Alfredo M. Bonanno

Distruggiamo il lavoro

    Introduzione

    Distruggiamo il lavoro

Introduzione

Capire il fare significa capire la speranza. Fare è sperare il completamento. L’immagine emblematica è quella del collezionista. Atroce, ma veritiera. Nel mondo io sono il fare, mi progetto e mi ricordo come fare. Vivo la vita e non voglio che sia altro dal fare, in caso contrario avrei paura di non viverla, di lasciarmela sfuggire. Il volere, che mi domina, non è altro che fare, il volere fare è una forma riflessa di fare, fare anch’esso. Il lavoro è una forma particolarmente acuta del fare, la forma coatta per eccellenza. Non ho certezza del fare che intraprendo, ma è la completezza a cui miro. So bene che questa prospettiva tranquillizzante non è praticamente accessibile, ma la teng attina. Spero che non sia così, anche se so che è così, che la morte verrà e concluderà la partita per sé e non più per me. Inafferrabile e lontana è la completezza, essa risiede nella straordinaria rarefazione della qualità e mi affascina non con la sua pienezza, che posso attingere solo con intuizioni coinvolgenti e pericolose, comunque non durature, ma con l’inganno del desiderio, vuota immaginazione che la necessità riempie di contenuti presto assimilati nel processo produttivo. Distruggendo il lavoro che mi opprime, sabotando l’amministrazione del mondo, mi accingo a passare oltre, a guardare che c’è oltre la siepe che chiude la prospettiva dell’orizzonte.

Il progetto che si inoltra fuori dell’abitudine e del condizionamento può sembrare destinato a poco futuro, a volte perfino ridicolo, ma è progetto fiero nello stesso tempo. Ridicolo per la sua vacuità e inconsistenza, misurate sul mondo e le sue coordinazioni, fiero perché scala il cielo, lancia una sfida, arrischia e rinuncia a un piacere accomodante per uno slancio diverso, un appassionato gesto distruttivo. Lascio i patti e le regole e, improvvisamente, il rischio mi piomba addosso. Il mio corpo reagisce, si difende, poi attacca per meglio difendersi.

Occorre che tutto questo coraggio venga da me sottratto alla signoria della volontà, altrimenti è una banale dimostrazione muscolare. Attacco senza volere dimostrare a me stesso alcunché, voglio attaccare come respiro, rifiutare questo mondo e il fare coatto che lo regge, aspirare alla qualità senza volere volere fare tutto questo, senza traguardi da raggiungere o spiegazioni da fornire a qualcuno, sia pure un improbabile referente rivoluzionario privilegiato per le sue (supposte) capacità di capire. Non si tratta di azioni riflesse o involontarie, ma azioni con le quali non voglio dimostrare niente e che realizzo perché le sto mettendo in atto. Il fatto ineludibile che le voglio realizzare non è la mia volontà che mi controlla, questo accade solo quando io sovrappongono alla volontà il mio volere attraverso quello che sto realizzando, cioè: fare un progetto, dimostrare, indicare, rassicurare e rassicurarmi. Questa volontà va messa da parte, aggirata.

Non mi devo fare incantare dalle parole, non sono le uniche porte della conoscenza. Il dolore può essere raccontato, ma viverlo è altra faccenda. La ricerca costa fatica e sofferenza, non fornisce garanzie, non accetta soste e non consente di reclinare il capo. Lo faccio soltanto una volta e sono un ricercatore della domenica, poi ritorno ai giorni della settimana che mi portano l’acquietamento e l’accumulo. Il possesso viene a farmi visita e mi infligge le sue lezioni con cui la mia autonomia respira male. L’ingenuo ribellismo non fa altro che ridipingere le catene.

La teoria della distruzione del lavoro è fondata sulla perfetta intuizione della qualità ma appartiene, in ogni caso, alla coscienza immediata, al mondo del fare coatto. Essa è pertanto contraddittoria e faticosa, non può vantare privilegi o purezze, non può mettersi sotto la protezione dell’assolutamente altro. Esce subito da questa protezione dove è entrata astrattamente e rinnega l’abbandono per la certezza inquieta del fare e del calcolare. Uscendo non accetta il non fare che poi sarebbe una forma neanche tanto subdola del fare.

L’abbandono si deve conquistare, l’ozio come prospettiva non basta. L’amore per il sapere fa restare con i piedi per terra, occorre di più del sapere e del mio amore per la conoscenza. Chi ama la conoscenza può essere banalmente un collezionista. La distruzione è altro. Non taglia fuori ciò che resta, va dietro anche all’incredibile, a quello che mi strappa l’anima e mi porta altrove. La sabbia scorre lenta nella clessidra e il tempo diventa inesorabile, ma non mi impaurisce, sono qua ad attenderlo e guardo al modo in cui posso intuire la fine, figlia della necessità. L’azione non muore, non muore perché non ha vita nel mondo, lo oltrepassa.

L’azione non si trova nella totalità della vita come nella cassaforte di una banca. Essa è interna al fare e non può raggiungersi semplicemente superando le angustie modificative. La contentezza del fare, del fare che si circonda di giustificazioni e scopi, sta in questo contenuto interno non nella completezza inarrivabile. L’eccesso del fare è sempre l’azione, e questa non è un aumento quantitativo del semplice fare. Non è una ricerca dell’assolutezza del fare, ma è l’ammissibilità del sogno che lo vivifica e mi sconvolge. La purificazione non mi appartiene, non la caldeggio come una specie di fare migliore, dico che la qualità sta altrove, ma è anche qui, nel mondo dell’immediatezza. Non cerco condizioni di privilegio, non sono un artista ma un artefice, non creo opere d’arte ma il mondo nella sua semplice e banale condizione di essere là davanti a me, tutti i giorni, in attesa delle mie misurazioni e dei miei controlli.

Nel riflettere sui limiti del lavoro non esco dalla simmetria del dire, solo la passione mi fa accedere, mi purifica facendomi uscire dalla sede del mio produrre, riconoscendomi come colui che ha uno scopo altro. L’accesso a questo scopo è l’abbandono, il fondamento inesistente e privo di forza, non il limite che ritengo valido ma l’illimitato, che non ha interesse alcuno, il segreto sempre diverso della inutilità. Questa mancanza è una presenza diversa, allo stesso modo in cui l’inutilità è nell’utilità, tutto si concatena e si sostiene. Fare e agire non si contrappongono, sono il solito e il diverso, ma si tratta di interpretazioni che colgo mentre sto nella bambagia del mondo. Loro sono legati insieme, si traducono reciprocamente e si trasmettono il senso e la tensione senza mai riuscire a riunificarli. L’attenzione del fare e il disinteresse dell’agire si uniscono inestricabilmente. Eppure l’assolutamente altro è oltre la distruzione del lavoro, anche se questo oltrepassamento non può essere considerato il raggiungimento di uno scopo.

Pensando alla distruzione del lavoro penso a un’arcaicità che non ha logica corrente, quella del prima e del dopo le suona estranea. Tento di spiegare le condizioni del suo apparire come condizioni superiori al semplice fare coatto, ma non ci riesco, continuamente le parole racchiudono il concetto della distruzione nell’àmbito di un fine, quel fine che sperimento nel mondo attraverso la sofferenza e l’occlusione del mio destino di fronte al massiccio attacco del lavoro contro di me. Intraprendendo il passo distruttivo, propongo un ora e subito che azzera il mio essere nel tempo, rarefazione di cui non ho cognizione deduttiva, di cui non so descrivere per vie logiche il movimento realizzativo, anche se mi industrio di descriverlo, di localizzarlo per avere un punto di riferimento e farlo conoscere ai congiurati della parola che aspettano come tanti passerotti il verbo comprensibile, conciso e chiaro. So che la qualità a cui posso accedere con la distruzione, del lavoro in primo luogo, partecipa anche alla conoscenza dei dettagli, ma non posso aggredirlo allargando la spiegazione e l’interpretazione di questi ultimi. Nell’avventura distruttiva non c’è un cominciamento su cui poggiare i piedi, sono sempre con in mano gli stessi strumenti che avevo nel fare lavorativo. L’azione nasce dal fare, è decisa nel fare, e qui sposa la quantità che opprime e che rende possibile la distruzione grazie all’abbandono dei frutti accumulati che lascia morire in mezzo alle regole dell’utilità coatta. La decisione di distruggere, se rimane solo un conato della volontà, anche della migliore coscienza rivoluzionaria, resta inascoltata a bamboleggiare nella quotidiana timbratura del cartellino, mentre tutto intorno crescono le occasioni della tristezza. Poi smetto di decidere per darmi forza, la negazione e l’abbandono mi consigliano di alzare il bavero e di affrontare il vento. Non smetto di colpo di servire il mondo e di servirmi delle sue regole, non sono un angelo, so soltanto che qualcosa si muove diversamente, un alito di vento smuove l’atmosfera, è un uragano e non so perché. In un attimo intuisco dove andare, che desiderare, che distruggere dell’immane fantasma del lavoro che mi opprime, mi esalto come di una grande conquista ma non ho niente fra le mani, vuoto e niente, non riconosco i soliti connotati coatti in quello che sento, nel cuore che mi balza in petto. Il mondo mi guarda con occhi diversi. È il momento della distruzione.


Trieste, 6 marzo 2007

Alfredo M. Bonanno

Distruggiamo il lavoro

Il lavoro è argomento che torna in modo sempre più pressante sulle pagine di tutti i giornali, in lezioni e conferenze accademiche, in omelie papali, in dibattiti politici elettorali e perfino in articoli e pamphlet scritti da compagni.

Le grandi domande che si pongono sono: come fronteggiare la disoccupazione crescente? Come ridare un senso alla professionalità lavorativa penalizzata dal neo-sviluppo industriale? Come trovare strade alternative al lavoro tradizionale? Come, infine, ed è questo il livello a cui ragionano molti compagni, abolire il lavoro o ridurlo al minimo indispensabile?

Diciamo subito che nessuna di queste domande ci appartiene. Non ci interessano le preoccupazioni politiche di chi vede nella disoccupazione un pericolo per l’ordine e la democrazia. Non ci riguardano le nostalgie della perduta professionalità. Meno ancora ci entusiasmano i tessitori di alternative liberatorie al lavoro massiccio di fabbrica o al lavoro intellettuale irreggimentato dal progetto industriale avanzato. E, alla stessa maniera, non ci concerne l’abolizione del lavoro o la sua riduzione al minimo tollerabile per una vita pensata in questo modo piena e felice. Dietro tutto ciò c’è sempre la mano più o meno adunca di chi vuole regolarci l’esistenza, pensando in vece nostra o suggerendoci, con maniere educate, di pensarla a modo suo.

Siamo per la distruzione del lavoro e, come cercheremo di spiegare, si tratta di faccenda del tutto diversa. Ma procediamo con ordine.

La società post-industriale, su cui torneremo subito dopo, ha risolto il problema della disoccupazione, almeno dentro certi limiti, dislocando la forza lavorativa verso settori flessibili, facilmente manovrabili e controllabili. Adesso, nella realtà dei fatti, la minaccia sociale della disoccupazione crescente è più teorica che pratica e viene utilizzata come deterrente politico, per dissuadere larghi ceti di opinione dal tentare indirizzi organizzativi che metterebbero in discussione, sia pure a livelli minimi, le scelte programmatiche del neo-liberismo, specialmente a livello internazionale.

Ora, essendo il lavoratore molto più controllabile nella sua veste appunto di lavoratore qualificato, attaccato al posto di lavoro e alla carriera nell’unità produttiva che lo ospita, dappertutto, ed anche da parte delle gerarchie ecclesiastiche, in nome per l’appunto di questo controllo, si insiste sulla necessità di dare lavoro alla gente, quindi di ridurre la disoccupazione. Non perché questa, di per sé, dal punto di vista della produzione, costituisca un pericolo, ma anzi al contrario, perché il pericolo potrebbe venire dalla stessa esperienza di flessibilità ormai diventata indispensabile nelle organizzazioni lavorative. L’avere sottratto una identità sociale precisa al lavoratore, porta possibili conseguenze disgregative che rendono, in tempi medi, più difficile il controllo. È questo che intendono dire le geremiadi istituzionali sulla disoccupazione.

Allo stesso modo, gli interessi della formazione produttiva nel suo insieme non consentono più una preparazione professionale ad alti livelli, almeno per la gran parte dei lavoratori. Si è quindi sostituita alla passata richiesta di professionalità una attuale richiesta di flessibilità, cioè di adattabilità a mansioni lavorative continuamente in modificazione, a passaggi da un’azienda all’altra, insomma ad una vita di cambiamenti in funzione delle necessità dei datori di lavoro.

Fin dalla scuola si programmano adesso queste adattabilità, evitando di fornire quegli elementi culturali di carattere istituzionale che una volta costituivano il bagaglio tecnico minimo su cui il mondo del lavoro costruiva la professionalità vera e propria. Non che non ci sia bisogno di alti livelli di professionalità, ma solo per poche migliaia di individui che vengono preparati nei master post-universitari, qualche volta a spese delle stesse grandi aziende che cercano così di accaparrarsi i soggetti più disponibili a subire un indottrinamento, e per naturale conseguenza delle cose un condizionamento.

In passato, anche recentemente, il mondo del lavoro possedeva una sua univocità caratterizzata dalla disciplina ferrea che lo permeava, dalla misurazione dei tempi per le catene di montaggio, ma anche dagli attenti controlli preventivi e susseguenti sugli stessi colletti bianchi, fino ad arrivare alle schedature e ai licenziamenti per banali comportamenti fuori della norma. Resistere in un posto di lavoro significava assoggettarsi, acquisire una mentalità di tipo militare, imparare procedure a volte complesse a volte semplici, applicare queste procedure, identificarsi con esse, pensare che la propria persona, il proprio modo di vita, insomma tutto quello che ci può essere di più importante al mondo, le stesse idee e la vita di relazione si riassumessero in esse. Il lavoratore viveva nell’azienda, aveva amicizie con compagni di lavoro, nel tempo libero parlava di problemi di lavoro, frequentava strutture dopolavoristiche e quando andava in ferie finiva per farlo insieme alle famiglie di altri compagni di lavoro. Per completare il quadro, specie nelle grandi aziende, iniziative sociali tenevano legate le diverse famiglie con passatempi e gite periodiche, i figli andavano in scuole a volte assistite finanziariamente dalla stessa azienda e quando si andava in pensione uno di loro prendeva il posto del genitore. Si chiudeva così, senza sbavature, il cerchio lavorativo che racchiudeva in sé tutta la personalità del lavoratore, ma anche quella della sua famiglia, suggerendogli in questo modo una identificazione totale con l’azienda. Pensate, tanto per fare un solo esempio, alle decine di migliaia di operai Fiat che tifavano a Torino per la Juventus, la squadra di Agnelli.

Tutto questo mondo è tramontato completamente. Anche se qualche residuo continua a funzionare, esso è scomparso nella sua omogeneità e nella sua uniformità progettuale. Al suo posto è subentrato un rapporto lavorativo provvisorio e incerto, all’interno del quale l’indeterminatezza del futuro diventa fondamentale, dove la mancanza di professionalità significa mancanza della base su cui progettare la propria stessa vita di lavoratore, e ciò in assenza di attuali progetti di crescita differenti, di attuali interessi tangibili che non siano quelli di guadagnare comunque quel tanto che basta a sbarcare il lunario o a completare il pagamento del mutuo sulla casa.

Ora, nella condizione precedente, la fuga dal lavoro si configurava come ricerca di un modo alternativo di lavorare, come re-impadronimento di quella creatività produttiva estorta dal meccanismo capitalista. Il modello era quello del rifiuto della disciplina, il sabotaggio sulla linea di produzione inteso come rallentamento di un’oppressiva cadenza, la ricerca di ritagli di tempo, somma di singoli minuti, da sottrarre all’estraniazione.

Così, il tempo libero non istituzionalizzato, ma rubato all’attento controllo aziendale, veniva caricato di un valore alternativo. Si respirava al di fuori dei ritmi carcerari della fabbrica o dell’ufficio. Come si vede un universo che non corrisponde con le condizioni presenti dell’organizzazione produttiva, e meno che mai con le sue linee tendenziali di sviluppo.

Di più. In quelle condizioni che, nelle loro linee essenziali non si distinguevano molto dalle primitive strutturazioni di fabbrica, quando la manodopera fuggita dalle campagne inglesi e scozzesi venne per la prima volta a livello massiccio chiusa letteralmente negli opifici tessili approntati dal grande capitale britannico accumulato in più di due secoli di piraterie, in quelle condizioni il gusto del tempo ritrovato veniva quasi subito avvelenato dall’impossibilità di fornirlo di senso che non fosse quello stesso dell’ambiente lavorativo. In altri termini, si recuperava il tempo solo in termini di risparmio della fatica fisica, non perché si sapesse e si volesse fare qualcosa d’altro, che non fosse il proprio lavoro. E ciò anche perché al proprio lavoro si era affezionati, lo si era infatti sposato per la vita e per la morte.

Anche le ipotesi rivoluzionarie dell’anarcosindacalismo non smentivano questa condizione di fondo, anzi la caricavano di significati liberatori, consegnando al sindacato il compito di costruire la società libera di domani a partire dalle stesse categorie lavorative di ieri.

Quindi, l’abolizione del lavoro significava, fino a qualche anno fa, eliminazione della fatica, creazione di un lavoro alternativo facile e gradevole, oppure, e questo nelle tesi più avanzate e sotto certi aspetti più utopistiche e peregrine, la sua sostituzione col gioco, ma un gioco impegnativo, munito di regole e capace di dare al singolo una identità come giocatore.

Mi si potrebbe obiettare che l’analisi della categoria filosofica del gioco è stata estesa ben al di là del gioco regolamentato, gli scacchi per fare un esempio, ed è stata portata fino all’ampiezza del concetto di gioco come comportamento ludico dell’individuo, gioco come espressione dei sensi, come erotismo o sessualità vera e propria, come libera espressione di se stesso nel campo della gestualità, della manualità, dell’arte, del pensiero e di tutte queste cose messe insieme. Questo certamente è stato ipotizzato, a partire dalle geniali intuizioni di Fourier, che si noti non si discostavano dall’ipotesi benthamiana di un interesse personale perseguendo il quale si ottiene indirettamente e senza volerlo una maggiore quantità di interesse collettivo. Che il buon viaggiatore di commercio Fourier abbia fatto tesoro delle sue esperienze individuali per costruirci sopra un incredibile tessuto di relazioni sociali fondato sulle affinità, è un fatto quanto si vuole interessante ma che non sfugge alle regole essenziali del lavoro inteso in termini di organizzazione globale di controllo, se non proprio di produzione in senso capitalista.

Da questo deriva che non è possibile nessuna abolizione del lavoro in termini di sottrazione progressiva di lavoro liberato, ma che occorre procedere in maniera distruttiva. Vediamo perché.

Prima di tutto è lo stesso capitale che ha smantellato per tempo la sua ormai inadatta formazione produttiva, sottraendo al singolo lavoratore la propria identità lavorativa. In questo modo lo ha reso “alternativo” senza che quest’ultimo se ne sia accorto. E adesso procura di inoculargli tutte le caratteristiche esteriori della libertà formale. La libertà di parola e di abbigliamento, la variabilità delle mansioni, il modesto impegno intellettuale richiesto, la sicurezza delle procedure e la loro standardizzazione assistita da una manualistica facile da seguire, il rallentamento dei tempi lavoratori, la sostituzione delle procedure d’obbligo con la robotica, la progressiva separazione tra unità lavorativa e produttore, tutto questo costruisce un modello diverso che non corrisponde a quello del lavoratore diffuso nelle generazioni passate.

Insistere nel recupero del tempo sottratto significherebbe entrare in possesso di unità temporali aggiuntive che si inserirebbero a pieno diritto nel sempre crescente numero di altre unità discrezionali di sospensione del lavoro, di cui il produttore stenta a capire il significato. Da ciò si avrebbe solo un aumento del senso di panico, più che la possibilità di provvedere ad un progetto qualsiasi di cose da fare in sostituzione del lavoro produttivo per conto terzi inteso in senso stretto.

Che ci sia bisogno di una quantità di lavoro di molto inferiore a quella oggi obbligatoria per percepire un salario è faccenda che ieri veniva illustrata dai teorici rivoluzionari, mentre oggi è patrimonio analitico del capitalismo post-industriale e viene discusso in convegni e riunioni destinati a ristrutturare la produzione.

Abolire il lavoro significa sostituirlo con quote di lavoro ridotte al minimo e destinate a produzioni utili. Questa ipotesi, oggi, non può essere accettata da noi, in quanto è la stessa del capitale, solo i suoi tempi di attuazione sono differenti, mentre non si discostano in nulla i metodi destinati a realizzarla.

Lottare per una riduzione, sia pure consistente, poniamo di venti ore settimanali, dell’orario di lavoro, non ha un senso rivoluzionario, in quanto apre la strada alla soluzione di alcuni problemi del capitale e non certo di possibile liberazione per tutti. La disoccupazione come elemento di pressione, per quanto minimo possa essere, trovando come abbiamo visto non poche valvole di sfogo nell’organizzazione differente di lavori marginali, per il momento appare come l’unica molla che spinge la formazione produttiva capitalista a trovare soluzioni riduttive dell’orario di lavoro, ma in un futuro non molto lontano altre molle potrebbero venire dalla necessità di ridurre i quantitativi prodotti, e questo specialmente in una situazione internazionale di equilibri militari che non si distribuisce più in due superpotenze contrapposte.

La valvola di sfogo del volontariato, su cui tanto poco si discute mentre invece si tratta di un argomento che meriterebbe tutta la nostra attenzione, potrebbe fra le altre fornire una delle soluzioni operative alla riduzione dell’orario di lavoro, senza fare sorgere la preoccupazione di come le grandi masse rese orfane del controllo di un terzo della loro giornata potrebbero impiegare il proprio tempo ritrovato.

Visto in questi termini, il problema della disoccupazione non è più quello della crisi più grave del sistema produttivo attuale, quanto invece un momento costituzionalmente pertinente alla sua struttura, momento che può essere istituzionalizzato a livello ufficiale e recuperato come impiego progettuale del tempo libero, sempre ad opera della stessa formazione produttiva e tramite strutture a questo scopo create.

Ragionando in questo modo, si capisce meglio l’analisi del capitalismo post-industriale come sistema omogeneo all’interno del quale il movimento della crisi non esiste essendo stato trasformato in uno dei momenti del processo produttivo stesso.

Tramontano quindi gli ideali “alternativi” di vita fondata sull’arte di arrangiarsi. I piccoli lavori artigianali, le piccole imprese fondate sull’autoproduzione, le vendite ambulanti di oggetti, le collanine.

Nel chiuso di negozietti senz’aria e luce si sono consumate tragedie umane infinite negli ultimi vent’anni. Tantissime forze realmente rivoluzionarie sono rimaste intrappolate in illusioni che richiedevano non un normale lavoro individuale ma uno sfruttamento super, tanto più pesante quanto più legato alla volontà del singolo di mandare avanti la baracca, di dimostrare che esistevano vie differenti al lavoro di fabbrica.

Ora, nelle condizioni ristrutturate dal capitale, si è visto come questo modello “alternativo” sia proprio quello che viene suggerito a livello istituzionale per uscire dalla crisi. E pronti come sempre a non capire da quale parte soffia il vento, altre forze potenzialmente rivoluzionarie si racchiudono in laboratori elettronici e in altri piccoli negozi senz’aria e senza luce per sovraccaricarsi di lavoro e dimostrare che il capitale ancora una volta ha avuto ragione di loro.

Se volessimo racchiudere in una formula semplice e breve il problema, potremmo dire che se una volta il lavoro conferiva una identità sociale, quella appunto di lavoratore, identità che integrandosi con quella di cittadino formava il suddito perfetto, per cui la fuga dal lavoro era un tentativo concretamente rivoluzionario diretto a spezzare il soffocamento, oggi, nel momento in cui il capitale non fornisce più una identità sociale al lavoratore, ma al contrario cerca di utilizzarlo in maniera generica e differenziata, senza prospettiva e senza futuro, la sola risposta contraria al lavoro diventa quella di distruggerlo procurandosi una propria progettualità, un proprio futuro, una propria identità sociale del tutto nuova e contrapposta ai tentativi di nientificazione posti in atto dal capitalismo post-industriale.

La maggior parte degli infingimenti con i quali nei decenni passati il lavoratore cosciente di sé cercava di fronteggiare lo sfruttamento brutale e immediato, riducendo la sofferenza lavorativa, metodi sui quali potrebbe essere scritto un libro di centinaia di pagine, sono diventati oggi pratica costante dello stesso capitale, che suggerisce, quando non impone, frammentazioni delle unità lavorative, tempi ridotti e flessibili, progettazioni autodefinite delle condizioni lavorative, partecipazione alle decisioni aziendali, assemblee decisionali su particolari aspetti della produzione, ideazione di isole autonome considerate reciprocamente clienti una dell’altra, competitività qualitativa, e tutto il resto.

L’armamentario sostitutivo della classica, e monolitica, uniformità dell’agire lavorativo, ha ormai raggiunto livelli non più controllabili dalla coscienza singola in senso stretto. Cioè, il singolo lavoratore è sempre di fronte all’eventualità di essere attirato in una trappola non facile a distinguersi, nella quale finisce per contrattare la propria combattività, ormai solo potenziale, con piccoli accomodamenti, i quali se una volta erano automodulati, quindi potevano considerarsi facenti parte del grande movimento di lotta contro il lavoro, oggi, essendo concessi, sono uno degli aspetti del lavoro, proprio quello munito delle maggiori caratteristiche di recupero e controllo.

Se dobbiamo giocare con la nostra vita e nella nostra vita, dobbiamo imparare a farlo, e dobbiamo fissare noi stessi le regole del gioco, oppure dobbiamo progettare queste regole in modo che siano chiare per noi e labirinti incomprensibili per i dominatori. Non possiamo affermare, genericamente, che il gioco munito di regole è ancora un lavoro (cosa per altro vera, come abbiamo detto), per poi continuare che se vengono a mancare queste regole allora si tratta di un gioco libero e quindi liberatorio. L’assenza di regole non è sinonimo di libertà. La presenza di regole imposte e la cui esecuzione è sottoposta a controllo e a sanzione è sinonimo di schiavitù. E il lavoro è stato questo e non potrà mai essere altro, per tutti i motivi visti prima e per quelli che abbiamo dimenticato di ricordare.

Ma l’assenza di regole può essere una tirannia diversa e forse peggiore. Se il libero accordo è una regola, io intendo seguirla e mi aspetto che gli altri, miei compagni nell’accordo, la seguano. E ciò principalmente quando si tratta del gioco della mia vita e della mia vita in gioco.

L’assenza di regole mi darebbe in pasto alla tirannia dell’incertezza, la quale se oggi è brivido per la mia quotidiana dose di adrenalina, domani potrebbe non starmi più bene, anzi certamente non mi starà più bene.

E poi le regole, liberamente scelte, costruiscono la mia identità, il mio essere fra gli altri, ma anche il mio essere individuo cosciente di sé e desideroso di aprirsi agli altri, di vivere in un mondo popolato di esseri liberi, vitalmente liberi, in grado di decidere da soli le proprie scelte.

Questo ancora di più in un mondo che sta avviandosi verso l’apparente libertà di un’assenza di regole rigide, se non altro nel mondo della produzione. Per non farsi incantare ancora una volta da orari di lavoro ridotti, flessibili, programmabili a piacimento, da ferie pagate, esotiche, personalizzate, per non farsi ingannare da aumenti salariali, da prepensionamenti, da finanziamenti gratuiti alle iniziative individuali, occorre darsi un proprio progetto di distruzione del lavoro, non limitarsi a ridurre i danni, perché lo stesso capitale è interessato a ridurre questi danni, per mantenere in vita non una manodopera meno stressata, quanto un referente alla propria offerta di mercato, cioè una domanda passabilmente sostenuta.

Qui tornano d’attualità alcune riflessioni che sembravano ormai avere fatto il loro tempo.

Distruggere una mentalità non è possibile. Difatti, la mentalità professionale, per come si estrinsecava anche nel raggruppamento partitico o sindacale di difesa e perfino nelle forme anarcosindacaliste, non poteva essere distrutta dall’esterno. Neanche il sabotaggio poteva riuscirci. Quando questo veniva impiegato era soltanto un mezzo di intimidazione contro i padroni, un segnale di lotta più avanzata nei riguardi dello sciopero, per fare sapere che si era più decisi degli altri e che però si restava sempre disposti a sospendere l’attacco non appena le rivendicazioni sarebbero state accettate.

Ma il mezzo resta distruttivo, non intacca indirettamente il profitto, come lo sciopero, ma colpisce direttamente la formazione produttiva, alla fonte o alla foce, nei suoi mezzi di produzione o nei prodotti finiti, non ha importanza, esso colpisce la realizzazione in atto o di già conclusa. Ciò significa che agisce a prescindere dall’esistenza del rapporto di lavoro, colpisce non per ottenere qualcosa, o non solo per ottenere qualcosa, ma anche, e direi principalmente, per distruggere. E l’oggetto della distruzione, pure restando la proprietà del capitale, a ben riflettere è sempre il lavoro, in quanto si tratta di quello che con il lavoro è stato ottenuto, prodotto, sia mezzi di produzione che prodotti finiti.

Ecco quindi che comprendiamo meglio, ma soltanto oggi, l’orrore che provavano molti lavoratori di fronte agli atti di sabotaggio. E mi riferisco qui a quei lavoratori che una vita di dipendenza totale aveva munito di una identità sociale non facilmente cancellabile. Personalmente ho visto lavoratori piangere di fronte alla propria fabbrica attaccata e in parte distrutta, perché in quel luogo di morte essi vedevano attaccata e distrutta una considerevole parte della propria vita, e questa vita pur essendo misera e disprezzabile era la sola che avessero, la sola di cui avessero esperienza.

Certo, per attaccare occorre avere un progetto, quindi una identità progettualmente definita, una coscienza di quello che si vuole fare, anche e forse principalmente quando quello che si vuole fare lo si considera un gioco, lo si vive come un gioco. E il sabotaggio è un gioco affascinante, ma non può essere il solo gioco che si desidera giocare. Bisogna disporre di una moltitudine di giochi, vari e spesso contrastanti, allo scopo di evitare che la monotonia di uno di loro o l’insieme delle regole si trasformi in un ulteriore lavoro noioso e ripetitivo. Anche fare l’amore è un gioco, ma non lo si può giocare da mattina a sera, pena la sua banalizzazione, pena il sentirsi avvolti in un sopore che se da un lato causa un piacevole benessere, dall’altro avvilisce, fa sentire inutili.

Anche andare a prendere i soldi dove si trovano è un altro gioco, che ha le sue regole, e che può degenerare in un professionismo fine a se stesso, quindi diventare un lavoro a tempo pieno con tutto quello che ne deriva. Ma è un gioco interessante, e utile, se visto nella prospettiva di una coscienza matura, che non accetta gli equivoci di un consumismo sempre pronto ad ingoiare quanto si è riusciti a strappare alla formazione economica complessiva.

Anche qui occorre superare la barriera morale che ci hanno costruito addosso, occorre che si verifichi una frattura capace di porsi al di là del problema. Allungare la mano sulla proprietà altrui, anche per un rivoluzionario, è faccenda piena di rischi, non solo legali in senso stretto, ma in primo luogo morali.

La chiarezza in merito a quest’ultimo aspetto è importante, in quanto si tratta di superare quello stesso ostacolo che faceva piangere il vecchio operaio davanti alla fabbrica danneggiata. La sacralità proprietaria l’abbiamo succhiata col latte materno e non ce ne liberiamo facilmente. Preferiamo prostituirci per una vita intera al datore di lavoro, ma avere la coscienza tranquilla, la coscienza di avere fatto il proprio dovere, di avere contribuito nel proprio piccolo alla produzione del reddito nazionale lordo, da cui attingeranno a piene mani gli uomini politici che pensano ai destini della nazione, i quali avranno per tempo diradato ogni scrupolo per impadronirsi di quello che noi abbiamo accumulato con fatica.

Ma l’aspetto essenziale di un progetto di distruzione del lavoro è legato alla creatività spinta al massimo livello possibile. Cosa possiamo farci col denaro di tutte le banche che saremo in grado di svaligiare se poi l’unica cosa che sappiamo fare è quella di comprarci una macchina grossa, farci una bella casa, andare in discoteca, riempirci di bisogni inutili e annoiarci a morte fino alla prossima banca da svaligiare? Cosa che fanno sistematicamente molti svaligiatori di banche che ho conosciuto in galera. Se tanti compagni che non hanno mai avuto soldi in vita loro pensano che questa sia la strada per togliersi qualche sfizio, facciano pure, troveranno le medesime disillusioni di qualsiasi altro lavoro, magari meno redditizio in tempi brevi, ma certamente meno pericoloso in tempi lunghi.

Immaginarsi il rifiuto del lavoro come l’accettazione apatica della non attività, è una conseguenza dell’idea errata che tutti gli schiavi del lavoro si fanno di coloro che non hanno mai lavorato in vita loro. Questi ultimi, i cosiddetti privilegiati dalla nascita, gli eredi dei grossi patrimoni, quasi sempre sono indefessi lavoratori che impegnano le proprie forze e il proprio ingegno per sfruttare gli altri ed accumulare ricchezze e prestigio più alti di quelli avuti in eredità. Ma quand’anche ci limitassimo ai non pochi esempi di scialacquatori di patrimoni che le cronache rosa dei giornali non mancano di illustrare, dovremmo comunque convenire che anche questa pessima genia s’impegna nel suo daffare, nel tedio delle sue relazioni sociali come nella propria paura di essere vittime di aggressioni e sequestri. Anche questo è lavoro, ed essendo fatto con tutte le regole del fare coatto, diventa lavoro vero e proprio, dove lo sfruttatore di questi sfruttatori è, di volta in volta, la propria libidine o la propria paura.

Ma non penso possano essere molti coloro che considerano il rifiuto del lavoro come l’accettazione della noia mortale di un non far niente continuamente sulla difensiva per evitare le trappole degli altri che potrebbero spingerci a fare qualcosa con sollecitazioni e lusinghe, sia pure non più in nome della necessità, ma dell’ideale, poniamo, o dell’affetto personale o dell’amicizia o di chissà quale altra diavoleria capace di attentare alla raggiunta condizione di completo soddisfacimento.

Una situazione del genere è priva di senso.

Al contrario ritengo che il rifiuto del lavoro si possa identificare prima di tutto in un desiderio di fare le cose che più piacciono, quindi di trasformare qualitativamente il fare coatto in attività libera, cioè in azione. Su questo argomento, molti anni fa ho scritto un lungo articolo sul n. 1 di “Pantagruel” (“Teoria e azione”, pp. 5-35, utilizzato in parte per la redazione dei capitoli VI-IX del libro Del fare e dell’agire, Catania 2001) che per tanti aspetti resta anche oggi valido. Ma la condizione attiva, il fare libero non è conseguito una volta per tutte. Non può mai appartenere ad una situazione esterna a noi, piovutaci addosso, come l’arrivo di una grossa eredità o il provento fortunoso d’una banca svaligiata. Questi fatti possono essere l’occasione, l’accidente ricercato o meno, voluto o meno, che può aiutare e perfezionare un progetto in corso, non la condizione conclusiva e determinante. Qualora questo progetto fosse carente, in termini di progettualità di vita nel massimo significato del termine, nessuna somma di denaro potrà mai liberarci dalla necessità di lavorare, cioè di fare coattamente, spinti da un nuovo tipo di necessità, non più quella della miseria, ma quella della noia, o dell’acquisita condizione sociale, o del volere sempre più grosse porzioni di ricchezza o l’intera gamma dei simboli dello stato sociale adeguato alla nuova ricchezza conseguita.

Il dilemma si scioglie approfondendo il proprio progetto creativo o, per dirla diversamente, riflettendo su quello che si vuole fare della propria vita e dei mezzi di cui si viene in possesso non lavorando. Se si vuole distruggere il lavoro occorre che si costruiscano percorsi di sperimentazione individuale e collettiva che non tengano conto del lavoro se non per cancellarlo dalla realtà delle cose possibili.


Prima edizione: in “Anarchismo”, n. 73, maggio 1994, pp. 24-33
Seconda edizione, Salamandrina edizioni: agosto 2005
Terza edizione: aprile 2007
Quarta edizione: novembre 2013
Edizione francese: Détruisons le travail, Genève 1995
Edizione Inglese: Let’s destroy work, let’s destroy the economy, London s.d.
Edizione olandese: Vernietig het werk, vernietig de economie, s.l. s.d.
Edizione greca: Aw Katastr¡coume Thn Ergasia, Atene s.d. Edizione belga: Détruisons le travail, Gent 2007
Edizione ceca: Zničme praci, zničme ekonomiku, Praga 2009
Opuscoli provvisori n. 4