Alfredo M. Bonanno

Nove studi su Hegel

2003

    Nota introduttiva

    Introduzione del 1989

    I. Teoria dell’identità

    II. La sintesi progressiva come crescita della coscienza

    III. La fenomenologia di Hegel e quella di Husserl

    IV Dialettica del pensato e dialettica del pensare

    V. Attività della “Hegel-Gesellschaft” all’inizio degli anni Settanta

    VI. Inquietudine della vita

    VII. Intenzionalità progressiva

    VIII. Gli studi hegeliani in Francia alla fine degli anni Sessanta

    IX. Metafisica

Nota introduttiva

Raccolgo qui i miei studi su Hegel composti tutti tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta.

Alcuni di essi sono stati rivisti in epoche successive (indicate alla fine di ogni studio) ma, quasi sempre, si è trattato di un aggiornamento delle citazioni con pubblicazioni non disponibili all’epoca della prima stesura.

Nei decenni successivi sono tornato più volte sui libri di Hegel, ma delle mie tante annotazioni, in parte espressione di punti di vista troppo personali per interessare qualcuno, non ho ritenuto utile inserire qui qualcosa. Si trattava, in massima parte, di riflessioni sulla dialettica che forse troveranno posto in seguito nel volume sulla Storia della logica che ho in mente di pubblicare.

Di fronte all’immane dimensione (e difficoltà) che presenta la filosofia di Hegel al lettore più o meno provveduto c’è da restare spauriti. Per un altro verso, devo qui confessare che sono rimasto spesso sbalordito di fronte alla capacità di lavoro di questo filosofo. La varietà degli interessi di ricerca, il materiale analitico approfondito e discusso criticamente, gli autori tenuti presente come conseguenza di letture fatte, in una parola il laboratorio di uno studioso degno di questo nome mi ha sempre impressionato negli altri e ho cercato, secondo le mie possibilità, di lavorare anch’io, con risultati che non so come valutare. È facile meravigliarsi del lavoro degli altri, mentre si tende a sottovalutare il proprio. Non sto qui esprimendo una perplessità sul valore di quello che ho prodotto dal punto di vista intellettuale, questo argomento mi è del tutto estraneo, ma solo come fatica e impegno, come mole delle ricerche, come ampiezza di riferimenti, come lettura e memorizzazione, come accumulo di notizie e capacità di selezione, ecc. E, in questa prospettiva, Hegel non è secondo a nessuno.

Ma quello che mi ha impressionato di più è stata la sua capacità di suggerire un punto d’appoggio, qualcosa da cui cominciare, dove puntellare la riflessione. So bene che si tratta di un cominciamento falsamente solido, ma ho impiegato parecchio per rendermene conto. Sulla necessità che la filosofia divenga sistema, totalità oggettiva del sapere, non ho mai avuto dubbi: la filosofia non può né deve diventarlo. L’accumulo è il capolinea della ricerca, l’azzeramento della creatività, la regola del dominio diventata dominio della regola. Ogni tentativo diretto a costruire un sistema di pensiero conclude inevitabilmente nel paradosso dell’esistenza. Come negazione in atto della vita, l’esistenza non è altro che un gioco di illusioni, un nulla nell’assenza della luce, uno spegnersi affrettato di ogni sollecitazione vitale. Per quanto riguarda il problema della forma che il sistema filosofico deve assumere, sono rimasto a lungo prigioniero di procedimenti fattuali non estranei a Hegel stesso. Me ne sono liberato quasi del tutto nel carcere di Bergamo, scrivendo l’ultima stesura della prima parte del Trattato delle Inutilità.

La necessità che la filosofia prenda la forma di sistema non è una novità nel dibattito filosofico di fine Settecento. La critica della filosofia di Spinoza, iniziata con la polemica sullo spinozismo di Lessing, ha fatto concludere, per esempio a Jacobi, che lo spinozismo è l’unica filosofia possibile perché a causa della sua formulazione sistematico-deduttiva esso completa il principio della conoscenza intellettiva con quello del più puro dogmatismo.

Salvandomi da questo possibile sbocco, o meglio da questa chiusura, Hegel mi è stato utile per farmi vedere la strada verso cui potevo indirizzarmi e i mezzi di cui stavo per entrare in possesso, mezzi che potevano allontanarmi da quella strada, come potevano a essa consegnarmi per il resto dei miei giorni. Hegel è stato per me qualcosa di più di una manciata di polvere gettata in aria, ha contribuito ad alimentare un fuoco carico di godimenti logici e di dubbi, ma anche ha spento quel fuoco, facendomi correre il rischio di inaridire ogni sete e ogni desiderio di diventare (scoprendolo a mie spese) quello che ero. Non potevo capire tutto ciò senza iniziare un contenzioso con la mia volontà, non dico una dipartita verso altri lidi, ma un bramoso disputare palmo a palmo. Non era esattamente questo il messaggio di Hegel, all’epoca dei miei scontri con i giganti, non lo era perché il tempo di cui parlo era provvisto di un filtro a grana sottile, un filtro chiamato marxismo. Leggervi attraverso fu spesso un accadimento casuale, benefico intervento del destino più che ponderato effetto della riflessione. Non accettando io questo filtro, il mio Hegel era (e per molti versi continua a essere) diverso da quello degli altri. Vi furono epoche in cui gli ostacoli erano altri: stili virtuosisti e delicate maniere di apprendimento, poca forza e molta capacità di rappresentare tutte le possibilità, a strati, una dopo l’altra, come i motivi floreali Liberty e le maioliche policrome di Caltagirone. Vi sono passato dentro con tutta la pesantezza di chi vuole mettere ordine nelle proprie cose. Anche questo periodo è stato portatore di una mia lettura di Hegel, ancora una volta diversa.

Il mio rifiuto del sistema, di ogni sistema filosofico, ma anche di ogni sistema di idee che pretenda vigilare e regolamentare la mia vita, non si è quindi appoggiato alla protesi della demonizzazione di ogni ricerca sistematica ma, al contrario, è entrato nelle più significative di queste ricerche uscendone di volta in volta fortificato invece che indebolito.

Hegel mi è stato spesso compagno di strada e non ha mai turbato i miei sogni di anarchico. Con buona pace di tanti censori in pectore.

Trieste, 3 aprile 2002

Alfredo M. Bonanno

Introduzione del 1989

Molti luoghi comuni danno vita al significato di ordine. Esaminerò alcuni di questi, fra i più rappresentativi, dimostrando la loro inconsistenza e quindi la possibilità di ricondurre l’idea stessa di ordine alla sua matrice quantitativa naturale, privandola di tutte quelle coloriture metafisiche e qualitative che hanno finito per farla considerare uno scopo degno di essere raggiunto. Hegel è filosofo dell’ordine ma imposta la sua difesa delle regole nella maniera più contraddittoria possibile. Imbarca il rifiuto della ragione e lo costringe a una navigazione regolativa, sforzo inusitato e denso di sorprese.

La realtà non è ordinata. Non si lascia ridurre a un principio ordinatore. Nei suoi diversi aspetti fenomenici, dal piccolo al grande, la sua estensione è mobile, cioè procede per movimenti, i quali sono come le diverse pulsazioni di un unico movimento. Sotto questo aspetto, quindi, e solo questo, si può parlare di unità del reale. Ma proprio la forma del movimento è esattamente il contrario di quello che comunemente attiene al concetto di ordine, ed è proprio l’insieme di luoghi comuni relativi a questo ultimo concetto che voglio approfondire qui.

Il ricorso a un metodo che possa dare una visione gradualmente accessibile della realtà, un metodo fondato sulla logica dell’ “a poco a poco”, non comporta l’accettazione di un ordine finale che regga la realtà nel suo insieme. Hegel non è un filosofo dell’aggiustamento. I suoi sforzi sono recuperativi ma non colorano mai il dominio con l’illusione della completezza. Il metodo può condurre alla produzione di modelli, i quali sono qualche volta superflui ma qualche volta possono contribuire a proporre idee per l’azione. Lo sviluppo successivo dei modelli non si pone in alcun rapporto con la realtà se non come strumento dell’azione, nei diversi livelli di quest’ultima. Sarebbe ridicolo pensare che la realtà si rispecchi attraverso il modello. Hegel pensa il contrario, cioè che il modello possa sussistere solo dimostrandosi capace di rispecchiare la realtà.

Che qualcosa esista fuori di noi è fatto indubitabile. La realtà è fuori di noi e, per essa, noi siamo anche realtà al di fuori. Un bosco esiste. Questa affermazione è stata messa in dubbio di rado. Di fronte all’improvviso presentarsi e svanire delle sensazioni, la ferma stabilità dell’oggetto è stata considerata garanzia di esistenza. Ma un approfondimento di questa solidità non sfugge alla rivelazione della sua movimentata esistenza. Il bosco, in effetti, non esiste. Esistono innumerevoli boschi, non tanto nel senso delle diverse distribuzioni geografiche di questa tipica vita associativa vegetale, quanto nel senso delle diverse realtà che dello stesso bosco si hanno. Realtà che sono tanto diverse fra loro da non potersi assolutamente parlare dello stesso bosco. Un botanico, un poeta, un campeggiatore, un aviatore in avaria, un vigile del fuoco che sta spegnendo un incendio, un assiderato alla ricerca di un luogo dove ripararsi dalla pioggia, tutti costoro, primi della innumerevole lista di coloro che hanno visto un bosco, in pratica, hanno una loro idea di quel bosco, non del bosco in generale, se si preferisce in senso platonico, ma di quel bosco preciso che resta là, sempre là, nel medesimo posto.

Ecco, questa faccenda del posto, quindi di una collocazione spaziale, sembra dare una mano alla soluzione del problema in senso affermativo. È possibile cristallizzare l’oggetto costruendo delle coordinate spaziali. Provvedendo poi a recintare, poniamo con un bel muro alto e solido, il bosco verrebbe rinchiuso in un luogo preciso, immobile, facilmente rintracciabile sul piano in base a punti di riferimento geografici e a semplici calcoli matematici. Ma, a parte l’evidente formalismo di questi calcoli e la sostanza convenzionale dei punti di riferimento, quello che così si racchiude è soltanto un oggetto di cui non si è mai messa in dubbio l’esistenza. Si ribalta così e si sigilla qualcosa che era di già, fin dall’inizio, fuori discussione. Infatti, il problema era più o meno impostato sulla domanda se ogni volta che quel bosco veniva in contatto con una realtà sociale, per un qualsiasi motivo, poteva, da quest’ultima, essere considerato oggettivo. In secondo grado, il problema si poneva nel senso dell’intensità da dare a quest’ultima qualità, cioè all’oggettività del bosco. Hegel lavora al di qua di queste considerazioni di confine.

Si tratta di considerazioni di grandissimo valore pratico. In ogni caso, sono convinto dell’esistenza della natura e dell’assoluta significatività di tutte le sue parti, dalla più piccola alla più grande, pur nel continuo e permanente volgere del suo movimento creatore e distruttore insieme. Ma questo convincimento va approfondito dovendosi distinguere da un volgare materialismo fuori del tempo.

Spesso, da piccolo, sotto le coperte, nelle serate d’inverno, che erano veramente fredde in quelle grandi stanze antiche senza riscaldamento, mi piaceva pensare alla realtà della costa della Cornovaglia battuta dai venti e dalle ondate, oppure a un pezzo di banchisa che staccatosi dal ghiaccio artico andasse alla deriva in pieno Atlantico. La cosa mi faceva paura e piacere allo stesso tempo e anche mi sembrava incredibile. Era per me incredibile cioè che potessero esistere contemporaneamente, nella medesima unità di tempo, due situazioni reali tanto dissimili tra loro, quella di me rannicchiato sotto le coperte, e quella delle coste frastagliate e battute dai venti o del pezzo di ghiaccio alla deriva, nel freddo e fra le raffiche di pioggia. Eppure ero convinto che quelle realtà esistessero. Le avevo viste attraverso i libri di avventure di cui ero lettore costante e metodico e in quei libri esse erano descritte in tutti i dettagli. Ho poi visto le coste della Cornovaglia d’inverno, e non erano così spaventose, neanche di notte, neanche in quella parte che prende il nome poco allettante di “fine della terra”. Ma quelle altre coste, quelle che avevo visto prima, con gli occhi dei racconti salgariani, erano diverse. Quelle sì che erano fisse nella mia memoria, abbastanza uniformi e costanti. Le coste che ho visto dopo, da adulto, no, non mi hanno fatto paura. Erano come tante altre. La loro rassomiglianza con un certo modo di essere delle coste di una terra che si prolunga sull’oceano, finivano per farle diventare rassicuranti.

In fondo, che l’oggetto esista non è possibile dubitare, salvo si vogliano avanzare discussioni anche eleganti ma prive di senso filosofico. C’è comunque il grosso problema di arrestare un processo di spoliazione che procedendo dall’oggetto risalga su, fino alla coscienza, nell’onesto tentativo di sottrarre allo statuto del primo, preteso originale e a se stante, quanto vi sia stato immesso dalle manipolazioni dell’indagatore stesso. E di questo processo fa parte il concetto di ordine, il quale conduce inevitabilmente a una spoliazione totale. L’oggetto non è di certo l’insieme dei movimenti della coscienza, che possono essere caotici all’infinito, ma può percepirsi grazie a questi movimenti, senza i quali finirebbe per essere semplicemente dato, una ipotesi verso cui sarebbe difficile muovere.

La mancanza di ordine non è un fatto attinente a quella parte, arbitrariamente individuata, che di regola consideriamo come coscienza individuale, per tacere di altri titoli ai quali si pretende debba rispondere, ma riguarda la realtà relazionale nel suo insieme. Non si vedrebbe infatti per quale motivo l’esterno, con tutti i suoi problemi di determinazione, debba possedere una diversa e più fondata unità. La cosa è poi evidentissima riflettendo appena sui tentativi di mettere ordine nel cosiddetto mondo inorganico e sulle contraddizioni tassonomiche che ne derivano. E questo pur restando nell’àmbito decisamente controllato e circoscritto della catalogazione. L’unità del reale è quindi basata sulla sua mancanza di ordine. Quest’ultimo appare soltanto come pretesa della coscienza, più o meno come il presagio appariva come pretesa della diversità. Ma si tratta di una pretesa ordinatrice circoscritta solo all’ordinamento verso il senso che dalla continua verifica della propria inconsistenza finisce per produrre l’inquietudine della diversità. Per evitare questa doppia inversione di marcia Hegel ripropone costantemente l’unità nel particolare e il particolare nell’unità. Il processo che ne deriva sarebbe accettabile se non presupponesse una interruzione diciamo “visiva”, attuata dalla coscienza che osserva interrompendo l’osservazione e viene osservata sottrandosi all’occhio osservatore.

Il concetto di ordine si basa su quello di non-contraddizione. L’ordine non può ammettere elementi contraddittori al proprio interno, altrimenti metterebbe a rischio la propria esistenza in quanto elemento di pacificazione e reperimento del consenso. L’hegelismo tardo, riflettendo sui rischi conservativi della sussunzione, non si è accorto che l’azzeramento della contraddizione minaccia l’azzeramento della realtà o, se si preferisce, l’appiattimento di questa in un evolversi da cimitero catacombale. Non esiste infatti possibilità di consenso definitivo se questa condizione non è nella realtà, imposta e accuratamente mantenuta. Dal semplice luogo dei corpi alla scala dei valori, ogni cosa deve avere un suo posto. Ciò conforta e aiuta a mantenere l’ordine sociale, che poi non è un tipo particolare di ordine, ma l’ordine imposto nel campo sulla base del presupposto dell’esistenza di un ordine spontaneamente esistente nella realtà. Rinviando indietro ogni ulteriore sorpresa del pensiero Hegel vi sostituisce la mancanza assoluta di sorpresa, l’annullamento definitivo della differenza: la finale e perfetta corrispondenza tra realtà e filosofia.

Oltre che come costante del cosiddetto senso comune, la mancanza di contraddizione, in quanto elemento indispensabile della realtà, è stata sempre presente nella storia del pensiero. La gente ha difatti una spontanea ritrosia ad ammettere che una cosa possa essere diversa, anzi opposta, a quella che sembra immediatamente. Questo concetto è passato di sana pianta in filosofia, e lo ripetiamo ancora oggi. L’autorità aristotelica lo impose sia nel campo delle ricerche sull’essere, cioè nella metafisica, sia in quello delle ricerche sul ragionamento, cioè nella logica. Nell’Organon [IV sec. a. C.] si affermava infatti che i princìpi delle dimostrazioni si trovavano nelle opinioni comuni, in base alle quali una cosa deve essere necessariamente o affermata o negata, per cui diventava impossibile per una cosa essere e non essere nello stesso tempo. Di già, in queste affermazioni primissime, sono presenti tutte le implicazioni pericolose del problema. Dal senso comune, viene fatto derivare un processo necessario non solo per l’essere, concetto vago che la gente giustamente non può ammettere come esistente e non esistente nello stesso tempo, ma per la sostanza. In questo modo viene indirettamente dimostrata non solo l’esistenza della sostanza, in quanto cosa che sta sotto, ma la stessa validità di quest’ultimo concetto, che resta ancora oggi tutt’altro che fuori discussione. L’avventuroso itinerario dello spirito oggettivo è altra faccenda. Tutte le volte che si scava al suo interno si resta stupefatti per la capacità di recupero che esso manifesta in tutte le direzioni. Verso la conservazione, ma anche verso le istanze rivoluzionarie più estreme. Sempre nel pensiero aristotelico si compie la saldatura tra sostanza e necessità, in quanto se qualcosa è uomo e poi la stessa cosa è animale bipede, per il fatto che la parola uomo non ha un altro significato, ne viene fuori la necessità che quella stessa cosa sia nello stesso tempo animale bipede e uomo, per cui necessario vuol dire proprio impossibile che sia in modo diverso o che non sia.

Con il passare dei secoli, l’aspetto puramente logico di queste affermazioni si attutisce fino a scomparire, fino a diventare fondamento della razionalità, in quanto, come faranno poi notare i cartesiani, non può essere che una cosa fatta sia non fatta, che chi pensa non esista mentre pensa, che una medesima cosa sia e non sia nello stesso tempo, tutte verità che forse non possono essere approfondite ma che non si possono ignorare, salvo, continuava il prudente filosofo, a essere accecati dal pregiudizio. Qua sotto c’è l’ombra del buon Dio ordinatore e recuperatore supremo. Nella filosofia dell’ottimismo, ulteriore e supremo tentativo di mettere ordine nella realtà, si afferma che i nostri ragionamenti sono fondati su due grandi princìpi, quello di contraddizione, in base al quale consideriamo falso ciò che implica contraddizione e vero ciò che è opposto o contraddittorio al falso, e quello di ragione sufficiente, in base al quale pensiamo che nessun fatto può essere vero o esistente e nessuna proposizione vera, senza una ragione sufficiente perché sia così e non diversamente.

In un modo particolare, come vedremo negli studi che qui presentiamo, con Hegel il principio di contraddizione torna a diventare centro della logica, in quanto invece di essere considerato una legge del pensiero viene considerato una legge dell’intelletto astratto. Lo stacco formale così realizzato rende possibile la considerazione del principio di identità, o di non-contraddizione, come principio non più analitico ma sintetico. Il fatto è che l’operazione hegeliana consente di riportare all’interno dell’identità non solo la semplice uguaglianza, il che sarebbe troppo facile, ma addirittura la diseguaglianza assoluta, la contraddizione pura. Vedremo più avanti in che modo queste condizioni preliminari della dialettica si prestino a fraintendimenti, quali quello della differenza assoluta, o della contraddittorietà di ogni cosa nel senso del pensiero antico, elemento di riflessione relazionale che non può essere recuperato nel concetto graduatorio di una negatività posseduta da ogni semplice riflessione. Oggi queste posizioni vengono considerate superate. Il processo analitico non è solo la scomposizione in tautologie primarie, che consentono un corretto impiego del principio della non-contraddizione. Strana sorte di un principio, quello di contraddizione, che non volendo contraddire si contraddice fin nel suo stesso nome. In definitiva si ammette oggi, quasi completamente, che sono possibili giudizi analitici con contenuti non analitici, quindi con possibilità di contraddizione. La qual cosa tocca comunque il nostro problema in un modo tutt’altro che di passata, come vedremo.

Torniamo al problema dell’ordine. Questo sembra ben radicato nella realtà attuale, per quante complicazioni possa avere avuto nella logica scientifica più recente, in particolare negli stimoli della ricerca biologica. Il pensare l’ordine fuori di sé e anche fuori del metodo che si impiega, metodo di ricerca ma anche di comprensione, non significa necessariamente provare che questo ordine esista. Lo si pensa e basta. Il pensiero non fonda alcunché e la realtà non ha bisogno di autorizzazioni alla sua esistenza. In effetti, il pensiero è solo un elemento di possibile trasformazione. Quando insiste nelle sue pretese globalizzanti, fornisce elementi ai processi di conservazione, semplici fatti modificativi diretti al mantenimento e alla manutenzione della struttura.

L’ordine viene quindi visto come semplice modulo metodologico, come corretto procedimento del pensare. In questo senso, fortemente riduttivo, esaltato dalla logica dell’ “a poco a poco”, si è spezzata la logica del vecchio dogmatismo, la quale pretendeva di individuare nelle cose un ordine provvidenziale. A eccezione di Hegel, da cui le difficoltà (a volte) di considerare dogmatico l’hegelismo. L’armonia si è rotta dappertutto. Dalla fisica alla musica, dall’economia alla biologia, dappertutto regna il disordine. Solo che questo disordine lo si pretende riportare ai canoni della leggibilità, codificandolo in modelli intelligibili, non contraddittori, semplici, evidenti e chiari. In caso contrario, non ci si intenderebbe. La possibilità di contraddizione, ricacciata dalle premesse della logica, viene ancora una volta ammessa non solo come composizione della realtà, ma come metodo del pensiero. Ci si può contraddire, non nello stesso pensiero, ma in momenti successivi, facendo così collimare la realtà disordinata con un pensiero ordinatore, capace di apportare correzioni successive. La logica dell’ “a poco a poco” si fonda sulla possibilità di commettere errori e di correggerli. Per Hegel, al contrario, il falso e il vero non si escludono a vicenda. Il falso diventa vero e il vero falso. Il trapassare dell’uno nell’altro non è stato in ogni caso (né poteva esserlo) opportunamente indagato in tutti i suoi aspetti sconvolgenti.

Il dominio della coscienza risulta possibile solo a condizione che essa racchiuda le sue proiezioni al proprio interno o le convogli, il più possibile, verso l’accumulazione dei fatti, dove si solidifica il senso relazionale. Questo flusso consolida eminenti successi, specie nella cosiddetta scienza moderna, e ha fatto parlare, e continua affannosamente a far parlare, dei destini gloriosi della conoscenza umana. La cosa viene pagata con una riduzione delle potenzialità soggettive, le quali per potere continuare a esistere devono concentrarsi nella monoliticità del fatto, abbandonando sia la molteplicità creativa del soggetto, sia la tensione della qualità. Questa penalizzazione sottrae all’uomo un mondo di cose per consegnargli un mondo di prodotti, un accatastamento continuo di piccole modificazioni standardizzate. Le grandi aperture dell’avventura si sono forse chiuse per sempre davanti all’unità ordinata della coscienza, per come si è qualche volta realizzata in passato, almeno nei limiti di quello che possiamo capire noi adesso, a distanza di secoli. Il presente, con tutte le caratteristiche della riduzione, consente soltanto l’apertura della diversità o, formulando più modestamente questo pensiero, consente, meglio di quanto non succedeva secoli or sono, una emersione vivificatrice della diversità. Movimento quest’ultimo tutt’altro che garantito. La caratterizzazione oggettiva di quello che vedevamo mezzo secolo fa come indiscutibile si è molto attenuata.

Il vero e proprio guaio dell’accumulazione consiste nell’impossibilità di racchiudere tutte le varianti creative della coscienza, per cui essa si vede costretta a suggerire a quest’ultima un comportamento meramente dominante e di controllo. La vita, a poco a poco, è venuta via dal contenuto per racchiudersi dapprima nella coscienza, da dove la forza dirompente dell’inquietudine la sollecita alla fine verso la diversità, l’apertura cioè verso una rimessa in discussione di ogni sistema ordinativo.

Nel periodo della rinascita dell’uomo nuovo, una più completa apertura dell’accumulazione consentiva che arrivasse assieme al significato anche la qualità mentre, con il rompersi di una sostanziale e purtroppo transitoria armonia di destini, questi due orientamenti si sono contrapposti. I livelli di tensione contenuti adesso nell’orientamento verso il senso sono infimi. Il meccanicismo accumulativo ha inaridito la conoscenza, privandola della vita e quindi di ogni immediata possibilità di attingere la qualità. Hegel pensava ancora possibile una cattura di quest’ultima nell’ordine costituito dall’eticità. Le mostruosità del fascismo non ci fanno dormire la notte.

La ricerca della qualità è diventata pertanto un’avventura. Così facendo, riducendosi nell’àmbito dell’archivio, la conoscenza ha principalmente perso di vista la realtà della cosa, l’unico luogo dove è possibile rimettere in sesto la verità. Tutti gli hegeliani, nessuno escluso, non hanno avuto questo smarrimento. Sono andati avanti per altre strade fino in fondo, fino alla perdita totale, e sono sempre stati certi delle loro scelte. Al contrario, con una permalosità minuziosa, la catalogazione insiste adesso nella realizzazione della verità esclusivamente nel senso, come se fosse possibile raggiungere un’oggettività fuori discussione. Per la verità, il territorio che ospita questa visione operazionista si va riducendo sempre più.

Lo smarrimento delle illusioni fondate sull’ordine ha prodotto notevoli cambiamenti nell’assetto scientifico, ma non ha potuto evitare che quelle vecchie illusioni si trasformassero in nuove illusioni, da un ordine generale e assoluto si è passati alla ricerca di un ordine specifico e relativo. Hegel aveva di certo una visione molto più ampia e significativa del problema della conoscenza. L’insistenza con cui oggi si lavora sul senso è una prova di questa povertà scientifica, e quindi in primo luogo conoscitiva in senso totale, povertà che non viene eliminata dalla grande quantità di dati raccolti. Più ampio e circostanziato è questo processo meccanicistico, più lontana appare la possibilità di un recupero della vita all’interno dell’orientamento verso il senso. La qualità sembra allontanarsi. Quello che la grande sintesi catturava era quasi certamente un pugno di mosche, eppure nel movimento diretto a cogliere la totalità resta ancora oggi un fascino che invano cercheremo nelle dissezioni di laboratorio.

Il fondamento della vita si può rintracciare solo attraverso la ricomposizione di quei flussi che comprendono sia la tensione che il senso, in quanto vivere non è né ricercare rabbiosamente qualità rarefatte che minacciano continuamente di bruciarci, e neppure adeguarsi a una ripetitività del senso che minaccia di uccidere il nostro stesso desiderio di respirare. La libertà, la verità e tutte le altre tensioni che qualificano i contenuti della nostra esistenza, si sono polverizzate, abbandonando il campo dove le nostre unità di misura, i nostri valori, sono diventati i confini di un lager e dove restano soltanto i simulacri della loro realtà, ridicoli residui per i quali continuiamo a litigare gli uni con gli altri.

Allontanando la “forte” filosofia hegeliana, lo smarrimento dell’unità si è presentato agli inizi come una conquista, un considerevole passo avanti nella strada della chiarezza. L’uomo non deve più cercare un pensiero totale, una possibilità di totale comunicazione con la realtà. La divisione è alla base dell’ordine, questo è alla base del controllo e del dominio. Quando ancora il pensiero, e il relativo bisogno di divisione, non si erano sviluppati non si può dire che l’uomo e il mondo fossero migliori, c’era solo una diversa, e più ampia, potenzialità. Poi questa ha preso una strada, quella della divisione, ma le cose sarebbero potute andare diversamente. La conoscenza deve essere totale e non può basarsi su di una crescita progressiva fondata su princìpi perfezionabili all’infinito. Il fatto che in termini operativi si resti circoscritti a parzialità non toglie che questi singoli momenti non debbano fare parte di una complessiva considerazione totale. In caso contrario si incanalano tristemente nell’ottica dell’accumulazione. Se ci si occupa dei problemi dello Stato, da questi non si può estrapolare nulla che non riunisca in sé le risposte necessarie a una serie di problemi praticamente totale, cioè in grado di considerare come presenti aspetti e condizioni della totalità del reale.

La prima volta che lessi la traduzione italiana de Le contraddizioni economiche. Filosofia della miseria [1846], di Proudhon, opera di economia politica, restai sbalordito nel vedere che lì si cominciava parlando dell’esistenza di Dio. Molti anni dopo, quando venni fuori definitivamente dall’àmbito specialistico dei miei studi di economia, mi resi conto di come avesse ragione l’anarchico francese e di come la sua scarsa considerazione negli ambienti accademici, in quel tempo da me frequentati, dipendesse da quelle sue scelte totali e non da una sua presunta incompetenza. Quel testo e molti altri dello stesso autore sono stati impudentemente saccheggiati da molta gente che ha cercato, per mero tornaconto personale, di riportare all’interno dell’accumulazione un pensiero altrimenti diretto alla totalità.

La preoccupazione ordinativa tende invece a riportare i processi di conoscenza all’interno di differenti sezioni, allo scopo di ridurre al minimo le relazioni reciproche, in grado di ricondure, per vie diverse, la tensione al senso. La separazione corrisponde al bisogno di identificare la specificità, allo scopo di poterla trasformare in strumento utilizzabile. Quello che principalmente si sottrae a questa operazione è proprio l’uomo, l’uomo reale, vivente, in carne e ossa, con i suoi limiti e le sue gigantesche pulsioni diversificanti. Non c’è un motivo particolare perché la filosofia venga incaricata di cogliere queste pulsioni totalizzanti, forse domani riusciremo a condensare o filtrare o decantare un modo diverso per cogliere la totalità, e allora forse della filosofia sarà scomparso anche il ricordo, ma non è questo il problema. Per il momento, con le opportune attenzione critiche, penso che il vero e proprio compito filosofico sia quello di cogliere la diversità attraverso la totalità. L’eredità di Hegel può, ancora una volta, essere dietro l’angolo.

Il grande sviluppo storico degli interessi sociali ed economici, cioè degli interessi di campo, almeno per come si è caratterizzato negli ultimi duecento anni, ha reso possibile il fallimento dell’antico tentativo di partire dalla totalità. Continuando la strada di Hegel, evitando le sue conclusioni reazionarie, si è sempre andati incontro a una condanna ufficiale. Il rovesciamento di Marx, come quello di Croce o di Gentile, non è mai stato vero e proprio rovesciamento, per questo le loro filosofie hanno finito per saldare le giunture del mondo. Chi si è intestardito a operare in maniera sempre aperta, cercando la totalità oltre il sistema che garantisce e governa, è stato emarginato, ricondotto con la forza nell’alveo di una attività sotterranea o clandestina, squalificato e vilipeso. In questo modo, la possibilità di superare i confini del campo e di fissare un flusso relazionale consistente e ricco con la totalità del reale, è andata scomparendo. Le grandi crescite cognitive settoriali si sono arenate nel gioco ripetitivo dell’accumulazione. Anche il fallimento (in Hegel fallimento veramente magistrale) è stato mistificato, trasformato in termini accessibili alle masse contemporanee, capaci solo di comprendere il gioco delle scatole cinesi in cui sono maestri gli accademici. Si è infatti affermato che quel fallimento era dovuto alla pretesa di fondare un pensiero sistematico, onnicomprensivo, avente l’intenzione di inglobare in una spiegazione rigorosa la totalità del reale. È stato affermato che quella pretesa si riscontra, con tutti i suoi limiti e le sue amenità, anche nei grandi sistemi filosofici che si sono succeduti a partire dall’Illuminismo. Questo a me sembra un imbroglio. La logica del “tutto e subito” deve partire da un altro punto, cioè dalla totalità, e non arrivare alla totalità partendo dal semplice e dal particolare. Io penso che l’accumulazione, con tutte le sue chiacchiere prudenti e le sue prese di distanza, sia oggi la giusta continuazione di quelle antiche illusioni sistemiche, ed è evidentemente lontana da quello che è un vero pensiero capace di porsi nella prospettiva della totalità.

Possiamo capire l’uomo solo evitando di partire dal parziale. In quanto diversità della coscienza, le sue peculiarità, tutto quello che lo caratterizza proprio in quanto essere inquieto e problematico, non può essere sottoposto a raccolta e catalogazione. Ne verrà, in queste condizioni, qualcosa di artefatto, di ridotto a specificità parziale. Partendo dalla totalità, invece, si coglie l’evento doloroso dell’apertura, dell’inquietudine interna alla coscienza e si evita il grande rischio di ridurre l’uomo al semplice fare coatto, cioè a tutto quello che egli riesce ad avere. L’estrema estraneità, la relazione ridotta a oggetto, non ha altro destino che l’enumerazione, la collocazione come fatto in un tutto meccanicamente accessibile. Anche la coscienza viene racchiusa nell’orientamento verso il senso e ridotta a feticcio, in un tutto omogeneo che non esiste realmente ma che fa comodo ai fini del controllo. È strano notare che man mano che si andava realizzando questo processo riduttivo, altre forze venivano spezzando l’ipotesi di equilibrio e di armonia che vi si suppone a fondamento. La vita, per conto suo, andava ricacciandosi indietro, suggerendo prospettive alienate e svuotate di ogni motivazione qualitativa. In ultima analisi scienza e oggettività venivano fatte coincidere proprio sul punto di esclusione di un terzo incomodo, individuabile nell’individuo, nella coscienza del singolo.

Ma la realtà non poteva stare ferma in questo cimitero ordinativo. Il campo non può essere soltanto l’identificazione di alcuni rapporti costitutivi del circoscritto, esso costituisce principalmente il punto di partenza per il fatto conoscitivo, il luogo essenziale della coscienza e della realtà, il possibile che viene superato dall’estraniato, dimostrando la ristrettezza del senso e l’apertura della qualità. Il campo possiede un’apparenza di maggiore ordine, ma una volta esaminato bene quest’ordine si rivela assolutamente superficiale. Il fatto non può rassicurare l’inquietudine che è nella intenzione della coscienza. E questa inquietudine è data dal vedere esclusa, nel meccanismo, una parte della realtà, la parte qualificante, per cui l’universalità finisce per concordare e dirsi sinonimo della parzialità.

L’idea di ordine una volta caduta non può sostituirsi con un altro fondamento altrettanto illusorio, come quello di probabilità o di andamento statistico. Se l’orientamento verso il senso rimane esclusivo ed escludente, il risultato sarà sempre lo stesso. Dall’antico, e ingenuo, materialismo meccanicista al più recente e scaltro materialismo dialettico, la critica non fa differenza, le obiezioni cambiano solo di aspetto, non di sostanza. Dobbiamo cercare un nuovo materialismo, che dia fondamento nuovo alla conoscenza, e quello che stiamo costruendo si basa su di una totalità ottenuta ricongiungendo tensione e senso, qualità e contenuto. Ciò scatena liberamente il movimento relazionale riflettendo all’interno del campo una grossa parte delle condizioni esterne e proiettando al di fuori del campo cristallizzazioni che altrimenti minaccerebbero di incancrenire. Non penso che si possa affermare tranquillamente di essere in grado di conoscere il disordine, e non penso di essere in grado di svelare alcunché. Nella realtà non c’è nulla di nascosto. I nascondimenti sono soltanto espedienti nostri per ingannare noi stessi e metterci in condizione ideale per andare avanti, sono trappole che collochiamo nel terreno ricognitivo per consentire un avanzamento dell’indagine interpretativa, non hanno a che vedere con la realtà se non come piccolo contributo alle relazioni dell’apparenza. Con queste due affermazioni mettiamo definitivamente da parte sia l’intenzione fenomenologica che l’intenzione dialettica.

Ciò non toglie che fra gli strumenti elaborati in vista delle effettualità di grado più elevato ci sia la filosofia, e non toglie che questa, come strumento efficace, sia in grado di facilitare la conoscenza della realtà, anche se dentro certi limiti. Senza disvelamenti e senza rivelamenti. Di una realtà che è movimento non ci può essere fondamento che non sia esso stesso movimento. Hegel aveva coscienza di questo ma pensava, in armonia con i suoi tempi, che il processo dialettico non coinvolgesse al proprio interno il suo stesso fondamento. Questa incertezza metodologica è stata produttiva di gravi conseguenze. Occorre quindi diventare capaci di capire in modo diverso il fondamento, visto che in quanto cosa che sta alla base lo abbiamo sempre considerato come sottostante, come sostanza, insomma come qualcosa che se proprio non era immobile e fisso non aveva intenzione motoria. La latenza di cui l’uomo si fa portatore nell’apertura è una diversità che stava male nell’àmbito della coscienza, per quanto non si può dire che fosse nascosta. La patina di normalità non ha mai convinto nessuno, come nessuno si convince davanti alle ostentazioni di benessere e di felicità. Le coordinate esterne dell’ordine nascondono miseria e sofferenza, razionalizzate e accettate, fino al momento in cui la struttura si rompe per dare vita a un rifiuto. È qui che si colloca la conoscenza, l’inizio del movimento verso la ricomposizione della conoscenza. Certo, questa conoscenza c’era anche prima, latente nella coscienza, potenziale nel meccanismo di accumulazione. Ma era riduttiva, residuale. Scartava ogni pericolo e ogni rimessa in questione, pretendendo fondare se stessa e il proprio lavoro sulla staticità apparente, ma rassicurante, dell’ordine. Adesso, al contrario, siamo davanti ai pericoli di un viaggio, di un imbarco su una nave poco rassicurante, siamo davanti ai pericoli di un coinvolgimento rischioso. Anche Hegel assume rischi e ne mette a parte il lettore, ma i denti del meccanismo dialettico sono troppo robusti per impensierirlo. L’apertura non è una crisi della coscienza ma un accrescimento, una partecipazione. Aprendosi, la coscienza si scuote dal torpore accumulativo e della riduzione a feticcio del dato, comprende che la supposta distinzione con la realtà era solo un miraggio, un imbroglio organizzato dalle proprie paure e ritrosie, e intuisce con più o meno immediatezza che il fondamento sta altrove, proprio nelle condizioni del rischio. Le conseguenze di questo coinvolgimento sono tanto più sconvolgenti quanto più il processo di accumulazione è andato avanti mietendo successi apparenti e risolvendo problemi allo stesso modo in cui si aprono porte aperte. Nessuna proposta coerentemente storicista potrà confortarci in merito a un possibile utilizzo, più o meno involontario, del meccanismo in questione. Spostandosi sul piano dell’automaticità del processo, quell’immane dimensione dell’archivio ci sembra ancora più lontana e nemica, mentre non riusciamo a risolvere i problemi urgenti della nostra vita. Qualche volta possiamo chiuderci davanti a questi problemi e allora entrare in una dimensione fattuale, convincendoci di essere felici e contenti dei nostri meccanismi di dominio e di controllo. Ma, di regola, il convincimento dura poco. L’unica soluzione resta quella di dare ascolto alla propria inquietudine senza averne paura, seguendone gli sbocchi e le strane e sconvolgenti proposte di diversità.

L’apertura diventa così un passo per uscire da me stesso ed entrare in un altro me stesso, profondamente diverso, ma immensamente più ampio e pieno di desiderio. Il presente mi apparirà allora come presente, cioè come un momento temporale da trasformare in un fondamento valido ben al di là delle condizioni oggettive di campo che, per accidente, gli forniscono il senso del decorrere. Il movimento fin dall’apertura, per continuare con la ricognizione, finendo nel territorio della cosa, risulta così il nuovo fondamento che non si può definire soggettivo in quanto è soltanto relazionale, cioè è la strada per arrivare a saldare la frattura tra tensione e senso. Il soggetto in movimento è certamente soggetto, ma è di già relazione concreta, non ipotesi statica fuori della realtà. L’apertura è quindi un allargamento verso l’obiettivo della trasformazione, un obiettivo essenzialmente attivo. Ma l’azione contrasta con il concetto stesso di ordine, almeno nei termini in cui questo si trova ormai codificato, cioè ordine nella catalogazione, ordine nelle intenzioni, ordine nei bisogni, ordine nei progetti, ordine nella vita. Ma la vita non accetta questi concetti ordinativi, anche quando si nasconde dietro gli atteggiamenti della sottomissione e dell’ubbidienza. L’itinerario di liberazione, che si svolge a diversi livelli relazionali, sia interni che esterni al campo, sia individuali che collettivi, sia intenzionali che logici, non è un processo lineare che può presentare disturbi e anche voltafaccia. In piena ricognizione vi può essere un ritorno dell’ancestrale paura da cui il ripristino dell’ordine come toccasana. Si tratta di offuscamenti che non si possono evitare, per quanto producano solo ritardi non essendo mai capaci, in assoluto, di ripristinare condizioni interne alla coscienza così come preesistevano all’apertura. In queste vicende, spesso oscure e contraddittorie, quasi sempre difficili da comprendere, si potrebbe anche profilare un distacco dal processo di accumulazione e una chiusura, sempre comunque relativa, all’interno della coscienza, in una specie di soluzione mistica della soggettività. Ma la sollecitazione del coinvolgimento è sempre presente e non ammette eccezioni. Comunque vadano questi fraintendimenti essa è sempre lì a determinare condizioni di inquietudine. E si ritorna daccapo.

Il rapporto tra conoscenza e itinerario dalla coscienza alla cosa dà vita a un diverso processo di crescita, un accumularsi relazionale del tutto contrapposto al semplice accumularsi del senso. La conoscenza si sviluppa e diventa scienza, anche questa diversa dalla scienza del contenuto e della separazione. La nuova scienza che così si costruisce, sul fondamento dell’incertezza e del disordine, coinvolge l’uomo, non si limita a farlo partecipe, più o meno passivo, dei suoi risultati. Lo coinvolge in tutti i momenti del suo sviluppo, delle sue contraddizioni, dei suoi risultati. La nuova scienza diventa scienza universale, non solo del campo, anche se dal campo si diparte, ma scienza capace di raggiungere la totalità. Anche questa è scienza di fatti, interpretativa e trasformativa, non modificativa. Ma si tratta di fatti speciali, in una prima fase, di quella fattualità che si definisce interpretativa e, in una seconda fase, di quella fattualità che è trasformazione e quindi non più fatto ma azione.

Anche qui ci sono condizioni orientative a priori che influiscono ineluttabilmente nella conoscenza, e non potrebbe essere in modo diverso. Lo svolgimento si estrinseca infatti attraverso una dimensione di movimento, attraverso un coinvolgimento che è rischio e non conservazione. Siamo esattamente agli antipodi delle condizioni dell’accumulo e dell’archivio. Ma la riduzione a oggetto di questi ultimi avviene a causa di un contrasto interno al soggetto, nascente da un rifiuto dell’elencazione e della classificazione e dal tentativo di dare vita a una tassonomia più significativa del materiale accumulato. Insomma, a un certo punto, il soggetto pone delle domande all’archivio, ma riceve risposte non soddisfacenti. La costruzione di una scienza di oggetti è la negazione di una conoscenza delle cose. La scienza di oggetti si presenta come scienza della natura, come scienza dello spirito e perfino come scienza dell’esistente, dove l’interesse si sviluppa a partire e verso un punto di riferimento in cui è stata prima enucleata e poi uccisa la qualità. Da qui la straordinaria somiglianza di tutte queste partizioni che si riducono a faccende di metodo e di nomenclatura, a distinzioni che nella realtà non distinguono affatto. Al di là delle distinzioni si può ricostruire un percorso che continuava a svolgersi anche senza la nostra consapevolezza, determinato dall’intero cielo delle relazioni attingibili e anche dalla totalità di quelle talmente affievolite, per noi, da potersi considerare non attingibili. La distinzione fonda una chiarezza analitica assolutamente provvisoria che viene considerata valida solo a condizione di restare nell’àmbito circoscritto del campo.

La perfettibilità, elemento di fondo del concetto metodologico di ordine, viaggia nella direzione del senso, lo approfondisce e si addentra perfino nelle variazioni continue determinate dai processi di autorganizzazione del materiale accumulato, ma non può accedere alla conoscenza reale, che comprende anche l’uomo, se non come coincidenza, cioè accadimento eccezionale che per motivi non facilmente ripresentabili propone la visione più allargata e quasi in grado di far capire quello che prima restava sulla soglia della comprensione oppure, se non si tratta di coincidenza, si tratta di una riduzione dell’uomo alle condizioni dell’oggetto meccanico, come sta cercando di operare adesso il progetto elettronico. La compiutezza si rivela pertanto come un’illusione accumulativa, un’illusione tipicamente quantitativa. L’ordine regna sovrano nel progetto quantitativo, ne regola l’obiettivo di compiutezza e, così facendo, fissa i termini essenziali del controllo generalizzato. Nessun elemento deve sfuggire alla compiutezza, ma prima ogni elemento deve essere riconosciuto in quanto tale, cioè munito di caratteristiche che lo rendono idoneo a partecipare al progetto stesso della compiutezza. Ogni elemento diverso viene escluso a priori, considerato poco importante o non catalogabile, comunque non essenziale alla realizzazione del progetto. Ne deriva che in questo modo la coscienza diventa custode soltanto di se stessa e di tutti quegli elementi, opportunamente adattati, che vengono preventivamente considerati utili al progetto di controllo.

Il senso così selezionato viene accuratamente separato dalla qualità che pure si trovava nel flusso, operazione questa che mettendo ordine nella relazione la riduce a oggetto ipotetico, mentre le scorie di lavorazione vengono ridotte, a loro volta, a residui capaci soltanto di ricordare lontane esperienze qualitative. Su questa base, attraverso processi diversi, vengono costruiti gli strumenti, di cui il linguaggio è uno dei più efficaci. Ma di già la costruzione di un laboratorio è operazione riflessa, dettata e quasi imposta da condizioni di inquietudine che si stanno sviluppando all’interno della coscienza. La realizzazione delle strutture è opera della coscienza e anche modo efficace per mettere a tacere l’inquietudine. Nelle strutture si costituisce infatti un fondamento artificiale che si presta molto come sostituto dell’unico fondamento reale che è quello della totalità, capace cioè di comprendere l’uomo e le sue continue preoccupazioni. La struttura si solidifica nella pratica stessa del meccanismo accumulativo, dove acquista significati via via diversi in relazione al riorganizzarsi interno del senso, ma anche alle possibilità di ricomposizione dell’intero flusso. Così il medesimo contenuto può essere ricomposto e rielaborato infinite volte, partecipando a infinite strutture, le quali solo apparentemente avranno una relazione ordinata, mentre in effetti saranno in un rapporto continuamente modificato e privo di costanti. L’esperienza conoscitiva fissa queste strutture in categorie, anche allo scopo di meglio organizzare il proprio mondo all’interno del campo, ma qui si tratta di ulteriori aggiunte di senso che vengono fatte in vista di fini operativi.

Le relazioni strutturali hanno una capacità riorganizzativa che le rende difficilmente sottoponibili a processi di misura ma essendo, per un altro verso, indispensabile una misurazione, e quindi un’ordinazione, si ricorre a dei presupposti idealizzati di staticità, da cui deriva l’ipotesi, anch’essa idealizzata, di una misurazione empirica perfettibile in assoluto. Quest’ultimo lavoro è destinato al fallimento se non accetta l’apertura della diversità, cioè se non ammette la differenza fra le strutture, e non propone questa differenza come originata in modo differente dalle strutture stesse. La misurazione sarà allora sempre un processo modificativo del meccanismo della catalogazione, ma cercherà di porre in contatto questo meccanismo di riserva del senso, con l’itinerario consapevole dell’esperienza, in sostanza con l’attività ricognitiva della diversità, e con il territorio della qualità. Così la struttura si relaziona alla forma e a questa si contrappone alla struttura.

L’ordine diventa un problema della forma, agli antipodi della struttura e delle elaborazioni del senso. Le rapportazioni spazio-temporali, per come avvengono all’interno del campo, non sono caratteristiche esclusive di questo luogo particolare, ma particolarità determinate in questo luogo dalle condizioni dei flussi che qui si riunificano, si dissociano nei loro orientamenti per poi riprendere il movimento all’interno dell’insieme totale delle relazioni. Nel campo questi flussi assumono uno stile diverso e si dispongono diversamente alla misurabilità, producendo rapporti diversi con i livelli dell’effettualità. Con ciò non si arriva mai alla stabilizzazione di un ordine effettivo di misurabilità, tutte le volte occorre ricominciare daccapo. La misurazione diventa essa stessa un lavoro, un compito della scienza, fin quando l’elevata specializzazione, coprendo definitivamente gli altri scopi, in primo luogo i desideri dell’uomo, riduce la scienza all’ordine fittizio delle procedure. Nella totalità del reale non è impossibile la misurazione, solo che questa dovrebbe evitare di essere troppo parziale e troppo precisa, non potendo essere né l’una cosa, né l’altra, dovrebbe superare questi limiti modificando alle radici l’idea stessa di ordine. La fissità fotografica delle relazioni è una relazione apparente. In quanto tale, influenza la realtà e partecipa del suo destino, ma non è identificabile proprio perché di essa esiste solo l’apparenza. Questo non vuol dire che non ci sia una realtà dell’apparenza, in caso contrario si dovrebbe ammettere che esiste qualcosa al di là della realtà, poniamo il nulla. Sto solo dicendo che l’apparenza ha una sua vita apparente, una sua vita relazionale che produce conseguenze nell’effettualità, ma non può orientare in modo diverso i flussi. Per esempio, non può partecipare al senso e tanto meno alla forma. Tutte le volte che si propone come alternativa di orientamento davanti a qualcosa, poniamo davanti al movimento, viene a mancare nella sua veste di staticità. Il risultato è che una relazione di staticità ha la sua conseguenza relazionale fin quando non si confronta con l’orientamento. In questo caso la sua capacità relazionale si affievolisce fin quasi a scomparire.

La scienza si fa creatrice di oggetti misurati o misurabili, che inserisce in un progetto di accumulazione, dove trova riferimenti temporali e spaziali più o meno precisi che vengono considerati come legami con la realtà. In effetti in questo modo sta duplicando una realtà attraverso una serie di relazioni apparenti, più spesso esclusivamente strutturali, che risalgono il corso relazionale stesso per diventare o una delle cause dell’inquietudine della coscienza, o una delle cause del controllo e del dominio. La grande costruzione scientifica sta quindi al di qua della conoscenza vera e propria, mantenendo all’interno del meccanismo di accumulazione, dove si sviluppano le varie ipotesi scientifiche e le varie tecnologie operative, uno svilito attaccamento all’utilità dei risultati. Così la realtà diventa un deserto, una serie di approssimazioni da percorrere con l’astrazione di tutto il resto, coscienza in primo luogo. Il deserto è infatti una speranza continuamente rinviata, un desiderio di raggiungere qualcosa che nell’estrema lontananza continua a sfuggire, a sfumare, fino a sparire, ma che proprio per questo suo continuo sparire viene continuamente inseguito.

Si potrà obiettare che queste accumulazioni di senso su ampia scala hanno poco di individuale, non possono tenere conto delle complicazioni che si scatenano nel bicchiere d’acqua della coscienza. E sarebbe una ulteriore affermazione errata. Proprio nella coscienza si verifica il fatto centrale che mette in crisi, cioè impone dall’esterno una situazione di contraddittorietà a tutta quella costruzione, sistematicamente intesa come perfettibile, e questo fatto centrale è l’apertura della faglia della diversità. Più cresce l’esponente di accumulazione della scienza oggettiva, più appaiono chiare le sue limitazioni, più la differenza diventa lacerante. La coscienza si rifiuta di farsi massificare. Dapprima accetta i termini del controllo, considerando la cosa dal punto di vista dell’utilità immediata, poi si rende conto che questa utilità uccide la vita. Anche quando non troverà la forza di produrre uno scarto significativo, tale da determinare un’apertura, al suo interno ci saranno sempre i segni visibili dell’inquietudine e la catalogazione infinita dovrà fare i conti con questi segni per essa molto minacciosi.

L’ordine dell’accumulazione può anche essere visto come un viaggio, ma diverso da quello che inizia con l’abbandono e la ricognizione. Il mito moderno della scienza si personifica nell’accelerazione, cioè in acquisizioni sempre più veloci di dati che vengono immessi in un enorme contenitore capace di rielaborazioni. Il mito antico dell’odissea si contrappone al precedente per la sua decelerazione, per la sua conquista di uno spazio che man mano si sviluppa con sempre maggiori difficoltà e nei confronti del quale si devono esercitare maggiori accortezze, mascheramenti e astuzie. Il primo appare come dislocamento istantaneo, in tempo reale, per usare un termine dell’elettronica, una personificazione della velocità della luce, un viaggio dove non è più possibile distinguere l’itinerario, il percorso, le difficoltà, ma dove tutto si contrae in un continuo pulsare che ripresenta il medesimo movimento, in sostanza il medesimo viaggio ripetuto infinite volte. Ma il mantenimento del viaggio nel senso della conoscenza non implica, di per sé, una riaffermazione del concetto di spazio e del correlato concetto di tempo. Non si tratta di dilatazioni o contrazioni di questo tipo. Si tratta di movimenti nell’esperienza, itinerari reali all’interno del flusso relazionale che, all’interno del campo, possono trovare corrispondenze coordinate nel tempo e nello spazio, ma possono anche non trovarle innestandosi direttamente nella totalità delle relazioni.

Nella fase ricognitiva o, meglio ancora, dopo il salto, all’interno della cosa, la progressiva lontananza del senso, la ricerca perfezionata di questa lontananza, la costruzione di essa anche con espedienti raffinati e particolari, permettono di rallentare l’esperienza, dando maggiore spazio alle caratteristiche del disordine, su cui in fondo si basa una conoscenza più approfondita della realtà. Non mi pare che siano mai state sottolineate le importanti correlazioni che passano tra velocità di ripresentazione degli elementi dell’esperienza, cioè la loro ripetitività, e possibilità di sottoporli a un processo ordinativo. Penso si tratti di una importante riflessione. La sostanziale impossibilità di porre ordine nella realtà, di solito, ci sfugge proprio perché siamo inseguiti dalla velocità di riproduzione degli eventi. Chi ha sperimentato l’eroina sa che quasi sempre si verifica un rallentamento della capacità di cogliere il passare del tempo. Il singolo istante comincia a dilatarsi, dapprima insensibilmente poi sempre di più, fino a consentirci di individuare gli aspetti frazionati dell’esperienza. Il caldo, il freddo, il rumore, gli odori, il contatto con le superfici lisce, tutto ciò perde la consistenza tradizionale di unitarietà e comincia a rompersi in elementi separati, assolutamente privi di rapporto fra loro. Non solo tra l’odore e il calore, ma anche all’interno dell’odore stesso. In certe condizioni siamo in grado di distinguere parecchie decine di sfumature, di costruire fantastiche nomenclature di queste variazioni, dando nomi e gradazioni, distinguendo impieghi e dissolvenze. Poiché è evidente che queste esperienze non sono dovute a processi chimici ma all’azione di certe sostanze sulle nostre normali facoltà di proiezione, ne deduco che queste facoltà possono anche essere educate a realizzare il medesimo risultato senza la protesi chimica. Io stesso mi ci sono provato con risultati non sempre esaltanti ma, almeno qualche volta, decisamente interessanti.

Fenomeni di rallentamento similari sono stati realizzati da me riguardo la capacità di memorizzazione. Per attivare gli schemi mnemonici di coordinazione, che come ho detto prima ho diviso in una parte affermativa, più ampia, e una parte negativa, meno ampia, occorre ridurre la velocità della comunicazione e anche distribuire la comunicazione stessa in uno spazio visivo quanto meno ampio possibile. Ciò comporta non solo un rallentamento temporale, ma anche un raccorciamento spaziale. I dati dell’esperienza perdono in questo modo il loro ordine e ne acquisiscono uno nuovo fondato su qualcosa che è esterno a loro, un ordine meramente strumentale. Da parte loro i dati vengono lasciati, per quanto possibile, in una sorta di disordine naturale, che potrebbe anche essere quello della loro presentazione, del loro richiamo all’attenzione, del semplice caso, ecc. Ai fini del funzionamento del meccanismo mnemonico, che evidentemente è e resta un meccanismo, l’ordine dei dati ha pochissima o nessuna importanza.

Nel viaggio verso la qualità si ha quindi un progressivo sbriciolamento dell’ordine che la diversità ha mutuato dalla coscienza. L’apertura, da per se stessa, non è messa in crisi dall’ordine, che ha coscienza mutuata dall’orientamento verso il senso, ma è effetto dell’inquietudine, solo questo. Muovendo verso la qualità la diversità si svela nell’itinerario stesso, cioè comprende il percorso e si fa comprendere da questo. Fino a un certo punto conserva la sua originaria fisionomia, e così appare più aggressiva, meno adatta alle tecniche dell’abbandono. Poi questa fisionomia si affievolisce e con essa l’originaria inquietudine. Quello che la diversità perde in termini di incapacità a coordinare il senso alla perfezione, da cui il rigetto inquieto all’interno della coscienza, lo acquisisce durante il viaggio in termini di comprensione dell’esterno, in conoscenza. L’oscurarsi progressivo dello scarto originario si traduce in una maggiore capacità di adeguamento alla realtà. La conoscenza è una conseguenza di questo raffinamento relazionale che si pone nei riguardi della precedente diversità come una sempre più ampia e progressivamente dimensionata capacità di entrare nelle relazioni.

Nel prendere familiarità col nuovo compito, la diversità impara anche a usare gli strumenti della coscienza, quegli stessi che prima erano soltanto adatti al controllo e all’accumulazione, solo che, al posto dell’antica precisione scientifica col relativo corredo di illusioni quantitative, adesso c’è un impegno criptico e avventuroso. La proiezione opera su una molteplicità di piani, non si limita all’evidenza supponibile attraverso il filtro della catalogazione, mischia imprevedibilmente le relazioni con cui viene in contatto, inserendo al posto dell’ordine dell’accumulazione altri tipi di ordine, quelli dettati dalla sensibilità, dal ricordo, dall’amore, dall’affinità, dalla repulsione, ecc. Ancora una volta occorre ricordare l’esperienza della protesi chimica. In piena evidenza, anche parecchio tempo dopo l’impatto con la sostanza, ci sono ritorni violenti, flashback che colgono gli aspetti meno piacevoli di certe sensazioni o ricordi, sottolineando il senso ormai perduto di livelli ordinativi non più attingibili. La gestione di queste avventure può anche scadere di tono, cioè scendere alla necessità del consumo, ma qui saremmo di già in un altro campo, quello della sudditanza, mentre il semplice appoggio provvisorio si propone soltanto come aiuto per uno sguardo rivolto all’infinito. Appresa la capacità molteplice dei livelli, ben al di là dell’universo singolo del senso accumulato, si possono costruire criptopercorsi infinitamente ampi, pur restando nelle dimensioni circoscritte del territorio ricognitivo. Nel caso di un fallimento, o di una intervenuta sudditanza, si può sempre ammettere, se non altro a se stessi, che si sta per ricadere nella cecità del senso comune, della delimitazione imposta dalla coscienza.

L’ordine nella qualità appare come una contraddizione in termini, ma può essere considerato un riflesso del disordine relazionale nel prisma, comunque ristretto, della nostra capacità di proiezione. La gioia e lo sgomento di essere finalmente nella qualità, nel pieno della desolazione, impongono un urgente ripristino della certezza, se non altro della certezza di essere proprio nella cosa. E questa necessità, agli inizi, assume gli aspetti sontuosi della conquista, della vittoria, della tracotante sicurezza di essere stati capaci di saldare i due orientamenti contrapposti. Poi il movimento si sposta lievemente, e l’abbacinante rosso dell’orizzonte vittorioso si affievolisce, mostrando il declinante territorio della desolazione, l’effettiva consistenza del luogo della qualità. La forma balena con una consistenza poco vibrante, poco adatta a sopperire alle nostre velleità di risarcimento. Dopo tutto, non siamo disposti a dimenticare fatiche e inquietudini passate. Se ci troviamo lì, spesso, pensiamo che sia giusto che qualcuno o qualcosa, almeno una semplice sensazione di appagamento, ci fornisca la retribuzione che meritiamo, per essere stati tanto coraggiosi e certamente tanto più bravi di coloro che si sono persi per strada.

Ma l’estrema semplicità del dispiegamento ci mette davanti a una realtà molto diversa da quella che ci immaginavamo. Le vittorie sono presto ridimensionate. Ricompattati gli orientamenti questi si sviluppano ben presto per i fatti propri, e altrettanto velocemente ci sfuggono di mano. Una sottile striscia comincia a delinearsi all’orizzonte, la zona del non ritorno. Qui la vita pulsa molto lentamente. Non ci sono più i luminosi momenti delle intuizioni, le strazianti sedi del dubbio, le notti dell’angoscia e della paura. Qui, il dilagante coraggio non ha più il proprio significato iniziale, quando serviva a qualificare la diversità, altrimenti troppo circoscritta all’inquietudine. Il rallentamento che si era cominciato a manifestare non appena fuori dalla coscienza, nel territorio della cosa raggiunge l’elemento massimo della semplicità, un pulsare della forma in una rete totale di relazioni senza centro, senza possibilità di sedimentazione, in cui ogni elemento è esso stesso centro, albero e foglia e sottile nervatura e coccinella sulla foglia e tutto il resto. La striscia dell’ulteriore differenza dal delirio mi porta a concludere che tutte le acquisizioni, specialmente quelle successive all’apertura, se hanno un senso e una spiegazione nell’àmbito dell’effettualità trasformativa, l’hanno proprio perché riescono a circoscriversi in quanto acquisizioni, senza dilagare troppo, autocontrollandosi in sintonia con la ridotta accelerazione di tutto l’insieme. In caso contrario, non sarebbe più un’avventura che si cerca di seguire fino in fondo, anche fino alle sue conseguenze più estreme e contraddittorie, ma un modo come un altro di farsi coinvolgere, un alibi per trovare un coraggio che non si possiede e una motivazione che si sconosce. Un progetto affascinante può allora affascinarci, lasciandoci intontiti, alla ricerca di una vittoria dopo l’altra, di un successo che finirà solo per lanciarci in una dimensione ancora una volta ripetitiva e triste. A un certo punto, devo pure capire perché il nuovo territorio dove mi trovo è caratterizzato dalla desolazione. Se la desolazione è repulsione, respinta, mancanza di partecipazione, rifiuto dell’identificare una similarità che sembrerebbe stiamo cercando da tempo, perché assume questi aspetti ostili e inospitali? Perché l’affetto iniziale, a poco a poco, impercettibilmente, si trasforma in odio e derisione? Perché, man mano che i risultati positivi si succedono alle iniziali mascherature e si va avanti verso il salto, cominciamo a sentirci troppo sicuri di noi stessi, fino al rifiuto dell’evento disordinato e casuale? Perché la gran paura che ci prende quando, davanti a una diversa evidenza, siamo costretti ad ammettere la casualità di quell’evento, non siamo capaci di ricacciarla indietro? E perché ce ne vergogniamo? Non era forse questa la più logica delle conclusioni? Di quella vasta punteggiatura di sensazioni e piccoli riscontri, innumerevoli emozioni che stanno sfuggendo al catalogo e che repentinamente facciamo in modo che vi ritornino, di quella vivezza fitta e impenetrabile, cosa è rimasto? La testardaggine di chi senza tregua ricomincia daccapo? Oppure, improvvisamente, ci troviamo davanti all’evidenza, tutta nuova, di una scoperta sconvolgente, annidata nella semplice ammissione che il disordine della realtà non può subire processi ordinativi, per cui la nostra conclusiva sconfitta, inevitabile nella nostra logica del “tutto e subito”, si apre come un’offerta senza limiti, un dono imprevisto.

Carcere di Bergamo, 30 maggio 1989

Alfredo M. Bonanno

I. Teoria dell’identità

Hegel critica la fragilità del sistema di Kant ma non nota che quel sistema potrebbe essere in un certo senso il momento della non-identità che fa parte in assoluto proprio della sua teoria dell’identità. A questo proposito egli scrive: «Kant ha indicato storicamente i momenti del tutto, determinandoli e distinguendoli esattamente; ed è una buona introduzione alla filosofia. Il difetto della filosofia kantiana sta in ciò, che i momenti della forma assoluta cadono uno fuori dall’altro, cioè, considerando la cosa dall’altro lato, il nostro intelletto, il nostro conoscere forma un’opposizione all’in sé; manca il negativo, il superamento del dover essere, che non è concepito. Ma il pensiero e il pensare erano ormai diventati un bisogno insuperabile, da non potersi più eliminare. Si affacciava quindi in primo luogo l’esigenza che i pensieri particolari apparissero prodotti necessari di quella prima unità dell’io e da essa giustificati. In secondo luogo, il pensiero si era esteso su tutto l’universo, si era attaccato a tutto, tutto aveva indagato, in tutto inserito le sue forme, tutto ridotto a sistema, sicché in ogni campo si doveva procedere secondo le sue determinazioni, non secondo un semplice sentimento, secondo la consuetudine o il senso pratico, secondo l’immensa incoscienza dei cosiddetti uomini pratici. Anche nella teologia, nella politica e nelle relative legislazioni, nel determinare i fini dello Stato, nelle industrie, nella meccanica, si deve sempre procedere per determinazioni generali, cioè razionalmente; tanto che si sente parlare perfino di birrerie razionali, di fabbriche razionali di laterizi, ecc. È codesta un’esigenza di pensiero concreto, mentre nel risultato kantiano del fenomeno si era avuto soltanto un pensiero vuoto». (Lezioni sulla storia della filosofia [1816-1830], tr. it., vol. III, t. II, Firenze 1964, pp. 340-341). Per quanto la concretezza della distinzione appaia a tutta prima come una conquista dello spirito pratico che costruisce e perpetua il mondo, alla lunga si rivela, per l’appunto, priva di contenuto. Difficile aprirsi un varco fino a questa considerazione. La visione fondata sul dominio non produce concretezza ma disfacimenti, essa grava sulla vita e la deforma per vie tortuose e con rovesci che mettono a dura prova qualsiasi difesa spontanea. Il tutto è a portata di mano, noi facciamo in modo di allontanarlo, sempre e con metodo lo respingiamo perché abbiamo paura di perdere, perché vogliamo sempre vincere, vogliamo educare l’umanità a vincere, ma siamo soltanto dei saltafossi.

Hegel dice che questa lacuna è stata superata da Fichte, la cui filosofia è una espressione più conseguente della filosofia kantiana e una strutturazione della forma in sé. Ma la concordanza va al di là. Il pensiero fichtiano per Hegel ha il grande merito di avere stabilito che la filosofia deve essere una scienza in base a un principio supremo da cui vengono necessariamente derivate tutte le determinazioni. Infatti il contenuto della filosofia è – secondo Hegel – la verità, cioè il sistema, verità che non si lascia esprimere in un tale principio come principio originario, ma al contrario viene fuori dalla totalità di tutte le proposizioni che si generano a vicenda in virtù della loro contraddizione. Noi ci muoviamo con pensieri e desideri intuitivi verso qualcosa di simile a quello da cui proveniamo. C’è in questa simiglianza non un fondamento reale su cui poggiare le deduzioni “forti” che una certa filosofia pretendeva imporre (idealismo), ma l’estasi di un ulteriore desiderio, una bellezza che non abbiamo saputo stringere tra le braccia per quanto continui a parlarci un criterio di perfezione che avvertiamo vicino e inattingibile. Cosa questa che rappresenta tutto l’opposto del tentativo fichtiano di derivare l’universo della pura identità dalla sola posizione originaria. «Il difetto della filosofia fichtiana – continua Hegel – è adunque, in prima linea, che l’io conserva il significato di individuale reale autocoscienza, opposta alla universale, assoluta, o allo spirito, in cui è soltanto un momento; infatti l’autocoscienza individuale è appunto questo, lo stare da parte contro altro. Allorché perciò l’io venne chiamato l’essenza assoluta, si suscitò immenso scandalo, perché infatti l’io appariva soltanto nel significato del soggetto individuale, opposto all’universale. In secondo luogo Fichte non perviene all’idea della ragione come perfetta e reale unità di soggetto e oggetto, cioè dell’io e del non io; essa, come in Kant, è presentata solo come il pensiero di unificazione in una fede, con la quale perciò anche Fichte termina. Questa egli la espone nei suoi scritti popolari. Infatti, poiché l’io è fissato come opposto di fronte al non io, ed è soltanto come opposto, in quell’unità va perduto. Il conseguimento di questo fine è dunque trasferito nel cattivo infinito, nell’infinito sensibile: un processo appunto, che è la medesima contraddizione che si ha in Kant». (Ib., p. 362). La distinzione ha trovato la propria patria nell’Occidente criticista e Fichte non ne ha messo in pericolo la pretesa alla funzione che questo radicamento avanzava fin dalla metà del Settecento. La chiarezza conclusiva, estrema e smisurata, sembrava allora possibile, ed Hegel sottoscriveva il medesimo programma per altre vie, comunque qui è proprio questo genio del funzionarismo prussiano che coglie il problema nel modo migliore. Che la distinzione, nelle sue pretese di mettere ordine, ricacci indietro ogni creatura dell’incertezza, è un fatto evidente. Il ricco, che provvede ai suoi investimenti con ordine e progettualità, non ama le ambasce del povero che non sa cosa sono le pene dei calcoli imprenditoriali.

In effetti la conseguenza che si trae da un principio nega al tempo stesso quest’ultimo infrangendone l’assoluta preminenza. Quello che Fichte aveva solo intravisto viene ora spiegato profondamente.

In questo modo Hegel nella Fenomenologia prende le mosse dal soggetto cercando di esaminarne i contenuti concreti, come nella Logica [1812-1816] prende le mosse dall’essere. La scelta del punto di partenza, del Primo assoluto, è per la filosofia hegeliana affatto indifferente, essa non ammette un tale principio come un principio irrigidito, come un principio che nel processo del pensiero è destinato a rimanere immutato e sempre uguale a se stesso. In questo modo l’idealismo non viene abbandonato del tutto ma resta molto al di sotto. «Il pensare è cosalità, o cosalità è pensare». (Fenomenologia dello spirito [1807], tr. it., vol. II, Firenze 1963, p. 120). E più avanti continua: «Qui l’essenza ha in lei la scissione, in guisa da appartenere anzitutto a due specie di considerazione; da una parte l’essenza deve avere in lei stessa la differenza, e d’altra parte proprio per questo i due modi di considerazione si riducono a uno; infatti, i momenti astratti del puro essere e del negativo, in grazia dei quali le due specie di considerazione si distinguono, sono poi riuniti nell’oggetto di queste considerazioni stesse. – L’universale ch’esse hanno a comune è l’astrazione del puro tremare in se stesso o del puro pensare se stesso. Questo semplice movimento di rotazione, essendo soltanto movimento, deve scomporsi e distinguere i propri momenti. Tale distinzione di momenti si lascia dietro l’immoto come il vuoto guscio del puro essere che è in sé e non è più un pensare effettuale, ma vita; questa distinzione infatti, in quanto differenza, è ogni contenuto. Ma essa, che si pone oltre quella unità, è così lo scambio dei momenti non tornante in se stesso; dell’esser-in-, dell’essere-per-un-altro e dell’esser-per-sé; – è l’effettualità a quel modo ch’essa è oggetto per la coscienza effettuale della pura intellezione, – è l’utilità». (Ib., pp. 120-121). Il pulsare della realtà è puro tremare in se stesso, l’assenza di connettivo caratterizza il ritmo che sfugge alla catalogazione musicale. La causalità non chiude il cerchio ma rinvia in avanti, sempre di più, ossessivamente. Ogni sospiro evolutivo ripiomba in questo puro tremare, ora risentimento, ora oblio. Da puro tremare diventa pensare puro che alita la forma, che riempie di fecondità inestese il movimento delle generazioni, che parla alla fine il linguaggio della negazione senza infiorettature o sospensioni di giudizio. La conclusione è artificio che nasconde la continuità illudendoci riguardo al peso e al significato della nostra esistenza.

Il rigore assoluto e la compattezza del percorso del pensiero che egli, insieme a Fichte, persegue nei confronti di Kant, determinano la priorità dello spirito, ma nell’oggettività della dialettica hegeliana che demolisce tutto il soggettivismo puro vi è qualcosa della volontà del soggetto di saltare sempre fuori. Il soggetto-oggetto hegeliano è sempre soggetto. Scrive Søren Kierkegaard: «Se effettivamente l’esistente potesse essere fuori di se stesso, la verità sarebbe per lui qualcosa di concluso: ma dov’è questo punto? L’Io=Io è un punto matematico che non esiste: in questo senso, ognuno potrebbe prendere questo punto di vista senza che l’uno sia d’impaccio all’altro. Non è che a momenti che il singolo individuo esistente può trovarsi nell’unità di finito e Infinito, ciò che trascende l’esistere. Questo momento è l’istante della passione. La speculazione moderna ha fatto di tutto perché l’individuo possa oggettivamente uscire da se stesso, ma questo non è una cosa realizzabile: l’esistenza l’impedisce. E se oggi i filosofi non fossero quegli scribacchini che sono a servizio dell’affaccendarsi di un pensiero fantastico, questa speculazione avrebbe già visto che l’unica interpretazione pratica della sua ricerca è il suicidio. Ma la speculazione moderna scribacchina si occupa poco della passione; eppure per un esistente la passione è precisamente il culmine dell’esistenza – e noi, è chiaro, siamo esistenti. Nella passione il soggetto esistente è infinitizzato nell’eternità della fantasia, eppure nello stesso tempo egli è in se stesso determinato al massimo. Quel fantastico Io=Io non è l’identità di finito e Infinito, perché né l’uno né l’altro è reale: è un incontro fantastico nelle nuvole, un amplesso sterile, e la relazione di questo io singolo a questo vuoto miraggio non è mai indicata. Ogni conoscere essenziale riguarda l’esistenza, ovvero soltanto il conoscere che ha un rapporto essenziale all’esistenza è conoscere essenziale. Il conoscere che non attinge l’esistenza dall’interno della riflessione dell’interiorizzazione, è dal punto di vista essenziale un conoscere casuale, il cui grado e àmbito sono essenzialmente indifferenti. Che il conoscere essenziale si rapporti essenzialmente all’esistenza non significa quell’identità astratta sopraindicata fra pensiero ed essere, né oggettivamente che la conoscenza si rapporti a qualcosa di esistente come al suo oggetto; ma vuol dire che la conoscenza si rapporta al conoscente ch’è essenzialmente un esistente, e che perciò ogni conoscere essenziale essenzialmente si rapporta all’esistenza e all’esistere. Perciò solo il conoscere etico ed etico religioso è conoscere essenziale. Ma ogni conoscere etico ed etico-religioso è in rapporto essenzialmente al fatto che il conoscente esiste». (Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia [1846], tr. it., vol. II, Bologna 1962, p. 9). Cogliere l’istante della passione non è dato al momento riflessivo. Quando l’intelletto raziocinante vi torna sopra, quell’istante è già trascorso nell’accaduto, impoverito nel qualcosa di cui si è in grado di parlare. Uno stupido disfacimento viene quasi sempre scambiato con il riflesso omogeneo di quello che si vuole permanenza indelebile al riparo del tempo. L’umanità non è ancora andata al di là dei suoi riti puberali. Il delirio le fa paura, la presa di coscienza pure. La filosofia è in grado di andare oltre il dilemma ma, per il momento, non accenna a muoversi.

Questo spiega lo scandalo permanente, la contraddizione attribuita a volte a oscurità o confusione. Per essere conseguente la sostanza del condizionato sarebbe l’incondizionato. L’assoluto, ciò che è assolutamente risolto, è proprio l’indefinito. Aveva detto Kierkegaard: «Dal punto di vista della storia universale la colpa dell’individuo non si vede nel modo in cui essa è unicamente nell’intenzione, ma si vede l’azione esteriore divorata dalla totalità e dentro questa totalità attirante ad essa le conseguenze dell’azione. Egli vede pertanto, ciò che dal punto di vista etico è completamente confusione e non senso, come tanto l’azione benintenzionata come quella malintenzionata portano con sé la medesima conseguenza: che il migliore re e il tiranno possono portare alla medesima sventura. Anzi, più esattamente, anche questo egli non lo vede, perché si tratta ancora di una reminiscenza etica: egli vede ciò che dal punto di vista etico è uno scandalo, cioè ch’egli dal punto di vista della storia universale deve in ultima istanza prescindere dalla distinzione fra il bene e il male, come questa si trova soltanto nell’individuo, e propriamente soltanto nell’individuo nel suo rapporto a Dio. Dal punto di vista della storia universale diventa falsa una proposizione, che dal punto di vista etico è vera ed è la forza vitale dell’etica: il rapporto di possibilità che ogni individualità esistente ha rispetto a Dio. La storia universale di questo non si preoccupa, perché essa comprende tutto all’indietro, dimenticando perciò che i morti furono una volta certamente anche viventi. Quindi anzitutto l’etica, il diventare soggettivo: poi, la storia universale». (Ib., vol. I, pp. 352-353). La vicenda di un carnefice come Napoleone è ricordata, quella delle migliaia di morti da lui gettate sulla bilancia della storia, no. Eppure quei morti pesano dal punto di vista morale, mentre sono leggeri da quello storico. Ma si può parlare di un punto di vista storico, o politico? Si può prescindere dalla morale? Se le orde dei vincitori si impadroniscono delle case dei vinti, non per questo hanno ragione. Le penne mal temperate degli storici di quel dilagare ferino fanno larga descrizione, non cogliendo che le differenze ritenute oggettive: impiccare un assassino, con tanto di bollo, non è azione migliore, non eguaglia, non ristabilisce nulla di etico. Rigetta nel tino la stessa uva pigiata prima per spremere l’ultimo succo.

Così Hegel: «Se la rassicurazione di agire per persuasione del dovere sia vera, se ciò che viene fatto sia davvero il dovere, tali questioni o dubbi non hanno alcun senso di fronte alla coscienziosità. – In quella questione, se cioè la rassicurazione sia vera, si presupporrebbe che l’intenzione interiore sia diversa da quella data per buona, vale a dire che il volere del Sé singolo possa separarsi dalla volontà della coscienza universale e pura; la volontà della coscienza pura e universale starebbe nelle parole, mentre il volere del Sé singolo sarebbe propriamente la vera molla dell’azione. Ma appunto questa differenza della coscienza universale e del Sé singolo è quella che si è tolta, e il cui superamento è la coscienziosità. L’immediato sapere del Sé certo di sé è legge e dovere; la sua intenzione, è il giusto; si richiede soltanto ch’esso sappia questo e quello, che esprima la sua persuasione che il suo sapere e volere è il giusto. L’enunciazione di tale assicurazione toglie, in se stessa, la forma della sua particolarità; riconosce in quest’atto la necessaria universalità del Sé e, dicendosi coscienziosità, dicesi puro saper-se-medesimo e puro volere astratto, ossia dicesi un sapere e volere universali che riconoscono gli altri, che sono eguali agli altri, – gli altri infatti sono appunto un tale puro sapere e volere se stessi, – e che quindi vengono anche riconosciuti da loro. Nel volere del Sé certo di sé, in questo sapere che il Sé è l’essenza, consiste l’essenza del giusto. Chi dunque dice di agire così per coscienziosità parla il vero, ché la sua coscienziosità è il Sé nell’atto del sapere e del volere. Ciò, per altro, deve essenzialmente dire, perché questo Sé deve in pari tempo essere Sé universale. Ma il Sé non è universale nel contenuto dell’azione perché, in forza della sua determinatezza il contenuto è in sé indifferente mentre l’universalità sta nella forma dell’azione; e quel che è da porsi come effettuale è questa forma; essa è il Sé che come tale è effettuale nel linguaggio, che si pronuncia come il vero e che, proprio in quest’atto, riconosce tutti i sé e vien da essi riconosciuto». (Fenomenologia dello spirito, vol. II, op. cit., pp. 179-180). Ma l’atto vero e proprio, per essere tale, deve aprirsi all’abbandono e al ridicolo, apparire nel proprio realizzarsi come un piccolo passo in avanti, non come la certezza che si autodimostra nella propria verità. Il silenzio circonda l’agire come tale, la voce interna non è udibile da nessuno, nessuno sa da dove viene il piccolo raggio di luce che ne determina la presenza. Hegel presume che in ciò consista l’universalità etica, in questo semplice porsi al di là del fare, ma la sua indicazione – almeno qui – appare un po’ macchinosa. Solo pochi solitari sanno ascoltare il silenzio, correre il rischio del ridicolo per indicare quel raggio di luce, restare nell’ombra. Il bisogno chiama l’appello, fa sentire la sua voce duplice e accattivante, ma non è lo spunto migliore per entrare dentro il testo di Hegel. Il miglioramento è remoto, quasi ricacciato indietro nei dintorni della specificazione, mentre è la totalità che attira il filosofo e gli fa osservare criticamente la situazione del fare. Partire semplicemente dall’uomo, come qualcuno ha sostenuto, a mio avviso ingenuamente, significa cancellare con un colpo di penna la realtà dimezzata e sofferente e sostituirla con l’humanitas astratta che si alza sdegnosa al di sopra di tutti i limiti e di tutte le condizioni comuni. Il momento etico non è un momento particolare da riconoscere e passare avanti, un luogo privilegiato che bisogna mettere al riparo una volta fissati i patti con la misura (eredità kantiana), ma è un rimettere in gioco, un tornare continuamente a osservare che il processo storico non è deterministicamente diretto al miglioramento delle condizioni, che al suo interno abitano le forze della necessità e della libertà senza che ci sia modo di prevedere una prevalenza della libertà sulla necessità, almeno non più di quanto sia possibile prevedere lo sbocco contrario.

Fin qui la filosofia hegeliana ci appare falsa, come diventa invece vera? Bisogna per rispondere a questo quesito tenere presente che l’intero sistema si fissa solidamente sullo spirito. Esso non viene contrapposto in modo assoluto a un elemento non spirituale, a un elemento materiale, piuttosto è illimitato e assoluto quindi libero. In questo modo, sulla tradizione kantiana, nell’Enciclopedia [1817], lo spirito viene riconosciuto attivo e produttivo non diversamente della ragione pratica kantiana. Lo spirito produttivo non solo diventa principio dell’essere ma anche del pensare. È importante notare che in Hegel produrre non è contrapposto alla materia come semplice prestazione soggettiva ma viene ricercato nell’oggetto determinato nella realtà oggettiva in modo che quasi si giunge all’essenza intima dell’appercezione sintetica al centro del mistero, ben al di là della semplice ipostasi arbitraria del concetto astratto. Ciò sarebbe quindi il lavoro sociale. Qui dentro, in questo concetto tanto discusso, sta molto di più del “lavoro” inteso nel modo moderno, specialmente nella sua evoluzione capitalista. In altri termini sta quell’otium che appartiene anch’esso al fare, se non altro come distanza dall’oppressione, come presa di coscienza di sé in quanto oggetto passivo dell’oppressione medesima, pertanto come possibile passo in avanti, ancora non sappiamo bene in quale direzione. La società ordinata nel modo oppressivo che oggi ci ospita è di certo disumana, al suo interno moduli insani hanno avuto la meglio e dilagano come luoghi della certezza e della virtù. Andare “fuori” dal lavoro significa uccidersi, ma non se si pensa possibile andare “fuori” da questo lavoro che abbiamo di fronte. Ma andare “fuori” significa anche distruggere questo lavoro, inventare qualcosa di diverso, non abbrancare qualsiasi tavola di salvataggio si trovi a portata di mano. Il “lavoro sociale” è quindi un concetto onnicomprensivo che rende difficile la distinzione, al suo interno operano processi oggettivi e soggettivi che Hegel soltanto in parte riesce a far vedere nei loro movimenti non sempre schematicamente dialettici. Oggi la fuga dall’indigenza non appare più come soddisfazione naturalistica del bisogno, c’è qualcosa d’altro che resta ancora da chiarire. L’impedimento è più profondamente radicato nell’abbandono delle proprie capacità di cogliere il gusto di vivere, anche se l’esistenza proponibile nel fare risulta piena fino a scoppiare di inimmaginabili surrogati e abbellimenti che fino a poco tempo fa avrebbero fatto di un povero un signore.

Karl Marx nei Manoscritti economico-filosofici [1844] noterà come Hegel qui determini l’essenza del lavoro e concepisca veramente l’uomo reale, vero, come risultato del suo lavoro stesso, mantenendo intatta comunque la critica di fondo contro l’impostazione hegeliana che considera l’uomo semplicemente come autocoscienza e non come unione di mente e di corpo.

Col momento della generalità del soggetto attivo e trascendente rispetto a quello empirico e contingente, Hegel rappresenta l’essenza sociale del lavoro. In altri termini il rinvio a un soggetto generale anziché a un singolo individuo che lavora – in armonia con la tradizione della Politica [345-325 a. C.] aristotelica secondo la quale la conservazione dei soggetti dipende dalla attività degli altri – permette di definire il lavoro come qualcosa di organizzato, di sociale, di razionale, qualcosa che rappresenta una relazione sociale. La società che ha in mente Hegel è di certo un prodotto del lavoro, anche nel senso restrittivo cui oggi abbiamo fatto l’abitudine. Un’altra prospettiva revocherebbe in dubbio non solo le conclusioni della Filosofia del diritto [1827] ma anche lo stesso meccanismo dialettico. Una società in cui tutti possono essere affrancati dal lavoro così come oggi lo vediamo nel fare della quotidianità non può venire fuori da un meccanismo ben precisato nelle sue scansioni, non può essere “tolta” da nessun processo storico, per quanto il filosofo di turno possa immaginare un qualche salto qualitativo. Se oggi il lavoro è il fine esclusivo della società oppressiva in cui viviamo ciò non è un accadimento casuale, all’interno di queste condizioni non è possibile operare diversamente, le generazioni si susseguono una all’altra e tutte perseguono lo scopo primario di aprirsi la strada verso il lavoro, sia esso quello del lasciarsi sfruttare come quello di sfruttare. Chi persegue, con maggiore o minore successo, lo scopo di sottrarsi a questo meccanismo non è mai in condizione di dirsi “al di fuori” della realtà lavorativa, in quanto questa continua a ospitarlo senza possibili alternative che non siano ridicoli giochi di parole, ma deve continuamente verificare la propria situazione respingendo tutti gli attacchi alla propria “relativa” autonomia. Costui può di certo avvantaggiarsi di una propria valutazione della realtà profondamente diversa da chi timbra ogni mattina il cartellino in fabbrica, ma è costretto a verificare questa distanza, pena la sua scomparsa e il riassorbimento indolore in un’area lavorativa fantasma, profondamente miserabile (vedere, per esempio, gli assistiti sociali, ecc.). Anche per chi decide di attaccare direttamente la produzione della ricchezza, prelevando in maniera diretta quello che gli serve, e anche qualcosa di più, rientra nel gioco lavorativo, ma può mantenersi al di fuori di questo gioco con un’attenta considerazione del proprio operare, caricando cioè questo operare di un significato qualitativamente diverso, in modo da recuperare quell’umanità che la routine rischia di uccidere anche nel caso dell’attacco diretto alla ricchezza. Mille modi si possono studiare per riattivare una condizione umana che ci è stata sottratta, travolta dal mondo totalizzante del lavoro. Il rapporto tra questi sforzi diretti a sopprimere il lavoro e la dialettica è ancora da scoprire.

L’Hegel della Fenomenologia ha riconosciuto quindi lo spirito come lavoro. Il rapporto dello spirito con la datità appare secondo il modello di un processo sociale e precisamente secondo un processo lavorativo.

Il meccanismo dialettico vale naturalmente anche in merito al rapporto lavoro-realtà. La connessione essenziale dei concetti di brama e lavoro libera quest’ultimo dalla pura analogia con l’attività astratta dello spirito astratto.

Ecco come precisa Hegel: «Lo spirito ha per noi a suo presupposto la natura, della quale è la verità, e ne è perciò l’assoluto primo. In questa verità la natura è sparita, e lo spirito risulta come l’idea giunta al suo esser per sé; il cui oggetto, e soggetto insieme, è il concetto. Questa identità è negatività assoluta, perché nella natura il concetto ha la sua perfetta oggettività esteriore; ma ora ha superato questa sua esteriorità ed è, in essa, diventato identico con sé. Il concetto è siffatta identità solo in quanto è ritorno in sé dalla natura.

«L’essenza dello spirito è quindi, formalmente, la libertà, la negatività assoluta nel concetto come identità con sé. Secondo questa determinazione formale, lo spirito può astrarre da ogni cosa esteriore, e perfino dalla sua propria esteriorità, dalla sua esistenza: può sopportare la negazione della sua immediatezza individuale, il dolore infinito; può cioè mantenersi affermativo in questa negatività ed essere identico per sé. Questa possibilità è in sé la sua universalità astratta e per sé». (Ib., vol. II, p. 350). Se fosse possibile dimenticare, solo per un attimo, il meccanismo dialettico, qui Hegel apre alla possibilità di una negazione del lavoro. Lo spirito oggettivo, quindi l’uomo, può negare tutto, anche se stesso in quanto prodotto del lavoro, e con questo rifiuto, con questa fase critica negativa, ritrovarsi nella propria universalità astratta di essere umano, ricomposto in sé malgrado i tentativi operanti in continuazione dai meccanismi produttivi del fare quotidiano. E non si deve pensare che qui il pensiero hegeliano si trovi atomisticamente ridotto al modo in cui può reagire il singolo individuo privilegiato. Lo spirito oggettivo è il pensiero del tempo in cui si vive, nei riguardi del quale tutti noi siamo debitori di qualcosa mai definitivamente identificabile. La forza che ci travolge nella società in cui viviamo, che ci spinge a sopraffarci uno con l’altro, è uno degli aspetti di quello stesso “modo di vedere le cose” che siamo in grado di formulare diversamente, in modo critico, quando attacchiamo il nemico. Questa interessante considerazione ci porta a scostare un poco il drappeggio della dialettica hegeliana e ad affermare che dietro ci sta l’otium possibile nel frenetico imperversare del fare che ci soffoca. Ciò rende pensabile il passaggio dal fare all’agire.

Continua Hegel «Questa universalità è anche il suo essere determinato. In quanto è per sé, l’universale si particolarizza e resta in ciò identità con sé. La determinatezza dello spirito è, dunque, la manifestazione. Esso non è una qualsiasi determinatezza o contenuto, di cui l’estrinsecazione ed esteriorità sarebbe solo forma distinta: non già lo spirito manifesta qualche cosa, ma la sua determinatezza e contenuto è questa rivelazione stessa. La possibilità dello spirito è quindi, immediatamente, realtà infinita ed assoluta.

«La rivelazione, che, in quanto è l’idea astratta, è passaggio immediato, divenire della natura, – in quanto rivelazione, invece, dello spirito, che è libero, è un porre la natura come mondo suo: un porre che, come riflessione, è insieme un presupporre il mondo in quanto natura indipendente. Il rivelare, nel concetto, è creare il mondo, come suo essere; nel quale lo spirito si dà l’affermazione e la verità della sua libertà.

«L’assoluto è lo spirito, questa è la più alta definizione dell’assoluto. – Trovare questa definizione e comprenderne il significato e il contenuto, tale, si può dire, è stata la tendenza assoluta di ogni coltura e filosofia; a questo punto ha mirato coi suoi sforzi ogni religione e ogni scienza; solo questo impulso spiega la storia del mondo. – La parola e la rappresentazione dello spirito è stata trovata presto; ed è il contenuto della religione cristiana far conoscere Dio come spirito. Ciò che qui è dato in forma rappresentativa ed è in sé l’essenza, bisogna comprenderlo nel suo proprio elemento, nel concetto: questo è il compito della filosofia, compito che non può dirsi assolto in modo verace e immanente, finché il concetto e la libertà non diventino oggetto ed anima della filosofia». (Ib., vol. II, p. 351). L’identità di spirito e libertà non può essere capita restando nell’àmbito del meccanismo che lo stesso Hegel ha costruito in maniera così dettagliata. Non lo spirito è la libertà, e nemmeno il suo contrario: la libertà è lo spirito, ma il movimento stesso che si coglie nella staticità di questo rapporto ambivalente è lo spirito e la libertà nello stesso tempo. L’essere la medesima cosa non impedisce che il movimento possa presentarla, questa cosa, sempre in maniera diversa. L’idea hegeliana di libertà trasborda continuamente nella impossibilità di completezza, per cui bisogna tralasciare ogni desiderio di dettaglio, ogni esame del particolare, se non si vuole affogare nella recitazione che impedisce ogni facoltà ricettiva.

Ma, tornando al lavoro, l’idealismo perde la sua validità appena trasforma il lavoro nel suo essere in sé, cioè non appena sublima il suo principio in un fatto metafisico, per cui diventa eterno e giusto tutto quello che è stato prodotto dagli uomini fin dai tempi più remoti, tutto quello che è caduco, condizionato – compreso lo stesso lavoro – e che costituisce la loro sofferenza. Eppure l’idealismo è obbligato a questa trasformazione. Limiti inconsapevolmente subìti sono insuperabili. Se qualcosa cammina senza che noi ce ne avvediamo, non possiamo arrestarlo perché non cogliamo l’insulto che ci colpisce. Anzi, ancora di più, quell’insulto che ci dovrebbe fare reagire finisce per costituirci e reggerci, per disegnarsi come la nostra vera personalità.

La Critica al Programma di Gotha [1875] di Marx coglie un aspetto notevole della filosofia hegeliana. Marx rigetta il principio: “il lavoro è la fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà”, affermando che solo la natura è sorgente dei valori d’uso e solo di questi è costituita la vera ricchezza, il lavoro è invece l’estrinsecazione di una forza naturale, la forza lavoro umana. I borghesi hanno tutto l’interesse ad attribuire al lavoro una capacità creativa soprannaturale essendo questo un mezzo notevole per fare lavorare gli altri e sfruttarli: in questo modo metafisica del lavoro e appropriazione del lavoro estraneo sono complementari. Se questa eguaglianza può essere considerata vera c’è da dire che il ritorno indietro, a un mondo signorile in cui almeno una parte dell’umanità godeva dell’otium, è impossibile. Senza con questo nulla togliere al valore che la negazione radicale del lavoro comporta. Una vita tagliata a metà può essere ricompattata solo a condizione di non restare prigioniera dei modelli mentali che il taglio stesso della totalità ha prodotto.

L’essenza dello spirito produttivo come lavoro nella Fenomenologia diventa da “religione naturale”, stranamente e nella forma più banale, elemento spirituale per il contenuto religioso quale “prodotto del lavoro umano”. Così Hegel: «La prima forma, essendo quella immediata, è la forma astratta dell’intelletto, e l’opera non è ancora in lei stessa riempita dallo spirito. I cristalli delle piramidi e degli obelischi, semplici combinazioni di linee rette con superfici piane ed eguali proporzioni di parti nelle quali è eliminata l’incommensurabilità della curva, sono i lavori di questo artefice della forma severa. In forza della mera intelligibilità della forma, essa non è il suo significato in lei stessa, non è il spirituale. Le opere ricevono dunque soltanto lo spirito o in se stesse come un estraneo spirito dipartito che ha abbandonato la sua vivente compenetrazione con l’effettualità e, morto esso stesso, entra in quei cristalli mancanti di vita; oppure esse si riferiscono esteriormente a lui come tale che è esso stesso esteriore e non esiste come spirito, – come alla luce nascente che getta su di loro il suo significato.

«La separazione dalla quale muove lo spirito che lavora, la separazione dell’esser-in- che diventa materia da lui lavorata, e dell’esser-per- che è il lato dell’autocoscienza intenta al lavoro, gli si è fatta oggettiva nell’opera sua. Il suo ulteriore sforzo deve mirare a togliere questa separazione dell’anima e del corpo, a dar veste e figura alla prima in lei stessa, ma anche ad animare il secondo. Ambedue i lati, mentre sono avvicinati l’uno all’altro, mantengono, in quest’atto, l’uno rispetto all’altro, la determinatezza dello spirito rappresentato e della veste che lo avvolge: la sua unità con se stesso contiene questa opposizione di singolarità e di universalità. Mentre l’opera si raccosta a se stessa nei suoi lati, accade con ciò nello stesso tempo l’altra cosa, che cioè si fa più vicino all’autocoscienza che lavora, e che questa, nell’opera, giunge a sapere se stessa com’è in sé e per sé. Così essa costituisce, peraltro, solo il lato astratto dell’attività dello spirito, lato che non sa ancora il suo contenuto in se stesso, bensì nell’opera dello spirito, la quale è una cosa. L’artefice stesso, lo spirito interno, non è ancora apparso; ma è tuttora l’essenza interiore e nascosta, che come intiero è data solo come scomposta nell’autocoscienza attiva e nell’oggetto da lei prodotto». (Ib., vol. II, pp. 120-121). Poi continua dicendo che se con la separazione di lavoro manuale e intellettuale il privilegio ha riservato a se stesso quello intellettuale – quindi quello più facile, nonostante tutte le affermazioni in contrario – tuttavia il lavoro manuale torna a riproporsi nel processo intellettuale stesso nell’imitazione dell’attività fisica mediata dall’immaginazione: lo spirito non può sottrarsi del tutto al suo rapporto con la natura. Ma si tratta di un discorso poco convincente: l’identificazione del lavoro con l’assoluto è un tentativo di trasformare la maledizione in benedizione, una soppressione di quel “materiale” al quale si sente legato ogni specie di lavoro. Un po’ dopo dirà: «Lo spirito che sa lo spirito è coscienza di se stesso, ed è a sé nella forma dell’oggettivo; esso è, ed è nello stesso tempo l’esser-per-. Esso è per sé, il lato della autocoscienza, e propriamente in contrapposizione al lato della sua coscienza o del rapportare sé a sé come oggetto. Nella sua coscienza è l’opposizione quindi la determinatezza della figura della quale esso appare a sé e da sé». (Ib., vol. II, p. 206). In questo modo si cerca di spacciare tutto il concetto di costrizione come libertà. Però bisogna pur riconoscere che nessuno è in grado di uscire dal mondo formato dal lavoro per rifugiarsi in un altro immediato. La critica alla filosofia della identificazione dello spirito con il lavoro può farsi solo confrontando il suo concetto filosofico con ciò che esso realmente fa. Un tempo, a questo punto delle mie letture hegeliane, pensavo ai campi di concentramento nazisti e alla scritta che campeggiava su alcuni di essi. Ma bisogna riconoscere che qui la preoccupazione di Hegel è diversa. Egli cerca di dire (non riuscendoci pienamente) che la libertà deve avere un contenuto, e che questo contenuto, altro dal contenuto delle singole libertà, deve essere per forza lo spirito nel suo farsi che è anche un fare, cioè un lavoro. Se un lavoro può essere libero deve come prima mossa dirsi diversamente, cioè indicare altra consistenza e prospettiva pratica. Per fare ciò occorre uno sforzo creativo che attinga non all’astratto universo delle banalità che ci legano quotidianamente, ma scavi, al contrario, nella terra di nessuno dove la desolazione rischia di illuminare impietosamente le nostre meschinità.

In fondo l’otium è un privilegio che deve essere conquistato con il coinvolgimento. Se arriva dall’esterno, poniamo da una condizione sociale, non è tale ma torna a essere lavoro se non altro per le difese che bisogna approntare contro l’altrui desiderio di riappropriazione. Il rifiuto del lavoro richiede un fondamento etico che è ancora da scoprire. Non una legittimità, che questa sta proprio nel meccanismo lavorativo esterno che sopprime e distrugge ogni traccia di umanità, ma nel suo essere possibile modulazione universale di una vita degna di essere vissuta. E ogni anelito superiore, ogni aspirazione a qualcosa di diverso, esce dalla regola e dai limiti imposti e si presenta alla più alta valutazione che ognuno compie del proprio operare. Non si tratta di riadattamento di vecchi concetti, ma di scoperta di una nuova prospettiva. È noto che la nozione di sistema, nell’enfatica formulazione hegeliana, implica l’identità del soggetto con l’oggetto sviluppatasi fino a raggiungere l’assoluto, l’unità integrale: ma con tale identità viene meno la verità del sistema. Ma questa identità, questa riconciliazione totale tramite lo spirito, con il mondo essenzialmente antagonista, costituisce una mera affermazione. Ecco come precisa la cosa Hegel: «La vera figura nella quale la verità esiste, può essere soltanto il sistema scientifico di essa. Collaborare a che la filosofia si avvicini alla forma della scienza, – alla meta raggiunta la quale sia in grado di deporre il nome di amore del sapere per essere vero sapere, – ecco ciò che io mi sono proposto». (Ib., Pref., p. 4). È questo uno dei luoghi classici in cui Hegel sacrifica alla divinità del sistema. Ciò avviene (come in questo passo) mentre tutta l’impostazione sembra non deducibile dalle premesse, mentre qualsiasi ricerca di parallelismi è vana, mentre non si riscontrano le condizioni di causalità e determinatezza che farebbero ammettere la necessità sistematica.

Ma un sistema perfetto e una riconciliazione portata a compimento non sono la stessa cosa, anzi sono l’opposto: l’unità del sistema, il mondo concepito dal sistema hegeliano si è satanicamente rivelato oggi come società radicalmente socializzata, cioè come sistema. «L’esistenza stessa, l’esistere, è aspirare, ed è tanto patetico quanto comico: patetico, perché l’aspirare è infinito, cioè orientato verso l’infinito, è l’infinitizzazione che è il pathos più alto; comico, perché l’aspirare è autocontraddizione. Perciò l’amore è sempre aspirante, cioè il soggetto pensante è esistente. Solo i pensatori sistematici e oggettivi hanno cessato di essere uomini e sono diventati la speculazione: questo ha luogo nel puro essere. Nessuno nega che il pensiero oggettivo abbia la sua realtà; ma rispetto al pensiero, dove per l’appunto è la soggettività che va accentuata, l’oggettività è un fraintendimento». (S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia, vol. I, op. cit., p. 289). L’oggettività è un grande fraintendimento. Tutto l’Occidente da secoli cerca di costruirla su qualcosa di forte, mettendosi alla prova continuamente, uccidendo milioni di poveri disgraziati, consapevolmente o istintivamente consapevole che da tale fondazione dipende il suo destino. Ma la sua natura misteriosa gli sfugge. Basta pensare al potere e ai suoi tentativi di radicarsi nel “popolo”. Niente di più comico nel pieno della tragedia. Il determinismo, messo in crisi nella scienza ormai permeata di probabilismo, si ritrova ancora vivo in posti dove dovrebbe essere per lui più difficile sopravvivere. La realtà sociale sembra ben determinata, e tutto funziona nel migliore dei modi, visto che così dicono i governanti. E poiché l’indeterminatezza assoluta è una forma di determinismo, l’affermazione si può formulare anche al contrario e funziona lo stesso. La monoliticità di quello che ci sta davanti, e che riassumiamo nel concetto di “potere”, è forse traballante, ma continua a ricomporsi su basi solide. Forse c’è da qualche parte, nella scienza dell’adattamento sociale, una curva ottimale su cui due contendenti possono adagiarsi con reciproca soddisfazione, ma questa curva è come se non ci fosse in quanto ognuno dei contendenti teme sempre che l’altro possa ricavare una utilità maggiore della propria a modificare spontaneamente lo status quo. Ecco perché non c’è comportamento sociale “normale” che non possa essere capovolto nel suo corrispettivo di “anormalità”. Ogni ripulsa che fa arrossire il benpensante può domani cambiare in un’altra ripulsa (o vigorosa approvazione) di segno opposto, senza che il sistema ne soffra. Hegel ha compreso tutto questo ma, in alcuni punti, temendo per la compatezza del sistema, non ha sviluppato le sue considerazioni fino in fondo. La realtà sociale – senza interpellare minimamente i suoi interpreti – ha dato vita invece a una delle costruzioni più importanti e sistematiche degli ultimi millenni. È il tempo della morte sulla vita.

Elemento di altissimo valore dell’opera di Hegel è il fatto che egli ricava il carattere evolutivamente sistematico della società prima ancora che la diretta esperienza dei suoi tempi potesse suggerirglielo. Nel mondo conchiuso della produzione, in una situazione in cui il lavoro sociale è regolato in base al rapporto di scambio, in un mondo in cui è affermata la priorità dell’intero sulle singole parti, la disperata impotenza di ogni singolo realizza l’esuberante sistema idealistico hegeliano. Lo strumento è così diventato fine, anzi l’unico fine necessario alla sopravvivenza, a esso strumento l’uomo si è dovuto conformare riducendosi a pratica sensibile, contraendo tutti i movimenti diretti e rintracciare i residui della qualità perduta. La corretta valutazione dei mezzi e del loro impiego è diventata quasi impossibile, se non mettendosi a rischio continuamente e rintuzzando ogni arbitrio e ogni indifferenza. Il trionfo dell’efficientismo ha portato a una società in cui lo strumento domina come fine dell’intero ordinamento sociale, mentre il desiderio di una vita diversa non riesce nemmeno a manifestarsi come sollecitazione verso il bene, che di per sé non è sufficiente ma che qualcosa comunque lascia intravedere.

Ora un atto di forza è necessario in quanto il principio dialettico, in caso contrario, finirebbe per estendersi al di là dell’esistente negando la tesi della identità assoluta: infatti questa è assoluta solo in quanto è realizzata.

Avremmo quindi che la verità per la società sarebbe la dissociazione, cioè la mancata repressione dello Stato e quindi la liberalizzazione del processo dialettico.

La svolta obiettiva dell’idealismo attuata da Hegel ha rimesso in piedi la metafisica speculativa distrutta da Kant, tanto da ripristinare concetti come quello di essere, fino a tentare di salvare la dimostrazione ontologica di Dio. Tutto ciò ha incoraggiato a rivendicare Hegel all’ontologia esistenzialistica. L’interpretazione di Heidegger della Prefazione alla Fenomenologia dello spirito è la testimonianza più nota. Da ciò si può capire l’affinità dell’ontologia esistenzialistica con l’idealismo trascendentale. Esattamente, Kierkegaard: «Se si ammette che il sistema è dopo l’esistenza (di qui la ragione dello scambio con un sistema dell’esistenza), allora il sistema viene dopo, e così non comincia immediatamente con l’immediato col quale cominciò l’esistenza; anche se in un altro senso questa non cominciò con esso, perché l’immediato non è mai, ma è tolto quando è». (Ib., vol. I, p. 310). Ecco perché non è mai possibile individuare il momento esatto in cui comincia una nuova forma sociale, oppure l’individuo che l’ha resa possibile. Le immagini che ci sono pervenute si mescolano. I “grandi” soltanto hanno intuito qualcosa, Goethe, Nietzsche, Novalis, Hölderlin, oscuramente. Se si ascoltassero presupponendo risposte precise sarebbe vana fatica. Solo enigmi irradiano dalla loro frequentazione. In fondo questi “grandi” sono senza contenuto.

Ma Hegel nega all’essere proprio quella condizione di “essere prima di ogni possibile pensiero”, di cui invece la risorta metafisica di questi tempi recenti tenta di parlare. «Poiché la sostanza è in lei stessa Soggetto, proprio perciò ogni contenuto è anche la riflessione di sé in se stesso. La sussistenza o la sostanza di un essere determinato è l’eguaglianza con se stesso; giacché la sua ineguaglianza con sé sarebbe il suo dissolvimento. Ma l’eguaglianza con se stesso è la pura astrazione; e questa è il pensare. Mediante questa natura dell’essente, e in quanto l’essente ha per il sapere questa natura, il sapere non è l’attività che manipola il contenuto come un alcunché estraneo, non la riflessione in se stesso fuori dal contenuto; la scienza non è quell’idealismo che subentrò al dogmatismo dell’asserzione, assumendo la veste del dogmatismo della rassicurazione o del dogmatismo della certezza di se stessa; anzi il sapere vede tornare il contenuto nella sua propria interiorità, e la sua attività è piuttosto immersa nel contenuto, – perché essa ne è l’immanente , – e anche in pari tempo ritornata in sé, perché essa è la pura eguaglianza con sé nell’esser-altro; l’attività è così l’astuzia la quale, pur sembrando sottrarsi all’attività, si accorge che la concreta vita della determinatezza, proprio mentre si illude di essere dedita alla conservazione di sé, al particolare interesse, è, invece, l’inverso: cioè un operare che si dissolve e si fa di sé un momento dell’intiero». (Fenomenologia dello spirito, vol. I, op. cit., pp. 45-46). Ma questa astuzia deve avere campo di fronte a sé, deve cioè avere come muoversi, in caso contrario soffoca nell’immediatezza che si autogratifica. Si dissolve nella permanenza e si concretizza lasciandosi andare, non più astuzia ma coscienza formata e operante. La cattura è allora compito del processo storico, dello sviluppo dinamico della storia. Per questo Hegel parla di processo che ci compie in maniera totale, senza ulteriori rinvii o sbocchi pluralistici. Ma questa capacità dell’immediatezza di essere se stessa e il contrario di sé nella disponibilità all’apertura, sia pure nella eventualità scolastica di un arresto casalingo, deve attingere dall’esterno ciò di cui ha bisogno, dall’esterno e quindi dal suo contrario, dalle sue paure, per esempio, da un futuro problematico e astrattamente disponibile a soluzioni differenti, una incomprensibile all’altra. Il processo qui torna a essere astratto, si sottrae cioè alla determinazione feroce che lo racchiude nel bisogno di riproduzione, nelle ristrettezze del campo, nell’economia vista dai materialisti dialettici, si sottrae in nome del sentimento, dell’emozione, del desiderio, in nome di tutto quello che può revocare a sé il diritto a decidere per la distruzione di ogni legame. L’idealismo tutela i propri limiti perché sa che questi gli conferiscono senso, ma deve con ciò accettare i limiti sostanziali che la natura gli propone via via senza scampo, alla fine sta la volontà di potenza, se non altro, visto che possiamo dare a quest’ultimo concetto tante sfumature diverse, la vita come impulso, come forza, come bellezza nella notte che nessuna luce sembrava penetrare. Con la definizione dell’essere come momento critico e negativo della dialettica la teoria di Hegel è inconciliabile con la sua attuale teologizzazione. Tutto il resto è ancora praticabile, vi si entra come in una vecchia palestra. Gli attrezzi sono un po’ arrugginiti ma funzionano. Qualche volta si inciampa in una artificiosa formula, in concetti troppo elaborati che rischiano di spegnere la comprensione intuitiva che, in fondo, è l’unica guida accettabile in gineprai come questi, ma poi si esce allo scoperto. Una particolare esperienza verbale viene in soccorso mentre gettiamo a mare tutti i problemi di scuola. Molte felicità cromatiche emergono in questo modo.

L’essere di Hegel è l’opposto di un qualsiasi ente primordiale. Esso è l’immediato indeterminato, dove l’immediatezza – elemento su cui si basa l’interpretazione esistenzialistica – diventa indeterminatezza, rifiuto della dignità di essere, sua semplice negatività. L’essere, l’indeterminato immediato diventa nulla, nient’altro che nulla. Per Hegel la libertà è il carattere della razionalità, è ciò che in sé toglie ogni limitazione, e questo era il punto supremo del sistema fichtiano. Tuttavia, sempre secondo Hegel, nella comunità con gli altri di stampo kantiano è necessario rinunciare a essa perché sia possibile la libertà di tutti gli esseri razionali che stanno in comunità, e la comunità è nuovamente una condizione della libertà; la libertà deve togliere se stessa, per essere libertà. In questo modo Hegel si pone direttamente dalla parte dei dominatori, ma cerca di spiegare questa posizione conservatrice con discussioni che hanno un carattere assolutamente diverso da qualsiasi elogiatore del dominio, per come la storia della filosofia ci ha insegnato.

Nella sua critica al sistema fichtiano viene detto esplicitamente che questo sistema non riesce a essere ciò che si propone di essere, rinunciando quindi a essere ciò che per esso sarebbe vitale. Nella realizzazione fichtiana il sistema della libertà si trasforma in sistema della universale determinazione degli esseri razionali, in un sistema della tirannia in cui l’intelletto astratto si impone dall’esterno a tutto ciò che è vita e libertà. Questa è la critica di Hegel a Fichte, e implicitamente indica una delle falle peggiori di tutta La dottrina della scienza [1794]. Secondo Johann Gottlieb Fichte la libertà è un semplice negativo, cioè assoluta indeterminatezza, o, se si preferisce, un fattore puramente ideale, la libertà considerata dal punto di vista della riflessione. Egli intende la libertà in modo astratto, come universale vuoto, e tale concetto della libertà non può non contrapporsi dall’esterno agli individui viventi, che, in quanto individui, non possono né potranno mai essere l’universale. «Per lui [Fichte] la partecipazione all’Essere non si realizza che attraverso l’azione. Pertanto l’io si produce da sé; ma non può riuscirci che producendo automaticamente il mondo che è suo strumento. E la libertà dello spirito si manifesta sempre come un compito da assolvere». (L. Lavelle, La présence totale, Paris 1934, p. 236). Esempio notevole di sovrapposizione. Il compito di cui ha parlato qualche volta Fichte è l’esposizione di se stessi al rischio, non al dovere come fuga da se stessi e accettazione del quadro che ci prospettiamo come garanzia di protezione. In Fichte opera una filosofia della riflessione, una scissione dell’universale dal particolare che arriva alle sue estreme conseguenze nelle concezioni politiche e nella concezione della libertà.

Le filosofie contemporanee dell’essere, a partire da Husserl, si battono contro l’idealismo. Ciò esprime in esse la condizione irrevocabile della coscienza storica: esse constatano che tutto ciò che esiste non può essere sviluppato o dedotto dalla semplice e soggettiva immanenza, dalla coscienza. Ma ipostatizzano il risultato estremo di un’astrazione soggettivamente concettuale: l’essere, per cui restano in questo modo impigliate nell’idealismo.

L’idea che in Hegel si svolge essenzialmente contro l’idealismo tradizionale non è quella dell’essere, ma quella della verità. L’affermazione della filosofia in generale è data dal fatto che forma del pensare è la forma assoluta e che la verità appare in essa come è in sé e per sé. La verità per Hegel non è un pensare soggettivo ma si eleva al di sopra, proprio come un “io” in sé e per sé. Il sapere della verità non è di meno del sapere dell’assoluto. Ciò chiude il cerchio del rapporto tra vero e non vero. I due momenti si cambiano reciprocamente senza trasformarsi in qualità. Si produce il falso allo stesso modo in cui si produce il vero. L’essere al di sopra del pensare soggettivo torna nel pensiero del singolo e qui viene, via via, prodotto come vero e come falso, come vero nel momento in cui il pensiero pensa ma non sa di pensare, come falso nel momento successivo, quando sa di pensare ma non sta pensando. La vita viene tacitata nelle strette dimensioni della riflessione, quindi pensata come tale, e qui produce gli schemi che ci sono soliti, ai quali siamo abituati. L’analiticità di questo movimento è di certo costitutiva dell’uomo, gli apre le possibilità della storia, gli fa capire i confini di quello che non andrebbe fatto e di quello che invece non viene fatto malgrado tutti i suggerimenti possibili. Ma non è un modello rigoroso di controllo, non garantisce nessuna riproduzione della verità. Il mondo continua a fuggire in avanti per la sua strada, mentre la vita rifiuta ogni sforzo che vorrebbe ricondurla nell’àmbito del comprensibile, del riproducibile, del condizionato. Il non vero ha sue ragioni che escono fuori dalle pretese immediate dell’analiticità. Ogni tautologia ride di se stessa e di coloro che vogliono porla nel campo del giudizio di valore, dove siamo noi a impegnarci e non la realtà al nostro posto.

Ora l’idea dell’oggettività della verità rafforza la ragione del soggetto mentre gli odierni tentativi di evasione dal soggettivismo si collegano alla sua diffamazione. Così Nicolai Hartmann: «Se la coscienza si riporta nella sua vera posizione, le cose le appaiono in se stesse per quello che sono. L’urgenza, l’arroganza della posizione centrale le precludono il mondo obiettivo che sta dietro il mondo circostante soggettivo. Riorientandosi sul mondo, la coscienza rimette se stessa al proprio posto, ritorna nel proprio angolo e smantella quel mondo circostante che le impedisce di vedere il mondo. È solo così che il mondo le riesce visibile nella sua obiettività. E dato che le cose diventano oggetti per lei, essa diventerà il soggetto di tali oggetti. La coscienza non-spirituale non è un vero e proprio soggetto, né ha veri e propri oggetti: le manca, al proposito, la necessaria distanza rispetto alle cose. Solo la coscienza spirituale arriva all’oggettività, la quale è conseguenza (e non causa) del superamento della tensione e dell’assunzione della posizione eccentrica. La coscienza spirituale è coscienza oggettuale e sa le cose come di fronte a sé, come i propri oggetti. Le cose non diventano oggetti da sé sole, ma solo attraverso la forma e l’opera della coscienza, e sono tali soltanto “per” la coscienza, non in sé. Per la verità, le cose sono sempre state di fronte alla coscienza, – nel mondo in cui questa e quelle coesistono –, ma si trattava, appunto, di pura e semplice coesistenza, forse di un rapporto di causazione, di stimolo, di utilizzazione, ma non di un rapporto di obiettività. Rispetto allo spirito, emerge qui un altro tipo di “star di-fronte”: lo star di fronte come modo di apparire, l’esser per lui delle cose. “In sé”, esse sono ciò che sono anche senza lo spirito, ma oggetti esse possono essere solo “per lui”. Possono dunque diventare oggetti solo se lo spirito, con la forma di coscienza che gli è propria, se le rende oggetti, se le ob jetta. Tale diventar oggetto delle cose è funzione di una particolare attitudine della coscienza nei loro riguardi, un suo modo di dedicarvisi. Questa funzione è la conoscenza». (Il problema dell’essere spirituale [1933], tr. it., Firenze 1971, p. 153). Il venire fuori come rendersi disponibile per la coscienza è certamente un movimento del mondo, che in questo modo esprime per me le condizioni complessive di quello che l’umanità ha fatto da quando ha cominciato ad andarsene in giro giù dall’albero, ma è anche una mia riorganizzazione. Una scala unitaria, valida universalmente, non è possibile. Non c’è nulla di uniformemente praticabile, per quanto lo zelo smodato dei filosofi affermi il contrario. Questa garanzia non c’è nemmeno in Hegel. Egli era persona vitale, un uomo sanguigno, non un baccalà kantiano. Per quanto fosse schiavo del proprio sistema, fuori del quale si sentiva perduto, non poche volte l’irruenza gli prendeva la mano. Nella storia c’è la realtà di una natura che egli non riusciva a vedere (lo spettacolo delle Alpi lo lasciava indifferente – e questo posso capirlo), ma la grande selva naturale ci ospita tutti, perfino il rassicurante meccanismo dialettico. Se questo meccanismo ha un senso (restrittivo e micidiale, a mio avviso), lo ha perché include l’uomo, perché parla delle vicende della vita, in caso contrario non è altro che una esercitazione di logica formale. Racchiudendosi nello spazio e nel tempo questo meccanismo ricade continuamente su se stesso, e così fornisce una chiave di lettura all’uomo, una chiave distorta e foriera di spaventose conseguenze, ma pur sempre una faccenda umana.

In Hegel la verità in sé non è l’essere. Occorre accantonare l’opinione che la verità debba essere alcunché di tangibile. Questo era il pensiero di una casta guerriera che ha fatto il suo tempo. Non c’è un contenuto da privilegiare, nemmeno in via transitoria. Stimoli e potenziamenti non sono dati di fatto, e quando lo diventano agognano alle immagini di un sogno trascorso, un sogno primordiale dove lo stimolo non aspirava a una precisa concretizzazione. Ho visto avanzare i colletti inamidati e le barbe rasate, li ho visti calpestare la propria e l’altrui dignità. Com’è possibile pensare a tutto ciò come alla verità? Aspettare una gioiosa resurrezione da questi cimiteri equivale a camminare sui carboni ardenti. In questo modo la verità confluisce nel processo sciogliendosi come semplice risultato. Così scrive Hegel: «Il vero e il falso appartengono a quei pensieri determinati che, privi di movimento, vorrebbero valere come particolari essenze delle quali l’una sta di qua, l’altra di là rigidamente isolate e senza reciproca comunanza. Contro una simile concezione si deve decisamente affermare che la verità non è moneta coniata, la quale, così com’è, possa venir spesa e incassata. C’è un falso, quanto poco c’è un cattivo. Falso e cattivo non son mica perfidi come il diavolo, tant’è vero che, volendoli prendere per diavoli, di essi si verrebbe a fare dei soggetti particolari; mentre essi, in quanto falso e cattivo, sono soltanto degli universali pur avendo, l’uno rispetto all’altro, una propria natura. Il falso (ché solo di esso qui si vuol parlare) sarebbe l’altro, il negativo della sostanza, la quale, in quanto contenuto del sapere, è il vero. Ma la sostanza stessa è essenzialmente il negativo, vuoi come distinzione e determinazione del contenuto, vuoi come semplice distinguere, ossia come e sapere in genere. Si può ben sapere falsamente. Alcunché vien saputo falsamente, significa: il sapere è in ineguaglianza con la sua sostanza. Ma proprio tale ineguaglianza è il distinguere in generale, che è momento essenziale. Da tale distinzione deriva l’eguaglianza della distinzione stessa, e tale eguaglianza, divenuta, è la verità. Ma questa verità, non come se l’ineguaglianza fosse stata eliminata, a quel modo che dal metallo puro è stata espulsa la scoria; e neppure è essa verità, come dalla botte or ora costruita si è rimosso l’arnese; anzi l’ineguaglianza stessa è ancora immediatamente presente nel vero come tale, è presente come il negativo, come il . Non si può allora dire che il falso costituisca un momento o perfino un elemento del vero». (Fenomenologia dello spirito, vol. I, Pref., op. cit., pp. 30-31). Azzardata affermazione, questa di Hegel, ma capace di aprire una breccia non più rimediabile nel muro della verità, da sempre ipotizzato inattaccabile. Qui la faccenda sta nel dire, ma il dire, a sua volta, sta nel sfuggire alla realtà, nel cercare di coprirla. Quindi il cerchio si chiude. Guardare in faccia la realtà non significa dirla. Dire è sempre un utilizzare le parole, un rimettere in gioco i significati validi per gli altri. La realtà, per noi, esclusivamente per noi, è altro. La ricerca letterale, questo o quel modulo dell’officina, restano racchiusi in un cervello capace solo di mordere il pasto concesso dal potere in carica. L’alloro cresce altrove.

La verità hegeliana non è più nel tempo, come lo era quella nominalistica, né alla maniera ontologica al di là del tempo: il tempo diventa per Hegel un momento di se stesso. Ancora Hartmann: «L’unità della conoscenza non deve legare tra loro soltanto gli uomini di un’epoca, ma anche uomini appartenenti ad epoche diversissime. Essa connette le fasi dell’intero processo storico della conoscenza in una naturale unità; collega le figure dello spirito oggettivo al di là della loro separazione storica. Ma anche qui è sempre la fedeltà alla cosa a produrre l’unità. Questa unità – che ha un carattere di pura obiettività spirituale – ha una capacità e una portata eccezionalmente grandi. Essa permette al successore di “ discutere ” sempre obiettivamente col pensiero del predecessore. Nella discussione, infatti, sta quella comunanza vivente che, pur essendo temporale va oltre il tempo e, con tutta la sua storicità, è però fondata nel sovrastorico. Solo così diventa pienamente comprensibile come il momento del render conto e della critica diventi un interno criterio dello spirito storico». (Il problema dell’essere spirituale, op. cit., pp. 517-518). Ogni rapporto con lo spirito del tempo è un legame. Tutto sta a vedere in quale misura ciò è necessario. Le prese di posizione che difendono, le opinioni che illustrano, le mentalità che formano, non sembrano essere necessarie. Esaminandole non procurano soddisfacimento se non pragmatico e positivo, roba da deposito bancario. La verità come processo è un percorrere di tutti i momenti, in contrasto con il principio di non contraddizione, e ha, come tale, un nucleo temporale. Ciò liquida l’ipostasi dell’astrazione e del concetto uguale a se stesso che domina la filosofia tradizionale. Se il movimento hegeliano del concetto ha in un certo senso ridato vita al platonismo, nondimeno questo platonismo viene in pari tempo liberato dalla sua staticità, dalla sua eredità mitologica assumendo in sé tutta la spontaneità della coscienza liberata.

Pure ammettendo che il pensare astratto e l’essere astratto, come si legge in un passo controverso di Parmenide, siano la stessa cosa, il valore del concetto ontologico di essere e quello hegeliano di ragione sono differenti. Entrambe le categorie prendono parte alla dinamica della storia. Per Hegel è proprio con Parmenide che ci si innalza al regno dell’idea. Così scrive: «Secondo Parmenide un uomo si libera da tutte le rappresentazioni e opinioni, nega loro ogni verità, e afferma che solo la necessità, l’essere, è il vero. Questo cominciamento certamente è ancora confuso ed indeterminato, e non si può ulteriormente chiarire che cosa vi si contenga; ma il chiarimento è dato appunto dallo svolgimento stesso della filosofia, che certamente qui non s’ha ancora. Con siffatto cominciamento si collega quella dialettica, secondo cui il mutabile non ha verità; infatti, quando si prendono tali determinazioni nel senso che si suol dare loro, ci s’imbatte in contraddizioni». (Lezioni sulla storia della filosofia, vol. I, op. cit., pp. 279-280). L’unità è necessaria. Parmenide lo testimonia. Se il mondo che siamo abituati a chiamare “spirituale” è quello che abbiamo sotto gli occhi, ben venga la disumanizzazione dell’unità di cui parla Parmenide. Lo stesso per la religione. Gli atei sono disumani, ogni verniciatura di questa affermazione (umanitaristi laici) è solo secrezione organica di nuovi preti. Forse la vita non può fare a meno dell’elemento morboso. Se non altro perché portatrice di malattia, di follia. Forse nella stessa estasi c’è qualcosa di ancora più insistente dell’abbandono e del rifiuto di trovare resistenze e salvaguardie. La morte stessa è faccenda dell’uomo, della vita dell’uomo, vitale e carica di tensione, contrapposta a quella morte giornaliera che dilaga senza farsi vedere nella desertificazione dell’esistenza. Non è un correttivo l’elemento morboso, non tenta neppure di presentarsi come l’altro aspetto della razionalità, è la vita stessa, non la mano del diavolo, non una maschera metafisica dell’arbitrio. In Hegel la notte ha un profondo significato, penetra tutto il motivo dell’unità del reale, costituisce l’aspetto negativo che risveglia il positivo a nuova esistenza, mantiene il riferimento ambiguo di qualcosa che può essere sottoposto alla ragione, ma con un lungo lavoro interpretativo, non semplicemente apponendo il sigillo del dominio diurno.

Si è cercato (anche R. Kroner, Von Kant bis Hegel, vol. I: Von der Vernunftkritik zur Naturphilosophie, vol. II: Von der Naturphilosophie zur Philosophie des Geistes, Tübingen 1921-1924) di considerare Hegel un irrazionalista, e non mancano i punti per affermazioni a favore di questa tesi, come quando dice che la speculazione è contraria alla riflessione, ma in definitiva Hegel, come Kant, insiste decisamente sulla ragione considerandola come un tutto unico, e poi lo stesso movimento che dovrebbe portare al di là di tutte le determinazioni del pensiero è un movimento autocritico del pensare. La capacità di irradiazione di questo concetto è considerevole. Non è stata del tutto esaurita. La ragione, monoliticamente stilizzata in qualcosa di quasi liturgico, bussa alla porta della non-ragione, della follia, per chiedere permesso a se stessa di rendere “normali” le grottesche e allucinatorie sedute della sintesi. Non c’è espressione della qualità, singolarmente presa, che non potrebbe mettere in crisi tutti i trattati di logica. Ma non il libro di Hegel. Quest’ultimo è disposto su un doppio ordine di piani rappresentativi, si ribalta e si rifrange continuamente in riferimenti e proiezioni che sono apparentemente gratuiti ma che si collegano gli uni con gli altri.

La consequenzialità del tentativo di Hegel di salvare, contro Kant, la dimostrazione ontologica dell’esistenza di Dio potrebbe essere messa in dubbio, ma ciò che ve lo indusse non fu la volontà di oscurare la ragione, ma al contrario la speranza utopica che il blocco, i confini della possibilità dell’esperienza non fossero l’ultima tule, e che lo spirito, contro ogni suo condizionamento, debolezza e negatività, somigli alla verità e che perciò vada riscattato alla conoscenza della verità.

Oggi che l’idealismo viene diffamato da tutti è proprio nell’assolutezza della rappresentazione dello spirito che si fa luce un salutare correttivo. Esso corregge la deprimente rassegnazione della odierna coscienza che è sempre pronta a convalidare, ancora una volta, per propria debolezza l’umiliazione inflittale dal predominio della cieca esistenza. È così che l’idea giunge alla piena coscienza della propria infinità o assolutezza, cioè del fatto che tutto è Spirito e non vi è nulla al di fuori dallo Spirito. Tale autoconoscenza secondo Hegel è il risultato di un processo dialettico rappresentato dall’arte, dalla religione e dalla filosofia; che si differenziano fra di loro non per il contenuto ma per la forma. La soggettività di cui tanto si parla fuori delle mura filosofiche non è un principio primo, essa rinvia a un qualcosa che viene prima, e non solo logicamente, rinvia alla struttura dell’esistenza così come la percepiamo, quindi prima che si stabilisca la distinzione tra soggettivo e oggettivo. Non c’è modo di operare descrizioni separate, salvo il caso delle tautologie che solo apparentemente distinguono per poi lasciare tutto come sta. L’analisi, in ogni suo giudizio, contiene il contenuto intero di una metafisica del fatto compiuto, alla quale non si sfugge restando nell’àmbito della distinzione oggettivante. Hegel promuove una via diversa, mistificata dalla dialettica, comunque in grado di fare vedere i limiti e le conseguenze di quello che pensiamo sia condizione autonoma della coscienza e invece non è altro che una delle tante modulazioni del produrre.

La ragione hegeliana si guarda bene dall’essere unicamente soggettiva e negativa, fungendo sempre di nuovo da interlocutrice all’elemento contrapposto di questa ragione soggettiva, anzi andando a trovare la ragione in ciò che le è contrario. Hegel con questo non vuole tenere a bada il protestatario ma, al contrario, intuisce che il destino dell’uomo in generale può realizzarsi solo mediante questo protestatario, mediante il prepotere del mondo sul soggetto. Egli dovrebbe inoltre appropriarsi delle forze a lui avverse e, in una certa misura, insinuarsi in esse. In questo c’è una specie di astuzia della ragione, una furberia contadina che ripercorre parte della stessa personalità di Hegel. La vicenda dell’imperio sta tutta qui, nel tenere a bada il diverso che però nello stare lontano dalla realtà del dominio partecipa a pieno titolo accettando il mondo così come viene prodotto dal suo stesso essere teso verso la diversità, dal suo cercare una completezza mai raggiungibile, una qualità che nessuno ha visto. L’imperio ha una vicenda storica che non corrisponde alla logica dell’empiria. Tutta la realtà grida contro il dominio accettato e metabolizzato, eppure questo processo continua, contro l’esperienza concreta che dovrebbe insegnare a diffidare e non insegna nulla, contro il dolore che non mette in guardia né fortifica, contro la stupidaggine che non accenna ad allontanarsi di un passo.

In pratica però nella filosofia di Hegel esiste una certa rassegnazione ed è poi la parte più borghese in quanto vorrebbe giustificare l’esistente come razionale e liquidare la riflessione che vi si erge contro, con la scusa che il mondo non si lascerebbe cambiare. In contrasto, Kierkegaard: «La rassegnazione non implica la fede. Perché nella rassegnazione io non acquisto altro che la mia coscienza eterna. E questo è un movimento strettamente filosofico che ho il coraggio di compiere quando è necessario, e che posso magari infliggermi: perché ogni volta che una circostanza finita sta per sorpassarmi, io m’impongo il digiuno fino al momento di effettuare il movimento; perché la coscienza della mia eternità è il mio amore verso Dio, e questo amore mi vale più d’ogni altra cosa. Per rassegnarsi non è necessaria la fede; ma è necessaria per ottenere qualsiasi cosa al di là della mia coscienza eterna. Questo è il paradosso. Si sogliono confondere spesso i movimenti fra loro. Si dice che ci vuol la fede per rinunziare a tutto. Si sentono anche i più strani discorsi, di gente che si lamenta d’aver perso la fede. E quando si guarda a qual grado della scala essi sono, ci si accorge con stupore che sono arrivati giusto al punto in cui debbono compiere il movimento infinito della rassegnazione. Compio quel movimento da solo; e la ricompensa che ne ho, è me stesso nella coscienza della mia eternità, in una felice armonia col mio amore per l’essere eterno. Mediante la fede, io non rinunzio a nulla; anzi ricevo tutto, nel senso in cui è scritto che chi avrà fede quanto un grano di senape potrà smuovere le montagne. Ci vuole un coraggio proprio umano per rinunciare a tutta la temporalità in vista di guadagnare l’eternità. Ma almeno io l’acquisto, né posso, una volta nell’eternità, rinunciarvi senza contraddizione. Ma ci vuole l’umile coraggio del paradosso per afferrare allora tutta la temporalità in virtù dell’Assurdo e questo coraggio è quello della fede. Per fede Abramo non rinunciò a Isacco; anzi per fede, l’ottenne. Tutta la questione consiste nella temporalità, nel finito. Io posso, con le mie proprie forze, rinunciare a tutto e trovare allora pace e allora, riposo nel dolore». (Timore e tremore [1843], tr. it., Milano 1962, pp. 88-89). Kierkegaard sta rigirando la questione. La sua rassegnazione somiglia molto alla rinuncia di quello che si desiderava diventare per aprire la grande prospettiva di essere solo quello che si è. L’estrema difficoltà della rassegnazione hegeliana è proprio qui, sta cioè nell’avere capito che la razionalità non fonda il mondo giustificandolo ma lo costituisce a prescindere di un eventuale fondamento giustificativo. L’inutilità filosofica di questo ulteriore passo colloca la razionalità esistente nella rassegnazione di una incompletezza implicita e mai dichiarata. La realtà è essa stessa la propria realtà, essenza più profonda non esiste di questo continuo rapportarsi all’unità che si autoriconosce nell’esistere.

La più problematica e la più conosciuta delle teorie hegeliane, quella che afferma che il reale è razionale, non è solo apologetica. Al contrario la ragione vi si trova in congiunzione con la libertà. La libertà e la ragione sono vere assurdità quando non coesistono. Il reale solo in quanto traspare all’idea della libertà, ed è quindi effettiva autodeterminazione dell’umanità, può considerarsi razionale. Ragionando in questo modo ecco in cosa va a finire la riflessione esistenzialista: «Le forme dell’oggettività sono, come tali, l’oggetto irraggiungibile dell’orientazione nel mondo nelle singole scienze. La domanda filosofica si riferisce alla rilevanza esistenziale di queste forme. Chiamiamo spirito l’esserci che per il soggetto esiste solo come oggettività chiaramente conosciuta e in totalità. Lo spirito è l’unità di oggettività e soggettività, ma nella forma dell’oggettività. Non essendo un’unità compiuta né incompiuta una rottura. Mentre l’orientazione nel mondo può conoscere lo spirito nelle sfere del suo esserci attraverso la propria autocoscienza, la domanda relativa alla rilevanza esistenziale si riferisce alle origini dove per l’esistenza si trovano le decisioni in questa oggettività. Da questo punto di vista, invece delle molteplici sfere dello spirito, ci sono tre forme (come dice Jakob Burckhardt): lo Stato, la religione e la cultura. C’è innanzitutto l’oggettività della costruzione dell’esserci nel tempo (lo Stato), quindi quella della partecipazione temporale all’essere autentico nell’eternità (la religione), infine quella del linguaggio per intendersi nel mondo e nell’eternità (la cultura). L’esserci nel tempo sussiste come prodotto della società umana. La volontà di sussistere e di durare, nata dalla cura per l’esserci nel tempo, cerca ordinamenti che assicurino l’esserci ed estendano lo spazio e le possibilità di vita. Qualunque sia la forma delle assicurazioni e delle possibilità, qualunque siano le condizioni e le libertà, in tutte le cure dell’esserci, sempre lo Stato l’istanza ultima e sovrana, la forza concentrata della società che rende possibile un’azione decisa sulla totalità. Col potere l’uomo vuole realizzare nello Stato quell’organizzazione duratura e giusta che gli consente di garantire il futuro dell’essere umano». (K. Jaspers, Filosofia [1932], tr. it., Torino 1978, pp. 835-836). Ecco le chiare e reazionarie conclusioni di un filosofo anti-nazista. Ecco che fine possono fare le tanto sbandierate promesse di apertura e disponibilità. Il dialogo è mezzo interno alle condizioni oppressive fissate dai confini leganti e circoscriventi. Lo spirito si riassume nello Stato (la religione e la cultura sono degne conterranee del mostro), affermazione plausibile ma che rigetta non solo una lettura di Hegel, ma una qualsiasi occhiata sul mondo. Se guardo al di là dello Stato dovrei restare improvvisamente cieco di realtà, privo di spirito (non povero, ma privo del tutto), e ciò è quello che i bravi borghesi morigerati hanno in mente. Disciplina, ordine, rigore, norma, necessità: ecco i loro punti di riferimento.

Il carattere bifronte della filosofia di Hegel si palesa anzitutto nella categoria dell’individuale. Il generale – dice – è in pari tempo il particolare e il particolare il generale. La dialettica, esponendo questa relazione rende giustizia al campo di forze sociali, dove tutto ciò che è individuale è già anzitempo socialmente preformato, e dove nulla si realizza se non a opera degli individui.

In questo modo è chiarita la doppiezza della società borghese, che in Hegel è giunta realmente all’autocoscienza, nei confronti dell’individualità. L’uomo, come produttore libero, appare autonomo alla società borghese, erede del legislatore divino, virtualmente onnipotente. Ma l’individuo singolo, che in questa società è in realtà mero operatore del processo produttivo sociale, resta nel medesimo tempo impotente e privo di valore. Il fare, mancando della qualità, non si esprime realmente. Il mondo è un accumulo di fatti privi di qualità, la tensione che questi fatti potevano avere si è totalmente (o quasi) tramutata in senso, ognuno di essi si è caricato di un contenuto che riesce in questo modo a riempire il mondo. Se può accadere che il fare si esprima attraverso il pensiero, quindi trovi giustificazione a se stesso nella modulistica dell’effettualità, non è così che si trasforma in azione. Niente si trasforma realmente restando nell’àmbito della produzione. La qualità non si esprime se non nella veste ridotta del residuo. I tropi non riescono a nascondere la vacuità qualitativa, mentre le connessioni sintattiche fanno il loro lavoro esprimendo tautologie che sembrano giustificare un certo cominciamento per poi trovare motivi altrettanto validi per giustificarne uno completamente contrario.

L’apologetica e la rassegnazione hegeliane rappresentano la tipica maschera borghese che l’utopia si è apposta per non essere riconosciuta e subito raggiunta, per non persistere nell’impotenza. Così conclude Adriano Tilgher: «Lo Storicismo concede sì, che fine ideale della Storia è la compiuta attuazione, il pieno trionfo della Ragione, libertà armonia spiritualità supreme. Ma la Ragione non è per esso alcunché d’indivisibile che o si attua tutto d’un colpo o non si attua affatto; essa è, invece, facoltà o potenza che si attua un po’ alla volta, dispiegandosi per gradi di perfezione crescente, la cui serie costituisce un cammino ascendente o progressivo. Nessuno di questi gradi si può saltare: ognuno è necessario e buono a suo luogo ed a suo tempo. Il grado superiore non è la negazione e soppressione totale del grado inferiore: esso nega e respinge questo per ciò che ha in sé d’imperfetto e manchevole, ma lo assorbe e conserva in ciò che ha di buono e pregevole. La Storia è l’ascensione faticosa e lenta, ma sicura e continua, dell’umanità dall’irrazionale alla Ragione, dalla servitù della natura alla libertà dello Spirito. Ogni epoca storica rappresenta un progresso di fronte alla precedente, ed ognuna ha del buono, ognuna essendo opera della Ragione. La Ragione degna di questo nome si distingue dall’utopia e fantasticheria dell’individuo solo per ciò: che questa si esaurisce nel singolo, e rimane senza serie e durature conseguenze; la Ragione universale, invece, s’incarna in tutta un’epoca storica, la genera da sé, la riempie e compenetra di sé. La Storia, il passato, la tradizione, il fatto diventano così criterio distintivo della Ragione da ciò che pretende di esser tale e non è. Trionfo della Ragione, dunque, ma, insieme, rispetto del passato, delle istituzioni, delle tradizioni, della Storia, opera ed incarnazione della Ragione. Progresso, sì, ma per gradi e nell’ordine, sì che nulla si perda degli acquisti delle spente generazioni. Rivoluzione, ma, insieme, conservazione: in una parola, riforma. Il Riformismo è la pratica politica con cui la borghesia, senza rinnegare il principio rivoluzionario donde era sorta, lo rende praticamente inoffensivo. Il Riformismo è la pratica di quella stessa intuizione del mondo e della vita, di cui lo Storicismo è la teoria. Ecco risoluto il problema perché proprio il secolo XIX, e nessun altro dei secoli precedenti, sia stato il secolo del Progresso, dell’Evoluzione, della Storia». (Critica dello storicismo, Modena 1935, pp. 66-67). Queste notazioni tengono conto del pensiero hegeliano riguardo lo svolgimento della storia della filosofia. Alle spalle di ogni rivoluzione parziale, di ogni rivoluzione del risentimento, sta il grande vecchio del recupero riformista. La sua figura acciaccata avanza a fatica puntellandosi con un bastone, scende dalla sua insignificante abitazione, dove ha passato la vita leggendo le opere dei possibilisti e dei fraintenditori, scende sulla strada e diffonde il consiglio che l’ora suprema non vorrebbe ascoltare ma che le necessità della pancia e della gola rivestono di convincenti colori. Tutto si può aggiustare, date retta all’esperienza. E l’orlo dell’abisso, dove la società poteva (finalmente!) precipitare, si ritrae.

Ecco a proposito quello che scrive Hegel in merito alla situazione delle filosofia dei suoi tempi: «Nella filosofia di Kant, di Fichte, di Schelling, si assomma e si esprime nella forma del pensiero la rivoluzione, cui negli ultimi tempi lo spirito è pervenuto in Germania: la serie di queste filosofie costituisce il cammino per cui il pensiero si è avviato. A questa grande età della storia mondiale, della cui essenza più intima ci offre il concetto la filosofia della storia, hanno partecipato soltanto due popoli, il tedesco e il francese, per quanto essi siano opposti tra loro o appunto perché sono opposti. Le altre nazioni non vi hanno partecipato intimamente: politicamente sì, tanto i popoli quanto i governi. In Germania questo principio proruppe come pensiero, spirito, concetto, in Francia scoppiò nella realtà: ciò che invece venne fuori in Germania di realtà appare violenza di condizioni esteriori o reazione contro di essa. Il campo della recentissima filosofia tedesca consiste nel rendere ora l’unità del pensare e dell’essere, che è in genere l’idea fondamentale della filosofia, essa stessa oggetto, o nel concepirla, cioè nell’afferrare il più intimo della necessità, il concetto». (Lezioni sulla storia della filosofia, vol. III, t. II, op. cit., p. 268). In fondo, questa distinzione, per altro pienamente condivisibile, non è che un espediente hegeliano, un esempio di contrasto apparente rovesciato sul reale. La filosofia tedesca (da Kant a Hegel) ha i medesimi aspetti della rivoluzione francese, calati, direi meglio fusi, nelle condizioni della Germania e del popolo tedesco. La durezza inesorabile della forma avviluppa l’intero svolgimento del pensiero tedesco di quest’epoca, e si tratta di conquista al pari della strada scelta dalla Francia, in armonia con le condizioni del popolo francese e delle sue vicende storiche. Quello che in Germania può sembrare circoscritto alle Università era invece vissuto dall’intera classe borghese e proponeva influssi sul nascente proletariato. Il pensiero tedesco erige a sua disposizione un mondo e lo produce a sua immagine nella prospettiva occidentale propria di questo paese. In tal modo, i rivoluzionari francesi e i filosofi tedeschi all’alba del XIX secolo non vollero (rispettivamente) fare o dire, ma fecero e dissero nello stesso movimento concreto.

Quanto poi, in fondo, la filosofia hegeliana si diffonda sul concetto dell’anima borghese si evince forse nella maniera più evidente dalla sua posizione nei confronti della morale. Essa rappresenta un momento della critica alla categoria dell’individuo in generale. Nessuna realtà è situata fuori del mondo e delle sue regole, e questa che potrebbe essere un’affermazione antidogmatica si capovolge in dogmatismo puro. L’uomo può volgere la sua attenzione al mondo e da questo essere posto sotto condizioni di attenzione: c’è nel movimento di scambio una reciprocità che condiziona e viene condizionata. L’oltrepassamento non azzera il mondo, propone un’esperienza diversa che ha conseguenze nel mondo e nella possibilità etica di vivere nel mondo. Nessuna diversità è condizione permanente ma rinvia a un’altra ancora che rompe gli indugi e si propone totalmente all’attenzione delle sorgenti possibili della vita.

Nella Fenomenologia Hegel ha dichiarato per primo che la frattura tra l’io e il mondo passa ancora una volta attraverso l’io stesso, per cui lo stesso individuo è in pari tempo un essere “socialmente funzionante” condizionato dalla cosa (cioè dal lavoro), e un essere “per se stesso”, con inclinazioni interessi e attitudini specifiche. Questi due momenti indicano direzioni divergenti. Ecco Hegel: «Nella sua verità semplice lo spirito è coscienza e pone i suoi momenti l’uno fuori dell’altro. L’azione lo divide nella sostanza e nella coscienza della sostanza; e separa tanto la sostanza, quanto la coscienza. La sostanza come essenza universale e come fine si contrappone a sé quale effettualità singolarizzata; il medio infinito è l’autocoscienza la quale, in sé unità di sé e della sostanza, lo diviene ora per sé; unisce l’essenza universale e la sua effettualità singolarizzata, eleva questa a quella e agisce eticamente, – e quella abbassa a questa e realizza il fine cioè la sostanza soltanto pensata; essa produce come sua opera, e quindi come effettualità, l’unità di se stessa e della sostanza.

«Nel dirompersi della coscienza la sostanza semplice ha ricevuto, da una parte, l’opposizione di contro alla autocoscienza, e presenta, quindi, d’altra parte, anche in se stessa la natura della coscienza: il distinguersi, cioè, in sé quale mondo organizzato nelle proprie masse. La sostanza si scinde dunque in una distinta essenza etica: in una legge umana e in una legge divina. In pari modo, l’autocoscienza che le sorge di contro si ascrive, secondo la sua essenza, ad una di queste potenze; e, come sapere, si scinde nella ignoranza e nel sapere di ciò ch’essa opera; sapere che è perciò un falso sapere. L’autocoscienza dunque esperimenta nella sua operazione sia la contraddizione di quelle potenze nelle quali la sostanza si è scissa, e la loro reciproca distruzione; sia la contraddizione del suo saper l’eticità del proprio agire con ciò che è etico in sé e per sé; e va incontro al suo proprio tramonto. Ma, nel fatto, con questo movimento la sostanza etica è diventata autocoscienza effettuale, ovvero questo è diventato qualcosa che è in sé e per Sé; ma così è andata a fondo proprio l’eticità». (Fenomenologia dello spirito, vol. II, op. cit., pp. 6-7). Ma in tal modo la pura azione morale diventa ambigua, si trasforma in autoinganno. Quando la moderna psicologia analitica ha riconosciuto che ciò che l’uomo singolo pensa di se stesso è pura apparenza, pura razionalizzazione, essa ha acquisito un po’ della speculazione hegeliana. Hegel deduce il passaggio dalla pura autocoscienza alla ipocrisia, che poi in Nietzsche diventerà il punto di attacco critico alla filosofia.

In Hegel l’affermazione che non esiste alcun reale morale è determinante: in lui si fa strada l’intuizione che l’elemento morale non si comprende affatto da sé, che la coscienza morale non garantisce affatto un’attività onesta. Essendo la moralità in generale insufficiente cade in sé come immorale e quindi ha solo un fondamento arbitrario. Questa critica della morale è inconciliabile con l’apologetica della società la quale per mantenersi in vita ha bisogno dell’ideologia morale del singolo, della rinuncia alla felicità.

[1967], [1978], [1990]

II. La sintesi progressiva come crescita della coscienza

Hegel sottopone al pensiero una fenomenologia dello spirito, non della coscienza. Si intende con ciò una descrizione delle figure, delle categorie o dei simboli che guidano questa crescita secondo l’ordine di una sintesi progressiva.

Non è dalla coscienza che procede la genesi del senso. La coscienza è piuttosto abitata da un movimento che la media ed eleva la sua certezza a verità. In questo modo lo spirito, il Geist, diventa quel movimento, quella dialettica delle figure, che della coscienza fa una autocoscienza, una ragione e, infine, grazie al movimento circolare della dialettica, riafferma la coscienza immediata, ma alla luce dell’intero processo della mediazione. Dapprima lo spossessamento e solo alla fine la ripetizione. In mezzo l’essenziale, cioè il percorso completo della costellazione delle figure: il signore e il servo, l’esilio stoico del pensiero, l’indifferenza scettica, la coscienza infelice, il pensiero devoto, l’osservazione della natura, lo spirito del rischiaramento. L’uomo diventa adulto, diventa cosciente in quanto è capace di queste nuove figure. Tutto ciò è assolutamente inesprimibile. Nel momento in cui il pensiero lo pone ricorrendo alle parole, quello che è detto non corrisponde al movimento pensato prima, non è dialetticamente la medesima cosa. L’interesse per Hegel è tutto qui, nella sua avventurosa ricerca di qualcosa che non può essere trovato. I ritmi della dialettica sono prigionieri delle figure che li personificano, il pensiero che li pensa non è libero di pensarli in un altro modo. Secondo Hegel c’è un solo modo possibile, una volta che l’essenza della realtà è dialettica. Più volte il filosofo tradisce il presupposto e si lascia prendere dalla forza degli avvenimenti, dalla creazione in atto del suo dire, dalla spontaneità di quello che sta pensando, ma altre volte torna indietro fino a ricomporre il quadro generale nell’àmbito del costruito. Così facendo il suo dire è condizionato, non può che collocarsi nella dialettica nella quale è espresso e qui trovare quel poco di vita che finisce per caratterizzarlo. Ogni strumento è condizione del risultato. Più che in ogni altro luogo filosofico, il pensiero di Hegel si condiziona all’espressione di sé, cioè al proprio logos dialettico, tanto da sembrare a volte quasi un dialogo con se stesso. L’autocoscienza non ha vita diversa, nel caso di un’apertura alla coscienza diversa finisce il cerchio perverso della dialettica e nuove prospettive si fanno avanti.

Così Alexandre Kojève: «La Coscienza infelice è la coscienza cristiana; è la psicologia del Cristiano, che, per Hegel, è il tipo più perfetto del Religioso. Che cosa vuole il Cristiano? Come ogni uomo, egli vuole oggettivarsi, realizzare il suo ideale, che fino a quando non è realizzato gli si rivela nel sentimento dell’insufficienza, dello Schmerz, del dolore. Ma, fino a quando egli resta Religioso, non ci riesce. Infatti, che cos’è realizzare, oggettivare il proprio ideale, se non farlo riconoscere dagli altri, da tutti gli altri? Detto altrimenti, è realizzare l’individualità, la sintesi del Particolare e dell’Universale. Ed è precisamente quest’Individualità che il Cristiano ricerca nel suo sentimento religioso. Se immagina una Divinità e si riferisce a un Dio, a una realtà-esteriore assoluta, è perché vuole essere riconosciuto da lui, essere riconosciuto dall’Universale nella sua Particolarità più particolare. Solo che non ci riesce.

«L’Uomo immagina Dio perché vuole oggettivarsi. E s’immagina un Dio trascendente perché non riesce a oggettivarsi nel Mondo. Ma voler realizzare l’individualità mediante l’unione con un Dio trascendente significa realizzarla nel trascendente, nello Jenseits, nell’Aldilà del Mondo e di se stesso, considerato come Bewußtsein, come vivente nel Mondo. Significa dunque rinunciare alla realizzazione dell’ideale nel Mondo di quaggiù, quindi essere e sapersi infelice in questo Mondo». (Introduzione alla lettura di Hegel [1933-1939], tr. it., Milano 1996, p. 254). Kojève sa che ogni riconoscimento è convenzionale, cioè propone un riconoscimento “a certe condizioni”, occorre pertanto che queste condizioni siano comuni al riconoscente e al riconosciuto. Il dolore del mancato riconoscimento pervade la coscienza mentre l’altro resta lontano e incomprensibile. Toccarlo col discorso, quindi col fare che promulga continuamente le sue regole, non conduce a un vero e proprio oltrepassamento. Il superamento hegeliano si è rivelato una mera illusione. Qui non si può “togliere” nulla, e nulla portare con sé, almeno non nel superamento. Andare oltre è cosa diversa, movimento in cui la ragione gioca un ruolo secondario. Una libertà, sia pure residuale, rinuncia faticosamente, ma rinuncia, a questi legami e si avvia verso la desolazione della mancata convenzione. In questo caso il principio di tolleranza non viene più tenuto presente. Le ridondanze che qui accadono sono diverse, rinviano a territori non pensabili in funzione della proposta di apertura ma spezzano il cerchio dialettico.

Continua Kojève: «Detto altrimenti, da una parte, l’atteggiamento emozionale religioso nasce dal sentimento del dolore causato dall’esperienza dell’impossibilità di realizzarsi nel Mondo; dall’altra, esso genera e nutre questo sentimento. Ed è questa nostalgia che si proietta nell’Aldilà, a riempire di un contenuto teologico i quadri della trascendenza del Verstand, situandovi l’immagine di un Dio personale, di una realtà cosciente di se stessa, di un Geist che, in realtà, è la proiezione nell’Aldilà dell’infelicità della Coscienza religiosa.

«Dunque: nutrire, coltivare la nostalgia, il sentimento doloroso dell’insufficienza della realtà che si vive, è trovarsi nell’atteggiamento religioso, anzi cristiano. Inversamente, situarsi in quest’atteggiamento è nutrire e coltivare l’infelicità e la nostalgia.

«Sfuggire alla psicologia religiosa è, dunque, sopprimere l’infelicità della Coscienza, il sentimento dell’insufficienza. E lo si può fare o realizzando un Mondo reale, in cui l’Uomo sarebbe veramente “soddisfatto”, o sopprimendo con un atto astratto la trascendenza e conciliando l’ideale con la realtà. La prima soluzione è quella che si attua nella e con la Rivoluzione francese, che ha reso possibile la scienza atea assoluta di Hegel. La seconda soluzione è quella dell’Intellettuale borghese». (Ib., p. 255). Ma la realizzazione che qui viene perseguita è quella dell’essere altro da sé, quella dell’estrema razionalità. Ogni miglioramento raduna le forze del passato, si propone come piedistallo per un qualsiasi futuro, basta che serva ad “aggiungere” qualcosa. L’essere se stessi, esclusivamente, fortemente se stessi, è altro. In questa prospettiva non c’è risentimento, non c’è peccato originale da redimere, non trascendenza da ricondurre in terra. Il realizzare se stessi in quello che si è mi appare come la visione più alta pensabile, anche se non definitivamente dicibile, visto che quello qui trascritto è soltanto un malcelato tradimento. Questo non è un compito perché sta oltre qualsiasi compito. Non c’è nulla da sopprimere perché l’infelicità stava prima, cioè nel voler essere altro da sé. Anche le afflitte notazioni nichiliste, il volere essere al di là della storia, è solo un modo per modulare le aspirazioni al riconoscimento della propria appartenenza all’altro. La decisione che interrompe la ricerca di un “essere altro da sé”, è condizione desolata, un grido lanciato verso il deserto, forse verso la grande estensione dei ghiacciai, dove non ci sono più sentieri e dove non si accettano consigli. La mancanza di una strada precisa è nocumento e disperazione, ma rilancia le proprie possibilità di mettersi in gioco, suggerisce dolorosamente di andare oltre, come se si fossero bruciati i vascelli di ieri, in un rogo propiziatorio e ironico nello stesso tempo.

Una esegesi della coscienza consisterebbe in una progressione attraverso tutte le sfere di senso che una coscienza deve incontrare e appropriarsi per riflettere se stessa come un sé, un sé umano, adulto, cosciente. Questo processo non ha nulla da spartire con l’introspezione, la coscienza non è altro che l’interiorizzazione del movimento dialettico delle figure stesse.

Non si può certo oggi restaurare dopo più di un secolo la Fenomenologia dello Spirito così come fu redatta, però in ogni impresa dello stesso stile bisogna prendere per guida due princìpi, due temi direttivi:

1) Andamento della dialettica hegeliana. Siamo davanti a un movimento progressivo, sintetico, in cui ogni figura riceve il proprio senso da quella che segue; così lo scetticismo è la verità del riconoscimento del signore e del servo, ma lo scetticismo è la verità della posizione stoica che dichiara inessenziali e annulla tutte le differenze tra il signore e il servo, e così via. La verità di un momento sta nel momento successivo come del resto il suo contenuto, il senso procede sempre dalla fine verso l’inizio. Così Giovanni Gentile: «La necessità dialettica del pensiero coincide con la libertà del pensiero; perché tutti i limiti sono generati dalla stessa dialettica del pensiero. Il limite del pensiero non può essere limite del pensiero se non comincia dall’essere il pensiero stesso; se, come limite, non è nella sfera stessa del pensiero. La natura – unico limite possibile del pensiero – solo astrattamente è natura, in concreto è essa il pensiero nella sua interna mediazione». (La riforma della dialettica hegeliana [1913], Firenze 1975, p. 188). Un limite, per il solo motivo di esistere, è esso stesso ostacolo e circoscrizione delimitante. Se io accetto questa premessa posso pensare alla notte della vita come al crogiolo primigenio e non riuscire a dire qualcosa in grado di trasmettere quel pensiero. Posso avvicinarmi a esso, descrivendo indirettamente – come sto facendo ora – ma non posso dire che questo pensiero sia privo di limiti perché è esso stesso un limite essendo in grado di separare la notte della vita dal mio dire qualcosa di essa.

Da questa, prima, regola di lettura si ricava che la fenomenologia è possibile solo in ragione di questo movimento retrogrado del vero. Essa non crea nulla, ma non fa che esplicitare il senso man mano che essa si scopre, in quanto il senso finale è immanente a ognuno dei suoi momenti anteriori. Ecco perché il filosofo può modellarsi su ciò che appare, cioè può essere fenomenologo in quanto attraverso ciò che appare egli giunge a vedere la luce delle figure successive. È questo anticipo dello spirito che costituisce la verità, di per sé non saputa, delle figure antecedenti.

2) Contenuto della dialettica hegeliana. Nella fenomenologia è in questione la produzione del sé, del sé dell’autocoscienza. Naturalmente questa produzione del sé è inseparabile dalla produzione per sintesi progressiva. Ancora Gentile: «Il pensiero assolutamente attuale è universale per la sua stessa necessità. L’universalità platonica, aristotelica (parallela all’identità di ogni concetto con se stesso), quella voluta dai realisti e combattuta dai nominalisti, è astratta universalità, perché è l’universalità del pensiero astratto. Non si può parlare dell’universalità del concetto di uomo, di animale, di triangolo, di numero, perché non ci sono questi concetti, né in cielo né in terra, bensì il pensiero che pensa questi concetti. E il pensiero di questi concetti non può essere il pensiero in generale, il pensiero divino (di Dio che sia altri da noi), se il solo pensiero concreto è il pensiero assolutamente nostro. La sola universalità pensabile è dunque quella del nostro atto di pensiero. Atto che è universale nel senso che, in quanto necessario, si pone come pensiero, non di un pensante particolare, dal quale possano divergere altri pensanti anch’essi particolari, sibbene come pensiero di chi pensa per tutti». (Ib., pp. 189-190). Ragionamento ineccepibile ma parziale, in ogni caso al di qua del povero Hegel che ne esce non solo riformato ma anche maltrattato. Il guaio sta in un prima e in un dopo, momenti che Hegel azzera unificandoli quando qui vengono ripristinati per fare luce sull’atto che li ingloberebbe. Ma questo riassumere non dialettico viene risputato fuori in quanto Gentile non consente a una distinzione all’interno dell’atto. La monoliticità del suo pensiero glielo impedisce, così conferisce al pensiero (atto) uno statuto che non gli compete, quello del fatto (non pensato).

È notevole pensare che è proprio nel momento del desiderio (Begierde) che il sé si prefigura, si attrae verso se stesso. Su questo punto Hegel e Freud si incontrano: è nel movimento del desiderio che nasce non solo un nuovo modo di guardare il mondo, ma anche una nuova e diversa cultura, qualche volta in grado di trasformare il mondo. Il dominio è però sempre dietro l’angolo. Le contraddizioni profonde, e la stessa tragedia di fondo di Gentile, sono tutte presenti in queste considerazioni: «In breve, la storia è il progresso dell’uomo verso la libertà, come un solo sguardo fugace al corso della medesima ci attesta. E ogni passo verso la libertà vera e propria, nell’individuo e nella storia, è un passo innanzi della filosofia. Libertà è risoluzione e conservazione dell’individualità nella universalità. Libero è chi si sente uno con la legge, e nella legge vede la forma e il valore della propria volontà. La libertà pratica, morale o politica, rimane un desiderio o una meta avvolta nell’oscurità finché tale unità non si realizzi, e l’individuo veda fuori, sopra o contro di sé la legge, che è la sua legge. Ma la libertà non si esaurisce nell’unificazione dello spirito con la legge pratica, perché al di là di questa c’è una legge superiore, che lo spirito non ha minor bisogno di rendere intrinseca a se medesimo: che è la legge dell’essere, la logica, la verità. E questa ulteriore, questa estrema unificazione dello spirito con la verità è la filosofia: la filosofia quale l’abbiamo vista sorgere profondamente umana dal lavoro della riflessione moderna, segnatamente dal criticismo. Questa suprema liberazione dello spirito, che è la filosofia, è nella stessa linea della liberazione morale, e le sta sopra; perché se non è la scienza che conduce alla moralità, è la moralità che conduce alla scienza; né c’è Scienza vera, – la quale non sia sapere vano di notizie e astratte costruzioni destituite d’ogni valore verso gli interessi dello spirito, – che si possa raggiunger per altra via da quella del libero volere etico». (Ib., p. 124). Non ho mai capito come potevano essere queste parole quelle di un fascista. Il vero problema, il nocciolo problematicamente oscuro da cui prendere le distanze con una critica, è la religione, l’unificazione di morale e religione fatta senza esercitare alcuno spirito di distinzione. Ancora una volta Hegel è gettato fuori dalla porta e non tarda a rientrare dalla finestra. Se libero è chi si identifica con la legge (cosa plausibile) si parla di una delle tante libertà coatte (l’elenco sarebbe troppo fastidioso), non della libertà. E questo non poteva sfuggire a un riformatore della dialettica hegeliana. Ma la libertà coatta (parziale) alla quale si riferisce Gentile, libertà che si può trovare solo nella legge, da cui appunto deriva la coazione, se è pensiero hegeliano, riguarda il rapporto con il contenuto della realtà e non con i modi possibili di pensarla. Certo, il condizionamento riguarda l’oggetto o, come si diceva una volta, la prammatica, mentre la convenzione può essere fissata liberamente, ma i due momenti devono essere lasciati separati senza possibilità di incontro, cosa ovviamente impossibile, in caso contrario i due momenti si contaminano a vicenda. Il residuo di libertà di cui parlano (in maniera diversa) Hegel e Gentile si muove nell’àmbito della storia e condiziona la spontaneità del pensiero, cioè la sua possibile costruzione linguistica, il che è per molti aspetti la medesima cosa. Alla fine la libertà di cui discutiamo qui è la tolleranza reciproca, valore discutibile quanto si vuole ma comunque da tenere da conto.

Le identità possono essere spinte più lontano. L’abbandono dell’oggetto, la morte dell’oggetto svolgono una parte essenziale in questa educazione del desiderio. Il signore hegeliano che ha messo a repentaglio la propria vita e la riscopre come signoria, realizza il movimento che Freud descriverà come condotta del cordoglio e installazione dell’oggetto nell’interiorità. Sempre Gentile: «L’errore, dunque, come tale, è un’astrazione: e la sua realtà, la sua rivelazione consiste in un momento dialettico della coscienza. Il che è da dire di tutti gli errori: dei piccoli errori fugaci, che si commettono nella vita ordinaria e sono tosto corretti; e dei grandi errori filosofici, che aspettano la correzione per secoli. Qualunque errore è errore in quanto si corregge e dà luogo, perciò a una verità. Non c’è errore che si cancelli dallo spirito, annientandosi come lo scritto sulla lavagna. Lo spirito che prima abbia accolto un’opinione, e poi l’abbandona, perché falsa, senza sostituirvene altra, non è da concepire come una pentola, che prima sia piena e poi si vuoti. Lo spirito e la sua opinione sono unum et idem: e lo spirito, che fu capace dell’errore, fattosi consapevole della falsità di questo, evidentemente non è più lo spirito di prima. Egli deve aver visto una verità, che prima non vedeva (o non vedeva più, che è lo stesso) – una verità, che è la negazione della opinione malamente appresa. Questo il processo eterno dello spirito: da una verità a una verità superiore; raggiunta la quale, la prima non ha più valore: cioè conserva un valore relativo al grado precedente della coscienza, che si può bensì rivivere (e lo rivive lo storiografo); ma non è più attuale. Un errore insomma è un grado dello spirito, una categoria dell’essere, in quanto si valuta dal punto di vista dei gradi, delle categorie superiori: e meglio che di errore, dovrebbesi parlare di spirito erroneo, che vien sempre correggendo se stesso. E correggendo se stesso in due modi: in uno, per diventare spirito filosofico, o filosofia esplicita; e nell’altro, per procedere da una forma ad un’altra e più perfetta della filosofia stessa. In due modi ho detto, non perché uno di essi sia essenzialmente diverso dall’altro; ma perché empiricamente si distinguono per ciò che l’uno corrisponde alla preistoria della filosofia e l’altro alla storia». (Ib., pp. 127-128). Che il procedere dello spirito vada, da una forma all’altra, verso il suo miglioramento è fatto assai discutibile, com’è vero che l’errore di cui discute Gentile va verso un altro errore meno grave (non il vero, che è altro da una falsità ipotizzata di più lieve entità) solo a condizione di fissare un ulteriore errore sempre meno grave ma non del tutto privo di falsità. Sottraendogli la fede dogmatica a questo ragionamento resta poco, una sorta di scolastica rovesciata priva di simboli ma non meno squallida. Quando la gioventù italiana del periodo tra le due guerre mondiali scoprì cosa si nascondeva sotto il rigorismo gentiliano rimase scossa. Una vita prevalentemente spirituale ha bisogno di poco sale nel cervello. Incrociare le braccia sdegnato è tipico dell’intellettuale che si è bagnato i piedi e intende ritirarli al sicuro. Lo stesso processo di diminuzione progressiva dell’errore, corrispondente (ma fino a un certo punto) a un’acquisizione altrettanto progressiva della verità, è da tenersi lontano. Chi ha le mani in pasta vuole usufruire, per le sue piccole necessità, del passaggio dall’errore alla verità, ogni chiarificazione analitica, corrispondente a un allontanamento della qualità, per lui è un passo verso la verità ma è anche verità esso stesso in quanto passo, una strana verità, ferita e ingessata, ma sempre verità. Non si deve pensare alla scepsi utilitarista del solitario che tiene in non cale il mondo, non siamo necessariamente di fronte a una specie di snobismo morale, ma proprio al cospetto delle conseguenze di una scelta filosofica. Hegel è comunque lontano da tutto ciò.

Vediamo però che, al di là delle corrispondenze parziali, assai diverso è il senso che dà origine alla verità e ai problemi relativi. In Hegel lo spirito è la verità della vita, verità che non conosce ancora se stessa nella posizione del desiderio ma che si riflette nella presa di coscienza della vita. In Freud ogni sublimazione che fa apparire mete nuove, essenzialmente sociali, deve essere compresa economicamente come ritorno della libido oggettuale, alla libido narcisistica.

L’autocoscienza, dirà Jean Hyppolyte, è in questa presa di coscienza l’origine di una verità che è per sé nello stesso tempo in cui è in sé, che si fa in una storia attraverso la mediazione delle coscienze di sé differenti, di cui solo l’interazione e l’unità costituiscono lo spirito.

Questo movimento ricorrente del vero assegna il suo pieno senso alla filosofia hegeliana del desiderio. Se infatti si può dire che l’autocoscienza è desiderio, lo è in quanto il desiderio è già rischiarato dalla dialettica dello sdoppiamento della coscienza in due autocoscienze rivali. Proprio alla luce della successiva dialettica del signore e del servo la precedente dialettica possiede una verità.

Quindi la posizione dell’autocoscienza, come desiderio nel procedere di se stessa, consente che nell’esistenza ci sia una luce. In questo modo si pone come desiderio proprio sul cammino del ritorno in se stessa, a partire dalla semplice coscienza che era solo lo spiegamento dell’essere altro del mondo. Quello che essa persegue è se stessa, quindi si raggiungerà solo attraverso il suo rapporto con un altro desiderio, con un’altra autocoscienza. Ma questo raggiungimento non è assoluto. Partito dall’angoscia o dal bisogno, dall’inquietudine che ambedue li riassume, non arriva a una parola definitiva, a una risposta assoluta. Non c’è nulla di assolto in Hegel se non la conclusione finale, ecco perché tante occasioni di riflessione sono possibili anche se lo sfondo resta sempre quello piatto di un fautore dell’ordine e della disciplina. Assolversi significa accettare la dimensione ridotta che ci ospita, considerarsi arrivati, combattere la nostalgia di quello che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto, dogmaticamente affermare che solo quello che abbiamo fatto, per il solo fatto di averlo fatto, era la sola cosa possibile da fare. Nel rapporto con l’altro si coagula un desiderio che non può essere paragonato all’altro desiderio, quello originario, eternamente presente, che poi diventa desiderio finale, quello del ventre materno. La morte (ogni nostalgia della nascita è nostalgia della morte) deve essere costruita, non soltanto desiderata, man mano che il suo pensiero si appressa in maniera più convincere e dettagliata.

Secondo Hippolyte siamo davanti a una dialettica teleologica, che esplicita progressivamente tutti gli orizzonti di questo desiderio che è nascita dell’autocoscienza. In questo aspetto teleologico della fenomenologia si manifesta il vero carattere archeologico del freudismo. Nel contrasto di Hegel scopriamo in Freud una strana filosofia del destino che è come il rovescio invincibile di ogni fenomenologia dello spirito, calamitata dal futuro assoluto del discorso totale. Arcaicità dell’Es, del super-Io, del narcisismo e dell’istinto di morte, non formano se non un’unica arcaicità, mentre il movimento dello Spirito ne è il contrario.

L’antitesi può essere così riassunta: lo spirito è ciò che assume il proprio senso in determinate figure successive, è il movimento che annienta sempre il proprio punto di partenza e che si afferma solo alla fine. L’inconscio significa che l’intelligibilità procede sempre da figure anteriori anche nel caso in cui questa anteriorità venga intesa in un senso puramente cronologico o metaforico. Hegel, nella conclusione delle Lezioni sulla storia della filosofia [1816-1830], scrive: «Il resultato generale della storia della filosofia è, in primo luogo, che in ogni età c’è stata soltanto un’unica filosofia, le cui differenze sincrone costituiscono i lati necessari di un unico principio; in secondo luogo, che il succedersi dei sistemi filosofici non è accidentale, ma rappresenta la necessaria serie graduale dello svolgimento di questa scienza; in terzo luogo, che l’ultima filosofia di ciascuna età è la conclusione di questo svolgimento, la verità nella forma suprema che l’autocoscienza dello spirito dà di se stessa. L’ultima filosofia, quindi, comprende in se stessa tutti gli stadi, è il prodotto e la conclusione di tutte le filosofie precedenti. Oggi, per esempio, non si può più esser platonici. È necessario inoltre elevarsi al di sopra delle piccinerie delle opinioni, dei pensieri, delle obiezioni e difficoltà individuali e al di sopra della propria vanità che ci fa credere d’aver pensato qualcosa di speciale. Infatti, afferrare l’intimo spirito sostanziale, è il punto di vista dell’individuo; in seno al tutto egli è come un cieco spinto avanti dall’intimo spirito del tutto. Per ciò nostro punto di vista è ormai il sapere quest’idea come spirito, come spirito assoluto, il quale contrappone così a se stesso un altro spirito, lo spirito finito, il cui principio è di conoscere lo spirito assoluto, affinché questo diventi per lui». (Vol. III, t. II, Firenze 1964, pp. 417-418). Servire la propria epoca? Non propriamente, forse preparare la vita alle epoche successive. Creare le condizioni perché queste siano in parte prevedibili nell’atto in cui agiamo, nel momento che la nostra azione segue ciò che (soltanto a posteriori) possiamo definire come la sua vocazione. Nell’essere se stesso fino in fondo si realizza una chiamata che non ci fa retrocedere di fronte all’abisso che continuamente scorgiamo dietro ogni enigma irrisolto.

L’uomo è il solo essere che è la preda della sua infanzia per cui egli è sempre davanti a una anteriorità simbolica che lo attrae, un ordine che è il contrario di quello dello spirito. Molto generalmente si potrebbe dire quindi: lo spirito è l’ordine di ciò che è finale, l’inconscio di ciò che è primordiale: lo spirito è la storia, l’inconscio è il destino. Hegel permettendo.

[1971], [1996]

III. La fenomenologia di Hegel e quella di Husserl

Da un lato (Edmund Husserl) un pensiero brancolante, incerto, incurante della storia, portato ad ammettere che il problema della conoscenza convenientemente posto e risolto fornisca la chiave di tutta la filosofia (quindi rifiuto di tutta la tradizione filosofica), infine l’idea che la filosofia sia faccenda di riflessione personale di uno spirito che in questo modo acquisisce non una “realtà nuova” ma un “sapere nuovo”, per cui non ha bisogno nel suo lavoro di mettersi in continuità con la storia del mondo, ma solo di entrare in contatto con le cose (contatto del resto naturale).

Dall’altro lato (Hegel) una dottrina solida e sistematica, determinata sempre dal suo fine, che afferma che la filosofia sorge dalla storia, che nega la portata reale ultima del problema della conoscenza (considerato solo una fase dell’evoluzione del sapere), che proclama che il sapere filosofico rivela lo Spirito assoluto a se stesso e assicura la sua totale perfezione.

Oltre queste opposizioni c’è di più. Edmund Husserl è sempre insorto contro ogni concezione dialettica della filosofia. Ma prima di esaminare queste critiche occorre fare due osservazioni.

Husserl non è uno storico della filosofia, la sua conoscenza della storia della filosofia è chiaramente lacunosa. In effetti, questa gli serve solo come illustrazione o come contrasto. I suoi interessi provengono dalla riflessione su di una disciplina scientifica particolare: la matematica. Cosa di cui egli si rende perfettamente conto. Diverso è il caso di Hegel. Husserl comincia la sua carriera in un momento di particolare discredito della filosofia hegeliana. Le ragioni di questo discredito sono estranee a una valutazione complessiva di questa filosofia, piuttosto derivano da un’errata interpretazione della filosofia hegeliana della natura.

Tutta la scienza del XIX secolo aveva radicalmente contraddetto le affermazioni della filosofia della natura, come nel Rinascimento si era verificato per Aristotele. Ma ci si sbaglia se si pensa che la cosmologia hegeliana si proponesse semplicemente di anticipare il cammino della scienza positiva aspettando da questa una conferma o una condanna. Hegel non si è mai arrogato il vano compito di cercare di inventare in anticipo, e con le sole forze della ragione, un sapere che liberi “per natura” dall’osservazione empirica.

Con la filosofia della natura Hegel intende fornire una spiegazione della natura e della vita così come esse si offrono a noi nell’esperienza non scientifica. Comunque l’atteggiamento di Husserl nei confronti di Hegel era, nel contesto relativo, inevitabile, ma non può oggi servire da base per un raffronto.

L’opposizione tra le due fenomenologie è, si dirà, totale, poiché una implica una concezione della fenomenologia che riduce la stessa a descrizione delle cose, mentre l’altra descrive le peripezie necessarie del divenire dello spirito nella storia, peripezie imposte dalla natura dello spirito stesso col quale il filosofo si trova in connivenza assoluta. Si tratta quindi non di una descrizione ma di una creazione. Il risultato della descrizione svolta da Husserl è comunque un approfondimento della struttura delle cose, cioè una discussione sull’essenza della realtà. Non esistono oggetti che non siano storicamente determinati, cioè non siano realtà di fatto. Il passaggio verso Hegel è la considerazione che questa ricerca dell’essenza è un progetto insito nelle cose stesse che viene scoperto nell’osservazione, elemento delle cose e prodotto di queste ultime. La fenomenologia, in ogni caso, è attività che progetta verso il futuro, che emerge dalle condizioni di bisogno e guarda verso un completamento, che esamina e realizza un progetto. Nulla di tutto ciò sarebbe possibile se non fosse presupposto all’interno della realtà il meccanismo storico della possibile soddisfazione. La sospensione che osserva è fondata da Husserl su di una ipotesi negativa diretta a uscire fuori verso la positività della costruzione progettuale, lo stesso avviene in Hegel, dove comunque il movimento prende un altro nome e si arricchisce di altre considerazioni, pur restando identico alla versione husserliana. Non c’è possibilità fenomenologica che non comprenda una descrizione. Hegel non si adagia nell’accettazione e nella contemplazione di qualcosa, egli procede verso successive determinazioni. Il susseguirsi delle figure, pur essendo catturato nel disporsi dialettico, è sempre un’attuazione, una trasformazione storicamente riscontrabile. Il fatto che spesso ci ritroviamo con nulla nelle mani è una estremizzazione critica. Non è vero che di ogni lettura di Hegel (forse meno di Husserl) si resta con niente nelle mani. Il premio è a volte crudele con le nostre illusioni.

La filosofia di Husserl si ispira all’intenzione di ritornare alle cose stesse. Essa ritiene possibile tale progetto in quanto concepisce la coscienza come definita in modo esauriente dall’intenzionalità. La natura della coscienza non è quella di possedere dei contenuti, al contrario essa è coscienza di ciò che le appare. Solo in questo modo diventa concepibile che la coscienza dica che le cose sono. Naturalmente ciò non basta a liquidare tutte le difficoltà della conoscenza, ma è sufficiente a trasformarla radicalmente. Scrive Enzo Paci parlando di Husserl: «Il vero significato del generale non nega l’individuale: l’essenza è la vita dell’individuo e l’individuo vive veramente solo in rapporti essenziali. In tal modo la teoria più formale, la teoria delle teorie, è necessaria alla vita fattuale più concreta e questa è necessaria all’altra. L’individuale si generalizza, il generale si individualizza». (Funzione delle scienze e significato dell’uomo, Milano 1963, p. 135). Nessuna paura dell’astrattezza, è questo il messaggio di Paci, inserito alla fine in una combattiva visione della vita e in una non del tutto scorretta concezione della lotta di classe. Il velo marxista, in conclusione, non gli è mai stato davanti come impenetrabile ostacolo. L’amore per gli uomini conduce spesso nei sanatori a pagamento dove quadri clinici vengono avanzati per capire coercizioni e nascondere conseguenze. La teoria sta ben al di qua di questo guazzabuglio, riflettere con essa come strumento, continuando a pagare, non sposta di un passo il problema. Un delitto è sempre un moto dell’animo e richiede lo stesso sforzo di negazione resosi necessario per scrivere la Critica della ragion pura. Giulio Preti, seguendo la medesima linea di ragionamento: «Un discorso (una teoria, una disciplina, una scienza) è privo di senso fattuale ove almeno una parte degli enunciati in esso contenuti – e precisamente quella parte che sintatticamente vi costituisce la classe delle conseguenze – non possa farsi corrispondere ad enunciati descriventi fatti sensibili, veri o falsi secondo il verificarsi o meno di fatti empirici in essi contenuti». (Praxis ed empirismo, Torino 1957, p. 38). E le ridondanze? Possibile che si nascondano tutte in quel “almeno in parte”? Io che ho letto alla fine degli anni cinquanta il testo di Preti me lo sono chiesto per tempo. Eppure non è un discorso di parata quello che fa, non si attende con questa posizione di cauta sospensione critica alcun compenso. L’incantesimo di una costruzione asimmetrica del pensiero non gli era del tutto estraneo e non lo considerava ornamento fittizio. Lo stesso il nostro Hegel.

In termini molto diversi, ma parecchio vicini come significato, sono alcune considerazioni dell’Prefazione alla Fenomenologia. «Quanto più rigidamente l’opinione concepisce il vero e il falso come entità contrapposte, tanto più poi, in rapporto a un diverso sistema filosofico, si aspetta unicamente o approvazione o riprovazione, e soltanto o l’una o l’altra sa vedere in una presa di posizione rispetto a quel diverso sistema stesso. A stento l’opinione riesce a farsi un concetto della diversità dei sistemi filosofici; essa, piuttosto, nella diversità scorge più la contraddizione che non il progressivo sviluppo della verità. Il boccio dispare nella fioritura, e si potrebbe dire che quello vien confutato da questa; similmente, all’apparire del frutto, il fiore vien dichiarato una falsa esistenza della pianta, e il frutto subentra al posto del fiore come sua verità. Tali forme non solo si distinguono; ma ciascuna di esse si dilegua anche sotto la spinta dell’altra, perché esse sono reciprocamente incompatibili. Ma in pari tempo la loro nobile natura le eleva a momenti dell’unità organica, nella quale non solo non si respingono, ma sono anzi necessarie l’una non meno dell’altra, e questa eguale necessità costituisce ora la vita dell’intero. Ma come, in parte, la contraddizione verso un sistema filosofico non suole concepire se stessa in tal modo, così, d’altra parte, la coscienza che accoglie in sé questa contraddizione non la sa liberare o mantener libera dalla sua unilateralità, né, in ciò che appare sotto forma di lotta contro se stesso, sa riconoscere momenti interessanti». (Fenomenologia dello spirito [1807], tr. it., vol. I, Firenze 1963, p. 4). La distinzione si riassume nell’unità organica, e qui risiede la nobiltà della sua origine analitica, ma da questa unità non riproduce il dettaglio di qualcosa che pure nell’unità non poteva non esserci, ma soltanto la necessità della procedura, il ritmo del meccanismo. Più avanzo nel distinguere, meno perfetto mi appare quello che ho fra le mani. Eppure la distinzione è la condizione primaria del mio vivere fra le cose, del mio produrre quotidiano. In questo c’è contraddizione solo se considero la riflessione filosofica come qualcosa di staccato dalla realtà, perché è solo il filosofo che guarda indietro verso l’unità perduta e se ne dispiace, si accora in altre parole di non saperla ritrovare nella dissezione operata per amore analitico di verità. La realtà chiede questa distinzione e io la fornisco, e acceco così il presupposto della bellezza, quella nobiltà di cui parla Hegel, e il mio lavoro è necessario perché devo rispondere alla continua insorgenza del reale che chiede spiegazioni proprio alla mia capacità filosofica di parlare del suo modo di essere, del suo vivere che è anche il mio e di cui io sono il corrispettivo stupidamente soddisfatto.

Ancora Hegel: «La pretesa di chiarimenti di tal fatta, nonché il modo di soddisfarla, conducono con molta facilità a discacciare l’essenziale. Dove meglio potrebbe trovarsi espresso l’ultimo significato di un’opera filosofica, che negli scopi e nei resultati di essa? E come questi scopi e questi resultati potrebbero venire più determinatamente conosciuti, che mediante la differenza loro da ciò che la cultura di un’età produce nello stesso campo? Tuttavia, non che un tale procedere debba valere oltre il cominciamento del conoscere; non ch’esso debba valere per il conoscere eventuale, lo si deve nel fatto annoverar tra quei ritrovati che servono soltanto a girar attorno alla cosa stessa, e a travisare l’effettiva mancanza di disciplina con l’apparenza del lavoro serio. Infatti, la cosa stessa non è esaurita nel suo scopo, bensì nel processo della sua attuazione; né nel resultato è l’Intero effettuale; anzi questo è il resultato con il suo divenire; per sé lo scopo è l’universale non vitale così come la tendenza è il mero slancio ancor privo della sua effettualità e il nudo resultato è la morta spoglia che la tendenza ha lasciato dietro di sé. Similmente, la diversità è piuttosto il limite della cosa: essa è là dove la cosa cessa, o è ciò che questa non è. Un tale lavorìo intorno allo scopo e ai resultati, e intorno alle diversità e alle valutazioni dell’uno e degli altri, è una fatica più lieve di quel che forse non sembri. Infatti, invece di concentrarsi nella cosa, un tale procedere non fa altro che scavalcarla; invece di indugiare in essa e di obliarsi in essa, un tale sapere si attacca sempre a qualcosa di diverso, e resta presso di sé, anziché essere presso di essa e abbandonarsi ad essa. Di ciò che ha compattezza e intrinseco contenuto è ben facile giudicare; più difficile è capirlo; estremamente difficile è produrre la rappresentazione oggettiva, che unifica l’uno e l’altro elemento». (Ib., pp. 4-5). Qualcosa che sta per essere tolto, dice Hegel, nella realtà è il suo limite, limite che ritrovo nel processo ulteriore ma che, quando lo vedo come movimento che sta superando il rapporto realmente esistente, mi impoverisce come qualsiasi limite, esige soddisfazione (il compito del notomizzatore) ma non soddisfa mai, mai fino in fondo. Lo scopo di qualsiasi distinzione (la tristezza della scoperta scientifica) è un limite privo di ragione se non quella del minimo sforzo. Di certo anche questa è una ragione, ma non accontenta nessuno (a parte i pragmatisti). La struttura della cosa, la sua essenza, mi sfugge non appena voglio impadronirmene, e ciò mi causa pena e inquietudine. Per uscire fuori dal vicolo cieco devo soddisfarmi grazie a una insoddisfazione. Il mio stomaco si è abituato a questo cibo e riesco così perfino a saziarmi.

Continua Hegel: «Il cominciamento del processo di liberazione dall’immediatezza della vita sostanziale dovrà sempre consistere nell’acquistare cognizioni di fondamentali princìpi e di punti di vista universali; nel sollevarsi, così, fino al pensiero della cosa, sostenendola o confutandola tuttavia con princìpi: nel concepirne la concreta e ricca pienezza secondo determinazioni intrinseche, e nel formulare su di essa una ben costruita sentenza e un serio giudizio. Ma questo cominciamento della filosofia, prima di tutto, farà posto alla serietà della vita piena, serietà che introduce all’esperienza della cosa stessa; e quando, poi, il rigore del concetto sarà sceso nel profondo della cosa, allora quella cognizione e valutazione sapranno restare al posto che loro si conviene nella conversazione.

«La vera figura nella quale la verità esiste, può essere soltanto il sistema scientifico di essa. Collaborare a che la filosofia si avvicini alla forma della scienza – alla meta raggiunta la quale sia in grado di deporre in nome di amore del sapere per essere vero sapere, – ecco ciò ch’io mi son proposto. L’interiore necessità che il sapere sia scienza, sta nella sua natura: e, rispetto a questo punto, il chiarimento che più soddisfa è unicamente la presentazione della filosofia stessa. Ma la necessità esteriore in quanto essa, a parte l’accidentalità della persona e della particolare occasione che l’ha sollecitata, venga concepita in modo universale, non è niente di diverso dalla necessità interiore, e consiste nella forma nella quale un’età rappresenta l’esserci dei suoi momenti. Se si potesse mostrare che la nostra età è propizia all’innalzamento della filosofia a scienza, ciò costituirebbe l’unica vera giustificazione dei tentativi che hanno tale scopo, giacché di esso si metterebbe in rilievo la necessità o lo si realizzerebbe addirittura». (Ib., p. 5). Mettiamo da parte per un attimo la conclusione nel sistema. La chiusura metodologica ci apparirà almeno ingiustificata di fronte all’appello precedente fatto alla serietà e alla totalità dell’impegno. Penetrare nella cosa stessa, ecco il problema, non girarci attorno come falene impazzite. Non un moto dell’animo, un’esperienza mistica, ma l’apertura a un universo pubblico, un movimento fisiologico. La cosa è l’elemento che consente di avvertire la profondità del proprio ambiente corporeo, che permette di leggere ad alta voce le sfumature intuitive che si infiltrano in un singolo respiro. Il mondo che sembra restare chiuso a ogni tentativo di effrazione, ecco che può essere attirato in una trappola, e come una enorme matassa dipanato delicatamente. Antichi testi sono così riportati alla luce in ogni strato della pergamena della carne, senza lacerazioni.

Hegel pensa che la conoscenza non può essere concepita come un ponte tra la coscienza e ciò che essa non è. Una tale maniera di vedere è contraddittoria da per se stessa, poiché considera la conoscenza come semplicemente diversa da se stessa.

Ecco quindi un contenuto comune in Hegel e Husserl. Fin dalla percezione, la coscienza si rivela come una interiorità estatica, cioè come una interiorità che è (non che ha) un movimento verso l’altro da sé. Ancora Paci: «Che la mia individualità possa porsi a me stesso come ideale teleologico non vuol dire che essa possa valere come qualcosa di definitivo, che possa essere definitiva. Io stesso come singolo, come evidenza, come individuo, ho in me la verità, ma l’ho come indice di un’infinita esplicitazione secondo il senso della correlazione universale. Per questo la mia individualità non mi dà una scienza definitiva ma, nella ricerca fenomenologica, deve essere assunta come indice, come punto di partenza della esplicitazione fenomenologica. Ciò vuol dire che se il cosmo, il Weltall, è in ogni individuo, la verità, il senso di verità, non è mai in me singolare rivelazione, ma è l’indice di tutte le altre possibili rivelazioni ed è quindi tale da rivelarsi connessa in un sistema di relazioni universali. La pretesa di far coincidere la verità con un suo indice è l’identificazione del nascosto con il rivelato, e quindi la negazione del compito della fenomenologia dell’esplicitazione. In questo senso Husserl afferma che non è possibile una scienza dell’individuale separato, del singolo, dell’atomico tolto alle relazioni». (Funzione delle scienze e significato dell’uomo, op. cit., p. 137). Non posso rinserrarla nel mio pugno la verità, e nemmeno quello che penso sia conquistabile, accumulabile, a ben riflettere, posso racchiudere definitivamente. Tutto corre via e si sgretola, impostato com’è sull’effetto dell’imprevedibile. Il successo è scherno del destino, l’impianto calcolato una briciola senza importanza. Perfino il desiderio gioioso devo sogguardare come nemico se della sua bellezza corro il rischio di innamorarmi come uno stupido.

Di questo fatto Hegel fornirà una spiegazione hegeliana mentre Husserl si limiterà a vedere che le cose “sono” così. La spiegazione di Hegel è che la coscienza è movimento verso un assoluto definito come puro possesso di sé, nella reciprocità dell’interno e dell’esterno, nella reciprocità della materia e dello spirito, che la coscienza non raggiunge al primo colpo, ma da cui non è nemmeno del tutto separata. Essa non è separata perché questo assoluto è in fin dei conti essa stessa, in modo che il movimento che sembra condurla al di fuori di se stessa é in realtà realizzazione di se stessa. Così il concetto di necessità si capovolge in quello che non può avere in se stesso la propria ragion d’essere. La forza si affievolisce e non è più capace di autogenerare se non la ripetizione del modello. Non c’è soddisfazione nella pretesa di vincere, ogni momento essendo disponibile per il dominio. Tutti si guardano attorno cercando un punto di appoggio, pensando che questo fondamento sia loro dovuto. La perdita è fondamento inverosimile ma di certo molto più disponibile al progetto della vita, la prospettiva della negazione, della morte. Per inserirsi criticamente nell’esistenza occorre una capacità di autofondazione reale, e questa capacità non ce la fornisce nessuno. Se osserviamo la perdita di tutto, e di noi stessi, troviamo una indicazione fondante in negativo, un’attività di trasformazione che ci coglie sempre alla sprovvista mostrandoci il nostro isolamento e la radicale impossibilità della filosofia di porre rimedio costruttivo a questa inquietudine. La forza del tutto può essere vista attraverso la debolezza dell’altro, la distinzione recuperata nella sua appartenenza al tutto – secondo l’insegnamento di Hegel – e qui sfuggire alla mistificazione ontologica, alla pretesa di riuscire a soddisfare il bisogno di vita, quello della pienezza che continua a sfuggirci. La realtà è nella perdita di noi stessi nell’altro, nel sussistere di questo passaggio, nel non resistere al suo eterno fluire.

Per tutte e due le fenomenologie esaminate il punto di partenza è il “mirare” un dato presente; tutte e due affermano che questo mirare, se prende coscienza di se stesso, deve trasformarsi e superarsi. Questa trasformazione consiste nel passare dal mirare un dato alla percezione di una cosa. È notevole che il motore di questo movimento è nei due filosofi molto simile. Ogni volta è il senso reale vissuto ed esercitato dal mirare e di ciò che è mirato che riesce a cambiare il mirare in percepire. Il “mirare” è distanza ma è anche compartecipazione, messa a fuoco, assunzione in proprio, mancata resistenza. Vivere comprende un certo modo di “mirare”, ma questo può decadere dall’attenzione all’abitudine, e l’esistenza trova qui l’alimentazione che la sostiene e l’addormenta cullandola e illudendola. Nella veste del trarne un’opinione questo mirare serve, è utile alla costruzione dei processi di causa ed effetto, funge da origine e perfino da fondamento. Nella sua veste possibile, per come visto prima, esso non fornisce risposte riguardo il passato né prevede scientificamente il futuro, propone occasioni e possibilità. Il mirare è così soltanto possibile e il suo cosiddetto risultato, la rammemorazione, non è ciò che deduce il processo ma quello verso cui procede la vita, il proprio destino.

A questo punto i due filosofi divergono. Husserl si ferma nella spiegazione di una coscienza che rimane, in ultima analisi, un sorgere irrecuperabile, cioè che conserva un esserci come tale. Hegel si sforza di recuperare questo esserci di se stesso, trascinando la coscienza con un movimento che deve includere tutta la storia, verso una figura finale che è realizzazione di uno spirito assoluto.

La fenomenologia di Husserl descrive, quella di Hegel costruisce dialetticamente. In effetti questa differenziazione, apparentemente chiara è assai superficiale.

Ecco cosa dice Husserl: «Non ci possono bastare i significati ravvivati da intuizioni lontane e confuse, da intuizioni indirette – quando sono almeno intuizioni. Noi vogliamo tornare alle “cose stesse”. Vogliamo rendere evidente, sulla base di intuizioni pienamente sviluppate, che proprio ciò che è nell’astrazione attualmente effettuata è veramente e realmente corrispondente al significato delle parole nell’espressione della legge; e, dal punto di vista della praxis della conoscenza, vogliamo suscitare in noi la capacità di mantenere i significati nella loro irremovibile identità, mediante una verifica, sufficientemente ripetuta, sulla base dell’intuizione riproducibile (oppure dell’effettuazione intuitiva dell’astrazione). In questo modo, portando alla luce i significati variabili, che uno stesso termine logico assume in contesti enunciativi diversi, ci convinciamo appunto dell’esistenza dell’equivocazione; diventa per noi evidente che ciò che la parola significa in questo o in quel luogo trova il suo riempimento in formazioni o momenti sostanzialmente diversi dell’intuizione, cioè in concetti generali essenzialmente differenti, specificando i concetti confusi e modificando opportunamente la terminologia, otteniamo allora anche la desiderata “chiarezza e distinzione” delle proposizioni logiche.

«La fenomenologia dei vissuti logici ha lo scopo di farci comprendere descrittivamente (non, per esempio, da un punto di vista empirico-psicologico) questi vissuti psichici e il senso insito in essi, in modo abbastanza approfondito da consentirci di dare significati determinati a tutti i concetti logici fondamentali – significati cioè che, dopo essere stati chiariti ricorrendo a un esame analitico dei nessi essenziali tra intenzione significante e riempimento del significato, siano a un tempo comprensibili e certi nella loro possibile funzione conoscitiva; in breve: significati rispondenti all’interesse della stessa logica pura, e anzitutto all’interesse di una vera comprensione critico-conoscitiva dell’essenza di questa disciplina. I concetti logici e noetici fondamentali non sono stati finora completamente chiariti; essi sono accompagnati da numerosi sensi equivoci, tanto dannosi e tanto difficili da accettare e quindi da tenere distinti, che proprio qui è da ricercare la causa principale dello stato di arretratezza in cui si trovano la logica pura e la teoria della conoscenza». (Ricerche logiche [1900-1901], tr. it., Milano 1968, pp. 82-83). Quale verifica vuole effettuare Husserl? Quella del fondamento empirico. Difatti, solo un discorso che logicamente non ha senso può essere provato empiricamente, quindi acquistare un senso logico a posteriori. La verità di fatto verrebbe in questo modo a sopperire alle limitazioni della verità di ragione, kantianamente la sintesi soccorrerebbe l’analisi. La tesi di Husserl è sostenibile in quanto non c’è omogeneità tra verità di fatto e verità di ragione, mentre per Hegel il movimento che le distingue appartiene allo spirito che si oggettiva nella natura e da qui torna come verità. Ma come si fa a esprimere le verità di fatto? Per Hegel ciò avviene grazie alla comprensibilità fornita dallo spirito del tempo, cioè dalla realtà in cui viviamo. Per Husserl il ragionamento non è diverso in quanto il tentativo di nominarle nella specificazione empirica è fatto con il linguaggio e questo è nel tempo.

«Dobbiamo peraltro ammettere – continua Husserl – che molte distinzioni e delimitazioni concettuali della sfera puramente logica giungono all’evidenza nell’atteggiamento naturale, quindi senza analisi fenomenologica. Mentre si effettuano i corrispondenti atti logici adeguandosi all’intuizione che opera il riempimento, non si riflette sulla stessa situazione fenomenologica, ma si può anche confondere l’evidenza più piena, dare una falsa interpretazione di ciò che essa coglie, rifiutare le sue scelte più sicure. In particolare, esige un’indagine chiarificatrice la tendenza (per nulla accidentale) della riflessione filosofica a scambiare inavvertitamente l’atteggiamento obiettivo con quello psicologico e a fondere insieme le loro datità – che debbono essere tenute distinte in linea di principio, per quanto siano correlative in rapporto al loro statuto essenziale – con la conseguenza che, nell’interpretazione delle obiettività logiche, ci si lascia fuorviare dai fraintendimenti psicologistici. Per loro natura, queste chiarificazioni possono essere date soltanto da una teoria fenomenologica dei vissuti del pensiero e della conoscenza, che consideri costantemente l’oggetto intenzionato che a essi inerisce per essenza (esattamente nei modi in cui “si manifesta”, “si presenta”, ecc., come tale in essi). Solo da una fenomenologia pura, che è tutto meno che psicologia intesa come scienza empirica delle proprietà e degli stati psichici delle realtà animali, lo psicologismo può essere radicalmente superato. Solo essa offre anche nella nostra sfera tutti i presupposti per una definitiva e sufficiente determinazione di tutte le evidenze e i concetti fondamentali puramente logici. Solo essa dissipa la parvenza inevitabile, proprio perché sorge per motivi essenziali, che ci induce a interpretare l’obiettività logica come qualcosa di psicologico». (Ib., pp. 83-84). Il punto è quello di trovare il linguaggio fenomenologicamente adeguato. Ogni discorso logicamente fondato non prova nulla a causa della propria tautologia. Il tentativo di Husserl è uno sforzo umanistico di rifondare il mondo partendo da una operazione semplicemente mentale, decontestualizzando le cose, mettendo tra parentesi la realtà. Si tratta di un tentativo di liberarsi della condanna al silenzio – implicita in Hegel –, di andare oltre lo storicismo, di ricostruire un umanesimo modesto ma superbo, destinato a un lavoro di secondo piano, e proprio per questo orgoglioso della propria scelta.

Ancora Husserl: «Le motivazioni or ora discusse dell’analisi fenomenologica sono essenzialmente collegate, come si può facilmente constatare, con quelle che sorgono dai problemi gnoseologici fondamentali e più generali. Infatti, se intendiamo questi problemi nella loro massima generalità – quindi, evidentemente in una generalità “formale”, che fa astrazione da qualsiasi “materia conoscitiva” – essi sono da annoverare tra i problemi concernenti la chiarificazione dell’idea di una logica pura. Il fatto che ogni attività del pensiero e del conoscere sia diretta su oggetti oppure su stati di cose, che essa può cogliere in modo tale che il loro “essere in sé” si manifesti come unità identificabile nella molteplicità degli atti reali o possibili del pensiero, ovvero degli atti significanti; inoltre il fatto che a ogni pensiero sia propria una forma, sottoposta a leggi ideali che definiscono in generale l’obiettività o l’idealità della conoscenza – tutto ciò solleva continuamente questi interrogativi: in che modo dobbiamo intendere il fatto che l’ “in sé” dell’obiettività giunge a “rappresentazione”, anzi ad “apprensione” nella conoscenza, ridiventando così soggettivo; che cosa significa che l’oggetto sia “dato in sé” e nella conoscenza; come può l’idealità del generale, in quanto concetto o legge, presentarsi nel flusso dei vissuti psichici reali e diventare possesso conoscitivo del soggetto pensante; che cosa significa, in rapporto alla conoscenza, l’adaequatio rei ac intellectus, nei casi diversi, quando l’apprendere conoscitivo concerne qualcosa di individuale oppure di generale, un fatto o una legge, ecc. È chiaro comunque che tali questioni e altre analoghe sono assolutamente inseparabili da quelle tendenti a illuminare l’àmbito della logica pura, a cui si è in precedenza accennato. Il compito di chiarificare le idee logiche, come concetto e oggetto, verità e proposizione, fatto e legge, ecc., conduce inevitabilmente agli stessi problemi: i quali dovrebbero peraltro essere affrontati già per il fatto che, altrimenti, resterebbe oscura l’essenza della stessa chiarificazione a cui tendono le analisi fenomenologiche». (Ib., pp. 85-86). Hegel lavora alla costruzione del mondo, Husserl alla sua descrizione. Quest’ultimo compito potrebbe essere considerato un presupposto logico del primo, ma non lo è, i due movimenti divergono. In fondo le “cose stesse” non appartengono all’uomo se non sotto la derubricazione produttiva, cioè grazie alla loro modificazione in oggetti resi comprensibili. Saltando questa fase ci si ritrova in condizioni che sono soltanto ipotetiche, prive cioè di compenetrazione di fondo. La coscienza può essere raffreddata in distinzioni non più ragionevoli anche se allungabili ancora una volta fino a raccordarsi con i legami produttivi. Questo passaggio indietro è presente in Hegel ma scompare subito nel procedimento dialettico, cioè nel meccanismo che riporta il lussureggiare dell’esperienza nella “superiore” condizione sovraccarica della totalità. In Husserl, invece, ogni elemento descrittivo ripropone se stesso all’infinito allo scopo di realizzare quella chimera che in Hegel è vista come pena e cattività. L’insistenza sui particolari cerca in Husserl di sfuggire al sempre incombente psicologismo e, di fatto, questo allungamento descrittivo produce una sorta di “rigonfiamento” delle “cose stesse”, non una penetrazione più attenta (una penetrazione totale è evidentemente una contraddizione in termini). L’asse centrale di questa descrizione è sempre la sospensione del giudizio, l’affinamento dello strumento analitico, la sua emancipazione da ogni caparra psicologica. Ma l’incalzare delle angolazioni, il pervenire a uno stato di eccitazione precisamente di strati conoscitivi mai toccati in precedenza, l’universalizzazione gratuita di certi passaggi (dal dire al fare e viceversa), non sono in grado di costituire una garanzia di logicità. Difatti le strade delle eredità husserliane si sono dirette verso altre mete, anche se il metodo di fondo si prestava a uno sviluppo diverso che non può essere considerato un vero e proprio tradimento. La cosa in se stessa resta, com’è naturale, remota (inesistente al cospetto di qualunque sospensione che non è mai conformazione fisica azzerante), anche se qui pretende aspirare allo statuto di “in sé” di “stato di cose” o di “oggetto”. Stato mai precisato da Husserl come elemento produttivo e prodotto stesso del mondo.

Non ultimo elemento critico, la descrizione husserliana è interamente fondata sull’opposizione dialettica tra il senso e la presenza. A seconda che si spinga la filosofia di Husserl (ma l’opera è illegittima comunque) a sottolineare l’uno o l’altra si può considerarla come un idealismo o come un realismo.

È chiaro che l’atteggiamento del soggetto nei confronti di ciò che per lui è un oggetto è suscettibile di assumere modalità molto diverse, perfino opposte. Vi è, col linguaggio fenomenologico, una variazione nell’intenzionalità della coscienza. In pratica un primo carattere del senso è quello di svilupparsi senza sosta con le sue sole forze, per cui la posizione della coscienza in merito a ciò che si potrebbe chiamare il divenire del significato è estremamente ambigua. Essa è nello stesso tempo costituente e testimone.

Allo stesso modo che in Hegel la coscienza appare come il testimone di un processo che si svolge in essa, che essa non può dominare ma che, tuttavia, aspetta da essa la sua realizzazione. Questo mistero di una coscienza agente e agita nello stesso tempo è fondamentale nelle due fenomenologie. Ecco come si esprime Hegel nella Conclusione alle Lezioni sulla storia della filosofia [1816-1830]: «L’attuale punto di vista della filosofia è che l’idea sia conosciuta nella sua necessità; che ciascuno dei lati in cui essa si dirime, natura e spirito, sia considerato rappresentare la totalità di essa idea, non soltanto come identico in sé, ma anche come quello che produce dal proprio seno medesimo quest’unica identità; e che quest’ultima quindi sia conosciuta come necessaria. Natura e mondo spirituale, cioè storia, sono le due realtà; quel ch’è come natura reale, è immagine della ragione divina; le forme della ragione autocoscienza sono anche forme della natura. L’ultimo fine e interesse della filosofia è conciliare il pensiero, il concetto, con la realtà. È facile trovare l’appagamento in altri punti di vista subordinati, come quelli dell’intuizione, del sentimento, ecc. Ma quanto più profondamente lo spirito si è addentrato in se stesso, tanto più forte è l’opposizione, tanto più vasta la ricchezza all’esterno; la profondità va misurata dalla grandezza del bisogno con cui esso cerca verso il di fuori, per trovarvisi». (Vol. III, t. II, tr. it., Firenze 1964, p. 410). Subito evidente qui l’indirizzo indiviso e inesauribile di Hegel. Non un rifiuto delle condizioni particolari (anche morbosamente tali), ma la loro raccolta in un àmbito più duro, in quello zoccolo di esistenza privo di ritmi e di dubbi (nessuna oscillazione, nessun movimento imprevedibile) che consente la storia, il crogiolo di animali, piante, uomini, pietre, un tutto inesauribile produttore di significati. Queste misure non sono state condotte al di là di una sempre possibile schematizzazione. Si è preferito vedere solo una contraddizione alla volta, evitando perfino di mettere in discussione la possibilità stessa di una contraddizione così delineata in maniera troppo netta. Collocando l’attenzione verso la terra, come ha fatto il materialismo storico, si è abbandonato il cielo (e questo abbandono è stato molto positivo, fino a un certo punto), ma poi non si è andati avanti nella ricerca concreta di tutto quello che verso la terra era possibile individuare. Si è potuto così scoprire che il potere non è tanto separato da chi lo subisce e che questo legame si può anche rafforzare in una sorta di collaborazione tra due opposti che mette in cattiva luce qualsiasi soluzione possibile (di natura radicale) in base alla considerazione della semplice contraddizione. Un labirinto di direzioni sembra attraversare il reale, la nettezza di una volta si è rivelata soltanto un modello per facilitare le cose, modello che è riuscito soltanto a imbrogliarle.

Secondo Husserl del periodo classico il significato ha valore di conoscenza e di verità solo se è riempito. È la presenza che ha la facoltà di riempire. Ma come può una presenza riempire un senso? La proposta di Jean-Paul Sartre non appare convincente: «Come potremmo concepire la forma negativa del giudizio, se tutto fosse pienezza di essere e positività? Se vi è dappertutto essere, non è solamente il nulla che è inconcepibile: dall’essere non deriverà mai la negazione. La condizione che rende possibile dire non è che il non-essere sia una presenza perpetua, in noi e fuori di noi, è che il nulla affetti l’essere». (L’être et le néant [1943], Paris 1950, pp. 46-47). In altre parole, ciò non è possibile che con un cambiamento d’intenzionalità nei confronti del senso stesso. Quindi o la presenza non riempie niente o essa è ancora un senso ma mirato in maniera differente. Quindi, cercando di sapere che cosa caratterizza un “senso presente” si è rimandati verso un certo atteggiamento della coscienza al quale del resto corrisponde una modificazione dell’oggetto. Più avanti lo stesso Sartre: «Il conoscere ha per ideale l’essere ciò-che si conosce e per struttura originale il non essere ciò-che-è-conosciuto. Mondanità, spazialità, ecc., non fanno che esprimere questo non essere. Così io mi ritrovo dappertutto fra me e l’essere come il niente che non è l’essere. Il mondo è umano. È chiara la posizione tutta particolare della coscienza: l’essere è dappertutto, contro me, intorno a me, pesa su di me, mi assedia, ed io sono perennemente rinviato, di essere in essere. Voglio cogliere questo essere e non trovo che me. Sta di fatto che la conoscenza, intermediaria fra l’essere e il non essere, mi rinvia all’essere assoluto, se io la voglio soggettiva, e mi rinvia a me stesso quando io credo di cogliere l’assoluto. Il senso stesso della conoscenza è ciò che esso non è e non è ciò che esso è, perché, per conoscere l’essere com’è, bisognerebbe essere quest’essere, ma non vi è un com’è se non perché io non sono l’essere che conosco, e se io lo divenissi, il com’è svanirebbe e non potrebbe più essere pensato. La conoscenza ci mette in presenza dell’assoluto e vi è una verità della conoscenza. Ma questa verità, benché non ci scopra niente di più e niente di meno dell’assoluto, rimane strettamente umana». (Ib., pp. 269 270). Conclusione: una opposizione pura e semplice del senso e della presenza è insostenibile. La presenza è un significato concepito diversamente dal significato non presente o semplicemente mirato. In altre parole si può dire che l’esistenza stessa è un senso e non ciò che si limita a riempire un senso.

Ora questa verità è al centro della fenomenologia hegeliana. Essa ci insegna che un semplice mettere in presenza la coscienza e il suo oggetto, è totalmente inaccettabile. L’esperienza non è una via della coscienza riguardo alle cose, essa è divenire della coscienza nelle cose. Per Hegel l’antropologia fenomenologica è una fenomenologia dello spirito, cioè il divenire della coscienza nell’uomo e il divenire dell’uomo nel mondo non possono essere concepiti che come realizzazione di una totalità assoluta.

Un ultimo problema: la situazione del fenomenologo nei confronti della sua descrizione.

Husserl sulle prime non ha rilevato questo problema pensando possibile che questa descrizione sia come quella di uno spettatore non in causa, mentre al contrario questo non è possibile. In Hegel, proprio perché la Fenomenologia dello Spirito tende coscientemente verso la costituzione di una totalità assoluta, i problemi che derivano dalla posizione del fenomenologo non sono persi di vista.

In definitiva, ogni fenomenologia presuppone un fenomenologo che la sappia più lunga dell’io o della coscienza che egli descrive. Ma che cosa significa questo sopra-sapere? Quale è la sua legittimità? Infatti la descrizione fenomenologica è orientata da un sapere e da un’esperienza che non sono quelli che descrive. La coscienza non la si mette tra parentesi tanto facilmente, nemmeno la coscienza fenomenologica. La razionalità tende a egemonizzare la realtà, chiede, spesso drammaticamente, un indice di orientamento, un riferimento che la porti in un altrove capace di dare risposte migliori alle sofferenze e alle inquietudini. Esistono controspinte che minacciano continuamente la “pace” fittizia di una messa tra parentesi, che chiedono una prospettiva più giusta a rischio di radicali dispersioni. Non rispondendo a queste istanze si attuano rigetti incontrollabili che inquinano il risultato della descrizione fenomenologica, che consegnano i risultati a una nuova prospettiva di potere. Una nuova razionalità, questa volta più forte, sopravviene ad azzerare qualsiasi risultato ottenuto, con santa pace di ogni asettico tentativo fenomenologico.

Nel primo Husserl esiste la pretesa di descrivere una soggettività che non è ancora positivamente intersoggettiva. Ma queste descrizioni non possono compiersi senza il linguaggio che per sua natura è fenomeno di competenza dello strato intersoggettivo dell’esperienza. Un filosofo classico risponderebbe che l’esperienza da descrivere è compiuta e finita in se stessa prima di essere tradotta nel linguaggio. Ma una filosofia dell’intenzionalità che lotta contro l’illusione d’immanenza non può ammettere l’esistenza di una esperienza giunta senza l’intervento del linguaggio alla sua piena realtà. Con la qual cosa si vede che la nozione di una fenomenologia che non supponga assolutamente niente al suo inizio, idea cara a Husserl, è semplicemente mitica.

In effetti l’ultima evoluzione di Husserl mostra delle indicazioni utili in questo senso, qualcosa di simile a un ripensamento.

[1971], [1990]

IV Dialettica del pensato e dialettica del pensare

Il centro dell’idealismo hegeliano è il concetto di dialettica. Già nella dialettica di Platone le idee sono concepite come costituenti un sistema e Aristotele concede valore solo al discorso apofantico e enunciativo che richiede la sintesi dei concetti.

Ma in questa filosofia i concetti sono posti tra di loro in un mero rapporto come se fossero un prius e la relazione un posterius. Sarà Immanuel Kant a chiarire che la verità non si conquista attraverso la costruzione del pensiero che si modella sui rapporti del reale (come avevano riconosciuto le filosofie precedenti), ma attraverso la sintesi a priori che è categoria, quindi concetto, ma concetto trascendentale cioè concetto originario, concetto puro. Con altri mezzi logici, ma tenendo presente il problema nello svolgimento kantiano, Søren Kierkegaard: «Che il pensiero in sé abbia realtà, fu il presupposto di tutta la filosofia antica e medievale. Dal Kant questo presupposto fu messo in dubbio. Ora, se si ammette che la filosofia hegeliana abbia effettivamente condotto a fondo lo scetticismo del Kant (tuttavia pare che questo sia sempre un grosso problema, nonostante tutto quel che Hegel e la sua scuola, coll’aiuto dei termini “metodo” e “manifestazione”, hanno fatto per nascondere quanto lo Schelling, col termine “intuizione intellettuale” e “costruzione”, aveva confessato più apertamente; vale a dire che il loro fu un nuovo punto di partenza) e abbia così ricostruito, in una forma più alta, la teoria di modo che il pensiero ha realtà non in virtù di un presupposto; si può dire che la realtà del pensiero, consapevolmente costruita è una conciliazione? Allora la filosofia sarebbe portata soltanto fino a quel punto da dove nei tempi antichi si cominciò, quando appunto la conciliazione aveva la sua enorme importanza». (Il concetto dell’angoscia [1844], tr. it., Firenze 1942, pp. 11-12). In altri termini, siamo davanti allo stesso pensiero come atto del pensare, onde si costituire il pensato, non si tratta del concetto nel senso di concetto a se stante, ma concetto nel senso di concepire. Qui si sarebbe collocata l’interessante osservazione di Giovanni Gentile secondo la quale l’attualità del linguaggio è dimostrata dalla sua spontaneità. Ma la costituzione del pensato è pur sempre possibile grazie al linguaggio-oggetto, al linguaggio che viene fuori molteplice e articolato, non come atto unico e spontaneo. Il concetto è quindi un concepire inattuale che viene attualizzato nell’operazione del pensare. Quello che era inesprimibile viene espresso grazie alla reciproca collaborazione tra pensatore e linguaggio pensato. L’atto creativo, cioè il concetto concepito, resta inattuabile e non è attuato, ma in compenso viene fuori la sua espressione riflessa che Hegel suppone dialettica. Il discorso logico può essere così considerato linguaggio-oggetto. È facile capire come qui, ragionando a partire dall’atto gentiliano, si sacrifichi la spontaneità di quest’ultimo, che risulterebbe obbligato a scegliere il rapporto dialettico costituito dalla relazione tra l’atto e il fatto. Posta la dialettica, secondo gli schemi hegeliani, l’atto non è più creativo, sono i meccanismi che agiscono al suo posto e ne fanno un elemento di costruzione, uno strumento.

Se per dialettica dunque s’intende la scienza della relazione si può affermare che la dialettica antica, quella di Platone, è la dialettica del pensato, mentre quella nuova, affermata dalla dottrina kantiana delle categorie, è la dialettica del pensare. La prima è la dialettica della morte, la seconda quella della vita. Ma le cose non stanno propriamente in questo modo sistematico. C’è nel “manifestarsi” hegeliano un fondo compatto, assolutamente intuitivo, che ricorda più del dovuto l’ “intuizione intellettuale” e le risposte date da Schelling al meccanismo dell’ignoto. Il risparmio di fatica non appartiene a questi due filosofi, eppure qualche riflesso di questo canone pragmatico si affaccia e continua nel processo, dato che di tutte le speranze e i dolori umani è come se nulla accada. Hegel preferisce non lottare con la realtà, l’aspetta al varco, quindi non è filosofo della specificazione. Ci vorrebbe troppo tempo e troppa pazienza, egli preferisce muovere verso l’assoluto con un sol colpo. Nel suo pensiero questo aspetto è sottinteso, viene alla luce raramente ma illumina con tenacia tutte le sue considerazioni. Negli hegeliani diventa fortissima passione dominante e come tale procura tanto fastidio. Con precisione, Max Scheler: «Anche Kant presuppone tacitamente che i valori vitali si possano ridurre a quelli edonistici, in quanto pensa che tutti i valori si possano suddividere in “buono-cattivo” e “gradevole-sgradevole”. Ora, se questo non è lecito per il “benessere”, tanto meno lo sarà per il “nobile”. Ma la vera ragione, per che venne trascurata la particolare natura di questa modalità, è il misconoscimento del dato di fatto, che la vita è una “essenza pura”, e non empirico concetto di specie, abbracciante soltanto le caratteristiche comuni agli organismi terrestri. Non possiamo però addentrarci in questo tema. Si distingue dai valori vitali, come una nuova unità modale, il campo dei valori spirituali. Già nel modo di darsi, rivelano la loro indipendenza e il netto distacco dalla sfera corporea e naturale. La loro distinta unità modale è provata anche dal fatto evidente che, per raggiungerli, bisogna sacrificare i valori vitali. Gli atti e le funzioni, in cui li apprendiamo, sono funzioni del sentire “spirituale”, e atti del preferire, dell’amare e dell’odiare “spirituali”, che si staccano dagli omonimi atti e funzioni “vitali” tanto sul piano della fenomenologia pura, quanto per le loro intrinseche leggi, irriducibili a qualunque legge biologica». (Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori [1913-1916], tr. it., Milano 1943, p. 105). L’essenza pura della vita, ammesso che Scheler si sia a essa avvicinato, non ammette distinzioni, nemmeno quelle dei valori, mentre potrebbe avere una spiegazione globale, impregnarsi di totalità, arrivando a farci avvertire qualcosa della nuda ossatura del suo ineluttabile dispiegarsi. Per contrasto la distinzione è inevitabile per capire e per capirci. La polarizzazione dei saperi è una delle caratteristiche del dominio moderno, e quest’ultimo corrisponde a un impadronimento delle varie tassonomie in maniera contraddittoria. Ogni definizione è lasciata aperta e quindi in grado di assumere al proprio interno infinite variabili, tutte opportunamente ragionevoli. Il richiamo all’unità è messo tra le righe, abbandonato o è diventato orpello di qualche isolato barbagianni universitario. Per un altro aspetto, nelle varie distinzioni, viene a mancare anche la continuità contraddittoria che una volta avevamo tanta cura a sottolineare. Il potere si è decentrato o sta abolendo definitivamente il proprio centro, sviluppa conflitti che sono privi di modulazioni soggettive, variabili che giocano ruoli rilevanti come se fossero componenti oggettive della realtà. La vita è diventata un gioco di immagini, di riflessi distorti, di microdimensioni modellistiche, di comportamenti individuali mimati su ideali assorbiti soltanto di riflesso. Colpisce paurosamente l’intervallo vuoto che si è venuto a collocare tra le varie istanze etiche, la velocizzazione delle scelte, la loro standardizzazione. Basta una semplice apparizione e subito questa è sostanziata di realtà, esaltata nel fatto che la produce, che la carica di concretezza e riferimento. Uno spostamento di immagine e l’identità vaga di prima, diventata solida e forte, si trasferisce dapprima vagamente e poi in maniera sempre più concreta in un’altra identità. Così nascono le identificazioni fisse, la nuova strategia dei valori, il segno certo di riferimento soggettivo.

Ogni forma di oggettivismo ristagna in una realtà già realizzata. La dialettica del pensare, invece, non conosce mondo che già sia, che sarebbe un pensato, non suppone realtà al di là della conoscenza. Da ciò tutto quello che è è in virtù del pensare e il pensare in questo modo non è più una postuma, e inutile, fatica che intervenga quando non c’è più nulla da fare al mondo, ma è anzi la stessa cosmogonia. Ecco Hegel: «La forma concreta del pensare, che qui dobbiamo considerare per sé, si manifesta in generale come soggettiva con la riflessione dell’essere in se stesso, sicché essa si oppone in generale all’essere; e l’interesse è poi allora la conciliazione di questa opposizione nella sua suprema esistenza, vale a dire negli estremi più astratti. Questo supremo sdoppiamento è la opposizione fra pensare ed essere: comprendere la loro unità costituisce di qui innanzi l’interesse di tutte le filosofie». (Lezioni sulla storia della filosofia [1816-1830], tr. it., vol. III, t. II, Firenze 1964, p. 4). La storia del pensiero pertanto nella nuova dialettica diventa processo del reale e il processo del reale non è più concepibile se non come storia del pensiero. Il mondo procede nel modo hegeliano, è questa la prima conclusione a cui arriva qualsiasi lettore di Hegel, anche il più smagato. Le singole realtà non aspettano che il mondo proceda per loro, anche quando non si riconoscono in questo procedere, esse sono oggetto del movimento della storia. Ogni dogmatismo separato nega se stesso negando la vita, e la vita lo penalizza riportandolo a forza nel processo da cui vorrebbe star fuori. Ho messo fatica a liberarmi di questo movimento. Saltare altrove è, appunto, qualcosa di diverso. La nuova realtà non può essere capita ricorrendo meramente alle condizioni di Hegel. Ciò non vuol dire che queste si possano ignorare. Il principio dell’agire è ancora fra noi, continuamente collegato ai meccanismi rigidi della produzione, ma non accetta di essere catalogato. Gli anni a venire penso che confermeranno sempre di più la caduta libera di ogni pretesa hegeliana (e marxiana) di “spiegare” il mondo. Non c’è più nessun “superamento” che possa far considerare “compiuta” la storia. Altri atteggiamenti richiede la materia che ci sovrasta, lo scontro che ci aspetta. Altre sensibilità, ma queste non saranno mai del tutto separate dal nostro passato. Una comunità di fantasmi non si può allevare se non selettivamente. La possibile catastrofe che il destino ci riserva, no.

Ecco Giovanni Gentile: «Tra le due dialettiche [quella del pensato e quella del pensare] c’è un abisso: l’abisso che divide l’idealismo moderno dall’antico. Infatti, il presupposto fondamentale della prima è la realtà o verità tutta ad aeterno determinata; in modo che non sia più concepibile una determinazione nuova, come determinazione attuale della realtà. Il progresso della scienza (e tutta, in generale, la vita del mondo), in tal presupposto, non può essere se non il vano sogno di un’ombra: un dileguarsi apparente di vane apparenze senza consistenza e senza significato nell’immutabile scena del mondo in un teatro deserto. Come trovare nel platonismo la spiegazione del nascere delle anime e del mondo in tutte le sue infinite varietà? Poste le idee nelle loro immanenti relazioni, tutto ciò che per avventura accada, e magari la stessa umana dialettica, che dalle ombre del carcere mondano si sollevi alla contemplazione del vivo sole del Bene o dell’Uno, non può né anche raffigurarsi nella più lieve increspatura di un oceano immensurabile eternamente quieto. Posto lo stesso fuoco eternamente vivo di Eraclito, e l’eterno fluire e la guerra madre di tutte le cose, poiché tutto ciò è un mondo pensato, e però pensabile, eternamente pensabile, e però già ab aeterno determinato, quel fuoco brucerà quanto un fuoco dipinto; poiché, se bruciasse davvero, la combustione importerebbe una novità, un’assoluta novità, che è esclusa dal concetto della realtà ab aeterno determinata. Posti gli atomi col loro eterno cadere o quel qualunque movimento che spetti loro ab aeterno, non è possibile più accadimento che sia vero accadimento, come alcunché di nuovo che muti l’essenza della realtà. Ogni sorta di oggettivismo ristagna in questa morta gora di una realtà già realizzata». (La riforma della dialettica hegeliana [1913], Firenze 1975, p. 6). L’interpretazione gentiliana qui è palesemente forzata. C’è nel pensato qualcosa di più della semplice morte della vita, c’è un impulso soverchiante, un desiderio mai conchiuso che si diffonde ampiamente nel movimento del pensiero e fornisce al movimento in questione la forza di non cancellarsi nell’equivalenza tra pensiero e pensato. La classificazione è di certo un pensato e questo la rende nello stesso momento necessaria e coattamente riproducibile, ma non è negandola che si esce dal semplice fare. Ogni strumento può dare frutti insoliti, ma questi per fruttificare devono essere coltivati altrove.

Ancora Gentile: «La dialettica, invece, del pensare non conosce mondo che già sia; che sarebbe un pensato; non suppone realtà, di là dalla conoscenza, e di cui toccherebbe a questa d’impossessarsi; perché sa, come ha dimostrato Kant, che tutto ciò che si può pensare della realtà (il pensabile, i concetti dell’esperienza) presuppone l’atto stesso del pensare. E in questo atto vede perciò la radice di tutto. In guisa che tutto quello che è è in virtù del pensare: e il pensare così non è più postuma e vana fatica, che intervenga quando non c’è più nulla da fare nel mondo, anzi è la stessa cosmogonia. La storia del pensiero pertanto nella nuova dialettica diventa il processo del reale, e il processo del reale non è più concepibile se non come la storia del pensiero. L’uomo antico si sentiva malinconicamente diviso dalla realtà, da Dio: l’uomo moderno sente in sé Dio, e celebra nella potenza dello spirito la divinità essenziale del mondo». (Ib., p. 7). Naturalmente non è proprio in questa distinzione la totalità del problema. Kant l’aveva spiegato più attentamente. Secondo lui l’idea della serie completa delle condizioni (mondo) rivela la sua illegittimità dando luogo ad affermazioni antitetiche, tutte dimostrabili. Le antinomie della ragione pura sono quindi: finità e infinità del mondo, divisibilità continua o interrotta, causalità libera o non libera, esistenza di un essere necessario come causa del mondo e sua inesistenza. Il difetto è nella stessa idea del mondo, la quale essendo al di là di ogni esperienza possibile, rimane inconoscibile e perciò non può fornire un criterio di scelta. Questa illegittimità è evidente se si osserva che le tesi presentano un concetto troppo piccolo per l’intelletto (dogmatismo) e le antitesi uno troppo grande (scetticismo).

Il problema della deduzione delle categorie. Hegel ha messo piede su di un terreno fermo: la realtà è lo stesso pensiero e il vero, il solo reale concetto è lo stesso concepire oppure, come dice nella Fenomenologia [1807], tutto il sapere si risolve nel sapere assoluto, cioè nell’idea. «La riduzione degli individui a marionette, innegabile presso Hegel, in Croce svanisce insieme al teleologismo che implicava un sistema aprioristico dei valori culminante nello Stato e nello Spirito assoluto e la tensione del Tutto verso una assoluta realizzazione definitiva. Per Hegel la pienezza si realizza alla fine, per Croce in ogni momento. Secondo Croce ha valore solamente il contingente orizzonte spirituale (che individualizza l’Assoluto) della coscienza finita che diviene e perpetuamente muta. Questa concezione è molto simile a quella dell’Umanità di Feuerbach e perciò, appunto come Feuerbach, anche il Croce lotta contro il mito cristiano ed il dualismo platonico: solamente egli accentua più fortemente il contenuto religioso idealistico di questa, se così può dirsi, momentaneità dell’Assoluto. Si tratta della più radicale dottrina dell’immanenza, fondamentalmente molto affine al positivismo col suo culto dei fatti». (E. Troeltsch, Der Historismus und seine Problems, Tübingen 1922, p. 617). Il completamento hegeliano (indispensabile alla sua dialettica) non può essere accettato. La fine della storia si è rivelata una banale storia della fine, storia infinita come tutte le altre. Nessuna astuzia o insidia può provocare il risolvimento individuato e descritto (momento parziale) da Hegel. Meglio Kant nell’affrontare il modello della sua “teologia razionale”. Nell’andare avanti, diritto verso il suo fine conclusivo (Hegel), a un certo punto sembrerebbe profilarsi un ostacolo. Non una vera e propria interruzione ma una sorta di “rovesciamento”. Quello che doveva oggettivarsi come spirito, e qui definitivamente concludersi, sembra sprofondare in un se stesso soggettivo che continua a generarsi da sé. La soppressione non avviene correttamente, quello che è possibile osservare è che lo spirito continua a disumanizzarsi all’infinito, come precipitato in se stesso, in un circolo vizioso privo di possibile fine. Non c’è un momento della genesi di questo nuovo processo, ma questa genesi si compie man mano che il movimento si realizza, non si va da un punto all’altro, ma si viaggia senza moto in un nuovo universo senza spazio. Il “togliere” hegeliano definitivo non si manifesta, mentre dal suo rovesciamento, almeno per quel che appare, sembra venire fuori in continuazione un mondo disposto a perpetuare solamente se stesso in un ritardo che annichila qualsiasi individualità.

La scienza dell’idea è per Hegel la scienza della relazione della sintesi, o più chiaramente dell’attività sintetica e relativa: scienza del pensiero, ma non come pensato, sebbene come pensare. La sua idea è unità di essere e essenza.

Gli sforzi di Hegel sono infatti diretti a penetrare nell’intero processo con cui si realizza questa unità, non come pensato ma come pensare o categoria.

La deduzione delle categorie per Kant aveva avuto un fondamento empirico ricavato dall’analisi delle forme dei giudizi offerte dall’esperienza. In Fichte aveva avuto una deduzione a priori veramente sistematica. Hegel si pone su questa strada, cercando di superare la molteplicità e l’unità insieme delle categorie con lo stringere la molteplicità nella triade dell’idea, che è lo stesso pensiero. Il nostro radicamento nel processo ci impedisce di fermarlo schematicamente, di staccarlo o separarlo da noi, di specificarlo in momenti successivi. Siamo noi la funzione del processo, il nostro allontanamento lo azzererebbe. A priori non possiamo stabilire in che modo si consolida il rapporto tra la percezione sensoriale e la soggettività logica dell’analisi. Fissare il dato in una teoria è un movimento intuitivo, una funzione cieca (per usare le parole di Kant).

Se in pratica Hegel numera le categorie, con la stessa sua legge dialettica ne annulla il numero in forza di quel superamento o dell’idealità immanente nel reale, per cui tutta la molteplicità delle categorie hegeliane si risolve nella concreta categoria dell’idea assoluta cioè dell’assoluta unità. Per Kant il movimento delle categorie è un’arte nascosta nel profondo dell’anima, il cui senso non è mai del tutto comprensibile, anche se la natura lo possiede per intero. Hegel non si pone il problema, egli “salta” nella cosa e azzera la distinzione delle categorie.

Però il processo dialettico non è moltiplicabile dal punto di vista trascendentale ma solo dal punto di vista empirico, per cui deve necessariamente trasformarsi da processo del pensare in processo del pensato. Nel momento della conoscenza, nel suo disporsi come processo, viene fuori una forma emergente, non ancora completa nei suoi aspetti empirici, una forma che si riallaccia al passato. L’idea hegeliana si avvicina a questa forma che propone l’essenza delle cose, ciò che l’essere era prima di venire sottoposto al processo in questione. Ma questa posizione si capovolge nel suo contrario, cioè nell’essere come sarà dopo che è stato ora e qui, tutto e subito, e ciò a causa del fatto che non è possibile collocarsi in un punto di arrivo da dove osservare il movimento di quello che “l’essere era” in quanto essenza. Il processo non è mai concluso, la nostra collocazione al suo interno ha lo scopo proprio di garantire la sua apertura, la sua costante apertura. L’essenza in Hegel è quindi ciò che può essere, la possibilità, cioè quello che sarà. La somma delle sue specificazioni non corrisponde mai con la totalità, c’è sempre qualcosa di meno nella ripartizione, qualcosa che va conquistato nella perdita, non nell’accumulazione progressiva. Conoscere è vivere questa unità del diviso nella specificazione che rinuncia a progredire senza per questo perdere di vista il mondo con le sue miserie e le sue parzialità.

Con più esattezza Gentile: «Questo processo dialettico, in cui la realtà è mediata, e però ha un’intrinseca idealità dentro di se stessa, ossia un momento già superato e conservato, questo processo, che è la concretezza o realizzazione dell’idea, non è moltiplicabile dal punto di vista trascendentale, ma solo dal punto di vista empirico o storico: e perché apparisca capace di ulteriori mediazioni, come avviene nella logica hegeliana, deve per avventura trasformarsi da processo del pensare in processo del pensato. Se noi diciamo idea questo pensare, il processo sarà essere, essenza (negazione dell’immediatezza dell’essere) e concetto (come concepire) o idea. Ma essere qui non è pensato, sì ideale momento dell’atto del pensare: come tale, non rappresenta un concetto astratto che, unito all’altro concetto dell’essenza egualmente astratto, dia, nella unità, il concetto concreto; è bensì un momento astratto dell’atto del pensare, che soltanto di qua da tale momento si consuma come atto; e, fissato perciò in quel momento, è un inizio di vita strozzato». (La riforma della dialettica hegeliana, op. cit., p. 9). Gentile cerca qui di pensare dialetticamente e non dialetticamente nello stesso tempo. Il suo scopo è quello di individuare il punto del rovesciamento del processo del pensare in processo del pensato.

Difatti conclude: «Per mediare questo momento, che, ripeto, non è un concetto, bisognerebbe esso stesso considerarlo come atto di pensare, che in certo modo primitivo ed elementare sia già consumato in sé. E ciò evidentemente non è possibile se non ad un patto: che si fissi l’astratto come fosse concreto. E fissare come concreto l’astratto è staccare, anche provvisoriamente, la parte dal tutto, in cui è la sua realtà. Ma, staccata che sia la parte dal tutto, la parte diventa tutto, e il processo della parte non può che essere identico al processo del tutto. L’essere della triade maggiore nella logica hegeliana si media dentro di sé, in quanto trova già in sé stesso una immediatezza e la negazione di questa immediatezza: un altro essere e un’altra essenza, di cui esso è idea: qualità, quantità, misura. E lo stesso può ripetersi per la qualità, che apparirà come essere per sé, unità di essere (un terzo essere) e di essere determinato; e lo stesso ancora per questo essere, che apparirà come divenire, ossia come unità di essere (un quarto essere) e di non-essere. Essere (puro essere), essere determinato, qualità, misura, per tal modo, riescono quattro gradi dell’essere, che soltanto nel quarto è perfetto come primo momento della maggiore triade (essere-essenza-concetto). Ma qual è la differenza tra il primo e il secondo grado? L’essere determinato è la mediazione dell’essere puro o indeterminato. Se non che questa è pure la differenza tra il secondo e il terzo, tra il terzo e il quarto, tra questo e, infine, il concetto. Sicché il concetto sarà il concetto della misura; ma la misura sarà il concetto della qualità, e la qualità il concetto dell’essere determinato, e l’essere determinato il concetto dell’indeterminato: ovvero (che sarà lo stesso) l’essere determinato, sarà il divenire del puro essere indeterminato, e la qualità il divenire dell’essere determinato, e la misura il divenire della qualità, e il concetto il divenire dell’essere come misura. E si chiami divenire o concetto (concepire, pensare), la risoluzione e concretezza dell’atto pensante o categoria, noi avremo sempre lo stesso processo (dialettico), variando solo i termini del rapporto: sempre il divenire di un certo essere o il concetto di una certa misura (= essere). Varia l’essere, e varia il divenire in funzione dell’essere. Il divenire nella sua dialetticità, in quella inquietezza (Unruhe), di cui parla Hegel, non muta, né può mutare». (Ib., p. 10). Non è possibile nessun distacco. La dialettica che pone e confronta, assorbe e distingue, non regge alla luce critica della totalità. Gentile lo sapeva benissimo, ed è qui il suo fascino nei confronti dei “distinti” crociani, troppo modestamente diretti a differenziare con cavillosa logica. Nel ragionamento gentiliano non c’è un rituale moderno caratteristico delle vuote esperienze positiviste o empiriste in generale, in esso si perpetua e aleggia l’antico spirito dell’unità. Il superamento classico qui viene riformato sotto l’aspetto del paradosso. Il divenire non muta perché resta in sospeso nell’assenza di mutazione che riassume in sé ogni mutazione possibile, la rottura ritorna come ricomposizione. Il negativo resta speculare al positivo, connessi e interdipendenti dialetticamente i due momenti non possono prevaricarsi in nessun caso. Il rifiuto, una volta pensato, appartiene al positivo, salvo l’ipotesi di una critica capace di sprofondare in se stessa verso livelli non ancora conosciuti. Quanto più radicale è il contrasto tra la dialettica del pensato e quella del pensare, tanto più si conferma perentoriamente l’impossibilità del superamento. Per riconfermare l’essenza dello spirito oggettivo Gentile ha continuamente bisogno dell’atto creatore, qualcosa che fa uscire la realtà da se stessa senza soluzione di continuità. Tutto questo movimento è assolutamente eterogeneo alle condizioni dell’esistenza, alla produzione della quotidianità. La differenza è tanto estrema che non si è nemmeno in grado di formularla decentemente. Ogni apologia del negativo sembra impallidire sotto il sole cocente del positivo.

Il pensiero come categoria unica. Ma muta veramente l’essere? Il vecchio hegelismo con Hegel riteneva di sì. Il nuovo è convinto che il solo mutare dell’essere sia il divenire e questa è la caratteristica dell’idealismo attuale, perché insiste nel concetto dell’idea-atto. Nell’attualità della idea c’è l’indeterminato che è il divenire e il determinato che è il reale, l’atto del pensare, quest’ultimo ha superato e contiene in sé il primo.

L’attualismo non può ammettere una idealità, né una forma qualsiasi dell’essere che trascenda l’attualità del pensiero come pensare, e fa avvertire che ogni pensato (a esempio tutta la Logica hegeliana) è reale nell’atto unico del pensiero che la pensa, e soltanto lì ha la sua verità.

Il pensiero è uno e immoltiplicabile, e in questa unità è veramente infinito in quanto pensare. Il pensato è molteplice: ma il pensato, colto nella sua concretezza poiché esso è il pensato del pensare, ossia lo stesso pensiero nella sua concretezza (coscienza di sé), risolve tutta la sua molteplicità nell’unità del pensare. In questo modo tutti gli atti del pensiero, quando non si considerano come meri fatti, quando non si guardano dall’esterno, sono un atto solo. Per cui, insiste Gentile: «Si potrebbe dimostrare che dove, nella deduzione hegeliana, vedi il dialettismo, hai la vera inquietezza del pensare, e quindi l’unità immoltiplicabile perché infinita della categoria; e dove ti viene innanzi la differenza, il vario delle categorie, cessa infatti il dialettismo del pensare e risorge la finità morta del pensato, come nell’antica dialettica». (Ib., p. 14). Ma la finità è cosciente di sé, possiede il pensare nella sua sapienza della morte. Non accetta che il mondo sia sempre lo stesso, ne utilizza una parte ma propone il ventaglio delle possibilità non solo come astratta apertura teoretica, quanto come inveramento. La storia è il regno della specificazione proprio perché presenta il continuo verificarsi delle possibilità. Bisogna rendersi conto di ciò che accade nel mondo – ancora una volta la “fenomenologia” è strumento e guida – per poi migliorare le condizioni dell’esistenza, per fare respirare il corpo, per incrinare le mura della prigione, per interpretare i segnali della qualità. Il fondamento del carcere in cui ci troviamo non è ancora dato, è soltanto possibile, anche se noi ci stiamo dentro come se fosse quello che è o che era, l’essenza dell’essere. Pur restando legate alla quantità le strutture del mondo sono intenzionate verso la possibilità, cioè non sono mai complete, sono immaginate ricche di qualcosa che non posseggono ma che una volta immaginato agisce al loro interno con conseguenze ed effetti, che modifica gli schemi direzionali di produzione, che sviluppa le integrazioni processuali, ecc.

Il concetto hegeliano del divenire. Il problema del divenire come unità dell’essere e del non-essere è tutto il problema della dialettica. Il puro essere e il puro nulla sono pertanto lo stesso. La loro verità dunque è questo movimento dell’immediato sparire dell’uno nell’altro. Il divenire, un movimento in cui i due termini sono differenti ma di una differenza che si risolve del pari immediatamente. Ma, non concorda Kierkegaard: «Quando l’inizio con l’immediato si ottiene mediante la riflessione l’immediato deve avere un altro significato da quel che ha di solito. Lo stesso enunciato: “cominciare con nulla” è ingannatore, anche prescindendo dal suo rapporto all’atto infinito della astrazione. “Cominciare col nulla” non è infatti né più né meno che una nuova forma di esprimere la dialettica dell’inizio stesso. L’inizio è, e ancora esso non è, precisamente perché è l’inizio. Questo può anche essere espresso con la formula: l’inizio comincia con nulla. Questa non è che una nuova espressione con la quale non abbiamo fatto il minimo passo innanzi. Nel primo caso io penso l’inizio unicamente in abstracto, nell’altro caso io penso il rapporto dell’inizio egualmente astratto con qualcosa con cui si comincia e si vede benissimo che questo qualcosa, sì, l’unico qualcosa che corrisponde a un tal inizio, è nulla! Ma tutto questo non è che una perifrasi tautologica dell’altra proposizione: non c’è inizio». (Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia [1846], tr. it., vol. I, Bologna 1962, p. 311). Si tratta del mitico fondamento dell’esistenza, il significato riposto di ogni convincimento come risposta irriflessa della vita che circola in noi e alla quale non riusciamo a guardare con occhio spassionatamente oggettivo. Il possesso della forza vitale che ci spinge in avanti senza sosta poteva aprirci la strada a una considerazione inclusiva della realtà: essa in noi e noi in essa, la rivendicazione di un paradosso carico di immagini fantastiche, ma così non è mai stato. Viviamo in un’epoca priva di dignità e tutti – più o meno – ne siamo contagiati. La sollecitazione critica andava sottoposta ad approfondimento critico essa stessa, non accettata come la chiave che apre tutte le porte. Facendo altrimenti ci si è illusi di consegnare qualcosa di concreto allo svolgimento storico, qualcosa che rivalutasse la funzione dell’individuo nei confronti del meccanismo intrinseco, del meccanismo “forte” nascosto nella realtà. Solo che questa strada eterogenea al ruolo dominante dell’accumulo non poteva – se non per breve tempo e come illusione produttiva di effetti rivoluzionari – nascondere il riemergere dei valori negativamente criticati. La storia e la positività che la caratterizza recuperano questi valori in maniera rafforzata una volta che il dominio è in grado di assorbire quasi tutti gli spunti sovversivi. Il ruolo di salvaguardia svolto dal linguaggio non è ancora stato messo in luce fino in fondo.

In altri termini, avvertiva Hegel, l’identità mia non è l’esclusione della contraddizione, come quella di Aristotele, anzi l’include. Ma questa deduzione contravviene al proposito essenziale della dialettica hegeliana, infatti rende possibile quel concetto antidialettico per eccellenza della neutralizzazione del divenire nel divenuto: come l’essere svanisce nel non-essere, anche il divenire svanirebbe nella negazione del divenire.

Essere e niente sono il contrario ma hanno in comune il fatto di non avere alcuna determinazione, ma allora il principio della sintesi a priori che regge la logica hegeliana per cui non si unisce l’identico ma il diverso, viene tradito. Il risultato quindi afferma una differenza tra l’essere e il niente, ma solo come opinione. Così stringe sull’argomento Gentile: «Hegel voleva dire che la tesi [precedente] esprime il risultato di un processo che è risoluzione di una contraddizione, ossia immedesimazione di due termini differenti; e non esprime il processo in cui dovrebbe apparire anche questa differenza. Inoltre, egli badava a mettere sull’avviso circa la necessità di distinguere tra la forma imperfetta imposta da una riflessione estrinseca al processo dialettico, e la natura intrinseca di questo processo. Soggiungeva perciò questa osservazione generale: che “la proposizione, in forma di giudizio, non è adatta ad esprimere verità speculative, perché il giudizio è relazione identica tra soggetto e predicato, dove si astrae dal fatto che il soggetto ha più note del predicato, e questo è più esteso del soggetto. Ora, se il contenuto è speculativo, anche il non-identico del soggetto e del predicato è momento essenziale; ma questo nel giudizio non viene espresso”. [Logica [1812-1816], I, 85].

«Infine, quando si dice che essere e niente sono una cosa sola, questa unità, notava Hegel, ancor più dell’identità, esprime una riflessione soggettiva, quasi una relazione derivante da un confronto. Meglio sarebbe dire, che essere e niente sono inseparati e inseparabili, se così non si lasciasse inespresso il lato affermativo. Insomma, conchiudeva, il risultato della deduzione, il divenire, non è l’unilaterale ed astratta unità dell’essere e del niente; ma “consiste in questo movimento: che il puro essere è immediato e semplice, che perciò altrettanto immediato e semplice è il puro niente; che la differenza di esso è, ma è anche vero che si annulla (sich aufhebt) e non è. Il risultato, dunque, afferma anche la differenza dell’essere e del niente, ma come una differenza solo opinata”. [Ibidem]». (La riforma della dialettica hegeliana, op. cit., p. 19). Critica del concetto hegeliano del divenire. Nella dottrina hegeliana è chiaro che il divenire importa una differenza in fondo alla medesimezza di essere e niente; ma tutto si riduce a un’esigenza: essere e niente s’immedesimano, dunque erano diversi. Ma in che cosa consisteva questa differenza? Friedrich Adolf Trendelenburg dirà che la differenza non c’è e che quindi manca il principio dialettico, la contraddizione di cui parlava Hegel, il quale sentendo il bisogno della differenza e non potendo, analiticamente, dedurre il divenire se non dall’identità ricorse all’opinione della differenza. Ma che cosa è questa opinione? Essa è l’affermazione di qualcosa di ineffabile. Donde si possono fare due osservazioni: 1) Se l’opinione, per cui c’è la differenza non entra nell’attualità del processo logico del divenire perché forma della soggettività allora non si può parlare di differenza nelle categorie del divenire. Allora essere puro e puro niente, nella loro indeterminatezza, non si differenziano per cui cessa l’immedesimazione e svanisce la dialettica. 2) Se il terzo logico non è l’opinione, ma il divenire, il divenire presupporrà e supererà la differenza ma non potrà giovare a illuminarci circa il modo di soddisfare alla precedente esigenza.

Per cui, conclude Gentile: «Hegel, insomma, è giocoforza convenirne, ha l’intuizione vaga del divenire, non ne ha il concetto. E non si mette in condizione di possederlo, perché analizza questo concetto, invece di realizzarlo, come avrebbe dovuto, per pensarlo dialetticamente e conforme al principio dell’identità di essere e pensiero.

«Appunto perché Hegel affermò con gran vigore l’esigenza del concetto del divenire, senza riuscire egli stesso a determinarlo, il maggior problema, il più arduo, ch’egli legò a quelli che dopo di lui han conquistato o creduto di conquistare il suo punto di vista, è questo della schietta intelligenza delle prime categorie della logica, in cui deve ravvisarsi la natura dialettica del pensiero. Assai interessante riuscirebbe una storia accurata degli erramenti della scuola hegeliana intorno al concetto delle prime categorie logiche». (Ib., pp. 22-23). Per affrontare correttamente il concetto di divenire Hegel avrebbe dovuto aprire una parentesi non dialettica, quindi ripristinare in pieno la critica di Kant. Avrebbe così corretto l’antica dialettica, ma non avrebbe colto il segreto dell’unità. Hegel accenna a compiere questo passo, ma quando stringe in modo decisivo (col superamento) le obiezioni di Kant tornano a farsi strada. Il divenire sfugge a ogni determinazione. Qualcosa del genere succede a Husserl che nella cosiddetta “filosofia prima”, la filosofia delle essenze o trascendentale, fissa le essenze una volta per tutte sottraendole al divenire, in questo modo finendo col perdere la storicità del mondo. Successivamente, intorno al 1924, egli cercherà la riconquista del mondo prendendo in considerazione la metafisica in una nuova maniera, cioè nel senso di potere spiegare tramite essa la fatticità del mondo, in altri termini lo sviluppo concreto e naturale dell’esistenza. Lo stesso passo di iniziale chiusura è stato compiuto da Heidegger chiudendosi in una esclusiva metafisica dell’essere, ammettendo cioè che l’essenza dell’essere è soltanto il suo attuarsi come tale e rifiutando la sua forma possibile, cioè il movimento verso il divenire. Dopo concorderà con la valutazione che l’essenza dell’essere non è il cominciamento ma l’apertura al mondo. Il cominciamento dal passato si trasferisce al futuro.

[1975], [1990]

V. Attività della “Hegel-Gesellschaft” all’inizio degli anni Settanta

La straordinaria vitalità filosofia di Hegel si dimostra nel fatto indicato da Arturo Massolo che Hegel è vivo, in quanto rifiutare la sua filosofia significa rifiutare la filosofia. La relazione presentata dal francese Gaston Fessard s.j. sull’atteggiamento ambivalente di Hegel di fronte alla storia, è indirizzata ai tentativi di risoluzione della conciliazione hegeliana nel marxismo e nell’esistenzialismo. Hegel aveva detto che «la storia universale è la raffigurazione del modo in cui lo spirito si sforza di giungere alla cognizione di ciò che esso è in sé». (Lezioni sulla filosofia della storia [1822-1831], tr. it., vol. I, Firenze 1941, p. 46). Un itinerario è sempre affascinante, anche se non è possibile descrivere con buona approssimazione la sua morfologia. La stessa attesa degli esiti procura soddisfazione. Henri Zeleny tenta una utilizzazione di Hegel nel problema della funzione mediatrice della filosofia di fronte alla trasformazione contemporanea della scienza e alla crisi della tradizione speculativa.

Fessard dice che fino alla Fenomenologia [1807] il concetto hegeliano di storia rimane aperto alla dimensione del futuro, quindi del tempo. Con l’Enciclopedia [1817] la verticale atemporale logica-natura-spirito si sostituisce alla orizzontale temporale della trinità cristiana interpretata fenomenologicamente. Ecco Hegel: «Lo spirito di un popolo è un individuo naturale; come tale fiorisce, vigoreggia, decresce e muore. È nella natura della finitezza che lo spirito limitato sia effimero. Esso è vivo, e in quanto tale, è essenzialmente attività: quel che lo occupa è la creazione, produzione, realizzazione di sé. Un contrasto sussiste in quanto la realtà non è ancora adeguata al suo concetto, o in quanto il suo concetto interno non è stato ancora portato al grado dell’autocoscienza». (Ib., p. 53). Il passo verso il reale spezza la solitudine dell’uomo rendendolo pieno di speranza, ma questa permane avvolta nell’atmosfera rischiosa dell’incertezza. Da qui la necessità di tornare al rafforzamento della coscienza, in un circolo vizioso che non prepara mai le condizioni adeguate ad affrontare il futuro. Lo stesso Karl Marx resta nella fase della enunciazione programmatica, infatti la serie dialettica giovanile natura-uomo-società si conclude nel concetto verticale e materialistico di tempo che coincide con il concetto naturalistico di attiva infinità. Søren Kierkegaard, invece, per primo spezza la circolarità dicendo che la “croce” è l’incrocio dell’esistenza con la libertà. In questo senso, Benedetto Croce: «Non v’è fatto che non sia conosciuto nell’atto che viene compiuto, mercé la coscienza che nell’unità dello spirito germina di continuo sull’azione; e non v’è fatto che, prima o poi, presto o tardi, non venga dimenticato, salvo ad essere richiamato, come si è detto parlando della storia morta che si ravviva per opera della vita, del passato che per mezzo del contemporaneo si rifà contemporaneo. Il Tolstoi s’era fisso in questo pensiero che, non solamente nessuno, nemmeno un Napoleone, possa predeterminare l’andamento di una battaglia, ma che nessuno possa conoscere come davvero essa si è svolta, perché, la sera stessa che pone termine alla battaglia, sorge e si diffonde una storia artificiosa e leggendaria, che solo uno spirito credulo può scambiare per istoria reale, e sulla quale nondimeno lavorano gli storici di mestiere, integrando o temperando fantasia con fantasia. Ma la battaglia è conosciuta via via che si svolge; e poi, col tumulto di essa, si dissipa anche il tumulto di quella conoscenza, solo importando la nuova situazione di fatto e la nuova disposizione d’animo che si è prodotta, e che si esprime nelle poetiche leggende o si aiuta con le artificiose finzioni. E ciascuno di noi conosce ed oblia a ogni istante i più dei suoi pensieri e atti (e guai se così non facesse, perché vivrebbe compitando faticosamente ogni suo minimo moto!); ma non dimentica, e serba più o meno a lungo, quei pensieri e quei sentimenti, che rappresentano crisi memorabili e problemi aperti per il suo avvenire: e talvolta, non senza alto stupore, noi assistiamo al risorgere in noi di sentimenti e pensieri, che credevamo irrevocabili. Onde è da dire che noi, a ogni istante, conosciamo tutta la storia che c’importa conoscere; e della restante, poiché non c’importa, non possediamo le condizioni del conoscerla, o le possederemo quando c’importerà. Quella storia “restante” è l’eterno fantasma della “cosa in sé”, che non è né “cosa” né “in sé”, ma nient’altro che la proiezione fantastica della infinità del nostro operare e del nostro conoscere. La proiezione fantastica della cosa in sé, col conseguente agnosticismo, è occasionata, nella filosofia, dalle scienze fisiche, che porgono una realtà resa estrinseca e materiale, e perciò inintelligibile; e l’agnosticismo storico è analogamente occasionato dal momento naturalistico della storia, dal cronachismo, che porge una storia morta e inintelligibile: chi si lascia sedurre a questo giuoco e smarrisce la via della concreta verità, sente subito l’animo riempirglisi d’infinite, vanissime e disperate domande. Del pari, colui che smarrisce o non ha ancora imbroccata la via feconda della vita operosa, sente l’animo pieno riboccante d’infiniti desideri, di azioni ineseguibili e di godimenti inconseguibili, e soffre pene tantaliche. Ma la saggezza della vita ammonisce a non perdersi in desideri assurdi, come la saggezza del pensiero a non avvolgersi in problemi oziosi». (Teoria e storia della storiografia [1917], Bari 1948, pp. 44-45). Non sono le proclamazioni e i crolli di imperi che scandiscono il movimento della storia, almeno per come lo viviamo noi nella mezzanotte dei sensi, quando l’ora volge alla riflessione e al declino. La concretezza della totalità sta nel considerare quegli accadimenti non più importanti di una stratificazione geologica, nell’avvertirli ma non nel portarli in pieno giorno. La gemma della vita non può essere colta attraverso l’accumulo. Il ritmo dell’oblio gli consente la perdita, quindi l’accesso a un luogo diverso da quello contrassegnato dalla storia. I legami non si sciolgono ma si allentano nel fresco rifiuto di ogni conquista. Non si tratta di agnosticismo ma di un capovolgimento dell’espansionismo acquisitivo. Le epoche della strumentazione comtiana mi fanno rabbrividire, specialmente l’Aurora.

Mario Rossi afferma che la storia della dialettica hegeliana culmina nel periodo di Jena e quindi è una dialettica dell’estraniazione e della riappropriazione dell’Intero, che come tale ha solo la storia della sua autocomprensione. Le figure della Logica [1812-1816] diventano quindi figure particolari di questa dialettica, è lo stesso sistema che non si distingue più dal suo metodo. A Jena Hegel scrive: «Nello spirito l’etere assolutamente semplice è ritornato in se stesso attraverso l’infinità della terra. Nella terra in generale esiste questo essere-uno dell’assoluta semplicità dell’etere e della infinità – diffuso nella fluidità universale, ma consolidantesi, nel suo diffondersi, come singolarità; e l’uno numerico della singolarità, la quale per l’animale è la determinatezza essenziale, diviene esso stesso un ideale, si trasforma in un momento. Il concetto così determinato dello spirito è la coscienza, in quanto il concetto dell’essere-uno del semplice e della infinità; ma nello spirito quest’ultima esiste per se stessa, o come vera infinità; l’opposto in essa, nella infinità, è questa assoluta semplicità di entrambi. Questo concetto dello spirito è ciò cui si dà il nome di coscienza; [per la coscienza] l’opposto ad essa è egualmente un che di semplice, in sé infinito, un concetto; ogni momento è in essa del tutto il semplice, immediato contrario di se stesso; il singolo sussunto senza contrasto nella universalità; ma altrettanto la coscienza stessa è l’immediato, semplice contrario di se stessa: una volta [è] l’opposto ad un [altro] di cui è cosciente, scindendosi così in un attivo e in un passivo, e l’altra volta [è] il contrario di questa scissione, l’assoluto essere-uno della distinzione; l’essere-uno della distinzione che è e della distinzione tolta». (Filosofia dello spirito jenese [1801-1807], tr. it., Bari 1984, pp. 3-4). Radicarsi nelle cose, nella terra, prendere da questa la nuda ossatura del possibile che diventa necessario con uno stupefacente salto logico. Ci si può cullare tutta la vita con questo concetto, alla fine è d’uopo metterlo da parte. Dalle specifiche capacità del singolo (vedere, gustare, ecc.) alla risonanza generale in termini di totalità. La passeggiata di un dio.

L’arrivo di Hegel a Jena risale al gennaio 1801. Ha avuto diversi anni di lavoro come precettore in ricche famiglie di Berna e Francoforte, accompagnati da un lavoro abbastanza lungo di ricerca attinente ad argomenti teologici e politici, che non si è concretizzato in pubblicazioni ma che gli ha comunque permesso di arrivare a una certa consapevolezza delle sue posizioni filosofiche nel complesso della filosofia tedesca. A Jena egli si avvia a intraprendere la carriera universitaria come libero docente. L’eredità paterna gli permette di abbandonare il lavoro di precettore privato e di entrare nell’università centro della filosofia idealistica e della cultura romantica. Qui incontra Schelling, con cui aveva condiviso la stessa stanza negli anni di Tubinga. Schelling, seppure di cinque anni più giovane è molto più avanti nella carriera e sta di già collaborando con Fichte per la elaborazione in senso idealistico della filosofia kantiana.

Il suo arrivo è preceduto da una lettera, scritta a Schelling il 2 novembre 1800, dove si legge: «Penso, caro Schelling, che una separazione di diversi anni non possa impedirmi di fare appello alla tua gentilezza in vista di un particolare desiderio. La mia richiesta concerne alcuni indirizzi di Bam-berga, dove spero di trattenermi per un certo periodo. Poiché sono finalmente in condizione di abbandonare i legami che ho avuto finora, son deciso a passare un certo tempo in una situazione indipendente ed a consacrare questo tempo a dei lavori e a degli studi già cominciati. Prima di avventurarmi nel vortice letterario di Jena voglio fortificarmi con un soggiorno in una terza località. Considero con ammirazione e con gioia il tuo grande successo pubblico. Tu mi lasci la scelta o di parlarne in tono di umiltà o di mostrarmi io stesso a te. Userò una via di mezzo: spero che potremo trovarci di nuovo come buoni amici. Nella mia formazione scientifica, che ha preso le mosse dai bisogni più elementari degli uomini, io dovevo essere spinto necessariamente verso la scienza, e l’ideale della mia giovinezza doveva necessariamente mutarsi nella forma della riflessione, in un sistema. Mi chiedo adesso, mentre sono ancora occupato con tale sistema, quale via cercare per ritornare a far presa sulla vita degli uomini. Fra tutti gli uomini che io vedo intorno a me tu sei l’unico in cui vorrei trovare un amico, dal punto di vista dell’espressione delle idee e dell’azione sul mondo, poiché vedo che hai concepito l’uomo puramente, cioè con tutta l’anima e senza vanità. Perciò guardo verso di te con grande confidenza, affinché tu riconosca il mio sforzo disinteressato – anche se si pone su una sfera inferiore – e tu possa trovarvi un valore». Il caro amico Hegel diventerà nemico di Schelling non appena quel sistema a cui fa cenno qui si consoliderà definitivamente. Un uomo solo al comando, una sola filosofia. Marx seguirà il filo di questo ragionamento.

Le relazioni dei rappresentanti delle nazioni socialiste all’interno della “Hegel Gesellschaft” battono sulla funzione mediatrice di Hegel nei confronti del programma di costituzione di una cultura nuova da parte di quelle nazioni. A differenza di György Lukács, C. I. Gulian concentra l’attenzione sui testi classici di Hegel invece che sul progressivismo giovanile.

La causa che porta il giovane Hegel a ritenere che “la nostra età sia un’età di gestazione e di trapasso a una nuova era” è sicuramente la contemporaneità della rivoluzione francese. Gli studenti dello Stift di Tubinga si entusiasmano davanti alle grandi notizie che arrivano dalla vicina Francia e innalzano un albero della libertà. Un fatto trasformativo di tale importanza, provvisto di un ruolo politico importante come quello giocato dalla rivoluzione francese, finisce per alimentare una filosofia astratta e lontana dai bisogni della vita. Per i giovani tedeschi si tratta di un evento che corrisponde a un’altra rivoluzione, quella kantiana considerata come una vera e propria “rivoluzione copernicana”. Marx ha indicato una “miseria tedesca” per spiegare come in Inghilterra gli uomini con un’impresa grandiosa trasformavano nella rivoluzione industriale le condizioni materiali della vita e della produzione, come in Francia la rivoluzione politica distruggeva con la lotta e la violenza l’ancien régime e dava vita allo stato moderno, mentre in Germania la rivoluzione si limitava ai dibattiti nelle aule universitarie, coinvolgendo qualche centinaio di intellettuali e quindi realizzandosi come semplice “rivoluzione filosofica”. Una “miseria tedesca” dovuta al provincialismo politico, all’arretratezza economica, alla limitazione culturale. Dappertutto in Europa tutto cambiava, ma in Germania le notizie arrivavano spente e deformate da un vero e proprio filtro filosofico. I mutamenti erano così diffusi in un mondo fantastico dove le lotte politiche, gli scontri sociali, le innovazioni tecnologiche si trasformavano in elementi ideali, con tutta la miseria conseguente a tale trasformazione. Fra i risultati di questa miseria c’è comunque anche la grande poesia romantica di Hölderlin e Goethe, la filosofia idealistica, la sensibilità per la storia e per i problemi del linguaggio. La rivoluzione francese si presta a una lettura filosofica e quindi a entusiasmare i giovani tedeschi. Essa è interpretata come un tentativo di dare attuazione concreta agli ideali illuministici, di concretizzare, nella storia, una “enciclopedia vivente”. La rivoluzione francese assume agli occhi dei Tedeschi una dimensione innovativa che probabilmente gli stessi Francesi, confusi dalle vicende politiche e dalle lotte quotidiane, non possono percepire. Tornando a Marx tale avvenimento si presenta come il tentativo storico di “mettere il mondo sulla testa”, di dare vita a uno Stato fondato sulla ragione, di realizzare nella storia il regno della libertà e della razionalità. La filosofia tedesca pur non cogliendo questa visione della realtà e quindi perdendo molti elementi degli accadimenti rivoluzionari francesi, capisce qualcosa di importante, la grande rivoluzione fu in effetti all’origine di quel desiderio di concretizzare l’assoluto nella storia, avventura che sarà uno dei moventi più importanti delle vicende europee dell’Ottocento e del secolo successivo, malgrado tutto l’orrore del dominio che in esse vicende si è incarnato. Hegel, insieme ad altri pensatori tedeschi, che aveva colto questi segni di rinnovamenti, farà ben presto marcia indietro. Nel 1830 potrà parlare di una “brama di novità senza scopo”, e Goethe troverà sconveniente nella rivoluzione francese il dilagare di una “diretta aspirazione all’incondizionato in questo mondo assolutamente condizionato”.

Ancora un aspetto: per i Tedeschi la rivoluzione francese rappresenta, nel momento in cui i fatti si realizzano, quindi fino all’inizio dell’Ottocento, l’inserirsi violento dell’eternità nel cerchio cristallizzato del tempo, l’irrompere dell’assoluto, della ragione e della libertà nella storia dell’uomo. La rivoluzione per loro ha una valenza mitica. L’eguaglianza sollecitata dai rivoluzionari crea il più che modesto cittadino rivoluzionario, con le sue mode e le sue parole d’ordine, con le sue feste popolari, la sua religione civile, il suo patriottismo, la sua immediata identificazione con lo Stato e con il popolo. Essa offre agli occhi del tedesco la visione di un popolo capace di superare la scissione e l’individualismo della modernità, di un popolo in cui l’individuo si fonde armonicamente con il tutto. È il ritorno alla totalità di cui era stato creatore il mondo antico. Avvolta nel manto onnicomprensivo dello Stato uscito dalla grande rivoluzione, ancor prima dell’evento restauratore questa totalità era già soffocata nel livellamento della qualità. Ciò che aveva avuto modo di fare la sua comparsa per un attimo, adesso torna a piegare la testa di fronte alle sfilate spettacolari. È questo processo involutivo che chiamano progresso. Le energie anarchiche sono così annacquate nel perbenismo pluralista e dell’esuberante eccesso non c’è quasi più ricordo. Taglienti le parole di Adriano Tilgher: «A mano a mano che nello Storicismo sull’anima rivoluzionaria prende il sopravvento quella conservatrice, sempre più esso si attacca allo stato di fatto, sempre più i tentativi gli sforzi le critiche dirette parzialmente o totalmente a negarlo gli sembrano astrazioni, segno di cervello antistorico. Se ciò che è, è, vuol dire che è bene e necessario che sia. Violenza, rivolta, rivoluzione, tutto ciò è astrattismo e antistoricismo. Il vero progresso consiste nell’accumulo lento ma sicuro di piccoli miglioramenti, di piccole riforme. Certo, la Storia non si ferma mai, ma il suo cammino è veramente fruttuoso quando è lento, così lento da essere impercettibile. La storia umana viene così concepita come un processo simile alla crescenza insensibile di una pianta o di un animale, come un processo biologico. E poiché rivolte rivoluzioni violenze derivano dall’opporsi della Ragione alla realtà di fatto, lo Storicismo finisce per prendere sempre più in uggia la Ragione, e finalmente per cacciarla in bando, rappresentando il progresso storico come uno sviluppo irriflesso involontario incosciente, che l’intrusione della Ragione, che è coscienza riflessione volontà, non può che disturbare e rovinare. Donde l’importanza data alla lingua alle tradizioni ai costumi ai miti alle leggende alle consuetudini ai canti popolari, a tutto ciò che è ingenuo primitivo popolare collettivo irriflesso incosciente, che vien su a poco a poco senza volerlo e senza saperlo; donde l’odio con cui è guardato l’irrompere dello sforzo della volontà della riflessione umana dell’energia individuale e consapevole nella Storia». (Critica dello storicismo, Modena 1935, pp. 74-75). L’uso della ragione ha fondamenti rivoluzionari nel senso che è pur da essa che bisogna partire per la costruzione di un mondo diverso. Ogni dettaglio di questa costruzione appartiene al dominio della riflessione critica, particolarmente quella negativa. La conservazione viene così sottoposta a una critica talmente profonda che quasi nulla resta in piedi. In effetti la società in cui viviamo non ha neppure quelle garanzie di efficienza che farebbero ipotizzare un suo utilizzo parziale. Nelle storte di vetro della teoria ribollono allora tutti i distillati dell’amarezza e del risentimento, sentiamo così risuonare i tamburi del risveglio e delle rivendicazioni sociali. I muscoli si tendono e l’aspettativa è grande. Il consensus omnium è messo in sospetto, l’occhio individuale, se non proprio isolato e unico, comunque in grado di leggere anche i desideri del singolo, è la sua tecnica balistica accettabile. Colpisce e procede oltre. Gli stessi tentativi parziali, se non obiettivati in una prospettiva totale, sembrano da scartare, verniciature delle catene, nient’altro. Lo storicismo, cominciando con questo ritmo, seguendo attentamente i risvolti del metodo rivoluzionario, ben presto se ne ritrae incerto. Che ne è della storia? Questa domanda lo impaurisce, gli sembra che quel lampo di fresca negazione si venga trasformando in congerie di tempi duri e irrispettosi dei valori tradizionali, in fondo, della stessa Storia. Certo, bisogna modificare per migliorare le condizioni sociali, ma il rullo dei tamburi e l’odore della polvere, per carità, mai tutto questo, il numero cresce con la calma e la temperanza, le cataste si accumulano sulle cataste, anche se sono cataste di cadaveri che la miseria continua a produrre. L’uso della ragione, da questo punto in poi, produce consenso e accettazione del dominio. Lo sviluppo dell’empiria è visto positivamente in quanto cammina nello stesso senso della storia. Certo le ingiurie verbali, le imprecazioni, perfino le battute di spirito (vedere i contemporanei scrittori rivoluzionari di Francia) sono possibili, ma devono nascondere un basato senso conservativo, opportunamente vivificato da quell’armamentario linguistico che ricorda tempi migliori. Adesso la ragione governante ha scoperto che esiste un livello fluviale sotterraneo, una ragione storica operante, la quale è preludio alle modificazioni materialiste, ragione fluviale che bisogna soltanto assecondare, senza brutti parossismi e stridori di cinghie mal connesse. Forse non è un letto fluviale armonico ma basta a garantire un miglioramento futuro scadenzato e progressivo in quanto si tratta di un meccanismo prestabilito, insito alla realtà stessa. La ragione storica sta per abbandonare i rivoluzionari, quindi è il momento che i rivoluzionari abbandonino la vecchia megera. Tutte le rivoluzioni politiche sono state accolte da questo processo logico. Da una parte la conservazione rinascente dalle sue stesse ceneri, dall’altra un piccolo numero di vedenti alla ricerca del proprio destino.

Lukács fa notare che per il giovane Hegel “l’antichità è un esempio attuale e vivente; essa è passata, sì, ma si tratta di rinnovare la sua grandezza, e questo rinnovamento costituisce appunto il compito centrale politico, culturale e religioso del presente”. Per cui il suo “entusiasmo per la democrazia antica è intimamente e profondamente connesso con il suo atteggiamento verso la rivoluzione francese”. Secondo Lukács, Hegel è allievo di Adam Smith per cui, come il suo maestro, rappresenta oggettivamente il rapporto fra la divisione del lavoro e il progresso tecnico, rapporto nel quale vede il movimento necessario del progresso umano. Ciò non gli impedisce di notare gli effetti distruttivi che la divisione del lavoro capitalistico e lo sviluppo della tecnica e delle macchine producono necessariamente sul lavoro umano. Hegel non vede questi aspetti come qualcosa che deve essere eliminato o corretto, in ogni caso non è un utopista. Egli studia invece la connessione necessaria tra questi aspetti della divisione capitalistica del lavoro e il suo carattere economicamente e socialmente progressivo.

Massolo afferma che il solo vero avversario di Hegel è Nietzsche, il quale vede nella dialettica la semplice e suprema espressione dello spirito di vendetta. Ma in effetti lo studio di Hegel deve essere inteso solo come semplice partecipazione al nostro tempo e, intimamente, come rifiuto del sistema hegeliano stesso. Negli scritti giovanili Hegel non è ancora giunto a sostenere nei diversi aspetti la necessità di una via diversa dalla semplice riflessione sulla realtà. Si è limitato ad affermare che la riflessione, essendo incapace di unire gli opposti, deve dar vita a una espressione capace di indicare separatamente l’identità e l’opposizione in due proposizioni diverse. L’assoluto per lui, in questa fase, è di già identità dell’identità e della non-identità, dell’identità e dell’alterità. Arrivare a dimostrare questa struttura dell’assoluto chiede una logica differente da quella classica a cui l’intelletto e l’uso codificato da Kant ci hanno abituati. Questa logica, nella maturità del pensiero di Hegel, sarà la logica dialettica. Mancando di questa logica l’intelletto è obbligato a separare quello che nell’assoluto è identico e quindi unito. L’intelletto espone l’identità con un principio, il principio più alto e quindi fuori discussione: il principio di identità, mentre espone la scissione con un principio subordinato: il principio del fondamento oppure, in forma inferiore e quindi più debole, il principio di causalità. Hegel accusa Fichte di avere operato questa scissione nella Dottrina della scienza [1794] obbligandosi così a muovere da due princìpi (secondo l’analisi di Hegel) parimenti incondizionati: l’io pone se stesso e l’io oppone a se stesso il non-io. Identità e opposizione sono separate e quindi inconciliabili. La logica dell’intelletto non vede che i due princìpi dicono la stessa cosa, sono in realtà il medesimo ed esprimono l’identità e la scissione insieme. Nella proposizione “A è A”, che espone il principio di identità, viene certamente espressa l’identità, A è uguale ad A, ma insieme l’opposizione: il primo A non è il secondo A, il primo è soggetto, il secondo è predicato (Hegel precisa che il primo è soggetto, il secondo è oggetto), non viene espressa l’identità di identici, ma di diversi. Quando A viene ripetuto esso è scisso, ha in sé la differenza, ed è di questa differenza che si predica l’identità. Così, il secondo principio, nell’esporre l’opposizione, non può evitare di mettere gli opposti in rapporto: il secondo principio vorrebbe esporre la “forma del non-pensiero”, la dispersione e l’alterità dell’essere, ma per il solo fatto che tale alterità è posta nel pensiero essa è posta in relazione, ed ecco che il secondo principio assume la forma del principio del fondamento o del principio di causalità: A è diverso da A, A è uguale a B, A è causato da B e dunque ha il suo essere in un altro, in qualcosa di diverso. Così, alla fine, Hegel afferma che il secondo principio esprime non soltanto i diversi, ma l’identità dei diversi: “in quanto antinomia, in quanto espressione della identità assoluta, è indifferente porre A = B o A = A, se precisamente A = B e A = A viene assunto come rapporto di entrambi i princìpi. A = A contiene la differenza dell’A come soggetto e dell’A come oggetto, insieme con l’identità, come A = B l’identità dell’A e del B insieme alla differenza di entrambi”.

In altre parole, la riflessione è strumento a cui la filosofia non può rinunciare. La scienza deve essere sistema. Non si può esporre l’assoluto in una proposizione di base separata dal tutto. L’assoluto è esposto soltanto dal sistema come totalità. È necessaria una logica che andando al di là della riflessione colga l’identità tra identità e non identità e così riesca a dire col pensiero quella che è la struttura dell’assoluto. Accettando la logica del cominciamento il positivo si rovescia nel negativo, e viceversa. Se partiamo dal lavoro che realizza nel fare l’uomo, la negazione del lavoro è l’altro aspetto dell’identità. Negando il lavoro si riafferma la positività dello stesso. Se partiamo dalla negazione del lavoro riaffermiamo il contrario in quanto ogni punto di partenza è tale perché c’è qualcosa verso cui muovere. Non esiste logica dell’assoluto che possa dar conto del movimento relativo alla distinzione. Se io nego qualcosa presuppongo l’esistenza di questo qualcosa, lo stesso se l’affermo in quanto questa affermazione presuppone la possibilità di negare quello che invece intendo affermare. La trasgressione implica la legge, e ho visto trasgressori e distruttori essere ossequiosi delle regole peggio di tanti preti provvisti di tonsura. L’inutilità del negativo si fonda sull’utilità del positivo, e viceversa. Possiamo rifiutare qualcosa se la conosciamo, ecco perché insistiamo a esistere nel mondo della conciliazione, perché è da questo che vogliamo fuggire. La diversità non la cogliamo invece nell’àmbito del negativo, essa è l’assolutamente altro, non è il rapporto tra quello che intendiamo criticare negativamente e l’affermazione positiva dello stesso che ci consente (rende logica) la critica in questione.

Henri Durski fa notare che Heidegger ha sviluppato una critica del tempo volgare che tocca le stesse radici della distruzione della geometria euclidea e della fisica newtoniana, per cui è strano che questo filosofo si sia poi dichiarato antiscientifico. Quindi in un momento come questo di crisi generale della certezza naturale, del vicino e del lontano, del prima e dell’ora, si rende necessaria una dialettica del concreto, separata da quella di Hegel dalla stessa distanza che ci separa dalla considerazione di spazio e di tempo che le conquiste della scienza moderna hanno finito per rendere inadeguata. Le espressioni linguistiche utilizzate da Hegel non sono identiche, seguendo la linea logica del loro senso comune, alle parallele espressioni heideggeriane di Essere e Tempo [1923-1928]. Il concetto di Dasein, nella indicazione etimologica heideggeriana appare come un segno ontologico dell’essere dell’uomo. Per Hegel invece, e anche per la concezione popolare del termine, l’espressione indica soltanto una realtà esistente in genere non necessariamente riferibile all’uomo senza una opportuna specificante. Con efficacia Tilgher: «Ogni ricerca del perché, della causa, della ragione dell’esserci del tempo è destinata a volgersi nell’assurdo. La causa è l’antecedente nel tempo, il prima, al quale il pensiero si sforza di ridurre, di porre come identico, il conseguente nel tempo, il poi, pur rispettando la differenza nel tempo che separa l’antecedente dal conseguente: sforzo contraddittorio e perciò sempre più o meno destinato a fallire. La causa, dunque, presuppone il tempo. Una causa del tempo dovrebb’essere l’antecedente nel tempo del tempo stesso, cioè suppone per l’appunto quel tempo che dovrebbe spiegare. Il tempo non ha antecedenti, non ha causa, perché ogni antecedente, ogni causa è interna al tempo. Il tempo non è riducibile ad altro, ed appunto perciò è irrazionale puro». (Il causalismo critico, Roma 1942, p. 81). Hegel non ricorre quasi mai al concetto classico di causalità, avendo il meccanismo dialettico come regione intermedia dove fare intervenire il passaggio tra il prima e il poi. La natura non aspetta che le regioni di sua competenza vengano spiegate, essa produce continuamente se stessa nel proprio svolgimento atemporale, svolgimento che poi viene letto temporalmente dall’occhio umano che la scruta. L’antico pensiero che l’uomo continua a covare dentro di sé: può il tempo spiegare la causa, cioè vi può essere una causa del tempo? Resta ancora oggi senza risposta. La ragione non dominerà mai il tempo, non comprenderà mai qualcosa (per esempio un sasso) in termini di milioni di anni. La durata media della vita umana glielo impedisce. Quest’ultimo punto è intuìto dalla tensione che proviamo davanti al di già accaduto, nel cogliere certi rapporti che per comodità di struttura chiamiamo cause, ma che tali non sono, mentre l’analisi aspetta in anticamera per raccogliere quelle poche briciole che ci permetteranno di andare avanti. L’esperienza vive di queste briciole, sono esse l’eterna misura della realtà sulla base dell’uomo, della sua phýsis. Non c’è nulla nel pensiero umano, nella sua totalità così estesa e varia, che possa aiutare a pensare qualcosa di diverso. L’indagabile resta serenamente al di là di ogni combinazione causale.

Lo stesso per il concetto di mondo. Welt, “mondo”, significa “mondo comune”, il mondo dove comunemente vivono gli uomini, e non il mondo che è diventato oggetto di un “comune prendersi cura” heideggeriano. Non si tratta, come per Hegel, dell’equivalente ontologico della “natura”, ma dell’ “in-cui” dell’Esserci, cioè del luogo costitutivo, dell’orizzonte ontologico dell’Esserci. Lungo la linea di ricerca progettata da Hegel, la questione del mondo non viene valutata nelle sue relazioni esistenziali e antropologiche.

Otto Pöggeler ripropone la questione della Fenomenologia hegeliana. Che cosa è questo lavoro? Un’esposizione del sistema o una parte del sistema? La conclusione dell’autore è che la Fenomenologia occupa un posto particolare nella sistematica hegeliana; ma non è una parte del sistema rispetto ad altre parti; piuttosto se è vero che la Filosofia della storia [1822-1831] è il fondamento del sistema, la Fenomenologia ne costituisce l’introduzione. L’essere, il nulla, il divenire. Hegel è il primo a introdurre questi concetti nella storia della filosofia occidentale. «Noi ci troviamo tra i Greci come a casa nostra per il fatto soprattutto che essi ci appaiono nel loro mondo come a casa loro: ci unisce il comune spirito dell’attaccamento alla patria. Ci accade coi Greci quel che succede nella vita ordinaria, dove ci si trova bene presso quelle persone e famiglie, che sono raccolte nella loro casa, paghe di sé, aliene dal cercar altro fuori o al di sopra di sé. I Greci senza dubbio ricevettero più o meno dall’Asia, dalla Siria, dall’Egitto, i germi sostanziali della loro religione, della loro coltura, del loro ordinamento sociale; ma seppero talmente cancellare quanto in siffatta origine v’era di straniero, e talmente trasformarlo, elaborarlo, capovolgerlo, farne insomma un’altra cosa, che tutto ciò ch’essi, al pari di noi, vi apprezzano, riconoscono, amano, è appunto ciò che è essenzialmente loro. Quindi nella storia della vita greca, per quanto indietro si risalga e si debba risalire, si può fare a meno di questa indagine retrospettiva, e si possono invece seguire dentro il mondo stesso e la maniera stessa dei Greci gli inizi, il germogliare, il progredire della scienza e dell’arte fino al loro massimo fiore, come pure le sorgenti della loro decadenza, anch’esse esclusivamente indigene. Infatti lo spirito greco nel suo svolgimento si serve di ciò che ha ricevuto, dell’elemento straniero, soltanto come materiale, come spinta: i Greci in questo si sentirono e si comportarono come uomini liberi. La forma che essi impressero al sostrato straniero fu appunto questo particolare afflato spirituale, lo spirito della libertà e della bellezza, che da un lato può considerarsi come forma, ma da un altro è appunto ciò che in realtà costituisce la sostanza più elevata». (Lezioni sulla storia della filosofia [1816-1830], tr. it., vol. I, Firenze 1964, pp.168-169). Le cose non sono andate proprio così, ma Hegel ha le sue ragioni per affermarlo. Che dire dei Dori che pure costituiscono la ragione più genuina ed essenziale per comprendere l’animo greco, anche quello più evoluto dal punto di vista culturale? Hegel non si pone il problema.

E, più avanti: «Appunto in questo indigenismo dell’esistenza, e più precisamente nello spirito dell’indigenismo, in questo spirito che si rappresenta la propria esistenza come qualcosa di indipendente nei rapporti fisici, civili, giuridici, etici, politici, in questo carattere di libera e bella storicità, per cui ciò che i Greci sono è presso di loro anche Mnemosine, è racchiuso anche il germe della libera attività di pensiero, e si contiene quindi la necessità che la filosofia sorgesse fra loro. Allo stesso modo come i Greci si trovavano a casa loro, anche la filosofia consiste appunto in questo trovarsi a casa propria, nel fatto che l’uomo nello spirito si trova a casa propria, è indigeno presso di sé. Se coi Greci noi ci troviamo sempre a casa nostra, ciò deve verificarsi specialmente nella filosofia; veramente però non come a casa loro, giacché la filosofia solo presso di sé è a casa propria, e quando s’ha da fare col pensiero, s’ha da fare con ciò che è più peculiarmente nostro, con ciò ch’è scevro di ogni particolarismo. Nei Greci lo svolgimento del pensiero ha inizio dai loro elementi originari; e per capirne la filosofia possiamo attenerci a quelli e non cercare altri più lontani motivi». (Ib., pp. 169-170). Anche in questo passo Hegel non coglie la forza del pensiero greco, così come nel precedente non aveva colto la forza della storia greca. Non si tratta di una dimenticanza ma di una forzatura. L’antica ratio, proprio quella originaria, aveva questo rapporto con la forza, con la conquista, con il dominio, ed è qui la vera natura della ragione. Poi l’evolversi degli eventi acquisitivi, anche le grandi conquiste e le vittorie greche, perfino il periodo di Pericle, declinarono, ed è proprio allora che la filosofia registra i suoi momenti più alti. Di certo Hegel è il filosofo della nottola, ma non come rimessa in discussione della ragione, questo non poteva pensarlo, non poteva spingersi tanto oltre pena la messa in discussione dell’intero apparecchio dialettico. In tal senso egli aveva ragione a tagliare via quelle considerazioni che avrebbero determinato equivoci e difficoltà logiche nella sua filosofia. Il fatto che sul far della sera del pensiero platonico o nel meriggio dei Dori ci siano gli stessi elementi non lo riguarda. L’uomo (greco o non greco) si serve sempre di se stesso, dei suoi mezzi, ha la potenza della ragione e quella del dubbio, le impiega entrambe, non aspetta che qualcosa di grande lo pungoli dall’esterno. Quando avvenimenti significativi si presentano, spesso non sono di certo i filosofi a registrarli, essi vivono immersi in una condizione riflessiva che a volte è la meno adatta a capire quello che sta accadendo.

È Hegel, per primo, che considera i Presocratici come filosofi che lavorano alla preparazione di tutto il nostro pensiero logico. E questi studi sui Presocratici hanno meglio predisposto lo studio delle filosofie di Platone e Aristotele. Non è solo un banale recupero storiografico, ma apre la possibilità di indicare un nuovo modo di fare filosofia, di pensare lo stesso pensiero dell’essere. Pensare significa “determinare qualcosa”. Qui, per la prima volta, si vede la possibilità di un trapasso dall’essere al nulla. Essere e nulla vengono indicati come il “qui” indeterminato. Il significato reale della prima esperienza fondamentale del “qui”, che corrisponde al “questo qui” della certezza sensibile, si ha quando affermiamo “c’è qualcosa”. Ma la certezza sensibile non è ancora certezza di “qualcosa”, quanto semplicemente l’affermazione del puro e semplice “questo qui”. La Fenomenologia descrive a partire dalla coscienza quello che la Logica porta nella dimensione oggettiva della determinatezza pervenendo così all’idea. Per Hegel “la verità dell’essere è l’essenza”. Ma la verità dell’ “essenza” è il “concetto”, il quale, a sua volta, è l’idea. Dalla logica in quanto universo delle “possibilità”, si arriva alla realtà? Il collegamento è dato dalla “creazione”, secondo Hegel, comprensibile soltanto sulla base logica, che in questo modo ci fornirebbe i pensieri di Dio nell’atto di produrre il mondo.

Così Martin Heidegger, in maniera approfondita: «Con il riferimento, qui necessario benché ovviamente molto conciso, alla storia essenziale della verità nel pensiero occidentale, si è nel contempo accennato al fatto che si cade vittima di mistificazioni grossolane se si sistema il pensiero di Parmenide e di Eraclito con l’aiuto della “dialettica” moderna, facendo appello alla circostanza che nel pensiero iniziale dei Greci la “contrapposizione” – e addirittura l’opposizione fondamentale fra essere e nulla – “svolge un suo ruolo”. Tuttavia, anziché prendere a prestito da Schelling e da Hegel un procedimento comodo e apparentemente filosofico con cui spiegare la filosofia greca, dobbiamo piuttosto sollecitare la nostra attenzione e seguire le indicazioni che ci possono venir fornite dalla verità nella forma essenziale della svelatezza. In replica immediata a quanto abbiamo appena detto, si potrebbe invero osservare che noi uomini d’oggi siamo pur sempre in grado di comprendere il pensiero iniziale dei Greci soltanto interpretandolo in base alle nostre cognizioni attuali, anche se poi ci si dovrebbe comunque chiedere se il pensiero di Schelling e di Hegel, cioè l’intera loro opera, non si elevi in ogni caso a un’altezza incomparabilmente superiore a quella del pensiero odierno. Quale persona assennata potrebbe sognarsi di negarlo? Dobbiamo ammettere inoltre che l’inizio, se in generale si mostra, certamente si mostra non senza il nostro impegno. Ma resta pur sempre da chiedersi di che genere sia questo impegno, da dove e come esso è e sarà determinato. Nel contempo può in effetti sembrare che il nostro proposito attuale di pensare l’inizio sia solo un tentativo di sistemare storiograficamente il passato a partire dal presente e in sua funzione. Sarebbe inoltre inutile e soprattutto fuorviante volersi mettere a calcolare quale delle due cose richiederebbe un impegno e una preparazione più essenziali: se la fondazione e lo sviluppo di una posizione metafisica fondamentale nell’alveo della tradizione del pensiero occidentale, oppure il semplice prestare attenzione all’inizio. Chi potrebbe negare che in questo tentativo corriamo costantemente il pericolo di farci avanti, con ciò che è nostro, in modo inadeguato? Nondimeno, tentiamo di prestare attenzione alle indicazioni che ci vengono fornite dall’essenza della svelatezza, a stento pensata e ovunque difficilmente pensabile in modo approfondito. La svelatezza rinvia all’ “opposizione” con la velatezza. L’opposto della verità solitamente conosciuto è la non verità nel senso della falsità. Questa opposizione la troviamo già agli albori del pensare e del dire occidentali, anche nella poesia. Stando a ciò che abbiamo detto finora circa la verità come svelatezza, dobbiamo ovviamente guardarci dall’interpretare le antiche “rappresentazioni” proiettando su di esse nozioni successive del falso e della falsità. D’altra parte, possiamo pensare adeguatamente gli antichi significati del “falso”, nel senso dell’opposizione al vero, soltanto se abbiamo considerato il vero nella sua verità, se cioè abbiamo pensato a fondo la svelatezza». (Parmenide [1942-1943], tr. it., Milano 1999, pp. 48-49). Domandare oggi è diventato uno sport per la massa. Non è senza responsabilità, in questo, la filosofia hegeliana che fa corrispondere la realtà con la ragione, senza residui o mezzi termini. Svelare è un compito adeguato alla ragione, così come produrre e modificare. Ma cosa è svelato? Per svelare qualcosa occorre una fede nello spirito universale. Non è un caso che i “controinformatori”, al pari dei “demistificatori”, sono tutti impostati sui meccanismi dialettici. Anch’io ho pensato possibile questo fare dietro le quinte, ma la mia scarsa fede dialettica mi ha ben presto messo alle corde. Ora, svelando si rivela, cioè si mette in luce una parte del tutto (che così viene considerata “priva di velami”), nello stesso tempo il resto è ricoperto da nuovi sedimenti. Il falso è problema non ancora correttamente impostato. Se il falso si differenzia dal vero grazie alla mia capacità di svelamento, esso lascia il vero vuoto di significato in quanto la realtà è falsa nel suo eterno prodursi. Cogliere il dettaglio rimanda ad altri dettagli o ad altri coglimenti. Svelare ci era parso trarre le estreme conseguenze da quello che la realtà ci serviva sotto il naso. Dico ci era parso addossandomi responsabilità che forse, a ben pensare, non mi competono, ma andiamo avanti. Non si doveva “trarre” nulla da un ipotetico “qualcosa”, per il medesimo motivo per cui questo qualcosa non si poteva “superare” (nel senso hegeliano). Forse sarebbe stato più corretto pensare a un trascinare via qualcosa verso un futuro che si andava aprendo a possibilità impensabili. Una rottura, ecco cosa sembrava a portata di mano, una radicalità dirompente capace di rompere il cerchio del fare coatto, produttivamente diretto da sempre a riprodurre se stesso. Negli ultimi trent’anni è di questo che mi sono occupato, di trascinare fuori da una realtà passivizzata quanto poteva aspirare alla qualità perduta, a una negazione critica di quale che sia specializzazione capace di distinguere il bene dal male come chi taglia in due una mela. La distruzione non può essere che le rovine davanti agli occhi, le rovine del mondo riorganizzato in forma riproduttiva, del sogno spezzato e dato in pasto ai programmatori di computer, dell’anticipazione della libertà abbassata a cogestione dei profitti. Spostando velo dopo velo si ritrova sempre un altro spessore da spostare. Lo “svelamento” alla lunga, tranne che per i dogmatici, diventa un mestiere come un altro, uno spicchio dell’alienazione totale.

Hans Georg Gadamer ripropone il tema attualissimo negli studi hegeliani di Hegel e della dialettica antica. In una cultura che si riconosce storica ma che assolutizza le questioni molecolari facendole passare per ricerche storiche, il ritorno a Hegel è inevitabile. La conclusione è per un’affinità tra i diversi procedimenti speculativi dialettici (greci e hegeliani), ma soprattutto affinità elettiva per quel mondo del passato. Hegel identifica il proprio metodo con la verità senza residuo. La dialettica hegeliana è il movimento dello spirito assoluto che si dispiega tutto nel momento in cui ingloba tutto. Lo spirito secondo Hegel tiene fermo tutto senza lasciare che qualcosa rimanga irrisolto. Nella dialettica la verità è detta in modo completo, lo spirito assoluto non tiene per sé nessun segreto. Non si può tralasciare nulla, ci sarebbe infatti una interruzione del movimento incessante, ossia la morte, o meglio, l’errore. Tutto è spiegato, tolto, fatto proprio dal soggetto che così diventa esso stesso assoluto. Hegel fa cenno a una fatica colossale, si tratta proprio di questo trasformare il dato in prodotto. Ogni realtà che resiste viene fatta diventare un prodotto del soggetto assoluto grazie all’interiorizzazione. La dialettica tramite l’interiorizzazione produce la coincidenza radicale di esterno e interno. Una distinzione netta tra esterno e interno è impossibile perché tutto viene riassunto dall’essere-altro nell’in-sé. La dialettica non incontra la morte perché la morte non è mai la sua. La sua morte è soltanto l’interruzione. Nella dialettica la vita dello spirito si mantiene costante nella sua verità, ma solo a condizione di ritrovare sé nell’assoluta desolazione. Il vero e il falso, come aspetti collegati, sono momenti della verità. Così Hegel: “L’elemento della filosofia è il processo che si crea e percorre i suoi momenti; e questo intero movimento costituisce il positivo e la verità del positivo medesimo”. La verità racchiude in sé anche il negativo, ossia ciò che si chiamerebbe il falso qualora potesse venir considerato come alcunché del quale si debba fare astrazione. Ciò che sta dileguando deve anzi venir considerato come essenziale. Ciò che scompare deve essere preso in considerazione per evitare che venga perso. Si ha in questo modo la completa adeguazione tra la verità e la sua formulazione, la coincidenza di metodo e verità, quando il dispiegamento è compiuto e la meta raggiunta. Non si vede qui che fine fa la verità sotto questa forma di monopolizzazione, infatti l’interpretazione che cerca di esaurire la verità finisce per tradirla nella sua essenza e nella sua realtà. La verità ha la caratteristica di essere infinita, e inesauribile, non riconducibile a oggetto. Quello che per Hegel è coincidenza di verità e metodo non si può accettare a cuor leggere, e si nasconde qui il pericolo maggiore della logica dialettica, in quanto, per Hegel, tale coincidenza è uguale alla sovrapposizione, all’adeguazione, all’esatta corrispondenza, mentre l’identità dovrebbe escludere la confusione tra la verità e la sua formulazione. Ecco l’oltranzista Giovanni Gentile: «Se l’errore è il pensiero che non si può pensare, il vero è il pensiero che non si può non pensare: due necessità, che sono una sola necessità. Verum norma sui et falsi. Il pensiero intanto si pensa, in quanto si pensa necessariamente, che è come dire, in quanto pensiamo di non poter pensare altrimenti. Ogni atto di pensiero è esclusione di un altro atto di pensiero (non di tutti gli altri possibili; ma di quello pensato immediatamente prima). Omnis determinatio est negatio. E però solo accorgendomi di un errore, e però liberandomene, io conosco una verità, e cioè penso. In questo nodo vitale che lega all’errore (astratto) la verità (concreta), è la radice del pensiero, e la legge fondamentale della logica. La necessità espressa dalla vecchia logica nella legge d’identità è una necessità astratta, come astratto era il pensiero o la verità, a cui quella logica mirava, avvolgendosi in un labirinto di contraddizioni. Il principio d’identità (o di contraddizione) A = A enuncia una necessità relativa a quello che s’è detto pensiero astratto, cioè alla natura; che, per definizione, è la negazione del pensiero e non può ammettere perciò in sé legge logica di sorta. A = A è la legge dell’errore nella sua astrattezza. E però, checché si pensasse secondo tal legge, sarebbe per ciò stesso errore. Infatti non c’è pensiero che si risolva in A = A. La necessità logica è del reale o concreto processo del pensiero, il quale schematicamente potrebbe piuttosto formularsi: A = non A. Infatti ogni atto di pensiero è negazione di un atto di pensiero: un presente in cui muore il passato; è quindi unità di questi due momenti. Togliete il presente, e avrete il passato cieco (la natura astratta); togliete il passato, e avrete il presente vuoto (il pensiero astratto ossia un’altra natura). La verità non è dell’essere che è, ma dell’essere che si annulla ed annullandosi è realmente: proposizione impensabile, finché per pensiero si prende il pensiero astratto, dove l’essere fissatosi, non può che essere; ma proposizione, viceversa: che non si può non pensare, quando per pensiero s’intende il pensiero concreto, il pensiero assolutamente attuale (onde la verità del concetto del divenire non si può cogliere se non rispetto a quel divenire vero che è il pensare, la dialettica). Il principio d’identità dev’essere sostituito non dunque da quello egualmente astratto del divenire, puro e semplice, ma dal principio della dialettica o del pensiero come attività che si pone negandosi. Principio, che non è poi l’abolizione di quello della identità, anzi il suo inveramento, poiché la dialettica non nega la verità della verità, ma la fissità della verità, e afferma quindi che la verità è se stessa ma nel suo movimento». (La riforma della dialettica hegeliana [1913], Firenze 1975, pp. 187-188). Se ogni processo di negazione è necessario – come sostiene Gentile – lo è perché non c’è completezza nel fare. I motivi addotti dal filosofo sono ovviamente diversi, ma mi sono andato convincendo, specialmente in questi due ultimi anni passati in carcere [1989-1990], che non esisterebbe critica senza questa caratteristica limitativa del processo produttivo della realtà. Il cosiddetto falso è quindi tutto interno alla produzione, anzi costituisce la sua composizione originaria non esistendo condizione originariamente felice ma solo una continua fuga di fronte all’imprevedibile rischio che proviene dal futuro. Quando tocco la verità al di sopra delle cime dove passa la notte e si prepara il giorno a venire, nulla mi resta nelle mani se pretendo restare accanto al salvifico crepitare del fuoco. È nella notte, nella pericolosa avventura notturna della desolazione, che individuo barcollando tracce di certezza. Il limite del pensiero di Hegel, riflesso nella riforma gentiliana con una intensità veramente unica, è nel fatto di avere ricondotto la totalità del reale (punto di forza) all’interno dell’unica possibilità (necessità) umana dell’esistere (punto di debolezza, altrimenti detto “cattiva totalità”), mentre l’esistere è un modello precostituito di rapporti e codificazioni, dove la vita trova se stessa come falso che continuamente si riproduce nel cambiamento che non la trasforma mai in qualcosa di vitale.

Un altro movimento è venuto fuori, non ancora nei suoi dettagli, ma sufficientemente visibile. Un evento della soggettività che avanza verso l’apertura, che si mette a rischio combattendo nella realtà del quotidiano, fra le macerie della produzione, nell’anonimato del coatto ripetersi. Questo evento si lascia alle spalle l’illusione di una negatività critica radicale, capace di capovolgere il mondo, lavora qui, scava qui, dove si trova, nella sua stessa condizione distinta (separata). La distinzione non lo spaventa, anzi lo stimola portandolo ad abolire l’estrema autocoscienza radicale. Non c’è nessuna posizione privilegiata, non c’è centro che non si ribalti in una periferia, non c’è intelligenza conduttrice, né filosofia con-vincente. Questo coinvolgimento mostra i limiti interni di ogni progetto totale, di ogni sperimentazione che pretende mangiarsi il mondo, di ogni critica che nega l’esistente per ritrovarsi con un altro esistente semplicemente cambiato. Nello stesso tempo questo coinvolgimento mostra la non esistenza di un ultimo livello di comprensione, dove l’uomo nuovo fa sorgere la società nuova con uno sforzo alchemico. Parlare è il luogo della separatezza, fisso qui nel terreno della produzione, dall’interno del quale un ultimo gesto potrebbe segnare qualcosa di diverso, ma questo gesto non so se appartiene ancora una volta alla parola.

Richard Kroner, autore di Von Kant bis Hegel (2 volumi) del 1921-1924, di cui si è avuta una seconda edizione nel 1961, dice meno di quanto non prometta il titolo, in particolare riguardo il ruolo avuto da Schiller nel processo evolutivo della filosofia da Kant a Fichte. Rifiuto dell’equivalenza del metodo religioso-estatico con il metodo critico-speculativo come appare nella dialettica hegeliana. Tema centrale della filosofia hegeliana a partire dalla Fenomenologia dello spirito è la polemica contro tutte quelle posizioni di pensiero che sostengono una conoscenza dell’assoluto in maniera alogica, ricorrendo al sentimento o alla pura intuizione. Per Hegel queste filosofie hanno un duplice punto debole. Restano impigliate in una posizione dell’intelletto che riflette e separa: infatti è l’intelletto a separare l’infinito dal finito, contrapponendo a una pluralità parcellizzata un’unità vuota indicata col nome di Assoluto o Dio, che dell’assoluto ha solo il nome e non il contenuto. Queste filosofie concludono su posizioni mistiche e irrazionali: se l’assoluto è pura unità, esso trascende l’intelletto, che resta l’unica facoltà capace di conoscenze oggettive, per cui resta solo l’intuizione per raggiungere l’assoluto o, per meglio dire, l’estasi, l’irrazionalismo. Si tratta di filosofie che possono presentarsi in forme avanzate, richiamarsi all’insegnamento della filosofia critica, essere ricche di dottrina, e tuttavia rimanere su posizioni irrazionali e superstiziose. Nell’Enciclopedia [1817] Hegel paragona tali posizioni al politeismo delle religioni orientali sostenendo che molti “hanno definito la religione indiana, nel suo essenziale, come monoteismo. Che questa definizione non sia inesatta, risulta dal poco che si è riferito. Ma questa unità di Dio, e cioè del Dio spirituale, è tanto poco concreta in sé, e, se si può dire, così priva di forza, che la religione indiana è altresì, con mostruosa confusione, il più folle politeismo. Ma l’idolatria del miserabile indiano, quando adora la scimmia o altro che sia, non è ancora mai quella miserabile rappresentazione del panteismo che ogni cosa sia Dio e che Dio sia ogni cosa”. Il misticismo è acritica empiria. Estasi e idolatria del dato particolare sono aspetti complementari di una medesima posizione teorica, quella posizione che nella cultura filosofica tedesca tra i due secoli prende l’aspetto di filosofia dell’intuizione e del sentimento.

Un nuovo indirizzo viene aperto da Kierkegaard: «Come vi sono esempi di innamorati che hanno una certa somiglianza tra di loro, anche esteriormente nell’espressione e nell’aspetto del viso, così il mistico sprofonda nella contemplazione della divinità, la cui immagine si rispecchia sempre più nel suo animo innamorato, e il mistico rinnova così e ripristina nell’uomo l’immagine perduta di Dio. Quanto più egli contempla, tanto più limpidamente questa immagine si rispecchia in lui, tanto più egli stesso viene ad assomigliare a questa immagine. La sua azione interiore non consiste dunque nella conquista delle virtù personali, ma nello sviluppo delle virtù religiose o contemplative. Ma perfino questa è una espressione troppo etica per la sua vita: la sua vera vita è la preghiera. Che anche la preghiera faccia parte di una vita etica non lo voglio negare; ma quanto più si vive eticamente, tanto più la preghiera ha il carattere di proponimento, cosicché perfino nelle preghiere di ringraziamento vi è un elemento di proponimento. Le cose sono diverse per la preghiera del mistico. Per lui la preghiera è tanto più significativa quanto più è erotica, quanto più è accesa di ardente amore. La preghiera è l’espressione del suo amore, la lingua colla quale soltanto può rivolgersi alla divinità, della quale è innamorato. Come gli amanti nella vita terrena sospirano l’istante in cui possono esprimere il loro reciproco amore, sciogliere le loro anime in un tenue mormorio, così il mistico sospira l’istante in cui, colla preghiera, può, quasi furtivamente, penetrare in Dio. Come gli innamorati provano la massima beatitudine in questo mormorio, quando realmente non hanno più nulla di cui parlare, così anche per il mistico; la sua preghiera è tanto più beata, il suo amore tanto più felice quanto meno ha contenuto, quanto più nel suo sospiro esso quasi scompare per lui». (Aut-aut [1843], tr. it., Milano 1964, p. 123). Per quanto possa sembrare lontano questo modo di vedere una parte considerevole della realtà, esso si trova connaturato al modello suggerito da Hegel. Qui Kierkegaard non ricorre al meccanismo dialettico ma alle intuizioni di Schelling. Il “mormorio” è qui utilizzato per identificare l’abbassamento del tono filosofico. Le altezze di Hegel chiaramente sono lontane. Accanto a questo tenue filo proposto alle intenzioni di ogni uomo di buona volontà, il sistema appare come una fortezza, una figura mostruosa che pretende dettare le condizioni interpretative, i ritmi della ragione. Il lussureggiante mondo delle costruzioni di Hegel, esaminato con le intuizioni dell’estremamente sommesso, appare costruito su basi vacillanti. Il cruccio del fedelissimo fa un po’ sorridere. Togliendo la parte “alta” dell’hegelismo resta lo spirito del tempo, che è esso stesso spirito oggettivo ma che si misura quotidianamente come un “clima” in cui tutti viviamo sospesi quasi pesci in un acquario. La fortezza analitica qui diventa evanescente, tanto che qualcuno ha affermato che c’è più filosofia in ventiquattr’ore della vita dell’uomo della strada che nell’intera Fenomenologia dello Spirito (Raul Vaneigem). Questo vivere in negativo si ribalta nella costruzione positiva della rivoluzione. Almeno dovrebbe, solo che i ritmi di questo ribaltamento non corrispondono a quelli della parte “alta” della teoria (hegeliana o meno). Mai i concetti si dissolvono completamente nello spirito del tempo, allo stesso modo in cui quest’ultimo non si consolida mai in uno o più concetti. Il pensiero può radicalizzarsi fino a raggiungere (spesso con somma facilità) il momento dell’apertura, ma è come un sogno, dove tutto resta sospeso in un’atmosfera senza concretezza. La maniera della mancanza non produce senz’altro il riempimento di una fase successiva, né il soggetto può impunemente porsi come totalità diventando l’unico punto di riferimento del pensiero possibile, del significato assoluto. Da qui l’abbassamento del tono, l’intrigo e la mediazione da corridoio, i rituali, le diffamazioni, lo scivolamento verso il dogmatismo, salvaguardia di ogni pochezza. Il poco di cui i molti dispongono finanzia il molto che è possesso dei pochi e lo conduce alla presa del potere.

Wilhelm Raimund Beyer parla del viaggio di Hegel a Vienna e della influenza di questo viaggio sullo sviluppo dell’estetica. Influenza delle bellezze artistiche e della musica (Mozart, Rossini). L’atteggiamento di Hegel verso la musica in generale è segnato da sospetti verso la musica strumentale e ciò proprio nel momento in cui la musica si era ormai affermata e stava raggiungendo vertici altissimi. Egli indica la presenza di troppa musica e soltanto musica, il che sarebbe a dire: troppa arte, esclusivamente arte per essere valorizzata, ecco il difetto. Hegel non ammette il significato autonomo della musica assoluta, ha in sospetto la drammaticità intrinseca che la caratterizza e vi scorge i rischi del tecnicismo e dell’estetismo riassunti in una specie di godimento mistico e ineffabile. Pur presentando una critica che si potrebbe considerare “arretrata”, Hegel presagisce e quindi contribuisce a fare esplodere gli aspetti deteriori di una soggettività espressiva incontrollabile, presagisce dicevo lo svincolarsi del godimento dell’arte da valori spirituali più profondi, è pertanto il prendere piede del sentimentalismo nella fruizione dell’arte stessa. Ma, nello stesso tempo, Hegel da buon conoscitore rifiuta un tipo di fruizione che elimini ogni godimento estetico, rimanendo soltanto tecnicamente attento. Critica coloro che ricercano i tecnicismi dei compositori, le caratteristiche speciali sottolineate dagli intenditori, l’esibizione degli interpreti e dei virtuosi, modi di non cogliere la sostanza della musica. Il rafforzarsi del tecnicismo, la sottolineatura degli accorgimenti di salvaguardia, sono tentativi di sfuggire al sentimento determinante della bellezza, considerando il fatto che questo sentimento è troppo pericoloso perché dà spazio a quella dimensione dell’eros che molto spesso ci fa paura. Vivere la bellezza nell’àmbito della quantità, non potendo per il momento fare diversamente, è un utilizzare forme simboliche. L’arte è simbolismo e attività creatrice di simboli o, se si preferisce, attività erotica. La forza dionisiaca dell’eccesso è stata collegata con questa realtà proprio da Nietzsche. Ma c’è un’altra possibile connessione, quella con la morte. La forma circolare ripresenta l’eros e la morte alternativamente. La tecnica artistica, il suo rafforzamento all’estremo della tolleranza, è un modo di salvarsi dalla morte ma, per altri aspetti, è un modo di morire senza accorgersene, quotidianamente, annegati o soffocati proprio dal dilagare tecnico di quello che era una volta l’arte.

Hegel è certamente retrivo nel gusto, ma è anche preveggente nell’analisi critica, anticipando tendenze che si svilupperanno in seguito. Così, egli critica il culto esteriore della correttezza esecutiva che non si accompagni alla spiritualità dando vita a qualcosa di brutto per troppo di formalismo. Si può inoltre sostenere che la diffidenza hegeliana verso la musica assoluta, e quindi verso ogni forma di arte pura, verrà sostenuta da Wagner con la teoria del “sacrificio di ogni pur grande pregio poetico e musicale a favore del dramma”.

Sempre Beyer parla poi della critica austriaca cattolica a Hegel fino a Anton Gunther e della critica borghese liberalistica di Franz Grillparzer. Poi parla dell’austromarxismo, sia inconsapevole di Weber, che consapevole di Adler e Hilferding, che discettarono a lungo della genesi kantiana del marxismo a difesa del proprio revisionismo. Dopo la morte di Hegel, il mondo intellettuale e filosofico della Germania ha l’impressione che si è compiuta una parabola. Lo sviluppo del razionalismo iniziato con Cartesio e rielaborato da Kant si conclude con Hegel, senza interruzioni. L’opposizione dell’ultimo Schelling non può non apparire una parentesi isolata (tranne qualche altra parentesi: Kierkegaard). Hegel muore nel 1831 per cui il periodo tra il 1815 e il 1840 deve considerarsi come contrassegnato dall’egemonia della filosofia hegeliana. Il re Federico Guglielmo III accetta che tutte le università vengano poste sotto la direzione degli hegeliani. Ciò è possibile a causa della restaurazione vittoriosa che riporta la Germania alle condizioni di vita tradizionali, per quanto le istanze e i fermenti liberali non scompaiono del tutto. A partire dal 1840 l’industrializzazione cresce e con essa la demarcazione tra due nuove classi sociali: la borghesia capitalistica e il proletariato si fa più netta e visibile. La borghesia avverte l’esigenza di una più vasta libertà d’iniziativa, e sostiene l’ascesa al trono prussiano di Federico Guglielmo IV, che sembrava in un primo tempo vicino al programma liberale. Il riferimento ideale della borghesia tedesca in ascesa è quello francese degli anni Trenta, modello ostile alla restaurazione, anche se più disposto ai compromessi tra le forze reazionarie: monarchia, aristocrazia e clero, allo scopo di controllare le rivendicazioni popolari delle classi più povere. In Germania le richieste della borghesia sono avanzate alla critica, alla filosofia e alla letteratura: la libertà di commercio, la libertà di stampa e di espressione, di coscienza e di religione, ecc. Dopo appena un decennio, un periodo di tranquillità si trasforma in un periodo di trasformazione sociale, politica e culturale, periodo che sfocerà nelle rivoluzioni del 1848. Sull’onda di analoghe rivolte accadute negli altri paesi europei (Francia, Polonia, Grecia, ecc.), anche in Germania si cominciano a formare le prime rivolte piccolo-borghesi e operaie. Moti rivoluzionari si verificano in Sassonia e Baviera e in altre parti della Confederazione. La prima manifestazione tipicamente operaia della Germania è l’insurrezione dei tessitori della Slesia nel 1844. Questa insurrezione non avanzò richieste politiche ma solo economiche. Venne repressa brutalmente. Mentre la Germania fa questa esperienza tipicamente liberale, dalla Francia arrivano le prime pubblicazioni sansimoniane e la prima letteratura veramente socialista: gli scritti di Fourier, di Proudhon, ecc. Nascono le organizzazioni operaie tedesche, fondate nei primi anni Trenta dagli emigrati tedeschi in Francia e in Inghilterra. Il più conosciuto esponente del socialismo utopistico tedesco degli anni Trenta e Quaranta è il sarto Wilhelm Weitling. Questi critica il sistema capitalistico emergente in Germania, immaginando un passaggio al socialismo causato da una sommossa spontanea delle masse impoverite. La filosofia tedesca, protagonista di questo clima intellettuale, dove esplodono nello stesso momento i temi liberali della critica allo Stato assolutistico e le critiche socialiste alla società borghese, è certamente quella dei giovani hegeliani, ovvero della “sinistra hegeliana”. Interessante come poche altre la divagazione di Croce: «Ma la “filosofia della storia” è altrettanto contradittoria quanto la concezione deterministica da cui sorge e a cui si oppone. Perché essa, avendo accettato e oltrepassato insieme il metodo del congiungere tra loro i fatti bruti, non trova più innanzi a sé fatti da congiungere (che sono stati già congiunti, come si poteva, mercé la categoria di causa), sibbene fatti bruti, ai quali deve conferire, non più un legamento ma un “significato”, e rappresentarli come aspetti di un processo trascendente, di una teofania. Ora quei fatti in quanto bruti sono mutoli, e la trascendenza del processo richiede, per essere concepita e rappresentata, un organo che non sia quello del pensiero che pensa, ossia produce i fatti, ma un organo extralogico (per esempio, un pensiero che proceda astrattamente a priori: Fichte), il quale non si trova nello spirito se non come momento negativo, come il vuoto del pensiero logico effettivo. E il vuoto del pensiero logico è occupato immediatamente dalla praxis, o, come si dice, dal sentimento, che poi, rifrangendosi teoricamente, si atteggia a poesia. Carattere poetico, che è evidente in tutte le “filosofie della storia”: sia in quelle antiche, che rappresentavano gli accadimenti storici come lotte tra gli dèi di singoli popoli o di singole genti o protettori di singoli individui, o del Dio della luce e della verità contro le potenze della tenebra e della menzogna; ed esprimevano così le aspirazioni di popoli, di gruppi o d’individui verso l’egemonia, o dell’uomo verso il bene e la verità: sia in quelle moderne e modernissime, che s’ispirano ai vari nazionalismi ed etnicismi (l’italico, il germanico, lo slavo, ecc.), o che rappresentano il corso storico come la corsa verso il regno della Libertà, o come il passaggio dall’Eden del comunismo primitivo, attraverso il Medioevo della schiavitù, della servitù e del salariato, verso il comunismo restaurato, non più inconsapevole ma consapevole, non più edenico ma umano. Nella poesia, i fatti non sono più fatti ma parole, non realtà ma immagini; e perciò non ci sarebbe luogo a censura, se qui si rimanesse nella pura poesia. Ma non vi si rimane, perché quelle immagini e parole sono poste ora come idee e fatti, e cioè come miti: miti il Progresso, la Libertà, l’Economia, la Tecnica, la Scienza, sempre che siano concepiti come motori esterni ai fatti: miti non meno di Dio e il Diavolo, Marte e Venere, Geova e Baal, o di altre più rozze figurazioni di divinità. Ed ecco perché la concezione deterministica, dopo avere prodotto la “filosofia della storia”, che le fa contrasto, è costretta a contrastare a sua volta la propria figliuola, e ad appellarsi dal regno dei fini a quello delle connessioni causali, dall’immaginazione all’osservazione, dai miti ai fatti». (Teoria e storia della storiografia, op. cit., pp. 57-58). La ripulsa di un motore primo e unico resta comunque tipica del meccanismo dialettico, riformato o meno. Il fatto che invece di essere “prima” è “dentro”, a mio avviso, non cambia molto le cose. L’idea di una storia come unità mistica che si ripresenta sempre uguale di fronte a chi la sa far vivere dentro di sé, è possibile solo se si carica di suggestione il ripresentarsi, se cioè si inserisce nel fatto ricordato la potenza coinvolgente della rammemorazione, se si promuove una critica negativa della realtà che nella sua fase ricognitiva (interpretativa) non sia fine a se stessa, cioè non sia diretta a ripristinare (rafforzandole) le condizioni precedenti. Avendo “superato” tutto, ecco che l’odiato nemico da superare (nella storia) si ripresenta nel luogo stesso degli eventi fattuali, nell’esistenza coatta che tutti sappiamo come ci porta in sé e ci riproduce sempre uguali a noi stessi. Non c’è radicalismo verbale degli specialisti del parziale che possa distruggere le mura del carcere che ci stanno sotto gli occhi.

Continua Croce: «La confutazione reciproca del determinismo storico e della filosofia della storia, che fa dell’una e dell’altro due vuoti o due niente, cioè un unico vuoto e niente, sembra, invece, come suole, agli eclettici il compiersi reciproco di due entità, che stringono o dovrebbero stringere tra loro un’alleanza per sorreggersi a vicenda. E poiché l’eclettismo, mutato nomine, infierisce nella filosofia contemporanea, non è meraviglia che si trovi di frequente assegnato alla storia, oltre l’ufficio d’investigare le cause, quello del “significato” o del “piano generale ” del corso storico (si vedano i lavori sulla “filosofia della storia” del Labriola, del Simmel, del Rickert); e poiché gli scrittori di metodiche sogliono essere empirici, e perciò eclettici, anche tra essi è vulgata la partizione della storia in istoria che si fa col radunare e criticare i documenti e ricostruire gli accadimenti, e in “filosofia della storia” (si veda per tutti il manuale del Bernheim); e, infine, poiché, eclettico è il pensiero ordinario, niente è più facile che raccogliere consenso intorno alle tesi: che la semplice storia, la quale offre la serie dei fatti, non basta, e che si richiede che il pensiero torni sopra la costituita catena dei fatti per iscoprirvi il disegno riposto e per rispondere alle domande del donde veniamo e del dove andiamo; cioè che, accanto alla storia, debba porsi una “filosofia della storia”. Questo eclettismo, che sostanzializza due opposte vacuità e fa che l’una dia la mano all’altra, tenta perfino talvolta di superare sé stesso e di fondere quelle due finte scienze o parti di scienza. E allora si ode difendere la “filosofia della storia”, ma con la cautela, che essa debba essere condotta con metodo “scientifico” e “positivo”, mercé la ricerca causale, e svelare per tal modo l’azione della ragione o della Provvidenza divina». (Ib., pp. 59-60). Croce non vuole procedere oltre, alla conclusione che ci si aspetterebbe. La storia non può essere ridotta allo studio dei rapporti causali, allo stesso modo per cui sono da rigettare tutti i tentativi di vedere in essa l’inesplicabile movimento del caso. Eppure – come ho scoperto solo in tarda età – Croce era andato vicino a individuare un mondo collettivo, una sorta di fondamento della vita, di cui nell’esistenza si colgono solo pochi riflessi, ma mille ostacoli, non ultime le proprie ricchezze personali, bloccarono il passo conclusivo. Ma la storia non può nemmeno essere ricondotta alla ricerca di un meccanismo intrinseco, sia esso l’azione della ragione o quella della divinità onnipresente. Qui si pone la domanda se Croce sia stato sempre esente dal difetto ora stigmatizzato. Non so, a me sembra di no. Gli elementi convenzionali dell’utilizzazione magistrale della storia non scompaiono mai del tutto, in fondo Croce resta un maestro, anche quando non vuole ammetterlo.

L’interpretazione del neopositivismo. Karl Popper finisce per confondere Hegel-Marx-bolscevismo-fascismo, elogiando le università romano-cattoliche d’Austria che non sono state toccate dall’hegelismo e quindi sono rimaste fedeli alla vera filosofia. «Le caratteristiche essenziali [dell’hegelismo] sono condivise dalle due più importanti versioni moderne dello storicismo: la filosofia storicistica del razzismo o fascismo da una parte (destra) e la filosofia storicistica del marxismo dall’altra (sinistra)». (Poscritto alla Logica della scoperta scientifica [1983], vol. II, L’universo aperto: un argomento per l’indeterminismo, tr. it., Milano 1984, p. 29). Contro stoltezze simili Beyer dimostra come Hegel, se non gli hegeliani, è sempre rimasto estraneo al nazismo. Il caso di Gentile merita una riflessione. Egli sottoscrive immediatamente la propria adesione al fascismo e non ha mai tentennamenti. Pur essendo ministro del governo di Mussolini e avendo scritto la parte filosofica della voce “Fascismo” per l’Enciclopedia italiana (pubblicata sotto la firma di Mussolini) e pur essendo questa esposizione la dottrina filosofica ufficiale del fascismo, Gentile non riesce mai a ottenere che le sue idee filosofiche vengano riconosciute come le idee ufficiali dello Stato fascista. Si tratta di idee troppo difficili e filosoficamente ricercate e perfino troppo strane per esercitare una qualche influenza al di fuori degli ambienti intellettuali e accademici. Scrive Eugenio Garin: «Quanto all’attualismo, anche la sua crisi è ben anteriore al ‘45. La vicenda umana di Gentile, i suoi rapporti col fascismo, la sua fine tragica, se non hanno bloccato del tutto la circolazione di alcuni aspetti del suo pensiero, l’hanno tuttavia costretto nell’ombra, e talora nell’equivoco. Un equivoco antico, intrecciato fino alla prima guerra mondiale ai suoi rapporti con Croce, che nonostante la pubblicazione ormai quasi completa dei carteggi attendono ancora un’analisi e una valutazione adeguata, attraverso la quale si ponga fine alla artificiosa riunione dei due filosofi sotto la solita etichetta di massimi esponenti dell’idealismo italiano. Dalla così diversa formazione dottrinale alla contrapposizione netta dopo una lunga collaborazione, non a caso le loro vie sempre diverse alla fine divennero avverse. Il fatto che entrambi prendessero posizione sugli stessi autori (Hegel, Marx) e sugli stessi eventi (la guerra, il fascismo), ma per arrivare a conclusioni opposte, non ha fatto riflettere abbastanza sulle ragioni del costante divario. Eppure nulla di più lontano delle radici culturali e della formazione dei due pensatori, nulla di meno simile delle loro interpretazioni di Hegel e di Marx, o della tradizione culturale italiana – del loro modo di concepire proprio la ricerca filosofica: una metodologia delle scienze storiche contro una “metafisica” della mente, sconfinante in una sorta di “retorica mistica” dello “Spirito”. D’altra parte, proprio gli aspetti meno definiti, e più inquieti e inquietanti, dell’attualismo, come lo hanno coinvolto in avventure equivoche, così ne hanno fatto una componente, o almeno uno stimolo di non poche posizioni lungamente attive prima e dopo il ‘45, a cominciare da quanti non smentirono mai il loro debito filosofico verso il Gentile, anche se se ne vennero allontanando per vie proprie (come Calogero o Spirito, per fare solo due nomi, ma di pensatori assai attivi nel dopoguerra)». (Agonia e morte dell’idealismo italiano, in AA.VV., La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Bari 1985, pp. 25-26). Il fascismo in fondo non ha una propria dottrina filosofica. Si basa su un miscuglio di idee di varia origine: idee mistico-religiose, irrazionaliste, nazionaliste, positiviste, neohegeliane, sindacaliste, corporativiste, ecc. Gli immediati ispiratori dell’eclettica ideologia fascista vanno piuttosto cercati in Enrico Corradini, Piero Marinetti, Vilfredo Pareto, ecc. Il fascismo esercita la sua influenza sulle masse come dottrina mistica e irrazionale, in cui l’uomo è visto nel suo immanente rapporto con una “legge superiore” e con una “volontà obiettiva”. Opponendosi alle correnti materialistiche dei secoli precedenti, la valorizzazione del pensiero scientifico è poco significativa, ma consente di ottenere l’appoggio politico delle correnti religiose neo-scolastiche e neo-tomiste. La miseria ideologica del fascismo è una delle cause che sospingono alcuni intellettuali borghesi verso l’idealismo neohegeliano.

Al terzo congresso della “Hegel-Gesellschaft” [1960] l’unica voce anti-Hegel è stata quella di Mario Rossi. Nell’attuale rinascita degli studi hegeliani secondo lui s’impone la sollecitazione determinante in questa direzione operata dal marxismo. Ora, che questo riconoscimento venga oggi dato con o senza la mediazione di Marx, lo stesso riconoscimento corrisponde a una delle maggiori preoccupazioni di Marx. Nel giudicare oggi le contrapposizioni a Hegel bisogna ricordare quanto ha scritto Eric Weil in proposito: Marx che ha compreso Hegel lo ha rovesciato. Kierkegaard che non lo ha compreso lo ha rifiutato. Nel 1923, l’anno della crisi tedesca, con scioperi e insurrezioni, con i tentativi della destra di prendere il potere, Weil, giovane studente ricchissimo con aperte simpatie marxiste, cerca di realizzare a Francoforte un istituto stabile che decide di chiamare semplicemente “Institut für Sozialforschung”. Tale istituto, secondo l’idea di Weil, doveva studiare “le complesse connessioni sociali che richiedono la cooperazione intellettuale nel lavoro di ricerca”. Dopo aver pensato a Lukács e Karl Korsch (che avevano pubblicato il primo Storia e coscienza di classe [1923] e il secondo Marxismo e filosofia [1923]), a dirigerlo viene chiamato Karl Grünberg, professore di legge e scienze politiche dell’università di Vienna, trasferitosi a Francoforte, definito con molta approssimazione il padre dell’ “austro-marxismo”. Nella relazione d’apertura ufficiale Grünberg indica come scopo dell’Istituto di rompere con la tradizione accademica tedesca capace di produrre solo “mandarini” fedeli alla conservazione del potere e lontani dalla pratica. Su molti punti primari Grünberg non incontra il consenso di Horkheimer e di altri giovani membri dell’Istituto.

Massolo ha effettuato una ricerca su Hegel giovane e il problema della storia. Il problema della filosofia e quello della storia, nel giovane Hegel, coincidono in quanto i suoi interessi non sono speculativi ma storici. Il suo dirigersi alla realtà, sollecitato dalla situazione dei suoi tempi, gli impone di rifiutare il concetto kantiano-fichtiano della storia come “superfluo” e quindi di assicurarsi i nuovi concetti della determinatezza storica. Studiare Hegel si giustifica solo come partecipazione al tempo, quindi come impegno dello studioso nei confronti del tempo in cui vive. Se vogliamo essere con Hegel bisogna andare al di là di Hegel e quindi contro Hegel. Lo stesso percorso aveva fatto Croce. Storia e filosofia coincidono. «Cosicché, chiunque pensi secondo la concezione deterministica della storia, sempre che voglia astenersi dal troncare con l’arbitrio e con l’immaginazione la ricerca iniziata, è condotto di necessità a riconoscere che il metodo adottato non raggiunge il fine che si persegue; e poiché, d’altra parte, si è cominciato, sia pure con metodo insufficiente, a pensare la storia, non ci sono altri partiti che o rifarsi da capo, cangiando strada, o andare innanzi, cangiando direzione. Il presupposto naturalistico, che rimane ancora saldo (“prima raccogliere i fatti, poi cercarne le cause”: quale cosa più evidente e più ineluttabile di questa?), spinge di necessità al secondo partito. Ma appigliarsi al secondo partito è oltrepassare il determinismo, è trascendere la natura e le sue cause, è proporre un metodo opposto al precedente, ossia rinunziare alla categoria di causa per un’altra, che non può essere se non quella di fine; e di fine estrinseco e trascendente, che è l’analogo opposto che corrisponde alla causa. Ora, la ricerca del fine trascendente è la “filosofia della storia”. A questa ricerca il naturalista conseguente (e chiamo tale colui che “séguita a pensare”, o, come si dice comunemente, trae le conseguenze) non si può sottrarre, e non si sottrae in effetto giammai, comunque concepisca la sua nuova ricerca; nemmeno quando prova a sottrarvisi, dichiarando inconoscibile il fine o la “causa ultima”, perché (come altresì è noto) un inconoscibile affermato è un inconoscibile in qualche modo conosciuto. Il naturalismo si corona sempre di una filosofia della storia, quale che sia la forma delle sue sistemazioni: o che l’universo venga da esso spiegato con gli atomi che si accozzano e col loro vario accozzarsi e danzare producono il corso storico, al quale possono altresì mettere termine col tornarsene alla primitiva dispersione; o che chiami il Dio ascoso Materia o Incosciente o in altro modo; o, infine, che lo concepisca come un’Intelligenza che si vale, per mettere in atto i suoi consigli, della catena delle cause. E, per converso, ogni filosofo della storia è un naturalista, e tale è perché è dualista, e concepisce un Dio e un mondo, un’Idea e un fatto oltre o sotto l’Idea, un Regno dei fini e un Regno o sottoregno delle cause, una città celeste e un’altra più o meno diabolica o terrena. Si prenda qualsiasi costruzione di determinismo storico, e si troverà o scoprirà in essa, esplicita o sottintesa, la trascendenza (nel Taine, per esempio, reca il nome di “Race” o di “Siècle”, vere e proprie deità); e si prenda qualsiasi costruzione di “filosofia della storia”, e vi si scopriranno il dualismo e il naturalismo (nello Hegel, per esempio, in quel suo ammettere fatti ribelli e impotenti, che resistono o non sono degni del dominio dell’Idea). E si vedrà sempre più chiaramente come dalle viscere del naturalismo venga fuori, incoercibile, la “filosofia della storia”». (Teoria e storia della storiografia, op. cit., pp. 56-57). L’alternativa è con la storia o contro la storia, ma si tratta di un bivio falsamente rassicurante. Non c’è dubbio che le cose morte hanno un potere su di noi, che questo potere lo acquistino in nome di un meccanismo intrinseco all’evolversi delle cose o in nome di un fine trascendente, la questione è secondaria. Bisogna fare a meno di questo potere, che poi si traduce in un controllo a seguito dell’adozione di un criterio del mondo che funge da guida se non proprio da falsariga obbligata. Il passato entra nella nostra vita attuale, la fornisce di corpo e di costruzione, di coronamenti fittizi e abitudini segrete che fanno presto a esplodere in accettazioni e sfaceli senza rimedi. Croce si dibatte per evitare di cadere in balia delle conseguenze naturali delle sue scelte, ma non ci riesce, l’hegelismo è in fondo più forte di lui. Il continuo dileguarsi della vita funziona come sventura su ogni costruzione che pretenda esorcizzarla senza passare attraverso l’attiva trasformazione del reale, il capovolgimento di tutti i valori. Accettando, anche in quella minima parte che ognuno di noi pensa sia veramente trascurabile, il dettato del quadro dei valori, imprescindibile come la nudità degli eventi, si finisce per sentirsi in colpa, una colpa senza rimedio che annebbia l’importanza di quello che si sta facendo, consegnandolo a un fato che minaccia ma non accenna a mostrare se stesso come l’ombra del bosco sacro dove continuamente sogniamo di appendere le nostre armi.

Ecco alcuni punti essenziali che riassumono il pensiero di Hegel. Il racconto storico include il concetto filosofico. Un sistema filosofico degno di questo nome è un ausilio per comprendere la realtà storica. La filosofia è metodologia della storia. Individuo e idea non possono essere presi separatamente. La filosofia tradizionale è risorta nella storiografia. Non ci sono distinzioni tra fatti storici importanti, cioè provvisti di significato e fatti non-storici o fatti banali, in quanto non esiste un fattore determinante. Non c’è un fattore fondamentale. La storia, la poesia, la coscienza morale, il pensiero, non hanno leggi, non hanno obbligazioni, non sono necessari. Anche la ricerca delle cause dei fatti storici è limitante. Non ha senso una periodizzazione oggettiva del processo storico. Non esiste una prevedibilità storica, non c’è nessuna teoria scientifica dello sviluppo sociale. Il giudizio storico riguarda solo il passato. La storia è solo una serie di fenomeni singoli, individuali, irripetibili, una serie di atti creativi dello spirito universale. L’ordine e l’unità dei fatti storici sono introdotti dallo storico e pertanto hanno valore solo logico. Lo spirito universale è l’unico soggetto-oggetto della storia, esso ha un piano che può realizzarsi in persone eccezionali, secondo un criterio di provvidenzialità che ci resta ignoto, anche se l’uomo può sforzarsi di comprenderlo. Le persone e i cosiddetti fatti salienti che indicano una qualche direzione logica sono solo burattini e atti di burattini nella mani dello spirito oggettivo. Se il concetto di processo storico è liberato dal dogmatismo e inserito in una considerazione temporale dello svolgimento storico, si ha quella che vorrei definire una onesta considerazione dei fatti coatti ai quali assistiamo o ai quali i nostri predecessori hanno assistito, ed è questo che di solito chiamiamo storia servendocene come di strumento per valutare il fare degli uomini di ieri e di oggi. È fuor di dubbio che correttamente impostata questa metodologia non può più operare una distinzione tra processo naturale e processo umano, tra natura e storia. Leibniz per primo aveva notato che esistono delle analogie di struttura fra tutti gli elementi della realtà. Ma la vita, di cui bisogna pur parlare, è altro. Non è una collezione di mummie. L’energia per oltrepassare tutto questo deve venire da fuori, non può raccogliersi in un certo modo di ricordare l’accaduto o di riflettere su quello che sta accadendo o che accadrà. La vita sollecita certamente all’azione ma noi, poveri relitti dell’esistenza, non possiamo viverla se non dicendola, perché il modello rappresentativo è incluso nel fare che ci costituisce e dal quale non riusciamo a staccarci. Per tenere presente il modello hegeliano noi siamo dentro il processo della totalità autocosciente che ci porta via nella deduzione dialettica rovesciando la nostra negazione in una ulteriore riaffermazione del positivo. Certo, le cose non stanno veramente così, ma possono anche essere lette in questo modo. Ci sono tanti modi per leggere una pietra tombale. Perfino ricchi di humour.

Ancora Hegel: «Fine della storia del mondo è dunque che lo spirito giunga al sapere di ciò che esso è veramente, e oggettivi questo sapere, lo realizzi facendone un mondo esistente, manifesti oggettivamente se stesso. L’essenziale è il fatto che questo fine è un prodotto. Lo spirito non è un essere di natura, come l’animale; il quale è come è, immediatamente. Lo spirito è appunto questo prodursi, questo farsi quel che è. Perciò il momento immediatamente successivo del suo processo di formazione, quello del suo essere reale, non è che auto-attività. Il suo essere è attuosità, non un’esistenza inerte, ma questo essersi prodotto, esser divenuto per sé, essersi fatto da sé. Al suo essere verace appartiene l’essersi prodotto; il suo essere è il processo assoluto. In questo processo, che è una mediazione di sé con sé per mezzo di sé e non per mezzo d’altri, è implicito il fatto che esso ha momenti distinti, che contiene in sé movimenti e mutazioni, che è determinato ora in questo ora in quel modo. In questo processo son dunque essenzialmente contenuti dei gradi, e la storia del mondo è la rappresentazione del processo divino, del corso graduale in cui lo spirito conosce se stesso e la sua verità e la realizza». (Lezioni sulla filosofia della storia, vol. I, op. cit., p. 61). Hegel nasconde a se stesso l’importanza della sua scoperta. Baloccandosi con la terminologia dà vita a una realtà che si presenta inequivocabilmente come sacrificio, il diventare quello che si è lo spirito lo sperimenta nella propria forma originaria, nel medesimo simbolismo della morte. Non c’è nessun meraviglioso quadro decisionale che non comporti in se medesimo l’oscuro e inesprimibile nascondimento della morte, l’estraneità assoluta a quello che accade come espressione dell’accadere stesso, dell’oscurità che comprende la luce e la fa scomparire in sé come un suo semplice momento, che non sacrifichi tutto, ogni evento produttivo, al martirio dell’inevitabile, alla testimonianza del di già deciso, del contrassegnato senza ombra di approssimazione. Lo spirito ha – secondo Hegel – questo compito, cioè quello di realizzarsi per quello che è, ma visto sotto questa prospettiva del dovere, la sua realizzazione indossa le vesti bianche del sacerdote, di chi fa il sacro e quindi, in un modo o nell’altro, è alleato della morte, non della vita. Il sacrificio non è mai corrispondente al contenuto reale, non presenta col proprio manifestarsi la realtà compiuta, ma ciononostante fissa un riferimento abbastanza esatto con la realtà prodotta, cioè con quello che viene fuori dalle deformazioni strutturali, dalle limitazioni dell’esistenza e dai suoi legami. Alla fine ci si dimentica che il sacrificio è l’assoluta estraneità alla vita, mentre, nello stesso tempo, esso entra insolitamente nelle convenzioni dell’epoca, prendendovi dimora stabile diventando da insolita presenza consuetudine alla rinuncia.

Mario Rossi: rifiuto di Hegel radicale e totale. Da Berna a Berlino. Comprende il movimento speculativo e la situazione storica. Questo rifiuto coinvolge la stessa interpretazione di Marx, o almeno il modo comune di interpretare Marx. Quindi il riconoscimento di Hegel in Marx avviene nel senso che in Marx vengono identificati gli elementi negativi che invece in Hegel si trovano in forma positiva. Se Hegel può dire qualcosa all’interno del suo sistema è qualcosa di paradossale. Naturalmente considerando questi elementi paradossali Rossi agisce in forma antimarxista e antihegeliana, in quanto Hegel stesso aveva avvertito delle contraddizioni e le considerava parte del sistema. La posizione di Marx comporta la dialettizzazione della realtà umana sensibile, quindi si innesta nella scoperta fatta da Feuerbach. L’interpretazione dialettica del rapporto fra l’uomo e la realtà sensibile in funzione del lavoro umano è la base di partenza per capire i fondamenti del comunismo scientifico. Tutto il comunismo precedente (Proudhon, Fourier, Saint-Simon, ecc.) è considerato volgare, secondo la definizione peggiorativa usata da Marx, in quanto esso non si preoccupa che di negare la proprietà privata e sopprime ovunque la personalità dell’uomo fino a sostenere la comunanza delle donne, un comunismo che alla fine, sempre secondo Marx, non è altro che l’espressione conseguente della proprietà privata. E Marx nota con un certo pathos: “L’invidia universale che si organizza in una forza, non è altro che la forma mascherata in cui si presenta l’invidia così da trovare la sua soddisfazione soltanto in un altro”. Nel comunismo rozzo Marx condanna la concezione piatta dell’esistenza che lo pone a un livello inferiore della stessa proprietà privata dimostrando così come sia vuota e vana la sola soppressione della proprietà privata. A questo comunismo manca il concetto di uomo come “natura generica” da cui il comunismo scientifico attinge la sua positività teoretica e l’efficacia sociale: rileva i difetti della proprietà privata ma non li supera, prospetta la reintegrazione ovvero il ritorno dell’uomo a se stesso, come superamento della estraniazione dell’Io umano ma senza cogliere l’essenza positiva della proprietà privata e quella stessa del bisogno umano come tale. E questo, per una logica comune, è paradossale.

«Un enunciato è considerato una legge perché è usato per fare predizioni e non è usato per fare predizioni perché è una legge». (N. Goodman, Fatti, ipotesi e previsioni [1954], tr. it., Roma-Bari 1985, p. 17). Secondo Marx, il comunismo scientifico comporta il superamento della proprietà privata intesa come estraniazione dell’uomo e l’appropriazione effettiva dell’essenza umana da parte dell’uomo. Si ha così un ritorno dell’uomo a sé come essere sociale, un ritorno totale, un ritorno cosciente attuato all’interno dello sviluppo storico. Si tratta di una socialità positiva, realizzata grazie al superamento hegeliano della proprietà, in cui si riflette lo scopo dell’umanesimo di Feuerbach. «Un’illusione non è la stessa cosa di un errore, e non è nemmeno necessariamente un errore. Così le dottrine religiose sono tutte illusioni indimostrabili, sicché nessuno può essere costretto a considerarle vere, a crederci. Così come sono indimostrabili, sono anche inconfutabili. Non siamo abbastanza sapienti per accostarci ad esse con senso critico». (S. Freud, L’avvenire di un’illusione [1927], tr. it., Torino 1990, p. 73). La vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, la soluzione dell’enigma presentato dalla storia.

In effetti, in filosofia non ci sono errori ma una maggiore o minore adeguatezza alla realtà, ed è proprio Hegel a conquistare questo metodo storico e a scoprire la legge di quella adeguatezza. Rossi è quindi un singolare marxista-hegelista prehegeliano.

[1965], [1990]

VI. Inquietudine della vita

Il progetto storiografico che oggi si persegue su Hegel è diretto alla chiarificazione in Hegel dell’inquietudine della vita, in chiave decisamente non romantica. In questo modo si vuole superato sia il neohegelismo accademico che la stessa tensione tra marxismo ed esistenzialismo.

Naturalmente non si tratta di un ritorno alla interpretazione “finitistica” così come avvenne per le letture esistenzialiste di Hegel. In caso contrario i tanti lavori di Adorno e Marcuse sulla dialettica non si comprenderebbero. La caratteristica fondamentale del soggetto hegeliano è quella di essere sostanza in movimento, “mediazione del divenir-altro-da-sé”. Si tratta del concetto di negatività semplice che fonda il problema dell’inizio, primo momento della scissione e della opposizione che a sua volta dovranno essere negate come duplicità indifferente. Ecco Søren Kierkegaard: «L’inizio del sistema, che comincia con l’immediato, è allora anch’esso ottenuto mediante una riflessione. Qui sta la vera difficoltà. Perché se, con inganno o storditezza o per l’affaccendarsi di riuscire a finire in fretta il sistema, non ci si lascia sfuggire quest’unico pensiero, esso con tutta la sua semplicità è in grado di decidere che un sistema dell’esistenza non si può dare e che il sistema logico non può pretendere ad un cominciamento assoluto; infatti una cosa simile, come l’essere puro, è una pura chimera. Se perciò non si può cominciare immediatamente con l’immediato (un immediato che dovrebbe essere pensato come un caso o un miracolo, cioè qualcosa che non si può pensare!), ed invece questo inizio dev’essere ottenuto mediante una riflessione, ci si domanda allora molto alla semplice (ahimé, a patto ch’io non sia castigato per la mia semplicità, perché ognuno può comprendere la mia questione e perciò dovrà vergognarsi del sapere così popolare del questionante): com’è ch’io arresto la riflessione che fu posta in movimento perché io ottenga l’inizio? Infatti la riflessione ha questa proprietà notevole di essere infinita. Ciò implica in ogni caso ch’essa non può essere arrestata da se stessa perché evidentemente per poter arrestare se stessa ha bisogno di se stessa, e quindi non può essere arrestata che al modo con cui si guarisce una malattia se questa dovesse prescrivere a se stessa i suoi rimedi, cioè se la malattia dovesse essere nutrita. Forse quest’infinità della riflessione è la “cattiva infinità” (hegeliana), e allora noi siamo bell’e spacciati, perché cotesta cattiva infinità è considerata come qualcosa di spregevole a cui si deve rinunciare al più presto. Soltanto quando la riflessione è arrestata, l’inizio può aver luogo, e la riflessione può essere arrestata soltanto con qualcosa che è qualcosa d’altro dalla logica, perché è una risoluzione. E soltanto quando l’inizio, con cui la riflessione si arresta, è una frattura, così che lo stesso inizio assoluto emerge a traverso la riflessione continuata all’infinito, allora soltanto l’inizio è senza presupposti. Se invece si tratta di una rottura con cui s’interrompe la riflessione perché possa emergere l’inizio, allora questo inizio non è assoluto». (Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia [1846], tr. it., vol. I, Bologna 1962, p. 311). Dopo più di un secolo permane indispensabile questo bisogno di fondamento. Il mito ha quasi del tutto esaurito la sua carica fondante – oggi assistiamo alle evidenze tarde, sempre meno soddisfacenti – quindi occorre altro di fronte alla pressante richiesta. L’imbarazzata risposta dei filosofi non basta più. C’è in questa situazione un elemento civile che non è male mettere in evidenza. La società anela alla propria fondatezza, ogni acquisto del giornale, fatto la mattina dall’impiegato al catasto, è una richiesta di fondatezza. I benintenzionati aspettano, sempre meno pazientemente. Per fare questo, contrariamente alle preoccupazioni di Kierkegaard, hanno da tempo sospeso la loro pur scarsa attitudine a riflettere. Gli apporti mistificatori (apologetici) non mancano, ma non soddisfano. In fondo Hegel torna ancora di moda, ma occorrerebbe in questo senso una maggiore costanza nelle letture dell’opera sua. Altro dalla logica, per carità, ecco l’affermazione di Kierkegaard, ed ecco il motivo dell’attualità di questo filosofo che di attuale, spesso, ha ben poco. Ecco perché lo rileggiamo sempre con grande interesse, in quanto nelle sue pagine c’è un punto fermo contro il predominio della ragione. Ma non si tratta di una critica fatta in maniera decorativa, essendo intimo il travaglio che la sollecita, spesso in maniera indecorosa, come tutte le intimità reali. Il vecchio Hegel sta laggiù, rifiutando sempre di accostarsi, non accettando tutte le proposte di condiscendere a questa o a quella utilizzazione. Le difficoltà di una lettura utilizzativa di Hegel non sono solo quelle indicate da Kierkegaard nel passo precedente, ma anche dipendono dal conflitto tra dovere e inclinazione che ritorna costante dopo avere agito a lungo dietro le quinte di ogni riflessione morale.

Theodor Wiesengrund Adorno, parlando delle prove dell’esistenza di Dio, dice chiaramente che il lavoro va oggi fatto in contrapposizione sia alla generale diffamazione dell’idealismo come in contrapposizione ai cripto-idealisti, proprio perché nella rappresentazione dell’assolutezza dello spirito si fa luce un salutare correttivo. In questo modo si corregge la deprimente rassegnazione dell’odierna filosofia nei confronti del predominio della cieca esistenza. Così egli scrive: «Lo stesso movimento dello spirito, che – in altri tempi – elevava a concetto il suo materiale, è ridotto a materiale per l’ordinamento concettuale. Sulla base di quello che ti viene in mente, gli esperti sono in grado di decidere se sei un carattere ossessivo, un tipo orale o un isterico. Sottratta ad ogni responsabilità, e cioè separata dalla riflessione, dal controllo dell’intelletto, la speculazione diventa oggetto della scienza, la cui soggettività è venuta meno con essa. Lasciandosi ricondurre dallo schema direttivo dell’analisi alle proprie origini inconsce, il pensiero si scorda di essere tale, e si trasforma – da giudizio di verità – in materia neutra. Anziché tendere al dominio di sé attraverso il lavoro del concetto, si affida passivamente alla rielaborazione del dottore, che sa già tutto fin dall’inizio. Così la speculazione è definitivamente stroncata, ridotta a puro e semplice fatto; e, come tale, incorporata in uno dei rami della scienza classificatoria come prova e documento del sempre uguale». (Minima moralia [1951], tr. it., Torino, 1979, p. 71-72). Questa nuova disposizione delle forze in campo non è ovviamente accidentale, essa risulta diretta a rendere impossibile il passaggio (casuale, ma possibile) dalla realizzazione di sé, dell’epoca o dello spirito del tempo, alla presa di coscienza di sé, del singolo, fatto quest’ultimo denso di pericoli per l’ordine costituito. Mille riflessioni governate dal potere hanno precisamente il compito di sbarrare questo passaggio. Immergersi nel denso mare (poco navigabile) della filosofia hegeliana ha (non ultimo) il risultato di osservare questo meccanismo all’opera, l’involontarietà che diventa fatto volontario e quest’ultimo che si trasforma lentamente in reazione involontaria, fenomeno accumulabile ma non più identificabile nella sua singola modulazione. Qui si è in qualcosa di diverso dal meccanismo dialettico. C’è un altro dell’autocoscienza storica e negativa che si rovescia sul positivo ma si rifiuta di essere rappresentato dalla contrapposizione originaria. Qualcosa di nuovo emerge dall’estrema negazione, ed è qualcosa che si trova nell’àmbito stesso della produzione coatta, qualcosa che viene fuori dalla ripetitività e non è in sé ripetitivo, è incluso nel meccanismo e appare come se fosse fuori di qualsiasi possibile processo dialettico. L’involontarietà diventa storia, meglio sarebbe a dire che si cerca di farla diventare storia, ma non può mai concludersi questo processo nella sua completezza, c’è sempre un rifiuto della coscienza che si presenta in maniera inconscia, vissuta e non pensata, eccesso e non regola, sfrenatezza e non soddisfazione rinviata. La differenza qui è appena venuta fuori dal movimento eterogeneo di cui sto cercando di parlare. Hegel chiudeva tutto il suo mondo di fantasmi in un unico movimento, evidentemente qualcuno di essi è rimasto fuori. La critica negativa sta affermando qualcosa di diverso, si sta aprendo invece di chiudersi nel suo incontro mortale con la positività che la presuppone, il crollo del vecchio significato (valori e dis-valori) ha un aspetto nuovo e diverso, si tratta di una nuova positività. Il confronto kantiano (reale) e quello hegeliano (dialettico) sembrano alle spalle.

Ma non si deve pensare ad Adorno come a un rivalutatore dell’Hegel mistico e romantico. Come Benedetto Croce egli combatte la trascendentalità idealistica con una critica che giunge alla conduzione magica della vita spirituale. Come soggetto la pura negatività semplice è la scissione del semplice in due parti, in altre parole la duplicazione opponente. La negazione di questa diversità indifferente e, nello stesso tempo, della sua opposizione; ricostituisce l’eguaglianza o il rigetto dell’esser-altro in se stesso. Il vero non è l’unità originaria come tale, e neppure un’unità immediata come tale. Il vero è il divenire di se stesso, il circolo che presuppone e ha all’inizio la propria fine come proprio fine, e che soltanto grazie della propria fine è effettuale. Pensiamo a Giuseppe Rensi: «Non c’è dunque nessun modo per determinare con certezza logica che cosa sia Vero. Questo non è determinato né dal riconoscimento di tutte le menti, che abbiamo visto essere impossibile; né da quella della maggioranza di esse, ché se ciò fosse, si dovrebbe veramente dire, secondo l’espressione di Seneca che “sanitatis patrocinium in sapientium turba est”, e invece molte volte èla minoranza di esse che coglie e designa il Vero. Il Vero superiore; né da quello della minoranza delle menti o dell’unica mente, ché molte volte si tratta di eccentricità e allucinazione. Non è, d’altra parte, determinato dalla certezza dell’intuito interiore, ché questo s’accompagna tanto a proposizioni che posseggono effettivamente il carattere di universalità di diritto proprio del Vero, quanto a proposizioni che non lo posseggono, benché abbiano la soggettiva vivissima pretesa di possederlo, pretesa che però resta tale e che la realtà smentisce». (La mia filosofia, Milano 1939, p. 89). Anche l’universalità di diritto non è affatto propria del “vero”, tenendo conto del fatto che il vero non può avere l’universalità come sua caratteristica pena il fatto di azzerarsi come contenuto provvisto di significato. Tutto quello che non è accessibile con la ricchezza dei rapporti correnti, quegli stessi che ci legano e ci significano nel mondo della modificazione, può essere considerato “vero”, oppure del tutto irrilevante, in quanto al di là del senso di cui continuamente desideriamo la disponibilità. Eppure le cose vanno oltre questo standard limitante. Continuamente in noi c’è qualcosa che allude all’infinita sottigliezza che ci sfugge, una zona problematica che oscuriamo per non avvertirne la lontananza e la paura che ne deriva. È difficile negare questa condizione, la quale è costitutiva della nostra esistenza, mentre largheggia senza problemi nell’impulso vitale che ci spinge avanti. Più cerchiamo di andar dentro questa determinazione diciamo iniziale, e più essa si ritira in se stessa, ammutolisce, diventa inaccessibile del tutto. Più procuriamo osservazioni che sollevano risposte, più queste non arrivano, mostrando la natura oscura di queste domande, dove vivono le Madri che ci hanno schizzato dentro i tratti dell’edificio che non possiamo portare a compimento. In questo senso la logica del “tutto e subito” è paradossale. Dove la realtà corre il rischio di diventare viva, umana, eccola chiudersi in maniera inaccessibile. Nessun accadimento che si avvicina all’origine getta luce su quest’ultima, anzi più andiamo vicino alla realtà, più le tenebre tornano a farsi fitte. Gli archetipi bussano alla porta, bisogna evitare di aprire sconsideratamente.

Ma questo non risolve il problema in senso negativo, non ci spinge a considerare impossibile la verità. Aristotele aveva detto: «Dell’essere e non essere si parla o riferendosi alle figure delle categorie, ovvero alla distinzione di potenza e atto per ogni cosa che in esse si predica, e del suo contrario; o, anche, in quanto vero e falso nel loro più proprio significato. In quest’ultimo senso l’essere è considerato nelle cose in quanto può essere composto o diviso. Per la qual cosa è nel vero colui che pensa esser diviso ciò che è diviso, e composto ciò che è composto; e nel falso, invece, chi pensa altrimenti di come le cose stanno. Ora, si chiede: quand’è che esiste o non esiste, quel che noi intendiamo per vero o per falso? Bisogna bene che sappiamo quel che diciamo. Considera, infatti, che non perché noi ti reputiamo bianco, tu sei bianco davvero; ma, all’incontro, perché tu sei bianco pensiamo il vero noi che ti diciamo bianco». (Aristotele, La Metafisica [IV sec. a. C.], IX, 1051b). Difatti, Giovanni Gentile: «Se nel platonismo si potesse con un taglio netto staccare il principio vero dal falso, e pensare così un Platone maestro di verità e un Platone spropositante, sarebbe inconcepibile il ventenne discepolato di Aristotele, critico del suo errore. Platone spropositante, anche un solo giorno, un’ora sola, avrebbe fatto scappar via l’intelligente scolaro che Platone compiacevasi di chiamare Intelligenza. Laddove è risaputo che l’errore del grande uomo suona sempre con accento di verità, che attrae o lascia dubbiosi: ciò che non sarebbe possibile di un errore, che non fosse altro che errore; e non suscitasse altro che quello che ogni errore suscita naturalmente: la ribellione e la negazione. E già non solo il Platone spropositante non avrebbe fermato l’attenzione pensosa di Aristotele; ma non avrebbe fermato neppure quella di Platone stesso! Dal nostro punto di vista non è la verità dunque che non si scorge: anzi è l’errore, nel senso ordinario del termine, come atto, dello spirito che avrebbe dovuto non essere. Niente è, che avrebbe dovuto non essere: e l’animo nostro si posa tranquillo e soddisfatto nello spettacolo di una storia, non di errori e sconfitte dello spirito umano, ma di vittorie (di vittorie sempre maggiori) ond’egli viene realizzando via via la sua divina natura». (La riforma della dialettica hegeliana [1913], Firenze 1975, p. 131). Un uomo ha bisogno di credere, senza una fede non riesce a vivere. Non occorre che questa sia una fede ultraterrena, cioè proiettata troppo in avanti, può anche essere una fede legata alle sue aspettative di vita media, una fede terrena. Qualcosa del genere accade a molti scienziati che trasferiscono di peso la loro fede nella ragione appena un po’ più in là, e ne ricavano un preteso fondamento per una fede in Dio. Ma la loro resta ovviamente una fede di origine terrena, un punto qualsiasi, e spesso piuttosto ingenuo, su cui poggiare i piedi. Non volendo ammettere la necessità di una “critica della ragione”, e quindi anche delle procedure operazioniste da essa raccomandate, finiscono per confermare la fede irrazionale nella ragione stessa, illudendosi così di sigillare il loro patto con la certezza e la verità.

Ma il culto della metodologia scientifica presenta, sia pure nell’àmbito stesso della logica dell’ “poco a poco”, delle perplessità che per quanto vengano accuratamente nascoste non possono essere annullate. Oggi viviamo in un’atmosfera di sfiducia e di incertezza, prima che nelle idee questa atmosfera è nelle cose di tutti i giorni e sta cominciando a penetrare nel senso comune. Il metodo scientifico ha quasi del tutto messo da parte l’idea di riuscire a fondare dentro se stesso la ricerca della verità, da qui la nascita di una fede sostitutiva, il tutto sempre nell’àmbito del meccanismo accumulativo, una fede fondata su una nuova cosmologia, un nuovo evoluzionismo probabilistico, una ecologia planetaria, una speranza nella possibilità di vincere la malattia e perfino la morte, ecc. Il tutto per sostituire le antiche favole sulla genesi, la deterministica congettura sullo sviluppo della coscienza umana, il rapporto tra micro e macrocosmo e il mito della resurrezione.

Il rapporto tra fede e certezza è strano ma spiegabile. Non ci sono elementi di prova che possano garantire la certezza, ci sono cose più o meno probabili, accadimenti e azioni che presupponiamo si possano verificare in un modo o nell’altro, ma dobbiamo evitare di approfondirle troppo, in caso contrario diventano inattendibili, non prevedibili. E poiché la nostra vita è un’aspettativa, sempre piuttosto grossolana, ci adattiamo a queste incertezze e le sostituiamo con un’attesa fideistica che le trasforma in certezze. Se chiediamo alla nostra individualità concreta qual è lo scopo che sta dietro la volontà, se questo scopo c’è ed è chiaro, se esiste un modo sicuro di porre rimedio alla cecità del volere, non abbiamo mai una risposta sicura. Passiamo tutta la vita raccogliendo i risultati della coscienza immediata e sappiamo anche recuperare o nascondere le sconfitte vere e proprie, riproponendole come apparenti vittorie, ma tra vittorie vere e false non sappiamo realmente cosa rispondere alla domanda che insiste sul tramonto della vita. Abbiamo solo le parole per spiegare, ma non si tratta di spiegazioni, anche quando siamo capaci di spezzare il cerchio di controllo della volontà cieca, non siamo sicuri di non restare soli, e la solitudine ci fa paura e ci predispone alla rinuncia del coinvolgimento. Ma il vero problema è quello del condizionamento che l’uomo riceve nel suo fare quotidiano, dal quale àmbito non può fuggire se non andando oltre, avanzando fino all’eccesso, oltre l’inquietudine. In altre parole egli può scegliere solo mettendosi a rischio, rifiutando le soluzioni armoniche che acquietano solo temporaneamente. Le nuove possibilità, una società che ci viene incontro in maniera del tutto inusitata, avvolta nelle nubi improbabili del mito, i progetti che non possono realizzarsi nell’esaurimento delle condizioni presenti, tutto questo è una nuova morale che alza il grido di battaglia, un accenno verso dove bisogna andare, qualcosa di più di una semplice negazione. La desolazione che si prospetta è segno di perdita, ma è nella perdita che possiamo misurare la vera forza, non nel vano dibattersi di chi vuole sempre vincere e non si accorge della bianca signora che l’aspetta dietro l’angolo. Se la situazione coatta non può mai realizzarsi fino in fondo, lo stesso accade per il movimento dell’oltrepassamento. Non è un viaggio che si fonda su certezze. Le favole aiutano a vivere, ma le possibilità sono nemiche delle favole.

L’antica certezza immediata della totalità non è più disponibile. Quando Hermann Hesse ci fa vedere la danza dell’allievo in riva alle fredde acque del lago, davanti al sole nascente, la danza che si distende al vento e sembra abbracciare l’orizzonte ancora avvolto nell’oscurità, sotto gli occhi del maestro, occhi capaci di indagare ma non di porre freno alla morte vicina, egli stabilisce una distanza precisa tra l’innocenza del ragazzo (che come l’antico pastore o il cacciatore descritti da Gottfried Benn possedevano il mondo nelle proprie mani) e la diversità pensosa che siede sulle rive dell’argine, stanca del percorso ricognitivo e desiderosa solo di concludere. Non c’e altro da fare, a un certo punto, che attraversare la notte chiedendosi dove si sta andando, se c’e ancora il rischio di essere ciechi dentro, a causa di una sollecitazione senza nome e senza scopo, o di essere ciechi fuori a causa di motivi a cui possiamo porre rimedio. Dalla necessità di trovare un fondamento all’urgenza di crearlo comunque sia, il passo può essere breve. E lo strumento linguistico aiuta, o circoscrive aiutandolo, lo sforzo della immaginazione. Un’assenza affermata senza convincimento trasformativo, cercata soltanto come ipotesi superflua da eliminare, non basta a fondare certezze. La semplice testa della libellula di cui ci dice Benn, l’ala del gabbiano, sarebbero troppa sofferenza, troppo dolore. Ancora più giù, più essenzialmente al di sotto, forse, si potrebbe trovare la quiete, nelle medesime acque segnate dall’argine, in un’avventura nella cosa, in un abbandono del flusso per restare nella cosa, nel territorio della desolazione, restarci per sempre, al di là del delirio. Da qui il baluginare continuo della fede.

Certo, non possiamo accettare una fede direttamente. La nostra coscienza etica si rifiuta di accettare un compromesso del genere. Non possiamo cioè dirci, a tu per tu, facciamo come se fosse vero e finire per crederci. Siamo troppo rigidi per una cosa così superficiale, noi abbiamo bisogno di pensieri virtuosi e corretti. Una fede, per essere tale, deve fondarsi su dati concreti. Se questi mancano, o sono approssimativi, non occorre preoccuparsi, possiamo sostituirli con un ottimo surrogato della realtà, possiamo sostituirli con l’ideologia. Più questa sostituzione è assurda e forzata, più regge e viene mantenuta a lungo. Più diventa grande e articolata, più da semplice idea, proiettata sullo sfondo come un miraggio, si trasforma in un corpo organico di idee che si automantiene e giustifica, fornendo alibi a sostegno di chi ha la prudenza di non fare troppe domande. La demolizione del soggetto continua però a operare. Faremmo bene a prenderne nota. Spingere l’opposizione negativa è importante, spingerla alle sue estreme conseguenze, ma non soddisfa fino in fondo, la vecchia totalità rivive per brevi sprazzi, poi torna nel buio da cui era uscita per la lunga stagione hegeliana. Adesso prevalgono gli inconsci che animano corpi desideranti, sostitutivi dei soggetti precedenti ingozzati di ideologia. Ma la critica deve sapere andare oltre, oltre la stessa fine del soggetto, oltre la stessa demolizione nichilista tipica dei rituali mitteleuropei. Gli spazi logici si stanno riducendo, c’è in corso una dispersione quotidiana di possibilità euclidee, scavare altrove verso il fare in movimento che viene rifiutato, verso le strutture che crollano in se stesse improvvisamente private del sostegno che noi gli davamo con tanta pervicace stupidità. Un nuovo fare si presenta ogni momento – sappiamo che è insufficiente – comunque è da là che bisogna partire, la sua dialettizzazione ci accora, essendo proprio questa l’arma più affilata del recupero, il prete sacrificante più difficile da scoprire, ma non esiste altra strada. Lo spazio attivo della desolazione, lo spazio non-euclideo non può più aspettare.

Questo bisogno di credere attraversa tutta la storia dell’uomo, sia quella dei suoi fatti come quella delle sue azioni e, se vogliamo distinguere, anche quella dei suoi pensieri. Al momento del passaggio dei poteri dall’oscurantismo religioso dominante alle prime conquiste del pensiero cosiddetto laico, ci si illuse che si potesse fare a meno di credere. Ogni male della società venne allora rinviato alle colpe della fede in Dio, ma non si tenne sufficientemente conto dell’ammonimento di Max Stirner che faceva vedere come Dio potesse benissimo trasferirsi armi e bagagli dal cielo alla terra. La fede in Dio divenne fede nella scienza. Alla pratica della preghiera mattutina l’uomo laicizzato sostituì la lettura del giornale, poi, più avanti, l’ascolto religiosamente passivo della radio e, oggi, della televisione. La fonte di produzione delle certezze si trasferisce ma resta sempre nella salda mano del potere.

La certezza è principalmente un bisogno procurato ad arte, prodotto nell’àmbito dell’accumulazione e, come tale, sottoposto a continue revisioni e mantenimenti. Non c’è dubbio che anche gli uomini di potere siano uomini di fede. Non appena si rivela l’infondatezza di una certezza la sostituiscono con un’altra. L’elaborazione del pensiero dominante è una lunga riflessione sui fondamenti della certezza, quindi sull’ideologia del potere, ora dura, ora morbida, ora iraconda e iattante, ora trascurata e triste. Non importano molto queste varianti, quello che conta è fornire a se stessi e agli altri una base alla fede, un soddisfacimento come che sia a questa primaria necessità. Per rendere possibile questa base si è fatto ricorso all’amore, supponendo che l’amore potesse dirigersi in maniera più armonica verso la migliore intenzione possibile. Ma l’esistenza di questa ipotesi fissa un valore al di là dell’amore e con questo solo fatto annulla il significato del sentimento che dovrebbe invece dilagare liberamente, andare oltre qualsiasi ostacolo, rivelare il proprio essere qualcosa di eccessivo. L’amore è un riflesso della tensione, una possibilità non garantita, un rischio, un coinvolgimento totale. L’amore è il sinonimo che meglio conosciamo del concetto di coinvolgimento. Chi si risparmia, chi si tira fuori, anche per un solo piccolo attimo, chi si ritrae nel tentativo di mettersi in salvo, è nemico dell’amore.

Se ragioniamo dal punto di vista della povera gente, proprio della classe più diseredata, qui la fede assume un valore ancora più importante, se non altro per sopportare il peso della miseria. Ma anche per la classe dominante la funzione della fede è importante, in quanto deve pure darsi una spiegazione del suo compito direttivo e repressivo. La miseria spera di stare meglio, ma la ricchezza non può sperare di stare peggio. E non bisogna credere molto al potere per il potere o alla ricchezza per la ricchezza. Occorre un fine ultimo, ideale, anche per i dominatori. La cosa più strana è che questa fede deve per forza essere più forte nelle classi oppresse, perché è qui che bisogna necessariamente credere in un cambiamento, vista la situazione di miseria in cui ci si trova. Nelle classi più elevate, e quindi più colte, anche se il cambiamento non ci sarà la situazione presente è sufficientemente accettabile. Per questo motivo, le riflessioni più impietose nei riguardi della fede, e quindi anche della possibile certezza di qualcosa o in qualcosa, sono avvenute nei laboratori della classe dominante.

Mentre restava, e per taluni aspetti resta, incrollabile la fede nel buon senso comune dell’uomo della strada, un serpente velenoso si è insinuato fra le certezze della classe dominante. Che la scienza meritasse fiducia, fin quando si restò nell’àmbito macroscopico delle analisi, era un dogma fuori discussione. E questo durò, diciamo, fino agli albori del secolo che sta per chiudersi. Ma del vecchio Dio che cosa se ne faceva? A parte l’uso meramente strumentale dei professionisti della religione, il vecchio armamentario fideistico passò di sana pianta al servizio di bisogni terreni. Il Dio della certezza intima e quello della certezza oggettiva si separarono e diedero un contributo notevole alla costruzione di due fedi che, stranamente, presero ambedue il nome di scienza. L’antico razionalismo aristotelico e tomistico passò in pianta stabile nelle premesse non dimostrate della scienza fisica, sopportando stoicamente gli strali pungenti dello scetticismo anglosassone che voleva, in modo lungimirante, costruire subito ma società più razionale, mentre l’antico Dio ascoso, quello che è nel soggetto, nel cuore, che ha sue ragioni diverse da quelle analitiche, venne ricuperato, a livello di massa, dall’incredibile ed entusiasmante operazione hegeliana. Il successivo marxismo seppe raccogliere questa seconda parte del soggettivismo hegeliano e vi costruì sopra un ragionamento materialista, per un verso, e storicista, quindi idealista, per un altro verso. Ma queste direzioni, per avere sussistenza logica, quindi per potere essere discusse e criticamente tenute a distanza, se si preferisce, bisogna che l’implicito atteggiamento religioso eviti la tentazione di dare realtà e statuto di essere alla possibilità, prima che diventi altro, cioè prima che venga realizzata nel mondo, sottoposta alla coazione del legame e del senso. Resta poi il compito di dare inizio a qualcosa d’altro partendo proprio dal campo, dal luogo medesimo della coazione. La dialettica non può far fronte a questo impegno, troppo disinvolto difatti il suo meccanismo, troppo arditamente (e ingenuamente, secondo le valutazioni) travalica nello schematismo ingiustificato e nel determinismo.

Nel vasto cimitero della storia, le ragioni si intersecano senza che ci sia la possibilità di giustificarle in processi lineari. Tutti i tentativi in questo senso sono costruzioni modellistiche che corrono il rischio di trasformarsi in ghigliottine al lavoro, mezzi di massacro non di chiarezza e di illuminazione intellettuale. Non ci sono vette dove volano aquile, ma brumosi argini dove gli individui stanno seduti a guardare il lento scorrere delle acque aspettando segnali che non arrivano senza il personale coinvolgimento. Certo, so benissimo che questo coinvolgimento non salda sicuramente il flusso polarizzato, so che potrebbe tradursi in un fallimento e in un ritorno ancora una volta al posto assegnato sull’argine, e so anche che ogni ricomposizione è sempre la mia ricomposizione e non può essere proposta a riferimento o simbolo, ma è tutto quello che posso fare, l’unica posta che posseggo e che posso mettere in gioco. Solo così comincio a lavorare sulla base della logica del “tutto e subito”, il che significa ora e qui, in qualsiasi condizione mi trovi, senza guardare nessuno in faccia, a qualsiasi costo. Non il desiderio di un cielo pulito o del famoso volo delle aquile, ma la penetrazione in problemi specifici, qui, con una fedeltà ottusa al proprio compito che è quello di vivere la vita nella sua singolarità e nella sua irripetibile specificità, senza smarrirla in un anonimato imposto dall’accumulazione o dalle cieche velleità del semplice volere. L’unica fede che mi sembra accettabile è quella nella vita, nella mia propria vita, con la prospettiva precisa della sconfitta ma con la pratica attiva della vittoria, una fede che non ha nulla a che vedere con meccanismi progressivi e lineari, con le grandi progettualità accumulative della scienza e con i soporiferi scopi dell’ideologia, ma fede attiva e personale che si apre e si conclude nella propria capacità di trasformazione a prescindere da eventuali limitatezze che non mi riguardano e non possono costituire per me un freno. Che questa fede nella vita sia sostanziata da una carica desiderante posso pure ammetterlo a condizione di intendersi sul concetto di “desiderio”. Questo non può essere un punto di attesa in vista di maturazione o rovesciamento, non importa. Deve essere luogo del ripristino delle differenze, prima di tutto di quelle che il corpo impone, delle presenze attive che inconsciamente lasciamo venire avanti senza sottoporle al giudizio preventivo della produzione coatta. Questo desiderio non ammette spostamenti, deve essere realizzato da me, qui e subito, non può aspettare che investimenti oggettivi esterni lo rabbercino in modo plausibile.

Eppure il rapporto spiritualità-lavoro perviene a un fondamento ontologico nel senso critico e non heideggeriano del termine. È nella Fenomenologia [1807] che Hegel concepisce lo spirito spontaneo come lavoro. In questo modo il rapporto dello spirito con la datità diventa il processo lavorativo. Scrive Hegel: «L’autocoscienza ha trovato la cosa come sé e sé come cosa; vale a dire è per l’autocoscienza ch’essa, in sé, è l’effettualità oggettiva. L’autocoscienza non è più la certezza immediata di essere ogni realtà; ma è una certezza tale per la quale l’immediato in genere ha la forma di un tolto, di modo che la sua oggettività vale ancora soltanto come una superficie, di cui interno ed essenza è l’autocoscienza medesima. L’oggetto al quale l’autocoscienza si rapporta positivamente è, perciò, un’autocoscienza; esso è la forma della cosalità, vale a dire è indipendente; ma l’autocoscienza ha la certezza che questo oggetto indipendente non è per lei nulla di estraneo; essa quindi sa di essere da lui riconosciuta in sé; essa è lo spirito che nella duplicazione della sua autocoscienza e nell’indipendenza di entrambe le autocoscienze ha la certezza di avere la sua unità con se stesso. Tale certezza la si deve ora elevare a verità: ciò che per l’autocoscienza ha il valore di un in- e che è nella sua interiore certezza, deve entrare nella sua coscienza e divenire per lei». (Fenomenologia dello Spirito, tr. it., vol. I, Firenze 1963, p. 292). Come a dire che la vera infinità – per Hegel – si ha quando l’essere determinato conclude una relazione con se stesso che lo porta a essere altro da sé, cioè a divenire altro in una relazione dinamica con se stesso, conquistando un altro per sé. Qui il concetto di negazione non conclude verso il nulla, ma si capovolge, con uno dei classici movimenti hegeliani, in una sorta di valore positivo. L’essere finito negandosi si apre alla trasformazione, la negazione è qui processo di rinascita e movimento verso la coscienza di sé. È certo che verso altre aperture bisognerebbe andare. La cosiddetta dialettica negativa si è mossa in questa direzione. Ma ci sarebbe da chiedersi: che cosa è riuscito a filtrare nella pratica della produzione coatta del quotidiano? La positività affermativa fa parte del desiderio, è lo stesso desiderio, ma va oltre il desiderio. Va oltre quando comprende finalmente che quello che desideriamo è la stessa miseria che siamo, anche se si presenta come aspirazione dettata dalla mancanza. Che questo desiderio si presenti a volte come “irruzione” non cambia nulla. L’esterno, nell’àmbito coatto, ci fornisce quello che passa il convento, quello che noi stessi proponiamo ci venga fornito. Insistere sul negativo non modifica la situazione, siamo sempre nell’interno della rappresentazione globale. Quando desidero mi immagino la cosa desiderata e anche la messa in scena che rende significativa questa cosa, in altri termini mi immagino i simboli che rendono la cosa in questione desiderabile. Ma il mio desiderio non è l’antitesi della cosa desiderata, è solo la medesima cosa vista da angolazioni diverse, con in più la mia personale condizione di distretta che la cosa non è detto debba possedere, condizione che il simbolo (la messa in scena) non sempre riesce a rimuovere.

Adorno conclude che “sapere è inquietudine”, e dalla brama nasce il lavoro. Collegando direttamente la brama col lavoro quest’ultimo viene liberato dal pericolo di essere considerato come attività astratta dello spirito astratto. Opponendo dialetticamente l’essere in sé e l’essere per sé si chiarisce anche il concetto hegeliano di idealismo. Il finito non può mai essere visto come un’entità chiusa nel suo isolamento e rigida, ma esso è in continuo movimento per divenire altro da sé. Il finito non è solo “realtà”, ma è anche “idealità”. Il finito non ha la verità in se stesso, ma l’acquista come ideale, prelevandola dall’interno dell’infinito. Hegel dichiara l’unità di pensiero e di realtà, agente solo quando si raggiunge, e pertanto si riconosce, l’ “idealità” del finito e il suo carattere positivo.

Paul Ricoeur noterà che questa brama per attingere il suo sé dovrà dirigersi verso altro da sé, quindi verso uno sdoppiamento della coscienza in due autocoscienze rivali. Solo in questo modo l’autocoscienza è desiderio. Con Ricoeur il metodo riflessivo rompe il patto con l’idealismo e diventa ciò che chiarisce l’esistenza tramite nozioni, stabilisce cioè un rapporto col vissuto. E chiarire l’esistenza significa ricavarne il senso. In questo modo il pensiero di Ricoeur parte dal problema dell’interpretazione, della liberazione del senso, cioè dell’ermeneutica. Da Nietzsche in poi il problema vero non è più quello dell’errore o della menzogna ma quello dell’illusione. La crisi attuale del linguaggio è oscillazione tra demistificazione e restaurazione. In questo modo la filosofia di Ricoeur diventa meditazione sul linguaggio. Nel lavoro Philosophie de la volonté [1950], cerca di riconciliare Cartesio e Kierkegaard. Il lavoro è fenomenologico. Egli mette tra parentesi, come dice Husserl, la colpa che altera l’intelligenza dell’uomo, e la trascendenza che nasconde l’origine radicale della soggettività. Non le separa né le unifica. Rifiuta il dualismo e il monismo. Il volontario e l’involontario sono componenti necessarie di quello che Ricoeur chiama “volontà”. La volontà dispone di ogni nostra abitudine come un pianista esperto dell’insieme dei tasti del suo pianoforte. Tutta l’opera di questo filosofo è una sorta di dialettica tra attività e passività, uno sforzo per trovare l’involontario all’interno dell’esperienza integrale del cogito. Dieci anni più tardi, il lavoro Finitude et culpabilité [1960] cerca di superare il dualismo tra volontario e involontario all’interno di una dialettica dominata dalle idee di sproporzione, polarità tra finito e infinito e, soprattutto, di mediazione. La totalità viene prima di tutto. Il progetto di Ricoeur è razionale. Una vasta filosofia del linguaggio che partendo dal cogito incontra delle ermeneutiche riduttrici che non vuole soltanto contestare ma anche utilizzare e comprendere. Il significato non resta soltanto alla vecchia distinzione tra verità di ragione e di fatto, Ricoeur va oltre, verso il superamento di questo dualismo portando la riflessione sul desiderio. Lo schematismo kantiano è considerato troppo limitativo per quanto riguarda l’esperienza. Le categorie logiche della storicità e del processo esistenziale esigono modalità differenti. Il desiderio può operare in questo senso a condizione di sdoppiare la rappresentazione della cosa desiderata. Il tragico si cambia in parodistico, la libido in ripetizione senza uscita. Una specie di teologia critica dove il soggetto giace a terra attaccato da più parti, non più commemorazione dei successi soggettivi del passato, ma rammemorazione di qualcosa di completamente diverso. Ricoeur non sa bene in che modo il rifugio estremo dello spirito oggettivo sia stato colpito ma ne è convinto, difatti si permette una critica totale, rigettando anche la rappresentazione come di già sufficientemente martirizzata.

Naturalmente in questo modo si ha il rischio di riproporre una universalità chiusa, il lavoro non solo trasforma la natura, ma la pone. Lo spirito disprezza quello che è stato al di fuori e afferma che non vi è nulla al mondo che appaia attraverso il lavoro. Difatti Hegel approfondisce in questo modo: «Il piacere goduto ha bensì il significato positivo di esser divenuto a se stesso come autocoscienza oggettiva; ma ha parimenti il significato negativo di aver tolto se stesso; e siccome l’autocoscienza ha concepito la propria attuazione soltanto in quel significato positivo, la sua esperienza entra come contraddizione nella sua coscienza, nella quale la raggiunta effettualità della singolarità di essa autocoscienza assiste alla sua distruzione da parte dell’essenza negativa che, priva di effettualità, sta vuota di contro a quell’effettualità raggiunta, tuttavia costituendo la potenza distruggitrice dell’autocoscienza. Tale essenza non è che il concetto di ciò che questa individualità è in sé». (Ib., p. 303). E più avanti continua: «Tuttavia tale individualità non ha più forma dell’immediato e semplice essere, come accadeva allo spirito osservativo, dov’essa è l’astratto essere o, posta come un estraneo, la cosalità in genere. Qui in questa cosalità sono entrati l’esser-per-sé e la mediazione. L’individualità sorge perciò come circolo il cui contenuto è lo sviluppato puro rapporto delle essenzialità semplici». (Ib., pp. 303-304). Qualificato per sé l’essere determinato come Uno si distingue dall’uno e si torna a porre come uno nel molteplice. Si mette in luce così l’uno come ciò che è assolutamente incompatibile con se stesso, delineandosi alla fine come il molteplice. L’ambiguità che caratterizza il sistema filosofico di Hegel, come si vede studiando le critiche che dilagano in tutta la storia della filosofia contemporanea, ha prodotto molte e contrastanti interpretazioni della dialettica specie nella storia delle teorie politiche. In particolare è stata notata la tendenza di Hegel a restringere l’eterno in un tempo determinato con la conseguenza di assolutizzare quest’ultimo. Si ha così che la storia viene considerata come negazione della temporalità vera e propria, finita in se stessa, del processo temporale, in una parola dell’esistenza. Il processo verso il divenire è per Hegel un tornare indietro, un rincorrere il fondamento, l’originario, in una parola il vero. L’essenza è ciò che l’essere era, e che ora per Hegel torna a essere come ritorno in sé. Essa risolve in questo modo la riflessione del negativo nel positivo, il mondo dell’uomo in quello dell’idea. La storia finisce perché lo spirito diventa cosciente di sé. Il ritorno hegeliano è stato criticato in mille modi ma non esperito fino in fondo. La negazione, centro critico di questo processo, esige che i movimenti non vengano assolutizzati, e questo è tipicamente hegeliano. Come si fa allora a procedere avanti con la critica contro Hegel? Gli strumenti di questa critica vengono, sistematicamente, smussati dallo stesso filosofo che costruisce in anticipo le proprie risposte in maniera circolare. Ogni volta il proprio compito ricomincia daccapo.

Secondo Hegel la libertà è diventata l’essenza della vita umana, nella sua unicità e irripetibilità. Essa non indica più soltanto una condizione politica, come accadeva nel mondo antico, ma è diventata una categoria filosofica, metafisica, morale, che caratterizza la natura finita dell’uomo. Lo stesso Hegel e poi, dopo di lui, moltissimi filosofi, di questa categoria hanno abusato a lungo. Eppure nello scontro delle teorie Kant aveva di già detto una parola conclusiva, che non bisogna dimenticare. Egli aveva revocato in dubbio la definizione aristotelica dell’uomo come “animale politico dotato di ragione”. La animalitas e la rationalitas non bastano a definire l’uomo, ci vuole qualcosa di più. Ci vuole la spiritualitas, che per Kant consiste nel fatto che ognuno è personalitas moralis, fine mai mezzo. In altre parole, occorre che la libertà costituisca l’humanitas dell’uomo. Ma la libertà vista da Kant cade in una terribile contraddizione. Com’è possibile che l’esistenza umana riesca a sfuggire alla causalità della natura e si muova, cioè agisca, sulla base di una “causalità per la libertà”? Com’è possibile che essa non sia determinata dalla necessità naturale, ma scelga spontaneamente quel che vuol fare di sé? La risposta di Kant è deludente. Per lui la libertà è una chimera che dobbiamo cercare di raggiungere sul piano morale, mentre resta inconoscibile su quello teoretico. Bisogna considerare che la via d’uscita potrebbe essere quella che afferma essere l’uomo un “animale non ancora definito”, privo di un’essenza o di un principio, di una causa o di un’idea, cioè di una condizione di possibilità, che lo precede e lo fonda. Per cui, effettivamente, potrebbe trovare impensabili vie d’uscita, e ciò non solo nella pratica, ma anche nell’ipotesi teorica. Nell’uomo l’esistenza precede e caratterizza l’essenza, per cui egli non ha un paradigma o una forma ideale a cui conformarsi, ma concretizza se stesso, di volta in volta, sulla base di ciò che decide di essere nella sua esistenza vissuta, in termini di concreta scelta di vita. Senza voler nascondere che anche qui si annida un ultimo residuo del pensiero dell’essenza, un’ultima pretesa di definire l’essenza dell’uomo, sia pure sciogliendola nella sua esistenza.

È il principio d’immanenza che si ripropone a esempio in Adorno quando afferma che se la natura non è tutta lavorabile non è possibile determinarla in ultima sede che attraverso il lavoro. Abbiamo quindi, a torto o ragione, la metafisicizzazione del lavoro. Adorno riproblematizza il marxismo in rapporto a Hegel come Ricoeur riproblematizza Freud sempre in rapporto a Hegel.

Per Ricoeur, se l’appagamento consiste nel togliere l’altro occorre che l’altro ci sia affinché ci possa essere il togliere stesso, con le parole di Hegel l’autocoscienza riproduce l’oggetto nonché l’appetito. La presenza dell’interlocutore non cosale trasforma l’oggetto in materia di contesa “spirituale”. Questa lotta per il riconoscimento, ha detto Ricouer, non è lotta per la vita, ma lotta per strappare all’altro la prova che io sono un’autocoscienza libera. Un’altra esistenza, la sua realtà, mi rende attuale e rende concreto il mio percepire sottraendolo in parte alla coazione del fare. Questo fantastico sottrarre è impercettibile in quanto quell’esistenza non mi sta di fronte ma risale al di là della vita dell’uomo, di qualsiasi vita immaginabile sulla terra. L’infinito passato mi riconosce come partecipe di questo patrimonio e riconoscendomi mi conforta nel mio essere una coscienza possibile, cioè diversa, libera. Così Hegel: «La presentazione di sé come pura astrazione dell’autocoscienza consiste nel mostrare sé come pura negazione della sua guisa oggettiva, o nel mostrare di non essere attaccato né a qualche preciso esserci, né all’universale singolarità dell’esserci in generale, e neppure alla vita. Tale presentazione è l’operare duplicato: l’operare dell’altro e l’operare mediante se stesso. Finché si tratta dell’operare dell’altro, ognuno mira alla morte dell’altro. Ma così è già presente anche il secondo operare, l’operare mediante se stesso; quell’operare dell’altro, infatti, implica il rischiare in sé la propria vita. La relazione di ambedue le autocoscienze è dunque così costituita ch’esse danno prova reciproca di se stesse attraverso la lotta per la vita e per la morte». (Ib., pp. 156-157). E più avanti: «L’individuo che non ha messo a repentaglio la vita, può ben venire riconosciuto come persona; ma non ha raggiunto la verità di questo riconoscimento come riconoscimento di autocoscienza indipendente. Similmente ogni individuo deve aver di mira la morte dell’Altro, quando arrischia la propria vita, perché per lui, l’Altro non vale più come lui stesso; la sua essenza gli si presenta come un Altro; esso è fuori di sé, e deve togliere il suo esser-fuori-di-sé; l’Altro è una coscienza in vario modo impigliata che vive nell’elemento dell’essere; ed esso deve intuire il suo esser-altro come puro esser-per-sé o come assoluta negazione». (Ib. p. 157). Si può affermare che la risoluzione dell’ambiguità interna alla dialettica hegeliana risiede nelle sue potenziali interpretazioni. Solo chi rifiuta un pensiero sistematico può trovare la strada verso una esigenza di verità che si configura come modo di relazione o, se si preferisce, come apertura-sul-mondo. Per Hegel l’oggetto acquista un contenuto di storicità non dal suo divenire nel tempo. I significati che l’oggetto acquisisce dall’interpretazione non sono esclusivamente il risultato o la proiezione di una trasformazione possibile, legata al tempo. La storicità, se fosse così interpretata, sarebbe inserita in un’ottica che basa l’oggetto sull’essere materiale, o su l’essere ideale, quindi di fronte a una riduzione dell’oggetto a processo ideologico di copertura. Esso sarebbe l’espressione di una entità a sé stante e definita una volta per tutte. Invece l’essere storico dell’oggetto, grazie alla valenza positiva del negativo, supera per Hegel la divisione tra natura e ideale, perdendo la sua autonomia che verrà riacquistata per altre strade.

Ma la preoccupazione più apprezzabile è sempre quella di evitare lo gnoseologismo nell’idealismo, rischio corso dall’idealismo trascendentale e da Hegel in particolare che ha finito per scambiare l’essere alla coscienza con l’essere della coscienza. Con acume, ecco la critica di Kierkegaard: «Se si comincia subito la lotta con le categorie etiche contro questa concezione oggettiva, si è nel torto e non si ottiene alcun risultato, perché non si ha niente in comune con la parte attaccata. Ma quando si resta nel piano metafisico, per raggiungere un tale professore trasfigurato basta ricorrere allo spunto comico, ch’è anche contenuto nel momento metafisico. Se un ballerino riesce a saltare molto in alto, noi lo ammiriamo volentieri; ma se egli, anche se fosse capace di saltare più alto di quanto mai abbia fatto qualsiasi altro ballerino, volesse dare l’apparenza di voler volare, allora ci farebbe ridere. Saltare significa essenzialmente che si appartiene alla terra e che si rispetta la legge di gravità: così il salto non è che qualcosa di momentaneo; ma volare significa che ci si è svincolati dai rapporti terrestri, come qualcosa ch’è riservato soltanto alle creature alate: forse anche agli abitanti della luna, forse – chissà, forse anche è lassù che il sistema trova i suoi veri lettori! Si è abolito ciò che costituisce l’essere uomo ed ogni speculante si scambia con l’umanità, mediante la quale si diventa qualcosa d’infinitamente grande e nello stesso tempo un nulla affatto: costui si scambia per distrazione col genere umano, proprio come i giornali dell’opposizione scrivono “noi” e i barcaioli “che il diavolo ci porti via!”. Ma quando si è imprecato a lungo, si ritorna alla fine all’espressione diretta, perché ogni giuramento abolisce se stesso. E quando si è imparato che ogni infante può dire “noi”, allora ci si rende conto che ciò significa niente di più che essere uomo. E quando si vede che ogni bottegaio può giocare al gioco di spacciarsi per l’umanità, alla fine ci si rende conto che essere semplicemente e puramente un uomo è qualcosa di più del giocare a quel modo al gioco di società. Una parola ancora: quando un bottegaio si spaccia per l’umanità, tutti pensano ch’è una cosa ridicola. Eppure è anche ridicolo quando lo fa l’uomo più grande di questo mondo: sotto questo aspetto si può ben metterlo in berlina, rispettando tuttavia le doti e le conoscenze di cui fosse fornito». (Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia, op. cit., vol. I, pp. 320-321). In effetti qui la critica di Kierkegaard non coglie nel segno. Hegel affermava di concludere la filosofia in quanto il suo pensiero era l’umanità matura. Riassumere in sé il mondo, nella propria filosofia il pensiero dell’umanità intera, è la conseguenza paradossalmente logica della dialettica. Non c’è motivo di menarne scandalo, almeno da parte di coloro che prima non si erano affatto scandalizzati di fronte ai passaggi diciamo “normali” delle varie scansioni hegeliane della Fenomenologia. Ma non si tratta di una “fine” vera e propria, i moderni sostenitori di questa “fine” dicono altre cose che non è il caso di trattare qui. Invece mi pare interessante notare come sia stato tentato un passo avanti per recuperare il movimento del processo dialettico in modo che si salvi qualcosa, cioè che alcuni aspetti non vengano inglobati e “tolti” via, ma restino a testimonianza del processo critico in corso. Si tratta di aspetti di scarto, altre volte, e da Hegel stesso, considerati come elementi ciechi, non rappresentativi, criminali in una società di contrappositori dotati del crisma della normalità. Questa differenza, nel processo logico hegeliano, viene recuperata o taciuta – modo di recupero inconscio – in maniera che tutto appaia perfettamente lineare nella conquista da parte dello spirito della propria identità, mentre può essere tenuta fuori, messa in sospetto in quanto “differenza sfuggita alla dialettica”, non accettata dall’identità. Il concetto dell’oggetto si trova privato di qualcosa che avrebbe dovuto essere dentro e invece si trova fuori, in una regione del possibile dove deve giustificare un movimento diverso. Questa disgregazione non si sa cosa possa determinare, comunque, per il momento, presenta un concetto diverso, che il soggetto conoscente pone di fronte a sé e con il quale deve ancora fare i conti. L’identità tra questi due movimenti è la non-verità, il rifiuto del sistema. Il desiderio domina questa contrapposizione, l’inconscio continua a giustificarla.

Il discorso della fine si approfondisce meglio nella Filosofia del diritto, del 1827. Come tutti ammettono – dice Hegel – la natura deve essere riconosciuta per quello che è, cioè intrinsecamente razionale, così si deve ammettere che nel mondo etico, nello Stato, la ragione si è affermata nel fatto come forza e potenza e che vi si mantiene e vi abita. Per Hegel nel mondo etico (famiglia, società civile, Stato) la libertà è diventata realtà. Il sistema del diritto come tale è quindi il regno della libertà realizzata, il mondo dello spirito espresso da se stesso come una seconda natura. Ma per realizzarsi il diritto come tale occorre che la volontà finita dell’individuo si risolva disperdendosi in una volontà infinita e universale.

La filosofia del diritto è divisa in tre parti: 1) Diritto astratto: è quello della persona individuale e si esprime nella proprietà. 2) Moralità: sfera della moralità soggettiva che si manifesta nell’azione. Il valore che l’azione possiede per il soggetto che la compie è l’intenzione, il fine è il benessere. Quando l’intenzione e il benessere si sollevano all’universalità il fine assoluto della volontà diventa il bene. Ma questo bene è un’idea astratta non esistente per conto suo, attende di passare all’esistenza a opera della volontà soggettiva. 3) Eticità: il bene si è realizzato concretamente ed è diventato esistente. Questa è la sfera della necessità. Questa eticità si realizza dapprima nella famiglia e nella società civile, solo in quest’ultima, dal punto di vista dei bisogni, la persona giuridica e il soggetto morale divengono propriamente l’uomo, cioè la concretezza della rappresentazione.

Secondo Hegel, uomo è l’individuo etico immesso nel sistema dei bisogni e costituisce l’aspetto fondamentale della società civile. Ma solo nello Stato si realizza la sostanza infinita e razionale dello spirito. Lo Stato è la realtà della libertà concreta, afferma Hegel. Se da un lato, per l’individuo, lo Stato è una forza esterna, che lo necessita e subordina a sé, dall’altro è il suo fine immanente, come la famiglia e la società civile, che però sono organismi imperfetti che dipendono dallo Stato. Hegel nega il contratto sociale che fa dipendere lo Stato dall’arbitrio degli individui e vede in esso conseguenze che distruggono il divino in sé e l’autorità. Lo Stato, invece, è strettamente collegato con la religione perché quest’ultima è la suprema manifestazione del divino nel mondo.

Lo Stato non ricava la sovranità dal popolo ma da se stesso, dalla propria sostanza. Quindi negazione del principio democratico della partecipazione di tutti agli affari dello Stato. In questo principio Hegel vede il prodotto di un’astrazione: l’individuo solo perché tale si ritiene una componente dello Stato. Invece esso, sempre secondo Hegel, entra a far parte dello Stato solo in quanto svolge un’attività concreta, all’interno di una determinata classe, o corporazione. Come vita divina che si realizza nel mondo, lo Stato non può trovare nelle leggi della morale un limite o un impedimento alla sua azione. Lo Stato ha esigenze sue, diverse e superiori a quelle della morale. In questo modo è giustificato il machiavellismo.

Il diritto, insiste Hegel, è in pari tempo lo strumento e il risultato dell’attuazione della libertà e della volontà, concretizzate nelle relazioni che si originano dalla personalità umana. La filosofia del diritto è la spettatrice della dialettizzazione dello spirito, che si realizza in quanto libero e diviene libertà oggettiva che è per sé. Lo spirito oggettivo culmina poi, attraverso lo Stato, nello spirito del mondo. Il diritto e la storia convergono verso lo spirito assoluto e infinito: arte, religione, filosofia, il movimento dell’idea procede in questo modo verso la sua suprema concretezza.

Per Hegel la positività del diritto è una conseguenza del fatto che esso ha efficacia in uno Stato. L’autorità legale è il principio della conoscenza delle leggi, cioè della scienza positiva del diritto. La seconda causa della positività del diritto dipende dalle fonti del suo contenuto: il carattere nazionale di un popolo, il grado del suo svolgimento storico, la totalità dei rapporti naturali.

Nelle filosofie dello spirito-lavoro il lavoro umano viene assorbito nelle determinazioni essenziali dello spirito come assoluto, questa è la preoccupazione di Adorno. L’idealismo che è nel materialismo si propone di portare lo spirito a trionfare della fatica e della sofferenza. L’oggetto nasce da ciò che la relazione riesce a produrre, dal processo dell’alienazione in corso. Difatti, grazie alla relazione tra soggetto e oggetto, l’oggetto esce dalla sua immobilità spazio-temporale e diviene oggetto bisognoso, mutevole e quindi storico. Esso non è mai identico a se stesso e non è mai una piena identità. Uno dei punti essenziali e importanti del pensiero hegeliano è quello di avere mostrato la debolezza della certezza sensibile e di avervi contrapposto la concretezza dell’idea, che colma quel vuoto che sempre si accompagna a ogni forzatura del senso di oggettività. «In verità – dice Hegel – in ogni certezza sensibile si fa esperienza solo di ciò che noi abbiamo veduto, cioè del questo come di un universale; la qual cosa è il contrario di ciò che quella asserzione assicura essere esperienza universale». (Ib., p. 90).

La desistematizzazione del lavoro, contro la sintesi di piacere e produzione propria della società neocapitalista, è il tema di fondo delle sociologie negative, malgrado tutto ispirate a Hegel. Kant mostra che l’ipotesi della presenza nella natura di un fine, cioè di una rappresentazione dell’unità, presenza analoga al concetto, presenza capace di condurre i processi della vita e determinare i processi naturali, quindi di permettere al soggetto conoscente di riunificare il molteplice sensibile nell’unità del concetto, questa ipotesi dipende dalla natura finita del nostro intelletto, che procede per universali analitici (i concetti) ma deve ricevere il particolare nell’intuizione sensibile, e che dunque non può non ritenere l’universale un’unità astratta e separata dal particolare. La Critica della ragion pratica [1788] conferisce realtà oggettiva a quelle idee trascendenti che la La Critica della ragion pura [1781] doveva riconoscere soltanto come problemi. L’uomo come soggetto della vita morale si colloca nel dominio del noumeno. Le idee dell’anima, del mondo e di Dio cessano di essere “trascendenti e regolative” per diventare immanenti e costitutive dell’oggetto della ragion pratica: il sommo bene.

Ma questo contrasto si dilegua se si studia la fondamentale unità delle due opere. Nella Critica della ragion pura circola come tema dominante la polemica contro l’arroganza della ragione che pretende di oltrepassare i limiti umani. Nella Critica della ragion pratica il tema dominante è la polemica contro il fanatismo morale inteso come velleità di trasgredire i limiti della condotta umana.

Nella Critica della ragion pura la conoscenza umana, fondata sull’intuizione sensibile dei fenomeni, viene contrapposta a una problematica conoscenza divina fondata sull’intuizione intellettuale della cosa in sé. Allo stesso modo, nella Critica della ragion pratica alla moralità umana, che è il rispetto della legge morale, viene contrapposta la santità divina che è la conformità perfetta della volontà alla legge.

La moralità non è la razionalità necessaria di un essere infinito che si identifica con la stessa ragione, ma la razionalità possibile di un essere che può assumere, come può non assumere, la ragione a guida della sua condotta. Quindi per vivere moralmente l’uomo deve trascendere la sensibilità. Ciò comporta che egli deve evitare di assumere come regola di azione qualsiasi oggetto del desiderio.

Infatti, come essere razionale, ma finito, l’uomo desidera la felicità. Appunto in quanto oggetto di desiderio, la felicità non può essere il fondamento di un imperativo morale. Il desiderio non si comanda. Tutto ciò che è oggetto di desiderio può dar luogo a massime soggettive, a imperativi ipotetici, che comandano qualcosa in vista di un fine, non a una legge oggettivamente necessaria, tale che valga per tutti gli esseri razionali finiti.

Gli imperativi ipotetici sono quelli di una qualsiasi tecnica, poniamo quella della prudenza, e indicano i mezzi per essere felici. La legge morale – secondo Kant – è invece un imperativo categorico, che non ha in vista nessun oggetto, nessuno scopo determinato, ma solo la conformità dell’azione alla legge. Per questo l’imperativo categorico è puramente formale. La legge morale non può comandare altro se non di agire secondo una massima che può valere per tutti. La formula dell’imperativo categorico è: “opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio di una legislazione universale”. La legge morale non viene all’uomo dal di fuori. Essa è un fatto della sua stessa costituzione razionale. Nel seguire la legge, la volontà si fa legge a se stessa, si afferma come ragion pura pratica, come principio razionale di azione. Kant propone l’utilizzazione di questa legge per una critica di tutte le dottrine morali che si fondano su un principio materiale, cioè che deducono la legge morale da un qualsiasi oggetto del desiderio. Sono così criticati Montaigne e Mandeville perché fondano l’etica su motivi soggettivi esterni: il primo l’educazione, il secondo il governo civile. Epicuro e lo scozzese Francis Hutcheson perché la fondano su motivi soggettivi interni: il primo il sentimento fisico, il secondo quello morale. Il tedesco Christian Wolff e gli stoici perché la fondano sulla perfezione, cioè su un motivo oggettivo interno. L’olandese Huig van Groot e i moralisti teologi perché la fondano sulla volontà di Dio, cioè su un motivo oggettivo esterno. I motivi soggettivi, interni ed esterni, sono tutti empirici e non possono quindi servire di fondamento a un obbligo morale incondizionato. Questo obbligo infatti sarebbe condizionato da circostanze esterne e non sarebbe giustificato nella sua validità universale. Lo stesso può dirsi per i motivi oggettivi che possono essere assunti come motivi dell’azione solo se li consideriamo come fattori o elementi della nostra felicità. Essi dipendono quindi dal desiderio della felicità e non giustificano la validità di una legge che comanda incondizionatamente.

Il formalismo della legge morale consente a Kant di stabilire che il “concetto del bene e del male non deve essere determinato prima della legge morale, ma soltanto dopo di essa e mediante essa”. L’uomo appartiene al mondo sensibile e quindi è dotato di bisogni e la sua ragione ha anche l’incarico, che non può rifiutare, di farsi strumento di tali bisogni e quindi di contribuire al loro appagamento. Ma l’uomo può e deve servirsi della ragione anche per un fine superiore e quindi considerare ciò che è bene in se stesso, e non soltanto relativamente ai suoi bisogni. In questo modo la ragione determina la volontà immediatamente, cioè non più in vista degli oggetti del desiderio, e la volontà diventa ragione pura pratica.

Kant distingue nei moventi dell’azione morale la legalità dalla moralità. 1) La legalità è la conformità alla legge di un’azione che però è fatta per un altro movente di natura sensibile, per esempio, evitare un danno o procurare un vantaggio. 2) La moralità è invece la conformità immediata alla volontà della legge, senza il concorso degli impulsi sensibili. Ora, poichè l’insieme degli impulsi, la cui soddisfazione è la felicità, è l’amor di sè o egoismo, l’azione che realizza la moralità e quindi la libertà è l’eliminazione dell’egoismo. L’azione negativa della libertà sul sentimento è essa stessa un sentimento, l’unico sentimento morale: il rispetto. Il rispetto non è solo il movente della moralità ma è l’intera moralità considerata soggettivamente.

Nel nostro intelletto finito il particolare non è determinato dall’universale, e la corrispondenza del particolare con l’universale, in cui perfettamente consiste il nostro piacere, è contingente e rinvia a un scopo intrinseco alla natura. Ma la presenza di finalità interna alla natura è data da un semplice principio del giudizio che riflette su se stesso e sulla realtà, una dichiarazione soggettiva che non può avere validità di cominciamento e non svela la realtà della natura. Per Hegel solo la spiegazione secondo cause meccaniche è la vera spiegazione scientifica dei fenomeni naturali.

[1971], [1979]

VII. Intenzionalità progressiva

Sapere e fondamento. La soluzione hegeliana del problema del cominciamento implica che all’essere come significato semplice non spetta alcun contenuto salvo la contrapposizione globale al determinato positivo. Tutto ciò è chiaro non appena Hegel espone il cominciamento e lo considera come fondamento «su cui tutto è costruito». (Scienza della logica [1812-1816], tr. it., vol. I, Bari 1974, p. 27). «Il cominciamento non è il puro nulla, ma un nulla da cui deve uscire qualcosa. Dunque, anche nel cominciamento è già contenuto l’essere. Il cominciamento contiene l’uno e l’altro, l’essere e il nulla; è l’unità dell’essere col nulla; è un non essere, che è in pari tempo essere, e un essere, che è in pari tempo non essere». (Ib., p. 73). Per conseguenza «l’analisi del cominciamento ci darebbe il concetto dell’unità dell’essere col non essere, – o, in forma riflessa, il concetto dell’unità dell’esser differente e del non esser differente, – oppure quello dell’identità dell’identità colla non identità. Questo concetto si potrebbe riguardare come la prima e più pura (e cioè più astratta) definizione dell’Assoluto». (Ib., p. 74). Ciò comporta che la relazione che salda insieme come distinti l’identico e il diverso, è quella che si esprime nella creazione del determinato a partire dall’Assoluto. In altri termini, questa relazione è l’autocostituirsi immanente del concetto assoluto. Hegel precisa che «la verità dell’essere e del nulla è questo movimento consistente nell’immediato sparire dell’uno di essi nell’altro: il divenire; movimento in cui l’essere e il nulla son differenti, ma di una differenza, che si è in pari tempo immediatamente risolta». (Ib., p. 86). E più avanti: «nondimeno anche nella più imperfetta unione è contenuto un punto in cui l’essere e il nulla coincidono, e la differenza loro sparisce». (Ib., p. 88). Per cui, «perfino in Dio la qualità, cioè l’attività, la creazione, la potenza ecc., contiene essenzialmente la determinazione del negativo; coteste qualità [infatti] consistono nel portar fuori un altro». (Ib., p. 87). E in maniera ancora più evidente, quando il divenire è definito «il sussistere tanto dell’essere quanto del non essere, il che significa che il loro sussistere non è che il loro essere in uno». (Ib., p. 99). Siamo così di fronte a una definizione del divenire, che è il «passare nell’unità dell’essere e del nulla, la quale è come essente o ha la forma dell’immediata unilaterale unità di questi momenti, è das Dasein [l’esserci]». (Ib., p. 121). La verifica speculativa di questo reciproco sussistere in uno dell’essere e del non-essere come divenire, si ha nel successivo e necessario passaggio dialettico attraverso il quale la determinazione dell’infinito si presenta come negazione del finito. «Nella sfera dell’essere – dice Hegel – l’essere determinato, viene fuori soltanto dal divenire: [nel senso] che col qualcosa è posto un altro, col finito l’infinito, ma il finito non trae fuori l’infinito, non lo pone». (Ib., p. 143). Per cui: «è la natura stessa del finito di sorpassarsi, di negare la sua negazione e di diventare infinito. L’infinito non sta quindi come un che di già per sé dato sopra il finito, cosicché il finito continui a restare fuori o al di sotto di quello. E nemmeno andiamo soltanto noi, come una ragione soggettiva, al di là del finito nell’infinito. Ma il finito è soltanto questo, di diventare infinito esso stesso per sua natura. L’infinità è la sua destinazione affermativa, quello ch’esso è veramente in sé. Così il finito è scomparso nell’infinito, e quello che è, è soltanto l’infinito». (Ib., pp. 167-168). L’originario non sta prima del reale ma vive in questo, scoperta non trascurabile di un Hegel maturo. Vive come nella sua casa, come originaria condizione dell’esistenza. Oggi noi sappiamo che questo processo, questo movimento, necessita di una sorta di penombra, di riduzione di chiarezza, per apparire nelle condizioni correnti, per smentire le proprie premesse paradossali, ma si tratta di una esperienza angosciosa che abbiamo fatto a nostre proprie spese. Per il momento, in Hegel, questo originario è anche ideale, per quanto non possa fornire un criterio di adeguatezza allo sviluppo che lo ingloba. Il movimento interno (malamente racchiuso nella formula infinito-finito) della realtà, procede per reciproca contaminazione, dove il finito esige il suo posto nell’infinito, smentendo le condizioni di precarietà che lo caratterizzavano in precedenza, ma ciò a condizione che si riconosca (e venga riconosciuto) per quello che è, nella totalità complessiva delle sue possibili manifestazioni. Da questa chiusura globale non si esce. Se si accetta il sistema di Hegel, o semplicemente ci si avvicina alla sua accettazione (anche parziale), si resta prigionieri di questa formula. La realtà che ci ospita ha molti aspetti vicini a questo modo di procedere. Il suo cominciamento, la sua origine, è costantemente presente in tutte le sue manifestazioni, anche le più estreme. Il recupero della soggettività avviene in questo modo, trasformando lo spunto individuale, anche il più estremo, in stereotipo, travestendolo di una specificità “su misura” che lo raccoglie come elemento di qualcosa che continua a essere prodotto, qualcosa che non è mai la “sorpresa” che contraddicendolo può sconvolgere il mondo, almeno non questo mondo qui. Occorre prima distruggerlo, ma non è possibile coglierlo di sorpresa. Non è che il diverso viene semplicemente assorbito grazie alla sua sempre possibile giustificazione, al suo misurato distacco dalla media, ma qualcosa di più profondo. Il criterio della divergenza, della lontananza dalla regola, è assunto come elemento di maggiore funzionalità del sistema, proprio perché agente in quel cominciamento hegelianamente considerato presente e non come lontana origine, fuori gioco per sempre.

L’essere immediato è così la non-verità dell’essere sensibile. Perciò l’oggetto della filosofia nel momento del suo cominciamento non è nulla di determinato. Il passaggio alla seconda immediatezza, cioè alla presenza che avviluppa i contenuti e li ferma insieme al pensiero onniabbracciante, si ottiene con la negazione di quella prima immediatezza. Così Hegel: «Se la libertà come tale è anzitutto l’intimo concetto, i mezzi, per contro, son qualcosa di esteriore, sono ciò che appare, e che quindi si manifesta nella storia quale essa si presenta immediatamente al nostro sguardo». (Lezioni sulla filosofia della storia [1822-1831], tr. it., vol. I, Firenze 1941, pp. 66-67). Correggendo Kant, Hegel vuole il cominciamento nell’assoluto, ma l’assoluto è la relazione di un molteplice all’unità, per cui dovendosi per altro dare ascolto al discorso kantiano, Hegel parla dell’assoluto come di una immediatezza che si mostra nell’elemento della riflessione che progredisce nell’atto di togliere per cui diventa, nello stesso tempo e allo stesso titolo, l’immediato e il risultato dell’immediatezza. Questa indispensabile condizione potrebbe essere un segno di sopraggiunta precarietà nella contraddizione produttrice del processo storico, ma non è così. Il prodotto si china verso la condizione che lo produce, non ha nessuna garanzia in sé mancandogli la causa staccata da sé, la causa che in passato ciecamente si identificava nell’artefice. Ora deve piegarsi davanti al processo, allo stesso modo del produttore. Dio, per quest’ultimo, è sceso dai piedistalli, coabita nella distretta, forse è addirittura morto. Questo chinarsi produce un rafforzamento indiretto, la precarietà si capovolge in forza in quanto non arretra di fronte a una pressione insostenibile, piuttosto è essa stessa quella pressione con cui non deve venire a patti, non deve distribuire compensi e completamenti, ma solo spartire la comune identità, il sogno di un processo assolutamente senza fine e senza inizio. Nessuno ha bisogno di acquisire coscienza della distanza perché, adesso, non è distante. Il riconoscimento reciproco garantisce una comunanza che spegne l’esigenza primaria della sopravvivenza, la ragione domina dominati e dominatori. Il luogo del sogno è frequentabile ancora, per carità, qui troviamo molti fantocci che si aggirano inferociti avendo difficoltà a cogliere la sostanza del nemico, ma è un luogo che può fornire inconsistenze più che ideali, incubi qualche volta, di certo giustificazioni al proprio modo di considerarsi al di sopra dello scontro. Pietose contraffazioni della realtà.

Considerando il cominciamento come un Sein vuoto, Hegel si avvicina alla scolastica pre ed extra tomistica, nell’interpretazione che arriverà fino a Christian Wolff; ma per lui la totalità concreta che fa il cominciamento ha come tale in se stessa il cominciamento dell’avanzare e dello sviluppo.

Vediamo adesso alcune relazioni tra sapere e possibilità di un fondamento.

Il fondamento, una volta lasciato nel processo dell’avanzare, viene ulteriormente determinato rivelandosi in questo oltre che vero anche falso in quanto resta soltanto fondamento. La linea di sviluppo scientifico in questo modo diventa un circolo. Lo sviluppo del fondamento toglie il fondamento. Cosa verissima se si assume come prioritaria l’operazione dell’isolamento del semplice, cioè l’atto dell’astrarre. Dopo questo portare determinazioni nell’essere, compito del sapere è la stessa semantizzazione dell’essere. Conclusione logica e assurda nello stesso tempo, una volta che si presuppone che per prodursi il concreto (come superamento, come toglimento) occorre il puro è della determinazione.

Ecco Hegel nella Logica: «L’essenza determina se stessa come fondamento. Come il nulla è dapprima in semplice immediata unità coll’essere, così anche qui, sulle prime, la semplice identità dell’essenza è in immediata unità colla sua assoluta negatività. L’essenza è soltanto questa sua negatività che è la pura riflessione. È questa pura negatività come ritorno dell’essere in se stesso. Così essa è determinata in sé, o per noi, come fondamento in cui l’essere si risolve. Ma questa determinatezza non è posta dall’essenza stessa; ossia l’essenza non è fondamento, appunto perché non ha posta essa stessa questa sua determinatezza. La sua riflessione però consiste nel suo porsi e determinarsi come quello ch’essa è in sé, cioè come un negativo. Il positivo e il negativo costituiscono la determinazione essenziale, in cui l’essenza va perduta come nella sua negazione. Queste determinazioni riflessive indipendenti si tolgon via, e la determinazione che è andata a fondo è la vera determinazione dell’essenza». (Scienza della logica, vol. II, op. cit., p. 77). Riconoscere il negativo come componente del fondamento è stato un considerevole passo avanti nella storia del pensiero. Anche il kantismo si era fermato di fronte a questa eventualità, per come appare chiaramente dalle pagine dedicate allo schematismo. Molti i tentativi per sfuggire a questa macchina del riconoscimento. L’essenza come fondamento ha attirato sempre i filosofi, sembrando loro quel qualcosa che non c’era motivo alcuno di giustificare. Hegel è andato oltre facendo vedere che il rifiuto può essere anche un aspetto altrettanto importante dell’accettazione, certo perché si tratta di un rifiuto recuperato di già in partenza. Comunque è l’operazione che ripristina la legittimità del sommerso che qui viene sottolineata. Nulla di più.

Continua Hegel: «Il fondamento è pertanto esso stesso una delle determinazione riflessive dell’essenza, ma è l’ultima, o meglio è soltanto questa determinazione che consiste nell’essere una determinazione tolta. La determinazione riflessiva, in quanto va a fondo, acquista il suo vero significato di esser l’assoluto suo contraccolpo in se stessa, cioè che quell’esser posto, che compete all’essenza, è solo come un esser posto tolto, e viceversa che soltanto l’esser posto che si toglie è l’esser posto dell’essenza. L’essenza, nel determinarsi come fondamento, si determina come il non determinato, e solo il toglier questo suo esser determinato è il suo determinare. – In questo esser determinato come in quello che toglie se stesso, essa non è un’essenza proveniente da altro, ma un’essenza che nella sua negatività è identica con sé.

«In quanto dalla determinazione, come dal primo e immediato, si procede al fondamento (per la natura della determinazione stessa, che di per sé va a fondo), il fondamento è anzitutto un che di determinato da quel primo. Ma questo determinare, da un lato, come togliersi del determinare, è soltanto quella ristabilita, epurata o rivelata identità dell’essenza che è in sé la determinazione riflessiva; – dall’altro lato soltanto questo movimento negativo è, come determinare, il porre di quella determinatezza riflessiva che apparve come determinatezza immediata, ma che però è soltanto posta dalla riflessione del fondamento, esclusiva di se stessa, e con ciò è posta come un che di semplicemente posto ossia tolto. – Così l’essenza, nel suo determinarsi come fondamento, non proviene che da se stessa. Come fondamento dunque essa si pone come essenza, e nel suo porsi come essenza sta il suo determinare. Questo porre è la riflessione dell’essenza, la qual riflessione nel suo determinare toglie se stessa, da quel lato è un porre, da questo è il porre dell’essenza, e quindi tutti e due in un sol atto». (Ib., pp.78-79). Queste le pagine che fissano i movimenti circolari della totalità. Contro di esse si è sempre invocata la separazione, specialmente in questi ultimi vent’anni. La negazione si è voluta sganciare da questo vincolo unitario, il rifiuto farlo diventare qualcosa di assoluto – in uno col desiderio – compagno della non rappresentazione, della non accettazione del dominio. Senza dubbio grandi proposte, bisogna considerare però che nella maggior parte dei casi si è trattato di proposizioni infondate. Il puro sottrarsi non esiste, altrimenti si cade nella provvisorietà dell’idealismo più bieco. Il recupero del rifiuto è un’arte contro la quale bisogna opporre sempre nuove forme di rifiuto, non occasioni simulate. Il luogo dello sfruttamento continua a esistere e a perpetuarsi, questo è il luogo della materialità e al suo interno è possibile vedere coabitazioni pericolosissime che Hegel aveva, a suo modo, sottolineato. A noi il compito di spezzarle.

Ancora Hegel: «La riflessione è la pura mediazione in generale, il fondamento è la mediazione reale dell’essenza con sé. Quella, il movimento per cui il nulla torna attraverso il nulla a se stesso, è il suo proprio apparire in un altro; ma siccome l’opposizione in questa riflessione non ha ancora alcuna indipendenza, così né quel primo, quello che appare, è un positivo, né l’altro, in cui esso appare, è un negativo. Ambedue sono substrati e propriamente solo dell’immaginazione; non sono ancora il lor proprio riferirsi a se stessi. La mediazione pura è soltanto puro riferimento, senza i riferiti. La riflessione determinante pone bensì degl’identici con sé, ma che in pari tempo però non son altro che relazioni determinate. Al contrario il fondamento è la mediazione reale, perché contiene la riflessione come riflessione tolta; è l’essenza che attraverso al suo non essere torna in sé e si pone. Secondo questo momento della riflessione tolta il posto riceve la determinazione dell’immediatezza, cioè di un tale, che fuor della relazione o della sua parvenza è identico con sé. Questo immediato è l’essere in quanto ristabilito dall’essenza; il non essere della riflessione, rimediante il quale l’essenza si media. L’essenza torna in sé in quanto nega; si dà dunque nel suo ritorno in sé la determinatezza, la quale appunto perciò è il negativo con sé identico, l’esser posto tolto, epperò così sussistente come l’identità dell’essenza con sé qual fondamento». (Ib., p. 80). Dopo di ciò il problema si sposta al risultare del risultare o presenza onniabbracciante, che accoglie unicamente ciò che è presente ma che non può essere visto sorgere in quanto il sorgere si contiene in esso. Diciamo concretezza ontologica, invece, la presenza che si impone da sé, senza che sia necessario quell’inveramento attraverso la contraddizione che è il risultato hegeliano. Rimane la sproporzione tra ciò che siamo e ciò che sappiamo di noi stessi. Questo territorio consente l’apparizione della materialità che ci tiene tutti imprigionati in quanto soggetti individuali, ma consente pure la consapevolezza di questo essere imprigionati.

Il pensiero contemporaneo è entrato nella questione per distinguere dalla presenza di ciò che è presente (Heidegger) l’essere della presenza ovvero come diremmo il risultare del fondamento. «In qual senso – si domanda Heidegger – la trascendenza porta in sé la possibilità intrinseca di qualcosa come il fondamento? Il mondo si presenta sempre all’Esserci come la totalità concreta dell’ “in-vista-di” se stesso, cioè dell’ “in-vista-di” un essere che è cooriginariamente: esser-presso le semplici-presenze; con-essere con l’Esserci degli Altri; essere in rapporto con ... se stesso. Dunque l’Esserci può entrare in rapporto con se stesso in quanto tale solo perché oltrepassa “se stesso” nell’ “in-vista-di”. L’oltrepassamento che caratterizza l’ “in-vista-di”, ha luogo solo in una “volontà” che, in quanto tale, si progetta in possibilità sue proprie. Questa volontà che progetta essenzialmente sopra e, quindi, al di là dell’ “in-vista-di”, non può essere intesa come un volere determinato, come un atto di volontà, in contrapposizione ad altri comportamenti umani come la rappresentazione, il giudizio, la gioia. Tutti i comportamenti hanno le loro radici nella trascendenza. Ma è questa “volontà” che, in quanto oltrepassamento e nell’oltrepassamento, deve “formare” l’ “in-vista-di”. Ciò che, in virtù della sua essenza, progettando, delinea qualcosa come l’ “in-vista-di”, producendolo come un risultato non occasionale, lo chiamiamo libertà. L’oltrepassamento verso il mondo è la libertà stessa. Quindi la trascendenza non incontra l’ “in-vista-di” come un valore e un fine per sé sussistenti; ma è la libertà, e proprio nel suo esser libertà, a proporre e a contrapporre a se stessa l’ “in-vista-di”. In questa trascendente pro-posizione a se stesso dell’ ”in-vista-di”, l’Esserci si storicizza nell’uomo, cosicché questo, nell’essenza della sua esistenza, diviene responsabile di sé, cioè può essere un se-Stesso libero. Ma in tal caso la libertà si rivela come ciò che, nello stesso tempo, rende possibile l’imposizione e la sopportazione di un’obbligazione determinata. Solo la libertà può far sì che per l’Esserci un mondo sussista e si faccia mondo. Il mondo non è, ma si fa mondo [weltet]». (L’essenza del fondamento [1955], tr. it., Torino 1978, p. 665). Il limiti di questo bel discorso è che si presuppone la possibilità di “dire tutto”, anzi di “dire il tutto”, cosa impossibile. Nel farsi del mondo c’è una libertà che non è libertà, anche se di essa si può parlare all’infinito, e non è libertà proprio perché se ne può parlare, cioè mantiene in sé le condizioni che permettono alla parola di rivestirla. L’identità tra rappresentazione e essenza storicizzata, cioè l’uomo, è la non verità, la negazione minima, quella critica negativa da cui si deve pur partire ma alla quale non ci si può fermare.

Aggiunge Heidegger: «Infine questa interpretazione della libertà fondata sulla trascendenza permette una definizione dell’essenza della libertà più originaria di quella che la intende come spontaneità, come una specie di causalità. Il cominciare da se stessa non è che una determinazione negativa della libertà, nel senso che al di là di essa non c’è un’altra causa. Ma questa interpretazione non si rende conto di assumere “inizio” e “storicizzazione” in modo ontologicamente indifferente, senza che la causalità sia determinata esplicitamente a partire dal modo di essere specifico di quell’ente che è siffatto da essere l’Esserci. Ma perché la spontaneità (il cominciare da se stesso) possa valere come caratteristica essenziale del “soggetto”, debbono esser soddisfatte due condizioni: 1) L’essenza del se-Stesso (l’Ipseità) deve essere chiarita ontologicamente al fine di realizzare una comprensione adeguata di ciò che significa “da se stesso”; 2) Questa chiarificazione dell’Ipseità deve a sua volta mostrare i tratti caratteristici dello storicizzarsi del se-Stesso, affinché sia possibile determinare i caratteri distintivi del movimento di “inizio”. L’essenza del se-Stesso (Ipseità), cioè l’essenza di quel se-Stesso che si trova già alla base di ogni spontaneità, consiste nella trascendenza. Il progettante sovraprogetto che fa sì che il mondo regni, è la libertà. Solo perché costituisce la trascendenza, la libertà si può rivelare, nell’Esserci che esiste, come una specie particolare di causalità. L’interpretazione della libertà come “causalità” ha come suo tratto distintivo quello di muoversi già in un’interpretazione particolare del fondamento. La libertà come fondamento non è semplicemente una “specie” particolare di fondamento, ma la sorgente del fondamento in generale. La libertà è libertà per il fondamento». (Ib., p. 667). Risultare del fondamento. Risultare del risultare è l’insieme delle presenze o insorgenze. Il rapporto tra il totale delle insorgenze e il divenire si pone nel senso che questo insieme si investe della rilevanza o apprensione del sorgere delle determinazioni dell’apparire, ma non si investe su di sé, poiché l’insorgenza della presenza non appare. È soltanto vedendo, diceva Husserl, che si può mettere in rilievo ciò che si trova propriamente in un vedere. In ogni caso una libertà che sia causa di qualcosa, poniamo della libera vita dell’uomo, non è libertà in quanto essa appare costretta nel rapporto di causalità. Il suo movimento viene a essere conservato nel rapporto interno al mondo, una libertà per il mondo, uguale a quello che è la parola che “dice il mondo”. Né la parola è libera, né la libertà lo è, a queste condizioni. Una libertà non libertà non è una contraddizione in termini, è, al contrario, quello che tutti sperimentiamo continuamente in ogni istante della nostra esistenza.

Hegel, invece: “l’Essere dato non ha la mediazione ma è esso stesso mediazione”. Ma in che senso la logica è qualcosa da fondare? Secondo Husserl la logica è stata intesa come puro metodo delle formalità che il discorso scientifico libera nel corso del suo procedere. Ciò è accaduto per la mancanza di una riflessione pregiudiziale sull’essenza della scientificità e sui rapporti tra il risultare e la logica, tra forma assoluta e risultare originario.

Così le scienze precedono la logica e questa lascia le scienze nella loro fittizia positività. Ma una logica che si fa precedere dalle scienze non può darsi che come semantica formale. Così, continua Husserl, la logica occidentale è stata formale in quanto ha preso le mosse dalle scienze costituite strutturandosi in conformità a esse. Contro questa situazione Husserl ha avuto il merito di avvertire che una teoria della scienza, che possa guidare la scienza nel suo farsi, può nascere solo all’interno di una fenomenologia trascendentale.

In questo modo, fondare la logica significa prendere la direzione della Klärung intesa come un ritorno alla possibilità e alla verità originaria concernente le cose. La critica si appunta in particolare contro il discorso degli analisti logici che, come si sa, è un costrutto che funziona solo in base a regole interne e ha come requisito quello di non essere parlante su alcuna verità. Il fare viene rivestito dalla logica e giustificato come tautologia. Tutto il movimento analitico cerca di giustificare la pienezza dell’immediato ma non ci riesce. Dietro l’apparenza della produzione c’è il mondo reale che non può essere ricondotto tutto alla verità logica del concetto. C’è il desiderio di uscire fuori, di spezzare le catene, di rimuovere l’oppressione, in una parola di “agire”, e questo mondo non può essere detto anche se partecipa alla produzione del fare coatto e, in parte, viene catturato nel relativo meccanismo. Il desiderio e l’inquietudine sovvertono le regole del soggetto che accetta i limiti della propria speranza e i cancelli della propria miseria, agiscono come elementi sovvertitori inconsci (o quasi inconsci) sulla presenza monolitica della certezza quantitativa, tautologica quindi sicura di sé fino in fondo, irrompono nella logica e ne fanno strame incontrollato, polvere di sicurezze inorridite.

Il passaggio dal giudizio all’esperienza, dal più immediato alla esperienza e alla motivazione di un allargamento del concetto di giudizio, è condivisibile nella misura in cui esprime l’esigenza che presiede al criterio dell’attribuzione della logicità dell’essere. Quasi a dire che la logicità che l’essere può sostenere è quella che esso da sé porge o esprime manifestandosi. La fondazione della logica è allora una ripresa del tipo di assolutezza che viene dalla gnoseologia: questo ha inteso Husserl.

Si ha quindi la possibilità di sviluppare le seguenti affermazioni: a) Il concetto di chiarezza come spazio gnoseologico del risultare dei giudizi contro l’esegesi idealistica della presenza. b) L’inscindibilità di logica e teoria della conoscenza contro il naturalismo dei formalisti o neoempiristi confutati da Kurt Gödel. c) Il tentativo di una gnoseologia materiale o fenomenologia trascendentale nella misura in cui si può segnalare il primato dell’atto dell’essere contro la fenomenologia hegeliana.

Problema ontologico della logica. La necessità è di tutto ciò che è atto ed è in atto. Questa è la tesi di fondo di ogni realismo in logica. Ma che cosa è necessario? Ecco la definizione di Aristotele: “Tutto ciò che è o sia quando è e tutto ciò che non è o non sia quando non è”.

Esperienza significa infatti presenza ma anche evento, vicissitudine, circostanza esistenziale, ma per essere tale deve entrare nella fase di produzione: questo è l’unico modo per dare un senso all’attualità del reale (alla sua costruzione categorica), dato che oggettivamente tra reale e possibile non c’è differenza. Riduzione povera questa identità, anche se ineluttabile. La coazione può essere spezzata e un risarcimento portato a credito del soggetto dolente, ma niente può cancellare del tutto la realtà produttiva, niente salvo l’azzeramento di tutto, quindi anche della diversità. La scomparsa del mondo comprende la scomparsa stessa in quanto azzeramento. Il desiderio torna a essere il perno non dialettico del movimento verso la diversità, il desiderio che cerca di ottenere la tranquillità del soddisfacimento contro l’inquietudine, ma non siamo di fronte a una situazione conclusiva. Ogni conclusione è sospetta di idealismo. Il campo della coazione, il mondo della quotidianità, ci comprende tutti, anche la coazione che lo regola e lo uniformizza. Nientificare la coazione significherebbe la libertà assoluta, cioè al di là del possibile ritorno all’ordine, quindi il caos non misurabile, non identificabile nemmeno in termini di assenza di coazione. La parvenza di libertà in cui viviamo rende accettabile la coazione, modulata senza più estremismi repressivi, e si colloca nel caput mortuum della contraddizione che dovrebbe risolvere tutto a un livello superiore e invece non risolve niente, ripresentando costantemente la medesima realtà cambiata nell’apparenza.

Il logico, dice Husserl, ha innanzi agli occhi un qualsiasi giudizio che varia con la coscienza di una libera arbitrarietà. Questo individuo essenziale non potrà dar corpo a una necessità del tipo metaessenziale, salvo un rinculo alla coerenza formale.

Si accede così al tentativo di unione tra teoria dei giudizi dell’esperienza e conduzione analitica della ricerca fenomenologica, nel senso di Husserl, di Ricoeur, di Ryle, ecc.

Manifestazione dell’intero. È l’idealismo che ha studiato il tutto in quanto manifesto, specie l’idealismo presentato come concentrazione sul divenire o autoconcetto. Il metodo dialettico infatti sosteneva che il semplice apparire, il semplice cambiamento qualitativo dell’essere determinato, non può reggere la portante trascendentale in cui emerge ogni contenuto in quanto tale. Se si tratta di un apparire che emerge e dilegua, non contiene quell’apparire che sorveglia il processo, l’apparire come orizzonte totale. Vi è insomma una presenza che non appare come appare l’apparire e il disparire del contenuto realizzato dall’esperienza: si tratta quindi dell’apparire del divenire, cioè di una forma di autocoscienza. Il venire avanti dell’apertura è certo una presenza che ha un presentarsi diverso, adeguato alla coscienza che non è più immersa totalmente nell’immediatezza. La densità del movimento tradizionale, immerso nella produzione ritmicamente motivata e controllata, sale di tensione, i luoghi dell’inclusione si ribaltano, l’identità rifiuta di tornare a recitare la sua parte, la specificazione pretende un rinvio alla totalità. Il superamento si inceppa nel processo di messa in rappresentazione. Il fatto deve essere descritto, il parlare ricopre il fatto e lo addensa nell’accumulo, ma questo processo che, almeno secondo Hegel, dovrebbe essere un superamento dello scontro soggetto-oggetto, a un certo momento si spezza, la rappresentazione non collima con la coscienza che si è posta di fronte all’inquietudine e ne ha sentito il fiato sul collo. La copertura linguistica assume responsabilità gravissime, contiene un veleno che inquina e addormenta, la riproduzione diventa automatica e non c’è modo di criticarla, anche la critica è automatica ed è prevista a monte del sistema riproduttivo stesso.

Per Hegel – dice Heidegger – quello che può essere conservato come necessario gradino nel pensiero assoluto è ciò che è vivo in un pensatore. Tale pensiero in tanto è assoluto in quanto si articola nel suo processo dialettico-speculativo e quindi postula la gradualità. Ecco cosa scrive Hegel: «Affermo che la successione dei sistemi filosofici, che si manifesta nella storia, è identica alla successione che si ha nella deduzione logica delle determinazioni concettuali dell’idea. Affermo che se i concetti fondamentali dei sistemi apparsi nella storia della filosofia vengono spogliati di ciò che concerne la loro formazione esteriore, la loro applicazione al particolare e simili, si ottengono precisamente i vari stadii della determinazione dell’idea nel suo concetto logico. Reciprocamente, se si prende per sé il processo logico, vi si ritrova nei suoi momenti fondamentali il corso delle manifestazioni storiche; certamente però occorre saper riconoscere i concetti puri in ciò che si presenta in forma storica. Si potrebbe credere che negli stadii dell’idea la filosofia dovesse avere un ordine diverso da quello in cui tali concetti apparvero nel tempo; in complesso l’ordine è il medesimo». (Lezioni sulla storia della filosofia [1816-1830], tr. it., vol. I, Firenze 1964, p. 41). C’è in questo passo di Hegel la condizione unica del suo pensiero: tendere alla totalità con un movimento inverso a quello dell’aggiunzione. Il riconoscimento di una necessità superindividuale è indispensabile alla sua filosofia, dove la forte componente interiore, nel senso poniamo in cui l’ha visto Kierkegaard, si scioglie nella funzione svolta dai concetti di corrispondenza che servono appunto per tenere lontane tutte le tentazioni di estetismo e di misticismo irrazionalista. Forti filosofi della realtà come sviluppo, e tutto lo storicismo tedesco contemporaneo, hanno mancato questa considerazione. C’è qui una forte tensione verso la totalità, un tentativo di accedere al tutto prima che scompaia nell’immagine riflessa mille volte, nella parvenza che non perdona. La corrispondenza è ovviamente gratuita ma accenna a qualcosa di grandioso. L’unità della vita non può più essere attinta ma un’immagine vivida si è staccata sotto i nostri occhi, solo per noi, per noi che l’abbiamo colto. Non possiamo ora evadere da questa immagine se non spezzando il catenaccio logico che ci ha racchiuso, non è confortevole farlo ma bisogna farlo. Attenzione all’ideologia della miseria governante.

Il criterio di Heidegger per un discorso con la tradizione storica è lo stesso di quello di Hegel, dato che anche per noi si tratta di penetrare nello spirito di quanto è stato pensato prima, però noi non cerchiamo tale forza nel già pensato ma in un non-pensato da cui il già pensato riceve il suo impulso costitutivo. Penso che qualcosa di simile possa trovarsi nell’analisi del sillogismo dell’analogia effettuata da Hegel nella Scienza della logica. In effetti Heidegger vuole denunciare il fatto che la logica tradizionale non riesce a cogliere l’uomo perché non presuppone «altra possibilità di comprensione ontologica che quella di interpretare in termini di specie e di genere tutto ciò che non è semplice individuo». (Essere e tempo [1923-1928], tr. it., Torino 1978, p. 165). Le posizioni individuabili dei due filosofi sono: Hegel con l’attenzione razionalistica rivolta verso l’esplicito, e Heidegger con lo sforzo di capire l’inafferrabilità dell’essere. Comunque questa distinzione, importante ma non operativa fino in fondo, non è del tutto esatta. Hegel afferra l’essere in maniera compiuta ma lacerante, come dire che l’afferra lasciandolo racchiuso teleologicamente nel meccanismo dialettico. Heidegger non lo afferra avendo rifiutato in partenza il luogo del superamento sostituendolo con quello del rovesciamento.

Ogni cominciamento possibile ha luogo con una scelta. La formulazione della verità può essere fatta solo con l’implicazione personale. La persona soltanto può costituire una via d’accesso alla verità, non essendoci altro legame con quest’ultima. Di tutto si può fare a meno tranne della concretezza dell’individuo. L’uomo è interpretazione della verità, perfino è la stessa verità, ma mai in modo esauriente. Si tratta di una prospettiva di incessante ricerca. La vita, infatti, è fatta di scelte. Non si può possedere tutto, bisogna scegliere quindi perdere qualcosa. L’alternativa è il punto di partenza. I termini di questa alternativa spesso non possono essere mediati e conservati secondo come pensava possibile Hegel, perché la scelta determina la vita e con questa anche la direzione di tutto il percorso filosofico. La vita ci compromette, le nostre interpretazioni ci chiudono in un sacco logico, le nostre decisioni ci caratterizzano, la fedeltà a noi stessi comincia anche a somigliare a una prigione. Hegel ammette l’inizio come scelta, ma non come cominciamento. Per lui, l’elemento caratterizzante il sistema non è il suo “cominciamento”, non è una proposizione fondamentale in cui l’assoluto possa trovare piena esposizione e dalla quale possano essere dedotte le determinazioni finite. Se l’assoluto è identità degli opposti, universale concreto di determinazioni, esso non può essere dato in quale che sia singolo atto del sapere. La pretesa che l’assoluto trovi espressione in una proposizione è “folle illusione”. Hegel afferma questa tesi con due punti di vista. Per lui l’assoluto è il sistema nella sua interezza, una “totalità del sapere” in cui ogni parte ha la propria necessità nella connessione e nell’identità con tutte le altre. Egli ridicolizza l’inverosimile pretesa “dell’entusiasmo che, come un colpo di pistola, comincia immediatamente il sapere assoluto”.

Eppure Hegel assegna alla natura una parte dello spirito, da qui l’accusa di incoerenza di Croce e Gentile. Il neohegelismo italiano vuole difatti essere consequenziale e privo di compromessi. Croce e Gentile si ripropongono una filosofia dello spirito puro. Croce in forma oggettivo-idealistica, Gentile in forma soggettivo-idealistica. Lo “spirito assoluto” di Croce in poco si differenzia dall’ “Io universale” di Gentile. Il tentativo di Gentile cercando di andare verso l’ “Io assoluto” di Fichte, andò incontro a un fallimento. La sua paura del solipsismo lo tradì. Entrambi negano l’esistenza immediata del mondo materiale. Lo spirito è tutto il reale e l’unica filosofia possibile è quella dello spirito (Croce). La realtà è l’Atto (Gentile).

Ecco la posizione di Croce: «Né sembra che giovi soggiungere, che l’unità con Dio non esclude la coscienza della diversità, del cangiamento, del divenire. Perché si può rincalzare l’obiezione notando che quella coscienza della diversità o proviene dall’elemento individuale e intuitivo, e in questo caso non s’intende come tale elemento possa sussistere, con la sua propria forma d’intuizione, nel pensiero, che sempre universalizza; o si pone come prodotta dall’atto stesso del pensiero, e in questo caso la distinzione, che si credeva di avere abolita, esce affermata e l’asserita semplicità indistinta del pensiero rimane scossa. Un misticismo, che faccia valere la particolarità e diversità, un misticismo storico, sarebbe contraddizione in termini, perché il misticismo è astorico e antistorico di sua propria natura. Ma codeste obiezioni ritengono la loro validità appunto quando l’atto del pensiero sia concepito in modo mistico; cioè, non veramente come atto di pensiero, ma come qualcosa di negativo, semplice risultato della negazione che la ragione fa delle distinzioni empiriche, e che lascia il pensiero vuoto bensì d’illusioni, ma non ancora veramente pieno di sé medesimo. Insomma, il misticismo, che è violenta reazione al naturalismo e alla trascendenza, pur serba le tracce di ciò che ha negato, perché non riesce a sostituirgli nulla, e così ne mantiene viva la presenza, sia pure negativa. Ma la negazione realmente efficace dell’empirismo e della trascendenza, la negazione positiva, si compie, non già nel misticismo, sibbene nell’idealismo; non nella coscienza immediata, ma nella mediata; non nella unità indistinta, ma nell’unità che è distinzione, e, come tale, veramente pensiero. L’atto del pensiero è la coscienza dello spirito che è coscienza; e perciò quell’atto è autocoscienza. E l’autocoscienza importa distinzione nell’unità, distinzione di soggetto ed oggetto, di teoria e pratica, di pensiero e volontà, di universale e particolare, di fantasia e intelletto, di utilità e moralità, o come altrimenti codeste distinzioni dell’unità e nell’unità si vengano formolando, e quali che siano le configurazioni e denominazioni storiche che viene assumendo l’eterno sistema delle distinzioni, la perennis philosophia. Pensare è giudicare, e giudicare è un distinguere unificando, nel quale il distinguere non è meno reale dell’unificare e l’unificare del distinguere; ossia sono reali, non come due diverse realtà, ma come l’unica realtà, che è unità dialettica (unità o distinzione che si dica)». (Teoria e storia della storiografia [1917], Bari 1948, pp. 104-105). La verità di fondo dell’idealismo è questa: se l’apparire fosse la storia, ossia la produzione, non ci sarebbe l’apparire o il risultare della storia o del processo. Sotto questo aspetto entrare nell’apparire o uscire da esso sarebbe inutile in quando si tratterebbe di una vicenda che non avrebbe spettatore alcuno. Fruttuosa la conclusione dell’idealismo: dovendo l’apparire includere ogni cosa che appare esso include quindi anche questa inclusione per cui eccoci diventati, per questa ragione, divenire puro, autoconcetto e soggetto trascendentale. La distinzione non può evitare di prendere in considerazione una parte della realtà, deve evitare il peccato originale di partire dal tutto. Ciò la pone perfettamente in grado di “capire” il mondo, questo mondo che parzialmente si dispiega fino a coprirci e a soffocarci fornendoci identità e certificati di nascita. Ma, trattandosi di uno pseudo-mondo, dovendoci pur essere una spiegazione alla pulsione terribile che ci muove dentro, la distinzione non fa altro che contemplare il movimento della parzialità, quello che resta sempre fuori di questa contemplazione, e della relativa rappresentazione, è il rinvio a un completamento impossibile che rende autonomo, cioè la meraviglia da conquistare e verso cui indirizzare desiderio e sforzo, autonomamente recupera la menzogna e la presenta immutata come l’altra parte della distinzione stessa, l’appagamento che verrà subito dopo, basta che si affondi a sufficienza il bisturi.

E così conclude Croce: «Da questo concetto dello spirito e del pensiero si trae per prima conseguenza che la storia, abbattute le empiriche distinzioni, non cade nell’indistinto; spenti i fuochi fatui, non rimane al buio, perché ha in sé medesima la luce della distinzione. La storia si pensa giudicandola, con quel giudizio che non è, come si è visto, la reazione del sentimento, ma l’intrinseca conoscenza dei fatti. E qui la sua unità con la filosofia si scorge in modo sempre più concreto, perché, quanto meglio la filosofia approfondisce e affina le sue distinzioni, tanto meglio approfondisce e affina il particolare; e quanto più fortemente abbraccia questo, tanto più fortemente possiede i suoi propri concetti. Progresso di filosofia e progresso di storiografia vanno insieme, indissolubilmente congiunti. Un’altra conseguenza, che anche si trae e che potrà sembrare più prossima alla pratica della storiografia, è il rifiuto della fallace idea di una storia generale, che stia di sopra alle storie speciali: di una Storia sulle storie, come è stata detta, e, per esempio, di una storia, che sarebbe la vera e propria storia e avrebbe sotto di sé la storia politica o economica e delle istituzioni, la storia morale o dei sentimenti e degli ideali etici, la storia della poesia e dell’arte, la storia del pensiero e della filosofia. Ma, se ciò fosse, sorgerebbe un dualismo, con la solita conseguenza di ogni dualismo, che, a volta a volta, ciascuno dei due termini mal distinti si discopre vuoto; e, in questo caso, vuota si mostra infatti o la storia generale, alla quale nulla resta da fare dopo che le storie speciali hanno compiuto il loro lavoro, o le storie particolari, che non riescono a raccattare nemmeno le briciole dell’imbandigione, voracemente consumata dall’altra. Ovvero, con fragile espediente, alla storia generale si dà il contenuto di una delle storie speciali, e le altre vengono raggruppate in disparte da quella: un raggruppamento del quale il meglio che si possa dire è che sia puramente verbale e non designi una distinzione e contrapposizione logica; e il peggio, che possa accadere, consiste nell’attribuirgli un valore reale, perché, in questo caso, si istituisce cervelloticamente una gerarchia, che rende impossibile intendere lo svolgimento genuino dei fatti». (Ib., p. 106). La pretesa di scavare alla storia un alveo di scorrimento deterministico è vecchia quanto il mondo. Gli antichi avevano un loro modello di sommovimento sociale, non parlavano di rivoluzione, credevano nel ritorno di tutte le cose, nel ciclo continuo e senza novità. Poi la rivoluzione industriale sconvolse il pensiero circolare in modo definitivo, ricollegando la scienza alla filosofia, la politica all’ingegneria sociale. Il nuovo modello fu quello dello spirito che si evolve all’infinito, conoscitore di sé e dei propri destini, che si fa gioco degli uomini e delle loro cose, che si realizza ineluttabilmente, razionalmente. Poi il crollo di ogni speranza, l’era dei simboli e della reazione feroce, il momento in cui le carte si mescolano definitivamente, e ancora non sono state sbrogliate. La rivoluzione diventa reazione, il rosso si mischia con il giallo. I luoghi della rivolta proletaria vengono calpestati e mistificati dai simboli del progressivismo di maniera, del socialismo di Stato, del fascismo rosso.

Da tempo ci sarebbe stato molto spazio per lo scettico. Non è certo soltanto adesso che possiamo scoprire con evidenza il lato incompleto e cieco del determinismo rivoluzionario di stampo ottocentesco, positivista e marxista. Chi voleva arrivare a queste conclusioni poteva anche farlo prima. Il mondo del dominio si proponeva via via in maniera diversa procedendo l’attacco contro le immagini che quello continuava a proporre alla nostra attenzione. La selezione di queste immagini non è stato compito soltanto del dominio, anche noi abbiamo fatto la nostra parte, abbiamo fornito materiale per il richiamo all’ordine. La nostra intenzione diretta al “sensibile” per eccellenza alla fine è stata intelligentemente fuorviata. In fondo, a lavorare per la reazione, oggettivamente parlando, possono essere stati in tanti, una vera folla, se si risale all’indietro negli annali della storia. Ma è stato un lavoro a senso unico? Solo la reazione se ne è avvantaggiata? Oppure bisogna ammettere che venendo meno il modello di ragionamento determinista, resta solo da notare che la lotta sconvolge i rapporti, ogni genere di rapporti, per cui, a seconda delle angolazioni, si possono cogliere rafforzamenti e indebolimenti, meglio sarebbe definirli sviluppi nel livello dello scontro, ma non si possono cogliere sensi unici, cause chiare e altrettanto chiari effetti. I rapporti si sono sovvertiti e il mondo della merce si è sfaccettato in mille luoghi dell’immaginario, sottraendo alla merce il suo statuto sostanziale. In questo modo il processo di sfruttamento si è installato in modo diverso e più solido, tutti adesso possono vedere come funziona e nessuno sa più dove attaccare. Gli esseri umani sono stati isolati, allontanati uno dall’altro, accelerati, nientificati nei rapporti, e questo movimento è il medesimo che scopre e rende quasi più “vulnerabile” il meccanismo oppressivo della coazione a produrre. Nessun vero rivoluzionario lavora mai totalmente per la rivoluzione. Non perché non voglia o non sappia farlo, ma semplicemente perché ciò è impossibile. Dentro certi limiti, egli valuta e decide. Il risultato è uno sviluppo contraddittorio che si ricollega al livello dello scontro nello spazio sociale e da qui al singolo flusso relazionale e alla totalità delle relazioni possibili.

I limiti della crescita quantitativa risalgono paradossalmente agli stessi limiti che hanno spesso fatto nutrire grandi speranze per le forme più avanzate e creative della trasformazione rivoluzionaria. La negazione del soggetto si ricollega all’esaltazione di un modello oggettivo che ripropone continuamente un soggetto privo di tutte le caratteristiche contraddittorie della soggettività. Così, lo schiacciamento del qualitativo, che si realizzava negli schemi partitici e sindacali, anche in quelli più avanzati, riproponeva la stessa cosa negli schemi ipersoggettivi del movimento. Ne venne fuori un appiattimento generale, senza spazio per il vero soggetto. Dove collocare il passaggio, una volta che il movimento negativo di contrapposizione è stato assunto in forma stabile all’interno stesso del processo di sfruttamento? Come fare la rivoluzione, se a fare la rivoluzione minaccia di proporsi la stessa immagine del potere? Altrove, bisogna andare altrove, cercare un luogo negativo, negare la possibilità meccanica del superamento, inventarsi un luogo “puro”, pulito, dove non ristagnano le giustificazioni di tanti professori del recupero sociale. Nel caso dell’organizzazione di massa non c’era spazio per definizione, nel caso del movimento specifico non c’era spazio per miopia e ignoranza. In questo senso, lo scettico e il cantante si danno la mano e vanno incontro al funzionario di partito e all’attivista sindacale, ognuno interroga l’altro sui motivi del reciproco fallimento, nessuno ha occhi per vedere e orecchie per sentire. Il filo spezzato della collaborazione viene riallacciato e la condizione collante è proprio l’estraneità sempre più dilagante che ci circonda da ogni parte. Procedere verso la rottura equivale a ricostruire se stessi in un altrove disagevole. Guai a chi teme i deserti.

In un mondo che corre il rischio di risultare privo di significato, attraverso una privazione di certezze che è intervenuta per via pratica, c’e stato un ritardo doloso nell’abbandonare per via teorica le tesi che avevano a lungo sostenuto quelle medesime certezze. Ciò vale, nello specifico, per la dialettica marxista, che ancora continua a rotolarci tra i piedi, e vale, ancora prima, per lo storicismo in generale e per quello idealista in particolare. La crisi del soggetto e della sua rappresentazione non è stata accettata fino in fondo, anche perché nessuna “crisi” può produrre effetti significativi, inserita nella rappresentazione che tutto giustifica. Questa mentalità inquinata di un hegelismo di rimando è tanto diffusa che non si riesce a proporre una tesi relazionista, come quella che sostengo in queste pagine, senza che di già si possa prevedere il rischio di venire confusi con un determinismo storicista odioso e antiquato. Anche il ricorso all’indietro, poniamo quello di Lacan, ripropone un cominciamento che non riesce a liberarsi dall’onnipotenza del significato. I problemi della struttura e i relativi problemi dell’intreccio tra struttura e forma, che costituiscono l’argomento centrale del funzionamento relazionale nel suo insieme, sono stati finora soltanto accennati per cui non si può forse capire bene cosa intendo con il termine di processo autorganizzativo o, meglio, di movimento autorganizzativo.

Teniamo presente che in questo movimento non ci sono implicazioni deterministe, ma c’è però una riconsiderazione dei limiti e delle possibilità del volontarismo. Proprio l’avere capito che nessuno lavora al posto nostro, nemmeno un processo oggettivo che si realizza nella storia, può dare eccessiva importanza al semplice volere, nell’illusione di spostare tutto il peso della vicenda storica dall’oggetto al soggetto, quando invece la prigionia della volontà deve prima di ogni cosa essere criticamente aperta, prima di discutere sull’impiego della volontà stessa come essenziale fondamento dell’agire. Spostare la centralità dell’io, mandarlo in esilio, potrebbe condurre a una spiegazione impossibile, una interruzione del linguaggio. Il silenzio è in effetti non tanto la conclusione rischiosa verso cui ci si potrebbe indirizzare, ma la realtà in cui viviamo immersa nella chiacchiera che è la condizione primaria di un silenzio dell’anima, una iscrizione ipotecaria a carico della vita, che si pone automaticamente nel momento in cui accettiamo senza battere ciglio la produzione coatta come prassi sociale comune. Il determinismo pretendeva darci una visione impersonale della realtà, dove potevamo immergerci quel tanto che bastava per fare, dentro certi limiti, la nostra parte: ora osservatori, ora propagandisti, ora giustificatori, mai protagonisti. Al nostro posto finiva per agire la protesi, dialetticamente accessibile, quest’ultima utensile dell’esistenza riguardo la quale è facile portare a termine un approfondimento originario. Quando ci si accorse che si poteva diventare protagonisti era ormai troppo tardi, nessuno è esente dal ridicolo in un mondo ormai guastato dalle troppe ipoteche messianiche. Sarebbe facile per me adesso limitarmi a suonare la tromba dell’azione: sopra ogni cosa, al di là di tutto, la volontà sovrana. L’operaio muscoloso che apre le fauci del leone. Imporre la propria volontà permette di arruolarsi fra i facenti, accedendo in questo modo ai protagonisti subalterni e illudendosi di essere gestori quando si è semplicemente gestiti. Purtroppo la realtà è ben diversa e, per chi la esamina più approfonditamente, essa si svela di una estrema complessità. Nessuno è innocente in un mondo come questo. Siamo tutti colpevoli e non possiamo nasconderci né dietro il meccanismo impersonale, né dietro il gesto personale di grande coraggio. Il coinvolgimento non è il gesto di un sol giorno, è un metodo di vita, un impegno solitario e collettivo, continuo, operoso e costante, coraggioso e irrimediabilmente destinato alla sconfitta.

La capacità di parlare criticamente dall’interno di un meccanismo che ci sta imprigionando diventa sempre più difficile, la parola si oscura e si affievolisce. Insieme all’interpretazione ricognitiva è il compito centrale dell’indagine relazionale, la ricerca di un sentiero nuovo, esile e quasi invisibile, tanto in contrasto con le grandi certezze di un lontano e recente passato. Polivalenze straordinarie, incertezze, coinvolgimenti, passioni. La filosofia scende dagli antichi piedistalli, si educa a girare intorno ai grandi problemi tradizionali denunciandone le crepe e le incredibili vacuità, presentando quindi altre indicazioni e nuovi percorsi. Alla mappa desolata degli antichi errori e delle illusioni mai del tutto scomparse, occorre sostituire un tracciato più semplice, non nella sua composizione, ma più semplice in quanto più modesto, più accettabile, forse più a portata di mano.

Ma occorre fare in fretta, tutti dobbiamo fare in fretta. I miti e le illusioni traballano e c’è la necessità di costruire nuovi fondamenti, oppure andare avanti allo sbaraglio, con le proprie risorse e le proprie debolezze. Tutti sentiamo questa situazione come la cruda realtà. Ci sono i rigurgiti religiosi, ma non arrivano fino al misticismo, non propongono una vera e propria ideologia sostitutiva, sono possibilisti anche se non meno pericolosi. Quando questi rigurgiti sono integralisti in senso stretto, è la situazione oggettiva di arretratezza che rende possibili i millenarismi di riscatto, i quali nelle zone più avanzate economicamente subiscono pesanti penalizzazioni. Ci sono poi le lotte nazionali di liberazione, ma non si basano sul mito della nazione, quando questa esile trama esiste è appena accennata, quel tanto che basta per mobilitare un certo ceto sociale, ma nessuno basa totalmente su questo mito la propria lotta. Gli obiettivi sono più concreti, anche se spesso altrettanto anacronistici. L’ideologia marxista e leninista è andata in soffitta e nessuno sembra rimpiangerla. Anche le mie stesse polemiche di qualche decennio fa, ora sembrano superate. Gli approfondimenti critici sulla dialettica hanno il loro massimo valore proprio nell’ottica di un’analisi della logica del “tutto e subito” contrapposta alla logica dell’ “a poco a poco”, in caso contrario veramente inutili

Ecco le posizioni di Giovanni Gentile: «Chi fa la storia della filosofia, deve sapere che cosa è la filosofia, di cui vuol fare la storia: deve saperlo in modo da averne determinato un concetto unico. Non è possibile pensare, che ci siano più concetti diversi della filosofia, e scriverne una storia; perché dati più concetti, tra loro diversi, si danno più realtà, più filosofie, tra loro diverse; e la storia dell’una escluderà da sé la storia d’ogni altra. Se per filosofia s’intendesse, poniamo, tanto la politica, nel senso antico, quanto la geometria, come qualcuno degli antichi l’intese, certo la storia della filosofia in quanto politica non potrebbe essere la storia della filosofia in quanto geometria; e viceversa. Potrebbero le due storie stare insieme materialmente nello stesso libro; ma non cesserebbero perciò di essere due storie; non cesserebbe perciò ciascuna di esse di escludere l’altra. Come che sia intesa la filosofia, e come che sia intesa per conseguenza la sua storia, non è possibile mai filosofia che non sia una filosofia; né storia, che non sia di una filosofia. Ora, che si possano ammettere più concetti disparati della filosofia non di rado si concede, anzi talvolta si chiede; e ci si fonda sopra una certa dottrina di tolleranza filosofica, analoga a quella che si difende e parzialmente si mantiene in materia religiosa. Ma che in realtà si scrivano storie delle filosofie con tal presupposto della molteplicità dei problemi fondamentali della filosofia, non accade, né può accadere: perché se quella concessione od esigenza può farsi, nonostante la sua irrazionalità, un fatto irrazionale, quale sarebbe una storia di più oggetti, non è possibile». (La riforma della dialettica hegeliana [1913], Firenze 1975, pp. 100-101). Gentile nega l’opposizione non tanto nel rapporto tra le forme della filosofia ma all’interno dello stesso soggetto pensante. Il mondo per lui è l’unità dell’Io nell’Atto del pensiero. L’oggettività cioè non sta nel pensiero-pensato, ma nel pensiero-pensante cioè nell’autocoscienza del soggetto trascendentale o Io assoluto. L’attualismo è creatività continua del pensiero che evita costantemente di oggettivarsi, perché non vuole essere limitato dal pensato. Le distinzioni valendo soltanto per il pensiero-pensato sono relative. Assoluta è soltanto l’unità del pensiero-pensante.

Per cui conclude: «Quale che sia il punto di vista da cui muove lo storico e l’indirizzo filosofico a cui aderisce, egli non potrà ricercare e infatti non ricerca mai se non le soluzioni che sono state via via escogitate di un medesimo problema, che per lui è il problema essenziale della filosofia; quel problema da cui tutti gli altri, più strettamente filosofici (e dico più strettamente, perché tutti sono, in largo senso, filosofici), dipendono direttamente o indirettamente. Onde il filosofo tollerante a parole, diventa storico intollerante coi fatti: poiché i fatti all’impero della logica non si possono sottrarre, e la logica è intollerante per natura. Senza di che lo storico, per far di cappello a tutti i modi diversi d’intendere la filosofia, dovrebbe scrivere tante storie quanti i modi da lui ammessi come legittimi. Ora non solo, come ognun sa, uno storico solo non scrive se non una storia sola; ma tutti gli storici insieme, chi ben rifletta, non scrivono né anche essi più di una storia; e le stesse dispute intorno alla natura di questa dimostrano manifestamente che tutti, in fondo, devono aver alle mani la stessa materia, non potendovi essere disaccordo che non rampolli da un accordo fondamentale, né differenza tra cose che non siano sostanzialmente identiche, e quindi materia possibile di paragone». (Ib., pp. 101-102). I decisionisti in fondo sono tutti somiglianti. Le realizzazioni devono essere tangibili, conquiste misurabili e identificabili, anche se tutto ciò, una volta ricondotto davanti al criterio negativo del tribunale critico, denuncia una notevole inconsistenza, ma si tratta di una costruibilità strutturale di cui non si può fare a meno, solo che non può essere né fine a se stessa, né cancellata per paura di compromettersi. Un discorso a tu per tu con la sconfitta forse sarebbe più corretto e certamente sarebbe più semplice, ma non produrrebbe possibilità di trasformazione, al contrario indurrebbe a considerare la sconfitta nel suo semplice lato negativo, come conclusione e morte, come necessità e non come possibilità relazionale, quando la morte è pur sempre una possibilità, mai una necessità, se siamo noi che ce la costruiamo, coscientemente, preparandoci a essa nell’àmbito e nel corso delle stesse conquiste che andiamo realizzando. La problematica relazionale deve potere entrare nell’àmbito ristretto dello spazio sociale, anche se sappiamo perfettamente che non vi può dimorare a lungo e che deve essere ricondotta continuamente al suo naturale punto di partenza, quello della totalità. La società non è infatti il semplice luogo dell’accumulazione, ma è una completezza irrisolta, progettata ma non completata, comunque mai riconducibile a una parzialità polarizzata come quella che si realizza nei flussi orientati.

Allo stesso modo, sempre nell’àmbito di una critica di teorie forti, c’è da vedere meglio il rapporto tra il processo di autorganizzazione sociale, che non può ricondursi tutto all’interno del semplice meccanismo di riorganizzazione del senso, e il travaglio inquieto che conduce al coinvolgimento del singolo. Non c’e motivo di considerare antitetiche le due prospettive, oppure di considerare determinista la prima e volontarista la seconda. Il tutto nel corso del processo di dissoluzione del criterio della razionalità dominata da una ragione forte, capace di proporre modelli imponendoli come aspetti sostanziali della realtà. Ciò fa concludere per una sorta di disorientamento: non esistono le guide chiare ed evidenti che si imponevano una volta all’attenzione di tutti, nel pensiero e, quel che è peggio, nell’azione. I capi, i condottieri, i grandi filosofi. Sembrano per fortuna definitivamente scomparsi. Se qualche leader politico emerge lo fa grazie alla sua debolezza più che alla sua capacità di decisione, i suoi fallimenti sono momenti di gratificazione più ancora dei suoi successi che, se eccessivi e troppo palesi, finirebbero in breve per destare sospetti e tradire la tolleranza fittizia che mette sempre avanti. Per rimanere lo stesso il mondo del dominio si è dato la parvenza di cambiare continuamente. Processi specifici innestano concretezze microscopiche nella pratica determinata diretta a produrre la realtà. Implicazioni indirette fanno vedere mondi possibili (semplicemente illusori) che sostanziano però l’unica realtà dello sfruttamento, sfaccettandola in mille prospettive laterali, spesso contraddittorie, dove fiorisce una critica del soggetto diretta a chiarire problemi inutili nella loro proposizione come nella loro pseudo-soluzione. Il ritorno del rimosso è pratica corrente, nessuno sembra darsene pensiero. Un esempio solo: i codici linguistici istituiti. Tutti restiamo al riparo della correttezza. Limiti e distanze ci sovvengono continuamente, le registriamo e poi tutto procede come se nulla fosse accaduto, nessuna dimensione diversa si profila nella ricerca stessa, nessuna sollecitazione filosofica vivifica un grigiore che copre tutto enfatizzando la bellezza della rivoluzione a parole.

All’ingrosso c’è una frammentazione del soggetto che si è andata a sostituire alla precedente crisi esistenziale rivelatasi solo funzionale alla ristrutturazione capitalista. Di questa frammentazione si utilizzano le capacità critiche nei riguardi della storia, per cui il passato appare adesso come una vecchia fotografia sfocata, comunque presente, sia pure come immobilizzato o imbalsamato, nei riguardi dell’ideologia, che adesso è considerata con non trascurabile ironia probabile causa di un nuovo medioevo. Ciò non poteva restare senza conseguenze sulle stesse capacità di svolgere un’indagine e di documentarla. I tentativi di andare su territori sconosciuti non hanno dato i frutti attesi e desiderati. L’opposizione tra significante e significato è rimasta senza gli sbocchi che si aspettavano, le pretese dell’io sono rimaste tali e le sue tensioni desideranti non hanno approfittato della ricchezza che si poteva trarre dalla realtà collettiva, dal mondo della sofferenza. Anziché affermazioni di principio, le suddette linee interpretative sono conseguenze di ragionamenti e constatazioni di fatti. La comunicazione si è raffreddata, scomparso l’elemento di coinvolgimento, sia pure circoscritto e perfino retorico, che l’ideale produce prima di trasformarsi in ideologia. Il destino del soggetto è rimasto prigioniero di questa degenerazione. Il disincanto odierno non ha nemmeno la splendida disperazione del pensiero dialettico e delle sue inevitabili lacerazioni. Il distacco mortuario di certe analisi tenta inutilmente di mettere insieme i risultati di una logica che non può più presentarsi come certezza dopo avere affermato l’assenza di ogni supremazia della ragione. Da qui il ricorso a decorazioni e orpelli spesso frutto di un’evoluzione tecnica addirittura esasperata, in se stessi anche capaci di causare effetti e contenuti mai attingibili in precedenza, ma pur sempre segno e documentazione di un vuoto. Lo stesso per la piattezza delle motivazioni, l’uniformità di un sentimento che diventa moda prima ancora di riuscire a esprimersi sia pure in una riconferma di valori costituiti. Scomparsa di ogni stimolo singolare, specifico di questo individuo e non dell’altro, il tutto ormai annegato in una imitazione che si distingue (e distinguendosi si esalta) proprio nella mancanza di differenze, nell’accumulazione razionalizzata.

Interessanti le osservazioni di Maurice Merleau-Ponty sul rapporto coscienza-tempo. Certo la coscienza contiene il tempo come dice l’idealismo, nel senso in cui il tempo è pensato da noi prima delle parti del tempo. Ma ciò significa forse che passato e avvenire sono oggetti di un presente assolutamente puro, significa che sono costruzioni della visione?

In pratica il tempo costruito, la serie delle relazioni possibili secondo il prima e il dopo, non è il tempo stesso, ma solo la registrazione finale, come dire, il risultato del suo passaggio, che il pensiero oggettivo presuppone sempre di cogliere e non riesce a cogliere.

Insomma è certo che il tempo necessita di una sintesi per cui io non devo confondermi con nessuno dei tre termini della relazione (prima, ora, dopo), ma nello stesso tempo questa sintesi è sempre da ricominciare in quanto si nega il tempo se la si suppone compiuta da qualche parte.

Scrive più esattamente Merleau-Ponty: «Il vissuto si presenta rivestito di un significato che, per così dire, esplode nel corso dell’esperienza ulteriore e in cui non si verificano sintesi concordanti. Non abbiamo ammesso, per spiegare questa soggettività di secondo grado, le spiegazioni causali offerte dal naturalismo. Quel che si chiama determinismo corporeo, psichico o sociale nell’allucinazione e nell’errore, ci è sembrato riconducibile all’emergere di dialettiche imperfette, di strutture parziali. Ma perché, in existendo, una data dialettica del livello organo-vegetativo, riesce a spezzare una dialettica più integrata, come nel caso dell’allucinazione? La coscienza non è soltanto, e non sempre, coscienza di verità; come si potrà comprendere l’inerzia, la resistenza delle dialettiche interiori, che si oppongono all’avvento dei puri rapporti tra soggetto impersonale e oggetto vero e che affettano la mia conoscenza di un coefficiente di soggettività? Come comprendere l’aderenza al vissuto di un significato fallace che è costitutivo dell’illusione? Abbiamo respinto le categorie causali di Freud e sostituito le sue metafore energetiche con metafore strutturali. Ma se il complesso non è una cosa al di fuori della coscienza che produrrebbe in essa i propri effetti, se non è altro che una struttura di coscienza, quanto meno, questa struttura tende, per così dire, a conservarsi. Quel che viene detto inconscio, si è detto, è soltanto un significato non avvertito: avviene che non riusciamo a cogliere il senso vero della nostra stessa vita, non perché al fondo di noi una personalità inconscia regga le nostre azioni, ma perché non possiamo comprendere i nostri stati vissuti sotto un’idea che non è loro adeguata. Tuttavia anche se noi lo ignoriamo il significato vero della nostra vita resta tuttavia la sua legge efficace. È proprio come se esso orientasse il flusso degli eventi psichici. Bisognerà quindi distinguere il loro significato reale, che può essere vero o falso, e il loro significato immanente – o, per utilizzare un linguaggio più chiaro di cui dovremo ormai servirci: la loro struttura effettiva e il loro significato ideale. Correlativamente, sarà necessario distinguere, nel processo di sviluppo, una liberazione ideale che non ci trasforma nel nostro essere e che modifica soltanto la coscienza che abbiamo di noi stessi, da una liberazione reale che è la Umgestaltung di cui abbiamo parlato con Goldstein. Non ci riduciamo alla coscienza ideale che abbiamo di noi più di quanto la cosa esistente non si riduca al significato con cui la esprimiamo». (La struttura del comportamento [1942], tr. it., Milano 1963, pp. 352-353). Questo avvicinamento e anche costituzione, partecipazione al movimento, è proposizione dell’alterità, coinvolgimento. È quindi progetto relazionale in cui tutto il campo viene riesaminato criticamente alla luce dell’analisi dei singoli flussi e della condizione in cui si trovano questi ultimi. Il ruolo della totalità diventa fondamentale non perché in questo modo venga collocato nella coscienza immediata il cominciamento, che per altro è solo relativo e non ha nulla di radicale, ma perché lo riconosciamo nell’altro, a prescindere da ogni tendenza antropomorfica. Ne viene fuori che non è l’uomo a essere il centro di intersecazioni della totalità del reale, ma qualsiasi relazione, anche quella ipotetica relazione puntuale che non riusciremo mai a identificare. Quello che noi sperimentiamo personalmente non ha nessun privilegio investitorio, se non nei limiti in cui non possiamo sottrarci a sottomettere noi stessi alla medesima logica del “tutto e subito”. Il nostro coinvolgimento è quindi livellamento di noi stessi alle condizioni oggettive del reale, distruzione di un presupposto ancoraggio alla certezza dell’acquisito, del di già accumulato.

Con ciò possiamo renderci conto che il processo oggettivo esiste solo se ci comprende come forza attiva al suo interno, in caso contrario, se lo osserviamo come fenomeno della natura, finisce per svanire. Non significa che con questo vogliamo ancora una volta metterci noi al centro del processo che stiamo oggettivando, al contrario noi ci poniamo in quel flusso continuo di movimenti che è ora centro e ora periferia, senza essere mai definitivamente né l’uno, né l’altra. Anche il processo di sfruttamento, per come si realizza nel meccanismo accumulativo, non garantisce di per sé un indirizzo oggettivo verso la liberazione. Può determinare condizioni di precarietà e sfasamento nei meccanismi di controllo e di recupero, ma si tratta di condizioni che possono essere restaurate sia pure con profonde modificazioni nel processo stesso. Chi si trova invece nell’ottica quantitativa, corrispondente a livello politico alla logica del partito, guarda sempre con grandi speranze alle condizioni oggettive dello sfruttamento e si aspetta da esse la risoluzione dei problemi dell’oppressione. A ogni nuovo assetto che il capitale e lo Stato riescono a dare alle contraddizioni sociali, esplode la disillusione dell’adoratore della quantità, e con questa l’amarezza della sconfitta e l’irreversibilità del riflusso. All’origine di questo meccanismo perverso c’è l’uso della dialettica. La sfida contro lo sfruttamento può anche essere rivestita di parole, ma è accaduto e accade che le parole finiscano per cadere giù da una pratica attiva diretta ad attaccare le condizioni specifiche dello sfruttamento stesso. In questo caso la dialettica cerca di recuperare la forza delle parole e quindi finisce per giustificare il recupero. La ragione dialettica può ridiventare “infelice” cadendo in disfacimento ma continua a funzionare alla stessa maniera. La lotta, pur procedendo dal fare in modo esclusivo, può andare verso l’agire quando abbandona tutti i legami significativi che continuano ad ancorarla al mondo della realtà produttiva, mondo basato sulla logica dell’avvicinamento progressivo. Costituendosi in modo radicalmente diverso, questa lotta cessa il proprio rapporto normale con le parole e diventa esclusivamente ineffabile, cioè non-dicibile, ma fattibile. Un fare del genere sta per essere liberato dalle sue residue catene, proprio per questo motivo si presenta con tutte le caratteristiche dell’estrema fragilità.

Proprio l’abitudine a queste sconfitte ricorrenti, poste sul piano esclusivamente quantitativo, convincono sulla ineluttabilità di una crisi che in effetti non esiste, e sul funzionamento di uno scavo sotterraneo, indipendente dalla nostra capacità di trasformazione, che anch’esso se esiste non è certo di natura quantitativa. Anzi, la tolleranza generalizzata sta ormai abituando le due parti in lotta, sostanzialmente contrapposte l’una contro l’altra, a una formale e superficiale estetica della neutralità, dove la forbitezza dell’alterco si capovolge in uno snaturamento dell’effettivo carattere tragico dello scontro. La grande svolta del capitale ha tolto ogni residuo significato totale alla produzione, per cui non valgono più le regole di un equilibrio mercantile che, una volta entrato in collisione con forze estranee e avverse, avrebbe causato senz’altro la crisi fatale dell’assetto capitalista. Adesso non c’è più cosa, e chi, dovrebbe entrare in crisi.

Mancando indicazioni precise sul meccanismo cieco e oggettivo che lavora al nostro posto, dobbiamo prendere l’iniziativa, coinvolgerci. Non possiamo aspettare che il seme fiorisca da solo liberandosi dalla neve che lo ha coperto. In caso contrario il tempo non è buon giudice, finisce per dare ragione alle ristrutturazioni. Non basta il canone metodologico dell’autorganizzazione per impostare l’iniziativa, occorrono anche la idee e il coraggio. La tendenza all’autorganizzazione è stata sempre una delle caratteristiche del movimento degli sfruttati nel suo insieme. Si è espressa ora con maggiore ora con minore forza senza mai del tutto scomparire davanti all’offensiva regolamentatrice. Più che assumere l’aspetto realizzato sotto forma di struttura, essa è stata colta in passato come tendenza vera e propria, cioè come intenzionalità latente, sospettosa verso le pratiche politiche e più disposta verso i progetti praticamente liberatori. Questa latenza ci conforta riguardo l’esistenza di una forza in movimento non identificabile con i canoni tradizionali, specialmente con quelli dialettici. Si tratta di un sintomo che indica la rottura in corso di una continuità di recupero. Certo, anche questo sintomo può essere liquefatto dalle innovazioni repressive e di controllo, modificato in una ulteriore costruzione e “detto” in modo che si possa comprenderlo efficacemente in ogni salsa disponibile nei supermercati.

La rigorizzazione del divenire. L’idealismo aveva definitivamente affermato che il passaggio o svolgimento è contenuto completamente nella incombenza del positivo (dell’atto) e che il nulla, implicito nelle deduzioni dell’esistenza, a causa del meccanismo della negatività, era da distinguere da quel niente-essere da cui dovrebbe emergere e in cui dovrebbe sommergersi l’essere.

La parte non coperta dalle presenze diventa così la zona dell’attività limitante con cui si afferma la relatività all’interno del positivo.

In questo modo, il concetto di divenire, come ha detto Vincenzo La Via, deve essere distinto da quello di venire all’esistenza, di nascere, con cui invece resta sempre confuso quando lo si definisca come passaggio dal non essere all’essere (dal nulla all’essere). Identificando il concetto di nascere col detto passaggio non si dice nulla, infatti il passaggio, insiste La Via, è qualcosa di positivo che può attuarsi tra due punti positivi. Ma il nulla può essere concepito come punto positivo? Dei salti logici che la logica hegeliana ci ha conservato, il catalogo non è ancora del tutto esaurito. In futuro altri approfondimenti potrebbero riservare ulteriori sorprese.

L’esperienza ci dice che il divenire delle cose non appare mai come annullamento dell’essere, infatti come potrebbe apparire un tale annullamento se apparire significa essere presente, essere in atto, sempre essere, insomma? Nascere, morire, generarsi, disgregarsi, accadono entro un più ampio cerchio di giunzione. Non si tratta di negare il processo ma di tenere presente che c’è un testimone che assiste e scruta ogni processo. Il nascere, dice La Via, è il cominciamento puro (assoluto) del divenire. La parola divenire indica piuttosto la relatività (dipendenza da altro) del divenire, il fatto cioè che questo non può cominciare che relativamente a qualcosa che, per sé e sostanzialmente appunto, non cominci.

Nel modo che segue La Via, approfondendo il problema: «Resta, così, radicalmente e perentoriamente soppressa – come consistente nella mera presunzione o illusione di un apriorismo o dommatismo effettivamente e concretamente impossibile (prima e oltre che logicamente assurdo) – la supposta antinomia speculativa che si ritiene inerente all’opposizione storica di idealismo e realismo, intesa nel senso della pretesa antitesi di un criterio moderno e di un criterio antico della filosofia: che, se potesse sussistere veramente (avere una sostanza teoretica positiva, anziché solo una base astratta e addirittura fantastica!) in quanto dualismo fondamentale, non potrebbe non valere a infirmare l’assunto di una iniziale e finale (insuperabile) identità con se stessa o unicità essenziale della logica del filosofare.

«Il criticismo (esplicitamente moderno, ma implicito già nei tanti indirizzi relativistici e scettici del pensiero antico e classico in genere), in quanto al suo contenuto storico e logico, è fenomenismo e idealismo: che (con le varie loro forme e filiazioni particolari) costituiscono di quello gli aspetti o le determinazioni essenziali affatto inscindibili. Giacché, invero, l’idealismo nasce a un parto col fenomenismo: il quale, d’altro canto, non può esser definito e inteso che per mezzo (e sulla base) del suo rapporto all’idealismo, di cui non è se non il momento incompleto e contraddittorio. Sicché, infine, il criticismo è propriamente lo stesso idealismo, considerato, appunto, nella sua specificità negativa, essenza di pura antitesi del realismo.

«Antitesi del tutto vuota, se non può avere altra sostanza che quella dell’astratta contrapposizione e quindi presupposizione – su cui unicamente poggia il criticismo! – del soggetto o “io” al conoscere in atto: al conoscere, dunque, in quanto (purché non si scambi col conoscere meramente pensato!) s’identifica col fatto assoluto della conoscenza; il quale è certo assurdo immaginare che possa, appunto soggettivamente considerato (come “io” o coscienza), trascendere (per poter costituirne il principio di posizione ut sic!) l’esserci o l’esser dato – onde è dato e c’è esso stesso! – del suo contenuto; una volta che questo (non si dimentichi!) non è alcuno per sé dei contenuti particolari che il conoscere comprende nella sua interna assolutezza od unità, bensì il contenuto a un tempo immanente e trascendente mediante cui il conoscere li trascende distinguendosene, e che, evidentemente, non potrebb’essere pure trasceso che a condizione che potesse trascendersi il conoscere medesimo». (La restituzione del realismo, in AA.VV., Filosofi contemporanei, Milano 1943, pp. 322-323). L’assoluta differenza dal nulla e la nullità del nulla. La differenza dal nulla giace nella regione dell’essere. L’atto di essere, l’assoluto atto, fa essere la differenza dal niente-essere, quando nega, in forza del conguaglio (identità di essenza ed esistenza) alla sua essenza, ogni possibilità del suo non essere. L’essere trattiene originariamente il nulla come simultaneamente annullato, infatti l’originario è assolutamente determinato: essendo l’essere pone il nulla per differirvi assolutamente. La necessità dell’essere fa essere simultaneamente il nulla e la nullità del nulla. Il ripristino di Hegel mi pare completato.

[1971], [1978], [1993]

VIII. Gli studi hegeliani in Francia alla fine degli anni Sessanta

In Francia Hegel neoidealista (quello, per esempio, di Augusto Vera) è dimenticato a favore di una lettura ideologica, però non del tutto legata in modo indissolubile alle necessità etico-politiche.

Il ritorno a Hegel è soprattutto il ritorno al clima hegeliano, il clima dell’immanenza, del pubblico, del politico e, tale clima, costituisce un momento essenziale della cultura francese di oggi [1969]. Hegel è il filosofo della filosofia bifronte, quindi il filosofo della conciliazione o della pura esigenza di essa. Bisogna rifarsi a lui per capire questo “ritorno”. Assumendo l’idealismo tedesco come chiave interpretativa dello svolgimento dell’intero pensiero europeo, si pone automaticamente il problema del “ritorno a Hegel”, e questo come risposta al nuovo bisogno di “visione del mondo”. Il materialismo ottocentesco con il suo meccanicismo cieco, il positivismo fondato su di una ricerca scientifica non ancora svincolata dalle necessità meccaniche e lo stesso psicologismo di impronta nicciana, richiedono una sorta di “risanamento”. Molti filosofi concordano con la necessità di “evitate le avventatezze metafisiche del vecchio hegelismo”, criticando gli estremismi di Hegel e salvando il sistema che afferma essere la storia il vero “organo” della filosofia. L’errore del neokantismo è quello di non accettare uno gnoseologismo a senso unico, concluso in una specie di psicologismo relativista capace di disintegrare tutti i valori della ragione sostituendoli con necessità e bisogni antropologici. Occorre riscoprire i valori nell’àmbito della storia, ma senza cadere nello storicismo assoluto, di cui Benedetto Croce è un esempio e una testimonianza negativa. Non so quanto sia possibile una ipotesi di un “rinnovamento dell’hegelismo”, e ancor meno so quanto ciò si possa considerare una via d’uscita dall’esito deludente della filosofia che aveva proclamato la necessità di “tornare a Kant”, promettendo con questo di saldare i conti con la vecchia metafisica una volta per tutte. La logica di Hegel sta a quella dei neo-kantiani come il diavolo all’acqua santa. Manca una connessione fra la logica, le discipline non logiche e la totalità. Il sistema hegeliano è certo presente nella sua impostazione classica, ma viene prevaricato dalla logica, per cui o si accetta la logica di Hegel o il suo sistema, per quanto le due cose non siano separabili. In Kant la dialettica trascendentale della ragione pura è negativa e critica. Dimostra l’impossibilità di quei concetti che la ragione umana è portata a formulare prescindendo dall’esperienza (Christian Wolff).

Kant chiama logica dell’illusione il procedimento della ragione che porta a questi concetti. Chiama questi concetti idee nel senso platonico in quanto rappresentano perfezioni che sono al di là dell’esperienza e non sono reali.

Intelletto: facoltà di dare unità alle apparenze mediante regole. Ragione: facoltà di dare unità alle regole dell’intelletto mediante princìpi. L’atto dell’intelletto è il giudizio. L’atto della ragione è il sillogismo. Il sillogismo (stoici-logica scolastica) può essere: 1) categorico, 2) ipotetico, 3) disgiuntivo. I concetti della ragione fondati su tale distinzione sono: 1) L’idea del soggetto completo (sostanziale) = anima. 2) L’idea della serie completa delle condizioni = mondo. 3) L’idea di un insieme perfetto di tutti i concetti possibili = Dio.

Ognuna di queste idee rappresenta a suo modo la totalità dell’esperienza in rapporto al soggetto (anima), in rapporto agli oggetti fenomenici (mondo), in rapporto a ogni oggetto possibile fenomenico o meno (Dio). Ma poiché la totalità dell’esperienza non è un’esperienza, nessuna di queste idee ha un qualsiasi valore oggettivo, cioè esse non sono reali, sono appunto idee.

La critica di queste tre idee è corrispondente alla critica delle tre discipline di Wolff (metafisica spaziale): 1) Psicologia razionale. 2) Cosmologia razionale. 3) Teologia razionale (ideale della ragione pura).

Psicologia razionale (anima). A fondamento del concetto di anima sta un paralogismo. Questo ragionamento sbagliato consiste nell’applicare all’io penso la categoria della sostanza, per cui questo atto originario dell’intelletto diventa una sostanza semplice, immateriale e incorruttibile e perciò spirituale. Ma la categoria della sostanza si può applicare solo a oggetti empirici.

Difatti: 1) L’io che pensa è soggetto ma non è sostanza (cioè essere sussistente da se stesso). 2) L’io che pensa è un io singolare che non può essere risolto in una pluralità di soggetti, ma non per questo è sostanza semplice, perché la semplicità può fondarsi solo delle sostanze empiriche. 3) L’io che pensa stabilisce la distinzione tra sè e le cose fuori di sè, ma non dice se può sussistere senza quest’ultime.

Scambiando queste affermazioni l’una con l’altra, la psicologia tradizionale chiarisce il suo carattere illusorio.

Cosmologia razionale (mondo). L’idea della seria completa delle condizioni (mondo) rivela la sua illegittimità dando luogo ad affermazioni antitetiche ambedue dimostrabili. Antinome della ragione pura: 1) Finità e infinità del mondo. 2) Divisibilità continua o interrotta. 3) Causalità libera o non libera. 4) Esistenza di un essere necessario come causa del mondo e non.

Teologia razionale. Ideale della ragione pura (Dio). L’idea di un insieme perfetto di tutti i concetti possibili (Dio), costituisce l’ideale della ragione pura. Le varie determinazioni: 1) Essere originario. 2) Essere supremo. 3) Essere degli esseri. Sono tutti puramente concettuali e non dicono nulla sull’esistenza reale dell’essere di cui si tratta.

Le prove dell’esistenza di Dio. 1) Ontologica: pretende ricavare l’esistenza di Dio dallo stesso concetto di Dio come essere perfettissimo. È prova contraddittoria se nello stesso concetto di Dio si ritiene implicita la sua esistenza, nel qual caso non si tratta più di un concetto, è prova impossibile perché se non la si ritiene implicita (tautologica) l’esistenza deve essere aggiunta sinteticamente, cioè per via dell’esperienza, mentre Dio è al di fuori di ogni esperienza possibile. 2) Cosmologica: che passa dalla contingenza del mondo alla necessità di Dio, è sempre fondata sulla prova ontologica. 3) Fisico-teologica: che passa dall’ordine del mondo al suo ordinatore, non prova perché non è lecito passare dall’ordine accentrato del mondo alla perfezione divina, che dovrebbe spiegare quest’ordine. Il salto può essere colmato solo tenendo presenti la prova cosmologica e quella ontologica.

Però l’ideale della ragione pura, anche se negato nel suo valore oggettivo, si presenta incessantemente come problema. Negato l’uso dogmatico, bisogna proporre la soluzione critica. A questo problema risponde l’uso regolativo delle idee trascendentali. Queste idee, quindi, non possono avere un uso costitutivo perché non servono a conoscere nessun oggetto possibile, ma indirizzano (regolano) la ricerca intellettuale verso quella unità ideale che rappresentano. In questo modo ogni idea è, per la ragione, una regola che la spinge a dare, nel suo campo d’indagine (l’esperienza), la massima estensione e ordine. 1) L’idea psicologica: spinge a cercare i legami fra tutti i fenomeni del senso interno e spinge a rintracciare in essi limiti e ordine, come se fossero manifestazioni di sostanza semplice. 2) L’idea cosmologica: spinge a passare incessantemente da un fenomeno naturale all’altro, dall’effetto alla causa e alla causa di questa causa e così via, come se la totalità dei fenomeni costituisse un unico mondo. 3) L’idea teologica: addita all’esperienza un ideale di perfetta organizzazione sistematica, che essa non raggiungerà mai, ma che perseguirà sempre, come se tutto dipendesse da un unico creatore.

Queste idee cessando di valere dogmaticamente avranno valore problematico come condizioni che impegnano l’uomo nella ricerca naturale, che è poi l’unica via per garantire all’unità totale dell’esperienza la sua vera realtà di guida del pensiero e per evitare che si trasformi in uno schema illusoriamente reale.

Per motivi inversi il kantismo si programma di permanere come frammento separato da tutto ciò che ruota attorno alle discipline non logiche, considerate certo come visioni filosofiche del mondo, ma caratterizzate come non scientifiche. I neo-kantiani cercano di opporsi sia alla metafisica hegeliana quanto all’empirismo positivista, ma lo sforzo è del tutto inutile

La polemica: Hegel marxista o esistenzialista? Gli autori che la trattano sono: M. Merleau-Ponty, L’existentialisme chez Hegel [1947]. F. Grégoire, Hegel e l’universelle contraddiction [1955]. J. Hyppolite, Situazion de l’homme dans la Phénoménologie hégélienne [1955] e La conception hégélienne de l’État et sa critique par Marx [1956]. A. Kojève, Hegel, Marx et le Christianisme [1947]. P. Klossowski, Hegel et le Mage du Nord [1955].

Nel lavoro: Le retour a Hegel, dernier mot du revisionisme universitaires, firmato: “La commissione di critica della cerchia dei filosofi comunisti”, si polemizza contro l’immagine reazionaria creata da Gentile, per esempio, e si prende posizione anche contro la rinascita esistenzialistica degli anni Quaranta.

L’interpretazione esistenzialista è sviluppata nelle seguenti tre opere: H. Niel, De la médiation dans la philosophie de Hegel [1945]. J. Hyppolite, Génèse et structure de la Phenoménologie de l’Esprit [1946]. A. Kojève, Introdution à la lecture de Hegel [1947].

In Alexandre Kojève appare anche una preoccupazione marxista specialmente nell’esame della figura dialettica del padrone-servo, quando dice che l’asservimento dell’operaio o del borghese povero non è da parte del borghese ricco, ma tutti e due da parte del Capitale. Poi le sollecitazioni esistenzialiste hanno il sopravvento. La Fenomenologia [1807] si traduce in un’antropologia in cui è preminente il tema della finitezza dell’uomo e della morte (Hegel diventa un precursore di Heidegger). Antropologia essenzialmente atea e, per questo, umanisticamente facente culminare tutto col sapere assoluto, cioè con la scienza della finitezza e quindi della vera umanità dell’uomo.

Ma, continua Kojève, Heidegger riprende unilateralmente la tematica di Hegel in quanto in questa si trova anche il problema della lotta e del lavoro, che poi sarà ripreso da Marx. In definitiva esistenzialismo e marxismo non riescono a risolvere nel proprio interno la filosofia più atea e umanistica dei tempi moderni, quella di Hegel, l’uno rivolgendosi verso l’antistoricismo e l’altro verso lo storicismo più assoluto. Dopo avere a lungo pensato che l’antistoricismo esistenzialista poteva essere una via per alleggerire la pesantezza dello storicismo crociano (prima) e marxista (dopo) – nell’ordine nel quale sono apparsi alla mia iniziale ricerca – ho dovuto concludere per la vanità delle due strade. Al soggetto non spetta il sapere assoluto, tanto meno nella storia. Il limite di questo sapere, una volta affermato come presente nella produzione coatta del quotidiano, travalica nella follia, e la follia non si supera, essa costituisce un viaggio senza ritorno.

In Henri Niel si attua l’interpretazione della storiografia cattolica. Hegel viene studiato nel carattere religioso e mistico della sua filosofia, la quale ubbidisce a una fondamentale ispirazione, quella di ritrovare l’unità originale dell’universo, rotta dal peccato. Questa unità è il problema autentico di Hegel che tende a risolverlo con lo strumento logico della mediazione. Non c’è una soluzione “completa” in questo senso nella filosofia hegeliana. C’è un tentativo di ripristinare il desiderio per fissare un legame con la conoscenza del mondo allo scopo che quest’ultima partecipi alla costituzione del sapere vero. Il soggetto senza volere sa quello che vuole, il movimento – tipicamente hegeliano – è fondato sull’astuzia della ragione, ma non raggiunge mai la condizione dell’unità finalmente conseguita. La verità non è rivoluzionaria, questa affermazione, come ho detto più volte, è tipica del dogmatismo.

In Jean Hyppolite, autore di una ricerca monumentale su Hegel, l’accento è posto sulla interpretazione umanistica, condotta col sostegno del commento minuto. In particolare è il VI libro della Fenomenologia (Lo Spirito), che è oggetto di indagine: il libro del destino dell’uomo nel mondo. Il succo dell’interpretazione hegeliana è questo: l’uomo è spirito, cioè divenire e storia dell’umanità. Per Hyppolite Hegel non è un mistico, ma non è nemmeno un ateo, piuttosto è un filosofo attento alla storia mondana dell’uomo non disposto, anche quando affronta il problema della religione, a celebrare un assorbimento della vita umana nella vita divina. Attenzione alla dialettica. Il meccanismo è vendicativo e pericoloso. Lo spazio antitetico produce un processo di recupero che può essere messo a tacere solo a condizione di fissare un luogo dell’oltrepassamento, cioè la possibile costruzione di una coscienza diversa. La critica negativa promuove questo oltrepassamento ma, essendo obbligata a “dire” lo stato di avanzamento dei propri lavori, alla fine diventa essa stessa normalizzazione esplicita se non interviene un movimento aggirante da parte del soggetto, cioè se quest’ultimo non riesce a giocare d’astuzia con la volontà. La sola trasgressione non basta in quanto quest’ultima per avere significato deve mantenere un rapporto esplicativo con ciò che viene trasgredito, deve intendersi di legge l’illegalista che si tura troppo frequentemente il naso. Ma il rispetto di ciò che viene negato, alla lunga, ha effetti deleteri sulla stessa negazione.

In Franz Grégoire si verifica la rottura definitiva con la tradizione critica e storiografica rappresentata da Jean Wahl. L’attenzione verso il giovane Hegel diminuisce e si torna al momento della maturità speculativa. Con l’opera di Grégoire si esce dalla duplice soluzione esistenzialistico-marxista, per una interpretazione di tipo originale fondata sul primato della ragione e del razionale. In questa stessa area si muovono studi come quello di Alphonse De Waelhens, che pongono un rapporto tra Husserl ed Hegel. Sono studi che si mantengono per lo più nella fase della storiografia descrittiva senza colorarsi di istanze pragmatiche o esistenzialiste o marxiste che siano.

Gli studi marxisti, o sollecitati dalla lettura di Marx, costituiscono un clima determinato dai lavori di Kojève e Hyppolite, in larga maggioranza. A determinare questo clima hanno anche contribuito le istanze umanistiche del marxismo di Henri Lefebvre e le istanze sociali dell’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre, espresse poi in forma conclusiva nella Critique de la raison dialectique [1960].

Secondo Sartre l’esistenzialismo viene a essere teoreticamente integrato dal marxismo che eredita due esigenze fondamentali dell’hegelismo: a) La libertà non si deve colorare delle pallide tinte illuministiche che riducono l’uomo a un semplice homme. b) L’uomo deve essere un citoyen che nell’àmbito della città invera la sua libertà più autentica. Questa dicotomia, peraltro molto articolata nel Sartre maturo, ripresenta l’alternativa degli infelici razionalisti di sinistra che cercano di riproporre il dialogo contrappositivo tra legalità e illegalità, tra positivo e negativo, tra norma e trasgressione. Il presente contraddittorio appare sempre identico a se stesso.

Tra gli studiosi marxisti, o comunque di sinistra, emerge una figura di notevole statura teoretica: Eric Weil, filosofo che ha approfondito l’argomento della morale hegeliana. Sempre di Weil l’operazione di sganciamento, effettuata nel lavoro Hegel et l’État [1956], dalle posizioni conservatrici e reazionarie sulle quali Hegel resta attestato a seguito della denuncia di Marx. Dice Weil che Hegel non identifica il razionale politico con il reale politico. Certo fu un ammiratore della Prussia della Restaurazione, ma il suo non è lo Stato empirico, lo Stato di fatto, è l’idea dello Stato moderno.

Enfatizzare un aspetto di Hegel è importante per la sua condanna definitiva, ma sarebbe un vano atteggiarsi a censori se si facesse questo sospettando una possibile soluzione diversa. Al contrario bisogna invece dire che “malgrado” una possibile soluzione diversa la distanza resta comunque incolmabile. Leggendo La scienza della logica [1812-1816], ci si rende conto di essere di fronte a una delle opere più magmatiche e impenetrabili di tutto lo scibile umano. Pur mantenendo la condanna precedente, fondata sugli esiti, si resta sbalorditi di fronte a questa grandiosa, potente, poderosa costruzione del pensiero, anche se avvolta tutta intera nelle nebbie del sistema categoriale, operazione diretta a giustificare la divinizzazione dell’umano e umanizzazione del divino. Certo a causa della sua difficoltà, e possiamo dire anche della sua impenetrabilità, quest’opera ha avuto una inconsistente diffusione e una comprensione molto frammentaria e contraddittoria, ma non si può negare che leggendola si vedono i bagliori della genialità e dalla universalità del pensiero. Non condividere la teoria della sussunzione, della sedicente “ontologia recta”, non impedisce l’ammirazione per lo sforzo di concettualizzazione dialettica il cui cominciamento è dato dalla travolgente fruizione del rapporto della materia con il complicato processo del divenire e del movimento di essere-non essere-nullificazione. Hegel riesce a mantenersi lontano dal territorio circoscritto del volontarismo come da quello della praxi, dall’attivismo come dal soggettivismo. Si poteva fare a meno delle suggestioni oggettivistiche, proprio utilizzando il movimento della sostanza che si fa soggetto (basta ricordare la parte del “sapere assoluto” nella Fenomenologia dello spirito), ma allora la rappresentazione di un dispositivo ontologico che è totalità in movimento si sarebbe ridotta a sostanzialismo informe, alla solita astrattezza metafisica. In Hegel l’ontologismo perde gli originari caratteri di proiezione ultra-sensibile e smaterializzante per assumere la funzione opposta di fondamento entro i paradigmi della concretezza e della materialità. Questa operazione di riorganizzazione di un’ontologia dialettica, nel modo rivissuto da Marx, andrebbe indagata in profondità.

Roger Garaudy, da perfetto militante comunista, legge la logica hegeliana con il convincimento che, in quanto sostanzialmente idealistica, necessita di essere rovesciata. La dialettica, egli sostiene, è lo studio delle leggi più generali della natura, del pensiero, della storia. Queste sono (secondo l’indicazione di Josif Stalin in Materialismo dialettico e materialismo storico [1946]), la legge dell’azione reciproca, la legge del movimento, la legge del progresso per salti e la legge di contraddizione, ma non esistono leggi che – come dice Hegel – vengono imposte dal pensiero alla storia. Affermazione contraddetta dallo stesso Hegel riguardo la teoria del concetto che resta una legge del “pensiero” e che pertanto costringe la gnoseologia hegeliana a non andare oltre la prospettiva idealistica.

Bisogna sapere scegliere l’eredità hegeliana, dice Garaudy, e ciò può farsi a partire dall’utilizzazione e dalla trasformazione profonda della Logica hegeliana nel Capitale [1867-1894] di Marx e nell’assimilazione critica della Logica hegeliana nei Quaderni filosofici [1914-1916] di Lenin. Il rovesciamento è il seguente: per Hegel la contraddizione è un momento della totalità, per un marxista al contrario la totalità è un momento della contraddizione ed è all’interno di quest’ultima che deve essere rintracciata.

Queste affermazioni non meritano di essere contraddette. La fine fatta da Garaudy è esemplare di per sé. La religione è conforto sempre disponibile per tutti coloro che si ritrovano orfani in un modo o nell’altro.

[1969]

IX. Metafisica

Nei secoli il termine metafisica ha avuto diversi significati, i suoi compiti e i mezzi da essa usati sono stati sempre in rapporto con la religione.

Vediamo alcuni degli scopi che sono stati prescritti alla metafisica. Secondo Aristotele essa è la scienza dell’essere semplicemente in quanto esistente, ma poi si presta a una duplice considerazione, quindi diventa scienza dell’esistenza in generale e scienza di certe esistenze come quelle di Dio e delle anime, inaccessibile in sé all’esperienza. In questo modo si è avuta la metafisica generale o ontologia e la metafisica speciale divisa in psicologia, cosmologia e teologia.

Scrive Aristotele: «C’è una scienza che studia l’essere in quanto essere e ciò che inerisce all’essere di per sé. Essa non è identica a nessuna delle scienze che si dicono particolari, perché nessuna delle altre scienze indaga universalmente intorno all’essere in quanto essere, ma ciascuna si taglia una parte dell’essere e ne studia gli accidenti, come fanno le scienze matematiche. Poiché cerchiamo i princìpi e le cause più lontane, è chiaro che essi debbono necessariamente essere cause e princìpi di una natura che di per sé ha quelle cause e quei princìpi. Se anche quelli che cercavano gli elementi degli esseri cercavano questi princìpi, anche quegli elementi dovevano essere elementi dell’essere, non dell’essere accidentale, bensì dell’essere in quanto è. Perciò anche noi dobbiamo afferrare le cause prime dell’essere in quanto essere.

«L’essere si dice in molti sensi, ma tutti sono in relazione a un unico termine e a una qualche natura unica, e non soltanto equivocamente, ma nello stesso senso in cui tutto ciò che è salubre ha relazione con la salute. Una cosa è salubre perché la conserva, un’altra perché la produce, un’altra perché è un segno della salute, un’altra perché la riceve. La stessa cosa si può dire anche del termine “medico” in relazione alla medicina, perché talvolta si dice che è medico ciò che possiede la medicina, talvolta ciò che è ben disposto per natura verso la medicina, talvolta ciò che è opera della medicina. E potremmo trovare altri modi di dire simili. Così anche l’essere si dice in molti sensi, ma tutti hanno relazione con un unico principio. Infatti di alcuni esseri si dice che sono in quanto sono sostanze, di altri in quanto sono proprietà della sostanza, di altri in quanto conducono alla sostanza, oppure ne sono la distruzione, o la privazione, o una quantità, oppure producono o generano sostanze, oppure hanno relazione con la sostanza, o anche sono la negazione di una di queste cose o della sostanza stessa. Per questo anche del non-essere diciamo che è non-essere. Di tutte le cose che hanno relazione con la salute c’è un’unica scienza, e la stessa cosa vale anche negli altri casi. Infatti appartiene a un’unica scienza indagare non soltanto le cose delle quali si parla in modo univoco, ma anche le cose delle quali si può parlare facendo riferimento a un unica natura, perché anche di queste in qualche modo si parla in maniera univoca. È chiaro, perciò, che anche lo studio delle cose che sono in quanto sono spetta a un’unica scienza. Sempre la scienza riguarda propriamente ciò che è primo, da cui tutte le altre cose dipendono, e in base al quale se ne parla. Se dunque ciò che è primo in questo senso è la sostanza, delle sostanze il filosofo dovrebbe possedere i princìpi e le cause.

«Come c’è un’unica sensazione di ogni genere che sia unitario, così c’è un’unica scienza per ogni genere, per esempio c’è una sola grammatica che considera tutte le specie di suoni. Perciò a una scienza unica di genere, a sua volta, spetterà studiare tutte le specie dell’essere in quanto essere e le specie di queste specie». (Metafisica [IV sec. a. C.], tr. it., Torino 1974, pp. 262-263). Compito della filosofia è quello di spiegare la forma nel suo svolgersi in contrapposizione alla struttura. Se preferiamo, l’astratto di fronte al concreto. La filosofia parte quindi dal concreto per arrivare all’astratto, per spiegare come sia possibile che questo si sviluppi. La realtà nel suo insieme è forma totale, cioè creatività. Essa è sempre nuova, sempre diversa. Non solo nel senso dell’unità del reale, ma nel senso della molteplicità del diverso, cioè della parzialità. Anche questa è difatti sempre nuova nelle sue singole parti. Queste parti sono le situazioni (o campi). Per esempio, se una situazione è data da tre relazioni, l’inserimento di una quarta la modifica ma non nel senso che prima erano tre le relazioni e ora sono quattro, piuttosto nel senso che le tre precedenti relazioni non sono più le stesse e ciò nel modo diverso da come queste tre non sarebbero state più le stesse anche senza l’inserimento della nuova relazione, come effetto del movimento nel suo insieme.

Bisogna tenere presente un ulteriore aspetto: la metafisica non implica il riferimento soltanto a ciò che trascende il piano dell’esperienza fisica ma può contenere la concreta possibilità di esperienze appartenenti ad altri piani, cioè degli stati metafisici come indica tutta la filosofia orientale. Ciò accade allo spinozismo che con i suoi gradi di conoscenza realizza non solo un’astratta riflessione teorica, ma un reale approfondimento della nostra esperienza spirituale: un reale progresso della partecipazione.

Ecco Baruch de Spinoza: «È necessario distinguere fra le idee e le parole, con cui significhiamo le cose. Poiché infatti hanno completamente confuso, o non hanno distinto abbastanza accuratamente o infine non abbastanza cautamente queste tre cose, cioè immagini, parole e idee, molti hanno del tutto ignorato questa dottrina della volontà, così necessaria a conoscersi sia per la speculazione, sia per una condotta saggia della vita. E così quelli che ritengono che le idee consistono nelle immagini, le quali si formano in noi mediante l’intervento dei corpi, sono convinti che le idee delle cose, di cui non possiamo formarci una immagine simile, non siano idee, ma solo finzioni, che noi foggiamo secondo il libero arbitrio della volontà; considerano dunque le idee come mute pitture su di un quadro, e prevenuti da questo pregiudizio, non vedono che l’idea, in quanto è idea, implica affermazione o negazione. Vi sono poi quelli che confondono le parole con l’idea, o con la stessa affermazione, che l’idea implica, e credono di poter volere contro ciò che sentono, quando con le sole parole affermano o negano qualcosa contro ciò che sentono. Questi pregiudizi potrà facilmente toglierli via chi badi alla natura del pensiero, che non implica minimamente il concetto dell’estensione; e dunque chiaramente capirà che l’idea (dato che è un modo del pensare) non consiste né nell’immagine di una cosa né in parole. Perché l’essenza delle parole e delle immagini è costituita da soli moti corporei, che non implicano minimamente il concetto del pensiero. Basti aver avvertito di queste poche cose a tale riguardo; passo ora alle predette obiezioni». (Etica. Dimostrata secondo l’ordine geometrico [1677], tr. it., Torino 1959, p. 122). La consistenza delle parole è legata alla dimensione del fare, esse rendono possibile il fare e rivestono di qualcosa di concreto le idee, come un vestito ci priva della nudità e quindi taglia fuori una parte considerevole del messaggio del corpo. Come le parole non sono conoscenza, da sole e per quel che pretendono di significare, allo stesso modo le idee prive di parole non sono conoscenza, sono intuizioni che aspettano di venire percepite, cioè poste sotto il cono di attenzione della nostra coscienza. La conoscenza accumulandosi produce le condizioni della quotidianità ma non fa altro, in questo modo, che dare corpo alle idee, le quali, ricevuto questo corpo, si solidificano qui, nel campo, inserendosi in una irrimediabile catena di significati. La qualità che le contraddistingueva non è ormai che un residuo.

Continua Spinoza: «Di cui la prima [obiezione] è, che si ritiene constare che la volontà si estende più largamente dell’intelletto, e che perciò è diversa da esso. E la ragione per cui credono che la volontà si estenda più largamente dell’intelletto, è che dicono di sperimentare di non aver bisogno di una facoltà di assentire, cioè di affermare e negare, per assentire a un’infinità di cose, che non percepiamo, maggiore di quella che già abbiamo, ma sì di una maggiore facoltà di intendere. La volontà viene dunque distinta dall’intelletto perché questo è finito e quella permane infinita.

«Secondariamente ci si può obiettare che niente l’esperienza sembra insegnare più chiaramente del fatto che possiamo sospendere il nostro giudizio e non assentire alle cose che percepiamo; il che è anche confermato dal fatto che non si dice che uno s’inganna in quanto percepisce qualcosa, ma solo se assente o dissente. Per esempio, chi fantastica di un cavallo alato, non perciò concede che esista un cavallo alato, vale a dire non perciò si inganna se al tempo stesso non concede che esista un cavallo alato; niente dunque sembra che l’esperienza ci insegni più chiaramente del fatto che la volontà, ossia la facoltà di assentire, è libera, e diversa dalla facoltà di intetendere». (Ib., pp. 123-124). Qui Spinoza capovolge il ragionamento. Proprio per quello che lui stesso ha affermato la volontà è coatta, prima “vuole” fantasticare di un cavallo alato, poi “vuole” non ammettere che un cavallo alato esista. I due movimenti della volontà sono ambedue obbligati, anche se di segno contrario. Ma non è di certo il segno che caratterizza la coercizione. Il luogo spettrale della realtà, caratterizzato dal segno fissamente ripetitivo della volontà, è chiaramente davanti ai nostri occhi in tutte le cose dell’esistenza quotidiana.

Ancora Spinoza: «In terzo luogo, si può obiettare che un’affermazione non sembra contenere più realtà di un’altra; sembra cioè che non abbiamo bisogno, per affermare che è vero quel che è vero, di una potenza maggiore che per affermare che è vero ciò che è falso; mentre invece percepiamo che un’idea ha più realtà o perfezione di un’altra; infatti, quanto più eccellenti taluni oggetti risultano rispetto ad altri, tanto più le loro idee sono del pari più perfette di quelle degli altri; da cui anche sembra risultare evidente la differenza fra volontà e intelletto.

«Si può in quarto luogo obiettare, che se l’uomo non opera per libertà della volontà, che cosa accadrà nel caso sia in equilibrio come l’asino di Buridano? perirà di fame e di sete? E se io lo concedo, parrebbe che io concepisca non un uomo, ma un asino o una statua di uomo; se invece lo nego, allora egli si determinerebbe da sé, e di conseguenza avrebbe la facoltà di andare e di fare quello che vuole. E oltre a queste, altre cose si possono forse obiettare; ma dato che non sono tenuto a riportare qui tutto ciò che ognuno può fantasticare, curerò di rispondere solo a queste obiezioni e il più brevemente possibile». (Ib., p. 126). In questo modo la metafisica si trasforma in un’ascesi che bisogna seguire per realizzare il proprio essere e non una scienza che interessa l’uomo perché risolve i suoi problemi. Considerandolo come aspetto parziale, punto verso cui si indirizza l’intensità di significato, il lato della relazione può erroneamente essere pensato come “lato” o momento della relazione stessa, la quale viene così orientata verso i suoi due poli, nel senso in cui per l’appunto si esercita il processo di polarizzazione. Ma le cose non stanno esattamente così. Il “lato” della relazione è esso stesso elemento di convergenza di una rete amplissima di relazioni che solo per motivi legati ai limiti di campo possiamo considerare, e di fatto consideriamo, circoscritti. In sostanza, da un “lato” della relazione sta un “altro” punto che ha esattamente le medesime caratteristiche, cioè è anch’esso crocevia della stessa totalità. Arrestarsi a un punto della relazione interrompe la catena significante, quindi l’altro lato si cristallizza nel luogo comune, nell’aspettativa del di già noto, in quello che si potrebbe definire la mancanza intesa come presenza. Occorre precisare che la mancanza non è l’assenza, la differenza è considerevole. La mancanza chiude alla ripetitività, garantisce che non c’è altro di cui aver paura, l’assenza avverte che c’è qualcosa d’altro e che non si può riposare tranquilli se l’assenza permane a causa dei suoi continui messaggi. Il desiderio vorrebbe aprire la mancanza ma la rappresentazione è sempre quella, la dimensione produttiva non lo consente in maniera diretta. Il pericolo di restare beatamente chiusi nella propria pochezza è più grande di quanto di regola si riesce ad avvertire. Il mondo mancante è infelice, spettrale, e quando noi cerchiamo di colmarlo con le normali acquisizioni diventa ancora più mancante, in modo che le condizioni presenti possano essere conservate senza difficoltà.

È la polarizzazione che spinge verso questi due estremi significati dotati di intensità diverse. Ed è qui che bisogna cogliere il momento trasformativo del processo relazionale. Il significato, nel suo arrivare agli estremi della relazione, non compie un viaggio nel senso classico del termine, esso cioè non si sposta nello spazio ma diventa man mano che l’assetto complessivo della realtà si trasforma. In questo senso il movimento è anche polarizzazione, quindi è accrescimento della totalità di significato che la realtà possiede nel suo insieme, ma è anche ripercorrimento di itinerari precedenti, consolidamento di attitudini, adeguamento e morte. Questo ripercorrimento è rammemorazione della qualità ma può anche essere semplice controllo dei confini, della consistenza del muro. Continuamente giochiamo la nostra partita sul terreno dell’oltrepassamento, ma non sempre riusciamo ad avviarci verso l’apertura, sono sempre possibili regressioni che conducono indietro e rassicurano, riconfermando la condizione morale in cui ci troviamo. Malgrado l’acqua passata sotto i ponti non riusciamo a comprendere in che modo la volontà del soggetto possa essere colta di sorpresa, per cui ci controlliamo e controlliamo senza interruzione un mondo che resta sospeso in attesa di qualcosa non ancora detto che potrebbe alludere a qualcosa non ancora fatto.

Da un “lato” della relazione sta quindi l’intera realtà delle relazioni possibili ma, in effetti, questa realtà è un processo tanto vasto e difficilmente comprensibile che si preferisce ammettere che da un “lato” della relazione sta un qualcosa che è costituito da un insieme molto limitato di relazioni, insieme i cui confini sono variabili in quanto dipendono dai flussi di significato che arrivano da ogni parte. Se da un “lato” della relazione sta di certo la totalità delle relazioni possibili, in pratica parliamo di “situazione relazionale”. La necessità di dire questa condizione del “lato” comporta la riduzione della possibilità di considerare questo “lato” come la totalità del mondo, la scissione che dovremmo operare tra “dire” e “fare” ci ostacola nell’andare oltre, nell’oltrepassare. Ogni tentativo di forzare il passaggio, di spezzare la barra di separazione, si traduce in una enfatizzazione della catena del significato che ci lega all’addensarsi del “lato” nella sua parzialità logica. Così ci avviamo tranquillamente verso una logicizzazione dell’esistenza e non ci pensiamo più. Ma la vita continua a premere alle porte.

Situazione e campo sono lati della relazione, ritagliati oggettivamente e soggettivamente nella totalità delle relazioni possibili. Tutte le considerazioni fatte in merito al campo valgono anche per la situazione.

Penso che la situazione non sia priva di conseguenze nella polarizzazione così come questa si realizza nella relazione. Il lato della relazione non è punto amorfo di semplice ricezione. Esso è punto attivo in quanto è parte delle relazioni in corso nella situazione (o nel campo) oltre che componente della totalità di tutte le relazioni possibili. Questa sua duplice attitudine entra nei rapporti di polarizzazione e condiziona la ricezione del significato. Cioè determina una vera e propria apprensione relazionale. Questa apprensione non è un fatto accidentale come la semplice presenza di ostacoli e una corretta ricezione del significato in arrivo, ma è un orientamento che la situazione prende in funzione del progetto complessivo che è in atto, progetto che può facilitare l’arrivo di certi significati esaltandone il contenuto, oppure ostacolarlo fino a spegnerlo. Le varietà dei significati in arrivo possono determinare uno spostamento del “lato” della relazione verso l’inquietudine (desiderio di oltrepassarla), o verso l’acquietamento (volontà di potenza). Ma non si tratta di uno degli aspetti da privilegiare (il primo) e da condannare (il secondo), le cose non stanno in modo così semplice. Il desiderio può cadere vittima del macchinismo libidico, può nascondersi dietro l’ignoranza e l’imbecillità del soggetto (non è un caso tanto raro), e apparire come banale enfatizzazione di qualcosa di inconsistente. Anche i sogni possono essere banali.

Ora, penso che l’apprensione sia elemento attivo della situazione, tale da potersi considerare come una sorta di codice che traduce e rende utilizzabile quella parte di significato che più conviene alla situazione stessa. Ciò non ha nulla di soggettivo, non può essere confuso con i processi volontari, quindi non può essere valutato in termini antropologici. Per un altro verso, a livello di campo, quello che il senso comune indica come volontà penso possa essere ricondotto a qualcosa di simile. Qui siamo molto lontani dalle pretese dialettiche, allo stesso modo siamo in una regione filosofica differente dalla vecchia critica del soggetto. L’umanismo aveva limiti che qui non sono riscontrabili, il futuro dell’uomo è un’avventura della coscienza, non può restare nelle condizioni morali che lo tengono imprigionato nel campo. Le povertà del parlamentarismo democratico non meritano neanche una critica negativa approfondita.

In questo modo, l’azione sarebbe un processo di orientamento dei significati. Essa si distingue dall’apprensione così come la situazione si distingue dal campo. L’azione penso sia l’aspetto soggettivo dei processi di orientamento e di codificazione dei flussi relazionali, così come l’apprensione costituisce l’aspetto oggettivo. Affermazione limitante, quest’ultima, in quanto l’azione va ancora più oltre del proprio rapporto trasformativo con l’orientamento e i flussi. Il logos fornisce differenze possibili all’azione ma non riesce a catturarla mai del tutto. La ripresa della coattività è una maledizione dell’uomo, un modo di essere connaturato al suo destino nel mondo, non qualcosa che intrinseco all’azione è sempre capace di ostacolarla e ridurla all’ordine. Nemmeno l’azione è onnicomprensiva, pur operando nell’àmbito della trasformazione, oltre del campo, la sua perentorietà si arresta di fronte alla domanda fatale: “tutto qui?”, al di là della quale non si va se non ricadendo indietro nella significatività della produzione coatta. Il soggetto agendo evoca l’immagine dell’universo totale, del “tutto e subito”, ma dovendone parlare (rammemorandolo) lo può fare solo dalla parte del linguaggio, cioè nel campo del fare coatto.

La decisione costituisce questo orientamento e si può vedere come fare (campo) e come apprensione (situazione). È sempre intervento selettivo e parzializzante, diretto a ridurre il flusso dei significati e a rendere possibile la sua fruizione.

La modificazione è possibile solo nella prospettiva del campo o della situazione, che sono elementi parziali. Dal punto di vista della totalità delle relazioni possibili il termine è privo di senso, non perché tutto permane, ma al contrario perché il concetto stesso di permanenza è assurdo. Ogni singolo “lato” della relazione è in rapporto con tutte le relazioni possibili, le quali sono la totalità di tutti i significati possibili, ma non sono la modificazione di questi significati. Il processo in atto è cambiamento della totalità del reale e non modificazione di un singolo significato. Attraverso il campo cogliamo certamente modificazioni, ma queste sono reali solo per la nostra situazione e qui appaiono oggettivamente come espressioni del processo modificativo. Dal punto di vista della totalità del reale esse non sono vere e proprie modificazioni, il concetto di persistenza nel pieno della sua complessità è un assurdo logico se pensato nella prospettiva della realtà in movimento. La totalità non può essere detta, malgrado si possa ascoltare la sua ineffabilità attiva nel mondo, e non solo nella traduzione limitante dei residui. Il desiderio è di certo dicibile, quindi opera nella modificazione, ma non si risolve in quest’ultima, preme per andare oltre, anche se la propria ambivalenza non fissa mai una separazione netta che faciliterebbe il giudizio analitico. Questa ambivalenza si dirama in mille direzioni, prepara il terreno all’apertura in quanto intacca (in maniera non dialettica) l’inquietudine dimostrando la sua insuperabilità dalla parte del campo. L’avanzamento dei lavori “diversamente concepiti” non collima con i tentativi inesausti di completare l’aggiunzione accumulativa. Si tratta di due movimenti antitetici. L’apologia della rappresentazione, alla quale ci siamo ridotti, non può neanche essa coprire le vergogne della condizione coatta.

Quando parlo di totalità mi riferisco alla realtà nel suo insieme di relazioni possibili. Non ha senso, in questa prospettiva, una distinzione tra relazioni possibili e relazioni effettive. Si tratta di un errore del senso comune, le relazioni sono sempre diverse e nessuna di loro ha flussi di significati che si possono considerare “in potenza” e altri “in atto”. Il significato delle singole polarizzazioni è dato dall’insieme relazionale della totalità delle relazioni. Questo è tutto. Una modificazione nel colore verde di una foglia aggiunge sempre qualcosa alla totalità dei significati di verde che emerge dalle relazioni a livello di realtà nel suo insieme. Quando parlo di possibilità mi riferisco al campo ed è qui che rientrano i concetti che devono essere espulsi dalla totalità del reale. Tutti i movimenti interpretativi del mondo della produzione, i lavori sopraffini che hanno cercato di rivestire le catene della coazione con i colori più sgargianti, appartengono al nichilismo semiologico che ci tortura da tanti decenni e che non accenna a smettere di disturbarci con le sue inconcludenze. Se tutto è segno non andremo mai alla ricerca della qualità, non troveremo mai il passaggio verso un mondo dove l’esperienza diversa riuscirà a riempirci i polmoni. Continuare a sprofondarci nel coatto è un modo come un altro di leccarci le ferite. Se tutto è simbolo, se a gestire il simbolo è la nostra coscienza controllora, dominata dalla volontà, mettiamo da parte la volontà e troveremo una crepa nel simbolo. Il linguaggio copre il movimento inconscio ma non lo abita per intero. Solo scoprendo il passaggio la nostra inquietudine riveste l’apertura di parole, la “dice” per conoscerla e, così facendo, la esorcizza.

Il processo è possibile solo considerando il rapporto in cui sono le diverse situazioni tra loro e quindi con l’insieme della totalità del reale. Queste due cose non si possono considerare diverse o contrapposte tra loro. La totalità del reale è l’insieme delle relazioni possibili e questo insieme è un insieme di situazioni (o campi).

L’affievolimento dei significati segna, come sappiamo, i confini delle situazioni (o dei campi), ma si tratta di confini che sono essi stessi relazioni di situazioni. Quindi, il rapporto tra situazioni si sviluppa come relazione tra l’elemento deterministico che viene fuori dalla situazione singola e l’elemento indeterministico che proviene dalla totalità del reale (o delle situazioni). È stato notato che questo rapporto non essendo dialettico si perde nello scambio simbolico, ma si tratta di un’ammissione fuorviante. Se non c’è dubbio che il simbolo rappresentativo governa tutti i movimenti che si indirizzano verso l’abbandono della coazione, non per questo possiamo concludere per una semiotizzazione totale della vita. Da questo lato è possibile uno sguardo sull’esistenza e l’osservazione di una lontananza reale, non simbolica. Demolire il passaggio è possibile, ovviamente mettendo da parte la critica negativa e gli stessi risultati ottenuti nell’interpretazione. Non sto parlando della finzione dell’autonomia, ma di un passaggio stretto dove chi si indirizza verso questa apertura saluta tutto quello che abbandona senza porsi il problema del ritrovamento. Tutto questo movimento verso la diversità non ha carattere energetico, non è regolato dalle pulsioni dell’esistenza, non è nemmeno un imbroglio nei riguardi della repressione, è una deformazione delle regole del campo, conseguenza questa dell’avere aggirato il controllo della volontà. Ambivalenza e separazione sono accessibili, in quanto termini linguisticamente provvisti di contenuto, solo nell’interpretazione, dopo perdono il proprio contenuto linguistico lasciando affiorare l’ineffabilità dell’assenza che si sta trasformando in presenza. L’altro è adesso in condizione di sopprimere le difficoltà del passaggio.

I confini della situazione (elemento deterministico) e totalità del reale (elemento indeterministico) sono riassorbiti insieme nella circolarità dell’unico processo effettivo che è quello del movimento della realtà. Nella dimensione più limitata e parziale della situazione essi danno vita a uno scambio e pertanto a un processo che se non è rettilineo non è nemmeno circolare proprio perché non è un processo totale. Non intendo qui reintrodurre i concetti vecchi di aggiunta o modificazione. La situazione non si modifica, non cresce o diminuisce. Essa è sempre diversa, ma questa sua diversità è fatto relazionale, non statico, per cui non si può accettare il concetto di aggiunta, se non come espediente tecnico del campo. L’aggiunta è prima di tutto un problema linguistico. Nella natura del linguaggio è la sovraesposizione, l’inganno della rappresentatività che si deposita come una buccia sulla concretezza delle cose. Questa diffusione capillare finisce per pretendere il posto dell’origine, per presentarsi come il mito della motivazione assente, non necessaria, quando al contrario è sempre motivata la presenza del dire, almeno nei limiti del paradosso che il mondo delle parole crea il mondo delle cose. In molti hanno cercato di sfuggire alla nemesi dell’aggiunta, ma non c’è stato modo di accettare la separazione definitiva se non come effetto dell’ambivalenza di ogni acquisizione. L’eccesso non segue questa strada, non riempie via via fino a traboccare ma trabocca subito e del tutto, non accenna al dolore per la mancanza e alla sua sostituzione teatrale personificata nell’aggiunta. Occorrerebbe un innesto multiplo, occhi capaci di guardare lo sguardo cieco della quantità, un antidoto contro la disperazione della mancanza. Ma questa strada non è per ora percorribile.

Nei riguardi della totalità e nel suo significato etimologico, la parzialità (o parte della realtà) è data. Poteva non essere data, ma è data. Dalla totalità dei rapporti possibili tra l’insieme delle relazioni viene fuori soltanto una situazione (oggettiva) che è un’unità definita oggettualmente. Retta da una viscosità strutturale interna talmente forte da fissare in modo decisivo i confini di affievolimento. È questo che chiamiamo oggetto. La forza di questa determinazione chiamata oggetto ci aiuta a superare il dolore della mancanza, l’inquietudine della presenza-assenza, l’impasse che avvertiamo continuamente di fronte a ogni domanda un poco più attenta alle sfumature, l’ingresso chiuso davanti ai nostri sogni. L’oggetto funziona come luogo di riunificazione, di affermazione della singolarità di fronte alle dispersioni possibili, di fronte al negativo e alla disperazione. Ecco perché esso ha bisogno instancabilmente di una rappresentazione nostalgica, ha bisogno di personificare l’origine perduta, l’impossibilità di andare oltre, l’inafferrabilità dell’assolutamente altro. L’oggetto fissa la solidità del campo e costituisce il raffreddamento più efficace di tutte le inquietudini.

La decisione della parzialità è sempre atto oggettivo della totalità del reale, nel quale atto si puntualizza il flusso dei significati. L’orientamento dei flussi all’esterno indica i confini strutturali della situazione i quali sono polarizzati verso un centro formale della situazione che è punto soggettivo, centro da dove si diparte il campo che ripercorre, nel senso dell’orientamento contrario dei flussi e nel corso dell’insieme dei fenomeni di polarizzazione, lo stesso tessuto relazionale della situazione. È questo che chiamiamo soggetto.

Il lato della relazione si allarga nel campo e da questo si ribalta nella situazione. Questi confini, continuamente intercambiabili, consentono una specie di prospettiva e danno l’illusione di un “senso” e di un processo lineari. Il farsi di un campo è spesso chiamato “esistere” e la ricezione dei flussi di significato, nella loro più o meno costante linearità, dà l’illusione dell’esistere come concetto particolare, come “coscienza dell’essere”. Ciò spiega molte incongruenze e molti tragici errori. Il soggetto non può andare al di là del campo se non nei limiti di penetrabilità dei confini. Ora, la prospettiva, il progetto, sono per definizione questo “andare oltre”. Ma, guardando avanti, il soggetto non può fare a meno di vedere se stesso. Non è sforzo da poco vedere se stessi, ed è quello che praticamente facciamo di continuo nel nostro diventare, con dolore, quello che la realtà è senza fatica o sforzo. Ci rendiamo conto così che le prospettive di noi stessi sono infinite come infinito è il nostro campo e come infinito è il semplice “lato” della relazione. Tutto un nuovo concetto di infinito, un continuo variare di prospettive, di flussi, di relazioni. La coscienza immediata ruota lentamente attorno alle sue certezze, è questo che chiamiamo soggetto. Essa è appunto subordinata a queste certezze, il suo movimento folle di ripetizione produttiva rinnega a ogni istante la propria aleatorietà in quel gioco delle conquiste che costituisce la pelle dell’immediatezza, il suo contatto perenne col mondo. La frontiera che mantiene in vita è affidata alla altissima sostituibilità dei contatti, delle percezioni. Ogni distinzione si annienta e si riforma continuamente, questo e quello si sostituiscono e si alternano, si sovrappongono e si distinguono. La confusione è sempre in agguato ma viene ricacciata indietro dal meccanismo analitico di distinzione, guai a darle libero accesso, sarebbe un grave peccato contro l’intelletto e la sua capacità di formulare concetti chiari e distinti. Sullo sfondo il desiderio controllato (ma non meno forte) di essere quello che non si è, di arrivare laggiù, dove esiste quell’altra cosa che ci appare così indispensabile alla nostra sopravvivenza. Tutto da rifare. L’analisi diventa sintesi del “non ancora” con il “di già più”.

Per il momento possiamo ridurre a due gli usi fondamentali della metafisica: 1) Concetto formale, riferendosi con ciò alla sua funzione logica. 2) Concetto contenutistico, concernente il possibile ampliamento della nostra esperienza. Spesso questi usi si confondono, come accade a Francis Herbert Bradley in Appearance and Reality [1893] o a Johann Gottlieb Fichte ne La Missione dell’uomo [1800].

Ecco cosa scrive Bradley sull’argomento: «Nessun aspetto dell’esperienza come tale è reale. Nessuno è primario o può servire a spiegare gli altri o l’insieme. Essi sono tutti simili ad apparenze, tutti unilaterali e terminanti di là da se stessi. Ma mi si potrebbe chiedere perché, ammettendo ciò, possiamo chiamarli apparenze. Questo, perché tale termine dipende unicamente e direttamente dal lato percettivo delle cose, e il lato percettivo delle cose, ne conveniamo, non è altro che un aspetto fra gli altri. Si potrebbe chiedere che non è possibile apparire se non a un percepiente, e che anche un’apparenza implica sia il giudizio che la riflessione. D’altro lato certamente io potrei chiedere se devono esservi incluse tutte le metafore implicite, e in tal caso come molte frasi e termini ci abbandonino. Ma nel caso dell’apparenza io subito ammetto che l’obiezione è valida. Penso che implichi senza dubbio un aspetto del percepire e del giudicare, e un tale aspetto, ne convengo, non esiste ovunque. Infatti, anche se noi concludiamo che tutti i fenomeni passino attraverso i centri psichici, tuttavia in quei centri, in modo ancor più assurdo, tutto non è percezione. E l’affermazione che in qualche modo nel Tutto tutti i fenomeni siano giudicati non potrebbe essere sostenuta. In breve, dobbiamo ammettere che alcune apparenze realmente non appaiono, e che quindi tale termine è da noi usato con una certa licenza.

«Comunque, la nostra attitudine metafisica deve essere teoretica. È nostro compito qui misurare e giudicare i vari aspetti delle cose. E quindi per noi ogni cosa che delude nel momento in cui è paragonata alla Realtà, assume il nome di apparenza. Ma non affermiamo che la cosa in sé sia un’apparenza. Intendiamo che il suo carattere è tale da diventarlo non appena la giudichiamo. E abbiamo visto attraverso il presente lavoro, che tale carattere è l’idealità. L’apparenza consiste nella mancanza di contenuto dell’esistenza; e, su questo auto-alienamento, ogni aspetto finito è chiamato apparenza. E abbiamo scoperto che ovunque nel mondo prevale tale idealità. Qualunque cosa minore del Tutto è stata considerata come di per sé priva di contenuto. La sua esistenza implica nella sua intima essenza una relazione con l’esterno, ed è così contaminata nell’interno dall’esterno. Ovunque il finito è auto-trascendente, alienato da sé, e finito in se stesso a favore di un’altra esistenza. Quindi il finito è apparenza perché da un lato è un attributo della Realtà, e perché, d’altro lato, è un attributo non reale di per sé». (Appearance and Reality. A Metaphysical Essay, London 1908, pp. 429-430). L’intero mondo dell’esperienza quotidiana è così apparenza. Come dire irrazionale e contradditoria, quindi impredicabile e non conoscibile. Il metafisico adotta un uso alterno, impiegando spesso nella stessa pagina termini come “esigenza”, “desiderio”, “aspirazione”, “disperazione”, ecc., mostrando continui trapassi dal piano logico al piano morale ed emotivo. Poi agli antimetafisici egli rimprovera: a) di non essere riusciti a concludere definitivamente il loro discorso (obiezione di carattere logico), b) di non sentire l’esigenza indistruttibile della metafisica (obiezione di carattere contenutistico). In primo luogo la ripetizione è apparenza. Nel campo ogni produzione è il duplicato di se stessa, pur nella sua continua modificazione. Se per un attimo cessasse questa duplicazione verrebbe fuori l’assoluta qualità dell’oggetto, non il residuo che come modello (o forma) permette la duplicazione. Cioè verrebbe fuori la sua sostanza e si annullerebbe l’apparenza che come una vernice ricopre il movimento produttivo. La ripetizione conferisce alla realtà la perentorietà annichilente che altrimenti la caratterizzerebbe, rendendo impossibile l’esistenza quotidiana, intollerabile qualsiasi imperfetto adeguamento. La cognizione più immediata (ma non la sola) che possediamo di questo straordinario meccanismo è il linguaggio. La catena significante che lega inesorabilmente ai patti convenuti, alle convenzioni coatte: ecco la ripetizione. Questo paradosso si riassume nel fatto che ogni ripetizione coatta è aperta alla modificazione, anzi si caratterizza per l’inesorabilità mortale di questa innovazione.

Un altro importante concetto metafisico è quello di una metafisica dogmatica, che volendo raggiungere l’assoluto oggettivo o l’in sé delle cose, assume a suo oggetto delle ipotetiche entità metafisiche che in definitiva si rivelano vuote astrazioni. Una notevole critica a questo concetto viene dal campo idealista e storicista. Per i filosofi di questa tendenza la metafisica non sarà mai vera e propria conoscenza in quanto pone il criterio della verità non in una legge teoretica di sviluppo in base alla quale i concetti si elaborano e le obiettività si modificano, ma proprio nel proprio stesso contenuto oggettivo. Naturalmente gli idealisti, dopo la critica, modificano la metafisica in logica nel senso hegeliano o in metafisica critica nel senso kantiano. Il rapporto del soggetto (forte) con la realtà (debole) non è fissato una volta per tutte. Il concetto non è in grado di gestirlo come immobilità definitiva. La negazione stessa presenta troppe ambivalenze per mantenere correttamente gli scambi di intensità. Il desiderio resta fuori della porta. In ogni caso la logica forte non accetta desideri, si dichiara capace di soddisfarli tutti, con buona pace dei tentennamenti. L’uomo è libero di piangere sotto il cuscino purché gli altri non se ne accorgano.

«Con la filosofia kantiana – afferma Hegel – è il concetto assoluto che pensa se stesso, che va in se stesso, quello che vediamo sorgere con essa in Germania, di modo che ogni essenzialità cada nell’autocoscienza: ma l’idealismo, che rivendica all’autocoscienza tutti i momenti dell’in sé, resta dapprima ancora affetto esso stesso da un contrapposto, in quanto ancora distingue da sé questo in sé. In altri termini, la filosofia kantiana riporta bensì l’essenzialità all’autocoscienza, ma a quest’essenza dell’autocoscienza, cioè a questa autocoscienza pura non può procacciare ancora alcuna realtà, né scoprire in essa medesima l’essere; essa comprende il pensiero semplice come avente in se medesimo la distinzione, ma non comprende ancora che ogni realtà consiste appunto in questo distinguere, e non si sa render padrona della individualità dell’autocoscienza, descrive la ragione molto bene, ma lo fa in maniera scevra di pensiero, empirica, che invola di bel nuovo a se stessa la propria verità. La filosofia kantiana è teoricamente l’Illuminismo reso metodico: non si può sapere niente di vero, ma soltanto il fenomeno; esso porta il sapere nella coscienza e nell’autocoscienza, ma lo tien fermo in questo punto di vista come una conoscenza soggettiva e finita. Per quanto dunque essa tocchi già l’idea infinita, ne formuli le determinazioni formali e giunga a esigerla concretamente: la ripudia tuttavia come verità e la riduce a un che di puramente soggettivo, avendo ormai accettato il conoscere finito come ultimo e fisso punto di vista. Questa filosofia ha posto fine alla metafisica intellettualistica in quanto dogmatismo oggettivo, ma in realtà non ha fatto altro che trasformarla in un dogmatismo soggettivo, cioè in una coscienza in cui sussistono le medesime determinazioni finite dell’intelletto, e ha rinunciato al problema di quel che sia vero in sé e per sé». (Lezioni sulla storia della filosofia [1816-1830], tr. it., vol. III, t. II, Firenze 1964, pp. 286-287). La povertà della filosofia critica è ben descritta da Hegel. Come ogni povertà essa ha dalla sua parte la forza di essere ridotta ai minimi termini. Chi si trova in questa fase di riduzione ha meno orpelli da gestire, vede le cose più chiare (apparentemente) e la distinzione che produce affascina di più (gli spiriti deboli). Ma questa forza è solo apparente, essa dipende da un meccanismo simmetricamente opposto alla realtà intesa nel suo insieme di relazioni possibili. La corrispondenza è speculare, come la scena è speculare alla vita, ma la scena è la vita ridotta, riprodotta perché gli spettatori traggano non ammaestramento ma conforto, perché nella ripetizione dei gesti tragici o comici si perpetui il destino di qualsiasi protesi, quello di aiutare gli uomini a scaricare le proprie spaventose inquietudini. Ma l’assenza della realtà, il dolore della lontananza dalla completezza, il delirio di una ripetizione senza scopo, il sentirsi vittima degli stessi effetti positivi della protesi, è sempre l’uomo a pagarli.

L’azione morale dell’uomo è diretta, come al suo oggetto o termine finale, al sommo bene. Ma il sommo bene per 1’uomo, che è un essere finito, consiste non nella sola virtù, ma nell’unione di virtù e felicità. L’identità di virtù e felicità è stata ammessa, secondo Kant: 1) Dagli epicurei: che hanno ritenuta implicita la virtù nella ricerca della felicità. 2) Dagli stoici: che hanno ritenuta implicita la felicità nella coscienza della virtù. In realtà virtù e felicità costituiscono l’antinomia della ragion pratica. La condizione che rende possibile la virtù (il rispetto della legge morale) non influisce sulla felicità. Come la condizione che rende possibile la felicità (adeguarsi alle leggi e al meccanismo causale del mondo sensibile) non rende possibile la virtù. L’uscita critica da questa antinomia è data dal fatto che l’uomo deve, per esser degno della felicità, promuovere all’infinito il suo perfezionamento morale. Solo la santità, cioè la conformità completa alla volontà della legge, rende degno senz’altro della felicità e costituisce la condizione del sommo bene, cioè dell’unione perfettissima di virtù e felicità. Il perfezionamento morale ha carattere oppositivo. In un mondo fondato sullo sfruttamento e l’oppressione esso deve partire dalla negazione critica del potere, della rappresentazione, della produzione coatta. Lasciare che il male avanzi nel mondo, vestito con gli abiti della domenica è una nostra responsabilità. Come fermarlo? Come fermarlo se non gli opponiamo il deserto, prima di tutto il deserto della parola? Non è cosa facile se la volontà insiste nel presentarci lo stesso modello di comportamento, le stesse immagini che vorremmo rifiutare, gli stessi ruoli. Il negare non può essere un fatto provvisorio, una diversione tattica, deve produrre quella dispersione che mette a repentaglio la rigidità della morale kantiana.

Ma questo progresso all’infinito, dai gradi inferiori a quelli superiori della perfezione morale, è possibile solo ammettendo alcuni postulati: 1) Postulato dell’immortalità dell’anima. “Il postulato è una proposizione teorica e come tale non dimostrabile che è legata inseparabilmente a una legge pratica e che vale incondizionatamente a priori”. Solo il postulato dell’immortalità dell’anima rende plausibile quel progresso all’infinito. 2) Postulato dell’esistenza di Dio. Necessario in quanto l’unione di virtù e felicità non si verifica secondo le leggi del mondo sensibile e quindi può essere il prodotto di una volontà santa e onnipotente. Credere all’esistenza di Dio non è un dovere ma un bisogno, questa credenza non è neppure necessaria per il dovere perché questo si fonda sull’autonomia della ragione. Il postulato, come bisogno della ragion pratica, è una fede, ma una fede razionale. 3) Postulato della libertà. Condiziona tutta la vita morale come vita indipendente dalla causalità sensibile e come in grado di agire secondo la legge di un mondo intelligibile.

Questi postulati fanno riconoscere – secondo Kant – con certezza ciò che alla ragione speculativa appariva semplicemente problematico: 1) la realtà dell’anima come sostanza indistruttibile, 2) del mondo come dominio della libertà umana, 3) di Dio come garante dell’ordine morale. Ciò che era trascendente per la ragione speculativa diventa immanente per la pratica. Tuttavia Kant si rifiuta di ammettere che i postulati possano arrivare a fare conoscere gli oggetti noumenici cui si riferiscono. Anzi egli conclude la Dialettica dicendo che una qualsiasi certezza che l’uomo dovesse avere del mondo sovrasensibile distruggerebbe la base della moralità. La soggettività è costruita con le regole del campo, non è estranea a quest’ultimo, quindi non può essere pensata in termini di contrapposizione pura. Se fosse garantita dall’esterno sarebbe in grado di resistere efficacemente alle procedure simulatrici del potere. La sua razionalità è in un certo senso mimetica e si adegua continuando a esistere più o meno bene nel luogo del prelievo coatto. Quello che sappiamo di noi non è mai quello che siamo, ottenere quest’ultimo traguardo è modello morale da perseguire con tutte le forze. La materialità fattuale non è esattamente quello che vogliamo senza scarti, manca la consapevolezza univoca, capace di arrivare fino in fondo. La descrizione nei comportamenti morali è solo una scaramuccia di periferia.

Ogni superamento del pensiero che si tenti di conseguire ricorrendo ad altro dal pensiero stesso, allo stesso modo di ogni tentativo di fondare le proprie speranze riguardo l’avvenire sul trascendentalismo dell’azione, incappa specificamente nel problema dell’universale. Ciò non implica che i sostenitori di questa tesi debbano essere considerati storicisti nel senso specifico del termine. La cosa implica tuttavia che nell’analisi dei fatti non si faccia ricorso a indeterminati elementi di giudizio a posteriori e nemmeno a determinate cause capaci di agire in maniera assoluta a priori. L’unica soluzione sembra fornita dalla valutazione complessiva di tutti gli elementi che concorrono nel pensiero e nell’azione, anche giudizi di valore su specifici particolari. In fondo, il loro concetto è qualcosa che si richiama più alla storia di ogni individuo che non alla sua capacità gnoseologica. Questa distinzione, che possiamo condurre in seno all’esperienza stessa (interpretandola gnoseologicamente e storicamente), ci apre la strada al fondamento del concetto. L’abbandonarsi all’evenienza muta sembra una eventualità da scartare ma non è così. Il fare è detto ed è fare proprio per questo dire che lo rafforza e lo ribadisce nel proprio statuto fattuale. Non ci sarebbe mimesi possibile senza questo sostegno essenziale, senza la parola. Ciò non vuol dire che il problema dell’universale non esiste, ma che la parola può spegnersi in un silenzio che mantiene un rapporto diverso con la realtà fattuale. Questa nuova condizione intreccia un doppio rapporto con il potere che regola la riproduzione coatta: da un lato questo duplica la nostra ragionevolezza fino a farla apparire come l’universale razionalità che regola il mondo, dall’altro lato possiamo opporre le ragioni dell’unicità, della singolarità che si incanala alla perdita.

Il considerare l’azione come qualcosa di preminente nella vita pratica, quindi intellettiva, di ognuno di noi, apre la strada al problematicismo. È molto interessante notare come il concetto passi dalla dialettica del superamento di Hegel, (malgrado l’influenza attualistica che oggi non possiamo non tenere presente) alla dialettica problematica di Kant, di certo più adeguata alle condizioni d’essere di una ricerca che contrassegna l’incertezza. La dialettica kantiana, a prescindere dalle valutazioni negative che sono correnti in campo filosofico oggi, costituisce un buon terreno su cui basare qualsiasi considerazione d’incertezza. Secondo la dialettica kantiana infatti la filosofia non può avere la pretesa di risolvere i massimi problemi calandoli obiettivamente nel conosciuto o nel conoscibile, in quanto è la nostra volontà a crearli. Un qualsiasi frammento di quotidianità risponde a questo dominio della volontà, per questo motivo sembra un’esplosione di creatività (sulle prime) ma poi rivela tutti i suoi limiti e la sua vicinanza semantica e sostanziale all’immagine che riesce a rappresentarla così bene. L’azione è prima di essere tale pensiero, e viceversa, la riflessione è amore o non è nulla, è il suo contrario, esattamente speculare. Nessuna cosa si risolve nella mera volontà di pensiero. Ognuno mette l’accento dove ritiene più opportuno. Ciò che è certo è che qualunque risoluzione del genere è inquietudine nella coscienza immediata, adesso come prima. Tale è la condizione della prassi attiva, la premessa trasformativa della storia, il fondamento della possibilità di parlare di un universale. In qualsiasi modo si possano rinnovare i processi razionali, questi non sono che abbozzi di una risposta al problema del fondamento di un riferimento universale. Venendo meno il criterio di totalità riappaiono le magre distinzioni dell’accumulo. Insoddisfacenti.

Il concetto trasmette l’esigenza di una vitalità trasformativa che deve stare per forza di cose altrove, una precisa esigenza. Malgrado le inesatte interpretazioni del divenire hegeliano e malgrado gli atteggiamenti di rifiuto del criticismo, l’esperienza di per sé, astrattamente considerata, ridotta all’osso del concetto, non basta, per parecchi motivi, a soddisfare la nostra volontà di vedere più profondamente in essa. Esigenza che si tramuta nella precisa convinzione che per conseguire tale scopo è necessario andare oltre l’esperienza stessa. Non ha importanza che alcuni confondono questo andare oltre con l’abbandonare il concreto per gli spazi inconsistenti dell’assolutamente diverso, non ha importanza in quanto nulla può essere circoscritto nell’azione senza che non si mantenga inquietamente una richiesta di andare sempre più avanti, una richiesta senza fine. Occorre però esaminare la differenza tra l’andare oltre l’esperienza e il permanere, se non altro ponendo i problemi della possibilità e della effettualità di questo movimento. Si può ammettere a questo punto che la cosa più importante nell’indirizzarsi verso la diversità non è il “riferire in merito” ma il “muovere verso”. Che cosa ci consente il piede leggero di cui parlava Nietzsche? La danza è movimento e il silenzio di John Cage è musica.

Non c’è possibilità di accordo, invece, con le tesi che sostengono una sorta di “superamento della prassi”, dove questa si adagia sulle condizioni nuove che verrebbero fuori dal movimento stesso della dialettica nella realtà, perché questo “superamento”, pur già riconoscendo nell’uomo capacità costruttive, vede l’evolversi della trasformazione in una zona del superamento stesso dove gli elementi del passato, quindi la stessa azione e le cause che l’ebbero a determinare, sono del tutto scomparsi, o almeno collocati in un’altra dimensione. A questo riguardo occorre tenere da conto le “determinazioni” dell’essere nella Logica hegeliana e le conseguenti valutazioni del giudizio. Ciò senza nulla togliere al trasferimento del dire nell’agire, del desiderio che agisce e cessa il proprio racconto personificante. Siamo anche qui a una specie di “ritorno all’ordine”, ma che porta sul proprio corpo insoddisfatto (nessun desiderio può smettere di essere tale) i segni della differenza.

Queste determinazioni, comunque, hanno importanza soltanto per chi voglia fare distinzioni precise tra i modi di pensare l’azione, evitando di fare coincidere questi modi con la loro inevitabile comunanza di percezione e interesse. Una illimitata rottura dell’ipotesi? È invece molto importante che anche il concetto e l’azione vengano sottratti alle frequentazioni dilettantesche di stupidi e petulanti sostenitori di una preminenza dell’una o dell’altra distinzione, infatti, questo modo di fare, nelle sue arroganti affermazioni, rivela quanto sia profondamente sentita la necessità di una ricerca filosofica capace di fornire caratteristiche unitarie, insomma, un qualche cosa di costante dietro cui asserragliarsi, al di là del semplice anelito senza fine. La dialettica kantiana sta sotto ogni bisogno del genere e lo incita a non accontentarsi delle soluzioni di Hegel, malgrado le simpatie che spesso l’avventurosità picara di queste ultime sembrano suggerire. La dialettica hegeliana è per tutti troppo magniloquente, troppo sicura di sé, troppo onnicomprensiva, per non rendere assurda ogni considerazione costruttiva che parta dall’incertezza.

In ogni caso il cerchio è chiuso. Cerco di andare oltre le ripugnanti catalogazioni perché non vedo la possibilità di venire a capo del problema della mia vita in modo differente. Così procedendo ne pongo un altro: trovare la speranza di cogliere i limiti dell’intelletto, considerando quest’ultimo come strumento necessario della possibilità di analisi. Cosa cerco al di là del pensato: cerco il pensiero che mia aspetta, il destino di là del pensato. Nessuna limpieza demasiada. Il relazionismo accetta l’ipotesi incerta della guida dell’intelletto, che è sempre la base di ogni filosofare. Ma il relazionista, precisando meglio la distinzione fra Verstand e Vernunft, domanda se il processo di precisazione della Vernunft, e con ciò ogni possibile riforma del principio di non contraddizione, consenta di pervenire a una distinzione senza angoscia tra intrinseco ed estrinseco, ponendo mano alla costruzione di un oltrepassamento del pensiero attraverso lo strumento del pensiero stesso.

Il relazionismo non è posto dal pensiero come qualcosa di congenito. Il pensiero è attività che, se seriamente radicata, si avvia verso trasformazioni della realtà, verso una positiva consistenza razionale, non è condannato per sempre alle dimensioni ridotte dell’interpretazione. Nella purulenza del dogmatismo ha il suo avversario più temibile, capace di caratterizzare il filosofare di ogni tempo, proprio perché quest’ultimo non parte dall’esperienza per arrivare alla riflessione, ma colloca il pensiero nella pura essenza della parola, che non è il concreto essere della realtà, ma solo la parvenza tremebonda di qualcosa che si sottrae sempre alla nostra volontà di capire.

Il relazionismo è fra gli indirizzi più seri della filosofia contemporanea proprio perché ha irrigidito in una indefinibile serie di sospetti il potere accademico. Non ha ancora realizzato una efficacia costruttiva ma ha messo in luce almeno in parte la miopia fondamentale della speculazione filosofica. Di conseguenza presenta considerevoli possibilità di sviluppo potendo con esso ricorrere, per spezzare il circolo vizioso del filosofare, ad attività che non affoghino nelle marcite della pura teoria. La pura teoria mi appare infatti insufficiente a realizzare gli scopi dell’uomo.

La tesi kantiana della contestuale appartenenza dell’uomo a due mondi spezza in due ogni possibilità del relazionismo. Se l’uomo, a un tempo, è noumeno perché è razionale, e fenomeno perché vive nel tempo e nello spazio, l’unica apertura possibile è la dialettica delle opposizioni. Volendo fare pulizia Kant ha riportato in campo l’opposizione tra la realtà dell’essere e quella del non-essere cioè ha conferito a essa un ben altro valore. Kant non può più parlare di banale esigenza di conciliazione, ma di necessità di una decorosa sintesi. Così la strada verso Hegel si è aperta. Il principio di non-contraddizione non poteva più intendersi come prima di lui, in altri termini la spiegazione analitica di un essere statico, ma qualcosa viene a cambiare in quanto questo essere statico si scopre provvisto di uno strascico dinamico quando approfondisce sé in se stesso. Simile ingegnosa svolta nella interpretazione di questo principio, svolta che non significa riduzione di logicità, porta la contraddittorietà nello stesso meccanismo dell’essere e del non-essere, cioè conduce l’inquietudine del mondo sotterraneo nel mondo ufficiale in un gigantesco tentativo di recupero. Non si tratta di circolo vizioso, ma di un efficace stimolo al filosofare per costruire le frontiere del nuovo dominio. Le posizioni apparentemente conquistate ieri, adesso sono rimesse in discussione da Hegel e in questa impaccevole discussione è attirato dentro tutto quel mondo che la storia aveva tenuto lontano da sé facendolo baluginare sullo sfondo. La distinzione kantiana fra Verstand e Vernunft è stata ridotta a una tollerabilità inadeguata ma accettabile per il potere. Il pensiero è diventato la preghiera del mattino e ha smesso di essere la preghiera della domenica. Esso appare come la sola attività decisamente umana e perciò all’uomo connaturata, una condizione immanente. Attenzione al trabocchetto umanistico. Il recupero è sempre possibile dovendosi usare la parola. Mille accorgimenti “interni” alla stessa logica lo rendono possibile. Lasciarsi andare verso un altrove assolutamente diverso, nella desolazione del territorio della qualità, ecco la suggestione della danza.

Un concetto è quindi persistentemente impreciso. Esso

non esprime fatalmente che il reale, ma come ogni cosa, insieme è esatto e impreciso, vero e non vero, universale e particolare. Pretendere la scelta di un punto di vista significa fissare un paletto limitativo, dignitoso ma castrante. Non si tratta di una banale concessione all’argomentazione problematicistica e nemmeno di una ripresa della dialettica degli opposti. Lo stesso Platone potrebbe venire in aiuto.

Purtroppo anche l’antimetafisica passa facilmente da un piano formale a uno contenutistico e non distingue sufficientemente le critiche che muove ora all’aspetto formale ora a quello contenutistico. Gli antimetafisici cadono nell’illusione di concatenare uno scopo con l’altro. Ottenuto uno scopo formale, per esempio, si illudono di raggiungere con lo stesso mezzo un risultato contenutistico. In genere l’antimetafisico lotta: a) contro una concezione religiosa del mondo, b) contro qualsiasi presunta conoscenza che non si adegua alle condizioni intrinseche che regolano criticamente il funzionamento della conoscenza, c) contro una sintesi della conoscenza stessa. È naturale che cerchi di elevare il secondo punto a soluzione degli altri due, ma cade in un irrecuperabile difetto di circolarità.

Il positivismo ha combattuto la metafisica (per esempio: faccenda degli spilli – Hippolyte Taine). Il problema del linguaggio. Pseudoconcetti e pseudoproblemi. La causa di questi pazienti pseudo è stata individuata in un erroneo impiego del linguaggio, una mentalità proclive alla tendenza metafisica. Il Circolo di Vienna e l’analisi del linguaggio. Patogenesi del linguaggio metafisico. Le proposizioni metafisiche, secondo il neopositivismo, sono balbettamenti privi di senso e si riducono a una inadeguata e illusoria espressione del sentimento della vita.

Ma una simile posizione non è sostenibile. Si ha uno spostamento del problema. Il problema interno della eliminazione della metafisica dalla scienza (problema della costruzione di un linguaggio scientifico) viene spostato al problema della eliminazione della metafisica in generale. Ma il linguaggio ideale che permette a un tempo la costruzione di un linguaggio scientifico corretto e la definitiva liquidazione del linguaggio metafisico dovrebbe, per essere ideale, ricevere un’investitura metafisica. Per cui il criterio (per esempio, quello di Rudolf Carnap basato sulla costruzione delle proposizioni sensate sulle proposizioni atomiche), elaborato in vista del linguaggio scientifico e poi estrapolato all’analisi del linguaggio in generale, rivela l’angustia della sua concezione e il violento conflitto tra la pura analisi logica e l’analisi filosofica di ciò che possiamo concepire e sperimentare.

In pratica poi l’opera di Carnap si riduce a un’azione decisa contro quelli che si dicono pseudoproblemi, cioè privi appunto di contenuto problematico e che quindi determinano polemiche del tutto sterili. Ma allora in questo caso si sarebbe dovuto parlare di problemi mal posti. Che nel discorso filosofico si debba fare una maggiore attenzione al linguaggio è sicuro, ma perché irrigidire tutto in separazioni e poi aggiungervi per di più una svalutazione?

In effetti il neopositivismo – almeno nella prima fase – rifiuta di vedere nella esperienza un problema e per questo diventa dogmatico e naturalistico. La definizione in senso svalutativo che Carnap dà di metafisica è appunto estremamente dogmatica. Resta comunque una definizione molto rassicurante anche se non rende possibile “parlare” fuori del linguaggio rigidamente assertorio che conosciamo.

Oltre alla rigidità, altro difetto del discorso antimetafisico è l’incompletezza. Infatti esso o è completo (grazie ad assiomi che però possiamo mettere in discussione) e allora assume la chiusura dei sistemi metafisici, o è incompleto (come riconoscono i metodologi moderni) e allora non può escludersi a priori l’integrazione e conseguentemente il rischio della metafisica.

L’arresto avviene nella separazione (che è poi il terzo difetto) tra soggettivo e oggettivo. Il linguaggio scientifico è intersoggettivo, quello metafisico oltre a essere intersoggettivo ha risonanze emotive che si intrecciano alle conoscenze positive, facendo scaturire polemiche inesauribili. Il linguaggio invece deve eliminare tutti gli elementi soggettivi affinché la conoscenza possa avere solo il carattere obiettivo. Ma, evidentemente, anche questo è un assunto plausibile solo in via di ipotesi. Come eliminare tutti i frammenti di discorsi “altri” che sussistono anche nella più rigida costituzione interna di un metalinguaggio?

Edmund Husserl ha dimostrato chiaramente l’origine di questo ideale scientifico. In pratica l’antimetafisica arresta il discorso quando s’incomincia a parlare di soggettività, ma la soggettività non arriva mai a costituirsi come problema e i giudizi che si fanno su di essa sono unicamente ricalcati dalla conoscenza dell’oggettività. Si riduce la metafisica a poesia, ma anche l’estetica è metafisica: non resta pertanto che la scienza a determinare la nostra immagine del mondo e a costituire implicitamente tutta la metafisica, metafisica anch’essa. Se il luogo da cui scrivo fornisce la dimensione trasmittente e ricevente non posso andarmene altrove pena il silenzio. Se lo faccio, sempre ricorrendo al linguaggio, devo continuamente denunciare i limiti della mia contraddizione, per trovarmi alla fine con un traliccio di connessioni senza contenuto.

In definitiva, l’antimetafisica neopositivista ha avuto il torto di piegare lo strumento (cioè l’analisi del linguaggio), frutto di un’esigenza analitica e chiarificatrice perfettamente legittima, a uno scopo eterogeneo e contenutistico.

La lotta contro Hegel è stata quasi sempre estremamente superficiale. La soggettività considerata in maniera diversa non si può limitare alla confutazione della concezione hegeliana dell’interiorità perché in questo modo cade in un paralogismo, cioè nella confusione tra interiorità “in sé” e interiorità “in alio”. Si può negare la teoria hegeliana per cui la soggettività è uno dei momenti della dialetticità del tutto, senza con ciò stabilire un rapporto fisso con l’oggettività, perché in caso contrario l’oggettività resterebbe alle dipendenze della prima. Senza dubbio si può far rientrare anche la differenza specifica di cui sopra in quella generica, per la quale il movimento dell’essere si pensa come dialetticità di opposizioni oppure come sviluppo che non deve necessariamente passare attraverso opposizioni. In questo caso si ripristina l’ipoteca metafisica imbastendo un finto tradimento.

I metafisici ritengono che le forme logiche siano secondarie e che soltanto le questioni di contenuto sono essenziali. Riguardo a questa alternativa non c’è altro da fare, come ha fatto Kant, che prendere scandalo o non prenderlo. Ma in effetti è difficile distinguere la forma dal contenuto. Kant forgia lo strumento della logica trascendentale ma non per questo perde di vista la formulazione rigorosamente logica del problema (quale tipo di giudizio interviene nei discorsi metafisici). Quindi, la critica kantiana presuppone un aspetto logico-formale dell’uso della ragione, la qual cosa oggi si dimensiona come critica del linguaggio. Ma questa critica è avvitata su se stessa, rischia di non uscire dalla metafora che le fornisce il contenuto. La rigidità della copula azzera qualsiasi discorso diverso che pretende partire dal piano produttivo coatto.

I giudizi problematici esprimono una relazione incerta. Vi sono giudizi categorici e giudizi ipotetici. Ma l’ipotetico non è sempre problematico, anzi spesso non lo è, e quindi va ben distinto, poiché il giudizio ipotetico può, al pari del categorico, essere assertorio o apodittico. Le relazioni affermate dal giudizio apodittico sono tali, che non potrebbero essere altrimenti da quel che sono. Ora una cosa non può non essere, quando è posta un’altra che la determina. Perciò sono necessarie tutte le relazioni, espresse in giudizi categorici o ipotetici, che siano considerate in modo esplicito o sottinteso come determinate da qualche altra cosa. Se l’uomo conoscesse appieno tutto il reale, i giudizi sulle cose del mondo, eccettuati per certi aspetti quelli concernenti i fatti liberi dell’uomo, sarebbero apodittici o potrebbero prendere la forma apodittica. Noi pensiamo tutte le cose come connesse fra loro. Non possono invece essere apodittici per l’uomo i giudizi che esprimono le loro proprietà, i fatti e le leggi che li governano. Ciò perché non possiamo derivare la natura da altri princìpi, e dobbiamo semplicemente accettarla come data dall’esperienza.

Il giudizio consta necessariamente di tre idee: l’idea di un oggetto, di cui direttamente si afferma una relazione con un altro oggetto, l’idea di questo, l’idea della loro relazione. Nella prima di queste idee sta il soggetto del giudizio, nella seconda il predicato del soggetto, nella terza la loro relazione. Il soggetto e il predicato costituiscono la materia del giudizio, la relazione la forma. Questa determina il modo con cui quelli sono congiunti. I giudizi, al pari delle idee, benché più chiaramente ed esplicitamente, applicano i princìpi della ragione kantiana. Hegel ha cercato di farne a meno in tutti i modi. Ecco cosa dice: «Nel pensiero, ch’essa ha attinto, che la coscienza singola è, in sé, essenza assoluta, la coscienza ritorna in se medesima. Per la coscienza infelice l’esser-in-sé è l’al di là di se stessa. Ma il movimento di tale coscienza ha compiuto in lei questo: di aver posto la singolarità nel suo completo sviluppo, o la singolarità che è coscienza effettuale, come il negativo di lei stessa, vale a dire come l’estremo oggettivo; di aver svincolato da se stesso il suo esser-per-sé, e di averne fatto un essere; in tale passaggio si è sviluppata per la coscienza anche l’unità sua con questo universale; unità che – il Singolo tolto essendo l’universale, – per noi non cade più fuori della coscienza; e che – mantenendosi la coscienza in questa sua negatività, – costituisce nella coscienza come tale la sua essenza. La sua verità è quella che nel sillogismo, dove gli estremi vengon tenuti assolutamente l’uno fuori dell’altro, appare come il medio, il quale annuncia alla coscienza intrasmutabile che il singolo ha fatto rinuncia di sé, e al singolo che l’intrasmutabile, lungi dal costituire per esso singolo un estremo, è con esso riconciliato. Questo medio è l’unità che sa immediatamente e mette in rapporto quei due estremi; ed è la coscienza della loro unità, unità che, enunciandoli alla coscienza, enuncia, quindi, se stessa: è la certezza di essere ogni verità». (Fenomenologia dello spirito [1807], tr. it., vol. I, Firenze 1963, p. 193). Il pensiero nella rappresentazione delle varie cose concepisce le une come esistenti da sé (soggetti), e le altre (predicati) come a quelle aderenti in un dato modo (relazione), per cui afferma di ogni soggetto i suoi predicati. Hegel cerca di porvi rimedio. Il dire – metafisicamente parlando – che ogni giudizio si forma secondo la regola del principio di sostanza, non significa che ogni giudizio affermi sempre e unicamente relazioni di sostanzialità, ma bensì che, siccome noi pensiamo sempre i modi quali esistenti nelle sostanze, così pensiamo sempre il predicato come fondato sul soggetto, mentre questo al pari della sostanza viene pensato da sé. L’altro aspetto di Hegel qui prende una consistenza intollerabile. Anche quando l’idea del soggetto è un genere del predicato, come avviene nei giudizi particolari, il soggetto è sempre preso come ciò che sta da sé, mentre il predicato è considerato come una sua dipendenza. Il ritmo dialettico non ammette questa dipendenza, ma la strada da seguire potrebbe essere un’altra.

Nel permanere di questa antinomia si sono progressivamente affermate – fino alla piena e quasi incontrastata egemonia – strutture di pensiero e aperture filosofiche destinate ad apparire prive di consistenza nel momento del loro radicamento in quanto afflitte da sistematica dogmaticità. Resta da vedere come una analisi logica del linguaggio possa concretamente organizzarsi per soddisfare l’esigenza logico-formale che è implicita nella Critica della Ragion pura [1781].

Accettare di partire da queste poderose strutture, che affermano paradigmi quasi sempre teologizzanti per dare vita a tutte le potenzialità di modificazione che possono venire fuori dal terreno epistemologico, significa implicitamente affibbiarsi un handicap basato sulla obbligatoria finalizzazione del proprio pensiero. Tutte le eventuali schematizzazioni unilaterali e autosufficienti dell’assolutismo hegeliano, venate in modo anti-illuministico, non sfuggono così allo svuotamento dei propri contenuti, anche se appaiono alla fine come imponenti costruzioni architettonico-monumentali. La categoria fondamentale della mediazione, che potrebbe condurre a un produttivo rovesciamento, non ha la forma per sovvertire la condanna iniziale di tutti questi modelli filosofico-teologici.

Innanzi tutto bisogna parlare di analisi del linguaggio e non di critica del linguaggio, perché questo secondo concetto è quanto meno ambiguo, allargandosi a troppe esigenze diverse. Ciò significa evitare di rielaborare in blocco tutta la critica kantiana della ragione, come ha fatto il movimento analitico inglese e il neopositivismo del Circolo di Vienna. Questo è possibile perché abbiamo enucleato una scienza già determinata: la logica simbolica alla quale si aggiunge la sintattica e la semantica, come naturali sviluppi e applicazioni. Queste scienze si basano sulla nuova matematica (George Boole) e la nuova logica (Giuseppe Peano), oltre che sulla assiomatizzazione della geometria (cioè la compiuta dissociazione del suo aspetto razionale-deduttivo da quello intuitivo). Alla logica simbolica viene affidato lo stesso compito che la matematica ha svolto nel corso dello sviluppo della fisica moderna.

Il principio di tolleranza di Rudolf Carnap costituisce un superamento della prima fase di chiusura assai semplicistica, diretta a costituire un linguaggio base capace di determinare il senso, una specie di linguaggio ideale.

In pratica, un linguaggio non formalizzato presenta una struttura troppo complessa essendo costituito da molti linguaggi, donde un grave pericolo di verbalismi e paralogismi. Questo linguaggio viene usato nel discorso metafisico, ora alcuni termini del metalinguaggio hanno una certa corrispondenza con i termini del linguaggio metafisico, ma quest’ultimo resta sempre un linguaggio oggettivo ordinario e quindi il primo non potrà mai arrivare a trarre delle conseguenze metafisiche.

I neopositivisti affermano che esistono due modi di pronunciare una proposizione: un modo materiale con cui si asserisce un fatto osservabile in merito al quale possediamo un metodo di verificazione, e un modo formale che non esprime alcuna asserzione intorno a fatti, ma rappresenta un’affermazione intorno alla sintassi in un qualche linguaggio. Ora le proposizioni metafisiche sono significative in quanto proposizioni formali, ma prive di significato se considerate come proposizioni materiali.

Ma in che modo si può stabilire un limite alla possibilità di concepire sempre nuovi metodi di verificazione? Affermare ciò come possibile significa dire una proposizione metafisica, cioè fare metafisica, quindi anche il neopositivismo diventa metafisico. Ma Carnap ha detto che il neopositivismo non è altro che un criterio per eliminare le questioni metafisiche, quindi solo un criterio di analisi che da solo non basta a fondare un’antimetafisica, esso serve solo ai metafisici per spingerli a formulare meglio i loro problemi.

Al momento dell’allontanamento di Fichte da Jena, dopo l’accusa di ateismo, Kant scrive la sua dichiarazione di estraneità mentre Fichte riceve una lettera di Schelling in cui quest’ultimo si dimostra lealmente vicino al pensatore allontanato dall’insegnamento. Questa lettera, datata 12 settembre 1799, contiene fra l’altro il seguente passo: “... il dichiarare da parte di Kant di non aver niente in comune con la Sua filosofia è la prova più evidente che per lui è già venuta la posterità, la quale (come egli stesso disse una volta di Platone) lo capisce meglio di quanto egli stesso non si sia capito; e poiché ognuno può dire la sua soltanto nella propria epoca, egli, che non sa andare al di là dei limiti di essa, ha perduto ogni diritto di continuare a parlare, ed è filosoficamente morto. Ha tutte le ragioni di non voler ammettere altro che la Critica; dato però che l’andare oltre la critica non solo è possibile, ma si è già verificato, per cui non può sussistere alcun dubbio sulla sua possibilità, ecco che esiste qualcosa che è posto del tutto al di fuori del suo orizzonte, che per lui appartiene già alla posterità, e dove egli non ha assolutamente alcun diritto di parlare”.

Nella “dichiarazione” di Kant era scritto: “... dichiaro con la presente di considerare la dottrina della scienza di Fichte un sistema del tutto insostenibile. Pura dottrina della scienza è infatti né più né meno che mera logica la quale, con i suoi princìpi, non può presumere di arrivare fino all’elemento materiale della conoscenza; essendo pura logica, astrae dal contenuto di questa, e volerne tirar fuori un oggetto reale è fatica sprecata, ed è un’impresa alla quale non s’era ancora messo nessuno; e se poi la si tenta si è costretti, ammesso che sia valida la filosofia trascendentale, a passar subito oltre di essa, e a finire nella metafisica. E per ciò che riguarda la metafisica secondo i princìpi fichtiani, sono tanto poco disposto ad accettarla che, rispondendo a una sua lettera, gli consigliai di coltivare, in luogo di infruttuose sottigliezze, le sue buone qualità di espositore, le quali si potevano applicare con utili risultati alla Critica della ragion pura; ma egli rifiutò cortesemente, dichiarandomi che non avrebbe cessato di interessarsi all’elemento scolastico”. E ciò corrisponde a quello che si può leggere in un appunto di Kant riguardo il “pacco delle opere di Fichte, che giace sul pavimento dell’anticamera”.

L’affermazione kantiana riguardante l’incapacità delle idee di conoscere gli oggetti dipende dal fatto che secondo lui ogni idea è caratterizzata da uno specifico errore logico che costituisce ostacolo al suo tentativo di conoscere la cosa in sé. Nella intenzione di conoscere il mondo come totalità incondizionata la ragione trova l’ostacolo delle antinomie dell’idea cosmologica. È secondo Kant inevitabile che nel tentativo di conoscere il mondo come totalità incondizionata, cioè il mondo come esso è, in sé e non in quanto è dato alla nostra esperienza, la ragione si trovi bloccata in interminabili obiezioni, che non possono mai arrivare a una conclusione positiva. Se il mondo è finito, quindi composto di parti semplici, esso è in balia di cause libere, non c’è spazio per un essere assolutamente necessario. Le antitesi che ammettono l’infinità del mondo, quindi l’esistenza di un mondo infinitamente divisibile, sono foriere di irrisolvibili antinomie. Le due posizioni sono, secondo Kant, in misura eguale necessarie ed errate. Esse non possono mostrare in una intuizione la fondatezza delle proprie affermazioni, per cui, applicando il principio del terzo escluso, cercano di dimostrare la loro validità dimostrando l’erroneità delle affermazioni opposte, da qui l’antiteticità della ragione. Kant afferma che queste due antinomie, sia quella legata alla tesi sia quella legata all’antitesi, sono false. Il mondo, come cosa in sé, non è dotato di una struttura spazio-temporale, in quanto lo spazio e il tempo sono forme pure dell’intuizione umana. Esso pertanto non è né finito né infinito, né infinitamente divisibile, né composto di elementi semplici. Concludendo, secondo Kant la ragione, nell’andare verso l’incondizionato, arriva inevitabilmente all’antinomia. In altre parole conclude con proposizioni antitetiche, proposizioni fornite del medesimo grado di necessità.

Benedetto Croce ricorderà come avesse tratto da Hegel soprattutto “l’odio contro l’astratto e immobile”, o meglio, “contro il dover essere che non è, contro l’ideale che non è reale”. Il filosofo delle distinzioni indica proprio nel distinguere come punto di partenza il pericolo di ogni filosofia. Almeno di tutte quelle filosofie che dividono la realtà “in soprastoria e storia”, che spezzano il reale “in un mondo di idee e di valori e in un basso mondo che li riflette o li ha riflessi finora in modo fuggevole e imperfetto”. È l’immanentismo il messaggio di Hegel che continua a circolare e con ciò la negazione di ogni metafisica trascendentalista.

Dopo la lezione antikantiana di Hegel un filosofo idealista (e questa definizione emerge spesso anche contro le tante dichiarazioni di principio in circolazione) – senza scomodare i concetti herbartiani di “anima” e di “reali” – non può fare altro che uscire dalle indicazioni della metafisica e della logica considerata in modo strettamente tecnico. Saranno altri i terreni dello scontro.

Per tornare a Carnap, la matematica ha potuto svolgere uno straordinario ruolo nell’àmbito della filosofia idealistica. Qualche volta è stata utilizzata in contrasto con la metafisica, oppure per fornire alla metafisica una base supposta concreta. Mentre le cosiddette filosofie anti-idealistiche non l’hanno mai considerata strumento significativamente interessante. Può anche darsi che il valore assegnato alla matematica sia connesso con l’indirizzarsi dell’idealismo verso il soggettivismo. L’idealista cerca nella matematica l’oggettività che non riesce a trovare nelle esperienze della vita concreta di tutti i giorni.

La concretezza hegeliana ha suggerito tanti spunti alla filosofia del concreto, ma anche elementi di rifiuto e di negazione di ogni possibile concretezza. Molti aspetti della vita hanno una sorta di “limitatezza metafisica”, e ci sono aspetti irrecusabili che testimoniano di questa limitatezza. Dove trovare la fiducia che nella realtà di tutti sia fondata anche la piccola, trascurabile parzialità? Come fare in modo che sia recuperata, che abbia una destinazione, la piccola realtà, spesso insignificante e trascurabile, nell’apertura concreta della vita di tutti i giorni?

Descartes riteneva di aver sistemato una volta per sempre il problema dell’essere chiudendo ogni problema riguardo la realtà dell’esistenza. Ma si trattava di una sconsideratezza. Kierkegaard poteva così obiettare a suo modo: “L’esistenza è come il movimento: è molto difficile avere da fare con essa”. Questa affermazione segna la caduta del cartesianismo. Il pericolo indicato da Kierkegaard è ben reale per qualsiasi tesi fondata sull’idealismo trascendentale. In fondo si tratta di una vibrata protesta fatta in nome dell’esistenza contro ogni pretesa di sistema. I filosofi che si interessano al problema dell’essere (e che non per questo si devono chiamare “esistenzialisti”) hanno in questo modo aperta la propria strada.

Non c’è niente di essenziale a prescindere dell’esistenza, e sarebbe meglio qui parlare di vita. Lo stesso conoscere che minaccia di non avere un rapporto con la vita è conoscere inessenziale, qualcosa di cui sarebbe meglio fare a meno. Dobbiamo andare alla ricerca di un rapporto originario e quindi “necessario” tra pensiero e vita. La metafisica ha sovente manifestato una tendenza esistenziale, affermando che in questa condizione oggettività e soggettività potevano trovare il loro raccordo o, direi meglio, il loro punto di unione.

Siamo davanti a una delle indicazioni più alte della filosofia. Da Parmenide in poi il problema resta aperto. Affermando, come fa qualcuno, il primato del pensiero puro nel rapporto tra pensiero ed essere, si afferma possibile il cominciamento dal pensiero stesso, il quale, isolandosi, cerca di ricavare la vita dal proprio movimento. Prescindendo dalla vita il pensiero pretende di fissare il suo dominio sulla realtà attraverso la logica, ma la cosa non è possibile. La vita punisce sempre qualsiasi tentativo del genere dimostrandolo astratto e atemporale. Questo il lavoro compiuto da Hegel. Partire dall’essere puro, vuoto e indeterminato della scienza della logica. Poiché il crollo del processo era di già evidente fin dalle prime righe, egli introdusse il movimento dialettico nella logica. Recuperando così tutti gli sforzi sotterranei che il pensiero clandestino aveva condotto in tremila anni. Hegel in questo modo cercava qualcosa di geniale, cioè cercava di fare convivere la logica del quantitativo con quella del qualitativo.

Al di sotto di questa grandiosa architettura hegeliana, del tutto impraticabile, c’è il grande senso del sacro, l’afflato del gotico, il portentoso movimento dell’architettura cistercense. La vita di uomini che hanno avvertito quei sentimenti è ancora viva nella pietra, nello spazio definito da certe forme. Ma quella vita ha un senso in sé, quindi nella pietra, perché è vita per noi. Non si tratta di un aggiustamento, né di un apprendimento, ma della vita del sentimento umano, per come essa si è espressa in un periodo sotto l’aspetto religioso. Hegel riesce a impadronirsi di tutto questo e di ben altro ancora.

Affrontare criticamente il problema della dialettica non significa fare i conti fino in fondo col metodo hegeliano. Per realizzare questo ambizioso progetto occorrerebbe avere un’idea chiara in merito a una logica alternativa a quel progressivismo che in fondo costituisce il messaggio segreto più noto del pensiero hegeliano. Fuggire da Hegel significa considerare l’attività del pensiero come prodotto sociale e non come un in sé che solo a se stesso deve dare giustificazioni. La filosofia è di certo in grado di leggere i prodotti della vita umana, i sentimenti in primo luogo, come qualcosa di collegato con le forze sociali oggettive. La filosofia non può accettare il compito di ricostruire il mondo a sua immagine e somiglianza, essa deve affrontare una critica sociale negativa, quindi deve costruire un processo indiretto dove il pensiero possa riflettere su se stesso. Nulla di tutto questo è rinvenibile nella filosofia che intende solo produrre un sistema compiuto in tutti i suoi dettagli, hegelismo compreso.

Bisogna dire che tale programma non implica necessariamente una urgenza di chiarezza e di rigore metodologico, né intende indicare una collocazione del pensiero a un livello superiore. L’eventualità pratica di una vera e propria indicibilità originaria della realtà è sempre possibile. Lo stesso rifiuto di chiudersi in una qualsiasi definizione può essere esso stesso un accettare la definizione “particolarmente sublime”, secondo l’ipotesi hegeliana. Non è possibile fornire una definizione di critica alla dialettica, allo stesso modo in cui è pensabile rintracciare confini e limiti per risolvere la legittimità di un contenuto a cui il pensiero è condotto dalla propria logica immanente. La dialettica riguarda il rapporto tra soggetto e oggetto, quindi anche il confronto tra cosa e concetto, per questo motivo essa entra in qualsiasi procedimento definitorio arrivando fino alla sua origine e svelandone i limiti. La dialettica non è nemmeno un metodo.

Scrive Hegel: «Il movimento dialettico che la coscienza esercita in lei stessa – e nel suo sapere e nel suo oggetto, – in quanto gliene sorge il nuovo vero oggetto, è propriamente ciò che dicesi esperienza. Per questo riguardo nel processo è da mettersi in rilievo un momento onde si spargerà una nuova luce sul lato scientifico della trattazione. La coscienza sa qualcosa; questo oggetto è l’essenza o lo in-; ma esso è lo in- anche per la coscienza; e con ciò entra in gioco l’ambiguità di quel vero. Noi vediamo che la coscienza ha ora due oggetti; l’uno è il primo in-, l’altro è l’esser-per-lei di questo in sé. Quest’ultimo oggetto sembra essere da prima soltanto la riflessione della coscienza entro se stessa: rappresentazione non già di un oggetto, ma soltanto del sapere che essa coscienza ha di quel primo oggetto. Se non che ora le si muta il primo oggetto; esso cessa di essere lo in-, e le diviene un oggetto siffatto che è lo in-sé solo per lei; ma così ciò, l’esser-per-lei di questo in-sé, è poi il vero; il che significa peraltro che questa è l’essenza, o il suo oggetto. Questo nuovo oggetto contiene la nullità del primo ed è l’esperienza fatta su di esso». (Fenomenologia dello spirito, vol. I, op. cit., p. 76). In questo passo è proprio la dialettica in movimento che viene osservata, mentre passa in secondo piano l’esame del meccanismo stesso. Qui si vede benissimo il limite che la dialettica ha in quanto “metodo”. Essa non soltanto non è un metodo ma nemmeno è qualcosa di reale nel senso comune del termine. Il termine che rimane non conciliato, a cui viene a mancare proprio l’identità, termine che il pensiero cerca di surrogare, è contraddittorio e si ripropone aperto a ogni tentativo di interpretazione. La dialettica non costituisce nessun impulso organizzativo per il pensiero. Inoltre essa non è reale in quanto la contraddizione è soltanto una categoria della riflessione. La dialettica come procedimento si riassume nel pensare in modo contraddittorio, nello sviluppare i passaggi del pensiero proprio in forza della contraddizione esperita nella realtà e nel concludere in modo contrario. Ma tale dialettica – lasciata a se stessa, cioè spinta fino alle sue conseguenze, appunto, logiche – non si può conciliare con tutto il pensiero di Hegel. La sua logica è logica della disgregazione, mentre la logica di Hegel tende a costruire e a oggettivizzare concetti che il soggetto conoscente ha immediatamente di fronte a sé. La loro identità con il soggetto è la non verità.

Nella dialettica c’è qualcosa di imprendibile. Ricordarsi che siamo davanti a un meccanismo che non è né metodo né qualcosa di semplicemente reale. Significativo il fatto che quasi tutti i pensatori hanno dato una versione diversa della dialettica, come dire che ognuno ha la propria dialettica, o se si preferisce ognuno cerca di fissare la differenza tra la propria concezione della dialettica e quella hegeliana. Con quale mezzo si può dare spazio al non identico? Il problema, o la preoccupazione, di tutti i pensatori è che la propria visione della dialettica finisca per sembrare un apporto alla disgregazione, a differenza della logica dialettica la quale, rimuovendo costantemente la differenza nell’identificazione dell’altro, riesce a pensare contro se stessa senza rinunciare a sé e, in tal modo, riuscendo a preservare la non identità. Una logica in accordo con Hegel, tale da raccogliere tutti gli elementi della sua eredità, quindi una logica che sia dialettica in modo concreto, non può essere il fondamento di una critica negativa.

[1971]


Prima edizione: maggio 2003
Pensiero e azione n. 3