#sku opuscoli-000050 #opuscoli 50 #cover f-n-friedrich-nietzsche-ditirambi-di-dioniso-x-cover.jpg #teaser Opuscoli provvisori – 50
2013, pagine 48
euro 4,00

Se non scritte di già al di là della soglia di non ritorno, queste poesie sono state riassettate e preparate per la stampa in piena crisi. Nietzsche scrive ormai biglietti e lettere che, ai più, sono sembrati privi di senso. Lo erano veramente? Non più di quanto appaia il tentativo realizzato nel consegnare agli assennati facitori di teorie, che ormai si era lasciato alla spalle, queste riflessioni poetiche, che tali sono, in linea con quanto aveva scritto di filosofico nella sua non lunga vita. Il fatto è che qui agisce la logica del tutto e subito, la stessa che rendeva non solo “incomprensibili” le menadi, ma che sconvolgeva l’assetto ben ordinato del mondo apollineo il quale, fra l’altro, costringeva le donne a mantenersi all’interno delle regole della cosiddetta buona creanza. E siccome tutto ciò che esce dalle regole causa fastidio, deve essere ricondotto, a ogni costo, all’interno di una spiegazione logica plausibile. Non ho letto mai, fra le centinaia di pagine sull’opera di Nietzsche che mi è piaciuto affrontare, un solo rigo degno di rispetto riguardo i ditirambi. Nessun filosofo ha mai ardito avventurarsi al di là dell’irriversibile, ogni buon uomo tiene alla propria incolumità. Sarà lo stesso per i pochi lettori di questi libretto? Spero di no. #title Ditirambi di Dioniso #author Friedrich Nietzsche #SORTauthors Nietzsche, Friedrich; #cat opuscoli #lang it #pubdate 2016-10-31T23:00:00 #notes Prima edizione: novembre 2013
Opuscoli provvisori N. 50 *** Nota introduttiva Se non scritte al di là della soglia di non ritorno, queste poesie sono state riassettate e preparate per la stampa in piena crisi. Nietzsche scrive ormai biglietti e lettere che, ai più, sono sembrati privi di senso. Lo erano veramente? Non più di quanto appaia il tentativo realizzato nel consegnare agli assennati facitori di teorie, che ormai si era lasciato alla spalle, queste riflessioni poetiche, che tali sono, in linea con quanto aveva scritto di filosofico nella sua non lunga vita. Il fatto è che qui agisce la logica del tutto e subito, la stessa che rendeva non solo “incomprensibili” le menadi, ma che sconvolgeva l’assetto ben ordinato del mondo apollineo il quale, fra l’altro, costringeva le donne a mantenersi all’interno delle regole della cosiddetta buona creanza. E siccome tutto ciò che esce dalle regole causa fastidio, deve essere ricondotto, a ogni costo, all’interno di una spiegazione logica plausibile. Ecco, i ditirambi di Nietzsche non sono plausibili, sono un viaggio nell’inverosimile, nell’intuizione dell’immenso che sta “oltre”, al di là del muro di cinta, dove per i commensali del limitato e del conteggiato è indigestione. Non ho letto mai, fra le centinaia di pagine sull’opera di Nietzsche che mi è piaciuto affrontare, un solo rigo degno di rispetto riguardo i ditirambi. Nessun filosofo ha mai ardito avventurarsi al di là dell’irreversibile, ogni buon uomo tiene alla propria incolumità. Sarà lo stesso per i pochi lettori di questi libretto? Spero di no.
Trieste, 20 novembre 2011 Alfredo M. Bonanno ** Soltanto stolto! Soltanto poeta! Nell’aria rischiarata, quando già la consolazione della rugiada stilla sopra la terra, invisibile e inudita – poiché come tutti i dolci consolatori indossa la confortatrice rugiada delicati calzari – allora ricordi, ricordi, cuore ardente, come fosti assetato, un tempo, come, stanco e riarso, fosti assetato di lacrime celesti e gocce di rugiada, mentre su gialli sentieri d’erba tra neri alberi ti correvano intorno malvagi sguardi serali del sole, accecanti, ardenti, maligni sguardi del sole. Il pretendente della verità tu? così schernivano no! soltanto un poeta! un astuto, rapace, strisciante animale che deve mentire, che sapendo, volendo, deve mentire, bramoso di preda, variamente mascherato, maschera egli stesso, egli stesso preda questo – il pretendente della verità?... Soltanto stolto! Soltanto poeta! Che parla in modo variopinto, che dalle maschere di stolto parla confusamente, arrampicandosi su menzogneri ponti di parole, girovagando, strisciando su arcobaleni di menzogne tra falsi cieli – soltanto stolto! soltanto poeta!... Questo – il pretendente della verità?... Non quieto, rigido, piano, freddo, divenuto immagine, pilastro di dio, non innalzato dinanzi ai templi, un guardiano di dio: no! ostile a simili statue di virtù, più nelle selve che nei templi di casa, colmo di una felina spavalderia che salta oltre ogni finestra hop! in ogni azzardo, fiutando ogni foresta vergine, tu che corresti nelle foreste vergini tra variegati e arruffati animali da preda empiamente sano e bello e variopinto, con labbra vogliose, beato di scherno, beato d’inferno, beato di brama di sangue, predando, strisciando, mentendo corresti... Oppure simile all’aquila che a lungo, a lungo immobile fissa gli abissi, i suoi abissi... – oh, come quaggiù essi si inanellano in basso, in dentro, in sempre più fonde profondità! – Poi, d’un tratto, con volo diritto e slancio improvviso gettarsi su agnelli a precipizio, affamato, bramoso di agnelli, adirato con tutte le anime d’agnello furiosamente adirato con tutto ciò che ha sguardi virtuosi, di pecora, sguardi dal vello ricciuto, ottusi, muniti della benevolenza del latte d’agnello... Così come di aquila, di pantera sono le bramosie del poeta, sono, dietro mille maschere, le tue bramosie, tu stolto! tu poeta!... Tu che vedesti l’uomo come dio e come pecora –; sbranare il dio nell’uomo come la pecora nell’uomo e ridere sbranando – questa, questa è la tua beatitudine, la beatitudine di una pantera e di un’aquila, la beatitudine di un poeta e di uno stolto!... Nell’aria rischiarata, quando già la falce della luna verde tra rossi di porpora invidiosa s’insinua, – avversa al giorno, a ogni passo segretamente falciando amache di rose, fino a quando esse cadono, pallide cadono verso la notte: così io stesso caddi, una volta, dalla mia follia di verità, dalle mie bramosie del giorno, stanco del giorno, sofferente per la luce, – caddi in giù, verso la sera, verso l’ombra, bruciato da una sola verità e assetato – ricordi ancora, ricordi, cuore ardente, com’eri assetato allora? – che io sia bandito da ogni verità! Soltanto stolto! soltanto poeta!... ** Tra figlie del deserto Il deserto cresce: guai a colui che cela deserti... Ah! Solenne! un degno inizio! africanamente solenne! d’un leone degno o di una morale scimmia urlatrice... ma nulla per voi, voi dilette amiche, ai cui piedi è concesso a me, a un Europeo sotto le palme, di sedere. Sela. Meraviglioso invero! Qui siedo ora, prossimo al deserto e già nuovamente al deserto tanto lontano, ma in nulla ancora desolato: inghiottito infatti da questa minuscola oasi essa spalancò sbadigliando la sua graziosa bocca, la più odorosa tra le boccucce: io vi caddi attraverso, giù dentro – tra voi, voi dilette amiche! Sela. Salute, salute a quella balena, se essa fece star comodo il suo ospite! – intendete la mia dotta allusione?... Salute al suo ventre dunque, se esso era un leggiadro ventre di oasi simile a questo: del che tuttavia dubito. Dal momento che vengo dall’Europa che è la più scettica tra tutte le sposine. Voglia dio migliorarla! Amen! Qui siedo dunque, In quest’oasi minuscola, simile a un dattero, bruno, zuccherato, gocciolante oro, bramoso di una rotonda bocca di fanciulla, ma più ancora di virginei, gelidi, taglienti incisivi bianchi come neve: dei quali infatti è avido il cuore di tutti i datteri ardenti. Sela. Simile, troppo simile ai nominati frutti del sud giaccio qui circondato dai giochi e dalle danze di piccoli scarabei alati, e insieme da ancor più piccoli più stolti e più malvagi desideri e capricci, – circondato da voi, voi mute, voi presaghe fanciulle-gatto Dudù e Suleika – racchiuso da una sfinge, per imbottire una parola di molti sentimenti (– dio mi perdoni questo peccato linguistico!...) – siedo qui, annusando l’aria migliore, aria di paradiso, in verità, aria chiara e leggera, striata d’oro, l’aria più buona che mai sia caduta dalla luna, fu per caso o avvenne per superbia? raccontano gli antichi poeti. Ma io scettico ne dubito, dal momento che vengo dall’Europa, la più scettica tra tutte le sposine. Voglia dio migliorarla! Amen. Respirando questa bellissima aria, con nari rigonfie come calici, senza futuro, senza ricordi, così qui siedo, voi dilette amiche, e guardo la palma, come essa simile a una danzatrice, si pieghi e si fletta e si culli sull’anca sì fa lo stesso se la si osserva a lungo... simile a una danzatrice che, mi pare, già troppo a lungo, pericolosamente a lungo, sempre, sempre si erge su una gambetta sola? – mi pare perciò che abbia dimenticato l’altra gambetta? Invano almeno cercai il mancante gioiello gemello – cioè l’altra gambetta – nelle sacre vicinanze del suo leggiadrissimo, graziosissimo gonnellino a ventaglio, svolazzante di lustrini. Sì, se voi, mie belle amiche, vorrete credermi fino in fondo essa l’ha perduta... Uh! uh! uh! uh! uh! È svanita, per sempre svanita, l’altra gambetta! Oh, che peccato per quest’altra graziosa gambetta! Dove – si troverà mai e languirà abbandonata, questa solitaria gambetta? Nel terrore forse di un mostruoso, rabbioso, giallo leone dalla bionda criniera? o addirittura già rosicchiata, scarnificata – miseramente ah! ah! scarnificata! Sela. Oh non piangete, teneri cuori! Non piangete, voi cuori di dattero! seni di latte! voi sacchetti dal cuore di liquirizia! Sii uomo, Suleika! Coraggio! Coraggio! Non piangere più pallida Dudù! – O non sarebbe qui forse il caso di qualcosa di tonificante di tonificante per il cuore? una consacrata sentenza? un solenne conforto?... Ah! Innalzati, dignità! Soffia, soffia ancora mantice della virtù! Ah! Ancora una volta ruggire, moralmente ruggire, ruggire da leone morale dinanzi alle figlie del deserto!. – Poiché il latrato della virtù, voi fanciulle dilette, di ogni cosa zelo da Europei, voracità da Europei! E qui io resto già, come Europeo, non posso fare altrimenti, che dio m’aiuti! Amen! Il deserto cresce: guai a colui che cela deserti! Pietra stride contro pietra, il deserto divora e strangola. La mostruosa morte guarda rovente, bruna e mastica, – la sua vita è il suo masticare... Uomo che la voluttà ha bruciato, non dimenticaretu sei la pietra, il deserto, sei la morte... ** Ultima volontà Morire così, come un giorno lo vidi morire –, l’amico, che saette e sguardi divinamente gettò nella mia oscura giovinezza. Sventato e profondo, danzatore nella battaglia –, tra guerrieri il più sereno, tra vincitori il più arduo, un destino ritto sul suo destino, duro, riflessivo, pensieroso di ciò che sarà –: tremante perché aveva vinto, esultante perché morendo aveva vinto –: ordinava, mentre moriva e ordinò che si annientasse... Morire così, come un giorno lo vidi morire: vincendo, annientando... ** Tra uccelli predatori Chi volge in basso qui, come presto lo inghiotte l’abisso! Ma tu, Zarathustra, ami ancora l’abisso fai come l’abete? Esso mette radici, dove il dirupo stesso rabbrividendo guarda il profondo –, esita sopra precipizi intorno ai quali tutto volge verso il fondo: tra l’impazienza di selvaggia frana, di impetuoso ruscello sopportando paziente, duro, silente, solo... Solo! Chi osò mai essere ospite qui, essere ospite tuo?... Forse un uccello predatore: questi si aggrappa volentieri ai capelli di chi saldo pazienta, maligno, con riso folle, il riso di un uccello predatore... Perché così saldo? – schernisce egli spietato: bisogna avere ali, se si ama l’abisso... non restare appesi come te, impiccato! – Oh Zarathustra, crudelissimo Nimrod! Poc’anzi ancora cacciatore di dio, la rete che cattura ogni virtù, la freccia del male! Ora – da te stesso catturato, tua propria preda, penetrato in te stesso... Ora – con te stesso solo, duplice nel tuo sapere, tra cento specchi falso dinanzi a te stesso, tra cento ricordi incerto, stanco di ogni ferita, freddo per ogni gelo, dalle tue stesse funi strangolato, conoscitore di te stesso! carnefice di te stesso! Perché mai ti legasti con la fune della tua saggezza? Perché mai attirasti te stesso nel paradiso del vecchio serpente? Perché mai ti insinuasti strisciando in te – in te?... Ora un malato, reso infermo dal veleno del serpente; un prigioniero ora, cui toccò in sorte il più duro destino: che lavora curvo nel proprio pozzo, vuoto in se stesso come una caverna che scava in se stesso maldestro, rigido, una salma – sovrastato da cento gravami sovrastanti, sovraccarico di te, un sapiente! un conoscitore di se stesso! il sapiente Zarathustra!... Tu cercasti il carico più pesante: e lì trovasti te stesso –, non ti libererai di te... In agguato, rannicchiato, incapace di stare ritto in piedi! Mi appari aggrovigliato alla tua tomba, spirito deforme!... E poc’anzi così orgoglioso, su tutti i trampoli del tuo orgoglio poc’anzi l’anacoreta senza dio, che il suo eremo divide con il diavolo, il principe scarlatto di ogni superbia!... Ora – in mezzo a due nulla rannicchiato, un punto interrogativo, uno stanco enigma – un enigma da uccelli predatori... – essi di certo ti “risolveranno”, già bramano la tua “risoluzione”, svolazzano intorno a te, il loro enigma, intorno a te, impiccato!... Oh Zarathustra!... Conoscitore di te stesso!... Carnefice di te stesso!... ** Il segnale di fuoco Qui, dove tra mari l’isola crebbe, pietra sacrificale erta e svettante, qui sotto nero cielo accende Zarathustra i suoi fuochi d’altura, segnali di fuoco per naviganti sperduti, interrogativi per coloro che hanno risposte... Questa fiamma dal ventre grigio chiaro – in fredde lontananze guizza la sua brama, verso sempre più pure altezze essa piega il collo – un serpente che si erge ritto per l’impazienza: questo segno io posi innanzi a me. La mia anima stessa è questa fiamma, insaziabile di nuove lontananze divampa alto, alto il suo quieto fuoco. Perché mai Zarathustra fuggì animali e uomini? Perché d’un tratto sfuggì alla terra ferma? Sei solitudini già egli conosce –, ma neanche il mare fu per lui abbastanza solitario, l’isola lo lasciò salire, sul monte divenne fiamma, cercando una settima solitudine egli getta ora l’amo sopra il capo. Sperduti naviganti! Macerie d’antichi astri! Voi mari del futuro! Cieli insondati! A tutti i solitari ora getto l’amo: rispondete all’impazienza della fiamma, prendete a me, pescatore su alti monti, la mia settima, ultima solitudine! – ** Il sole declina Non più a lungo avrai sete riarso cuore! Una promessa è nell’aria, soffia da bocche sconosciute a me – la grande frescura viene... Stava nel meriggio ardente su di me il mio sole: siate i benvenuti, voi che venite venti improvvisi voi freschi spiriti pomeridiani! Va l’aria estranea e pura. Non mi sogguarda con occhi obliqui di seduttrice la notte?... Stai forte, mio cuore ardito! Non domandare: perché? – Giorno della mia vita! il sole declina. Già sta dorata la piatta marea. Calda respira la rupe: dormì forse qui nel meriggio la felicità il suo sonno pomeridiano? Tra verdi luci il bruno abisso innalza ancora un gioco felice. Giorno della mia vita! Il sole declina! Già arde il tuo occhio spezzato in due, già gocciano lacrime stillanti della tua rugiada, già scorre silenziosa su bianchi mari la porpora del tuo amore, la tua ultima, esitante beatitudine... Serenità, dorata, vieni! tu della morte più segreto, più dolce assaggio! – Corsi troppo veloce la mia strada? Soltanto ora che il piede si stancò, mi raggiunge ancora il tuo sguardo, mi raggiunge ancora la tua felicità. Tutt’intorno soltanto onda e gioco. Ciò che fu un tempo pesante sprofondò in azzurro oblio, inoperosa è ora la mia barca. Tempesta e viaggio – come essa disimpara! Annegò desiderio e speranza, lisci giacciono anima e mare. Settima solitudine! Mai sentii a me più vicina una dolce certezza, più caldo lo sguardo del sole. – Non arde ancora il ghiaccio della mia vetta? Argentea, lieve, come un pesce nuota ora al largo la mia barca... ** Lamento di Arianna Chi mi riscalda, chi mi ama ancora? Date mani ardenti, date bracieri del cuore! Già prostrata, colta da brividi, una moribonda quasi, cui si scaldano i piedi, scossa, ah!, da febbri sconosciute tremante per freddi, gelidi dardi acuminati, da te inseguita, pensiero! Innominabile! Celato! Tremendo! Tu cacciatore oltre le nubi! Prostrata dai tuoi fulmini, tu occhio beffardo, che dall’oscurità mi osservi! Così io giaccio, mi piego, mi dibatto, tormentata da tutti gli eterni martiri, colpita da te, spietatissimo cacciatore, sconosciuto – dio... Colpisci più in fondo! Colpisci una volta ancora! Trafiggi, infrangi questo cuore! A che questa tortura con frecce spuntate? Perché guardi di nuovo inappagato del tormento umano, con maligni, divini occhi lampeggianti? Non vuoi uccidere, torturare solo, torturare? A che – torturarmi, un maligno dio sconosciuto? Ah! Ah! Ti avvicini furtivo in questa mezzanotte?... Che cosa vuoi? Parla! Tu mi premi, mi incalzi ah! troppo da presso! Mi ascolti respirare, il tuo orecchio spia il mio cuore, geloso! – ma geloso di che? Via! via! perché la scala? Vuoi entrare nel cuore, salire, nei miei più segreti pensieri? Impudico! Sconosciuto! Ladro! Cosa vorresti rubare? Cosa vorresti ascoltare? Che cosa estorcere, torturatore! Tu – dio carnefice! O devo io, simile al cane, rotolare dinanzi a te? Abbandonata, esaltata fuori di me per te amore – scodinzolare? Invano! Trafiggi ancora! Crudelissima spina! Non cane – solo tua preda sono, crudelissimo cacciatore! La tua più fiera prigioniera, tu rapinatore oltre le nubi... Parla infine! Tu nascosto dal fulmine! Sconosciuto! parla! Che cosa vuoi tu, bandito, da – me?... Come? Prezzo del riscatto? Quanto vuoi per il riscatto? Chiedi molto – suggerisce il mio orgoglio! e parla poco – suggerisce l’altro mio orgoglio! Ah! Ah! Me – vorresti? me? me – tutta?... Ah! Ah! E mi tormenti, pazzo che non sei altro, martirizzi il mio orgoglio? Dammi amore chi mi riscalda ancora? chi mi ama ancora? Da’ mani ardenti, da’ bracieri del cuore, da’ a me, la più sola, cui ghiaccio, ah!, ghiaccio dalle sette forme insegna a bramare nemici, persino nemici, datti a me, te, crudelissimo nemico, arrenditi! ... Via! Anch’egli fuggi ora, mio solo compagno, mio grande nemico, mio sconosciuto, mio dio-carnefice!... No! ritorna Con tutte le tue torture! Le mie lacrime tutte corrono verso te e l’ultima fiamma del mio cuore risplende per te. Oh, ritorna, mio dio sconosciuto! mio dolore! mia ultima felicità!... (Un lampo. Appare Dioniso in una bellezza smeraldina) Dioniso: Sii saggia Arianna!... Hai orecchie piccole, hai le mie orecchie: poni in esse una saggia parola! – Non ci si deve odiare, prima, se ci si vuole amare?... Io sono il tuo labirinto... ** Gloria ed eternità Da quanto tempo già stai seduto sul tuo destino avverso? Fa’ attenzione! tu mi covi ancora un uovo, un uovo di basilisco nel tuo lungo affanno. Perché mai Zarathustra striscia lungo il monte? – Diffidente, ulceroso, cupo, a lungo in agguato –, ma, d’improvviso, un lampo chiaro, terribile, un colpo contro il cielo dall’abisso: – al monte stesso si scuotono le viscere... Dove odio e folgore si unirono, una maledizione sui monti dimora adesso l’ira di Zarathustra, come nube di tempesta striscia sulla sua strada. Si rintani chi ha un’ultima coperta! A letto, voi esseri delicati! Rotolano i tuoni ora sulle volte, trema ora tutto ciò che è trave e muro, sussultano ora lampi e verità giallo-zolfo – Zarathustra maledice... Questa moneta con cui il mondo intero paga, gloria –, afferro con i guanti questa moneta, con schifo la calpesto sotto di me. Chi vuole esser pagato? Coloro che si possono comprare... Chi è in vendita, protende grasse mani verso questo comodo tintinnio di latta, gloria! – Vuoi tu comprarli? tutti si possono comprare. Ma offri molto! fai tintinnare una borsa piena! – li rinforzeresti, altrimenti, rinforzeresti altrimenti le loro virtù... Sono tutti virtuosi. Gloria e virtù – si accordano. Sin quando vivrà il mondo, pagherà il cicaleccio della virtù con lo strepitio della gloria – il mondo vive di questo chiasso... Dinanzi a tutti i virtuosi voglio essere colpevole, colpevole esser chiamato di ogni grande colpa! Dinanzi a tutti i megafoni della gloria la mia ambizione diventa verme –, tra costoro mi prende il desiderio di essere l’infimo... Questa moneta con cui il mondo intero paga, gloria –, afferro con i guanti questa moneta, con schifo la calpesto sotto di me. Silenzio! – Di grandi cose – io vedo cose grandi! – bisogna tacere o parlare con grandezza: parla con grandezza, mia estasiata saggezza! Io guardo in alto lì scorrono mari di luce: – oh notte, oh silenzio, oh strepito silenzioso come la morte!... Io vedo un segno –, dalle più remote lontananze – cala verso di me lenta, scintillante una costellazione... Supremo astro dell’essere! Tavola di eterne immagini! tu vieni a me? – Ciò che nessuno ha scorto, la tua muta bellezza, – come? non fugge essa dinanzi ai miei sguardi? Stemma della necessità! Tavola di eterne immagini! – ma tu lo sai: ciò che tutti odiano, ciò che io solo amo, che tu sei eterno! che tu sei necessario! Il mio amore si accende in eterno solo alla fiamma della necessità. Stemma della necessità! Supremo astro dell’essere! – che nessun desiderio raggiunge, che nessun no imbratta, eterno sì dell’essere, eternamente sono io il tuo sì: perché io ti amo, oh eternità! – ** Della povertà del più ricco Passarono dieci anni – non una goccia mi giunse, né vento umido, né rugiada d’amore – una terra senza pioggia... Ora prego la mia saggezza di non farsi avida in questa aridità: trabocca, stilla tu stessa rugiada sii tu stessa pioggia alla selva ingiallita! Ordinai un tempo alle nubi di andar via dai miei monti – dissi un tempo «più luce, voi oscure!» Oggi le attiro perché vengano: fate buio intorno a me con le vostre mammelle! – voglio mungervi voi, mucche superne. Riverso su questa terra calda saggezza di latte, dolce rugiada d’amore. Via, via, voi verità che oscure guardate! Non voglio vedere sui miei monti verità acerbe, impazienti. Indorata dal sorriso mi si avvicini oggi la verità, addolcita dal sole, brunita dall’amore – coglierò dall’albero solo una verità matura. Oggi tendo la mano verso le chiome del caso, saggio abbastanza per condurlo, simile a un bimbo, e ingannarlo. Oggi voglio essere ospitale verso ciò che è sgradito, con il destino stesso non voglio essere spinoso – non è un riccio Zarathustra. La mia anima, con la sua lingua insaziabile, ha già leccato ogni cosa buona e cattiva, si è immersa in ogni profondità. Ma sempre, simile al sughero, essa torna a nuotare in superficie, volteggia giocando come olio su mari bruni: in virtù di questa anima mi si chiama beato. Chi mi è padre, chi madre? Mi è padre il principe abbondanza e mi è madre il quieto ridere? Non generò l’unione di costoro me, animale enigmatico, me, demone della luce, me, dissipatore di tutta la saggezza, Zarathustra? Malato, oggi di tenerezza, un vento di disgelo, siede in attesa Zarathustra, in attesa sui suoi monti, – nella sua stessa linfa teso dolce e cotto, sotto la sua vetta sotto il suo ghiaccio, stanco e felice, un creatore nel suo settimo giorno. – Silenzio! Una verità vaga sopra di me come una nube – con invisibili folgori mi coglie. Su ampie, lente scalinate sale la sua fortuna verso di me: vieni, vieni, amata verità! – Silenzio! – È la mia verità! – Da occhi esitanti, da vellutati brividi il suo sguardo mi coglie, ridente, malvagio, uno sguardo di fanciulla... Essa indovinò il fondo della mia felicità, mi indovinò – ah! che cosa trama? – Sta un drago purpureo in agguato nell’abisso del suo sguardo di fanciulla. – Silenzio! Parla la mia verità! – Guai a te, Zarathustra! Hai l’aspetto di uno che abbia inghiottito oro: ti squarceranno il ventre!... Sei troppo ricco, corruttore di molti! Troppi rendi invidiosi, troppi poveri... Su me pure getta ombra la tua luce – rabbrividisco: va’ via, tu ricco, va’, Zarathustra, via dal tuo sole!... Vorresti donare, dare via la tua abbondanza, ma sei tu stesso il più superfluo! Sii saggio, ricco! Dona via prima te stesso, o Zarathustra! Passarono dieci anni – e non una goccia ti raggiunse? né vento umido né rugiada d’amore? Ma chi dovrebbe amarti, tu troppo ricco? La tua fortuna inaridisce all’intorno, rende poveri d’amore – una terra senza pioggia... Nessuno più ti ringrazia. Ma tu ringrazi chiunque prenda da te: da ciò ti riconosco, tu troppo ricco, il più povero dei ricchi! Tu ti sacrifichi, ti tormenta la tua ricchezza –, ti dedichi, non ti risparmi, non ti ami: tarde tormento sempre ti stringe, il tormento di granai traboccanti, di un cuore traboccante – ma nessuno più ti ringrazia... Devi farti più povero, saggio insipiente! se vuoi essere amato. Solo chi soffre è amato, solo a chi ha fame si dà amore: Dona via prima te stesso, o Zarathustra! – Io sono la tua verità...