla preferenza hegeliana per i “grandi avvenimenti”, in questo modo, si apre una strada verso la moralità kantiana.

In questo senso si pone il recupero, fatto da Capitini, delle teorie dell’utilitarismo inglese, in particolare il fenomenismo empirista di Stuart Mill pensatore politico, che fu fra i primi a sviluppare le tesi del liberalsocialismo. Capitini accetta l’idea di Mill che negare un punto di vista diverso dal nostro ci impoverisce, in quanto ci toglie qualcosa, e l’allarga andando al di là dell’idea di Mill che questo impoverimento riguarda soltanto la propria esperienza e il progresso, e sostenendo invece che si tratta di un impoverimento più ampio e grave in quanto concerne il senso oggettivo di appartenenza ad una comunità il senso stesso della vita insieme agli altri.

Ciò che differenzia Capitini da Stuart Mill è quindi anche il suo diverso porsi di fronte all’idea di progresso, e questa differenza si ripercuote nei confronti dello storicismo assoluto di Croce. Ha scritto Giuseppe Gangemi: «Capitini non crede più al tradizionale concetto di progresso. Egli considera ugualmente importanti tutte le esperienze, sia quelle passate che quelle periferiche e sostituisce all’accento sul cumulo delle esperienze, l’accento privilegiato sul cumulo di significato che si riesce a dare alla vita. La pienezza di questo significato (cioè l’aggiunta massima possibile) nasce, secondo Capitini, dalla compresenza di tutti (i morti, i viventi e i posteri)» (Il problema della pace in Italia dal dopoguerra al ’68, in Aa.Vv., La pace in cammino, op. cit., p. 19).

Ed è questo uno dei fatti più considerevoli della posizione politica e filosofica di Capitini: il recupero dell’operosità dell’individuo, anche attraverso la critica di un concetto lineare di progresso che, sotto molti aspetti, potrebbe suggerire l’idea di abbandonarsi al corso ineluttabile della Storia, come meccanismo in sé diretto in maniera certa verso un avvenire migliore. Qui l’insegnamento morale di Croce, che per tanti aspetti travalicava il semplice concetto di progresso, si unisce all’unicità religiosa di un certo attualismo. Il tutto non come sradicamento delle passioni posto al servizio dei valori, ma come utilizzazione delle passioni in modo costruttivo, l’unico senso che può fondare moralmente i valori stessi.

Il rifiuto del progresso non porta Capitini nelle braccia dell’irrazionalismo di moda in quegli anni tanto travagliati. Forse un certo avvicinamento ci sarà dopo la guerra, ma verso Kierkegaard e, quasi sicuramente, proprio per quel che il filosofo danese rappresentò nella sua polemica contro l’hegelismo. (Cfr., A. Capitini, “Esistenza e presenza del soggetto”, in “Atti del Congresso Internazionale di Filosofia”, Roma 15-20 novembre 1946, Milano 1948, p. 7).

Di opinione in parte diversa Bobbio: «Che questa critica di Hegel avesse tratti esistenzialistici, o meglio che l’interpretazione di Hegel che Capitini aveva accolto (ed era del resto favorita dalla forma che aveva assunto lo hegelismo in Italia) fosse particolarmente vulnerabile in una prospettiva esistenzialista, non mi par dubbio. Ma è da notare ancora una volta che anche in questa fase egli non si ferma all’esistenzialismo perché non ne accetta i tratti irrazionalistici. Per quanto possa sembrare strano in un pensatore religioso come Capitini, la critica di Hegel non lo conduce affatto a Kierkegaard ma gli fa ritrovare Kant» (“La filosofia di Aldo Capitini”, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, Serie III, vol. V, 1, 1975, p. 319. Adesso si trova in N. Bobbio, Maestri e compagni, Firenze 1984, pp. 239-260). Si può forse dissentire da queste considerazioni di Bobbio, ma lo sbocco kantiano è fuor di dubbio.

Scrive Capitini: «Pareva più religioso il Kant, il quale, pur con l’astrattezza e la lontananza e la chiusura adialettica e ontologica del suo Dio, poteva, attraverso dinamici dualismi, conservare il dramma della realizzazione dell’assoluto come dovere, come valore, come aspirazione, tensione, con incertezza, trepidazione, “rispetto”» (Il fanciullo nella liberazione dell’uomo, op. cit., p. 86).

L’atto educativo non diventerà mai, in questo modo, un processo meccanico che procede da una fonte di autorità, ma la possibilità di esaltare la consapevolezza nell’educando, il suo autocontrollo, in modo che la realtà agisca, come diceva Kant, assecondando “sensati desideri”, (cfr., La religione nei limiti della semplice ragione, tr. it., Torino 1945, p. 224), in modo molto diverso dall’intervento della forza e delle leggi dello Stato.

Educazione per la liberazione e attraverso la liberazione esige il progetto fissato dai valori. In altra prospettiva diventa “educazione chiusa” e il significato d’apertura scade a livello di espediente retorico (come avveniva in alcuni sviluppi dell’attualismo). L’universale kantiano è il valore come bene, prodotto della nostra attività più “persuasa”, giustificazione più profonda della nostra esistenza. «Il valore è il sale della terra – scrive Capitini – il valore ci salva da tante stoltezze compiute, da tante parole imperfette dette [...] il valore è disciplina per la mente e orientamento per la coscienza» (Educazione aperta, vol. I, op. cit., p. 100).

La struttura del ragionamento, forse, non è specificamente kantiana, ma l’elaborazione dei temi si colloca nella prospettiva kantiana, con forti presenze di religiosità sul tipo di Berdiaeff o Kierkegaard, una religiosità critica. Nel 1956 il Sant’Uffizio, regnante Pio XII, pose all’indice il libro di Capitini Religione aperta (Pisa 1955). Egli rispose con lo scritto: Discuto la religione di Pio XII in cui criticava le posizioni religiose del cattolicesimo e approfondiva il suo punto di vista della religione aperta. (Cfr., A. Capitini, Rivoluzione aperta, Firenze 1956).

Un approfondimento a parte merita il suo rapporto con gli scritti di Carlo Michelstaedter, morto suicida in giovanissima età nel 1910. Così lo stesso Capitini, nelle prime pagine di una delle sue opere più importanti: «Carlo Michelstaedter, alla fine del primo decennio di questo secolo, dopo aver sentito come forse nessun altro la romantica riduzione di tutto a se stesso, si uccise per possedersi, per consistere, per sottrarsi ad ogni dominio e realizzarsi perfettamente. Egli scontò così con la sua vita serissima tutta una civiltà» (Elementi di un’esperienza religiosa, Bari 1947, p. 12).

La figura centrale dell’opera filosofica di Michelstaedter è quella del “persuaso”, e Capitini si definirà spessissimo come un “persuaso”. Persuaso è quindi colui che non persegue capovolgimenti di rapporti di forza, ma denuncia la riduzione dell’uomo a schemi erronei e obbliganti diretti a muovere la sua quotidiana fattività, a influenzare la sua volontà. Come scriveva Michelstaedter: «Persuaso è colui che ha sempre tagliati dietro a sé tutti i ponti e combatte sull’ultimo a vincere o a morire. E il morire è per chi scrive il silenzio. Per la paura di questa morte gli altri s’accontentano d’aver l’apparenza d’aver detto qualche cosa, per poter continuare a cercar quest’apparenza, senza dir mai niente. La loro volontà non è di dire, ma d’aver detto; non vivono in ciò che dicono, ma dicono questo e quello per vivere» (La persuasione e la rettorica, in Opere, Firenze 1958, p. 244).

Il “persuaso” capitiniano è quindi un individuo che agisce al di fuori della grande massa del conformismo, che evita di girarsi verso la via dei singoli bisogni e quindi trovare così modo di sfuggire a se stesso. È un individuo che è cosciente della eterna deficienza delle cose e della propria deficienza. Così ancora Michelstaedter: «I bisogni, le necessità della vita, non sono per [il persuaso] necessità, poiché non è necessario che sia continuata la vita che, bisognosa di tutto, si rivela non esser vita» (Ib., p. 20).

Ma la persuasione capitiniana è anche sensatezza, quindi un concetto in grado di recuperare aspetti kantiani, per come abbiamo di già visto parlando dei desideri sensati, ed è autocontrollo, indispensabile anticamera di ogni momento autogestionario della vita e della lotta politica nella perfettibilità dell’uomo e delle sue cose. Senza il concetto di persuasione non sarebbe praticabile il ragionamento che viene fuori dall’educazione aperta, senza l’elemento morale fornito dalla capacità dell’individuo di decidere di se stesso, in funzione di un miglioramento della collettività. E qui siamo di già in pieno all’interno del sistema filosofico kantiano. Come ha giustamente rilevato Bobbio (La filosofia di Aldo Capitini, op. cit., p. 321), Capitini cita diverse volte la seguente frase di Kant: «Noi possiamo aver fiducia che, se noi fossimo o diventassimo un giorno perfettamente ciò che dobbiamo essere e potremmo diventare (con una continua approssimazione), la natura dovrebbe obbedire ai nostri desideri i quali però, allora, non sarebbero mai insensati» Il passo è riportato ne Il fanciullo nella liberazione dell’uomo, op. cit., p. 87, e per due volte ne La compresenza dei morti e dei viventi, op. cit., a pagina 121 e a pagina 225.

Certo, bisognerebbe sottolineare che se l’affermazione della compresenza dei vivi e dei morti è un rifiuto della concezione umanistica tradizionale, è anche un rifiuto di Kant. Per prima cosa viene in mente che è un richiamo a Leopardi, fra i cui temi principali si trovano sia l’unità di tutti gli esseri viventi contro la natura matrigna, sia la compresenza dei morti. Ma più ancora qui si innestano altri elementi estranei alla tradizione filosofica europea, elementi che vengono rielaborati da Capitini in forma originale.

Dewey e, ancora di più, Gandhi, essendo tanto forte la presenza di quest’ultimo, da fargli scrivere: «In fondo da Kant a Gandhi c’è un’apertura» (A. Capitini, Educazione aperta, vol. I, op. cit., p. 8).

Ci si potrebbe riferire anche alla missione politica educatrice di Mazzini (o di S. Francesco) ma lo stesso Capitini, pur ammirando queste due personalità, le riteneva inadeguate. La modernità di Gandhi consiste nel fatto che trasforma in fatto comunitario quello che prima si trovava a livello teorico individuale. Il dualismo tra realtà morale e realtà divina si risolve in lui, come in Kant, nella Verità, cioè in ciò che è veramente, nel Valore, nel Bene, nel Giusto. Non per nulla l’autobiografia di Gandhi si intitola: Storia dei miei esperimenti con la Verità.

Se dovessimo contrassegnare in una posizione “strategicamente” adeguata la politica di Capitini, considerata nel suo complesso e nell’estrema variegata moltiplicazione delle sue sfaccettature, dovremmo usare il riferimento al metodo della nonviolenza. Ed è per questo motivo che, qui, dovendo collegare il pensiero di Capitini nell’ambito dello sviluppo italiano ed europeo del liberalsocialismo, non possiamo fare a meno di inserirlo nella linea del pensiero filosofico europeo che promana da Kant fino a Gentile, con la particolare esperienza extra-europea del gandhismo.

Peraltro, anche in Gandhi alcuni elementi del suo pensiero sono extra-orientali, per non dire europei. Il suo disporsi come educatore nei confronti del fatto politico ricorda Mazzini, il suo modo di considerare il fatto religioso ricorda Tolstoj.

«Gandhi è stato un educatore nel senso più completo, scrive Capitini, sia perché ha riferito la sua azione educatrice e financo didattica ad una concezione generale, sia perché ha studiato il problema, ha formulato piani per l’educazione e l’istruzione, e lui stesso si è fatto “maestro di scuola” [...]. Ad un uomo che così strenuamente riduceva tutto a pratica o ad impegno personale, e che, d’altra parte, usava il metodo a posteriori risalendo a direttive dal vivo dei problemi pratici da risolvere, sono bastati pochi autori, né egli ha avuto il modo di rendersi conto della storia dei problemi educativi [...]» (Ib., p. 171).

Vocazione politica come vocazione educativa quella di Capitini, identica alla vocazione politica ed educativa di Gandhi. Attraverso l’educazione egli ritenne possibile “aprire” negli individui le potenzialità nascoste e stornate dal potere centralizzato statale, per costituire un potere periferico, un potere che potesse essere veramente di tutti.

I temi fondamentali della ricerca politica e sociale di Capitini

Se il conservatorismo è il prete, la rivoluzione è il profeta. Questa prospettiva riassume bene il pensiero di Capitini riguardo il valore, tema fra i principali del suo pensiero politico e sociale. «La nostra esperienza ci dice che più di tutti ci ha educato chi ci ha dato l’impressione pura di un valore e chi ci ha fatto sentire la netta distanza da una realtà più vera. Dietro il sapere che ci è stato comunicato da persone, da eventi, da letture, e che pure ha alimentato le cellule del nostro essere totale, noi sentiamo con l’anima dell’anima l’altezza, la purezza, l’eternità, l’inesauribile sollecitazione che ci viene da ciò che ci apparve di esemplare, di classico, di superante la quotidianità. La fortuna più grande che possa toccare ad un fanciullo è di incontrare familiari, maestri, amici, che abbiano una profonda persuasione dei valori e di una realtà di valore, persone appassionate per l’arte, per la giustizia sociale, per la vita religiosa, per la vita del pensiero, per la bontà, per il coraggio di sacrificarsi, per la presenza dei morti, per la lealtà e la veracità; ed altri valori allo stato più puro» (L’atto di educare, Firenze 1951, pp. 9-10).

Questa lunga citazione è tratta dall’opera di Capitini che più di ogni altra cerca di cogliere il rapporto tra valore morale, nel senso più ampio del termine, e liberazione dell’individuo come fatto sociale e politico. L’educatore deve curarsi del valore, l’educando può solo presentare un preannuncio, una specie di inizio della realtà liberata dal male in tutte le sue diverse forme. L’educatore è portatore di un profondo travaglio: una tensione che presenta il passare delle cose e la continua riemersione del valore. Suo compito è quello di presentare questo passato nelle cose migliori, cioè nel suo valore. È nell’incontro col fanciullo che questo valore passato può diventare valore futuro, della realtà liberata, che non conosciamo.

Alla domanda: Il valore libera in quanto è valore, o è valore in quanto libera? Capitini risponde dicendo che dal male vi possono essere anche modi di liberazione che sono la negazione del valore (ad esempio, il suicidio o l’accidentale eliminazione della causa del male transitorio). Eppure soltanto la scelta e l’impegno, cioè la strada del valore, possono far pervenire ad una vera liberazione intesa come fatto complesso, socialmente articolato e non solo come fatto individuale, per cui il valore consiste nella cosciente liberazione.

La perfetta adesione a questo impegno fissa il nesso tra valore e liberazione, chiudendo la strada alle degenerazioni politiche dell’idolatria partitica e alle false speranze sociali dell’edonismo.

E questo impegno è fatto di persuasione. «A me importa fondamentalmente l’impegno di questa mia modestissima vita, scrive Capitini, di queste ore o di questi pochi giorni; e mettere sulla bilancia intima della storia il peso della mia persuasione» (Elementi di un’esperienza religiosa, op. cit., p. 111). Abbiamo di già parlato del giovane filosofo cui si deve questo concetto della “persuasione”, ricordiamo qui che i curatori dei lavori di Michelstaedter, Vladimiro Arangio Ruiz e Gaetano Chiavacci, amici di Michelstaedter, erano anche amici di Capitini. (Cfr. G. Chiavacci, “Carlo Michelstaedter”, in “Leonardo”, 1947, pp. 139-146). Capitini stesso nella rivista “Letteratura” (n. 26, gennaio-febbraio 1946), pubblicò alcuni inediti di Michelstaedter e, in forme diverse, tenne spesso presente il contributo originale e l’eroica coerenza di questo pensatore. «Di Michelstaedter – precisa Capitini – mettevo in rilievo, anche in una conferenza che tenni a Firenze, la “persuasione” (un termine che ho assunto, preferendo “persuaso” a “credente”, persuaso nel senso di “autopersuaso”, quasi di “pervaso”), l’antiretorica, quel tipo di esistenzialismo, che poteva divenire supremo impegno pratico, come poi è stato confermato dall’esame dell’epistolario manoscritto, dall’interesse che egli ebbe negli ultimi suoi anni per i Vangeli; insomma mi pareva esatto considerarlo come la presenza di una tensione pratica etico-religiosa» (Antifascismo tra i giovani, op. cit., p. 53).

Il tema della “persuasione” si ricollega ad altri temi e a notevoli aperture.

Il rifiuto del tema della “credenza”, significa rifiuto netto della religione nel senso del dogma, nel senso della rivelazione, nel senso del conservatorismo del prete. “Persuasione” significa inoltre accettazione della tesi kantiana delle possibilità umane dell’autocontrollo, dell’autodeterminazione. Il “persuaso” non può essere tale per opera autoritaria di qualcuno dall’esterno, lo è, in prima analisi, per opera di autodeterminazione. In non ultima analisi consentirà l’apertura alla dimensione profetica dell’educatore nel campo della trasformazione sociale.

«La straordinarietà del “momento”, per l’appello ad una forza non forza oltre la forza, come è quella che sta alla base e prima della natura-vitalità – questo grido per richiamare l’attenzione a scoprire un orizzonte che non escluda nessuno –, dà un compito transitorio a chi si fa centro di questo appello: ora l’appello ci vuole, la proposta, l’intervento, il farsi avanti, e perciò costituisce il centro; ma per il futuro la gente farà ciò che vorrà. La profezia per il futuro, ipoteca l’avvenire, lo chiude entro le proprie linee, e contrasta alle altre visioni escatologiche. Una profezia “per il presente”, il richiamo alla compresenza e all’omnicrazia» (A. Capitini, Il potere di tutti, Firenze 1969, pp. 122-123).

Quando Lamberto Borghi parla della “unicità” di Capitini intendendola «[...] in questa felice commistione di tenerezza e di durezza, di concentrazione e di espansione, di consumazione nel dolore e di celebrazione e fruizione della gioia» (Personalità e pensiero di Aldo Capitini, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, Serie III, vol. V, 1, 1975, p. 265), sviluppa, estendendola alla personalità di Capitini nel suo complesso, l’idea di persuasione. E così continua lo stesso Borghi: «In questo “persuaso” albergò un’indomita decisione di rifiutare ogni adattamento alla realtà, vuoi esistenziale vuoi politico-sociale, quale essa è. La resistenza al male, all’ingiustizia in ogni dimensione della vita trae origine in lui non da calcoli o da previsioni di successo dell’azione, ma dall’intimo della coscienza» (Ib., p. 269).

Altro tema fondamentale in Capitini è quello della tensione, che s’intreccia fittamente con altri temi e che non sempre è facile reperire in forma separata, trattato obiettivamente.

Ne L’atto di educare Capitini scrive: «Mi pare che l’educazione debba dare il senso di una tensione, di una insoddisfazione per ciò che c’è; e che la pedagogia debba anch’essa aggiungere al suo molteplice e indispensabile lavoro, questa attenzione e questo aperto studio alle tensioni alla liberazione come operarono e come ancora opereranno» (L’atto di educare, op. cit., p. 5).

Qui è presente la lezione gentiliana e la negazione di ogni psicologia descrittiva come utile strumento politico di trasformazione, e quindi implicitamente educativo. L’atto è capace di condensare in un attimo tutto il dramma del passato e tutta la possibilità dell’avvenire. Ma non semplice affermazione di ciò, vuota retorica, piuttosto esigenza pratica, trasformativa, bisogno di un’attività diretta verso un valore indiscutibile, un’ansia di miglioramento e di rinnovamento individuale e collettivo, sociale e politico.

Ma il richiamo all’unità fondamentale di tutti gli uomini, tipico del primo attualismo gentiliano, era svanito nel successivo statalismo etico di una filosofia eretta a “sistema dello Stato fascista”; e, forse, alcune previsioni sarebbe stato possibile farle anche in occasioni di certe forzature logiche come quella del superamento del particolare nell’Unità ideale. Per cui, venendo a mancare il fondamento universalistico dell’attualismo, il cosiddetto linguaggio dell’uomo, quella filosofia si trasformava nella metafisica dello Spirito, della Storia, delle Categorie, dell’Atto, dell’Uno, tutti superiori in assoluto all’individuo. Quest’ultimo si trovava così davanti alla nientificazione di se stesso, e la tensione che consente il nascere dell’uno-tutti, diventava impossibile.

Per acquisire la tensione bisognava non acquietarsi nell’affermazione che «[...] lo Spirito in atto non ha antefatto» (Il fanciullo nella liberazione dell’uomo, op. cit., p. 73), ci voleva molto di più, bisognava «[...] aprirsi all’esistenza (proprio all’esistenza, di qui la nonviolenza) dei molteplici se vogliamo veramente interiorizzarli, che essi sorgano con noi, e siano presenza, e che non siano “trovati”. Andando lungo la linea del valore dell’atto, si sarebbe lavorato a concretare la sua infinità, a superare i limiti, a legarsi ai tutti in eterno, e ad esigere un’ulteriore realtà appunto perché non fossero santificati i limiti di questa realtà e a vedere questa ulteriore realtà nell’altro, cominciando nell’educazione» (Ibidem).

È facile comprendere come quello che aveva affascinato Capitini era proprio l’elemento religioso dell’attualismo, quella tensione verso l’Unità, non tanto il quadro tecnico dell’elaborazione filosofica. Per uno spirito “persuaso” come il suo lo starci dentro, l’adattarsi allo schema, anche a prescindere dell’involuzione autoritaria, sarebbe stato impossibile. Ed è egli stesso, a distanza di tanti anni, a puntualizzare la cosa: «La celebrazione gentiliana dell’unità dello Spirito, in cui si risolve ogni distinzione, dette alla sua concezione una certa genericità che, se da un lato evitava il volo basso e minuzioso del positivismo e dello psicologismo, non superava a volte il verbalismo, la retorica, l’impazienza dell’attenzione alle particolarità concrete. Tale concentrazione sull’Atto, sulla sua unità, sul suo generarsi come teogonia, con un indubbio carattere romantico e mistico, aveva un notevole fascino, che toccò molti dopo la scarsa suggestione delle applicazioni positiviste; e finché si risolveva in una difesa e sviluppo della libertà, fu anche assunta da coloro che non se la sentirono affatto di seguire poi il Gentile nel suo statalismo e scoperto autoritarismo. L’unità così affermata, si mostrò come una pericolosa preparazione ad un principio autoritario, quando il Gentile passò a sostenere lo Stato fascista» (Educazione aperta, vol. II, op. cit., pp. 9-10).

Ed eccoci al concetto e alla relativa tematica dell’“apertura”.

L’atto dell’apertura è un atto verso il tu e presuppone la possibilità di arrivare al tu-tutti. In questo modo si fissa una specie di preminenza del tu nei confronti dell’io. Quest’ultimo appare limitato all’interno di una ristretta realtà sociale e politica, mentre l’altro può arrivare ad avviarsi verso un’altra realtà, molto più ampia perché “liberata”.

Secondo la stessa definizione di Capitini: «Apertura è la disposizione a stabilire rapporti con altri e con altro, a non porre condizioni assolute, a non presentare esclusivamente il proprio io, a facilitare il più largo movimento, il più vario incontro, la dialettica tra diversi, l’aggiunta del nuovo, l’intersoggettività» (Ib., vol. I, p. 41). Ma questa definizione è troppo generica, diremo quasi terminologica. In effetti, in Capitini il termine “apertura” non avrebbe senso senza il significato che lui dà alla religione e senza lo sviluppo che ha saputo dare al valore di quest’ultima.

Nella vicenda della storia dell’uomo, l’apertura religiosa (apertura di Dio) ha reso possibile – secondo Capitini – l’apertura dell’individuo, con una serie di alterne vicende dal francescanesimo al protestantesimo, alle riflessioni dell’esistenzialismo protestante contemporaneo.

In Religione aperta Capitini scrive: «Quando incontro una persona, e anche un semplice animale, non posso ammettere che poi quell’essere vivente se ne vada nel nulla, muoia, e si spenga, prima o poi, come una fiamma. Mi vengono a dire che la realtà è fatta così, ma io non accetto. E se guardo meglio, trovo anche altre ragioni per non accettare la realtà così com’è ora, perché non posso approvare che la bestia più grande divori la bestia più piccola, che dappertutto la forza, la potenza, la prepotenza prevalgano: una realtà fatta così non merita di durare. È una realtà provvisoria, insufficiente, ed io mi apro ad una sua trasformazione profonda, ad una sua liberazione dal male nelle forme del peccato, del dolore, della morte. Questa è l’apertura religiosa fondamentale» (Religione aperta, Parma 1955, pp. 12-13).

Quindi, come adesso appare chiaro, il pensiero di Capitini è un continuo intersecarsi di queste fondamentali tematiche. La “persuasione” è la base del rifiuto, della non accettazione del potere centrale, dell’autoritarismo statalista che pretende di organizzare fin nei minimi particolari la vita della gente. La persuasione comporta la consapevolezza che quello che appare come “realtà” non può essere la “sola realtà” (insegnamento questo che proviene dall’attualismo). Ora, se non è la sola realtà, ciò dipende anche, e principalmente, dal fatto che è una realtà di prevaricazione e di sfruttamento, di genocidio e di morte. Quindi, il “non accettare” è primariamente giustificato dal punto di vista morale da questo “essere” della realtà fuori della morale, da questo essere veramente immorale. Ma, non accettando, mi apro ad un’altra realtà che è quella stessa della compresenza dei morti e dei viventi.

«Il punto di partenza dell’apertura alla compresenza, scrive Capitini, è che l’io non è solo, ma è con altri, tutti, anche i morti, e ciò che viene fatto, è fatto con l’aiuto di tutti. Questa è un’apertura sul serio» (Educazione aperta, vol. I, op. cit., p. 73).

Diverse conseguenze di pensiero e di azioni politica e sociale scaturiscono da queste premesse:

1) Una maggiore attenzione verso gli altri esseri considerati come singoli individui, un’apertura all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo di tutti. Da ciò trova fondamento il metodo della nonviolenza, il rifiuto della menzogna (determinato dal fatto che gli altri, a cui danno andrebbe la menzogna, ci sono intimamente compresenti), la protesta contro la morte.

2) Il giudizio sugli altri esercitato in modo aperto, ammettendo la possibilità di migliorare, non separando il mondo in “buoni” e “cattivi”.

3) Il criterio dell’agire come aggiunta e non come imperio, quindi non la vittoria sugli altri ma la paziente crescita per il bene comune.

4) La speranza, fondata sull’importanza fondamentale della compresenza di tutti gli esseri morti e viventi. (Per questa ripartizione di problemi cfr. A. Capitini, Educazione aperta, vol. I, op. cit., pp. 73-74).

Il punto nodale della legge della compresenza è costituito dal principio logico dell’aggiunta che sostituisce, come abbiamo visto, quello della dialettica, considerato, a ragione, da Capitini, pericoloso per le possibili implicazioni autoritarie che dal suo uso possono derivare. «La legge della compresenza, egli scrive, è lo sviluppo del meglio, l’accrescersi del valore, non in una dialettica di mors tua vita mea, ma in un incremento: la compresenza è eterna perché crescente» (La compresenza dei morti e dei viventi, op. cit., p. 19).

Si è così rifiutato il mondo fatto di forza e di potenza, per aprirsi ad un mondo (una realtà) diversa, che consente uno sviluppo armonico ad ogni essere individuo, la compresenza cooperante di tutti. In questa compresenza ognuno ha una parte inesauribile e indescrivibile. Al contrario della realtà della vita come potenza, la vita come compresenza non ammette la legge di sussunzione specifica della dialettica hegeliana. «Per quanto riguarda la compresenza, continua Capitini, lo schema dell’aggiunta vale molto meglio della dialettica, ed è più plausibile che proprio là dove ci sia il valore si aggiunga altro valore, là dove ci sia presenza di esseri si aggiunga altra presenza, là dove ci sia pace si aggiunga altra pace, e dove ci sia libertà si aggiunga liberazione. In questo modo la compresenza opera due volte, dialetticamente verso la vitalità o sfera naturale, per contenerla e superarla; e in sé per far posto ad aggiunte ulteriori che dal di dentro ad essa stessa possono avvenire, di realtà liberata e di altro ancora, indefinibile ora» (Ib., p. 109).

In definitiva, l’atto dell’apertura è disponibilità al mondo degli altri, alla instaurazione di una realtà diversa capace di costruire un diverso rapporto politico e sociale fra gli uomini. Capitini lavorerà in questo senso per tutta la sua vita.

L’apertura verso la realtà come azione politica

La realtà è a volte maligna, ma non per questo da rifiutarsi in una chiusura pessimistica. Capitini ha parole di rasserenamento, di fermo ottimismo, parole che diventano un incitamento all’azione concreta, all’intervento, all’apertura verso questa stessa realtà, per modificarla, trasformarla.

Per giungere a questo risultato, da un punto di vista religioso, occorre che non si concedano differenze tra cielo e terra. Egli scrive: «Come la terra, il cielo mi guarda nella mia vita, ed io li amo» (La vita religiosa, Bologna 1942, p. 13). E più avanti: «Materia e spirito sono superati nella mia vita quotidiana» (Ib., p. 16).

Scrive Borghi: «La congiunzione dei due rifiuti e l’esigenza di una trasformazione dell’ordine sociale e di quello esistenziale costituiscono gli aspetti peculiari della concezione della vita e dell’impegno pratico di Capitini. La forma mai smorzata nella quale egli opera a trasformare la società gli deriva dall’impegno che pone a trasformare la realtà quale è. La sua ansia di liberazione sociale trae motivo e vigore dalla sua ansia di liberazione religiosa» (Personalità e pensiero di Aldo Capitini, op. cit., pp. 23-24).

Quindi, azione nella realtà, azione politica.

Come abbiamo già detto, tutta l’attività di Capitini fu attività politica, senza per questo scadere in quella prospettiva politica che correntemente sembra racchiudere tutto il significato di questo termine. Al contrario tanto ampio e tanto aperto al più profondo significato di “comunità” e di “azione comune”. Alla religione aperta corrisponde quindi in lui la rivoluzione aperta.

Ma perché ci si possa avvicinare correttamente all’attività politica nel senso rivoluzionario (e, nel caso di Capitini, nonviolento), occorre che ci si intenda sul significato di “potere”.

Giustamente, in una nota posta in apertura all’ultimo libro di Capitini, Luisa Schippa scrive: «Il tema del “potere” fu attentamente studiato da Capitini negli ultimi anni della sua vita. Lo considerava il “problema” del nostro tempo» (Nota introduttiva a A. Capitini, Il potere di tutti, op. cit., p. 57). Da parte sua Capitini: «La teoria delle due fasi [del potere] fa posto ad una fase di potere senza governo, che crea la meritevolezza davanti alla storia. Di contro al pessimismo che soltanto con lo Stato si dominano gli uomini inguaribilmente e interamente egoisti e violenti... facciamo valere il metodo di impostare un’adeguata articolazione della prima fase, quella del potere senza governo, premessa e garanzia che l’eventuale seconda fase sia un potere nuovo “conseguente” alla prima fase» (Ib., pp. 57-58).

Prospettiva, pertanto, di critica religiosa e di critica politica. Da un lato il progetto della “riforma religiosa”, dall’altro il progetto della “nuova socialità”. Scrive Bobbio: «In questa prospettiva le pagine di Capitini si aprono alla discussione dei due grandi temi del mondo contemporaneo: il destino del cristianesimo e il significato del comunismo. Rispetto alle domande che il cristianesimo e il comunismo pongono all’uomo d’oggi, la risposta del “persuaso” [...] è identica, ed è diversa tanto da quelle del cristiano (anche insoddisfatto) e del comunista (anche scontento) quanto da quelle del non-cristiano e del non-comunista» (Introduzione a A. Capitini, Il potere di tutti, op. cit., pp. 23-24).

Il divario col materiale storico, da un lato, e con le realizzazioni politiche della dottrina comunista, dall’altro, ha ragioni profonde in Capitini, non ultimo il suo rifiuto del modello dialettico, la sua sofferta religiosità, la sua teoria logica dell’aggiunta, ecc. Il divario col cristianesimo conservatore della chiesa ufficiale, si alimenta, invece, dall’essere quest’ultimo la religione del prete e non più quella del profeta, dall’avere smarrito la “tensione”, dall’avere perso il senso globale della compresenza. E se le strutture del comunismo possono diventare la base per una nuova oppressione, come di fatto sono diventate in Russia e in altri Paesi dove si è costruita la dittatura di una ristretta minoranza sul resto del popolo; anche le strutture della chiesa possono, ed è accaduto, sostenere un potere che si fonda sulla forza e sull’oppressione.

La sua definizione di liberalsocialista e la sua partecipazione al relativo movimento fu decisiva per la sua esperienza, spingendolo ad evolvere le originarie componenti culturali laiche del suo pensiero. Ma anche in quella sua esperienza politica, nel senso più stretto del termine, come ebbe a scrivere Bobbio, egli sollecitava la «[...] massima libertà sul piano giuridico e culturale e il massimo socialismo sul piano economico», (citato da N. Bobbio, op. cit., p. 27), quindi la realizzazione di una tensione che invece gli altri componenti del movimento liberalsocialista acquistavano nel raggiungimento, più o meno immediato, degli obiettivi di gestione del potere in forma democratica.

Ora, questa personale considerazione della politica e delle attività connesse, se partiva dal principio della “religione aperta”, conduceva ad un altro principio: quello della “comunità aperta”. Il metodo , il “compagno di strada”, restava sempre la nonviolenza.

In che modo il messaggio di Capitini, indubbiamente composto se non all’interno di un sistema, almeno all’interno di un tutto organico dal punto di vista teorico, può dirsi completato proprio dall’aspetto della pratica politica quotidiana? Dal lato dell’individuo, il discorso è abbastanza chiaro, ma dal lato della società? Si può accettare la tesi della condizione di necessità e quindi per superare la crisi accettare il rafforzamento dello Stato? Oppure esistono veramente, cioè sono praticamente percorribili, le alternative indicate da Capitini, di dar vita a quelle strutture ideali che l’individuo può costruire insieme agli altri individui contro la violenza e la forza?

Capitini sostiene che non bisogna accettare la dialettica del potere come movimento contraddittorio a livello nazionale e internazionale che si risolve sempre come repressione del più debole all’interno e come possibile guerra tra Stati all’esterno. Se la comunità tradizionale è in crisi, egli sostiene, bisogna trovare un’altra strada, la strada della comunità aperta.

Su questo argomento, Capitini fissa alcuni elementi di attività pratica e politica:

1) dare rilievo al valore di ciò che è «dal basso»;

2) Attuare il più largo decentramento e la massima autonomia;

3) Contrapporre alla congestione urbanistica le comunità dei villaggi e delle campagne;

3) Sviluppare il movimento gandhiano cooperativo attuato nei villaggi indiani;

4) Sviluppare quello che può essere definito un federalismo nonviolento dal basso.

Anziché tenere sempre presente lo Stato, la nazione, Capitini suggerisce il metodo di vivere nella provincia e nella località più periferica, ma con prospettive e tematiche a carattere universale. «Invece in Italia siamo stati, egli scrive, e siamo ancora, sotto un’influenza ottocentesca che dà risalto o ai valori della nazione o a quelli locali in senso folcloristico, oscillando tra un patriottismo scolastico (che è stato tanta causa del fascismo) e un provincialismo paternalistico» (Educazione aperta, vol. I, op. cit., p. 126).

Il concetto di apertura della comunità viene, così, riaffermato nella prospettiva allargata di inserirsi in un luogo preciso, però prendendo quanto meno possibile da questo per aprirsi al resto del mondo.

Rapportando questo principio alla scuola come fondamento della società, si ha: «La scuola, in qualsiasi luogo, deve vivere il principio della massima apertura, riducendo allo strettamente indispensabile gli elementi e i valori che prende dalla comunità circostante» (Ib., p. 126).

Ma l’“apertura” comporta anche l’idea di “sviluppo”. E come si può far coabitare l’affermazione che tutto è sviluppo col fatto, indubitabile, che oggi nel mondo c’è la crisi? In effetti, il concetto di sviluppo si precisa meglio in Capitini come «[...] movimento verso il meglio, cioè come qualcosa che va avanti evitando di attardarsi in ciò che è passato, condizione prima dell’apertura» (Ib., p. 127). Quindi, continua Capitini: «L’insegnante contribuisce allo sviluppo della comunità se personalmente vive un’apertura religiosa verso gli scolari e ogni altro essere, come appartenenti alla compresenza» (Ib., p. 128).

Considerazioni di indubbio valore qualitativo che, però, non possono misconoscere l’urgenza di un problema quantitativo. Lo sviluppo della comunità si realizza anche nella crescita del numero di abitanti, nel moltiplicarsi delle loro esigenze civili. La scuola deve far fronte a ciò, cioè «La scuola deve seguire immediatamente alla comunità che si accresce di numero, di ricchezza, di esigenze civili» (Ib., p. 129).

Gli strumenti da sollecitare devono essere tali da garantire la differenza di piano tra la socializzazione economica e la libertà nel campo morale. In queste direzione Capitini sostiene il suo liberalsocialismo. L’iniziativa culturale è altra cosa dell’iniziativa amministrativa che deve basarsi su fondamenti collettivi e socializzati. Ma le iniziative culturali finiscono per soccombere alla, spesso, preminente urgenza dei bisogni economici, se non sono controllate dal basso ed in modo permanente. Ecco il motivo per cui tutta la comunità deve essere articolata dal basso in forme autonome di democrazia. In questo senso diventa necessaria una integrazione profonda tra scuola e comunità. «La scuola deve nella sua diretta (programmi e metodi) e indiretta (struttura degli istituti scolastici) educazione sollecitare e depurare l’esigenza del continuo controllo dal basso» (Ib., p. 130). La stessa organizzazione dell’istituto scolastico come comunità, sviluppa espressioni dal basso, come assemblee, giornali murali, iniziative cooperative ed interventi all’esterno. «La scuola, attuando come prevalente il metodo della ricerca e del dialogo e forme di autonomia, imprime sicure capacità di sviluppo alla comunità» (Ib., p. 131).

Caratteristica di Capitini il problema dell’educazione degli adulti, considerata fondamentale. In sua assenza sarebbe quanto meno ingiustificata, se non illusoria, la sua tesi di intervento (apertura) sulla comunità, la quale, ovviamente, non è composta soltanto di bambini. Inoltre, il problema si pone riguardo il compito stesso dell’educatore-profeta-uomo politico, che fonda il suo stesso modo di essere nel mondo come fatto educativo. «Per lo sviluppo della comunità il primato è da dare alla formazione degli adulti e ai modi per renderla intensa ed elevata; ad essa segue la scuola, come istituzione per gli adolescenti» (Ib., p. 133).

Eppure il senso comunitario sarebbe ancora parziale e manchevole se ad esso si facessero affluire solo i componenti attiviti della comunità, se si limitasse a questo aspetto il fatto educativo. Al contrario, Capitini insiste a lungo sulla necessità dell’inserimento (compresenza) dei sofferenti e dei morti. «La scuola deve ricevere dalla comunità degli adulti, e deve far maturare negli adolescenti, la coscienza della testimonianza permanente che è data dai sofferenti e dei morti» (Ib., p. 135).

Solo tenendo conto di tutte queste forze interagenti, si può parlare veramente di sviluppo della comunità. Certo, per completare il quadro, sarebbe necessario accennare anche ai processi di modificazione che si inseriscono nella comunità attraverso le strutture giuridiche, politiche, economiche, sociali, ideologiche; attraverso i rapporti di classe, le influenze della tecnica, del potere burocratico, e così via. Ma Capitini pensa che al di là di ciò si possa lavorare, da persuasi, per lo sviluppo della comunità, purché questa sia aperta e sia pronta a dare. Così, egli auspica un passaggio dalla pedagogia dell’autoeducazione alla pedagogia sociale (già in corso di verificazione), e da questa alla pedagogia dell’apertura alla compresenza di tutti. «La scuola deve essere aperta in rapporto allo sviluppo di una comunità aperta» (Ib., p. 136).

Al termine dello sforzo di ricerca si colloca, quindi, quella educazione “permanente”, su cui Capitini ebbe a fermarsi anche in occasione del suo ultimo scritto pubblicato in volume. Qui si legge: «Prima si consideravano due età dell’uomo, una dell’uomo che cresce (adolescente) e quindi apprende e va a scuola, e l’altra età, dell’uomo che è cresciuto (adulto), e non va più a scuola, perché lavora ed è capo della propria famiglia. Oggi questa distinzione non si fa più [...] il fanciullo deve crescere in maturità, l’uomo maturo deve crescere in fanciullezza, cioè in prontezza al nuovo, al cambiamento, in apertura agl’incontri e al fare» (Il potere di tutti, op. cit., p. 109).

A questo è diretto il progetto “globale” teorizzato da Capitini: considerare la tensione educativa come qualcosa che non appartiene ad un momento particolare della vita, ma si colloca all’interno dell’uomo nel suo complesso, della sua persistente aggiunzione. In tal modo egli parla di Gandhi come «educatore nel senso più completo», (Educazione aperta, vol. I, op. cit., p. 171), perché ha svolto (e inteso svolgere sempre) un’azione educativa diretta ad agire all’interno di una concezione generale.

La società viene considerata da Capitini come un tutto unico che deve fondarsi sulla libertà, sull’apertura, sul valore. Concezione che ricollega l’atto educativo all’atto sociale, secondo la formulazione, chiarissima, contenuta ne L’atto di educare: «Come nell’atto educativo l’essenza sta nel calare l’istruzione in un tu portato al massimo di significato (sentito nella realtà di tutti), e nell’atto festivo l’essenza sta nel calare la liturgia nella certezza della Presenza; così, nell’atto sociale l’essenza sta nel calare le strutture politiche nella libertà al massimo del suo significato che dissolve l’assolutezza di ogni istituzione, nel valore raggiunto quando la realtà di tutti costituisce l’individuo» (L’atto di educare, Firenze 1951, p. 100).

Che poi costituisce il significato ultimo del messaggio politico di Capitini: il disperato tentativo di fare esplodere le strutture di un processo di trasformazione (dell’educando) ricorrendo ad una diversa valutazione dello strumento di questa trasformazione (l’educatore); e di farle esplodere verso l’esterno, verso la realtà di tutti, sfuggendo al tedio di una società ripetitiva e noiosa, intesa come semplice controllo e riproduzione.

Il metodo nonviolento

Centrale, nel pensiero e nell’azione politico-sociale di Capitini, è il principio nonviolento. Anche se l’impiego di questo principio è stato spesso, in sede di dibattito politico e di azione rivoluzionaria, oggetto di discussioni, purtroppo, non sempre documentate; donde l’esaltazione puramente astratta di una violenza rivoluzionaria liberatrice, contrapposta in modo troppo netto, e quindi improduttivo, ad una nonviolenza inetta a liberare e a liberarci da un mondo violento; anche se si è preferito ricorrere a luoghi comuni (come l’accusa di interclassismo) invece di giustificare un’antitesi che risulta molto delicata; bisogna dire che per Capitini la nonviolenza non fu mai occasione per esercitazioni retoriche, per tirate improduttive contro la guerra e a favore della pace; ma, al contrario, fu elemento d’intervento concreto nella realtà, forse molto più concreto di quanti, riempendosi la bocca di grosse parole rivoluzionarie, qualche anno dopo, resteranno al caldo delle proprie poltrone, evitando di sporcarsi le mani.

La nonviolenza è talmente inerente al “sistema” di Capitini che con difficoltà la si può considerare come momento separato, anche se con intenti didascalici, anche se lo stesso Capitini ebbe a scrivere un libro sulle Tecniche della nonviolenza. (Milano 1967, pagine 202).

Il rapporto educatore-educando, la ricerca del valore, la tensione del primo e l’apertura del secondo verso una realtà liberata, la compresenza dei vivi e dei morti; tutti elementi di un quadro che se non è “sistematico” nel senso tradizionalmente filosofico del termine, è perfettamente equilibrato in se stesso; non avrebbero senso se mancasse l’elemento collante della nonviolenza.

Tutto finirebbe per annegare in quella staticità dell’Unità che contempla se stessa, tipica della lettura gentiliana di Hegel, contro cui decisamente si pose Capitini.

Aprendosi alla realtà di tutti si realizza quella compresenza che è prima di tutto non menzogna, cioè elemento attivo dell’apertura (non semplice elemento statico di adeguamento ad una verità istituzionalizzata, quindi conservatrice). In questo modo si realizza una profonda unità di tutti, capace di produrre cooperazione, cioè valori più alti e importanti.

In questo senso Capitini indica una via d’uscita dal grave dilemma tra riformismo e rivoluzione violenta. In sostanza, l’azione politica si dibatte tra due poli: da un lato preme per le riforme politiche e sociali che, pur essendo in se stesse progresso, non danno soddisfazione di profondo mutamento: dall’altro, preme per la rivoluzione totale, impaziente, che cerca la conquista del potere per mantenerlo ad ogni costo; smarrendo l’attuazione dell’uomo nuovo. «La via d’uscita – scrive Capitini – è di avere qualche cosa in mano che compensi per il mancato raggiungimento del totale potere e della piena liberazione; e questo qualche cosa è celebrazione, religiosizzazione della compresenza, fruendo con gioia di tutto ciò che essa offre. Vivere quotidianamente l’apertura alla compresenza è già molto, anche se la realtà di tutti non ha ancora pienamente trasformato la realtà naturale e storica; attuare nei suoi inesauribili modi la nonviolenza, essendo essa per amore, è già una realizzazione positiva, non un fatto neutro, un semplice mezzo, usato pensando ad un fine» (Il potere di tutti, op. cit., pp. 85-86).

Emergono da questo passaggio gli elementi intimi del principio della nonviolenza capitiniano: la gioia (donde, a esempio, l’importanza primaria della festa nella sua problematica pedagogica) e la non strumentalità del metodo (anche se può ritenersi auspicabile lo studio e il perfezionamento delle tecniche nonviolente).

Scrive Borghi nel 1975: «Per opera di Capitini la nonviolenza è divenuta un principio operante nella vita pubblica italiana dell’ultimo decennio... La proposta quietamente avanzata da Capitini tra noi, come già più insistentemente da Gandhi, di una “grande semplificazione della vita”, esprime profonde esigenze del mondo contemporaneo. Esse operano ancora in frange di refrattari o di nonconformisti. Ma la loro limitazione quantitativa fa apparire più limpida e più pregevole la loro qualità. Non importa se esse conquisteranno la storia dei prossimi decenni. Esse sono il richiamo ad una vita nuova, a un modo inedito di sentire l’esistenza in una cultura che ancora in larga misura concepisce la violenza come la matrice della storia» (Personalità e pensiero di Aldo Capitini, op. cit., pp. 290-291).

Ma la prospettiva d’intervento concreto nella lotta e nell’impegno politico, con la conseguente possibile cristallizzazione del metodo nonviolento in precetti e tecniche, non poteva non preoccupare Capitini. In altre parole, spesso, si fa luce nei suoi scritti la preoccupazione della trasformazione degli spunti vitali da lui suggeriti, in “sistema”. «Il metodo – egli scrive – è una presa di coscienza ed una sistemazione indubbiamente utile dal punto di vista teorico e anche dal punto di vista educativo e pratico, ma guai se dovesse spegnere la creatività dei nuovi modi, proprio in determinate situazioni» (Le tecniche della nonviolenza, op. cit., p. 10).

E altrove: «La nonviolenza può essere definita apertura inesauribile all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo di ogni essere» (La compresenza dei morti e dei viventi, op. cit., p. 257). Questo passo è molto importante, tanto è vero che viene ripreso e testualmente riportato dallo stesso Capitini (senza indicazione della fonte) nel libretto su indicato sulle tecniche della nonviolenza (p. 12). Da qui il grosso problema della scelta dei mezzi per il raggiungimento di certi fini e il condizionamento che la scelta opera sul fine stesso.

Sviluppare la capacità di dissenso, di autonomia, di apertura e di rottura col logoro passato, questa è la nonviolenza. Si tratta quindi di una posizione educativa che presuppone il convincimento che la natura umana non sia immutabile. In Religione aperta Capitini scrive: «[Bisogna] anzitutto non considerare l’uomo, e particolarmente il fanciullo, come un essere che non abbia altro che tendenze alla violenza e al combattimento, da incanalare, trasformare, sublimare: per la religione riconosciamo nell’altro una, per lo meno, eguale tendenza all’unità-amore verso tutti gli esseri e perciò riferendoci ad essa, puntando su di essa, l’educazione mira a confermarla, a svilupparla» (Religione aperta, op. cit., p. 162).

Quindi rifiuto della guerra che è risultato della riflessione sull’amore, risultato della civiltà che è anche esigenza biologica e psicologica. La nonviolenza appare in Capitini come la condizione prima del proseguimento della stessa civiltà, che però non deve essere “conservata” a tutti i costi, né superata. È il prodotto della compresenza.

«C’è nella compresenza di tutti, egli scrive, questa capacità creativa di compensare le insufficienze, si può anche pensare che dalla compresenza venga, quando che sia, non soltanto un compenso alle insufficienze date dal mondo della vitalità e della potenza, ma una liberazione in una sua totale trasformazione un èschaton» (La compresenza dei morti e dei viventi, op. cit., p. 18).

Ma il coraggio non si può separare dal principio della nonviolenza, principio che è scelta di grande impegno in un mondo violento e che fa di tutto per perpetuare questa violenza. Scegliere questo metodo di vita, non significa disarmare se stessi, piuttosto significa usare armi differenti da quelle che possono essere usate dalla istituzioni violente, significa svegliare le popolazioni, cioè svolgere quel compito che dovrebbe essere dei nuclei dirigenti, ma che questi non fanno, «[...] tanto è vero, conclude Capitini, che nessun governo educa i cittadini alla resistenza nonviolenta contro l’eventuale invasore e preferisce inebriarli con le armi» (Il potere di tutti, op. cit., p. 215).

E questo “non fare” di chi detiene il potere, non è manchevolezza occasionale, da potersi correggere domani, ma è disposizione istituzionale del potere accentrato in poche mani, in una sola classe, che non può modificarsi che spostando tutto il potere nelle mani di tutti.

L’esperienza politica di Capitini, allo stesso modo della sua teoria politica, si può riassumere in un itinerario esteriore e in uno interiore. Al primo appartiene il viaggio che dall’iniziale posizione liberalsocialista lo conduce, via via sempre in modo più deciso, verso una radicale negazione di ogni struttura o esperienza politica tradizionale, verso quell’utopia concreta che si consolida nelle organizzazioni di base, nei gruppi autogestiti e nell’apertura alla rivoluzione pacifica dal basso. Al secondo appartiene il viaggio spirituale dall’esperienza religiosa unitaria, ancora imbevuta dell’attualismo gentiliano, senza ovviamente nessuna venatura autoritaria, all’esperienza religiosa dell’apertura, in tutte le sue sfumature, dall’apertura religiosa in senso stretto all’apertura sociale ed educativa, per concludersi nella nonviolenza e nel gandhismo.

Traendo origine dalle teorie liberalsocialiste di Stuart Mill, ma più ancora dalle posizioni politiche pratiche dei fratelli Rosselli, di Salvemini e di Gobetti, Capitini si muove fin dal periodo della resistenza antifascista, in un territorio suo proprio, che si contrappone nettamente al suo socio in teoria liberalsocialista, cioè a Calogero. Quest’ultimo, infatti, insisteva sugli aspetti organizzativi del liberalsocialismo, come pure sugli aspetti giuridici, etici e sociali, tenendo ad effettuare distinzioni, con in ultimo l’accettazione della violenza come mezzo da impiegarsi nel caso in cui ogni ricorso al dibattito democratico venisse precluso. Capitini è fin dal primo momento su posizioni diverse. Per lui il metodo della nonviolenza non può accettarsi oggi e rifiutarsi domani, di fronte a mutate condizioni storiche. Questo metodo è una pregiudiziale di principio che non toglie qualcosa ai resistenti, ma anzi li fornisce di qualcosa di più. Capitini insisterà a lungo su questo concetto, se si vuole tecnico, ma che spesso viene dimenticato.

Momento centrale della sua vita e quindi anche del suo pensiero politico è l’“atto educativo”. Anche i suoi progetti organizzativi dal basso, riguardanti strutture minimali capaci di contrastare la forza del potere centrale, quindi strutture concrete di contropotere, sono considerati come fatti pedagogici, atti educativi.

È il concetto stesso di “persuasione” che ci fa entrare all’interno di questa scelta. Infatti, il persuaso non è colui che proponendosi un bilancio positivo intraprende un’azione, ma è colui che non lesina la propria vita, che non si risparmia in attesa di mandare tutto a soqquadro, mentre, magari, questo momento definitivo non arriva mai e tutto si trasforma in una vana e snervante attesa, distruttiva per i migliori e arma di acquietamento per le false coscienze. Il persuaso agisce senza fare calcoli, quindi non è tanto uno stratega politico quanto un educatore, cioè qualcosa che indica la strada da seguire. Il persuaso non è nemmeno un realizzatore la cui attività si possa sottoporre a processi di quantificazione, ma un profeta, cioè colui che annuncia i tempi che verranno, i tempi della realtà liberata.

Questo essere “educatore” in Capitini determina anche il suo stesso modo di lavorare dal punto di vista teorico, consente, cioè, lo sviluppo d’un pensiero organico, e armonicamente proporzionato, senza l’esistenza asfissiante del dogma del sistema. Il rapporto dualistico educatore-educando si realizza in un incontro che si riassume tutto nella parola “apertura”; un incontro che è tutto un programma di cose nuove, di realtà al di là dell’incontro stesso e dei due poli che hanno avuto modo di realizzare l’incontro.

Capitini era partito dall’attualismo ma con una critica delle derivazioni hegeliane di quest’ultimo, critica che l’aveva portato verso un kantismo etico. Se Capitini ammirava in Gentile il filosofo dell’Unità e del sentimento religioso che da questa deriva, vedeva in Croce, con sospetto, la pericolosità della distinzione nel processo di storicizzazione della realtà. Eppure, anche quest’ultima lezione non restò in lui inascoltata. Furono comunque gli umili, gli oppressi, gli emarginati a dettargli le regole fondamentali della vita delle moltitudini, che sono anche date dal ritmo del molteplice nel respiro più ampio, ma non esclusivo, dell’Unità. E questa, mantenendo intatto il suo fondamento religioso, diventa “compresenza”, elemento fondamentale di tutto il pensiero di Capitini.

Si tratta però di una Unicità in cui è fortemente accentuato il momento etico, a scapito del momento ontologico. Kant è presente, più di Hegel e del derivato Gentile. Ed è il Kant della chiusura adialettica e ontologica, il Kant dell’astrattezza e della lontananza, il Kant dei dualismi dinamici, che nonostante tutto riesce a conservare, in Capitini, il dramma della realizzazione dell’assoluto come dovere, come tensione.

Quindi pensiero politico sotto certi aspetti rivoluzionario quello di Capitini, perché fondato sull’apertura verso una realtà diversa, che nega in modo radicale quella presente, una realtà che si oppone al conservatorismo politico e religioso in nome di un momento politico e religioso ben più alto: quello liberato. Se il conservatorismo è il prete, ricorda Capitini, la rivoluzione è il profeta.

I temi fondamentali della ricerca di Capitini sono quindi: il “valore”, che si realizza nell’“atto di educare”. Ma il valore non significa nulla senza il travaglio, la tensione, l’incertezza. Questa situazione è possibile solo attraverso la persuasione, che è impegno totale come dimensione di vita, eliminazione del calcolo quantitativo cui accennavamo prima. Per saldare i suoi conti con Gentile, e quindi indirettamente con Hegel, Capitini si avvale del concetto di “aggiunta”, attraverso cui si recupera quella tesi del “nulla va perduto”, e si chiude il cerchio della fondazione logica della stessa compresenza. L’Unità gentiliana, il suo respiro religioso, l’umana comprensione che ne scaturiva nei primi momenti della sua formulazione, vengono recuperate da Capitini, mentre viene rigettata la conclusione di Gentile verso la legittimità della guerra e della violenza, verso la conclusione dello scontro fra i popoli come scontro all’interno dello spirito che si realizza nella Storia. Capitini invece si batte per il costante impegno di ogni singolo individuo, per il rifiuto della “missione storica” di questo o quel popolo, di questa o quella persona, per lo stesso rifiuto della Storia intesa come qualche cosa che segna i limiti di meccanismi predeterminati, come il campo d’azione di leggi fisse e modelli che le riflettono.

Attraverso l’apertura, infine, si arriva all’atto verso il “tu”, atto iniziale di un rapporto che si proietta verso il “tu-tutti”. Disposizione a stabilire rapporti con altri, l’apertura sfugge a condizioni assolute, non vuole porre un io, ma solo proporre un più largo movimento, un’aggiunta di nuovo, un rapporto intersoggettivo. È l’originale apertura religiosa che consente l’apertura totale verso la realtà, e ciò perché questa non differisce affatto da quella.

Ma apertura significa anche svalutazione del presente, atteggiamento critico verso istituzioni e potentati – che altri considerano invece come punto di costante riferimento o di adorazione – consapevolezza che quello che appare come “realtà” è solo un fenomeno parziale, individuandosi al di là una realtà diversa, la realtà di tutti. Qui si colloca il concetto di compresenza. Gli esseri tutti convivono una realtà globale, unica, che si presenta solo di scorcio – nell’atto di stabilire il rapporto educativo da parte dell’educando, come possibile “realtà liberata”. Il rifiuto di adeguarsi alla realtà della conservazione e della morte, è accettazione della compresenza dei morti e dei viventi. L’io sfugge all’isolamento cui era stato condotto dall’illusione idealista e si apre agli altri, con l’aiuto di tutti, creando un’apertura diversa verso la “vera” realtà. La realtà come compresenza, negando la realtà come potenza, rende possibile “la realtà di tutti”, altro concetto chiave del pensiero di Capitini, realtà che ci annuncia la realtà liberata e che trova la propria corrispondenza nel concetto di “potere di tutti”.

Il progetto d’intervento nella realtà diventa così operante. Il lungo cammino dall’iniziale proposta liberalsocialista sta per concludersi nel potere di tutti, nella rivoluzione dal basso, in un libertarismo pacifista e nonviolento. Ne consegue l’esigenza della trasformazione di un ordine esistente, trasformazione che si sviluppa parallelamente a quella dell’ordine esistenziale. Al di là delle etichette di movimento, la sua direzione di pensiero politico può in ultima istanza riportarsi al primo liberalsocialismo, sebbene, considerando quest’ultimo come movimento politico specifico, si sia costretti ad ammettere parecchie divergenze.

Non essendoci concessioni, nemmeno strategiche, nel pensiero di Capitini, a una necessaria azione di rafforzamento delle istituzioni, nemmeno contro presunte attività eversive, nemmeno in base ad un meccanismo storicistico trovante giustificazione nella dialettica materialista, non potevano evitarsi le discordanze radicali.

I liberali, da un lato, premevano per una persistenza dell’istituzione Stato, anche se ridotta agli aspetti puramente amministrativi, non comprendendo bene che il fine così prospettato è sempre fine politico; i socialisti, dall’altro lato, premevano per una utilizzazione dello Stato nel periodo di transizione, cioè nel periodo di avvicinamento alla società liberata. Ambedue queste prospettive si basavano – e si basano – su illusioni quantitative e deformazioni meramente politiche, quali Capitini ebbe a condannare con tutto il suo impegno.

E per sopperire al lavoro che le istituzioni non possono e non vogliono fare, egli trasformò tutta l’attività politica in attività educativa, e questa in quella. Se le nazioni alimentano il mito nazionalista cercando di spingere il popolo alla difesa dei confini da una eventuale invasione, non si sognerebbero mai di alimentare gli stimoli di autorganizzazione, di autodeterminazione, di autocontrollo, di resistenza nonviolenta organizzata dalla base; e ciò perché sanno benissimo che questi stimoli, una volta sviluppati, non solo provvederebbero ad eliminare quel pericolo, ma eliminerebbero secondo Capitini anche le istituzioni stesse, lo Stato in primo luogo, come istituzione prodotta dalla conservazione e dalla morte.

Ecco il federalismo nonviolento dal basso, la parola politica matura di Capitini, che si costruisce dando valore a ciò che viene dal basso, al decentramento, all’autonomia, alla cogestione dei villaggi e delle campagne, alla cooperazione.

Il viaggio dall’iniziale liberalsocialismo si conclude qui.

 


[1969]


[1991]

 
 

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