Titolo: Dal banditismo sociale alla guerriglia
Note: Prima edizione: dicembre 2013
Pensiero e azione N. 22
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    Il banditismo sociale

      Il ribelle e il suo mito

      Banditismo sociale e letteratura popolare

      Lo studio dell’ambiente

    Il fronte interno e la ribellione

      Il diritto all’espropriazione

      La violenza e il banditismo sociale

      I fondamenti morali del banditismo sociale

    L’esperienza guerrigliera

      Il banditismo sociale nelle campagne

      Le insurrezioni di liberazione nazionale tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo e la presenza del banditismo

      La prima metà del XIX secolo. Banditismo, guerriglia e banditismo sociale

      L’azione di Pisacane e la sua importanza

      Il banditismo nel Mezzogiorno d’Italia dopo l’unità

      Forme di guerriglia nella seconda metà del XIX secolo. La banda del Matese

      La guerriglia e il banditismo sociale in rapporto alla seconda guerra mondiale. Evoluzione metodologica

      Persistenza del banditismo sociale all’interno di alcune organizzazioni di guerriglia. Sue limitazioni e tendenza a scomparire

      Un ultimo esempio: il banditismo sociale in Sardegna

    La rivolta degli schiavi e il mito di Dioniso

      L’insurrezione degli schiavi guidata da Spartaco

      Le motivazioni della rivolta

      Spartaco e Dioniso

    Rinaldo e la Chanson de geste

    Gli abiti nuovi del presidente Mao

    La democrazia totalitaria

    Né in cielo né in terra

    La maniera forte

    Nuclei Armati Proletari

    Moro e i suonatori di trombone

    Contro il militarismo

      Antimilitarismo e insegnamenti della lotta contro la base missilistica di Comiso

      Per una ripresa della lotta antimilitarista

    Contro la mafia

      Lo Stato mafìoso

      Scontri tra mafie

      Gli anarchici contro la mafia

Il banditismo sociale

Perseguitati dalla legge, guardati con timore dai ricchi, esaltati dalla povera gente, i banditi hanno da sempre costituito oggetto di studio per i sociologi e materia per le ballate popolari.

In pratica però, escludendo le geremiadi degli studiosi pagati dal potere, i vaniloqui legali dei ripetitori del codice e le esaltazioni dei cantastorie che riprendono motivazioni popolari, non esistono studi approfonditi sull’argomento.

Anche in Italia, che per quanto riguarda il Meridione è considerata la terra dei briganti, scarseggiano studi seri e capaci di valutare il problema nel complesso delle sue implicazioni sociologiche e storiche. I vecchi lavori sul brigantaggio, che appositamente trascuriamo di indicare, possono essere con tutta tranquillità di coscienza lasciati alla critica accademica. I nuovi, figli meritevoli di tanto padre, sono, qualora fosse possibile, al di sotto del valore degli scritti più antichi.

Le inchieste e le ricerche più importanti relative al periodo successivo all’unità d’Italia, dove viene affrontato di scorcio il problema del brigantaggio, sono: F. Maggiore-Perni, Delle condizioni economiche, politiche e morali della Sicilia dopo il 1860, Palermo 1896; A. Guarneri, L’inchiesta parlamentare sui fatti di Palermo, Palermo 1867; G. Antinori, La Sicilia. Questioni economiche, amministrative e politiche, Palermo 1867; C. Baer, “Il latifondo in Sicilia”, in “Nuova Antologia”, 15 aprile 1883, p. 640 e sgg.; Atti della Giunta per l’inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, vol. XIII, tomo I, Relazione del Commissario Abele Damiani, Roma 1884; S. Jacini, “Il problema agrario e l’inchiesta”, in “Nuova Antologia”, 15 marzo 1881, p. 303 e sgg.; L. Bodio, Sui documenti statistici del Regno d’Italia, Firenze 1867; N. Colajanni, “La eloquenza delle cifre e gli indizi della miseria nel Mezzogiorno”, in “Rivista Popolare”, a. IX, 15 marzo 1903; A. Battaglia, L’evoluzione sociale in rapporto alla proprietà fondiaria in Sicilia, Palermo 1895; A. De Johannis, “Sulle cause della crisi”, in “Nuova Antologia”, 16 dicembre 1891, p. 639 e sgg.; G. Salvioli, “Gabellotti e contadini in Sicilia nella zona del latifondo”, in “La Riforma Sociale”, a. I (1894) pp. 75 e sgg.; Atti della Giunta per l’inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, vol. XV, Relazione del Presidente conte Stefano Jacini, Roma 1885; E. Corbino, Annali dell’economia italiana, vol. I, Città di Castello 1931-38; G. Luzzatto, L’economia italiana dal 1861 al 1914, vol. I: 1861-1894, Milano 1963 (ed. della Banca Commerciale Italiana); S. D. Clough, Storia dell’economia italiana dal 1861 ad oggi, Bologna 1965; E. Passerin D’entreves, “La politica nazionale nel giugno-settembre 1861: Ricasoli e Minghetti”, in “Archivio Storico Italiano”, 1955; A. Scirocco, Governo e paese nel Mezzogiorno nella crisi dell’unificazione, 1860-1861, Milano 1963; C. Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica da Rattazzi a Ricasoli, 1859-1866, Milano 1964; P. Alatri, Lotte politiche in Sicilia sotto il governo della Destra, 1866-1874, Torino 1954; F. Brancato, La Sicilia nel primo ventennio del regno d’Italia, Bologna 1956; S. F. Romano, Storia della mafia, Milano 1963; Antologia della mafia. Documenti inediti, dibattiti parlamentari, inchieste, saggi dai primi anni dell’unità ad oggi, a cura di N. Russo, prefazione di M. Gangi e N. Sorgi, Palermo 1964.

Le inchieste hanno una validità maggiore, ma guardano il nostro problema solo da un punto di vista quantitativo, non emergendo mai al livello della riflessione politica e sociale. La verità, è bene dirlo subito, è che il tema è scottante per due motivi: primo, perché non si riesce a farlo restare fermo dentro un quadro storicamente asettico ma tende con forza a riportarsi continuamente a effettualità presenti, rese di conti con realtà che sono cronaca e non più storia; secondo, perché richiede una premessa di tipo politico e una chiara presa di posizione. Come si vede, due cose che non abitano dentro le muffite mura del mondo accademico.

Un tema come questo fa sbattere il muso col riconoscimento cosciente della contraddittorietà di un’informazione storica che intende tagliare i legami con l’informazione sociale, che intende negare un rapporto di contemporanea interazione, che intende spacciare quest’ultima come semplice questione metodologica e non come condizione esclusiva della chiarificazione del problema. Il banditismo è fenomeno di cronaca colto in chiave sociale secondo gli interessi imperanti e contingenti del potere. Spetta al sociologo fare emergere il rapporto esistente tra informazione sociale e confronto diretto con ogni tipo di esperienza giornaliera, anche in vista di una reinterpretazione del fatto storico nel suo complesso e nell’estensione molteplice delle sue vicende temporali.

Due soli libri cercano di avvicinarsi più che possibile a questo scopo, sebbene presentino limitazioni metodologiche che ne rendono difettose le conclusioni: si tratta di due lavori di Eric J. Hobsbawm. Il primo tratta dei ribelli primitivi (I ribelli, tr. it., Torino 1966 – Primitive Rebels, Manchester 1959) e dedica solo qualche capitolo al problema dei banditi sociali, il secondo, più centrato sul problema, sebbene di piccola dimensione, è l’opera che più si avvicina al nostro modo di vedere la questione (I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, tr. it. Torino 1971 – Bandits, London 1969).

Occorrerebbe precisare, ma il lettore se ne accorgerà nel corso delle presenti pagine, che l’interpretazione di fondo proposta da Hobsbawm differisce in modo radicale da quella che proponiamo noi. Qui ci basta preavvertire che la prospettiva marxista, troppo accentuata in Hobsbawm, gli impedisce di accostarsi con sufficiente apertura mentale al volontarismo di base che, in ultima analisi, costituisce l’unico elemento interpretativo valido nel momento del passaggio dal banditismo generico, o qualificato socialmente con motivazioni psicologiche e personali, al banditismo politicamente specifico, o qualificato socialmente con motivazioni oggettive, di gruppo e di classe.

Resterebbe il lavoro di Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano 1966), ma non sfugge, onde ben si consideri, alla critica suddetta, indugiando troppo su aspetti marginali e impedendosi una penetrazione effettiva del problema.

Che cosa caratterizza il banditismo sociale? Perché deve considerarsi in modo particolare riguardo al fenomeno del banditismo in genere? Dove attecchisce? In che rapporti si pone con l’ambiente socio-economico che lo produce? Che sviluppi può avere in una prospettiva rivoluzionaria?

Queste e molte altre le domande cui devono rispondere lo storico, il sociologo e il politico. Non chiudendosi nella torre d’avorio della statistica e neppure nella brillante scappatoia dell’aneddoto, ma cogliendo i nessi fondamentali che legano il fenomeno del banditismo alle reali motivazioni sociali.

Il ribelle e il suo mito

Ribelle è colui che si contrappone alla realtà che lo circonda, che rifiuta di accettarla in quanto tale come un tutto obbligatoriamente razionale, che dice di no.

A questo livello della nostra indagine, siamo di fronte alla rivolta individuale. Il ribelle è l’individuo isolato che si alza contro la società che l’opprime e colloca il suo gesto nel modo che più crede opportuno. Sgombriamo subito il cammino da tendenziose letture di destra di quanto andremo dicendo. L’individualismo reazionario e borghese è fenomeno storico ben individuabile ed è stato, giustamente, collegato dai suoi sostenitori ad una matrice genetica e biologica, per cui la teoria della razza ne diventa un corollario. L’individualismo rivoluzionario proletario è legato ad un’interpretazione storicistica dell’uomo, come fenomeno storico, emergente da una situazione precisa di contrasto di classe, da una precisa presa di coscienza. Il dibattito tra individualismo rivoluzionario e comunismo non avrebbe ragione di esistere qualora si avesse la calma e la rettitudine per riconoscere che non si tratta di un problema di qualità ma solo di quantità. Ci spiegheremo meglio più avanti.

L’individualismo rivoluzionario, secondo la tradizione pura di questo termine, cioè quella anarchica, è una concezione pratica avente per base il postulato che ogni singola unità umana ha la facoltà di tradurre in pratica da sola, nella vita quotidiana, la teoria libertaria. Alla base di questo principio si deve collocare ciò che gli individualisti intendono per fatto individuale.

Scrive Émile Armand a questo proposito: «Nonostante e a dispetto di tutte le astrazioni di tutti gli enti laici o religiosi, di tutti gli ideali gregari, alla base delle collettività, delle società, delle associazioni, delle agglomerazioni, delle entità etniche, territoriali, economiche, intellettuali, morali, religiose, si trova l’unità-persona, la cellula-individuo. Senza di questa, quelle non esisterebbero affatto. Invano ci si obbietterà che senza mezzo sociale o societario l’individuo-cellula non potrebbe né esistere né svilupparsi. Non soltanto ciò è assolutamente inesatto nel senso letterale della parola, in quanto l’uomo non ha sempre vissuto in società, ma pur esaminando il problema sotto i suoi vari molteplici aspetti non si potrà in alcun modo prescindere da questa constatazione: che senza individui, non vi può essere ambiente sociale o societario. È l’essere umano che è l’origine, il fondamento dell’umanità. L’individuo ha preesistito al gruppo, ciò è anche troppo evidente. La società è il prodotto di addizioni individuali» (Iniziazione individualista anarchica, tr. it. Firenze 1956, p. 33).

Per chi voglia affrontare seriamente il problema del banditismo sociale, condizione essenziale è di chiarire in profondità il rapporto tra individuo singolo e società, e quindi il rapporto tra ribelle e società.

Il ribelle non è un asceta, la mortificazione della carne gli ripugna. È un passionale, un uomo che si salva dalla schiavitù delle passioni ammettendole e valutandole nei loro aspetti positivi. Per questo è un uomo autonomo, in quanto si assume, davanti a se stesso, le proprie responsabilità. Avendo fatto una scelta egli è libero.

Continua Armand: «L’individualista non è né giovane né vecchio! Ha l’età ch’egli si sente. E finché gli rimane una goccia di sangue nelle vene, combatte per conquistare e consolidare il suo posto al sole. Non si impone, ma non vuole che gli altri gli si impongono. Ripudia i padroni e gli dèi. Sa amare, e sa ravvedersi. Trabocca di affetto per i suoi, quelli del “suo” mondo, ma ha in orrore i “falsi fratelli”. È fiero ed ha coscienza della sua dignità personale. Si plasma, si scolpisce interiormente e reagisce esteriormente. Si raccoglie e si prodiga. Non si cura dei pregiudizi e si beffa di “quello che si dirà”» (Ib. p. 38).

Occorre ovviamente distinguere tra banditi sociali e persone che si trovano di fatto a compiere atti fuorilegge ma non hanno acquisito la coscienza per farlo, semplicemente sono trascinati dagli avvenimenti.

Ecco, pertanto, cadere uno dei primi motivi del contrasto tra dottrina rivoluzionaria dell’individualismo e dottrina rivoluzionaria del comunismo. È straordinario come un reazionario, Ettore Zoccoli, magistrato e autore di interessanti ricerche su Stirner e Nietzsche, abbia capito questo punto. Così, infatti, scrive in un rarissimo libretto: «La distinzione che si fa di solito tra individualismo anarchico e comunismo anarchico è, per buona parte, illusoria. Il punto di partenza è sempre lo stesso: svegliare nell’individuo una coscienza dell’estralegalità, al punto di permettergli di concepire ogni atto individuale, indipendentemente dalla sanzione che lo attende nell’ordinamento della società costituita. Che l’individuo, poi, supponga come risultato della sua azione di aver contribuito al conseguimento della più sfrenata autonomia personale, o alla consolidazione delle basi fondamentali di un ordinamento comunistico futuro, ben poco importa. Tanto, tutti gli anarchici sono i primi a sapere, quantunque abbiano di continuo interesse a dimenticarsene, e a non lasciarlo neppur supporre agli iniziati, che non appena la loro azione produce qualche strappo alla legalità, tosto l’ordine turbato si ricompone, con la stessa legge fatale, con la quale si ricompongono in equilibrio le acque rotte dalla prua di una nave. La statica sociale, nella somma delle sue leggi complesse, è provveduta di energie vincitrici di perturbazioni anche molto violente, purché transitorie. La continuità dello svolgimento storico normale non potrebbe essere sensibilmente interrotta che da una analoga continuità di azione opposta. L’anarchia non ha mai, né potrà mai avere tale continuità. Quindi il supposto fine ultimo, al quale tende l’anarchia, dev’essere, di necessità, riportato a tanto lontana scadenza, che la divergenza tra gli individualisti ed i comunisti anarchici non è affatto sensibile, né nel momento delle loro premesse teoriche, né durante il commento pratico e di fatto di tali premesse, compiuto per mezzo della loro delinquenza storica» (I gruppi anarchici negli Stati Uniti e l’opera di Max Stirner, Modena 1901, pp. 165-167).

Il passo del preoccupatissimo magistrato è quanto mai interessante, come molte altre cose di Zoccoli, sempre studioso serissimo e attento, per quanto, come si è detto, estremamente reazionario. È interessante perché ci consente di collocare il ribelle individualista all’interno di una necessaria strategia di ribellione sociale. Ancora, è importante perché ci spiega come la dottrina anarchica – nelle sue versioni – tenda a svegliare nel singolo la coscienza dell’extralegalità. Il senso peggiorativo dato da Zoccoli a questo termine non deve turbarci. Se la legalità è quella dello sfruttamento e del genocidio, se la legalità è quella della dittatura in nome di un capo o in nome di un’idea, per quanto bellissima; allora il risveglio della coscienza dell’extralegalità significa il risveglio dell’impegno dell’uomo di distruggere la legalità della morte per costruire quella della vita, una nuova legalità senza leggi, una nuova dimensione senza bandiere e senza frontiere, senza padroni e senza sfruttati. Ecco in che senso diciamo che Zoccoli, per quanto reazionario, può essere una interessante lettura. Terzo punto che ricaviamo dalle annotazioni di Zoccoli: non c’è differenza che l’individuo agisca, all’interno della nuova coscienza extralegale, tenendo conto della consolidazione di un nuovo ordinamento sociale o tenendo conto dell’accrescimento della sua personalità di individuo.

In effetti il concetto di individuo non si può separare dal concetto di organizzazione. L’individuo, pur nella sua solitudine, è sempre un’organizzazione: se non altro un’organizzazione biologica e un’organizzazione di conoscenze culturali, frutto di un condensato esperienziale storico. Mettendo da parte l’aspetto biologico, la presenza di questo embrione organizzativo lo differenzia dal bruto. Quando poi l’individuo ha acquistato la coscienza di ribellarsi contro uno stato di cose che lo opprime e che ritiene ingiusto e parziale nei propri confronti (cioè quando si è reso cosciente di essere sfruttato e di contribuire allo sfruttamento degli altri), allora diventa un’organizzazione specifica, che può senz’altro sommarsi alle altre organizzazioni individuali dando vita ad organizzazioni più complesse, ma sempre lontane dall’autorità.

Di fronte all’interpretazione individualista, si collocano i teorici che predicano il più rigoroso determinismo organizzativo – sempre su base libertaria –, oppure i teorici che si preoccupano di dettare, in forma pratica, le condizioni che rendono possibile un’organizzazione militante che non si ponga come fine il perpetuarsi di se stessa o il concretizzarsi in un’autorità; ma, al contrario, la distruzione di ogni forma di potere. Così scrive Malatesta: «L’organizzazione, che poi non è altro che la pratica della cooperazione e della solidarietà, è condizione naturale, necessaria della vita sociale: è un fatto ineluttabile che s’impone a tutti, tanto nella società umana in generale, quanto in qualsiasi gruppo di persone che hanno uno scopo comune da raggiungere. Non volendo e non potendo l’uomo vivere isolato, anzi non potendo esso diventare uomo veramente e soddisfare i suoi bisogni materiali e morali se non nella società e colla cooperazione dei suoi simili, avviene fatalmente che quelli che non hanno i mezzi o la coscienza abbastanza sviluppata per organizzarsi liberamente con coloro con cui hanno comunanza d’interessi e di sentimenti, subiscono l’organizzazione fatta da altri individui, generalmente costituiti in classe o gruppo dirigente, allo scopo di sfruttare a proprio vantaggio il lavoro degli altri. E l’oppressione millenaria delle masse da parte di un piccolo numero di privilegiati è stata sempre la conseguenza dell’incapacità della maggior parte degli individui di accordarsi, di organizzarsi con gli altri lavoratori per la produzione, per il godimento e per la eventuale difesa contro chi volesse sfruttarli ed opprimerli» (“L’organizzazione”, in “Il Risveglio”, 15 ottobre 1927).

In Malatesta la preoccupazione organizzativa non è finalizzata a se stessa, ma è vista come unico mezzo per costruire con chiarezza un movimento di base capace di scuotere il potere.

Abbiamo quindi una concezione individualista che propone l’assenza dell’organizzazione – dentro certi limiti – e una concezione organizzativa che invece la ricerca e ne designa le caratteristiche. In definitiva, tra le due concezioni non esiste, da questo punto di vista, molta differenza in quanto, come abbiamo detto, anche l’individuo è un’organizzazione. Risulta poi naturale che gli individualisti parlino di associazione ispirandosi a Stirner e alla sua società di egoisti. Partendo da questa prospettiva molte cose risultano chiare riguardo alla figura del ribelle. Vediamo di accennare alcuni problemi storici precisi e come sia possibile risolverli.

Prendiamo l’uccisione di Umberto I. Il problema tanto dibattuto se Bresci era solo o aveva un preciso mandato da parte dei compagni di Paterson, non ha ragione di esistere. Un infelice librettucolo di cui non vale la pena nemmeno di citare la fonte, dovuto al pennivendolo Petacco (lo stesso che ha realizzato per N. S. la televisione un servizio su Petrosino e la mafia siciliana), pubblicato da Mondadori, indica con una sicurezza infondata che Bresci era stato inviato dagli anarchici italiani residenti in America per vendicare l’eccidio di Bava Beccaris. Tutte chiacchiere inutili. Ammettiamo che l’individualista Bresci, contati i suoi risparmi, acquisti un biglietto (si badi bene di sola andata) per l’Italia e, insieme al biglietto, una bella pistola. Operaio integerrimo e amatissimo figlio, il nostro Bresci compie tranquillamente la traversata e cogliendo l’occasione dei giuochi ginnici, uccide a rivoltellate il mostro sanguinario che si fregiava del titolo di re buono e che aveva addirittura promosso generale Bava Beccaris per l’eccidio di Milano. In effetti l’analisi politica che condusse Bresci all’attentato e all’uccisione del re era esatta. Poteva benissimo essere formulata e attuata da un’organizzazione più complessa, come il movimento anarchico, invece di essere pensata, oltre che realizzata, da un solo individuo. Il momento psicologico e politico era ben colto: le masse popolari reagirono positivamente, in modo diverso dalla borghesia, e al processo si dovette ricorrere a misure di grande emergenza per impedire sommosse e sollevazioni. In carcere, dopo appena un anno Bresci venne soppresso allo scopo di non alimentare tentazioni di nessun genere nel popolo. Nell’uccisione del re buono, quindi, nessuna differenza tra l’azione di un movimento organizzato e l’azione di un singolo anarchico che si professi o meno individualista.

Può accadere certo che l’atto del singolo sia controproducente – ai fini della propaganda e della penetrazione dell’idea nelle masse – perché l’analisi politica che condusse al compimento di quell’atto era insufficiente o perché scelto male era il momento. Ma chi ci garantisce che un simile errore non può essere anche fatto da un movimento o dal rappresentante di un movimento? Forse che l’accettazione della guerra, da parte di Kropotkin, Grave e altri notissimi compagni, in occasione dello scoppio del primo conflitto mondiale non fu un grave errore teorico e tattico? (Cfr. J. Maitron, “P. Kropotkine et le manifeste des Seize”, “Actes du soixantesezième congrès des Sociétés savantes”, Rennes 1951, Paris 1951).

Vediamo un altro esempio, molto indicativo. L’attività di Severino Di Giovanni nell’Argentina degli anni Venti fu segnata da una serie di atti che comunemente vengono definiti banditeschi e terroristici: rapine, esplosioni, ecc. Contro la ribellione di Di Giovanni si schierarono i compagni organizzati raggruppati attorno al giornale “La Protesta”. Così scriveva lo stesso Di Giovanni: «In eterna lotta contro lo Stato e i suoi puntelli, l’anarchico che sente su se stesso tutto il peso della sua funzione e dei suoi scopi emananti dall’ideale che professa e della concezione che ha dell’azione, non può molte volte prevedere che quella valanga che fra poco andrà a far rotolare per la china dovrà necessariamente urtare il gomito del vicino in astrattiva contemplazione delle stelle o calpestare un callo di un altro che s’impunta in non smuoversi avvenga quello che avvenga intorno a lui. È l’inevitabile della lotta che lui non cerca a bella posta, ma che per un cumulo di casualità attraversa il suo cammino e fa succedere la nota violenta. Non valgono a riparare l’inevitabile le solite recriminazioni, i “distinguo”, le serenate al pianto, le alambiccazioni d’azzeccagarbugli, le solite maledizioni e i ripudi: se sul cammino dobbiamo correre, non possiamo farlo sorretti e intralciati da un falso sentimentalismo improduttivo senza ostacolare ciò che si vuole condurre a termine dell’energica rivolta» (citato in O. Bayer, Severino Di Giovanni. L’idealista della violenza, tr. it. Pistoia 1973, p. 81). E l’azione di Di Giovanni, per quanto terribile e sanguinosa, non fu mai diretta a colpire ciecamente qualsiasi persona allo scopo di determinare una tensione favorevole soltanto al potere e alla sua politica terroristica di consolidamento. L’azione di Di Giovanni fu guidata da un preciso ragionamento: attaccare i centri nevralgici del potere onde spingere la massa a prendere l’iniziativa e a orientarsi verso l’obiettivo rivoluzionario. In queste azioni Di Giovanni tenne sempre presente la situazione generale delle masse, mentre spesso lo si accusò di non averne tenuto conto e di avere contribuito a giustificare l’attacco del potere contro il movimento. In effetti non si può ragionare in questo modo: la repressione annienta un movimento rivoluzionario solo quando quest’ultimo è già morto in quanto gli è venuta a mancare la sua componente essenziale, quella dell’attacco diretto al potere; al contrario, quando questa esiste, la repressione non può uccidere il movimento, può solo vivificarlo e spronarlo ad azioni sempre più consequenziali e massicce.

La prova della giustezza della nostra analisi si può vedere nel fatto che dopo la morte di Di Giovanni e la fine del periodo delle espropriazioni, quando il movimento anarchico argentino poteva trovare quello sviluppo che vedeva minacciato dalla presenza e dall’azione di Di Giovanni, finì di agire del tutto. Non si trattava infatti che di un corpo morto, senza vita, un corpo che si illudeva di vivere solo perché come un vegetale metteva qualche germoglio o proliferava qualche piccolo gruppo d’opinione, un corpo che viveva di polemica e di discussioni chiesastiche, finite le quali, morì per autoconsunzione.

La dimensione individuale del ribelle non emerge tanto da un contrasto con un’altra alternativa: quella di classe; quanto dalla coscienza della rivolta, dell’atto ribellistico, che, in una prima fase, può anche presentarsi come finalizzato a se stesso. Resta da vedere non la differenza soggettiva, quindi il livello di coscienza in senso di classe, quanto la differenza oggettiva, cioè l’analisi realizzata. Il ribelle può, anche se da solo, realizzare un’analisi rivoluzionaria più approssimata, e quindi in pratica più esatta, di quanto non possa fare un’organizzazione complessa. In questa dimensione cade la differenza fra individualismo e organizzazione, in quanto restano due tipi di organizzazione con gradazioni diverse, ma ugualmente dirette ad attaccare il potere.

All’economia del nostro lavoro è importante un dato essenziale che è emerso: il ribelle è un individuo forte, sicuro di sé, forse eccessivamente appassionato e ricco di volontà. Parecchie ricerche sono state condotte a livello psicologico sul ribelle, ma nessuna ha grande valore nella nostra prospettiva. (Fa eccezione, in un certo senso, il lavoro di A. Camus, L’uomo in rivolta, tr. it., Milano 1962, per una geniale impostazione della ricerca. Decisamente inutili i lavori nella presente prospettiva: M. Scheler, La crisi dei valori, tr. it., Milano 1936; G. W. Allport, A Psychological Interpretation, London 1949). Ancora meno importanti gli scritti dei criminologi del passato, preda di un positivismo di maniera che fa un poco sorridere quando non fa gelare il sangue nelle vene. (C. Lombroso, Gli anarchici, Roma 1972; G. Ferrero, “Lettres inédites de Caserio”, in “Le Figaro” 9 luglio 1894; A. Lacassagne, L’Assassinat du Président Carnot, Lyon e Paris 1894; E. Regis, Les Régicides dans l’Histoire et dans le Présent, Lyon e Paris 1890; Docteur Crocq, L’Etat mental des Anarchistes, “Congresso internazionale d’igiene”, Budapest (agosto) 1894; C. Lombroso, L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, alla giurisprudenza ed alla disciplina carceraria, 2 voll., Torino 1889; W. Healy, The Individual Delinquent, Boston 1917; J. L. Gillin, Criminology and Penology, London 1927; C. R. Shaw, Brothers in Crime, Chicago 1938; K. Exner, Kriminalbiologie, Hamburg 1939; H. Von Hentig, Strafrecht und Auslese, Berlin 1914; A. H. Estabrook, The Jukes in 1915, Washington 1916; H. H. Goddard, The Kallikak Family, New York 1912; F. Stumpfl, Erbanlage und Verbrechen, Berlin 1935; K. H. Fremming, Criminal Frequency in a Danish Rural Area, Copenbagen 1946; C. Burt, The Young Delinquent, London 1945; C. R. Shaw, Delinquency Areas, Chicago 1929; R. Taft, Criminology, New York 1945, pp. 161-166).

Per concludere sulla figura del ribelle in quanto elemento di una strategia sociale più vasta e non come eccezione da isolarsi e rigettarsi, dobbiamo dire che oggi il problema si ripropone a livello macroscopico. Scrive Jean Pierre Courty: «Senza riprendere qui la polemica Marx-Stirner, bisogna notare che è lo stesso Marx che ha più correttamente scritto sull’individuo-sociale (l’individuo-in-sé è un’astrazione) in relazione alla sua critica a L’unico di Stirner. Quest’ultimo non comprendeva nulla del progetto comunista e Marx non fece male a ridicolizzarlo, al limite. Ma assorto nella critica – più pressante e fondamentale – dell’economia politica, Marx non si accorse che il progetto stirneriano (che si appoggia in particolare sulla critica dell’identificazione dell’individuo con tutto ciò che gli è esteriore) non poteva non raggiungere e rafforzare il progetto comunista. La loro polemica – Marx insisteva soprattutto sull’individuo-oggetto-della-storia e Stirner sull’individuo-soggetto-della-storia – ha impedito il loro incontro all’epoca in cui vissero. Oggi, mentre il progetto comunista si precisa, questo esplosivo incontro è visibile dappertutto. I rivoluzionari tengono conto delle antiche esigenze, in passato messe da canto. Il movimento comunista che si annuncia assume l’aspetto di una gigantesca congiura dell’io» (Introduzione a Zo D’axa, Endehors, ns. tr., Paris 1974, pp. 8-9). Anche qui il legame individuo-società si ricollega alla visione positiva della storia, come elemento comune all’individuo e alla società. Come dicemmo all’inizio, ogni visione biologica o vitalistica deve essere messa da parte.

Veniamo adesso all’altro aspetto, non meno importante, del ribelle: la sovrastruttura che si cristallizza sulle sue opere, il suo mito. Nessuna delle ricerche correnti ci può dare notizie in merito alla stratificazione morale che influisce all’interno dei gruppi ribelli e condiziona anche gli individui ribelli. Se il desiderio millenaristico finisce per trascinare le masse, l’impersonificazione di questo millenarismo in alcuni individui, che per le loro doti personali si prestano a questo processo, finisce per creare il mito. Il ribelle gode quindi del suo mito. Le ballate popolari e i cantastorie lo glorificano. Il personaggio di Rinaldo è il più amato dal popolo in tutto il ciclo dei paladini della corte di re Carlo. La sua figura di nobile guerriero e di coraggioso brigante esalta l’immaginazione popolare.

Ecco un canto popolare greco che esalta il mito del bandito delle montagne (clefta, dall’antico greco kléptes = ladro).

«Foss’io nel maggio pastore, vendemmiatore d’agosto,
e nel cuore dell’inverno fossi oste bettoliere.
Ma meglio ancora se io fossi armatòlo o clefta,
armatòlo sui monti e clefta nel piano,
avessi le rocce per fratelli, gli alberi per parentado,
le pernici mi coricassero, mi svegliassero i rosignoli,
e sulla vetta del Liàcura mi facessi segno di croce,
corpi io rodessi di Turchi, né mi chiamassero schiavo.
Il ricco ha i suoi fiorini e anche il povero ha i suoi svaghi,
altri lodano il pascià, altri il vezire,
ma io lodo la spada di sangue turco bagnata,
se ne pavoneggiano i prodi, ne va superbo il clefta.
Alle armi del prode non si addice di essere vendute,
ma portate in Chiesa e per loro cantata Messa;
in alto siano appese a una torre abbandonata,
che roda la ruggine il ferro e la terra il prode».

(Cfr. B. Lavagnini, Storia della Letteratura neoellenica, Milano 1959, p.122).

Testo emblematico della trasfigurazione mitica di un fatto banditesco reale. I clefti sono combattenti della montagna che lottano contro i Turchi e contro i Greci venduti al servizio dei Turchi: rapinano e vivono della loro attività di scorreria e di furto. A parte il notevole ruolo che questi uomini ebbero nella lotta per l’indipendenza greca, è qui importante notare come l’elemento religioso si inserisca nel mito del brigante, trasferendolo in una dimensione in cui non è più possibile utilizzare le solite critiche contro il delitto.

Scrive Eric Hobsbawm: «Il brigante è un individuo che si rifiuta di piegare la schiena, tutto qui. La maggior parte dei tipi come lui saranno tentati, prima o poi, trovandosi in situazioni non rivoluzionarie, d’infilare la strada facile del delinquente comune che rapina indifferentemente poveri e ricchi (fatta eccezione, forse, per quelli del paese natio), o di farsi sgherro del signore, membro di squadracce armate, pronto a venire a patti con le strutture del potere ufficiale. Perciò i pochi che non si piegano o che si pensa siano rimasti puri, sono fatti oggetto di un’ammirazione sconfinata, appassionata e duratura. Ecco perché Robin Hood non muore mai e perché quando non esiste davvero, lo si inventa. I poveri hanno bisogno di lui, perché egli rappresenta la giustizia, senza la quale, come dice sant’Agostino, i regni non sono altro che una grossa rapina» (I banditi, op. cit, p. 50).

Questo passo è tipico dell’analisi di Hobsbawm: vi si possono cogliere due limitazioni fondamentali. Primo, non è possibile basarsi su di un’analisi di tipo genetico (“i tipi che si rifiutano di piegare la schiena”) per arrivare alla conclusione che andranno a buttarsi ciecamente nelle braccia della violenza, anche di espressione fascista e quindi funzionale al potere, per poi concludere che questo è l’elemento che ingrossa le fila dei banditi e che solo occasionalmente (“i pochi che non si piegano o che si pensa siano rimasti puri”) vengono dal popolo glorificati. Secondo, il mito è necessario al povero, che in alcuni casi lo inventa, ma senza spiegarci – l’autore – il perché del meccanismo dell’invenzione, non bastando da solo il desiderio di giustizia (con buona pace di sant’Agostino).

Così, in versi popolari, una confessione riportata da Charles G. Harper:

«Ho osservato le scritture
anche se ho condotto
una vita sventurata
quando un povero ho incontrato
l’ho vestito e l’ho nutrito;
qualche volta in un gran mantello,
qualche volta in un grigio straccio,
ho vestito chi era ignudo,
ho saziato chi aveva fame,
e il ricco l’ho lasciato
per la strada a mani vuote».

(Cfr. Half-Hours with the Highwaymen, vol. II, ns. tr., London 1908, p. 235).

Una serie di comportamenti obbligati in cui non manca l’ossequio della religione, ma è centrale il momento del rubare al ricco e dare al povero. È la reiterazione del mito. Ma, a parte casi specifici, come Rinaldo o come Robin Hood, il mito dura ben poco cristallizzato su di una singola persona o su di un insieme organico di gesta. La fantasia del popolo si trasferisce da un brigante all’altro, attraverso gli anni, restando sempre legata alla figura simbolica e mitica del bandito come simbolo di vendetta.

Un parallelo interessante potrebbe essere fatto fra bandito e capo carismatico di un movimento politico di rivendicazione (partito, sindacato, ecc.), ma usciremmo dalla nostra ricerca. È fondamentale, in ogni caso, l’esame della nascita del mito del ribelle.

La lotta del popolo contro l’oppressione non si esaurisce nella negazione e nella conseguente distruzione dell’oppressore, ma, per motivi diversi, mette in luce, ogni volta che si concretizza nel fatto distruttivo e rigenerativo, il fondamento di una nuova fede, una fede di liberazione che quasi sempre si solidifica mitizzando una persona.

Il mito non nasce ad opera di qualche individuo, di qualche mestatore, sia pure geniale. Scriveva Schelling: «Considerando le cose con esattezza, fare di singoli individui gli autori della mitologia è un’ipotesi così straordinaria, che altamente ci sorprende per l’incoscienza con la quale è stata universalmente accettata, come se non potesse essere diversamente. I più antichi popoli, anche gli Arabi nominati da ultimi, restano ferini a quel momento della coscienza, in cui il rapporto tra la potenza superiore e quella subordinata era ancora silenzioso, inattivo. Ma per la coscienza dei popoli in cui doveva prodursi la mitologia vera e propria era imminente un più profondo conflitto, di cui tenteremo di dare preliminarmente un concetto generale. L’azione naturale del dio superiore sulla coscienza è di sconfiggere effettivamente quel principio della coscienza il quale è fuori di sé e adesso, ossia fin dove noi abbiamo seguito il decorso, è posto finalmente per la prima volta come oggetto di una possibile sconfitta, e di risospingerlo nella sua essenza, nella sua interiorità e così nella sua vera divinità. Proprio questo principio, tuttavia, gli si oppone nella coscienza. Egli vuole restare libero dal secondo dio, non vuole diventarne la materia effettiva. Perciò esso assume ora di nuovo qualità spirituale contro il dio. Non appena stia per essere effettivamente sgominato, da passivo che era si fa nuovamente attivo: quindi vi è in lui una doppia spiritualità, a) quella che gli viene richiesta dal secondo dio, che lo vuole far rientrare in sè, e così porlo nuovamente come spirito, b) la spiritualità non spirituale, con cui egli si oppone alla spiritualità che gli viene richiesta. Si potrebbe porre la questione, dal momento che pretendiamo per il processo che segue una successiva sconfitta, perché allora ci sarebbe in genere una resistenza. Perché, si potrebbe dire, quest’inversione che riconduce allo spirito non avviene tutta in una volta, per così dire in un sol colpo? Replico: per lo stesso motivo per cui ha luogo in generale un decorso. Perché in genere ogni svolgimento richiede tempo? Perché, per quanto la meta appaia spesso vicina, anche nel corso generale dette cose si frappongono sempre nuovi elementi, che rinviano la decisione a tempo indeterminato, o vi si intromettono? Per queste domande vi è una sola risposta: fin dall’inizio tutto è calcolato in funzione della massima spontaneità. Nulla deve essere sormontato solo di forza. Tutto infine deve venire fuori proprio da ciò che oppone la resistenza, che dunque necessariamente deve conservare la sua volontà fino all’estremo esaurimento. La trasformazione che gli è destinata non deve accadergli dall’esterno, essergli imposta, ma dall’interno, così che esso sia gradatamente spinto a consegnarsi ad essa spontaneamente. Solo in quanto la coscienza sia stata guidata attraverso tutti i possibili passaggi che intercorrono tra l’inizio e la fine, la conoscenza ultima, di cui si tratta, può essere un prodotto di un’esperienza completa e perciò esaurita. In quel principio, per quanto ora deviato dalla sua vera essenza, ciò che era all’origine (ossia in forza della destinazione ricevuta nella creazione) non era l’ente di per sé ma il puro porre Dio: in questo principio, sebbene sia ormai posto fuori di sè, fuori della sua vera essenza, in esso giace tuttavia la vera e l’ultima forza della conoscenza: esso non può essere distrutto, senza distruggere la conoscenza stessa. Nella lenta gradualità si mostra la legge, si mostra la provvidenza che dispone anche di questo movimento» (F.W.J. Schelling, Filosofia della mitologia, tr. it., Milano 1990, pp. 98-101). E più avanti: «Da personificazioni e concetti naturalistici escogitati dall’arido intelletto con poche cognizioni, sviluppati in virtù di un’arbitraria astrazione, paragonabili al più al gioco di un fanciullo, che potrebbero solo per qualche momento tenere occupato il loro autore, si sarebbe sviluppata la storia millenaria dell’errore dei popoli? Da un principio così debole e artificioso, si sarebbe mai potuto sviluppare l’oscuro e terribile potere della Fede. La mitologia nasce da un processo necessario la cui origine si perde al di sopra della storia e si nasconde in se stesso; a questo processo la coscienza si può opporre solo in momenti singoli, ma in complesso non lo può arrestare e ancor meno fare regredire» (Ib., p. 103).

Il problema della nascita del mito è simile al problema della nascita della religione, in quanto mito. Allo stesso modo il problema dell’esistenza del fenomeno della fede religiosa è simile al problema dell’esistenza del fenomeno millenaristico. Le direttive del pensiero di Schelling chiariscono come si produce l’assorbimento del fenomeno religioso all’interno dell’idea umana, intesa nel senso generale di idea collettiva di un popolo o di una comunità storica in un certo preciso momento dello svolgimento delle vicende umane. A noi importa un’altra interpretazione di questi passi. Il fatto mitico non può riguardarsi come una semplice invenzione del potere, ma è una produzione spontanea della coscienza umana in certe condizioni, una produzione attraverso la quale l’uomo deve passare per superarla e costruire, insieme alla liberazione delle altre sue dannose creazioni (ad esempio lo Stato), la società di domani.

Molto vicino a Schelling è l’autore della Vita di Gesù, David F. Strauss che, con tutte le limitazioni dell’epoca, aprì la strada alla moderna interpretazione della validità storica di questa figura: «... la mitologia del cristianesimo primitivo è alla pari con quella che troviamo nella storia delle origini delle religioni. In tempi recenti, il progresso compiuto dallo studio scientifico della mitologia ci ha dimostrato che il mito nella sua forma primitiva non è finzione consapevole voluta da un solo individuo, ma prodotto che sulle prime può anche essere espresso da un singolo individuo, ma che suscita fede proprio perché... non è una veste esteriore in cui un furbo avrebbe avvolto il bene per l’edificazione della massa ignorante, un’idea da lui escogitata, ma, al contrario, la storia da lui raccontata costituisce il mezzo attraverso il quale l’idea diventa consapevole a lui stesso mentre prima non la si riusciva a cogliere» (Das Leben Jesu, Kritisch Bearbeitet, vol. I, ns. tr., Tübingen 1835, p. 195).

Ma questo problema di come nasce un mito non ci fa capire il perché della sua nascita. Va bene che un mito, un complesso mitologico tanto difficile a costruirsi e a razionalizzarsi, non può essere un prodotto di un solo uomo o di un solo gruppo di uomini, ma deve essere sentito da un popolo o da una comunità più o meno estesa. Ma perché queste collettività avvertono questo bisogno?

Il mito diventa in definitiva un luogo estraneo alla volontà del singolo, un’illusione che approfitta della debolezza dell’individuo e la proietta verso un ideale posto fuori del mondo. La metafisica indica certi obiettivi, la religione altri, anche la rivoluzione può cadere in questo equivoco e proporne altri ancora. Miti che si accavallano a miti.

Molto penetrante la critica di Stirner: «Il regno degli spiriti è immenso, lo spirituale è infinitamente grande: vediamo più da vicino, tuttavia, che cos’è propriamente lo spirito, quest’eredità degli antichi.

«Lo spirito nacque dalle loro doglie, ma essi non seppero esprimersi alla maniera dello spirito: seppero partorirlo, ma parlare dovette da solo. Il “Dio partorito, il figlio dell’uomo” pronuncia per la prima volta la parola secondo cui lo spirito, cioè lui stesso, Dio, non ha niente a che fare con alcuna cosa terrena né con alcun rapporto terreno, ma esclusivamente con lo spirito e con i rapporti spirituali.

«Forse che il mio coraggio incrollabile sotto i colpi del mondo, la mia inflessibilità e la mia ostinazione sono già spirito nel pieno senso della parola, per il motivo che il mondo nulla può contro di loro? Se così fosse, si tratterebbe ancora di uno spirito in lotta col mondo e tutta la sua attività si ridurrebbe a non lasciarsi vincere da questo! No, finché lo spirito non si cura che di sé soltanto, finché non ha a che fare che col suo mondo solamente, col mondo spirituale, fino allora non è spirito libero, ma solo “spirito di questo mondo”, incatenato a “questo” mondo. Lo spirito è spirito libero, cioè realmente spirito, soltanto in un mondo suo proprio; in “questo” mondo, il mondo terreno, è uno straniero. Soltanto grazie a un mondo spirituale lo spirito è realmente spirito, perché “questo” mondo non lo comprende e non sa trattenere presso di sé “la fanciulla che viene da lontano”.

«Ma da dove verrà allo spirito questo mondo spirituale? Da dove se non da lui stesso? Lo spirito deve rivelarsi e le parole che pronuncia, le rivelazioni in cui si svela, sono il suo mondo. Un visionario vive soltanto nelle visioni della sua fantasia, ed esse sono il suo mondo; un pazzo si crea il suo mondo di sogni, senza il quale non sarebbe per l’appunto più pazzo: allo stesso modo lo spirito si crea il suo mondo di spiriti e non è spirito finché non se lo è creato.

«Sono dunque le sue creazioni a renderlo vero spirito e dalle creature si riconosce il creatore: in esse, che sono il suo mondo, egli vive.

«Che cos’è allora lo spirito? È il creatore di un mondo spirituale! Anche in te e in me viene riconosciuto un elemento spirituale solo quando si vede che ci siamo appropriati di qualcosa di spirituale, cioè di pensieri che noi, anche se ci sono stati presentati da altri, abbiamo reso vivi in noi stessi; infatti, finché eravamo bambini, ci avrebbero potuto presentare i pensieri più edificanti, ma noi non avremmo avuto la volontà o la capacità di riprodurli in noi. Così anche lo spirito è tale solo se crea qualcosa di spirituale: è reale solo insieme allo spirituale, sua creatura.

«Ma allora, giacché lo riconosciamo dalle sue opere, è il caso di chiedersi che cosa esse siano. Le opere dello spirito, i suoi figli, non sono altro che – spiriti.

«Se avessi davanti a me degli ebrei, ma di quelli veri, dovrei smettere qui e abbandonarli davanti a questo mistero, davanti al quale si sono arrestati, increduli e ignari, da quasi duemila anni. Ma siccome tu, mio caro lettore, non sei, per lo meno, un ebreo purosangue (altrimenti non ti saresti lasciato trascinare fin qui), facciamo ancora insieme un pezzo di strada, finché anche tu forse mi volterai le spalle, perché io ti riderò in faccia.

«Se qualcuno ti dicesse che tu sei tutto spirito, ti tasteresti il corpo e, non credendogli, gli risponderesti: io ho certo uno spirito, ma non esisto solo come spirito, bensì come uomo in carne ed ossa. Tu faresti pur sempre una distinzione fra te e il “tuo spirito”. Ma quello ti replicherebbe: anche se tu adesso sei ancora appesantito dalle catene della vita, la tua destinazione è di diventare, un giorno, uno “spirito beato” e, in qualunque modo tu ti rappresenti l’aspetto futuro di questo spirito, una cosa tuttavia è certa: con la morte ti spoglierai di questo corpo, eppure conserverai te stesso, cioè il tuo spirito, per l’eternità; perciò è il tuo spirito ciò che vi è di eterno e di vero in te: il corpo è solo una dimora terrena che tu abbandonerai e forse cambierai con un’altra.

«Adesso gli credi! Certo, per ora tu non sei solo spirito, ma quando un giorno te ne partirai dalla vita mortale, dovrai fare a meno del corpo e allora bisogna che tu provveda a te stesso e curi per tempo il tuo vero io. “A che servirebbe all’uomo conquistare tutto il mondo, se la sua anima dovesse soffrirne?”.

«Ma anche ammettendo che i dubbi che sono stati sollevati nel corso del tempo contro i princìpi della fede cristiana ti abbiano privato della fede nell’immortalità del tuo spirito, c’è tuttavia un principio che hai lasciato intatto e una verità a cui continui ad appigliarti ingenuamente, e cioè che lo spirito è la miglior parte di te e che ciò che è spirituale ha più diritti su di te di ogni altra cosa. Nonostante tutto il tuo ateismo, tu concordi con chi crede all’immortalità nello zelo contro l’egoismo.

«Ma chi è per te un egoista? Un uomo che, invece di vivere per un’idea, cioè per qualcosa di spirituale, e di sacrificarle il suo vantaggio personale, serve quest’ultimo. Un buon patriota, per esempio, porta il suo sacrificio sull’altare della patria; che la patria sia un’idea è indiscutibile, perché per gli animali, che non hanno spirito, e per i bambini, il cui spirito non è ancora sviluppato, non c’è patria né patriottismo. Se uno non si dimostra buon patriota, rivela, in relazione alla patria, il suo egoismo. Lo stesso accade in mille altri casi: chi trae vantaggio, nella società umana, da un privilegio, pecca da egoista contro l’idea dell’eguaglianza; chi esercita il dominio, viene tacciato di egoismo contro l’idea di libertà, e così via.

«Perciò tu disprezzi l’egoista, perché pospone lo spirituale al personale e si cura di sé, mentre tu vorresti vederlo agire per amore di un’idea. Voi siete diversi, perché il centro è, per te, lo spirito, per lui, invece, se stesso; ossia perché tu sdoppi il tuo io e innalzi il tuo “vero io”, lo spirito, a signore di tutto il resto, che consideri privo di valore, mentre quello non vuol saperne di questo sdoppiamento e segue appunto a suo piacimento interessi spirituali e materiali. Tu pensi di scagliarti solo contro chi non nutre alcun interesse spirituale, ma in realtà maledici tutti coloro che non vedono nell’interesse spirituale ciò che per loro è “più vero e più alto”. Sei come un cavaliere tutto preso dalla sua bella e affermi che non c’è altra bellezza al mondo. Tu non vivi per te, ma per il tuo spirito e per ciò che appartiene allo spirito, cioè per le idee.

«Poiché lo spirito è tale solo in quanto crea ciò che è spirituale, guardiamoci intorno alla ricerca della sua prima creazione. Una volta che ha compiuto questa, infatti, ne segue una riproduzione naturale di creazioni, così come, secondo il mito, soltanto i primi uomini dovettero essere creati e poi la specie si riprodusse da sé. La prima creazione, invece, deve venire “dal niente”, cioè lo spirito non ha a disposizione che se stesso per realizzarla o, piuttosto, non ha ancora neppure se stesso, ma si deve creare: la sua prima creazione è perciò lui stesso, lo spirito. Per quanto ciò possa sembrare mistico, pure lo viviamo come una esperienza quotidiana. Sei un essere pensante prima che tu pensi? Nel momento in cui tu crei il primo pensiero, crei te stesso come pensante, infatti tu non pensi prima di pensare (cioè di avere) un pensiero. Non è forse solo il tuo canto a far di te un cantante e la tua parola a far di te un parlante? Allo stesso modo è soltanto la produzione di ciò che è spirituale a far di te uno spirito.

«Ma come ti distingui dal pensante, dal cantante e dal parlante, così pure ti distingui dallo spirito e senti assai bene che sei anche qualcos’altro, oltre che spirito. Ma come l’io pensante, nell’entusiasmo del pensare spesso non vede né sente più, così anche tu sei stato preso dall’entusiasmo dello spirito e aneli con tutte le tue forze a diventare tutto spirito e a farti assorbire nello spirito. Lo spirito è il tuo ideale non ancora raggiunto, il tuo aldilà: lo spirito è il tuo – Dio, “Dio è spirito”.

«Tu perseguiti da fanatico tutto ciò che non è spirito e perciò ti accanisci anche contro te stesso, perché non riesci a liberarti del tutto di un residuo non spirituale. Invece di dire: “Io sono più che spirito”, tu dici contrito: “Io sono meno che spirito. Lo spirito, il puro spirito, lo spirito che non è altro che spirito me lo posso immaginare, ma non sono io e siccome non lo sono, vuol dire che è un altro, è l’altro che io chiamo ‘Dio’”.

«È nella natura della cosa che lo spirito che deve esistere come puro spirito appartenga a un aldilà: giacché io non lo sono, non può essere che fuori di me; giacché un uomo non può assolutamente dissolversi del tutto nel concetto di “spirito”, il puro spirito, lo spirito come tale, non può essere che fuori degli uomini, al di là del mondo umano, non in terra, ma in cielo.

«Il fatto che lo spirito dimori necessariamente nell’aldilà, cioè sia Dio, si chiarisce in modo del tutto tautologico soltanto sulla base di questo dissidio in cui io e lo spirito ci troviamo, soltanto per il fatto che io e spirito non sono nomi che designano una ed una sola cosa, ma nomi diversi per cose totalmente diverse; soltanto per il fatto che l’io non è spirito e lo spirito non è l’io.

«Ma da tutto ciò risulta anche che la liberazione che Feuerbach [Das Wesen des Christentums, seconda edizione aumentata, Leipzig 1843] si sforza di regalarci è puramente teologica, cioè piena di sapienza divina. Infatti egli afferma che noi abbiamo disconosciuto la nostra propria essenza e l’abbiamo perciò cercata nell’aldilà; ma adesso, essendoci accorti che Dio non è altro che la nostra essenza umana, dovremmo riconoscerla nuovamente come nostra e trasferirla dall’aldilà nell’aldiqua. Il Dio che è spirito viene chiamato da Feuerbach “nostra essenza”. Ma noi dobbiamo accettare che la “nostra essenza” venga messa in opposizione a noi stessi, dobbiamo accettare di venir spaccati in un io essenziale e in un io inessenziale? Non ricadiamo così nel triste e miserevole destino di venir esiliati da noi stessi?

«Che cosa ci guadagniamo se, per cambiare, spostiamo il divino da fuori di noi a dentro di noi? Siamo noi ciò che è in noi? Tanto poco quanto siamo ciò che è fuori di noi. Io sono così poco il mio cuore quanto sono la mia amata del cuore, che pure è “un altro me stesso”. Proprio perché noi non siamo lo spirito che abita in noi, abbiamo dovuto porlo fuori di noi: non era noi, non faceva tutt’uno con noi e perciò non abbiamo potuto pensarlo esistente se non fuori di noi, al di là di noi, nell’aldilà.

«Feuerbach, con la forza della disperazione, afferra l’intero contenuto del cristianesimo, non per buttarlo via, ma per trarlo a sé (giacché a lungo l’abbiamo desiderato, ma è sempre rimasto lontano), per strapparlo, con un ultimo sforzo, dal suo cielo e per tenerlo eternamente presso di sé. Non si tratta forse di un ultimo gesto di disperazione, col quale si decide la vita e la morte, e non si tratta al tempo stesso del desiderio struggente, dell’anelito cristiano verso l’aldilà? L’eroe non vuol partire per l’aldilà, ma vuole attirarlo a sé e costringerlo a diventare aldiqua! E da allora non grida tutto il mondo, con maggiore o minore consapevolezza, che ciò che importa è l’“aldiqua” e che il cielo deve venire sulla terra, affinché possiamo viverlo già da adesso?

«Mettiamo brevemente a confronto il punto di vista teologico di Feuerbach e la nostra confutazione! “L’essenza [Wesen] dell’uomo è l’essere [Wesen] supremo dell’uomo; esso viene sì chiamato Dio dalla religione e considerato un essere oggettivo, ma in verità non è che l’essenza propria dell’uomo. Questo è perciò il punto di svolta della storia universale: d’ora in avanti per l’uomo Dio non apparirà più come Dio, ma sarà l’uomo ad apparire come Dio”. [Cfr. L. Feuerbach, op. cit., p. 402].

«Noi replichiamo: “L’essere supremo è certamente l’essenza dell’uomo, ma appunto perché è la sua essenza e non lui stesso è perfettamente identico che noi lo vediamo fuori di lui e lo consideriamo ‘Dio’ oppure che lo troviamo in lui e lo chiamiamo ‘essenza dell’uomo’ oppure ‘l’uomo’. Io non sono né Dio, né l’uomo, né l’essere supremo, né la mia essenza e perciò in fin dei conti non cambia niente se io penso l’essenza in me o fuori di me. Infatti noi pensiamo effettivamente già da sempre l’essere supremo in un doppio aldilà, interiore ed esteriore al tempo stesso: lo ‘spirito di Dio’, infatti, è secondo la concezione cristiana anche il ‘nostro spirito’ e ‘abita in noi’. [Cfr. Romani, 8, 9; 1a Corinti, 3, 16; Giovanni, 20, 22 e innumerevoli altri passi]. Lo spirito dimora in cielo e dimora in noi; noi povere cose non siamo appunto nient’altro che la sua ‘dimora’ e se Feuerbach adesso distrugge la sua dimora celeste e lo obbliga a trasferirsi con armi e bagagli da noi, ho paura che noi, suo alloggio terreno, saremo un po’ sovraffollati”.

«Ma dopo questa digressione, che avremmo dovuto rimandare a dopo, se ci preoccupassimo in genere di procedere dritti, evitando le ripetizioni, torniamo alla prima creazione dello spirito, allo spirito stesso.

«Lo spirito è qualcos’altro da me. Ma che cos’è mai questo qualcos’altro?» (L’unico e la sua proprietà, tr. it., Trieste 2012, pp. 28-32).

Non è sufficiente abbattere gli idoli per trasferire tutto, armi e bagagli, nella dimensione dell’uomo se questa viene innalzata al livello che prima era occupato dagli idoli.

La soluzione è abbastanza semplice. Le masse sfruttate avvertono il bisogno di scaricare la propria alienazione in qualche cosa di ideale, qualche cosa che si traduca per loro in un sostegno per sopravvivere, un sostegno di natura morale ma di grande effetto, un sostegno che li aiuti a sopportare la catena, la frusta, la galera, i remi a vita, la schiavitù, il feudalesimo, la tirannia dei nuovi arricchiti del comune medievale, il dispotismo delle signorie, l’assolutismo dei re, l’ottusità e il provincialismo dei viceré, la tirannia economica dei latifondisti, lo sfruttamento razionale nelle fabbriche. Questo qualche cosa viene guardato gelosamente dalla massa dolorante, come un patrimonio personale, contaminato dalle sozze mani di coloro (preti, politici, intellettuali) che sono incapaci di cogliere l’essenza umana del mito. Questo fondamento regge la religione come pure qualsiasi istanza di liberazione a sfondo millenaristico che muova le masse.

Quando Nietzsche lancia il grido: Dio è morto! nella Gaia Scienza, intende il Dio della metafisica e della teologia, in quanto la prima si basa su di una causa prima come la seconda, un primo motore di bontà assoluta, fondamento dei valori. Così egli scrive: «L’uomo folle. – Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatòri, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione piú grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!”. A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. “Vengo troppo presto – proseguì – non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è ancora sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!”. Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: “Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?”» (Gaia scienza, 125). Il legame coscienza-imperativo, strettamente consolidato da Kant, si è sciolto, non esiste obbligo, la cultura ha ucciso Dio. Lo stesso Freud considera finito il Dio del cristianesimo e ne racchiude il mito nell’istituzione nascente del diritto: l’assassinio del padre, il dramma primitivo che la cultura tende a fare scomparire con l’emersione della coscienza. «Prendiamo in considerazione – egli scrive – la genesi psichica delle rappresentazioni religiose. Queste, che si presentano come dogmi, non sono precipitati dell’esperienza o risultati finali del pensiero, sono illusioni [...]. Caratteristico dell’illusione è derivare dai desideri umani; per tale aspetto essa si avvicina ai deliri psichiatrici [...]. Chiamiamo dunque illusione una credenza, quando nella sua motivazione prevale l’appagamento di desiderio, e prescindiamo perciò dal suo rapporto con la realtà, proprio come l’illusione stessa rinunzia alla propria convalida» (L’avvenire di un’illusione in Il disagio della civiltà, tr. it., Torino, 1971, pp. 170-171).

Il mito del mondo moderno è ancora la religiosità con cui viene guardato il processo di liberazione. Certo la situazione economica più sviluppata, la presenza di un proletariato industriale ormai radicato nelle città, una vita molto più intensa dal punto di vista culturale e generale, imprime a questa istanza un significato molto diverso di quello che aveva in passato (poniamo nel Medioevo), ma ciò non toglie che sia possibile vedervi anche questo aspetto, in particolare nella speranza della liberazione.

Il bandito è visto in questa prospettiva. Il ribelle ha una duplice validità: come uomo singolo che sfida la legge e quindi prende coscienza di questa sfida e l’accetta responsabilizzandosi alle conseguenze, e come simbolo che solidifica aspirazioni irrazionali. Se nel primo aspetto il bandito è segno della rottura del cerchio dell’alienazione e dell’integrazione, sotto il secondo aspetto può diventare uno degli strumenti attraverso cui l’alienazione e l’integrazione potranno essere mantenute nell’apparente trasformazione. Esattamente Albert Camus: «Tale è la ragione per cui non posso perdermi nell’esaltazione o nella semplice definizione di una nozione, che mi sfugge e perde senso, dal momento in cui oltrepassa la cornice della mia esperienza individuale. Non posso capire che cosa sia una libertà che mi verrebbe data da un essere superiore. Ho perso il senso della gerarchia. Della libertà posso avere soltanto il concetto che ha il prigioniero o l’individuo moderno in seno allo Stato. La sola libertà che conosco è quella dello spirito e dell’azione. Ora, se l’assurdo annienta tutte le mie probabilità di libertà eterna, mi restituisce, invece, esaltandola, la mia libertà d’azione. Questa privazione di speranza e di avvenire significa un accrescimento nelle disponibilità dell’uomo. Prima di incontrare l’assurdo, l’uomo quotidiano vive con degli scopi e con il pensiero dell’avvenire o della giustificazione (rispetto a chi e a che cosa non importa). Egli valuta le proprie possibilità, fa assegnamento sul più tardi, sulla pensione o sul lavoro dei figli, crede anche che nella sua vita qualche cosa possa avere una direzione. In realtà, egli agisce come se fosse libero, anche se tutti i fatti si incaricano di contraddire tale libertà. Ma, dopo la scoperta dell’assurdo, tutto si trova sconvolto. L’idea che “io sono”, il mio modo d’agire come se tutto avesse un senso (anche se, all’occorrenza, dicevo che niente lo ha), ogni cosa si trova smentita in modo vertiginoso dalla assurdità di una possibile morte. Pensare al domani, fissarsi uno scopo, avere preferenze, tutto suppone la credenza nella libertà, anche se a volere si è sicuri di non averne la prova. Ma, a questo punto, so bene che la libertà superiore, la libertà di essere, che sola può fondare una verità, non esiste. La morte è là, di fronte, come la sola realtà. Dopo questo tutto è finito. Non sono più libero di perpetuarmi, ma schiavo; e schiavo soprattutto senza speranza di un’eterna rivoluzione, senza possibilità di ricorrere al disprezzo. E chi mai senza rivoluzione e senza disprezzo può restare schiavo? Quale libertà, in senso assoluto, può esistere, senza sicurezza dell’eternità? Ma nello stesso tempo, l’uomo assurdo capisce che fino a questo momento era legato a un postulato di libertà, sulla cui illusione viveva. In un certo senso ciò lo impastoiava. In quanto immaginava uno scopo della vita, si conformava alle esigenze di una meta da raggiungere, e diveniva schiavo della propria libertà. Così, io non potrei più agire in modo diverso da un padre di famiglia (da un ingegnere o da un reggitore di popoli o da un impiegato aggiunto delle Poste) quale mi preparo ad essere. Credo di poter scegliere di essere questa piuttosto che un’altra cosa. Lo credo inconsciamente, è vero, ma io appoggio contemporaneamente il postulato sulle credenze di coloro che mi circondano e sui pregiudizi del mio ambiente umano (gli altri sono così sicuri di essere liberi e questo ottimismo è così contagioso!). Per quanto lontani ci si possa tener da tutti i pregiudizi, morali o sociali, si subiscono in parte, e, per ciò che riguarda i migliori fra questi (in quanto vi sono pregiudizi buoni e cattivi), si conforma ad essi persino la propria vita. Così l’uomo assurdo capisce che, in realtà, non era libero. Per parlar chiaro, nella misura in cui spero o mi do pensiero di una verità che mi sia propria, di un modo di essere o di creare, nella misura in cui ordino la mia vita e provo, con ciò stesso, di ammettere che essa abbia un senso, mi creo barriere entro le quali rinchiudo la mia vita. Faccio come tanti magistrati dello spirito e del cuore, che mi ispirano solamente disgusto e che non fanno altro – lo vedo bene adesso – che prendere sul serio la libertà dell’uomo. L’assurdo mi illumina su questo punto! non esiste un domani. Ecco ormai la ragione della mia profonda libertà. Prenderò, a questo punto, due paragoni. I mistici, a prima vista, trovano da darsi una libertà. Annientandosi nel loro dio, consentendo alle sue regole, diventano a loro volta segretamente liberi. È nella schiavitù spontaneamente accettata che essi ritrovano una profonda indipendenza. Ma che cosa significa tale libertà? Si può dire principalmente che si sentono liberi di fronte a se stessi e, soprattutto, più liberati che liberi. Così pure l’uomo assurdo, volto interamente verso la morte (presa qui come la più evidente assurdità) si sente sciolto da tutto ciò che non sia l’appassionata attenzione, che in lui si cristallizza. Egli assapora una libertà rispetto alle regole comuni. Si vede qui che i temi da cui parte la filosofia esistenzialista conservano tutto il loro valore. Il ritorno alla coscienza, l’evasione del sonno quotidiano rappresentano i primi passi della libertà assurda. Ma è la predicazione esistenzialista che viene presa di mira e, con questa, quel salto spirituale che, in fondo, sfugge alla coscienza. Allo stesso modo (è il mio secondo paragone) gli schiavi dell’antichità non appartenevano a se stessi, ma conoscevano quella libertà che consiste nel non sentirsi responsabili. (Si tratta qui di un paragone di fatto e non di un’apologia dell’umiltà. L’uomo assurdo è il contrario dell’uomo riconciliato). Anche la morte ha mani patrizie, che schiacciano, ma liberano. Nell’inabissarsi in questa certezza senza fondo, nel sentirsi ormai abbastanza estranei alla propria vita per accrescerla e percorrerla senza la miopia degli amanti, c’è già il principio di una liberazione. Questa nuova indipendenza è a termine, come ogni libertà di azione, e non stacca un assegno sull’eternità; ma sostituisce le illusioni della libertà, che si fermavano tutte alla morte. La divina disponibilità del condannato a morte, davanti al quale si aprono le porte della prigione all’albeggiare di un determinato giorno, l’incredibile disinteresse per tutto, salvo per la pura fiamma della vita – lo si intuisce – la morte e l’assurdo sono, in questo caso, i princìpi della sola libertà ragionevole: quella che un cuore umano può provare e può vivere. Ecco la seconda conseguenza. L’uomo assurdo intravede così un universo ardente e gelato, trasparente e limitato, dove nulla è possibile, ma tutto è dato; e dopo il quale vi è lo sprofondamento e il nulla. Egli può allora decidere di accettare la vita in un tale universo e di trarne la propria forza, il rifiuto a sperare la prova ostinata di una vita senza consolazione. Ma che cosa significa la vita in un universo del genere? Niente altro, per ora, che indifferenza per l’avvenire e passione di esaurire tutto ciò che ci è dato. La credenza nel senso della vita suppone sempre una scala di valori, una scelta delle preferenze. La credenza nell’assurdo, secondo le nostre definizioni, insegna il contrario. Ma qui vale la pena di soffermarsi. Sapere se si può vivere senza richiamo è ciò che mi interessa, e non voglio uscire da questo campo. Posso accontentarmi di questo aspetto della vita giacché mi è stato dato? Ora, di fronte questa particolare apprensione, la credenza nell’assurdo torna a sostituire la qualità delle esperienze con la quantità. Se mi persuado che questa vita non ha altro aspetto che quello dell’assurdo, se provo che tutto il suo equilibrio dipende dalla perpetua opposizione fra la mia rivolta cosciente e l’oscurità in cui questa si dibatte, se ammetto che la mia libertà non ha senso che rispetto al suo destino limitato, allora devo dire che ciò che importa non è vivere il meglio, ma il più possibile. [...] Sentire la propria vita, la propria rivolta e la propria libertà il più intensamente possibile, equivale a vivere il più possibile. Dove regna la lucidità, la scala dei valori diventa inutile. Siamo ancora più semplicisti: diciamo che il solo ostacolo, il solo fallo nel conseguimento della vittoria è costituito dalla morte prematura. Così traggo dall’assurdo tre conseguenze, che sono la mia rivolta, la mia libertà e la mia passione. Per mezzo del solo giuoco della coscienza, trasformo in regola di vita ciò che era un invito alla morte – e rifiuto il suicidio» (Il mito di Sisifo, tr. it., in Opere, Milano 1969, vol. II, pp. 50-51, 55-56, 59-70). Le tesi di questo straordinario pensatore, negletto a paragone di tanti imbonitori che hanno avuto più spazio di lui – vedi Sartre, tanto per restare in argomento – si possono riassumere in questa frase: “La verità come la luce acceca. La menzogna, invece, è un bel crepuscolo, che mette in valore tutti gli oggetti”.

Da ciò si potrebbe ricavare una conclusione negativa nei confronti del problema nel suo complesso. Ma prima di sottoscriverla bisogna considerare che la rivolta del bandito è anche un segno della ribellione che parte dalla base, che si erge contro le barriere della legge per superarle senza l’aiuto di schemi rigidi. In altre parole, valutato nel suo più profondo significato, liberato da tutte le componenti estranee che lo deformano, restituito al suo originale motivo, il fenomeno del banditismo sociale è una manifestazione di azione diretta nella lotta contro il potere.

Banditismo sociale e letteratura popolare

La letteratura popolare assume la figura e le gesta del bandito a livello della tradizione e le trasforma in mito. In questo modo il bandito diventa un simbolo per le masse sfruttate. Operazioni di questo genere sono di grande successo nelle popolazioni di tradizione e di formazione contadina. I pochi tentativi a livello urbano non hanno nulla della grandiosità e dell’importanza delle testimonianze relative al banditismo sociale nelle campagne.

La situazione di sfruttamento non solo determina il fenomeno sociale ma ne sollecita le sovrastrutture ideologiche, che, in un certo senso, concorrono a cristallizzare il fenomeno a livello simbolico, mentre in un’altra prospettiva, cioè nella possibile compresenza di una minoranza agente sufficientemente valida, concorrono a staccare la realtà dalla voluta mistificazione della classe dominante. Questo duplice aspetto dell’azione simbolica della letteratura popolare deve essere tenuto presente nell’indagine che svolgeremo, valutando opportunamente, di volta in volta, le carenze in un senso e gli sforzi nell’altro.

C’è da aggiungere che questo filone della letteratura popolare trova origine in ambienti lontani dal ristretto ambito accademico dei chierici, ambienti di analfabeti che si tramandano tradizioni e ricordi, ballate e piccole storie, con l’ingenuità e la freschezza dei primitivi. Eppure, spesso, questo patrimonio ci arriva già contaminato, già intaccato dall’azione istituzionalizzante dei gruppi culturali di potere: degenerazione a volte inconsapevole e a volte consapevole, degenerazione colta e degenerazione semplicemente furfantesca. Il problema è gravissimo per il periodo medievale. Scrive Erich Auerbach: «Nelle Chansons de geste ci sono elementi, formulari, caratteristici della tradizione orale; ma quest’uso delle formule apparteneva già alla tradizione arcaica del XII secolo. Anche dei manoscritti della prima scolastica, che circolavano tra le mani dei maestri e dei discepoli del XII secolo, relativamente poco ci è rimasto. Ma soprattutto è decisiva la circostanza che prima del 1150 il numero dei principi e degli altri mecenati per i quali venivano preparati i costosi e solidi manoscritti di opere in lingua popolare era ancora insignificante. Questo ceto sorse e crebbe molto lentamente. Non c’era ancora un mercato per i manoscritti in lingua popolare» (Lingua letteraria e pubblica nella tarda antichità latina e nel Medioevo, tr. it., Milano 1960, p. 262).

Non che sia popolare o primitiva la poesia della Chanson de Roland, in quanto si tratta sempre di una rielaborazione colta, ma quello che conta è che siamo davanti ad un genere “nuovo o vecchio che sia non ha importanza”, che colpisce nel segno e che riporta alla riflessione poetica di certi ambienti le tradizioni storiche, mescolandole alla leggenda e trasformandole in mito. Il senso politico e sociale dell’operazione non ha molti dubbi. La costruzione di un mito è fatto ideologico che soltanto di riflesso può essere utilizzato come passatempo dalla classe dominante. In pratica esso non abbandona mai la sua sostanza di “guida” e di “orientamento” per le masse. Allora, intuendo questa prospettiva, diventa possibile comprendere lo strano miscuglio di religiosità e civile virilità che viene fuori dalle lunghe costruzioni della “cavalleria letteraria”. L’elemento epico, la presenza del ribelle che, incontaminato, lotta in nome della giustizia, finiscono per venire sommersi dalla grande farragine di invocazioni religiose e di “formule” dirette a stabilire l’indottrinamento di chi poteva essere indottrinato solo attraverso il racconto e la favola.

La persistenza del tema di Rinaldo ribelle ha riscontro nella tematica di altri ambienti come quello tedesco. Se l’attenzione è accentrata sull’eroe principale, ad esempio l’Alexander attribuito al pfaffe Lamprecht, simbolo di potenza e di purezza, detentore del hort, non manca la possibilità, spesso mal riuscita ma costante, di tratteggiare la figura del ribelle. In pratica queste creazioni, come il Rolandslied attribuito al pfaffe Konrad, sono funzionali ad una società ben precisa, una welt che non è ancora cosciente del proprio ruolo storico ma che comincia a sentire odore di dominio. È la società che sosterrà lo sforzo della nuova generazione, quella di Barbarossa che conquista Roma e della dieta di Roncaglia. Il clima psicologico tedesco sottolinea, in contrasto con quello francese, l’elemento etico-religioso, il conflitto tra dovere e dovere. Non manca un accostamento tra Orlando e Cristo, almeno nello scoppio di una furiosa tempesta al momento della morte dell’eroe. La presenza delle letture della Bibbia è chiarissima. (Cfr. C. Gruenanger, Storia della letteratura tedesca medievale, Milano 1960, pp. 109 e sgg.).

Verso la metà del XII secolo le lotte feudali infransero l’unità della terra russa e Kiev cadde preda di conflitti insanabili. Nel 1223 Genghis Khan passa il Volga e sconfigge i Russi, alleati ai Cumani, nei pressi del Mare d’Azov. Poi, dopo qualche decennio, è la volta dei Tartari che annullano la potenza dei Mongoli. In questa lotta di resistenza contro l’invasore si colloca la figura di Igor Svjatoslavič, principe di Novgorod-Sèversk che, fatto prigioniero, riesce a fuggire. La vicenda è narrata in un testo che prende il nome di Slovo di Jgor. (Cfr. R. Picchio, Storia della letteratura russa antica, Milano 1959, p. 97). Ma in definitiva la vicenda epica è sommersa, come nel caso dei testi tedeschi, dagli intenti moralistici della predica ecclesiastica.

Sempre ammantata da un alone religioso anche la successiva figura di Aleksandr Nevskij, che lotta contro Svedesi e Tedeschi. Questa volta, però, alcuni elementi sono più terreni: «... era la sua statura superiore a quella degli altri uomini e la sua voce come tromba sulle genti, il suo volto era come quello di Giuseppe, che l’imperatore d’Egitto fece secondo sovrano. La sua forza derivava dalla forza di Sansone e la sua saggezza era quella di Salomone» (Ib., p. 116).

Fin nel secolo XVI si ebbero rielaborazioni di poemi epici in Russia in cui si narravano le imprese memorabili dei paladini di Bisanzio e di quelli del principe Vladimir, lotte finite con la vittoria di questi ultimi. Siamo davanti a produzioni della letteratura dotta ma con elementi di chiara provenienza popolare. Quando la Polonia tenta l’invasione della Russia per costruire un grande impero cattolico derivante dalla fusione con gli ortodossi, focolai di resistenza danno vita ad una notevole produzione epica.

Si iniziano le prime rivolte contadine della storia russa. Nel 1603 a guidare queste rivolte è Chlopko Kosopal, che arriva fino a minacciare Mosca. Nel 1606-1607, un esercito di contadini guidato da Ivan Bolotnikov cerca di sostituire il potere in carica.

La situazione dei contadini peggiora sempre di più e rende la vita impossibile ad intere comunità che si trasferiscono, nel corso del secolo XVI, verso la zona del basso Don, prendendo il nome di cosacchi, cioè uomini liberi. Siamo davanti a comunità che vivono di preda e di saccheggio e che sono guidate da capi elettivi. Arrivano a conquistare anche la piazzaforte di Azov, sottraendola ai Turchi e difendendola in un lunghissimo assedio. Diffusa, verso la metà del secolo, la leggenda di Uruslan, un bogatyr, specie di brigante dalla forza straordinaria, un cavaliere in cerca di avventure, libero da qualsiasi dipendenza da re o principi. Una leggenda parla di questo Uruslan narrando che da solo sconfigge gli eserciti, fa lunghi e favolosi viaggi, conquista regni e libera belle principesse, concludendo col fare il cosacco, cioè col vivere una vita libera e avventurosa. (Cfr. ib., p. 299).

Solo alla fine del XVII secolo l’inglese Richard James, il quale soggiornò ad Arcangelo, trascrisse rielaborazioni di canti e leggende che venivano diffusi nelle campagne e nelle città da cantastorie, saltimbanchi e pellegrini. Nel 1770 il cosacco Kirsa Danilov registrò vari canti della Siberia occidentale. Scrive Picchio: «Il termine “bylina”, adottato dagli studiosi russi moderni ed entrato nel linguaggio scientifico internazionale, indica i canti epici, composti in ambiente popolare soprattutto nelle età kieviana e tartarica e distinti dai posteriori “canti storici” in virtù d’una maggiore libertà nella trattazione di temi riecheggianti eventi reali» (Ib., p. 365).

Gli eroi delle byline anticorusse sono detti bogatyri, termine col quale vuole farsi riferimento al valore di questi uomini trasformati in mito. Spesso si è voluto vedere in questi simboli il significato della lotta per l’insediamento del potere centrale contro le tendenze nomadi. Se fosse vera questa tesi non ci sarebbe stata una netta differenziazione tra i cicli relativi a questi eroi primitivi e i cicli delle imprese belliche di Novgorod, in cui si nota l’indirizzo borghese, meno amante di alcuni aspetti caratteristici del primo ciclo e più interessato ad esaltare l’elemento religioso.

In queste byline è possibile identificare un’ideologia contadina antinobiliare, con frequenti casi in cui viene dimostrato come la forza comune dei contadini, personificata nell’aratro, sia più efficace anche della stessa spada del prode guerriero. Il’ja Muromeč è il personaggio principale delle byline, intorno alla sua figura le leggende si intrecciano in modo incredibile fino a farne quasi un santo. Lotta contro i briganti, ma è brigante lui stesso. Serve il principe, ma poi si adira contro di lui e a colpi di freccia stacca le cuspidi d’oro delle chiese vendendole e col denaro ricavato offre da bere a tutta la marmaglia delle bettole. (Cfr. P. Kropotkin, La literatura rusa, los ideales y la realidad, tr. spag., Buenos Aires 1943, p. 22 e sgg. Di questo lavoro esiste una traduzione italiana di E. Lo Gatto, pubblicata dalle Edizioni Anarchismo, Catania 1980).

Nella frontiera dell’Eufrate aspre lotte si svolsero tra Arabi e Bizantini intorno ai primi secoli della conquista araba. In questo clima si sviluppò il mito degli akriti i custodi delle frontiere (akre). Nella letteratura neogreca il simbolo più importante di queste lotte è Basilio Digenis Akritas. Fra diverse redazioni ci è giunto un poema di circa 5.000 versi. (Questo poema venne reso noto la prima volta nel 1875 con la pubblicazione del manoscritto trovato nella biblioteca di Trebisonda. C. Sathas e E. Legrand, Les exploits de Dihénis Acritas, épopée byzantine du dixième siècle publiée pour la première fois d’après le manuscripte unique de Trébizonde, Paris 1875). Non si tratta di un fatto letterario molto importante, ma per noi è notevole sottolineare che questo eroe mitico, nel corso di diverse mirabolanti gesta, attacca e sconfigge trecento apelati (briganti). Siamo davanti ad una differenziazione tra due tipi di brigantaggio: il primo, quello di Akritas, che viene riconosciuto di carattere positivo (custodia delle frontiere) e che, in un certo senso, si riporta al fenomeno visto prima dei cosacchi; e un secondo, di carattere negativo, quello degli apelati, considerati predoni senza patria e senza onore. (Cfr. B. Lavagnini, op. cit., pp. 20 e sgg.).

Con la dinastia dei Selgiuchidi le terre musulmane della Siria, fino all’Afghanistan, vengono a trovarsi sotto una nuova dinastia. I Selgiuchidi erano di origine turca e costituivano una delle tante ondate turco-mongole che partendo dall’Asia centrale si riversarono sull’Occidente. Questo sultanato combatte ferocemente contro Bizantini e Fatimidi. In pratica i Fatimidi costituiscono l’ala estremista islamica venendo considerati come aderenti agli anti-califfi discendenti dal genero del Profeta. Tutta questa storia è qui interessante in quanto intorno al XII secolo essi svilupparono una vastissima organizzazione rivoluzionaria segreta diretta a distruggere l’impero dei Selgiuchidi. All’intemo dello Stato selgiuchide i Fatimidi si organizzano sulle montagne e formano dei centri di propaganda che per tanto tempo si sono considerati di tipo nazionalista, ma che oggi gli studiosi tentano di rileggere sulla base di alcune conclusioni politico-sociali cui gli stessi aderenti all’organizzazione erano arrivati. Questa setta prese il nome di setta del Maestro che sta sulle Montagne (letteralmente) o, erroneamente, del Vecchio della Montagna, secondo la leggenda riportata nel Milione di Marco Polo. I suoi aderenti presero il nome di hascîsciyîn, gente che usa l’hascisc, o di assassini.

«Fino a non molto tempo fa si possedevano, a proposito di questa setta, informazioni esclusivamente provenienti da fonti nemiche e di conseguenza troppo negativo è stato il giudizio di certi studiosi europei. Le susseguenti scoperte ed edizioni di testi genuinamente ismailiti sembra abbiano ora messo in una più favorevole luce questi “assassini”, che per certi aspetti non sono poi così eterodossi come si son voluti mostrare né, tanto meno, eticamente così abietti quali la contropropaganda selgiuchide ce li ha presentati» (A. Pagliaro, A. Bausani, Storia della letteratura persiana, Milano 1960, p. 172).

Il grado più basso dell’organizzazione era quello fedâ’î (pronto al sacrificio). Pratica comune di questi guerriglieri, una volta catturati e torturati per confessare i nomi degli altri membri dell’organizzazione, era quella di confessare prima di morire come nomi di loro amici quelli di alti funzionari nemici della setta. Nella psicosi di caccia alle streghe i coraggiosi combattenti trascinavano nella tomba anche i loro avversari.

La formazione della canzone popolare lettone può essere fatta risalire attorno al XIII secolo. Esaltazioni del lavoro contadino risalgono addirittura al XII secolo. (E. Blese, Letteratura Lettone in Storia delle letterature baltiche, a cura di G. Devoto, Milano 1963, p. 85.) Nella maggior parte delle favole lettoni domina l’elemento mitologico e magico-meraviglioso, ma spesso «appaiono briganti e ladri a volte anche benevoli. In alcune favole ci viene presentato l’ambiente tipico di un grande podere antico della Curlandia o della Livonia, con i rappresentanti sia dei servi più umili che del personale amministrativo; tra questi troviamo normalmente anche il sorvegliante dei lavori, molto malvisto dai servi, il “vagars”, al quale succede sempre qualche guaio come punizione per il cattivo trattamento imposto ai lavoratori» (Ib., p. 96).

Agli inizi del XIII secolo l’invasione mongola attacca le terre abitate dai Turchi. La resistenza è impersonificata nella figura mitica di Oguz Qagan, che guida tutti coloro che intendono continuare la lotta. Così sono riportate le sue parole in un testo molto primitivo: «Io sono ora il vostro “qagan”. Imbracciamo arco e scudo! Il nostro stemma sia fortunato! Nostro grido di guerra sia “lupo”!» (citato da A. Bombaci, Storia della letteratura turca, Milano 1962, p. 102).

Nell’età dei Selgiuchidi la letteratura popolare cercò di descrivere la vita e le imprese dei guerrieri oguzi, venuti dal vicino Oriente. Il libro di Dede Qorqut è una raccolta di dodici novelle in prosa con intercalati dei brani poetici. Gli Oguzi sono una specie di briganti guerrieri, pastori semi-nomadi. «Essi sono armati di tutto punto: schinieri e bracciali, cotte di ferro, scudi, elmi, archi, lance, clave, spade ben temprate, di “bruno” acciaio. Non si impone il nome ad un giovane se non dopo che ha compiuto un’impresa ed il posto nelle riunioni si conquista con prodezze. Portano orecchini d’oro, indossano vesti adorne di gemme, amano la musica e il canto. Trascorrono la vita tra battaglie, cacce e conviti, con “montagne di carne”, “laghi di latte di giumenta” ed anche “tagliente vino vermiglio”» (Ib., p. 194).

Nella seconda metà del secolo XIII la vita in Bulgaria si andò velocemente trasformando a causa di invasioni e lotte che si conclusero con un periodo di dominio tartaro. Le classi inferiori si ribellarono diverse volte e un umile pastore, Ivan Vazov, arrivò addirittura alla corona di zar (1277-1281). «I Bulgari erano in maggioranza contadini, ma non di rado si tramutavano in fuorilegge. Il loro rivoluzionarismo nacque dalla generale crisi dello Stato turco. Il mito del hajdutin, ossia del “bandito buono”, assunse gradualmente un significato politico fino a che le compagnie di questi indomiti fuorilegge dei Balcani divennero una specie di esercito partigiano per la riscossa nazionale. Ma perché tutto ciò assumesse un carattere dinamico e innovatore dovettero trascorrere molti e molti anni. Nel secolo XVIII le ribellioni, le proteste dei cristiani di Turchia si intensificarono anche sotto lo stimolo, più o meno diretto, delle novità politiche che maturavano in Occidente» (Lavinia Borriero Picchio, Storia della letteratura bulgara, Milano 1961, p. 90).

Moltissimi canti eroici bulgari sono dedicati ai banditi ribelli che sopravvissero fino al Settecento e all’Ottocento difendendo la popolazione cristiana e, in epoca risorgimentale, si trasformarono in gruppi partigiani contro i Turchi. La loro vita quotidiana di combattenti fuori legge è narrata con una ambientazione che ricorda le imprese di Krali Marko (ib., p. 133, Krali Marko significa “re Marko”), ma con meno iperboli. Resta il mito delle samodive. Queste, nel mondo fantastico delle favole bulgare, sono spiriti che si rivelano agli uomini sotto forma di belle fanciulle dai biondi capelli fluenti, che vivono sulla montagna in luoghi deserti, presso sorgenti e laghi, vicino agli alberi. La sera si bagnano nei corsi d’acqua e lavano la propria ombra che poi stendono ad asciugare alla luna. Chi s’impadronisce dell’ombra di una samodiva ne diventa padrone e la trasforma in una donna. «Ai combattenti per la giusta causa, che cercano rifugio tra i monti rocciosi e nelle selve, le samodive infondono nuova forza, curando le loro ferite con speciali erbe medicinali» (Ib., p. 132). Le samodive confortano la solitudine dei banditi. I capi più famosi sono Hajdut-Velko, Detelin, Angel-vojvoda, Dédoil’o, Momcil, Strahil, Cavdar, Stoian-vojvoda, Manol-vojvoda, Indze-vojvoda, Manus-vojvoda, Balaban, Kuzman-kapetan e molti altri.

Nelle montagne albanesi la guerra per bande è la vita stessa dei pastori. I rapimenti di donne, le rappresaglie, la liberazione delle donne rapite, la virtù delle stesse sono motivi ricorrenti nei cicli della poesia eroica popolare albanese. Il ciclo più noto è quello di Gjeto Basho Mujo, pastore e custode di buoi secondo una tradizione, capraio secondo un’altra. Altro eroe, Giorgio Elez Alija che sebbene malato affronta e uccide per difendere la sorella il principe nero, forte e terribile sterminatori di greggi, ladro e rapitore di donne per soddisfare la propria lussuria. (Cfr. G. Schirò j., Storia della letteratura albanese, Milano 1959, pp. 26 e sgg.).

Nella letteratura cinese sono comuni i romanzi in cui vengono narrate le gesta di briganti, eroi popolari, protettori dei deboli e vendicatori del popolo, oppresso da funzionari corrotti e malvagi. (Cfr. G. Bertuccioli, Storia della letteratura cinese, Milano 1959, pp. 228-229). Uno di questi è il San kuochih yen-i, ma il più famoso è il Chin-P’ing-Mei che prende il titolo da tre concubine di un mandarino e che è stato per anni considerato un banale romanzo pornografico. Oggi si tende a rivalorizzarlo specie per le notevoli descrizioni di ambienti e di costumi.

La letteratura araba preislamica riflette esattamente il carattere di questo popolo di pastori e predoni nomadi, erranti per i deserti dell’Arabia settentrionale. La pastorizia e la rapina (limitata in genere a razzie) sono le principali occupazioni. Strumenti di lavoro e compagni inseparabili: il cavallo e il cammello. Virtù: la prodezza in guerra, la liberalità verso gli ospiti, i poveri. Questo è l’ideale del beduino. In questa prospettiva, sullo sfondo di una natura inclemente, trova origine una poesia popolare che tocca vari argomenti tra i quali quello che qui ci interessa: l’argomento della povertà vissuta da un gruppo di poeti, i saalik, miserabili e ladroni, che accentuano i caratteri quasi aristocratici del predone beduino in un’attività banditesca più specifica, sostituendo ai tradizionali vincoli tribali una solidarietà professionale di banditi.

Ecco una tipologia specifica del “vero” sulùk (singolare di saalik): «Confonda Allàh un [falso] sulùk che al cader della notte sta a succhiare il midollo d’un osso, bazzicando ogni luogo di macello. Che reputa ricchezza il proprio destino ogni notte in cui ha acchiappato la cena da un amico benestante. Che va a dormire la sera, e si sveglia sonnacchioso al mattino, scuotendo il brecciame dall’impolverato suo fianco. Poco ei cerca alimento fuorché per sé solo, giacendo poi [sazio] disteso come una baracca abbattuta. Aiuta le donne della tribù quando gli chiedono aiuto [in lavori da donne], e a sera è stanco come un cammello sfinito. Ma [vero] sulùk è colui la cui faccia risplende, come la fiamma d’un tizzo di chi cerchi il fuoco; incombente sui nemici, che cercan rigettarlo via dal loro spiazzo, come si rigetta via la peggior freccia del maisir, e anche se lontani non si senton sicuri della sua vicinanza, e scrutano come fa la gente dell’assente aspettato. Questi se incontra la morte la incontra da prode, e se un giorno può dirsi ricco, bene lo merita» (Cfr. F. Gabrieli, Storia della letteratura araba, Milano 1956, pp. 57-58).

Scrive lo stesso Gabrieli: «Così dal comune tipo del cavaliere del deserto si sviluppa quello del bandito, che il binomio Taàbbata Sharran-Shànfara impersona con insuperata potenza. Con i racconti che ne tramandano le gesta, con i loro versi certamente autentici, e con quelli ancor più celebri a loro attribuiti e di discussa autenticità, questa illustre coppia può dirsi la più tipica incarnazione della vita e poesia del deserto nei suoi aspetti più violenti. Taàbbata Sharran (soprannome che significa “porta un male, una diavoleria, sotto il braccio...”) ci ha lasciato questo ritratto dell’autentico sulùk: “Poco ei si lagna dei gravi rovesci che lo colgono; ricco di passione, vario di obiettivi e di vie. Passa il giorno in un deserto, la sera in un altro, cavalcando solitario le groppe dei passi terribili. Sopravanza i prodromi dei soffi del vento, lanciandosi in una corsa precipitosa e serrata. Quando il sopore gli cuce gli occhi, sempre vigila per lui un cuore all’erta ed audace. Pone i suoi occhi a scolta del cuore, per snudare (al momento decisivo) un ferro liscio e tagliente. Quando ei lo pianta vibrato nell’osso di un nemico, lampeggiano in un riso di giubilo i molari in bocca alla morte. La solitudine è per lui la miglior compagna; ei trova da sé la sua via, con la Madre delle fitte brulicanti stelle”» (Ib., pp. 58-59).

Sullo stesso genere Shànfara, che così rievoca le gesta della banda di Taàbbata Sharran: «Quante volte su un’eccelsa specola, su cui il cane da caccia leggero e sottile non giunge a porre il piede, mi sono issato sulla somma vetta, mentre si approssimava il fitto tenebrone notturno, e vi ho passata la notte, poggiando aggrappato sulla punta dei cubiti, attorno come si torce il serpe sinuoso, con poco equipaggiamento, fuorché due calzari dalla leggera suola sottile e non ricucita, e una coperta consunta, e un mantello spelato, e una bianca lama d’India dal lucido ferro, e un arco giallo e gagliardo di duro legno, che geme e leva la voce come l’uomo angosciato» (Ib., pp. 60-61).

Il fatto letterario segue con grande sensibilità il fatto sociale, registrandone e rivivendole le condizioni e i limiti. Il mondo antico tramonta, nuove concezioni politiche si susseguono e si sperimentano, l’uomo cerca la sua strada tra mille errori. Il popolo soffre per tutti, paga gli errori degli altri, si affanna a risollevarsi e a vincere l’eterna lotta per il pane.

Il banditismo viene rivissuto dal popolo in forme nuove, anche a livello letterario. I gruppi e le comunità di uomini di frontiera, tranne esempi sporadici nelle nuove terre dei nuovi continenti, si vanno riducendo. Cambiano in questo modo sia il codice morale del banditismo, sia la finalità che lo governava prima. Successivamente i movimenti rivoluzionari finiranno per rendere impossibile una netta divisione tra banditismo sociale e movimenti di guerriglieri.

Ma occupandoci del rapporto del banditismo con la letteratura dobbiamo dar conto di certi fenomeni letterari che, senza l’ambiente fuorilegge, non avrebbero senso.

Il caso più evidente e che getta le sue origini in certe condizioni createsi in Spagna anche prima dell’esplosione coloniale, è il picarismo. Il picaro è l’altro aspetto del cavaliere senza macchia e senza paura, un aspetto inquietante e incredibile, che solo la Spagna poteva creare. Siamo davanti all’antitesi del signore, dove Don Chisciotte e lo scudiero si ritrovano insieme, in una acuta e straordinaria realtà. Picar significa beccare, truffare, vivere di espedienti, senza programmi, coraggiosamente, eroicamente, all’avventura, per istinto. Il “picaro” è l’individualista che rigetta la società costituita, che si costruisce una propria moralità. Al contrario dello zingaro è guerriero non è soltanto un ebreo errante. È l’elemento che emerge dalla plebe che diventa eroe. Mentre Rinaldo, pur vivendo da bandito ed agendo da bandito, resta sempre principe di Montalbano, il picaro, vivendo ed agendo da bandito, resta sempre l’antitesi del principe, il grande eroe plebeo. È l’Ulisse che fronteggia, con le sue trovate e le sue astuzie, la forza e l’aristocrazia di Achille. Giustamente gli si potrebbe attribuire il motto anarchico di Rabelais: “Fa’ ciò che vuoi”.

Il problema è molto complesso. Il picaro è miserabile e feroce perché la società lo ha reso necessariamente tale. Il tramonto di una civiltà e la nascita di un grande impero pieno di sangue e di orribili sfruttamenti, traspare in questa creazione dell’anima spagnola che diventa fatto letterario solo attraverso la sensibilità generalizzata delle masse spagnole. Non si spiegherebbe altrimenti sia la terribile efficienza della fanteria spagnola, educata ad una scuola di implacabilità che solo la miseria può produrre quando è sapientemente orchestrata dal potere; sia il rifiuto dell’impero, della mistica della conquista, il rifiuto dell’eroe. Il picaro è in effetti un anti-eroe. Non sogna, non s’illude, le grosse parole non lo turbano, non lotta per la bandiera spagnola della quale se ne ride. Il denaro e la roba degli altri: ecco il suo punto di salvezza, la solidità della vita. Non il denaro accumulato e guadagnato, il denaro che ci obbliga a lavorare, a prostituirci per averlo; ma il denaro degli altri, di quelli che ne hanno a sufficienza, il denaro dei ricchi. In una nazione in ascesa il picaro non vuole avere prospettive e orizzonti, non vuole costruirsi una ricchezza personale: quando tutti vedono con facilità la possibilità di fare fortuna, il picaro rifiuta il concetto stesso di fortuna e vive alla giornata.

Mentre l’altra Spagna conquista l’Italia, le Fiandre, l’America, l’Africa, considerandosi la prima nobiltà del mondo, depositaria del Trono e dell’Altare; questa Spagna, la Spagna popolare, vuole conquistare la città e i piccoli villaggi abbandonati della stessa Spagna, i sobborghi, le viuzze strette dei quartieri periferici resi deserti dai bandi di arruolamento. In una società di ladri e di assassini, la vera moralità consiste nel vivere di furto a danno dei ladri e nell’uccidere gli assassini. Le fortune, assai modeste, che il vecchio contadino aveva saputo sottrarre in secoli di duro lavoro all’avara terra spagnola, adesso costituiscono la base per un’operazione di conquista e di genocidio su scala mondiale: tutto questo atterrisce e sgomenta il picaro che si chiude dentro il baluardo della miseria, della negatività. Mentre la nazione veleggia verso le conquiste apparenti dell’oro e degli onori e naufraga a livello dei valori; la parte del popolo spagnolo che intende salvare i valori del proprio genio, si rifiuta di andare ad uccidere i selvaggi abitatori delle nuove terre, e preferisce uccidere gli spagnoli stessi arricchiti, all’angolo della strada, sulla stessa terra di Spagna, vivendo di rapina e di omicidio.

Scrive Ugo Gallo: «Il “picaro” vero, comune, è il giudice di se stesso; un superuomo senza cultura, senza apparente orgoglio, senza l’obbligo della dignità, ma che ha la forza di accettare, con saggezza orientale, la scelta dei mezzi per trarsi d’impaccio. È un tipo ovvio e comune, ma la sua portentosa novità morale è la sua indistruttibile sostanza ispanica, risultato, forse, di tante diverse origini, incontro di tante strade etniche, religiose, di tante direttrici della storia. In questo frangersi di ondate cozzanti, il “picaro” è una soluzione intermedia, di definitiva “centralità”; vuole arrestare il corso della storia; è un refrattario, un disertore. Non accetta più il passato, non si tende verso l’avvenire; rompe i ponti anche se non sa nuotare; fa da sé» (U. Gallo, Storia della letteratura spagnola, Vol. I, Dalle origini al barocco, Milano 1958, p. 264).

Col maturare dei tempi e degli eventi, con gli sforzi di rigenerazione e di rivendicazione nazionale condotti da molti popoli, anche i temi classici della poesia e della letteratura popolare si trasformano. Adesso siamo davanti a prodotti di autori ben definiti che trovano elemento d’ispirazione sempre nella vita libera ed avventurosa del bandito o nell’azione collettiva delle masse in rivolta.

Una forma corrispettiva del picarismo spagnolo viene riscoperta in Argentina: la letteratura “gauchesca”. Anche qui dalle iniziali produzioni spontanee e popolari, con Bartolomé Hidalgo (1788-1822) si passa alla produzione letteraria vera e propria. L’elemento banditesco viene colto in modo sottile e sfumato come, in realtà, aderiva alla vera vita del gaucho, leggermente diversa da quella del cow-boy nordamericano, col quale sarebbe possibile fare dei raffronti.

L’opera forse più rappresentativa è il Martín Fierro di José Hernández (1834-1886). Il gaucho vive felice nel cuore della pampa, in un minuscolo villaggio perduto. Il governo lo arruola a forza per combattere contro le montoneras, le bande di indios ribelli che non vogliono rinunciare alla loro vita primitiva e selvaggia. Obbligato a combattere il “gaucho” si accorge di mille ingiustizie e di mille meschinità, fin quando diserta e ritorna al villaggio, che trova distrutto, la moglie e i figli spariti. Diventa allora “gaucho malo”. Viene perseguitato, braccato, ridiventa selvaggio, fuorilegge. Insieme ad un amico, Cruz, si rifugia fra gli indios. (Cfr., U. Gallo, G. Bellini, Storia della letteratura Ispano-Americana, Milano 1958, pp. 99 e sgg).

In Uruguay, questo filone letterario assume toni più raccapriccianti vicini al romanzo nero. (Cfr. Ib., pp. 119 e sgg.).

Per il Brasile, il discorso si fa più complesso. Il canto degli schiavi viene riproposto dalla corrente romantica intorno ai primi del XIX secolo. Domingos José Gonçalves de Mahalhaes è uno di questi portavoce. In un poema del 1856 il poeta narra la lotta degli indios sotto la guida del valoroso capo Aimbire contro i Portoghesi, fino alla morte di questo e della sua sposa Iguaçu. (Cfr. P. A. Jannini, Storia della letteratura brasiliana, Milano 1959, pp. 59 e sgg.) Un filone caratteristico è la poesia condoreira, che si riferisce ai voli superbi degli uccelli delle Ande. Iniziatore Luís Gonzaga Pinto da Gama, schiavo fuggito dal lavoro forzato che lottò contro la tirannia per tutta la vita. I “Gauchos del Sud” sono un altro gruppo di scrittori collocati verso la fine del secolo XIX che ripresentano parecchi temi della pampa argentina. L’eroico e libero uomo del Sud che cerca di realizzare la rivoluzione federalista e che conserva un animo eroico, nostalgico e triste.

Ma è nelle zone desertiche dell’Europa sud-orientale che dopo il secolo XV si sviluppò il fenomeno del banditismo su scala notevole, dando luogo, per riflesso, ad una non trascurabile produzione artistica popolare. Di tutto ciò non ci resta molto e la maggior parte ci viene attraverso la rielaborazione colta. Non poco materiale si trova nell’opera di Ivan Vazov, il più grande scrittore bulgaro moderno e in coloro che avvertirono la sua influenza come: Konstantin Velickov e Zahari Stojanov. (Lavinia Borriero Picchio, op. cit., pp. 173 e sgg.). Si distinguono diverse categorie di banditi bulgari. Hobsbawm scrive: «I classici “ladri gentiluomini” della Bulgaria, osservano gli autori inglesi di A residence in Bulgaria (1869), così inclini a simpatizzare con l’eroismo islamico, erano i “chelibi”, di regola turchi “di buona famiglia”, i quali si distinguevano dai “khersis” o delinquenti comuni, che godevano della simpatia del loro villaggio di origine, e dagli “aiduchi”, fuorilegge sanguinari, crudeli di natura e privi di appoggio al di fuori della propria banda» (I banditi, op. cit., p. 68).

Pugacev, indubbiamente, costituisce uno dei simboli del banditismo sociale, assurto a coscienza rivoluzionaria. La ribellione nel sud-est, cioè nelle regioni degli Urali, della Volga, del Don, è animata dalle classi più povere. I contadini di Orenburg, i servi della gleba di Kazan, i cosacchi del Don, i mongoli Chirhisi e i Bachiri del Caspio. La rivolta arrivò a minacciare la stessa Mosca e costrinse l’imperatrice a sospendere le ostilità contro i Turchi. Nella sua famosa ritirata lo stesso Napoleone cercò, poi, di utilizzare lo stesso schema d’azione di Pugacev, tentando di sollevare i contadini poveri, ma senza riuscirvi, perché le classi più diseredate, come era già accaduto in Spagna, si trovarono unite dalla necessità della lotta di liberazione nazionale.

Le strane vicissitudini della storia: il massacratore Napoleone che cerca di utilizzare uno strumento veramente rivoluzionario senza riuscirvi a causa di una motivazione “reazionaria”, come appunto il nazionalismo russo.

Con i moti popolari guidati da Pugacev si diffonde in tutta la Russia uno stato di incertezza del potere. Siamo ormai al limite tra il vecchio mondo e la penetrazione delle idee del nuovo ordine di cose. Proprio in quegli anni si diffonderanno in Russia le idee degli enciclopedisti francesi.

Lo studio dell’ambiente

Hobsbawm lega il problema del banditismo sociale alla campagna e al mondo contadino. Egli scrive: «Il punto essenziale, per quanto riguarda i banditi sociali, è il fatto che essi sono fuorilegge rurali, ritenuti criminali dal signore e dall’autorità statale, ma che pure restano all’interno della società contadina e sono considerati dalla loro gente eroi, campioni, vendicatori, combattenti per la giustizia, persino capi di movimenti di liberazione e comunque uomini degni di ammirazione, aiuto e appoggio» (Ib., pp. 11-12).

E continua: « ...il fenomeno del banditismo sociale, si riscontra universalmente nelle società fondate sull’agricoltura (comprese le economie pastorali) ed è alimentato in larga misura, da contadini e braccianti non proprietari di terre, governati, oppressi, sfruttati da altri – signori, città, comuni, governi, uomini di legge o anche banche. Esso riveste costantemente una di queste tre forme principali [...] il banditismo gentiluomo tipo Robin Hood; l’animatore primitivo della resistenza, come i guerriglieri haiduk nei Balcani e, talora, anche il vendicatore che semina il terrore al suo passaggio» (Ib., p. 14).

Bisogna subito dire che questo modo rigido di fissare il problema non ci pare giusto. Il banditismo sociale è legato ad una situazione di sfruttamento portata all’estremo limite della sopportazione. È naturale che questo limite sia molto più basso in una realtà agricola che non in una realtà industriale, altrimenti non si spiegherebbe il costante flusso verso le città e l’abbandono delle campagne. Mille motivi concorrono ad aumentare il processo di sfruttamento, di alienazione e di isolamento nelle campagne. Mentre pochi motivi precisi causano determinate situazioni in cui il fenomeno del banditismo esplode in forma molto ampia.

Forse il discorso di Hobsbawm ha una maggiore validità se lo si considera dal punto di vista storico. Per i banditi che si schierarono a favore del Borbone, dopo l’unificazione, veramente la campagna significava non solo la soluzione del problema strategico, ma anche il naturale punto di origine e di confluenza dei loro interessi. Tra campagna e banditismo sociale, oggi, il legame è molto più debole di quanto non lo era in passato, almeno in zone a capitalismo avanzato. È in questo senso che troviamo le premesse metodologiche di Hobsbawm troppo rigide.

Lo studio dell’ambiente ci deve dare strumenti per una prima approssimazione del problema del banditismo sociale. Lo sfruttamento si estrinseca in situazioni molto diverse: America Latina, Stati Uniti, paesi europei a capitalismo avanzato, paesi africani, paesi asiatici, paesi cosiddetti socialisti (URSS, Cina, Cuba, ecc.). Il segreto del modo di produzione capitalista è quello di utilizzare i propri nemici in funzione delle prospettive di produzione. Contrariamente alle ottusità fasciste, il capitalismo vede che lo strumento repressivo deve essere usato con leggerezza ed intelligenza, nei limiti dell’indispensabile. Il colonialismo e la brutale espropriazione dei popoli costituisce una delle fasi dello sviluppo capitalista, fase che preludia ai grandi sforzi di industrializzazione ma che, data la necessità di uno sviluppo diseguale del capitalismo stesso, coesiste anche oggi. È importante comprendere come il mondo sia diviso in zone d’influenza e di sfruttamento dalle grandi potenze del capitalismo mondiale, di qualsiasi colore esse siano, e che in funzione di ciò sussiste anche oggi una società coloniale a capitalismo sottosviluppato, in cui sono visibili, anche per il problema che ci riguarda, effetti e fenomeni sociali che per noi appartengono alla storia.

In pratica i centri dello sviluppo capitalistico importano dal sottosviluppo: capitali (tasse, rimesse emigrati), mano d’opera (fenomeno dell’emigrazione), prodotti agricoli e materie prime a basso prezzo; ed esportano manufatti ad alto prezzo. Da ciò emergono caratterizzazioni precise: il sottosviluppo, il colonialismo, l’imperialismo.

Nel sottosviluppo lo sfruttamento garantisce la possibilità stessa dello sviluppo del capitale (che come abbiamo detto è diseguale), viene affidato alla volontà dei governanti e non abbandonato alle sole leggi del mercato (interventi correttivi dello Stato in economia). La presenza di un polo di attrazione industriale incrementa la diseguaglianza. L’emigrazione, i movimenti di capitali e il commercio sono gli elementi che facilitano il processo di accumulazione del capitale. La selettività del movimento migratorio favorirà le località in via di sviluppo, lasciando nelle località più arretrate, che alimentano il fenomeno, i vecchi e le vedove bianche. Non solo, ma nelle zone più arretrate la fertilità è più alta perché meno diffuso il controllo delle nascite, ciò determinerà in senso sfavorevole la distribuzione per età della popolazione delle località sottosviluppate. Lo stesso avviene per i movimenti di capitale. Un più alto tasso di profitto fa spostare i capitali, la cosa dovrebbe determinare una riduzione dell’afflusso dei capitali in base alla legge stessa del mercato, ma esiste anche un aumento della domanda (determinato dalla stessa emigrazione) ed, infine, i limiti di saturazione dei settori più sviluppati sono altissimi grazie anche alle innovazioni tecnologiche. Al contrario nelle zone sottosviluppate si hanno effetti soltanto negativi. La domanda di capitale a scopo di investimento resta assai debole, il reddito è basso e tende a ridursi, lo stesso sistema bancario è più rigido nel concedere possibilità (non bisogna dimenticare che per la banca è più facile concedere un grosso prestito che cento piccoli prestiti). Il commercio, completa il quadro. Abbattendo le frontiere doganali interne con l’unificazione, si verificò che le regioni del Sud (per il caso italiano) più povere di insediamenti industriali impoverirono sempre più. L’annessione del Sud più che un fatto politico fu una vera e propria conquista militare. Anche la cultura entra nel rapporto di forza capitalistico. «Non esiste un’anti-cultura, o una controcultura, e neppure una cultura parallela o sotterranea. Sotto queste distinzioni da sociologo si opera, sottomessa allo sviluppo contraddittorio, la riduzione progressiva della cultura a spettacolo, a uno spettacolo che trasforma in ideologia tascabile le immagini non vissute, e le raggruppa in uno spazio tempo in cui la merce è non solo prodotta, distribuita e consumata, ma anche generalizzata come necessità, caso, libertà, durata, rappresentazione; insomma come categorie del vissuto ridotte a sopravvivenza» (R. Vaneigem, Introduzione a E. Cœurderoy, Pour la Révolution, ns. tr., Parigi 1972, p. 15). Un interessante parallelo potrebbe essere fatto tra l’alienazione causata dallo sfruttamento capitalistico sui posti di lavoro – consumismo conseguente e società della distruzione – e la confusione ideologica che la trasformazione in merce della cultura voluta dal sistema finisce per ingenerare in molti intellettuali che diventano automi reificati non altrimenti del povero operaio alla catena di montaggio. «Oggi, il dominio si perpetua e si estende non soltanto attraverso la tecnologia ma come tecnologia, e quest’ultima fornisce una superiore legittimazione al potere politico che si espande sino ad assorbire tutte le sfere della cultura. In questo universo, la tecnologia provvede inoltre una razionalizzazione egregia della non-libertà dell’uomo, e dimostra l’impossibilità “tecnica” di essere autonomi, di decidere personalmente della propria vita. L’assenza di libertà non appare infatti avere carattere irrazionale, né politico ma sembra piuttosto dovuta alla sottomissione all’apparato tecnico che accresce i comodi della vita e aumenta la produttività del lavoro» (H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, tr. it. Torino 1967, p. 172).

Nel colonialismo si ripresentano gli elementi dello sfruttamento del sottosviluppo, in massima parte economici, arricchiti da elementi specifici, solo latenti nel primo caso. Il più importante di questi è il razzismo, la divisione tra uomini e indigeni. «Per l’uno, privilegio e umanità sono una cosa sola: egli si rende uomo col libero esercizio dei suoi diritti: per l’altro, la mancanza di diritti sanziona la sua miseria, la sua fame cronica, la sua stupidità, in una parola: la sua non-umanità» (J.-P. Sartre, Introduzione a A. Memmi, Portrait du colonisé, précédé du portrait du colonisateur, ns. tr., Parigi 1966, p. 34) ) Spesso lo stesso colonizzato finisce per accettare la sua situazione, come una ineluttabilità “biologica”. Lo stesso oppressore mette in circolazione l’ideologia della “colpa”, non si sa bene di che cosa, una colpa che è stata commessa e che adesso rende “giusta” la situazione dello sfruttato. «Il terrore e lo sfruttamento disumanizzano, e lo sfruttatore prende questa disumanizzazione come un pretesto per continuare a sfruttare» (Ib., p. 36). Il limite è l’annientamento fisico del colonizzato: «Il colonizzatore nega con tutte le forze il colonizzato, ma al tempo stesso la sua vittima gli è indispensabile per continuare ad essere ciò che è. Insieme al colonizzato scomparirebbe la colonizzazione stessa, ivi compreso il colonizzatore» (Ib., p. 181). Un elemento di grande importanza sono le missioni religiose che negano la validità delle religioni locali come frutto di ignoranza e di inferiorità intellettuale. Si tratta di un razzismo ideologico che diventa potente alleato del razzismo economico. «I comunicati trionfali delle missioni informano in realtà sull’entità dei fermenti di alienazione introdotti in seno al popolo colonizzato. Parlo della religione cristiana, e nessuno ha il diritto di stupirsene. La Chiesa in colonia è una Chiesa di bianchi, una Chiesa di stranieri. Non chiama l’uomo colonizzato alla via del Signore, ma alla via del bianco, alla via del padrone, alla via dell’oppressore» (F. Fanon, I dannati della terra, tr. it., Torino 1966, p. 9). Allo stesso modo scriveva Reich: «Non ci vuole molta cultura, ma solo un poco di coraggio intellettuale per riconoscere che le potenze capitaliste non portano ai popoli coloniali la fede cristiana, l’uso di indossare abiti e la “morale” per scopo ideale culturale, ma perché vogliono inculcare nei singoli individui lo spirito di servilismo verso gli Europei e inoltre indebolirli con l’alcool e renderli pronti al loro cenno. E il modo migliore per inculcare lo spirito del capitalismo nelle strutture psichiche degli uomini primitivi – con un notevole risparmio di sorveglianti e forze di polizia – è quello di soggiogare la forza rivoluzionaria che sorge dalla sessualità soddisfatta» (Der Einbruch der Sexualmoral, ns. tr., Berlin 1932, p. 134). Man mano che si allarga l’espansione capitalista e nuovi settori arretrati vengono inglobati all’interno della logica del capitale, aumentano le possibilità di realizzare quei profitti che sono indispensabili alla continuazione del sistema capitalistico. È ovvio che questa espansione non avviene in modo tranquillo, ma richiede notevoli impieghi di violenza e causa profonde trasformazioni anche negli stessi Stati che la promuovono. Con l’avvento dell’era dei monopoli il vecchio liberalismo di stampo inglese scompare: la borghesia non ha più bisogno di capitali da investire nell’industria nazionale, vuole profitti da ricavare dalle vendite dei prodotti che corrono il rischio di restare nei magazzini. I concorrenti esteri si fanno più agguerriti e non gli è più possibile la conquista pacifica dei mercati esteri, deve ricorrere ad altri mezzi: comincia l’era del colonialismo. Scrive Ernest Mandel: «L’esportazione dei capitali e il colonialismo che vi si ricollega, costituiscono una reazione del capitale dei monopoli contro la diminuzione del tasso medio del profitto nei paesi metropolitani altamente industrializzati e contro la riduzione del campo degli investimenti redditizi in questi paesi. In questo senso, non sono che l’espressione, in un determinato momento storico, di una caratteristica generale del modo di produzione capitalistico, del suo sviluppo e della sua diffusione: i capitali si orientano verso i settori in cui il tasso del profitto previsto è superiore alla media. I sovrapprofitti coloniali sono dunque profitti superiori ai profitti medi ottenuti dal capitale nel territorio metropolitano» (Trattato marxista di economia, tr.it., vol. II, tomo I, Roma 1972, pp. 103-104).

Nell’imperialismo si ha una versione moderna del colonialismo. L’esportazione dei capitali si intensifica e si attua a livello mondiale una vera e propria divisione del lavoro oltre che un mercato universale. La forza militare degli Stati guida, in primo luogo degli Stati Uniti, è distribuita in funzione degli interessi dell’imperialismo, cioè della continuazione dello sfruttamento che prima veniva garantito dal colonialismo. Nel 1966 sul “New York Times” si leggeva: «L’imperialismo statunitense ha distribuito le proprie forze armate, dislocando truppe in ogni parte del mondo. Nel momento in cui esso trasferisce in Asia le truppe stanziate altrove, non fa che abbattere le mura occidentali per riparare le mura orientali, cacciandosi così in una situazione di estrema passività. Concentrare truppe da una parte significa per esso ridurle altrove, ciò mostra chiaramente la fatale debolezza della strategia globale dell’imperialismo americano. La lotta dei popoli del mondo contro gli Stati Uniti è un tutto unitario, mentre l’imperialismo americano può essere smembrato. L’imbrigliamento di vasti contingenti di forze statunitensi ad opera dei popoli asiatici crea una situazione favorevole all’ulteriore sviluppo della lotta antimperialista dei popoli di altre parti del mondo. Se tutti i popoli del mondo si sollevano insieme ad attaccarlo, l’uno colpendolo al capo e l’altro ai piedi, l’imperialismo americano può essere a poco a poco demolito» (“New York Times”, 31 agosto 1966, ns. tr.). Oggi, [1981] dopo la disfatta nel Vietnam e in Cambogia, possiamo leggere queste parole con maggiore attenzione e vedere quanta debolezza si nasconda dietro la facciata di forza degli Stati Uniti.

In effetti imperialismo e colonizzazione non sono due fenomeni separati e, presi insieme, si collegano al fenomeno economico-strutturale del sottosviluppo. Certo la colonizzazione può essere una delle forme dell’imperialismo ma questo ha sue caratteristiche peculiari. In genere la colonizzazione parte dal presupposto dello sfruttamento di terre lontane con mezzi coercitivi, mentre l’imperialismo economico moderno (da non confondersi con l’imperialismo militare del passato), ricorre a mezzi diversi di conquista economica. Per alcuni aspetti, a livello personale, aspetti molto importanti nello studio del progetto rivoluzionario, il colonialismo ha una base di razzismo che lo rende forse peggiore dell’imperialismo. «Mentre l’imperialismo tradizionale stabilisce un rapporto da vincitore a vinto, la colonizzazione reifica volentieri il colonizzato. L’imperialismo – l’abbiamo visto nei conflitti europei – porta con sé il riconoscimento di una differenza, ma a livello umano (differenza etnica, nazionale, linguistica, ecc.), mentre la colonizzazione tenta di accreditare il riconoscimento di una differenza essenziale. Il colonizzato non è nemmeno un uomo di seconda classe: è la cosa, l’oggetto; ed è la necessità prodotta dalla logica stessa del sistema a costringere la colonizzazione a operare questa reificazione. Tale necessità è generata, ancora una volta, dalla condizione minoritaria del colonizzatore. Egli è solo, al cospetto di molti; quindi non ha il tempo né l’agio di ravvisare in essi qualità umane. Egli è indotto a pensare che identificare umanamente il colonizzato varrebbe a squalificare automaticamente ogni forma d’autorità che si propone di esercitare su di lui. Opera quindi una semplificazione radicale la quale servirà, a suo giudizio, a facilitargli il compito. Decide che il colonizzato non solo è inferiore, ma è un oggetto, quindi agevole a maneggiare» (G. De Bosschere, I due versanti della Storia, vol. I, Storia della colonizzazione, tr. it., Milano 1972, pp. 16-17).

Questo schema ci fa vedere con chiarezza le condizioni dello sfruttamento e i mezzi che vengono impiegati: le leggi economiche vengono corrette dal potere politico (negate in quanto tali) e la situazione di sofferenza viene mantenuta anche facendo ricorso alla forza militare (interna ed esterna). Tanti tronfi giudici della violenza rivoluzionaria, tanti pacifisti perduti nei loro sogni irrealizzabili, tanti mestatori politici riformisti troppo indaffarati a mettere le mani nel sacco della cosa pubblica per ingrandire i propri patrimoni personali; dovrebbero riflettere meglio sulle condizioni oggettive che determinano la rivolta, anche impensata e impensabile. In questo senso non avrebbero sorprese. Non solo, ma gli schemi dello sfruttamento che raggiungono chiarezze palmari nelle zone sottosviluppate, hanno anche una precisa realtà nelle zone opulente, dove lo sfruttamento non cambia se non di forma. L’evidenza resta sempre rintracciabile, quella che spesso manca è la buona volontà.

Ricordando i fatti del 1968 in Francia, non c’è chi non resta sorpreso, come se un mostro dalle cento teste fosse improvvisamente risalito dal fondo degli abissi marini sorprendendo tutti gli ittiologi e tutti i visitatori di musei. Scrive Hobsbawm: «Fenomeno singolare e a prima vista inatteso, questo ritorno d’interesse per l’anarchia. Appena un decennio fa sarebbe parso inverosimile: come movimento e anche ideologicamente, l’anarchia appariva come una fase ormai compiuta dell’evoluzione dei moderni movimenti rivoluzionari e operai» (Quale insegnamento può ancora offrire l’anarchismo, in Critica dell’anarchismo, tr. it., Milano 1970, p. 11). L’ambiente in cui cova la ribellione è quello in cui le contraddizioni del capitalismo sono più evidenti, ma ciò non toglie che anche quando sono sapientemente camuffate emergono lo stesso.


[Pubblicato su “Pantagruel”, n. 1, gennaio 1981, pp. 37-71 con lo pseudonimo di Giuliano Giuffrida].

Il fronte interno e la ribellione

Tutti gli sforzi degli sfruttati diretti a organizzare un fronte interno contro gli sfruttatori sono stati, almeno fino ad oggi, imbrigliati dal potere. Anche nei paesi dove si sono realizzate alcune rivoluzioni e dove sono accaduti fatti di tale portata da cambiare la gestione precedente del potere, non possiamo concludere per un’accettazione incondizionata dei risultati. La situazione permane ricca di dubbi e perplessità. «Nei paesi del settore orientale del capitalismo, lo scontro immediato, diretto tra la classe operaia e la classe dirigente (crisi del 1956, Cecoslovacchia, Polonia) ci ha portati ad interrogarci sulla forma dei rapporti e delle comunicazioni tra queste due classi. L’idea generalmente ritenuta valida è la non-esistenza di classi, ma al contrario quella di strati più o meno non-antagonisti. Spesso si difende l’idea che l’inesistenza di organi di legame (del tipo sindacato o comitato di fabbrica nello stile occidentale) spieghi la violenza degli scontri... in tutti i paesi dell’Est, la classe dirigente detiene tutto il potere sui mezzi di produzione e sull’apparato politico-militare: tutto è sottomesso alla stretta gerarchia del Partito» (I.C.O., Capitalisme et lutte de classes en Pologne 1970-1971, ns. tr., Parigi 1975, pp. 88-89. Una traduzione italiana parziale di questo libro è apparsa su “Anarchismo” n. 7, 1976, pp. 18-33).

L’alternativa proletaria è una sola: costruire il comunismo direttamente, passando sopra le costruzioni burocratiche controrivoluzionarie. Per fare questo si deve immediatamente provvedere all’individuazione analitica e alla realizzazione pratica di quegli elementi minimi di base che sono i gruppi autonomi dei lavoratori. Questi gruppi agiranno in futuro all’interno della logica dell’azione diretta ed autonoma, estendendo quella pratica che in passato era stata caratteristica soltanto di alcuni individui (o gruppi) particolarmente coscienti. In questa prospettiva di autonomia della lotta si inserisce il chiarimento anche del problema del banditismo sociale, che nel corso del processo di maturazione diventa sempre più difficile distinguere dall’azione rivoluzionaria in senso stretto. In passato il bandito sociale poteva identificarsi come ribelle rivoluzionario attraverso un processo di chiarificazione di condizioni oggettive che agivano su di lui, nella maggior parte dei casi, a sua insaputa. Oggi le sfumature della differenziazione sono molto più sottili, avendosi un accelerato movimento di presa di coscienza nelle minoranze ribelli, anche in quelle non politicizzate in forma ben definita.

Il passaggio dolce al socialismo di Stato è la prospettiva più diffusa negli ambienti progressisti della borghesia. Si tratterebbe di un vero fallimento delle prospettive di liberazione definitiva degli sfruttati. Per fortuna il progetto del passaggio dolce, per cause non sempre prevedibili da parte della stessa borghesia, non può ritenersi ineluttabile. Spesso qualcosa non funziona, ed allora il nemico si vede costretto a modificare i suoi piani. Per altro verso alcune situazioni costanti dello sfruttamento, come ad esempio le morti sul lavoro, gli omicidi bianchi, costituiscono una parte del conflitto di fondo che non può essere sanata. Esiste in corso una guerra che non può essere sempre camuffata grazie all’intervento dei traditori riformisti. Alcune frange del movimento operaio si accorgono, specie quelle più politicizzate, di questa realtà di base, e radicalizzano alcune lotte. Il fatto stesso della radicalizzazione delle lotte produce minoranze rivoluzionarie che estremizzano ulteriormente lo scontro col potere. A questo livello il potere deve intervenire pesantemente. È il caso delle organizzazioni di guerriglia sia nei paesi a capitalismo sviluppato che in quelli segnati dai problemi del sottosviluppo o del colonialismo. Queste frange minoritarie impegnano lo Stato sul piano militare, facendosi schiacciare in un tempo più o meno breve. La loro presenza all’interno delle carceri non può essere senza risultato su quelle altre minoranze che costituiscono il proletariato prigioniero, definito comune. Ne nasce una presa di coscienza di quest’ultima minoranza, più o meno veloce, più o meno chiara, più o meno contraddittoria, ma, comunque, presa di coscienza che si pone come fenomeno nuovo. E se è vero, come è vero, che le rivolte e i conflitti rivoluzionari maturano quasi sempre all’interno delle mura delle carceri, la dimensione tradizionale del banditismo sociale, sta, in questi ultimi anni, subendo una radicale trasformazione che non possiamo lasciarci sfuggire.

«Le carceri hanno perso quella barriera di silenzio che li circondava: le proteste, le rivolte, i suicidi e gli omicidi hanno smascherato la realtà di violenza ed i meccanismi che votano il carcerato alla definitiva emarginazione e alla distruzione della sua personalità. Le cause della rivolta, le richieste espresse, il loro collegamento obiettivo, con la fase attuale di lotta di classe, ai livelli più alti, la presa di coscienza politica dei detenuti ci fanno capire come oggi [1981] non è solo il sistema del trattamento carcerario ad essere in crisi, ma è in crisi tutto l’apparato della repressione, l’apparato della magistratura e della polizia – l’apparato dello Stato. La lotta di classe ha posto in crisi tutte le istituzioni e il loro ruolo violento e segregato. La pressione e la rabbia che sale da ciascuna situazione si comunica alle altre e le unifica rendendo la lotta settoriale, complessiva. Perché il carcere? Perché la magistratura? Per difendere quale ordine e quali leggi? Queste sono le domande nella testa e sulla bocca dei proletari, dei detenuti e di tutti gli oppressi. L’ondata di rivolte nelle carceri e la presa di coscienza del proletariato detenuto hanno le loro radici nelle condizioni materiali di vita che vengono subite anche nella nuova qualità di detenuti. Nel carcere sono entrati in massa proletari e sottoproletari cacciati dalle campagne del meridione, sospinti dalla necessità nelle fabbriche, nelle stanze di affitto sovraffollate dei ghetti suburbani, senza casa, senza relazioni sociali. Uomini e donne, già emarginati dall’emigrazione, spremuti dal ritmo infernale della catena di montaggio, gettati poi nella disoccupazione e nella miseria, hanno cercato nel contrabbando, nella prostituzione e nella rapina la soluzione individuale del problema della sopravvivenza nella società divisa in classi. La grande maggioranza dei nuovi detenuti non è più congeniale al sistema borghese: ha sperimentato, prima della galera, la lotta di classe, nella fabbrica e nel quartiere, e ne ha raccolto i contenuti politici, rifiutando il concetto di inviolabilità del diritto di proprietà privata. Nelle carceri la maggior parte dei detenuti a diretto contatto con le avanguardie rivoluzionarie ha preso coscienza dell’origine sociale che li ha condotti a violare la legalità dello Stato, ha capito la necessità di inserirsi nel fronte della lotta di classe. Per molti la rivolta carceraria è stata il primo atto di coscienza del proprio ruolo, il primo atto per sentirsi uomini in lotta per la libertà, per la scoperta della propria dignità umana e sociale. In questo senso per essi il carcere è diventato “scuola di Rivoluzione”» (da un ciclostilato dal titolo Col sangue agli occhi di cui sono venuto in possesso).

L’analisi generale del proletariato prigioniero contenuta nel suddetto ciclostilato coglie bene il processo di crescita politica verificatosi all’interno delle carceri nel corso degli ultimi anni, ma non dà un quadro adeguato dell’attuale rapporto tra carceri giudiziari e circuito delle carceri speciali.

Per quanto concerne le contraddizioni all’interno del proletariato prigioniero ci sembra molto interessante una nota della Redazione della rivista “Anarchismo” pubblicata sul n. 21, pp. 150-151: «Se non ci può essere dubbio che nelle carceri si sia costituita, in questi ultimi anni, una grossa carica di ribellione, se non ci può essere dubbio che questa carica è patrimonio di tutti i carcerati nel loro insieme, dimodoché, un domani, costoro, di fronte ad un accelerarsi del processo rivoluzionario, possono essere considerati un non trascurabile punto di riferimento per la messa in moto di un processo di distruzione dello Stato; parimenti non ci può essere dubbio che queste affermazioni vadano viste nella loro giusta luce e senza quelle mitizzazioni che oggi ci sembrano essere diventate moneta corrente.

«Una maggiore cautela va esercitata nelle analisi che si producono da parte del movimento rivoluzionario, analisi che sono dirette a stabilire quei rapporti tra parte criminalizzata del proletariato e parte che resta inserita nei ghetti della disoccupazione, della sottoccupazione e così via. Senza una luce critica si corre il rischio di proporre un’immagine mitica, utilizzabile come guida, con tutte le conseguenze negative del caso.

«Come accade nella società nel suo insieme, anche nelle istituzioni totali (come il carcere, il manicomio, ecc.) il potere ha bisogno di una certa parte di consenso, allo scopo di mantenere la validità del cordone repressivo, il quale, da solo, non sarebbe sufficiente a garantire la persistenza dell’istituzione stessa. Anche per le carceri il discorso non muta. Le mura del carcere, le sbarre, e tutti gli altri accorgimenti repressivi, fino al mitra delle guardie sulla torretta di sorveglianza e fino alle celle di punizione, sono uno degli aspetti dell’apparato di controllo, ma non potrebbero – da soli – garantire la continuazione dell’istituzione totale. L’altro aspetto è dato dal consenso di una parte dei detenuti alle regole imposte dalla privazione della libertà.

«Questo consenso, che corrisponde al più ampio consenso che il capitale estorce, con i suoi mille trucchi, nella società cosiddetta “libera”, è dato da una parte dei detenuti per evitare un male peggiore per garantirsi condizioni di sopravvivenza all’interno dell’istituzione un poco più tollerabili, per riacquistare prima la libertà e via dicendo. Non si può stabilire una netta differenziazione tra presa di coscienza rivoluzionaria e prestazione del consenso. Non ha senso affermare che coloro i quali accettano le condizioni di vita del carcere e non si ribellano continuamente sono prestatori di consenso e quindi controrivoluzionari. Come non ha senso dire che il consenso non esiste e quindi tutto va bene. Occorre penetrare più addentro nell’analisi, per evitare spiacevoli sorprese nel momento del risveglio rivoluzionario.

«È chiaro che oggi la repressione colpisce con maggiore attenzione i detenuti comunisti, considerandoli più pericolosi dei cosiddetti detenuti “comuni”. Quindi è chiaro che farsi riconoscere come detenuto politicizzato comporta, da parte del recluso, un passo non trascurabile nella presa di coscienza rivoluzionaria, passo che egli cercherà di fare il più tardi possibile. Questa sua decisione non può essere astrattamente fatta coincidere con la presa di coscienza stessa, in quanto non c’è dubbio che ci sono molti compagni detenuti che sono compagni, disponibili per l’attacco alle istituzioni repressive, ma non hanno interesse, al momento, di dichiararsi come tali, in quanto ritengono giusto godere dei piccoli privilegi che la repressione continua a dare a coloro che ufficialmente non appaiono come detenuti politicizzati.

«Questo è un problema che molti macinatori di ideologie non intendono porsi. Come ieri, al tempo del loro operaismo, spacciavano la classe operaia come classe rivoluzionaria e come guida della rivoluzione, oggi ripresentano il loro modello sul più ristretto universo dei detenuti, pretendendo di spacciarli come avanguardia e futura guida della rivoluzione.

«... La realtà ci sembra essere più modesta di quella sottolineata dal classico trionfalismo della “sinistra di classe”. Le grandi capacità rivoluzionarie del proletariato detenuto nelle carceri sono in costante aumento, ma non va sottovalutata l’azione che il potere esercita su questo stesso proletariato, azione che non è soltanto quella del generale Dalla Chiesa e delle carceri speciali, ma è anche quella del miraggio dell’amnistia, del condono, del futuro reinserimento in una società (!), in una parola dei piccoli privilegi e delle piccole agevolazioni che costituiscono merce di scambio che il potere sempre propone agli sfruttati. E sarebbe veramente stupido affermare che questo modo di agire è sbagliato, in quanto la stessa cosa bisognerebbe fare per gli operai, per i produttori in genere e per tutti gli sfruttati. Invece di0 emettere giudizi e costruire miti, il movimento rivoluzionario farebbe meglio a sviluppare le analisi critiche che consentono di fissare – almeno per grandi linee – le reali capacità del movimento stesso, capacità che comprendono quel grande potenziale che è il proletariato detenuto. Ogni illusione eccessiva, ogni mito più o meno in buona fede, ogni esaltazione della guida e del comando, sono oggi elementi di costruzione della futura controrivoluzione».

Ma bisogna vedere con chiarezza il problema, anche nei suoi limiti. Esistono due elementi di ritardo; uno riguarda la costituzione del circuito delle carceri speciali che ha determinato una notevole riduzione dei contatti tra “politici” e “comuni”; un altro riguarda la persistenza di residui della morale borghese all’interno della classe sfruttata. Nella prima parte del presente lavoro abbiamo visto come la religiosità, il senso della indispensabile presenza del capo, il mito stesso del bandito come guida e liberatore, costituiscono un freno allo sviluppo rivoluzionario delle lotte e fanno ricadere la classe degli sfruttati sotto il dominio dell’elite ascendente, diretta alla conquista del potere; la morale borghese consente di operare, all’interno stesso della classe sfruttata, una selezione radicale, stabilendo l’esistenza di uno strato privilegiato che poi sarà il primo ad essere strumentalizzato dall’elite in questione.

È per questo che le classi proletarie più avanzate, quelle che godono in forma diretta di un certo benessere e che sono quasi colletti bianchi, gli operai stessi di alcune industrie in particolare situazione di produzione, o fortemente legati ai partiti e ai sindacati, quella grande massa di manovra per la reazione che è data dalla classe media alimentata dalla borghesia bottegaia e burocratica; accettano di sana pianta i valori della morale costruita su misura dai padroni (col valido aiuto della religione) per gettare una barriera tra lavoratori e lavoratori, tra specialisti e generici, tra sfruttati muniti di qualificazione professionale, che s’illudono di non essere sfruttati perché hanno potuto acquistare l’auto e il frigorifero, e s’ammazzano di lavoro per pagarne le rate; e sfruttati che non hanno un lavoro fisso, decente, onorato, socialmente ben quotato, sfruttati che vivono alla giornata, sui quali ricade spesso la qualifica di “teppaglia”, “criminali”, ecc. Quando la distinzione si precisa ancora di più, cioè quando si cerca di isolare, come bestie infette, i “criminali veri e propri” e non solo quelli potenziali (cioè tutti quelli che non hanno un lavoro fisso), il senso chiesastico della morale borghese interviene ancora più pesantemente.

Possiamo distinguere quindi tra: a) la religiosità in generale che determina l’accettazione della guida, individuata nell’elite ascendente e, b) la moralità residua della borghesia, riconducibile in linea di principio ad un aspetto particolare della stessa religiosità, che opera una profonda scissione all’interno del movimento autonomo dei lavoratori, gettando la base per una strumentalizzazione da parte del potere futuro.

Il primo risultato dell’influenza della morale borghese, residuata all’interno del proletariato, è lo spezzarsi del fronte interno, il rifiuto di ogni tendenza spontanea all’organizzazione della lotta, di ogni ricorso all’illegalismo, di ogni azione che fuoriesca dai canoni della moralità corrente, sfruttata ad arte dalla borghesia per tanti secoli. La rottura del fronte interno modifica profondamente anche la scelta e l’attuazione della strategia della lotta.

Approfondendo l’analisi si vede come la “religiosità” della vendetta o millenarismo, non è che una conseguenza dello sfruttamento, quindi, in definitiva, appartiene in proprio alla classe dei produttori che nel processo di maturazione potrà liberarsene; la concezione borghese della morale, invece, non è frutto dello sfruttamento se non in forma indiretta (in quanto fa nascere livelli diversi di privilegio), ma in sostanza viene importata dalla classe dei produttori a causa della contaminazione con la classe piccolo-borghese, non sempre facilmente distinguibile dai produttori stessi, e a causa di uno speciale meccanismo di manutenzione attuato dal potere.

In questo senso una barriera più decisa separa il mondo contadino dalla morale bottegaia e cittadina, per quanto riguarda il proprio rapporto con tutti coloro che vivono “al di fuori” della legge. In ogni caso, se diverso è il modo di valutare il rapporto, ciò non comporta obbligatoriamente la caratterizzazione del banditismo sociale sulla base soltanto dell’appartenenza al mondo contadino, come è stato sostenuto da Hobsbawm.

Il problema della “reazione adeguata della classe” diventa così centrale. Le opposizioni si manifestano ad ogni livello, ma in modo particolare risultano reperibili a livello economico. I contadini non sono tali perché vivono in campagna, ma perché sono strutturati in modo più o meno omogeneo dalla presenza di interessi coscientemente individuati. L’organizzazione dell’opposizione al potere, in vista della difesa di questi interessi, può essere considerata una forma di omogeneizzazione della classe contadina. In questa prospettiva il bandito sociale è visto come la punta avanzata dell’opposizione, il rappresentante tipico. Dal canto suo il bandito sociale acquisisce una coscienza di ribelle non perché vive e dorme col fucile accanto, ma perché si trova nella lotta e finisce per interiorizzarla (almeno nella maggior parte dei casi), trasferendola su di un livello oppositivo contro i rappresentanti immediati del potere (ricchi proprietari, polizia, ecc.). Il diaframma della morale borghese è più tenue. Se la coscienza della classe contadina non è ottusamente riportabile alla situazione di classe come molti marxisti fanno, è possibile rivalutarla alla luce di questo diaframma.

Potremmo citare passi di molti marxisti ortodossi che vedono nei contadini un pericolo, ma preferiamo rifarci a Anton Pannekoek che vede in modo più giusto la cosa: «Un tale piccolo borghese o contadino non è che un proletario sfruttato dal capitale. Del provento del suo lavoro egli non conserva più di quanto gli abbisogna per vivere: il valore della sua forza-lavoro. Ogni altra cosa va al capitalista, costituisce quindi il plusvalore. Ma qui lo sfruttamento avviene in una forma che, essendo occulta, è molto più terribile dello sfruttamento degli operai della grande industria. Questi sfruttati sono convinti di lavorare per se stessi, per questo si spremono fino allo stremo delle forze e si accontentano del modo di vita più miserabile» (Die taktischen Differenzen in der Arbeiterbewegung, ns. tr., Hamburg 1909, pp. 107-108).

Ma neppure Pannekoek riesce a dirci in che modo queste classi possono costituire una base rivoluzionaria. Invece così Bakunin: «Il popolo delle campagne che, per la prima volta nella storia d’Italia, sarà chiamato a giocare un grande ruolo nella prossima rivoluzione sociale sembrerebbe piuttosto sotto l’influenza dei preti. Ma in fondo tutte le sue preoccupazioni sono essenzialmente socialiste. Esso aspira ad un radicale cambiamento della sua esistenza economica, e i preti non potranno esercitare una certa influenza che incoraggiando e blandendo questo istinto, come l’ha fatto in passato il Cardinale Ruffo nel reame di Napoli» (Lettera a “La Liberté” di Bruxelles, del 29 agosto 1871, in Opere Complete, vol. I, Catania 1976, pp. 99).

E altrove: «Tenetelo presente, il contadino odia tutti i governi. Li sopporta per prudenza, li paga regolarmente e soffre quando gli prendono i figli per fare il soldato, perché non vede come potrebbe fare altrimenti, in quanto tutti i governi sono uguali e quello nuovo vale il vecchio quale che sia il nome che prende non sarà migliore dell’antico, per cui a che scopo, si domanda il contadino, correre dei rischi e sostenere delle spese per un inutile cambiamento» (La liberté, choix de textes, ns. tr., Parigi 1965, p. 155).

Ma anche quest’altra faccia dell’interpretazione non ci autorizza a fissare canoni rigidi pretendendo di renderli validi in tutti i luoghi e tutti i tempi. In questo modo si trasforma il processo rivoluzionario in un meccanismo che ci dice come sia sufficiente creare un focolaio di guerriglia in campagna perché prima o poi i contadini si svegliano e, sostenendo la guerriglia, fanno giustizia di tutti i pregiudizi e di tutti i residui morali, portando alle conseguenze estreme lo stesso processo rivoluzionario. Questa concezione meccanica è del tutto da scartare. Non solo non è valida sul piano della strategia ma, per quanto riguarda i chiarimenti che vi cerchiamo nei confronti del problema del banditismo sociale, è del tutto inefficiente.

Il bandito sociale ha difficoltà a mantenere il contatto con la massa degli sfruttati per alcuni motivi che abbiamo illustrato: a) la religiosità di fondo delle masse che ne utilizzano in forma irrazionale il mito relativo, b) il residuo della morale borghese che lo emargina insieme al sottoproletariato in genere, c) l’impossibilità di applicare schemi deterministici alle situazioni storiche che di volta in volta presentano caratteristiche specifiche e che trasformano lo stesso rapporto bandito-massa.

Comunque queste affermazioni vanno riviste alla luce dei fatti: in situazioni precise, a forte carica rivoluzionaria, i rapporti subiscono notevoli modificazioni, la presenza della morale borghese viene ad allentare la sua stretta, altri interessi e altre forme entrano in gioco, altre prospettive si aprono davanti ai lavoratori e, con ciò, la stessa concezione di “criminalità” si modifica.

Fermiamoci al concetto di banditismo sociale. Ha scritto più di un secolo fa Pietro Calà Ulloa, nel libro: Unione non unità d’Italia, Roma 1867: «Il governo d’Italia è stato vigliacco, col Mezzogiorno. Sa di poter osare tutto quaggiù; e, nel fatto, può tutto osare, e tutto osa quaggiù. Ormai il governo dispone del Mezzogiorno elettorale. In venti anni lo ha, elettoralmente, demoralizzato. [...] Povero Mezzogiorno! È Depretis al Governo? Quaggiù comanda Grimaldi. È Rudinì? Quaggiù imperversa Nicotera. È Giolitti? Quaggiù striscia Lacava. È Sonnino? Quaggiù impera Crispi. È Pelloux? Quaggiù torna a strisciar Lacava. Sempre così, sempre. E sarà sempre così, perché il Settentrione capitalista e militarista fa i suoi affari, restando al timone dello Stato, grazie alla degradazione politica del Mezzogiorno» (Ib. p. 13). Il capitolo dello sfruttamento del meridione d’Italia è dei più sanguinosi e significativi. Così Gramsci: «Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti» (“L’Ordine Nuovo”, 1920). All’insurrezione di Bronte, causata dalle mancate promesse di Garibaldi riguardanti la divisione del latifondo, promesse che non poterono essere mantenute dal “dittatore” per salvaguardare gli interessi degli Inglesi della ducea Nelson, Bixio risponde occupando militarmente il paese con una compagnia di “garibaldini” e facendo affiggere il seguente proclama: “Il generale G. N. Bixio, in virtù delle facoltà ricevute dal Dittatore ‘decreta’, il Paese di Bronte colpevole di lesa umanità è dichiarato in istato d'assedio. Nel termine di tre ore da cominciare alle 13 e mezza, gli abitanti consegneranno le armi da fuoco e da taglio, pena di fucilazione pei retentori. Il Municipio è sciolto per organizzarsi ai termini di legge. La Guardia Nazionale è sciolta per organizzarsi pure a termine di legge. Gli autori de’ delitti commessi saranno consegnati all’autorità militare per essere giudicati dalla Commessione speciale. È imposta al paese una tassa di guerra di onze dieci l’ora, da cominciare alle ore 22 del 4 corrente giorno, ora della mobilizzazione della forza militare in Postavina e da avere termine al momento della regolare organizzazione del paese. Bronte 6 agosto 1860”. Perfetto stile di truppe d’occupazione. Gli eserciti, qualsiasi divisa indossano, si comportano sempre allo stesso modo.

Il diritto all’espropriazione

Gli sfruttati hanno il diritto di rientrare in possesso di quanto è stato loro tolto, con l’inganno del meccanismo economico e con la forza del meccanismo legale. L’atto con cui avviene la ripresa può essere chiamato espropriazione, in quanto priva della proprietà coloro che la detengono e rivoluzionaria, perché non prevede alcuna forma di indennizzo.

“Colui che non ha il necessario per vivere non deve né riconoscere né rispettare la proprietà di altri: i princìpi del contratto sociale sono stati violati a suo sfavore”. Questa frase, molto interessante, si trovava sullo scrittoio di Severino Di Giovanni nella sua casa di Burzaco in Argentina. (Cfr. O. Bayer, Severino Di Giovanni. L’idealista della violenza, tr. it., Pistoia 1973, p. 135).

I problemi che sorgono sono essenzialmente di due tipi: a) è possibile giustificare l’espropriazione rivoluzionaria quando viene fatta da un’organizzazione a favore di un movimento che conduce una lotta? b) è possibile giustificare l’appropriazione personale, la cosiddetta ripresa individuale?

Il primo aspetto della questione è, dentro certi limiti, risolto in senso affermativo: la giustificazione è unanime, salvo le frange socialdemocratiche e riformiste che, in ogni caso, sono del tutto fuori della logica rivoluzionaria. Citiamo fra i tanti Lenin per dimostrare come lo stesso partito comunista non rifiuta (teoricamente parlando) la tesi in oggetto: «I reparti debbono incominciare immediatamente la preparazione militare con delle operazioni immediate. Gli uni procederanno subito all’uccisione di una spia o faranno saltare un posto di polizia, gli altri irromperanno in una banca per confiscarvi i fondi necessari all’insurrezione, i terzi faranno degli esercizi o disegneranno dei piani, ecc. Ma è assolutamente necessario cominciare subito ad imparare in pratica: non abbiate paura di questi assalti di prova. S’intende, essi possono degenerare in eccessi, ma questo è un male del domani, mentre il male del giorno d’oggi consiste nella nostra inerzia, nel nostro dottrinarismo, nell’immobilità da sapientoni e nel terrore senile dell’iniziativa» (Istituto Marx-Engels-Lenin di Mosca, La Guerra partigiana vista dai classici del marxismo-leninismo, Mosca 1970, p. 75). Lenin scrive questo il 16 ottobre del 1905.

Il secondo aspetto del nostro problema, la ripresa individuale, è in se stessa condannabile, in quanto chi ruba non fa altro che trasferire la proprietà di qualcosa e non compie nessun atto direttamente rivoluzionario, impadronendosi di quanto ha rubato a titolo personale. Ma, approfondendo l’analisi, ci si accorge che il problema non può ridursi ad un processo di oggettivazione che minaccia di accettare per buone le motivazioni borghesi della colpa e della punizione. La ripresa individuale è effetto di qualcosa che si trova più a monte, non è causa di una modificazione nel soggetto che la compie. Il “criminale” come fattispecie sociologica è una sovrastruttura costituita allo scopo di giustificare l’emarginazione di una parte della popolazione, specie quella parte degli sfruttati che si dimostra più riottosa o poco incline ad essere addomesticata dalla logica del capitale. La validità di una barriera rigida tra “banditismo comune” e “banditismo sociale” è discutibile. La radice sociale che li genera entrambi è uguale, solo il grado di coscienza è diverso, ma su questo livello il discorso è dinamico al sommo grado: il “delinquente comune” di oggi può diventare il rivoluzionario di domani.

Alexandre Marius Jacob ai giudici nel corso del processo a suo carico dichiara, giustificando la ripresa individuale (Jacob venne condannato ai lavori forzati a vita, le sue azioni dettero origine ad una fortunata serie di romanzi d’avventura): «Signori, adesso sapete chi sono: un ribelle che vive del ricavato dei suoi furti. Di più, ho incendiato diversi alberghi e difeso la mia libertà contro l’aggressione degli agenti del potere. Ho messo a nudo tutta la mia esistenza di lotta e la sottometto come un problema alle vostre intelligenze. Non riconosco a nessuno il diritto di giudicarmi» (Cfr. il mio libro: A mano armata, Trieste 2009, pp. 196-199).

Quest’analisi è veramente determinante. Il punto centrale è il concetto di violenza esercitato sugli sfruttati. Da notare la grande attualità di un’analisi del genere che affronta il problema della ripresa individuale partendo dagli omicidi nelle fabbriche, dalle morti bianche. Ancora una volta l’accusa di individualismo, mossa più volte all’epoca della banda Bonnot, non coglie il centro della questione. Contro i “banditi tragici” della banda Bonnot si scagliarono i redattori del giornale anarchico “Les Temps nouveaux”, in particolare in un articolo apparso nel n. 36 del 6 gennaio 1912. Un altro giornale anarchico contemporaneo, “Le Libertaire”, che pure in passato aveva manifestato delle simpatie per l’illegalismo, arrivando ad accettare scritti di Libertad e Armand, si espresse in forma piuttosto prudente e critica nei confronti del caso Bonnot, nel n. 24 del 6 aprile 1912. Ancora più feroce la critica de “La Vie ouvrière”, di tendenza anarcosindacalista, nel n. 65 del 5 giugno 1912. “La Guerre sociale” nel numero uscito il 9 aprile 1912, pur accennando al valore rivoluzionario dell’opera di uomini come Ravachol, Henry, Vaillant e Caserio, si rifiuta di accettare i “banditi” del gruppo Bonnot. Tra individualismo e azione diretta di un’organizzazione non c’è differenza quando l’analisi di fondo è esatta, aderente alle condizioni imposte dall’affrontamento sociale. E l’analisi di Jacob ci pare molto aderente a queste condizioni. Essa coglie, infatti, con grande capacità la comunanza di fondo che lega tutte le espressioni fuorilegge, dal bandito “comune” al rivoluzionario teorico, comunanza determinata dall’esistenza della società dello sfruttamento. L’ulteriore differenziazione è una questione di livelli coscienziali, sui quali può aprirsi un discorso.

La violenza e il banditismo sociale

I padroni impiegano la più spietata violenza contro l’uomo: lo trasformano in una cosa, l’oggettivizzano nel momento in cui lo pongono come semplice componente della produzione, al pari della terra, delle materie prime e delle macchine. Non contenti di ciò, lo comprano, lo vendono, lo sfruttano, gli rubano il frutto del suo lavoro, e non sono pochi i casi in cui lo uccidono sul posto di sfruttamento. Anche non volendo citare i casi estremi (ma non tanto in questi ultimi tempi) della repressione, a mezzo della polizia e dei fascisti, dei tentativi di autogestione degli scioperi (picchetti, occupazioni, difesa degli scioperanti, ecc.), resta evidente che il padrone ruba con l’uso della violenza. Se rivolgiamo indietro lo sguardo, considerando lo svolgimento di questo fenomeno, la violenza padronale risalta in modo terribile. Milioni di uomini sono morti a causa delle rapine dei padroni, del fatto che è stata loro tolta la terra con mille inganni, a causa delle carestie e della guerra. E come se tutto ciò non bastasse, adesso il padrone ha inventato l’ultima violenza (espediente molto intelligente, che ha consentito al capitalismo di sopravvivere), quella psicologica, tramite la pubblicità e i mezzi d’informazione di massa, costringendo il proletariato ad entrare nell’area del consumo signorile e defraudandolo di quella parte di salario che non riusciva a rosicchiare in modo diverso.

Trattiamo in breve della violenza economica esercitata sulla massa. In epoche non industriali, come quelle antiche, in epoche in cui l’economia era basata sulla schiavitù, la violenza sugli schiavi era istituzionalizzata dal diritto di guerra, ma, contrariamente a quanto si può pensare, non era sufficiente ad accontentare la classe dominante. Il sistema per colpire gli strati più poveri, non schiavizzati, era quello dell’accaparramento. Aristotele ci parla di un grosso accaparramento di olio attuato da Talete di Mileto: «Si dice che Talete, mosso dal rimprovero alla sua povertà come prova dell’inutilità della filosofia, avendo previsto, in base ai suoi studi sugli astri, che vi sarebbe stata grande abbondanza di olive, ancora durante l’inverno impegnò le sue poche ricchezze riuscendo ad ottenere tutti i frantoi di olive di Mileto e di Chio, pagandoli a poco prezzo, perché non ostacolato dalla concorrenza; ma quando giunse il tempo previsto, poiché molti si misero a cercare i frantoi tutti insieme e tutto d’un tratto, egli poté imporre il nolo che volle raccogliendo molte ricchezze. È possibile applicare questo principio che serve a chi vuole crearsi un monopolio» (Politica, I, 11). Lo stesso Aristotele ci parla di un accaparramento di ferro in Sicilia (Ib., 11-12); Plinio di diverse operazioni del genere a Roma (Storia naturale, XXXIII, 57); lo Pseudo-Aristotele ci fa sapere di accaparramenti di piombo (Economiche, II, 36); Demostene di grano (Contro Dionisodoro, I); Procopio racconta gli accaparramenti di Giustiniano, specie quelli della seta (Storia segreta, 26).

A Roma non fu infrequente il caso di accaparratori messi a morte dal popolo. Plinio narra: «I prezzi che ho finora indicato variano, non l’ignoro, a seconda dei luoghi mutano quasi tutti gli anni; tali variazioni sono dovute sia alle condizioni della navigazione, sia alla quantità delle provvigioni, sia al rincaro cagionato da qualche potente accaparratore (aut aliquis praevalens manceps annonam flagellet): così fu che durante il regno di Nerone, Demetrio venne accusato davanti ai giudici da tutti i commercianti di droghe» (Plinio, op. cit.). Livio ci fa sapere come venner‘o lasciati in balia del popolo affamato i negozianti accusati di accaparramento (Livio, IV, 12). Sarebbe inutile indicare le numerosissime leggi che cercavano di colpire gli accaparratori. Citiamo solo da una novella di Giustiniano: «Abbiamo saputo [...] che coloro che esercitano un commercio o un’arte; gli artigiani, gli agricoltori e anche gli armatori e i marinai che pur dovrebbero essere migliori, mossi da avidità, esigono il doppio e il triplo dei prezzi e dei salari in contrasto con l’antica consuetudine [...]. Ci piace, con questo editto divino, proibire a tutti simile avidità e proibire che, in avvenire, qualsiasi commerciante, operaio o individuo che s’occupi di qualsiasi arte, commercio o attività agricola, esiga un prezzo o un salario più elevato di quello stabilito dall’antica consuetudine» (Novella CXXII). Con cui veniva individuata la lotta di classe in atto tra sfruttatori e sfruttati.

Nonostante tutte queste leggi l’approvvigionamento di Roma era molto difficile e le sommosse erano all’ordine del giorno. Ne parlano: Dione Cassio (LV, 26), Tacito (Annali, II, 87), Ammiano Marcellino (XIX, 10). Svetonio ce ne parla nella Vita di Augusto (25, 42), nella Vita di Claudio scrive: «Durante un periodo di carestia dovuto al susseguirsi di annate scarse, poiché trattenuto un giorno in mezzo al Foro dalla moltitudine, fu così caricato di insulti e anche di pezzi di pane che a fatica e solo passando per una porta di servizio riuscì a raggiungere il Palazzo» (18, 1). E anche nella Vita di Nerone (45, 1).

Carlo Magno emette un editto contro gli accaparratori nel 794; Filippo il Bello nel 1305; Giovanni nel 1335; Carlo VII nel 1439; Francesco I nel 1539; la rivoluzione francese, col decreto del 27 luglio 1793, stabilisce la pena di morte contro gli accaparratori. Foullon, notissimo accaparratore, viene ucciso dal popolo che lo aveva sorpreso mentre tentava di passare la frontiera.

Con l’inizio della produzione industriale sorse, per i capitalisti, il grosso problema di impedire che i lavoratori ritornassero alle terre, mettendo da parte anche un piccolissimo gruzzolo. Per fare questo, e per alzare al massimo il profitto, applicarono la più drastica riduzione dei salari. Tra il 1550 e il 1850 si svolse una lotta terribile tra capitalisti e produttori allo scopo di mantenere disponibile per la produzione uno stuolo miserabile di persone ridotto ad accettare qualsiasi riduzione di mercede purché garantisse il minimo della sopravvivenza. Il primo mezzo impiegato per far violenza al lavoratore fu, quindi, la diretta riduzione del salario. Ma questo mezzo facendo alzare il tasso di profitto accelera l’accumulazione del capitale, quindi favorisce ulteriori investimenti che, a loro volta, avranno bisogno di altra mano d’opera e saranno anche disposti a pagarla un poco di più. Ma dato che la miseria è una spinta alla procreazione, la domanda di lavoro cresce ma si bilancia con il crescere della richiesta da parte degli imprenditori e in questo modo il salario si ritorna a fissare al minimo.

Contro questa situazione sorsero i primi raggruppamenti clandestini di lavoratori, le prime unioni sindacali, le prime lotte sanguinose e ferocemente represse. Allora il capitalista fece ricorso a un mezzo più raffinato, la riduzione del potere d’acquisto della moneta. Il lavoratore aveva una paga nominalmente più alta ma il suo salario reale restava lo stesso in quanto il costo delle cose era aumentato. Nel periodo indicato sopra, tra il 1550 e il 1850, il deprezzamento della moneta fu impressionante. Non si applicò il vecchio sistema della tosatura della moneta, ma sistemi nuovi e ingegnosi: il corso forzoso, le emissioni sfrenate di biglietti di banca; si crearono le banche di emissione e si dette inizio alla speculazione sugli assegnati. L’aumento della circolazione dei mezzi di pagamento ridusse il salario reale esattamente al punto di prima: quello della sussistenza. «È noto che per molti secoli il cristianesimo fu considerato la religione per eccellenza, superiore a tutte le altre, vera di verità assoluta. Ma quale cristianesimo? domanda che si impose con evidenza quando si dovette constatare che esistono parecchie confessioni cristiane notevolmente diverse fra loro. Eppure essa non sembra turbare la coscienza dei seguaci delle varie confessioni; in particolare di quella cattolica. Né la cosa può stupirci se riflettiamo sul fatto che proprio la religione cristiana cattolica costituì in passato e costituisce ancora oggi uno degli assi intorno a cui ha ruotato e ruota la nostra civiltà. Ma come è caduta la fede che fu accolta per secoli e millenni, circa il carattere assoluto delle “verità” scientifiche, così può anche cadere quella nell’assolutezza dei dogmi religiosi. Per quanto riguarda il primo, e in particolare l’istituto del matrimonio così come si è venuto stabilizzando e diffondendo nei cosiddetti paesi civili occidentali, basta una rapida riflessione sulle sue trasformazioni in atto per accorgersi dell’insostenibilità della tesi tradizionale che vi scorgeva un carattere assoluto, in riferimento al quale condannava come incivili, o comunque meno civili, i popoli in cui l’istituto della famiglia, e soprattutto del matrimonio, si reggeva su regole diverse. Più subdolo e più pervicace è il dogmatismo che vige nel campo dell’economia. Qui viene infatti ossessivamente ripetuto che le leggi stesse dell’economia (di quella classica, tanto per intenderci) garantiscono la validità assoluta dei metodi di produzione e distribuzione della ricchezza praticati nel mondo capitalistico occidentale. Orbene basta estendere alla cosiddetta scienza dell’economia le critiche svolte dagli epistemologi della matematica e della fisica alle presunte leggi delle loro discipline, per comprendere quanto sia infondata la presunzione che proprio le leggi economiche debbano essere assolute e immodificabili» (L. Geymonat e G. Giorello, Le ragioni della scienza, Bari-Roma 1986, pp. 18-19).

Ma neanche questo bastava, poiché la miseria era uno stimolo alla procreazione, anche quest’ultimo fenomeno poteva tornare utile. Non essendo sempre sufficiente l’appoggio della religione che tuonava fulmini contro la limitazione delle nascite, delitto davanti a Dio, si pensò di gettare sul mercato del lavoro i ragazzi e le donne. Un nuovo, spaventoso capitolo della lotta del lavoro si aprì. Ancora quasi nulla sappiamo di questo periodo, molte cose restano dimenticate negli archivi, come le vendite in blocco che gli orfanotrofi facevano alle industrie e alle miniere e che sarebbe giusto riesumare e mettere sotto gli occhi di tanta brava gente. In questo modo la classe lavoratrice venne attirata in un nuovo tranello: gli si fece capire che aumentando il numero dei figli si aumentavano le entrate della famiglia. Ma quello che si ottenne fu di sostituire la mano d’opera adulta con quella infantile e femminile, pagata molto meno, generando così la disoccupazione e facendo aumentare il profitto degli imprenditori. La situazione divenne terribile e alcuni paesi furono investiti dalle prime rivolte. Le masse andavano incontro ai fucili dei servi dei padroni al grido di “Lavoro o morte”, per loro l’alternativa era questa: o morire d’inedia in una malsana topaia o morire sulla strada, in una sommossa, uccisi dal piombo dei padroni. Ma nessun esercito, per quanto impregnato di ideologie servili e rotto alla più dura disciplina, può essere impiegato a lungo contro i lavoratori. Gli stessi ufficiali comandanti si rendono conto del pericolo di queste repressioni: prima o poi, nei soldati, nelle stesse forze scelte di polizia, si risveglia lo spirito dello sfruttato e non sono stati pochi i casi in cui i fucili vennero rivolti contro gli ufficiali stessi. Fu per questo che i reazionari più illuminati suggerirono le prime riforme, la tassa sui poveri, le limitazioni sul prezzo delle farine e così via. Il problema che non poteva venire risolto si spostava all’infinito, dando origine a quell’illusione riformista in cui sono caduti, ai nostri giorni, anche non pochi partiti che originariamente si professavano rivoluzionari.

Si sviluppò allora l’idea dello straordinario per far fronte alle necessità della produzione. Ma ben presto ci si accorse che era necessario porre un limite per legge alle ore lavorative se si voleva mantenere intatta la capacità produttiva della macchina uomo. Nello stesso tempo l’ingrandirsi dell’industria e l’impiego sempre più massiccio di macchine utensili gettò sul lastrico un grande quantitativo di lavoratori, creando una concorrenza sul mercato del lavoro che fece ribassare i salari. «Al solo considerare queste evocazioni storiche di morti, si palesa tosto una spiccata differenza. Camille Desmoulins, Danton, Robespierre, Saint-Just, Napoleone, tanto gli eroi quanto i partiti e la massa della vecchia Rivoluzione francese adempirono, in costume romano e con frasi romane, il compito dei tempi loro, quello di liberare dalle catene e di instaurare la moderna società borghese. Gli uni spezzarono le terre feudali, e falciarono le teste feudali cresciute sopra di esse. L’altro creò nell’interno della Francia le condizioni per cui poté cominciare a svilupparsi la libera concorrenza, poté essere sfruttata la proprietà fondiaria suddivisa, e poté essere impiegata la forza produttiva industriale della nazione liberata dalle sue catene; e al di là dei confini della Francia spazzò dappertutto le istituzioni feudali, nella misura in cui ciò era necessario per creare alla società borghese in Francia un ambiente corrispondente sul continente europeo» (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, tr. it., Roma 1974, pp. 43-44).

Con l’aumento della produzione e la conseguente rapida ascesa dei profitti vi furono nuovi investimenti e i salari cominciarono a crescere un’altra volta perché aumentò la richiesta di mano d’opera. I capitalisti ricorsero allora al sistema di dividere la forza operaia in categorie, mettendo gli operai più abili in una categoria a parte, facendone capi-operai e scagliandoli contro i loro compagni di sventura. Si svilupparono in maniera incredibile i lavori improduttivi e intermedi (segna tempo, controlli amministrativi, propaganda, ecc.).

Non intendiamo arrivare fino agli espedienti del capitalismo maturo in quanto vogliamo fare qui un quadro di quel capitalismo che seppe conquistarsi il dominio del mondo intorno agli anni 1850-1870. Le caratteristiche fino a quest’epoca furono tra le più feroci e repressive. Dal campo d’azione locale la repressione in forma chiara e lampante si spostò al campo d’azione coloniale ed imperialista, ma in pratica i mezzi usati, sebbene molto più raffinati, rimasero sempre gli stessi.

Le crudeltà e gli eccidi della colonizzazione non hanno bisogno di essere testimoniati lungamente. Le cifre sono paurose. Milioni di uomini, donne e bambini sono stati massacrati per garantire lo sfruttamento. Nel 1895 gli Inglesi uccidono 3.000 ribelli Matabélé dopo che si erano arresi. Nel 1901 i Tedeschi uccidono nell’Africa Occidentale 25.000 Herero. Nel 1911 gli Italiani massacrano in solo tre giorni 4.000 indigeni nei sobborghi di Machiya. Dal 1783 al 1793 la Compagnia di Liverpool ricavò dal traffico degli schiavi 1.117.700 sterline; durante lo stesso periodo la popolazione delle zone dove scorazzavano gli agenti della compagnia perse 304.000 abitanti. Nel 1908 la popolazione del Congo Belga era di 20 milioni di abitanti, nel 1911 si era ridotta a 8.500.000: il re Leopoldo II ricavò dallo sfruttamento del Congo, in questo periodo, 3.179.120 sterline. Nel 1894 gli Ottentotti erano circa 20.000: sette anni di colonizzazione li ridussero a 9.700. Nel 1891 la Francia sperimenta in Africa le nuove armi esplosive ad alto potenziale, suscitando un’ondata di disgusto in tutta l’Europa. Scrive De Bosschère: «In realtà la schiavitù rinasce (ammesso che avesse mai cessato di esistere) favorita, appunto, dalle guerre di conquista. Gli eserciti coloniali faranno migliaia di prigionieri che saranno venduti sui mercati o assegnati agli ufficiali e ai soldati. Altra forma di schiavitù, che diverrà corrente proprio ad opera dei militari, è quella dei portatori negri. Rispondendo a Paul Vigné d’Octon, che nel corso di un dibattito parlamentare a Palais-Bourbon denunciava i crimini commessi nella conquista, il deputato Le Myre de Vilers, funzionario coloniale e vecchio “residente” nel Madagascar, farà questa dichiarazione: “il nostro onorevole collega se la prende con gli esecutori materiali; io accuso i governi. Essi non possono ignorare che inviando soldati a migliaia di miglia di distanza dalle loro basi di operazione, sprovvisti di mezzi di trasporto, di viveri, di merci di scambio, essi si trovano costretti a vivere sulle spalle degli abitanti e a requisire innumerevoli portatori, i quali disseminano i sentieri dei loro cadaveri. Uno dei nostri migliori esploratori, comandante di uno squadrone di artiglieri, mi diceva: Ogni portatore prelevato e sottoposto alla corvée non rivede mai più il suo villaggio (clamore all’estrema sinistra) o muore per la strada, oppure, arrivato a destinazione, viene abbandonato senza viveri. Senza denaro, senza mezzi di sussistenza”» (I due versanti della Storia, vol I, Storia della colonizzazione, op. cit., pp. 227-228).

Nel 1442 i cavalieri del cattolicissimo re di Spagna sbarcano in Africa e dopo le loro scorrerie “ringraziano il Signore per averli ricompensati della vittoria contro le orde barbariche”: avevano catturato 165 uomini, donne e bambini, senza contare il gran numero di morti e feriti. Nel 1768 ai Gesuiti in Brasile vennero confiscate varie proprietà e vi si trovarono, insieme ai soliti oggetti “sacri”, anche i ferri per marchiare gli schiavi. Nel 1600 due schiavi vennero donati dal comune alla Chiesa di S. Maria della Catena (vicino al porto) a Palermo. Il 12 febbraio 1836 la Chiesa Indipendente della Parrocchia di Cristo (Sud Carolina) annunciò in un avviso su di un giornale locale, la vendita di dieci schiavi abituati a coltivare cotone. Il 27 agosto 1701 il re di Spagna e quello di Francia firmarono concessioni alla Compagnia Reale della Guinea per il monopolio del traffico dei negri nelle colonie d’America per dieci anni. Nel 1700 la Compagnia Portoghese della Guinea firmò un contratto con il quale s’impegnava a fornire 11.000 tonnellate di negri.

La dominazione olandese riesce a mantenersi soltanto a condizione di reprimere sanguinosamente ogni tentativo di rivolta. In un momento di ridotta concorrenza gli indigeni che cercavano di smerciare, tramite contrabbandieri, l’eccedenza di chiodi di garofano e noce moscata, che la Compagnia olandese si rifiutava di comprare, vennero ferocemente uccisi. Gli azionisti olandesi furono molto soddisfatti di questa politica, malgrado le annate di magra i loro dividendi oscillarono tra il 25 per cento del 1629 e il 50 per cento del 1642.

Dalla fine del Quattrocento alla metà dell’Ottocento, 100 milioni di negri (13 milioni dal solo bacino del Congo) vennero deportati verso le Americhe e verso l’Europa. La prosperità degli Stati Uniti si baserà su questa mano d’opera gratuita in massima parte, mentre l’Africa, impoverita, cadrà facilmente davanti ai primi tentativi di colonizzazione del XIX secolo. «Le conseguenze della tratta saranno state innumerevoli; a volte di una gravità inimmaginabile, e tali da causare ripercussioni che non mancano di avvelenare ancora oggi il clima politico-sociale di parecchi paesi del mondo. L’Africa, ancora oggi, non ha ricuperato il suo equilibrio: per questo i Paesi che da poco hanno raggiunto l’indipendenza sono instabili e attraversano una crisi dopo l’altra. Le Antille, alienate e traumatizzate, prima, dalla schiavitù, poi, dall’assimilazione, danno vita ogni giorno ad esseri privi di identità nazionale. L’America ha il suo problema negro e non sa come risolverlo. La tratta, infine, avrà generato il razzismo. Ed è su basi razziste, d’altronde, che continuerà la colonizzazione europea nel XIX secolo» (G. De Bosschère, op. cit., pp. 182-183).

La trasformazione delle realtà periferiche secondo gli interessi economici della metropoli era possibile soltanto con la più terribile violenza, col terrorismo statale più esasperato. Questa violenza terroristica, a sua volta, era sostenuta da un’adeguata preparazione ideologica cui dava man forte la Chiesa. Così la violenza penetrava in un mondo che non l’aveva mai vissuta in questo modo. Gli schiavi si uccidevano l’un l’altro nelle stive sopraffollate delle navi che li trasportavano verso le Americhe, allo scopo di guadagnare un poco di posto. L’influenza delle strutture del capitalismo coloniale agiva su di loro disumanizzandoli, trasformandoli in bestie sradicate dal proprio luogo d’origine, bestie spaurite e pronte a tutto. E fu proprio questa carica di odio che si andava accumulando all’interno degli sfruttati che servì, successivamente, al colonizzatore, quando il sostegno ideologico primitivo e l’apporto della Chiesa si indebolirono a seguito della diffusione delle idee moderne di tipo progressista. Il nero venne rinchiuso nel ghetto perché si aveva paura di lui e delle sue reazioni violente.

Questa paura di fondo si vede con chiarezza negli Stati che oggi vivono il problema del razzismo. Vediamo alcune “leggi” vigenti oggi [1980] nel Sud Africa, regolanti quel regime che ha preso il nome di apartheid: a) ogni africano di più di 16 anni deve essere in possesso di un libretto di referenze. Se un africano non può esibire il proprio libretto perché l’ha lasciato a casa, commette un’infrazione penale passibile di un’ammenda massima di 28 dollari o di pena detentiva massima di un mese; b) ogni africano residente legalmente in una città in virtù del permesso che gli è stato rilasciato ufficialmente non ha il diritto di fare vivere la sua donna e i suoi bambini con lui; c) un ispettore del lavoro può, in qualsiasi momento, mettere fine all’impiego di un africano lavoratore in città, quale che sia la durata del periodo per il quale ha assunto l’impegno di lavoro, anche se il suo datore di lavoro si oppone a questa misura; d) un bianco che insegna a leggere ai suoi domestici qualche ora al giorno, è colpevole di un’infrazione penale; e) è illegale per un bianco e un non-bianco prendere una tazza di tè insieme in un bar o in qualsiasi altro luogo nell’Africa del Sud, a meno di avere avuto una speciale autorizzazione a questo riguardo; f) nessun africano può acquistare, in proprietà perpetua e libera, terre in un qualsiasi luogo dell’Africa del Sud; il presente governo non ha alcuna intenzione di accordare mai questo diritto agli africani, anche nelle zone bantou che essi occupano; g) un matrimonio legale contratto all’estero tra un sudafricano e una donna di colore è nullo e non avvenuto nell’Africa del Sud; h) i cadaveri dei bianchi non possono essere sezionati dagli studenti in medicina non-bianchi.

Da notare che nell’Africa del Sud su di una popolazione complessiva attuale [1973] di 21.448.000 circa di abitanti i bianchi sono soltanto 3.751.328. Un’altra interessante constatazione è che la popolazione africana, che costituisce più del 70 per cento del totale complessivo, occupa soltanto il 13,8 per cento del territorio; mentre la popolazione bianca, che costituisce il 19 per cento circa del totale complessivo, occupa l’86,2 per cento del territorio: la differenza in percentuale della popolazione è costituita da circa 2.600.000 meticci la cui sorte non è stata mai chiarita sufficientemente. (Cfr. “Liberation Afrique”, settembre 1973, n. 7, p. 5).

Nel 1960 a Coal Brook (Africa del sud) muoiono in miniera 437 lavoratori (431 africani). Nel 1972 a Wankie (Africa del sud) altra catastrofe mineraria: 420 morti di cui circa 30 bianchi. Il salario medio per un africano che lavora in Rhodesia è di 114 sterline l’anno, per un bianco è di 1.217 sterline. Nei diversi settori il trattamento diventa ancora più interessante: a) agricoltura: bianchi 1.241 sterline, neri 67 sterline; b) industrie estrattive: bianchi 1.536, neri 115; c) commercio: bianchi 1.064, neri 165; d) trasporti: bianchi 1.350, neri 243. Nel 1963 lo Stato rodhesiano ha speso 100 sterline per ogni bambino bianco per l’istruzione, contro 9 sterline per ogni bambino negro. (Cfr. “Liberation Afrique”, luglio-agosto 1972, p. 9).

Dovendo riprendere quanto è stato estorto dalla classe dominante non si può che ricorrere alla violenza. Non si tratta, come qualcuno ama credere, di un oscuro desiderio di dominio e di ricchezze che muove i popoli oppressi, non si tratta di sostituirsi all’oppressore per diventare ricchi come lui. Si tratta di sopravvivere, si tratta della difesa del più elementare diritto umano: la vita. «I fatti provano da sé che lo strumento essenziale della dominazione imperialista è la violenza. Se accettiamo il principio secondo cui la lotta di liberazione è una rivoluzione e che essa non termina nel momento in cui si alza la bandiera o si suona l’inno nazionale, vediamo che non ci può essere liberazione nazionale senza l’uso della violenza liberatrice [...]. Per rispondere alla violenza criminale degli agenti dell’imperialismo. Non c’è dubbio che, a prescindere dalle caratteristiche locali, la dominazione imperialista implica uno stato di violenza permanente [...]. Non c’è popolo sulla terra che, trovandosi sottomesso al giogo imperialista (colonialista o neo-colonialista), abbia conquistato la propria indipendenza (nominale o effettiva) senza vittime. Quello che conta è determinare quali sono le forme di violenza che devono essere utilizzate dalle forze di liberazione nazionale, per rispondere non soltanto alla violenza dell’imperialismo ma anche per garantire con la lotta la vittoria finale della propria causa» (Ib., p. 25).

Quindi, ricorso alla violenza reso necessario da: a) perché il padrone difenderà il bene che gli viene sottratto; b) perché esiste tutta una struttura, vecchia di secoli, che ha provveduto a cristallizzare per tempo alcuni processi automatici che attaccano violentemente coloro che cercano di impadronirsi della proprietà altrui. Lo Stato, nella forma complessiva, diventa il tutore massimo, e con la massima violenza possibile, dei diritti del ladro capitalista. Pensare ad un’espropriazione senza violenza è assurdo.

«Capite finalmente questo: se la violenza è cominciata stasera, se lo sfruttamento o l’oppressione non sono mai esistiti in terra, forse la nonviolenza ostentata può placare il dissidio. Ma se il regime per intero e fin i vostri nonviolenti pensieri sono condizionati da un’oppressione millenaria, la passività vostra non serve che a schierarvi dal lato degli oppressori» (J.-P. Sartre, Introduzione a F. Fanon, I dannati della terra, tr. it. Torino 1962, p. 20). Così Sartre introduce il discorso di Fanon sulla giusta pretesa degli sfruttati alla liberazione. «Attraverso l’atto della violenza il colonizzato può liberarsi dalla condizione umiliante che lo riduce a cosa, per tornare ad essere uomo: la colonizzazione è sempre un fenomeno di violenza [...] creazione di uomini nuovi [...] la “cosa” colonizzata diventa uomo nel processo stesso per il quale essa si libera» (Ib., p. 4).

Scrive Zahar: «Fanon concepisce la violenza come un processo in cui si possono schematicamente distinguere due fasi: una prima fase in cui la violenza spontanea, non ancora organizzata né dotata di intento politico, si scaglia semplicemente contro l’intruso, il padrone coloniale. Nella seconda fase, che si prolunga fino al momento dell’indipendenza formale, essa si organizza in rivoluzione socialista. Mentre nella prima fase la violenza elimina tendenzialmente l’irrigidimento psicologico e l’alienazione del colonizzato, nella seconda fase modifica le strutture coloniali capitalistiche che generano il comportamento alienato. Data l’impostazione prevalentemente socio-psicologica di tutti i suoi lavori, Fanon dedica particolare attenzione alla prima fase» (Il pensiero di Frantz Fanon e la teoria dei rapporti tra colonialismo e alienazione, tr. it. Milano 1970, pp. 99-100).

Questa riflessione ci aiuta nel nostro problema. La situazione di sfruttamento non può essere eliminata attraverso il lavoro, malgrado le fantasie progressiste e dialettiche di Hegel e di Marx, la trasformazione del servo non avviene in sostanza, ma si opera solo esteriormente, mentre all’interno resta la vera ragione dell’essere servo: il farsi sfruttare. La prima fase è molto importante, anche se, ovviamente, risente di uno schematismo di stampo marxista, in quanto affronta la presa di coscienza dello sfruttamento e la reazione, anche inconsulta, senza la quale non si può aprire la strada alla rivoluzione sociale, sbocco definitivo della lotta di liberazione. Il bandito sociale lotta allo stesso modo soggiace alle stesse limitazioni del colonizzato.

Il bandito comprende che il ricorso alla violenza è una necessità per la liberazione, ma non riesce a fare assumere questo dato a livello politico-strategico. Nel caso della situazione contadina esistono elementi precisi che l’impediscono, come l’isolamento, la difficoltà della lotta per la sopravvivenza, l’indivisibilità del fronte della reazione; nel caso della situazione cittadina altri elementi concorrono a questa presa di coscienza: il residuo della morale bottegaia, l’alienazione urbana, la frammentarietà del movimento rivoluzionario, la grande varietà delle forme che la reazione assume.

Spesso la rivolta del bandito non supera l’accettazione incosciente dell’ordinamento sociale imposto dal padrone. Il mondo dei ricchi viene combattuto e disprezzato ma, nello stesso tempo, viene agognato come il mondo in cui ci si riempie la pancia tutti i giorni, il mondo delle comodità, delle raffinatezze. Il padrone viene attaccato e distrutto in nome della necessità della sopravvivenza, ma spesso resta sempre il superuomo, colui che ha la roba, al quale si può rubare ma che appartiene alla razza avversaria. Poi, con lo svolgersi delle azioni, con lo svilupparsi della lotta violenta contro le istituzioni e contro i padroni, si mette in moto un meccanismo coscienziale che finisce per qualificare il bandito. Escludendo i casi di soggetti che si lasciano travolgere dalla propria componente passionale, da una scarsa considerazione degli altri; soggetti che cercano esclusivamente il proprio benessere, abbiamo casi molto comuni di banditi che socializzano la propria azione solo dopo un periodo che può essere più o meno lungo, in cui questa presa di coscienza resta latente.

Certo lo scoppio spontaneo e incontrollato di questa violenza può facilmente essere strumentalizzato. «Solo la violenza organizzata [...] consente alle masse di decifrare la realtà sociale, gliene dà la chiave. Senza questa lotta, senza questa conoscenza nella prassi, non c’è più che solfa e carnevalata. Un minimo di riadattamento, alcune riforme al vertice, una bandiera e, giù giù, la massa indivisa sempre [...] medievale, che continua il suo perpetuo movimento» (F. Fanon, I dannati della terra, op. cit., p. 92).

Molto vicina a questa osservazione di Fanon e a quella sopra citata di Sartre la seguente di Malatesta: «Ci possono essere dei casi in cui la resistenza passiva è un’arma efficace, ed allora sarebbe certamente la migliore delle armi, poiché sarebbe la più economica di sofferenze umane. Ma, il più delle volte, professare la resistenza passiva significa rassicurare gli oppressori contro la paura della ribellione, e quindi tradire la causa degli oppressi» (“Anarchia” (numero unico), London, agosto 1896).

Queste riflessioni ci aiutano a comprendere e individuare i limiti e le possibilità del banditismo sociale.

C’è da tenere presente un altro aspetto del problema dello sfruttamento e della presa di coscienza da parte dello sfruttato, ed è l’aspetto psicologico. Su questo punto, molto illuminante Erich Fromm: «Supponiamo di chiederci quali forze mantengono stabile una data società e quali la mettono in crisi. Noi possiamo vedere che la prosperità economica e i conflitti sociali ne determinano rispettivamente la stabilità o la decomposizione. Ma possiamo anche vedere che, sulla base di queste condizioni, il fattore più importante della struttura sociale è costituito dalle tendenze libidiche effettivamente operanti negli uomini. Consideriamo dapprima una costellazione sociale relativamente stabile. Che cosa tiene unita la gente? Che cosa la pone in grado di avvertire un sentimento di solidarietà, di adeguarsi al ruolo di governante o di governato? Indubbiamente, è l’apparato esterno del potere (polizia, tribunali, esercito, ecc.) che tiene insieme la società. Indubbiamente, sono gli interessi razionali ed egoistici che contribuiscono alla stabilità strutturale dell’organismo sociale. Ma, né l’apparato esterno del potere, né gli interessi razionali sarebbero sufficienti a garantire il funzionamento della società, se le pulsioni libidiche della gente non vi fossero coinvolte. Esse costituiscono il “cemento”, senza il quale la società non starebbe insieme e che contribuisce alla produzione di ogni sfera culturale e di importanti ideologie sociali. Applichiamo questo principio a una costellazione sociale particolarmente importante: la costellazione di classe. Nella storia, come noi sappiamo, una minoranza governa la maggioranza della società. Questo governo di classe non fu il risultato dell’astuzia e dell’inganno, ma la conseguenza necessaria dell’intera situazione economica della società, delle sue forze produttive. Come Necker osservò: “Mediante le leggi della proprietà, il proletariato fu condannato a ricevere il minimo salario per il suo lavoro”. Oppure, come sostenne Linguet: “Essi [i membri della classe dirigente] erano in certa misura una cospirazione contro la maggioranza della massa umana, che non poteva trovare soluzioni contro di loro”. L’Illuminismo descrisse e criticò questo rapporto di dipendenza, anche se non si rese conto che la situazione era condizionata economicamente. Infatti, il governo della minoranza è un fatto storico; ma quali fattori permisero a questa relazione di dipendenza di stabilizzarsi? In primo luogo, naturalmente, fu l’impiego della forza fisica e il fatto che tali mezzi fisici fossero nelle mani di determinati gruppi. Ma intervenne anche un altro importante fattore: i legami libidici – ansietà, amore, fiducia – che alimentavano gli spiriti della maggioranza nelle loro relazioni con la classe dirigente. Ora, questa attitudine psichica non è il prodotto di uno stato d’animo provvisorio o di un fatto accidentale. È l’espressione dell’adattamento libidico della gente alle condizioni di vita imposte dai disegni economici. A mano a mano che queste condizioni rendono inevitabile il governo della minoranza sulla maggioranza, la libido si adatta a questa struttura economica e agisce come uno dei fattori che forniscono stabilità al rapporto di classe. Oltre a riconoscere le condizioni economiche della struttura libidica, la psicologia sociale non dovrebbe dimenticare di ricercare le basi psicologiche. Essa deve indagare, non solo sul motivo per cui tale struttura necessariamente esiste, ma anche come sia psicologicamente possibile e attraverso quali meccanismi operi. Ricercando le radici dei legami libidici che uniscono la maggioranza alla minoranza dirigente, la psicologia sociale potrebbe scoprire che questo rapporto è una ripetizione o una continuazione dell’atteggiamento psichico del bambino nei confronti dei genitori, e particolarmente del padre, in una famiglia borghese. Noi rintracciamo una mescolanza di ammirazione, paura, fede e fiducia nella forza e nella saggezza del padre; in breve, il bambino è effettivamente condizionato dalle qualità intellettuali e morali del padre: lo stesso atteggiamento si riscontra negli adulti appartenenti a una società patriarcale nei confronti dei membri della classe dirigente. Connessi a tale posizione, vi sono dei princìpi morali che convincono i poveri a soffrire piuttosto che far del male, e che li portano a credere che lo scopo della loro vita sia di ubbidire ai governanti e di compiere il loro dovere. Anche queste concezioni etiche, che sono così importanti per la stabilità sociale, sono prodotti da certe relazioni affettive ed emozionali verso coloro che creano e rappresentano tali norme. Indubbiamente, la creazione di queste norme non è lasciata al caso. Tutta una parte fondamentale dell’apparato culturale serve a plasmare, in modo sistematico e metodico, l’atteggiamento sociale richiesto. È un compito importante della psicologia sociale analizzare la funzione esercitata in tale processo dall’intero sistema educativo e da altri sistemi (quello penale, a esempio). Abbiamo messo a fuoco le relazioni libidiche esistenti fra la minoranza dirigente e la maggioranza governata, perché questo fattore costituisce il nocciolo sociale e psichico di ogni società di classe. Ma anche altre relazioni sociali hanno un tale carattere libidico. Le relazioni esistenti tra i membri del basso ceto medio hanno una coloritura psichica diversa da quella che caratterizza le relazioni fra proletari. Oppure, la relazione con un leader proletario che si identifica con la sua classe e serve gli interessi del proletariato, anche mentre lo governa, è diversa da quella che lega il proletariato a un leader che si presenta come un uomo forte come il grande padre che governa con onnipotente autorità. Alla diversità fra le possibili relazioni libidiche corrisponde la larga varietà di relazioni emozionali all’interno della società. Anche un breve abbozzo è impossibile in questa sede; il problema formerebbe infatti l’argomento specifico di una psicologia analitica sociale. Mi sia consentito di affermare che ogni società ha la propria struttura libidica, così come ha una propria struttura economica, sociale, politica e culturale. Questa struttura libidica è il prodotto dell’influenza esercitata dalle condizioni socio-economiche sugli impulsi umani; a volte, essa è un importante fattore che condiziona gli sviluppi emozionali, i vari livelli della società, e i contenuti della “sovrastruttura ideologica”. La struttura libidica di una società è il mezzo con cui l’economia influenza manifestazioni mentali e intellettuali dell’uomo. Naturalmente, la struttura libidica di una società non rimane costante, non più di quanto lo rimangono quella economica e sociale. Ma si mantiene relativamente costante a patto che la struttura sociale conservi un certo equilibrio – cioè durante la fase di relativo consolidamento dello sviluppo della società. Con lo svilupparsi delle contraddizioni e dei conflitti oggettivi all’interno della società, e con l’accelerarsi dei processi di disintegrazione, si verificano anche alcuni mutamenti nella struttura libidica della società. Vediamo scomparire i legami tradizionali che la mantenevano stabile e verificarsi un mutamento negli atteggiamenti emozionali tradizionali. Le energie libidiche vengono liberate per nuovi usi, e così mutano la loro funzione sociale. Esse non servono più a preservare la società, ma contribuiscono allo sviluppo di nuove formazioni sociali. Cessano di essere “cemento”, e si trasformano in dinamite» (La crisi della psicoanalisi, tr. it., Milano 1971, pp. 170-181). I banditi sociali costituiscono la punta emergente di questo enorme potenziale esplosivo.

I fondamenti morali del banditismo sociale

Abbiamo già visto come sia difficile fissare, in termini precisi, la differenza tra “banditismo sociale” e “criminalità comune”. Le motivazioni morali, sempre presenti nel banditismo sociale, ci possono aiutare nella ricerca della differenziazione.

I princìpi che riscontriamo nella letteratura sui banditi sociali sono piuttosto costanti. Elenchiamoli brevemente:

  1. un’ingiustizia segna l’inizio della carriera

  2. corregge i torti

  3. prende al ricco per dare al povero

  4. non uccide che per autodifesa o per giusta vendetta

  5. non si stacca mai del tutto dalla comunità di origine

  6. è ammirato ed aiutato dai suoi

  7. muore quasi sempre per un tradimento.

Le fantasie popolari e i letterati di mestiere hanno talmente imbrogliato le cose che non è facile vedere chiaro nel cumulo di tradizioni, memorie, romanzi, leggende, costumi, storie che si è accatastato. L’elenco precedente è spesso arricchito da elementi decisamente reazionari, come a esempio, che il bandito non si scaglia mai contro il re o l’imperatore ma solo contro i signorotti locali, contro i preti e contro altri piccoli oppressori. L’origine di questa deformazione è possibile individuarla nel fatto che anticamente, in epoca medievale, il re non si differenziava molto dal signore locale se non per una carica carismatica che gli veniva dal dirsi unto da Dio, dall’investitura religiosa. In pratica, anche quando i banditi si schieravano a favore del re (come nel caso del Borbone), il discorso per loro non cambiava: la loro era una “legge” molto diversa da quella del re e, in ultimo, essi lottavano per se stessi e per la gente del loro ambiente.

Rinaldo, prototipo del bandito sociale, quando si schiera apertamente contro Carlo, non tradisce nessun giuramento, in quanto il tiranno è sempre privo di onore e ogni giuramento fatto a lui è senza valore. Lo stesso rientra nei canoni fondamentali sopra riportati quando attacca i cardinali e li depreda, quando aiuta il popolo, corregge i torti, uccide per difendere i deboli, è amato dai suoi, e muore per un tradimento.

Anche il problema dell’inizio della carriera è un problema mitico. Cominciare con un atto di ingiustizia ricevuto e non causato non è essenziale per il bandito sociale. Lo è invece per la leggenda che non potrebbe essere facilmente gestita. Angiolillo [Angelo Duca, detto Angiolillo (1760-1784) bandito napoletano], diventa bandito dopo una lite con una guardia in merito a un furto di bestiame di cui era innocente. Pancho Villa, per difendere l’onore della madre. (Su Villa, cfr. P. Calvert, The Mexican Revolution, 1910-1914, The diplomacy of Anglo-American conflict, Cambridge 1968; D. Cosio Villegas, Historia Moderna de México, México-Buenos Aires 1956, 6 voll.; P. Ferrua, Ricardo Flores Magon e la Rivoluzione Messicana, su “Anarchismo” n. 1, 1975, pp. 25-37). Molti altri non hanno simili inizi. Il caso di Ravachol è caratteristico: quando è arrestato gli si imputano, fra l’altro, l’assassinio di un proprietario di 86 anni e della sua domestica di 68; la violazione della sepoltura della contessa di Rochetaillée; l’assassinio di un eremita a Chambles. Eppure siamo davanti a un bandito sociale, anzi a uno dei più rappresentativi nel genere. Il suo inizio è, come nel caso di Jacob, dovuto a una precisa decisione di non sottomettersi allo sfruttamento.

Nella sua grossa biografia di Durruti, Abel Paz scrive: «Costretto all’esilio a Parigi per l’attività clandestina in Spagna, emigra, tramite l’aiuto di Hem Day, nell’America del Sud [...]. Durruti e Ascaso decidono di aiutare con tutti i mezzi a loro disposizione il movimento libertario sud-americano. Essi si trovano casualmente al centro di un’aspra discussione, fra responsabili C.G.T., in merito alle difficoltà finanziarie del movimento anarchico e della pubblicazione confederale. Essi offrono i loro soldi rispondendo alla sottoscrizione aperta. Durruti s’informa sulla pubblicazione. Questa si vendeva nella strada ma si manteneva con difficoltà in quanto i lettori avevano abitudine di non pagare il prezzo domandato. Durruti si meraviglia, posa sulla tavola un voluminoso pacchetto di biglietti di banca dicendo: “Ecco, per permettervi di respirare un poco, ma insistete perché le pubblicazioni operaie siano pagate dagli operai”. I membri del Comitato guardano con sospetto il denaro. Egli li rassicura facendo vedere una lettera di Sébastian Faure: l’anarchico francese lo ringraziava di un importante invio di danaro a favore della Editorial Internaciónal. Egli spiega che il suo gruppo e lui stesso (“Los Errantes”) lavoravano nel silenzio, disposti a giocare la vita al servizio delle proprie idee. “Voi lavorate lottando contro lo Stato nella legalità, noi combattiamo nell’illegalità. Ma i nostri e i vostri fini sono identici”. In pratica era evidente che essi erano gli autori di diverse rapine alle banche, recentemente verificatesi» (Durruti. Le Peuple en armes, tr. fr., Paris 1972, pp. 98 e 100-101).

L’attentato del poeta Kaliayev contro il granduca Sergio una prima volta fallisce perché nella carrozza si trovavano dei bambini e l’attentatore non getta la bomba. Savinkov si rifiuta di minare il rapido Pietroburgo-Mosca dove viaggiava l’ammiraglio Dubassov perché sarebbero morti degli innocenti. Voinarovski odiava la caccia che trovava un’occupazione barbara. «Un tale oblio di sé, congiunto a così profonda cura della vita altrui, permette di supporre che questi uccisori delicati abbiano vissuto il destino della rivolta nella sua contraddizione estrema. Si può credere che anch’essi, pur riconoscendo il carattere inevitabile della violenza, tuttavia confessassero che essa è ingiustificata. Necessario e non scusabile, tale appariva loro l’omicidio» (A. Camus, L’uomo in rivolta, op. cit., p. 191).

Quando Sabaté si presenta nella cabina dei macchinisti del treno tra le stazioni di Fornells de la Selva e Gerona, inseguito dalla polizia, e dà l’ordine di non fermarsi fino a Barcellona, desiste subito dal suo piano non appena i macchinisti gli spiegano che la cosa sarebbe stata impossibile e pericolosa per l’incolumità dei viaggiatori e che bisognava rispettare i segnali del percorso. (Cfr. A. Tellez, La guerriglia urbana in Spagna, Sabaté, tr. it., Ragusa 1972, p. 160).

L’accettazione del gruppo non è neppure una regola fissa. Sabaté è contestato dalle organizzazioni anarchiche ufficiali, Di Giovanni arriverà ad uccidere alcuni compagni che lo denigravano sistematicamente. Ne “La Protesta” del 11 gennaio 1929 D. Abad de Santillan attacca violentemente gli anarchici espropriatori in un articolo intitolato: “Deviazioni dell’anarchismo”, e avente come sottotitolo: “A proposito di nuovi casi di volgare delinquenza”. De Santillan approfondendo l’argomento scrive: «Da vari anni ormai non c’è in questo Paese un fatto clamoroso di delinquenza volgare nel quale non escano fuori nomi di anarchici vecchi e nuovi. Rapine a pagatori e banche da parte dei più audaci, fabbricazione e spaccio di moneta falsa per altri e mille forme di vita al margine del lavoro, sono state all’ordine del giorno in questi anni fra una quantità di individui che si nascondono sotto i panni dell’anarchismo. Vogliamo appellarci al buon senso degli anarchici per cercar di porre fine, di isolare questo focolaio di perversione e di deviazione dalle idee e dai metodi di lotta [...]. Non possiamo essere tolleranti con coloro che si appropriano delle idee anarchiche, delle quali una volta si dicevano sostenitori, per creare una scuola di banditismo e corrompere un certo numero di giovani che altrimenti avrebbero potuto essere molto utili alla causa del progresso». Di Giovanni colpirà personalmente i calunniatori.

Il caso Ravachol è esemplare. Prima di diventare un simbolo, Ravachol venne considerato un mouchard, cioè una spia della polizia. In un discorso tenuto a Saint-Etienne, Faure avanza dubbi su Ravachol. I dubbi erano sorti perché al momento del suo primo arresto a opera della polizia di Saint-Etienne, egli era riuscito a fuggire grazie all’ incredibile combinazione della presenza di un ubriaco che andando a cadere fra le gambe dei poliziotti gli aveva consentito l’attuazione di un’audacissima fuga. Oggi, come possiamo vedere negli archivi nazionali di Parigi, esistono le prove che il fatto fu veramente accidentale e che il commissario di polizia, un certo Teychné, venne punito e trasferito a Agen (A.N. F7 12504). In un rapporto della polizia del 21 gennaio 1892 si parla espressamente dell’imbecillità del commissario speciale di polizia Teychné. Eppure un foglio anarchico (“La Révolte”, n. 17 del 16-22 gennaio 1892) non ebbe dubbi nello scrivere: «... L’opinione pubblica è talmente convinta che la polizia l’ha fatto evadere che ride nel corso dell’interrogatorio al processo contro i complici [...]. Ravachol non è altro che una nuova edizione dell’agente Serreaux che pubblicava “La Rivoluzione sociale” di triste memoria per il signor Andrieux». La storia è famosa. Serreaux era un agente provocatore belga il cui vero nome era Egide Spilleux, lavorava alle dirette dipendenze del prefetto di polizia di Parigi, Louis Andrieux, che poi narrerà tutta la storia in un importante libro di memorie (Souvenirs d’un Préfet de police, 2 voll., Paris 1906-1910). Serreaux stabilì il contatto con i gruppi di Parigi e lanciò l’idea di un giornale di cui fornì il denaro per iniziare la pubblicazione dicendo che veniva da un’anziana signora di Londra che voleva mantenere l’incognito. Grave, Reclus, lo stesso Kropotkin, ritennero la storia poco credibile, ma il desiderio del giornale fu più forte: il 12 settembre 1880 usciva il primo numero del settimanale “La Révolution sociale”. Andrieux scriverà nelle sue memorie: “Dare un giornale agli anarchici è stato come installare una linea telefonica tra il centro dei cospiratori e l’ufficio del Prefetto”.

Sempre “La Révolte” in un articolo di Kropotkin scriveva: «Questo mondo [quello di Ravachol] non ha nulla d’interessante per la rivoluzione... il lavoro serio che la rivoluzione domanda, il lavoro di tutti i giorni, poco visibile, ma immenso [...] richiede altri uomini, diversi da quelli sfilati a Saint-Etienne. Lasciamoli ai borghesi fine-secolo, dei quali sono i veri prodotti». Su questo articolo vedere J. Grave, Le Mouvemente libertaire sous la 3e République, ns. tr., Paris 1930, pp. 101-102, dove si legge: «Ravachol aveva la polizia alle costole per diversi misfatti compiuti nella regione di Saint-Etienne [...]. Molti anarchici erano convinti che Ravachol avesse compiuti questi crimini soltanto per fornire denaro alla propaganda. Molti anarchici furono anche arrestati come complici. Ma, quando subirono il processo, l’attitudine di queste comparse, fu così pietosa, rigettandosi reciprocamente la responsabilità, che ci disgustò e ci rese ingiusti verso Ravachol. Fu sotto l’impressione del resoconto del processo che Kropotkin mi inviò un articolo intitolato “Affare di Chambles”, dove scriveva tutto il suo disgusto. Questo articolo ci procurò lettere di diversi compagni e di Ricard tra essi, affermanti la sincerità di Ravachol. In seguito per la sua fiera attitudine davanti ai giudici apprendemmo meglio a giudicarlo [...]. Era un uomo sincero d’una energia poco comune». Le edizioni Flammarion hanno pubblicato una nuova edizione, rivista e accresciuta in base al manoscritto di quest’opera fondamentale per la storia del movimento libertario francese (J. Grave, Quarante ans de propagande anarchiste, Paris 1973).

In definitiva resta valido il principio che non si può parlare di lotta rivoluzionaria seduti nella propria poltrona, la sera tardi, dopo un buon pasto: in queste condizioni ogni riflessione personale viene ad essere distorta dal benessere contingente e arriva, spesso involontariamente, a conclusioni del tutto errate. Nel momento dell’azione il problema della scelta dei mezzi riceve una particolare luce dalle analisi preventivamente fatte, ma non può essere del tutto programmato da queste. Certo non è la situazione ad imporre in assoluto la scelta del mezzo, esistendo limiti di morale naturale, oltre che di strategia; ma la volontà del singolo, fusa in un tutto organico con quella dei suoi compagni, deve saper trovare quell’equilibrio necessario per diventare elemento attivo della rivoluzione.

In questo senso lo studio dell’evoluzione dei metodi di lotta è fatto importantissimo, avendosi, nell’eventualità di una stasi o ritardo, l’inefficienza della lotta e l’assorbimento immediato di ogni istanza di rivolta.

Occorre qui chiarire un luogo comune del tutto errato, quello che si chiama romanticismo rivoluzionario. Identificato spesso con il Catechismo rivoluzionario, attribuito erroneamente a Bakunin, questo modo di concepire la lotta, se ha avuto un senso (e non sappiamo fino a quanto) all’interno della società zarista del secolo scorso, non ne ha oggi alcuno. In quel lontano scritto si può leggere che il «... rivoluzionario deve essere un uomo dedicato soltanto alla sua missione, non deve avere interessi personali, né affari, né sentimenti, né affetti, né proprietà e neppure un nome. Nella profondità del suo essere, e non soltanto a parole, ma nei fatti, ha spezzato ogni legame con l’ordine civile e con tutto il mondo civilizzato, con le leggi, con le convenienze, con la moralità e con le convenzioni in genere riconosciute in questo mondo. Rigido verso se stesso, bisogna che sia tale anche verso gli altri. Tutti i sentimenti d’affezione, i sentimenti che inteneriscono, come la parentela, l’amicizia, l’amore, la riconoscenza, debbono essere soffocati in lui dalla passione unica e fredda dell’opera rivoluzionaria» (Cfr. in K. Marx, L’alleanza della democrazia socialista e l’associazione internazionale dei lavoratori. Rapporto e documenti pubblicati per ordine del Congresso internazionale dell’Aia, tr. it. Roma 1901, pp. 79-80. Ora in M. Confino, Il catechismo del rivoluzionario, tr. it. Milano 1976).

A parte le discussioni sull’originalità dello scritto e su quanto di esso possa essere attribuito a Bakunin o a Necaev, resta il fatto che i termini del discorso sono fortemente diversi. La lotta rivoluzionaria deve condursi non soltanto con certi mezzi (uomini e cose), ma anche e principalmente in funzione di certi scopi e sulla dirittura morale di certi ideali. Il rivoluzionario deve avere caratteristiche ben precise, ma che sono del tutto normali in una persona dotata di intelligenza media e di una media resistenza allo sforzo fisico e psicologico, comunque, tutte caratteristiche che possono essere curate con una preparazione più o meno intensa o più o meno lunga. Ma, nello stesso tempo, cosa molto più importante del fatto tecnico, il rivoluzionario deve avere una notevole preparazione e una notevole convinzione: cose, queste ultime, che lo caratterizzano, oltre che come rivoluzionario, come uomo nel senso più completo del termine.

È per questo che il vecchio discorso romantico di tipo cospirativo ci pare scaduto. Chi lotta, oggi, all’interno di un movimento rivoluzionario; chi si ribella al di fuori di qualsiasi movimento perché riconosce ingiusto lo sfruttamento e la presente organizzazione sociale; chi cerca di riprendere, anche personalmente, quello che gli è stato rubato; assumendosi i rischi e le responsabilità di questo lavoro, non è affatto un cinico o un esaltato propugnatore della violenza incondizionata, ma, al contrario, un uomo come tutti gli altri, con sentimenti e passioni, amicizia e amori, gioie e sofferenze, forza e limitazioni, che lo travagliano sebbene non lo condizionino del tutto.

La vecchia figura romantica del cospiratore, del bandito, del ribelle, avvolti nel mantello, freddi e lucidi, innamorati solo del pugnale e della bomba, è una costruzione oleografica che non ha più ragione di esistere.

È la morale del mondo capitalista che deve essere messa a tacere nel ribelle, la vecchia morale che parte da un mondo costruito di già, sulla pelle dei lavoratori, e considerato insuperabile ed eterno, la morale cristiana dello sfruttamento in nome di Dio. Ma, al suo posto, deve svilupparsi una nuova morale, quella della distruzione di questa struttura assurda e disumana e quella di un mondo del tutto diverso. Quest’ultima morale sarà la base della rielaborazione di tutti i sentimenti che nella vecchia dimensione finivano per diventare mostruose deformazioni o assurdi incubi, mentre nella dimensione morale nuova, della distruzione del vecchio mondo e della costruzione del nuovo, fanno più completo l’essere umano.

Ecco lo stralcio di una lettera che Di Giovanni invia il 19 agosto 1928 alla sua donna: «Mia amica. Ho la febbre in tutto il corpo. Il tuo contatto mi ha riempito di tutte le dolcezze. Mai, come in questi lunghissimi giorni, ho tanto centellinato i sorsi della vita. Prima vivevo le ore intranquille di Tantalo ed ora, oggi, l’oggi eterno che ci ha uniti, vivo, senza saziarmi, tutti i sentiti armoniosi dell’amore tanto caro a Shelley ed alla George Sand. Ti dissi – in quell’amplesso espansivo – quanto tempo ti amavo, ma vorrei dirti anche quanto ti amerò. Perché il pane della mente che sa materializzare tutte le idealità elette dell’ esistenza umana, ci sarà la guida più esperta, piena di tante abilità, risolutrice di tutti i problemi nostri, che – e te lo dico con tutta la sincerità di un amico, di un amante e di un compagno – il nostro unisono bene sarà bello e lungo, godente e pieno di tutti i sentimenti, grande e sconfinatamente eterno. Quando ti parlo di eternità – tutto ciò che il cuore ha voluto ed amato è eterno – voglio alludere all’eternità dell’amore. L’amore mai muore. L’amore che ha germogliato lontano dal vizio e dal pregiudizio, è puro e nella sua purezza non si può contaminare e l’incontaminato è dell’eternità» (citato da O. Bayer, op. cit., p. 126). In un’altra lettera mette in diretto rapporto l’amore con la sua situazione di ribelle: «Dolce mia speranza: ti cercavo, ti pensavo, eri solo tu il mio unico pensiero che possedevo. Non ti trovai. Tu – il sabato – eri lontana dalla mia burrasca. Forse ridevi – inconsapevole del mio dolore – ridevi felice del nostro amore che dovrebbe correre sulle allegre ali di tutte le gioie più belle. Ma io non ridevo – ma ti pensavo, questo sì – spasimando nel groviglio tempestoso degli accidenti quotidiani che coronano l’esistenza di tutti i perseguitati» (Ib., pp. 132-133). A proposito di questa lettera così Bayer: «Non c’è, nella personalità di Di Giovanni, tratto più significativo delle sue lettere d’amore; esse presentano uno sconosciuto aspetto poetico della sua discussa personalità. Le parole che quest’uomo di terribile forza e reazione scrive all’amata, che è quasi una bambina, saranno sempre semplici e romantiche» (Ib., p. 126).

Il giorno prima di essere giustiziato Caserio scrive alla sorella: «Cara sorella, che bella giornata, l’ultima volta che sono venuto a casa! Ti ho visto correre verso di me, col tuo sorriso gioioso, per darmi un bacio di tutto cuore; io ti ho abbracciato, ma con un sorriso leggero perché sapevo già che era l’ultima volta che venivo a casa, la mia cara casa! Partivo per il servizio militare e per non più tornare. Sono rimasto soltanto qualche giorno con te e tutti i fratelli, e una sera, dopo mangiato, dissi che dovevo partire; senza dire che era l’ultima volta che ci vedevamo perché il dolore sarebbe stato troppo grande per te, per tutti i nostri fratelli, per la nostra cara madre! Che triste notte ho passato pensando che dovevo abbandonarvi tutti, non ho potuto dormire un solo istante! Ma ecco il mattino: sento che la porta si apre, improvvisamente apro gli occhi e ti vedo entrare a darmi il buon giorno! Ma sì, non avevo la forza di risponderti perché sfortunatamente sapevo che non ti avrei mai più rivisto! Tu ti sei avvicinata al mio letto, hai messo qualcosa nella mia mano e sei partita per il tuo lavoro. Sono rimasto a lungo senza parlare, poi mi sono messo a piangere come un bambino: ho aperto la mano e vi ho trovato una lira. Pensai dentro di me: tua sorella, che è così giovane, lavora tutta la giornata per la miserabile paga di venti centesimi ma è molto contenta perché aiuta e allevia un poco la cara madre, nelle spese della casa, e si è privata, il suo gentile cuore, di una lira perché sapeva che non avevo soldi! Questo è il mio ultimo scritto, cara sorella: quando leggerai queste parole la mia testa sarà caduta sotto la ghigliottina! Non credere a quello che ti diranno, che sono un assassino, ma pensa che è per un grande ideale che vado a morire. Oggi sei troppo giovane, ma verrà il giorno in cui sarai obbligata a lottare contro la miseria ed allora saprai perché tuo fratello è morto. Ti saluto e ti bacio di tutto cuore, stringendoti la mano. Il tuo amato fratello. Santo Caserio» (Riportata in M. Raux, “Les actes, l’attitude et la correspondance de Caserio en prison”, in “Archives d’Anthropologie criminelle de criminologie et de psychologie normale et pathologique”, 1901, ns. tr., pp. 502-503. Abbiamo dato la versione italiana della versione francese della lettera originale di Caserio. In effetti il manoscritto originale, riportato in riproduzione fotografica nello studio suddetto, presenta un linguaggio pieno di errori che rende molto difficile la lettura).

Ravachol in una lettera al fratello scrive a proposito della sua donna: «Tutta la mia riconoscenza a questa donna che espia in prigione l’errore di avermi conosciuto, per il coraggio che ha dimostrato in Corte d’Assise [...]. Povera donna! Non aveva nulla da temere e neppure da sperare da me, ma non ha avuto paura di aggravare la sua situazione volendomi provare la sincerità del suo amore, di cui non avevo mai dubitato [...]. Spero che i miei giudici avranno compreso la delicatezza di questi sentimenti e non la condanneranno pesantemente. Ah! l’amore, che sentimento potente, irresistibile. È con esso che abbiamo il più gradevole piacere quando ne gustiamo le dolcezze. Come è sempre esso che ci dà le pene più dolorose quando è violentemente interrotto da una volontà contraria. Attualmente è ciò che mi affligge di più» (riportata in M. Raux, “Etude psychologique de Ravachol” in “Archives d’Anthropologie criminelle de criminologie et de psychologie normale et pathologique”, ns. tr., 1903, p. 559). In un’ultima lettera scritta poche ore prima di essere giustiziato, sempre al fratello scrive: «Approfitto dell’occasione per dire a quelli che eventualmente ne avrebbero l’intenzione di non vendicarsi della mia condanna e di ben riflettere se la cosa è utile alla propaganda. In caso contrario, sarebbe inutile, cioè insensato, ingrandire il numero delle vittime, perché per quanto mi riguarda non porto rancore a nessuno, atteso che, come ho detto, quelli che mi hanno condannato, senza dubbio, hanno ritenuto di fare una buona azione» (Ib., p. 560).

Ecco adesso la differenza tra morale borghese e morale rivoluzionaria, esaminando le reazioni di individui diversi in situazioni più o meno simili. Un sacerdote è fatto prigioniero insieme ad alcuni controrivoluzionari provenienti dagli Stati Uniti e sbarcati a Cuba, alla baia dei Porci, per riproporre la dittatura reazionaria. Durante l’interrogatorio il sacerdote risponde nel modo seguente:

«– Giornalista: Lei dunque pensa che non è compito dei sacerdoti immischiarsi in rivoluzioni o in controrivoluzioni? È d’accordo con questo?

Sacerdote: perlomeno questa è la mia opinione personale.

Giornalista: Questa è la sua opinione?

Sacerdote: [...] ma io torno a ripeterle la stessa cosa: la mia missione non era ideologica né politica, era puramente spirituale e pertanto io devo stare dove questi ragazzi potrebbero avere bisogno di me, così come, nel caso che altri avessero bisogno...

Sacerdote: i miei superiori di Roma mi hanno autorizzato ad arruolarmi non in un esercito invasore, ma a prestare il mio aiuto spirituale ad alcuni ragazzi che erano cattolici.

Giornalista: Lei entra nella brigata di assalto...

Sacerdote: ma io collaboro spiritualmente.

Giornalista: i “ragazzi cattolici” assassinavano...

Sacerdote: ma io non ho ucciso nessuno.

Giornalista: La brigata è costituita anche da torturatori, delinquenti, proprietari terrieri, ex soldati di Batista...

Sacerdote: ma io prestavo aiuto spirituale ai ragazzi della spedizione che erano cattolici.

Giornalista: Portavano un enorme arsenale di armi (carri armati, napalm, bazooka, mitragliere cal. 50, ecc.).

Sacerdote: ma io non ho usato armi né prima né dopo.

Giornalista: Compiono sabotaggi...

Sacerdote: ma io non ne so niente.

Giornalista: Facevano parte di una cospirazione...

Sacerdote: ma questo non vuol dire che io sia un cospiratore.

Giornalista: era a Cuba infrangendo le sue leggi.

Sacerdote: ma dopo cinque anni non le conoscevo.

Giornalista: nell’attacco sono morti 127 miliziani.

Sacerdote: che morti?

Giornalista: ha collaborato con la spedizione.

Sacerdote: ma ho la coscienza molto tranquilla».

(Citato da L. Rozitchner, Morale borghese e Rivoluzione, tr. it. Milano 1971, pp. 61-67).

Come scrive giustamente Léon Rozitchner a proposito di questo rapporto: «La pretesa del sacerdote consiste nel volerci far credere che il suo atto obiettivo, personale, non può essere letto in rapporto con gli atti materiali degli altri perché lui, se pure era fisicamente unito a loro, restava estraneo al loro aspetto materiale: stava con loro come se fosse solamente spirito» (Ibidem).

I “bravi ragazzi cattolici” erano Calviño, famoso assassino e torturatore, un mucchio di membri della dittatura di Batista che avevano ucciso un intero popolo, qualche milionario che costringeva alla fame i contadini della Palude di Zapata, dei politicanti che avevano affossato Cuba per tanto tempo. Questa la morale della borghesia.

Così scrive Hebert Aptheker: «Se Nixon e Agnew sono l’esecutivo ideale; se Eastland e Thurmond sono i senatori ideali, se J. Edgar Hoover è il giudice riconosciuto della “lealtà” e del “patriottismo”, allora, veramente, la nostra bellissima compagna Angela Davis è un “criminale pericolosissimo”. Si può concepire per un americano un onore più grande che essere messo in cima alla lista dei “criminali” nel giudizio di simili mostri?» (Il criminale più ricercato d’America, in A. Davis, La rivolta nera, tr. it. Roma 1972, p. 319).

Così in una lettera del 1951, Guillermo Lobatón: «Sento la vita come un valore che non mi appartiene, come un valore che devo restituire ad altri, ma con gli interessi. Un grande usuraio mi ha prestato la vita. Non so a chi, ma mi preparo a darla. A chi la voglia. Meno che a me stesso» (cfr. Jacqueline Lobatón, Introduzione a G. Lobatón, Secondo Fronte. Teoria della guerriglia e appello alla lotta armata negli scritti del capo dei Túpac Amaru, tr. it. Milano 1970, p. 119). In un’altra lettera, alla madre, del 1° maggio 1965, scriveva: «Sei nella mia memoria come vi rimarrai per sempre: coraggiosa e piena di preoccupazioni per farci vivere [...]. Io sono figlio del tuo coraggio e delle tue preoccupazioni. Continuo per il tuo cammino: ma con una luce, un giuramento, una legge. Spero di tornare con una corona di gloria per metterla sulla tua fronte bianca e umile, ma degna, come quelle di tutte le madri povere e indomite... Dammi la tua benedizione, madre, e lasciami andare. Tuo figlio, che mai ti dimentica» (Ib., p. 119). Lobatón scomparve all’inizio del 1966 senza lasciare traccia, ultimo leader della guerriglia peruviana dopo l’uccisione di Luis de la Puente Uceda).

L’anarchico Decamps dichiara davanti ai suoi giudici: «La mia testa? La potete tagliare. Ve la consegno, la porterò fiero e impavido davanti alla ghigliottina. Una testa d’anarchico in più o in meno non impedirà certo la propaganda» (cfr. “La Révolte” n. 51, 5-11 settembre 1891). Decamps, arrestato per uno scontro a mano armata contro la polizia a seguito di una manifestazione anarchica a Levallois, fu condannato a cinque anni di prigione. Nel 1896 emigrò negli Stati Uniti dove fece parte della colonia “La Libera Iniziativa” (“Free initiative colonie”). (Cfr. “Les Temps nouveaux” n. 48 del 27 marzo-2 aprile 1897).

Vaillant riflettendo sulla propria imminente morte la vede come «... il grido di tutta una classe che rivendica i propri diritti e che ben presto passerà dalle parole agli atti [...]. Ho ben analizzato i miei sentimenti e non ho alcun odio verso coloro che domani mi uccideranno [...]. Guardo la morte con tranquillità; non è forse il rifugio di coloro che non si fanno illusioni? Almeno morrò con la soddisfazione di avere fatto quello che potevo per affrettare l’avvento dell’era nuova [...]» (Vaillant tenne un diario dal 20 novembre 1893, data della sua decisione di gettare una bomba in pieno Parlamento, al 9 dicembre, giorno dell’attentato. Questi fogli, inviati da Vaillant a Paul Reclus prima di entrare nel palazzo della Camera dei Deputati, vennero pubblicati da “Le Figaro” del 21 luglio 1894).

Scrive Guido Calogero: «Di fatto, finché io considero il mondo della mia coscienza come pura cosa, non c’è dovere che io possa sentire, che non sia immediatamente economico, che non debba cioè servire alla mia sola soddisfazione. Se le persone dei miei simili le considero in quel solo aspetto, nel quale vedo tutti gli altri oggetti della mia conoscenza, non posso sentire di fronte ad esse alcuno di quei doveri morali, che qui è questione d’intendere. Di fronte a un mondo tutto fatto di cose, non si vede che dovere possa sorgere, fuori di quello, immediatamente economico, di viverne; se di una persona bellissima sappiamo che è soltanto un perfetto automa meccanico, possiamo, quando non ci piaccia più, farlo a pezzi a colpi di scure con la stessa serenità e incolpevolezza con cui abbatteremmo un tronco disseccato. Ma quale, allora, la differenza fra la cosa e la persona, che si rivela così essenziale? Non può essere una differenza della specie di quella che fa differire il mondo creandone la molteplicità, perché non si uscirebbe, a questo modo, dal mondo delle cose; ma non può esser neppure una differenza metafisica di soggetti da oggetti, o di soggetti tra loro, perché soggetti al plurale, s’è visto, non ce ne sono. Né par possibile trovare altra strada per sfuggire al cornuto dilemma. L’aporia sembra quindi si possa risolvere soltanto in un modo. Se, nel mio mondo di soli oggetti, non c’è posto per la mia esigenza morale, e un mondo di soggetti, esistenzialmente conosciuti come gli oggetti, non ci può essere, non resta altra via che quella di riconoscere il principio morale appunto in questa stessa esigenza, e cioè nella mia volontà di considerare le persone dei miei “simili” come reali soggetti, che siano anch’essi assoluta ed universale volontà cosciente: volontà cosciente che, s’intende, io non posso concepire se non come affatto identificantesi, nella sua forma, a quell’unica che conosco, e che è la mia, ma che tuttavia pongo come altra, per potere in tal modo arricchire infinitamente dell’altrui soddisfazione la mia soddisfazione, e cioè mediare dell’eticità la mia pratica immediatezza. È, così, in forza di questa esigenza speculativa, che i singoli problemi della dottrina crociana della pratica derivanti dalla distinzione dei princìpi dell’economica e dell’etica sembrano doversi ripresentare anche in funzione delle premesse del pensiero italiano più recente, per quanto, s’intende, con tutte le modificazioni d’interpretazione condizionate dal mutato punto di vista. Illustrar le quali, d’altronde, non potrebbe naturalmente esser compito risolubile in questa sede, dove non si aveva altra intenzione che quella di fornire in modo affatto sommario e provvisorio, la nuda indicazione di un orientamento possibile» (Economia ed etica, in G. Calogero, D. Petrini, Studi crociani, Rieti 1930, pp. 47-48).

La separazione tra morale e scienza sociale è un problema molto complesso che ha sempre attirato l’attenzione, diciamo da Machiavelli in poi. La confusione non è poca. Per prima cosa non ci s’intende bene riguardo a cosa bisogna tener presente quando si parla di scienza sociale, amando alcuni fare una impropria distinzione tra politica ed economia. Ma, anche volendo superare questo ostacolo e riducendosi all’analisi materialista che vede l’inutilità di questa distinzione, se non a fini dottrinari, e afferma indispensabile il momento economico per comprendere l’uomo inserito in una prospettiva storica, resta un ulteriore problema. La distinzione tra coloro che affermano indispensabile separare etica ed economia e coloro che propugnano la necessità di tenerle insieme, stranamente, non corrisponde ad una divisione tra reazionari e rivoluzionari. La verità è che questa distinzione è mantenuta dai “puristi”, che vedono nell’economia una scienza astratta, più o meno come la meccanica razionale; e dagli storici che vedono la necessità di rintracciare, all’interno delle leggi economiche, il movente morale.

Vediamo di spiegare come questa non corrispondenza tra difensori della moralità nell’economia e rivoluzionari si giustifica. Dobbiamo riportarci alla distinzione tra morale borghese e morale rivoluzionaria. In pratica questi economisti, per la maggior parte di estrazione cristiano-sociale, sostengono una morale che non ha nulla a che vedere con quello che intendiamo noi. Ma procediamo con ordine.

Nei riguardi di Machiavelli, Benedetto Croce scriveva: «... altissimo fu certamente il grado che nel Machiavelli raggiunse il concetto della politica, che con grande energia egli distinse dalla moralità e dalla religione; e in ciò consiste la sua immortale opera filosofica» (Filosofia e Storiografia. Saggi, Bari 1949, p. 151).

Qui la distinzione tra politica e morale non coglie il momento materialistico dell’impossibilità di una netta divisione tra economia e politica, e ciò in dipendenza della particolare visione di Croce. Ma, mettendo da parte l’angolazione crociana, resta per noi il problema della compresenza del movente etico e del movente economico all’interno della dimensione uomo, compresenza che non può permanere come frattura ma che deve essere risolta nel senso dell’accettazione della validità del movente morale nella dimensione uomo.

Marx e Engels scrivono: «Il borghese dissoluto infrange il matrimonio e commette adulterio di nascosto; il commerciante inganna l’istituzione della proprietà privata privando altri della loro proprietà con la speculazione, la bancarotta, ecc.; il giovane borghese si rende indipendente dalla sua famiglia, se può, e per suo conto dissolve praticamente la famiglia; ma in teoria il matrimonio, la proprietà, la famiglia restano inviolati, perché in pratica sono le basi sulle quali la borghesia ha edificato il suo dominio, perché nella loro forma borghese, precisamente come la legge sempre elusa fa dell’ebreo religioso un ebreo religioso. Questo rapporto del borghese con le sue condizioni di esistenza riceve una delle sue forme generali nella moralità borghese [...]» (L’ideologia tedesca, tr. it., Roma 1958, p. 174).

Abbiamo qui la chiara indicazione che all’interno della logica del capitale agisce una moralità che è quella della borghesia, che crea i suoi miti e li utilizza o non li utilizza secondo i propri interessi di classe. Ma, oltre a ciò, esiste una necessità attiva di individuare una moralità astratta e di separarla dalla riflessione economica sull’attività pratica, onde poter costruire l’alibi dell’ eternità delle leggi dello sfruttamento. Ad esempio John Stuart Mill: «L’economia politica ragiona dunque partendo da assunte premesse, da premesse che ben potrebbero essere senza alcun fondamento nel fatto che non si pretendono universalmente armonizzare col fatto. Le conclusioni dell’economia politica, per conseguenza, come quelle della geometria, sono soltanto in astratto» (Sulla definizione dell’economia politica e sul metodo di investigazione ad essa conveniente, tr. it. Torino 1878, pp. 774-775).

Un altro autore che presenta la scienza economica ad un grado tale di astrazione da porsi in analogia con la meccanica razionale, è Vilfredo Pareto (Corso di Economia Politica, tr. it., Torino 1961, pp. 9-10). Eppure anche lui finisce per rendersi conto della necessità di un orizzonte più ampio da prendere in considerazione pur restando nell’ambito della scienza economica, come appare con chiarezza in un discorso tenuto a Losanna nel 1917. In questo discorso si ritrova un altro elenco di scienze naturali che, questa volta, dovevano servire da crisma di esattezza alla ricerca sociologica. Fortunatamente Pareto, nello svolgere praticamente il gravissimo compito cui andò incontro con il Traité de Sociologie, finì per superare queste iniziali pastoie metodologiche. Questo particolare significato della posizione di Pareto nei confronti del compito dell’economia è confermato anche dall’opinione di Eric Roll: «... la stessa evoluzione del pensiero paretiano indica che la natura umana dell’economista aborre il vuoto che queste scuole intendono creare [le scuole di astrazione matematica]» (Storia del pensiero economico, tr. it., Torino 1962, pp. 619-620).

Un altro classico che si mantiene sul piano scientifico di una netta separazione tra scienza economica e moralità, è Nassau William Senior: «L’ufficio dell’economista non è quello di raccomandare, né quello di dissuadere, ma è quello di stabilire i principi generali» (Princìpi di economia politica, tr. it., Torino 1854, p. 501).) Ma Senior non è più tanto distaccato quando tratta delle pene e della fame dei tessitori di fronte ad una diminuzione di salario, o quando lavora ai suoi progetti di assistenza pubblica, o quando denuncia il lavoro dei fanciulli. (Il Rapporto sui Tessitori [1841], con la firma di Senior e Overstone, si trova in Parliamentary Papers, 1841, vol. X; comunque lo stesso è dovuto a Senior. Cfr. L. Robbins, La Teoria della Politica Economica, tr. it. Torino 1956, p. 67). L’argomento dell’assistenza pubblica e i vari progetti portati avanti da Senior sono esposti in Letters and Conversations of Alexis de Tocqueville with N. W Senior, 1834-1859, London 1872; viene fuori dalle sue pagine il borghese scandalizzato che cerca di tutelare la propria visione morale del mondo, portando rimedio a quelli che considera storture e deformazioni di un perfetto disegno di se stesso.

Gli economisti borghesi che si sono preoccupati di affermare la necessità dell’elemento etico all’interno della riflessione economico-sociale sono, allo stesso modo, diversi ed autorevoli. All’inizio del secolo scorso Jean-Charles de Sismondi faceva notare come la teoria economica astratta minacciasse di «fare perdere di vista la terra» (Nouveaux principes d’économie politique ou de la richesse dans ses rapports avec la population, Paris 1819, p. 57). Poi cominciano gli economisti tedeschi, specie quelli della scuola storica. Così Gustav Schmoller: «... l’attività economica, considerata nelle sue attinenze con tutte le forze dell’anima e con la società, è un’attività soggetta al giudizio morale e da questo influenzata» (Lineamenti di economia nazionale generale. Introduzione, parte II, tr. it. Torino 1913, pp. 94-95). Werner Sombart propone una fusione tra filosofia (idealismo), etica ed economia. (Cfr. Die drei Nationalökonomien, München 1930). Otto Spann considera l’economia come un armonico insieme di mezzi spirituali e materiali indirizzati al conseguimento di scopi prefissati. (Cfr. Das Fundament der Volkswirtschaftslehre, Jena 1931).

In Italia la scuola di economisti che sostiene la fusione tra etica ed economia è fra le più reazionarie, la sua visione dell’economia e della morale è quella che si può ricavare da una certa lettura del vangelo (In Matteo (XXV, 14-28); in Luca (XIX, 12-26), ed ancora in Matteo nell’episodio con cui si giustificano i redditi terrieri (XXI, 33-41). Nei Padri trova più larga applicazione: Clemente Alessandrino, Il Pedagogo, 1, 3, specialmente 1, 2, cap. 1, dove lo stesso ordine sociale diretto alla perfezione cristiana viene fatto dipendere dalla disponibilità del necessario. Erma, Il Pastore; Lattanzio, Divinae Institutiones, Lib. VI, cap. 12; Cipriano, Commento al Pater noster; Ambrogio, La storia di Nabot; Agostino, Sermo L, cap. II e cap. V). Così Luigi Einaudi: «Dopo aver lungamente creduto anch’io che ufficio dell’economista non fosse di porre i fini al legislatore, bensì quello di ricordare, come lo schiavo assiso sul carro del trionfatore, che la Rupe Tarpea è vicina al Campidoglio, che cioè, qualunque sia il fine perseguito dal politico, i mezzi adoperati debbono essere sufficienti e congrui; oggi dubito e forse finirò col concludere che l’economista non possa disgiungere il suo ufficio di critico dei mezzi da quello di dichiaratore di fini; che lo studio dei fini faccia parte della scienza allo stesso titolo dello studio dei mezzi, al quale gli economisti si restringono» (Prefazione a C. Bresciani Turroni, Introduzione alla politica economica, Torino 1942, pp. 15-16). Altrove scriveva: «Lo studioso il quale non va al di là del giudizio della classe politica, fa come Ponzio Pilato, si lava le mani del vero problema scientifico» (L. Einaudi, Ipotesi astratte ed ipotesi storiche e dei giudizi di valore nelle scienze economiche, Torino 1943, p. 58).

Si potrebbero continuare le citazioni con i riferimenti ai lavori di Giuseppe Toniolo (Il fattore etico nell’atto economico, Padova 1871), Francesco Vito (“Alcune osservazioni intorno ai rapporti fra economia ed etica”, in “Studi in onore del Prof. Dalla Volta”, Firenze 1936), Francesco Parrillo. Quest’ultimo è l’erede delle tesi del Vito. Siamo davanti all’estremo limite della reazione cattolica in economia. Non vale la pena di approfondire l’argomento, sia riguardo all’Italia che per altri studiosi borghesi e reazionari riguardo all’Inghilterra e agli Stati Uniti. (Cfr. R. G. Hawtrey, The economic problem, London 1926, p. 184 e pp. 203-215). Tutta questa brava gente cerca di dimostrare che nello studio dei fini deve essere tenuto conto dei mezzi, evitando di ridurre il problema economico a fatto puramente meccanico. Ma questa affermazione ha due premesse sbagliate: a) considera implicita la distinzione tra economia e società; b) tiene presente una moralità in astratto che risponde soltanto ai canoni dell’ipocrisia e del perbenismo borghesi.

Pregnante, come al solito, la tesi di Nietzsche: «Noi siamo ancora essenzialmente gli stessi uomini del tempo della Riforma: e come non potrebbe esser così? Ma il fatto che non ci permettiamo più certi mezzi per far prevalere la nostra opinione ci distacca da quel periodo e dimostra che apparteniamo a una cultura superiore. Chi, alla stregua degli uomini della Riforma, continua a combattere e abbattere opinioni con sospetti e accessi di collera, rivela chiaramente che, se fosse vissuto in altri tempi, avrebbe bruciato i suoi avversari, e che se fosse vissuto come oppositore della Riforma, sarebbe ricorso a tutti i mezzi dell’Inquisizione. Questa Inquisizione a quei tempi aveva un senso, poiché non significava altro che il generale stato d’assedio che dovette essere imposto su tutto il regno della Chiesa e che, come ogni stato d’assedio, giustificava il ricorso a mezzi estremi, con la premessa cioè (che oggi non condividiamo più con gli uomini di allora) che, nella Chiesa, si possedesse la verità e si dovesse salvaguardare questa verità a ogni costo, con ogni sacrificio, per la salvezza dell’umanità. Oggi invece non si concede più a nessuno così facilmente il possesso della verità: i rigorosi metodi di ricerca hanno diffuso sufficiente diffidenza e prudenza, sicché chiunque difenda con violenza di parole e di atti un’opinione, viene guardato come un nemico della nostra cultura attuale o almeno come uno rimasto indietro. In effetti: il pathos di possedere la verità vale oggi molto poco in confronto a quello, certo più blando e sommesso, della ricerca della verità, che mai si stanca di imparare di nuovo e di provare di nuovo» (Umano, troppo umano, I, 633). Molto si potrebbe aggiungere sul concetto di verità, particolarmente al riguardo il problema della differenza tra rispecchiamento – che sembra qui prevalere nell’ipotesi di Nietzsche – e coinvolgimento, ma l’abbiamo fatto a lungo altrove.

Nei lavori dei marxisti questo problema non viene mai seriamente affrontato. «Nella teoria marxiana non si fa in nessun luogo ricorso all’etica tradizionale. Al contrario. Più volte l’etica viene intenzionalmente menzionata solo per provarne l’insufficienza» (E. Bernstein, “Das realistische und das ideologische Moment im Sozialismus”, in “Die Neue Zeit”, ns. tr., anno XVI, vol. II, p. 390). Questa affermazione di Bernstein non è corretta sufficientemente con l’indicazione di una vera e propria etica materialista emergente dalla lettura marxista. Così continua lo stesso Bernstein: «Nella prefazione all’edizione tedesca di Miseria della filosofia, Engels dichiara formalmente errata sul piano economico la deduzione delle rivendicazioni comuniste dal fatto che nel salario l’operaio non ottiene un valore corrispondente al lavoro da esso prestato, poiché si tratta “semplicemente di un’applicazione della morale all’economia [...]”. La prassi del marxismo si trova in contraddizione apparentemente insanabile con questo atteggiamento di rifiuto che caratterizza la teoria. Penso che nessuno possa contestare che nel Capitale ricorrono di frequente formulazioni alla cui base sta un giudizio morale. Già il definire il rapporto salariale come rapporto di sfruttamento presuppone un tale giudizio, poiché il concetto di sfruttamento, quando si tratta di caratterizzare rapporti tra uomo e uomo, implica sempre la macchina dell’appropriazione indebita, dell’imbroglio» (Ib., p. 392).

In questo modo si apre la strada a due ulteriori considerazioni: a) non è del tutto esatta la lettura di alcuni marxisti contemporanei che parlano di sacrificare l’uomo alla società, in nome di una dittatura che finisce per diventare tutt’altro che la salvaguardia dell’interesse della massa; b) la prospettiva etica, inserita nel campo dell’azione sociale, diventa problema di scelta, quindi problema di volontà.

Franz Staudinger scriveva: «... la chimica della volontà dev’essere scienza, deve provare di essere tale, prima di avere il diritto di esercitare un’influenza [...] È quindi perfettamente comprensibile che il materialista storico assuma un atteggiamento diffidente nei confronti della stragrande maggioranza delle prestazioni dell’etica filosofica [...]» (“Antonio Labriola und die Ethik”, ns. tr., in “Die Neue Zeit”, anno XVIII, 1899-1900, vol. II, p. 560). E più avanti: «Da tale legittimità della volontà consegue però [...] che solo l’attività autonoma dell’uomo può creare un tale ordine, che esso non sorge da sé [...]» (Ib., p. 569).

È troppo semplicistico pensare che riducendo il movente etico nell’azione sociale ad un fatto di scelta esistenziale, l’inserimento della decisione del singolo, cioè della volontà, trasformi in senso irrazionale la strutturazione del progetto rivoluzionario. Non è del tutto vero che la volontà sia un fatto esclusivamente irrazionale e, pertanto, vada messa da parte e condannata con sospetto. Certo con la scusa della volontà possono essere fatte passare tesi molto pericolose (ad esempio, volontà di potenza, ecc.), ma il problema va esaminato più seriamente. Così Karl Jaspers: «In Agostino, più che in altri, si può studiare la vera realtà cristiano-cattolica della fede (ma non Gesù stesso né la cristianità del Nuovo Testamento). È lui specialmente che ci insegna a conoscere i problemi fondamentali posti al mondo intero dal pensiero cristiano. Per quanto ci è possibile, dobbiamo sapere come il credente si riconosce salvato dalla rivelazione di Dio, anche se non l’accettiamo. [...]. La grandezza del pensiero di Agostino ci fornisce l’esempio più impressionante di questa inevitabile situazione di fatto: l’inaudita pretesa con la quale un uomo vuole istruire un altro intorno a Dio e imporre come testimonianze assolute della rivelazione uomini che per il sapere umano seguivano, tutti senza eccezione, la via dell’errore. Se in questa pretesa si rende anche operante l’amore dell’uomo per l’uomo, quell’amore che vorrebbe fare partecipare gli altri alla certezza della fede e che rende felice quello stesso che la annuncia, allora deve qui in modo altrettanto inevitabile affermarsi la volontà di potenza cui si fa incontro una volontà di sottomissione la quale sul punto principale non vuole più ormai pensare da sé» (I grandi filosofi, tr. it., Milano 1973, pp. 481-482).

Se consideriamo irrazionale la volontà dobbiamo sapere con chiarezza che cosa è il razionale. Hegel sosteneva che tutto ciò che esiste, in quanto esiste, è reale e quindi razionale: in questo modo anche la volontà sarebbe razionale, ma ci mancherebbe un’unità di misura capace di distinguere tra la tirannia e la libertà. Così, esattamente, scrive Hegel: «Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale. Ogni coscienza ingenua, del pari che la filosofia, riposa in questa persuasione; e di qui appunto procede alla considerazione dell’universo spirituale, in quanto universo naturale. Se la riflessione, il sentimento, o qualsiasi aspetto assuma la coscienza soggettiva, riguarda il presente come cosa vana, lo oltrepassa e conosce di meglio, essa allora si ritrova nel vuoto; e, poiché soltanto nel presente v’è realtà, essa è soltanto vanità. Se, viceversa, l’idea passa per essere soltanto un’idea, una rappresentazione in un’opinione, la filosofia al contrario garantisce il giudizio che nulla è reale se non l’idea. Si tratta allora di riconoscere, nell’apparenza del temporaneo e del transitorio, la sostanza che è immanente e l’eterno che è attuale. Invero, il razionale, il quale è sinonimo di idea, realizzandosi nell’esistenza esterna, si presenta in un’infinita ricchezza di forme, fenomeni e aspetti; e circonda il suo nucleo della spoglia variegata, alla quale la coscienza si sofferma dapprima e che il concetto trapassa, per trovare il polso interno e per sentirlo appunto ancora palpitante nelle forme esterne. Ma i rapporti infinitamente vari, che si formano in questa esteriorità con l’apparire dell’essenza in essa, questo materiale infinito e la sua disciplina, non è oggetto della filosofia. Altrimenti essa s’immischierebbe in cose che non la riguardano; essa può risparmiarsi di dare in proposito un buon consiglio. Platone poteva tralasciare la raccomandazione alle balie di non star mai ferme coi bambini, di dondolarli sempre sulle braccia; ugualmente, Fichte il perfezionamento del passaporto di polizia, sino a costruire, come si disse, che, dell’individuo sospetto, devono essere, non soltanto messi i connotati nel passaporto, ma dipinto in questo il ritratto. In simili particolari, non è più da vedere alcuna traccia di filosofia; ed essa può tanto più abbandonare simile ultrasaggezza, in quanto, sopra questa infinita quantità di argomenti, può certo mostrarsi liberalissima. In tal caso, la scienza si mostrerà molto lontana anche dall’odio che la vuotaggine della saccenteria concepisce per una quantità di circostanze e di istituzioni; – odio, del quale si compiace soprattutto la piccineria, poiché essa solo in tal modo giunge ad avere qualche coscienza di sé.

«Così, dunque, questo trattato, in quanto contiene la scienza dello Stato, dev’essere null’altro, se non il tentativo d’intendere e presentare lo Stato come cosa razionale in sé. In quanto scritto filosofico, esso deve restar molto lontano dal dover costruire uno Stato come dev’essere; l’ammaestramento che può trovarsi in esso non può giungere a insegnare allo Stato come deve essere, ma, piuttosto, in qual modo esso deve esser riconosciuto come universo etico. Hic Rhodus, hic saltus. Intendere ciò che è, è il compito della filosofia, poiché ciò che è, è la ragione. Del resto, per quel che si riferisce all’individuo, ciascuno è, senz’altro, figlio del suo tempo: e anche la filosofia è il proprio tempo appreso col pensiero. È altrettanto folle pensare che una qualche filosofia precorra il suo mondo attuale, quanto che ogni individuo si lasci indietro il suo tempo, e salti oltre su Rodi. Se la sua teoria, nel fatto, oltrepassa questo, se si costruisce un mondo come dev’essere, esso esiste bensì, ma soltanto nella sua intenzione, in un elemento duttile, col quale si lascia plasmare ogni qualsiasi cosa» (Prefazione a Lineamenti di filosofia del diritto, tr. it., Bari 1954, pp. 19-20). Testo esplicito della estrema razionalità reazionaria, per altri versi incontrovertibile nella sua agghiacciante oggettualità.

Esiste, a nostro parere, un modo di distinguere tra razionalità nel senso di ragion d’essere e razionalità nel senso di ciò che ogni individuo, in una precisa situazione di classe, deve fare in base alla propria coscienza morale. Nel primo caso siamo davanti ad un’interpretazione statica del concetto di razionalità, nel secondo davanti ad un’interpretazione dinamica, quindi davanti alla possibilità di considerare la volontà dal punto di vista della ragione, cioè razionalmente. Potrebbe essere questa una strada da percorrere per superare l’ostacolo tra ragione e volontà, razionale e volontario, determinismo e volontarismo. Questa riflessione conduce a un non sapere ben valutare alcune scelte apparentemente irrazionali, come è il caso di Nietzsche. Scrive Giorgio Colli: «Che i filosofi non vedano i vantaggi né i danni della fortuna popolare, è una verità nota da gran tempo, e di ciò non è neppure difficile indicare le ragioni, già nel fatto che lo strumento espressivo di un filosofo, il pensiero astratto, è ostico ai più. Questa mancanza di popolarità, se può essere spiacevole per il filosofo, è però compensata dall’isolamento stesso di lui, che, in vita e dopo, mentre viene preservato da una partecipazione collettiva, non è neppure implicato in passioni che non sono le sue. Ma il pensiero talvolta agisce sulla vita, e a Nietzsche è toccata questa sorte. E ciò non nel senso più frequente che il pensiero astratto di un filosofo intervenga mediatamente a modificare la vita degli uomini, come in realtà spesso è accaduto nella storia; nel caso di Nietzsche piuttosto, all’atto del suo manifestarsi, il pensiero tocca il tessuto immediato della vita, e si mescola con essa, suscitando negli uomini istantanee risonanze, e in ciascuno accendendo le passioni che la sensibilità di ciascuno avverte come affini. Chiunque abbia letto qualche pagina di Nietzsche, si è sentito scandagliare in profondità, ha provato una sollecitazione del suo consenso su una questione scottante: alcuni non perdonano questa invadenza altri rimuovono l’impressione, altri reagiscono con ardente partecipazione. Cosicché, al solo udire il nome di Nietzsche, sono poche le persone, cui non facciano difetto istruzione e sensibilità, a non percepire un moto istintivo dell’animo, variabile secondo i caratteri, difficilmente definibile e certo non legato a schemi concettuali. Così Nietzsche si rivela un tipo paradossale di pensatore, per il quale cadono i confini tra i generi dell’espressione, e la cui impronta si avverte nell’animo prima ancora che nella ragione. Questa condizione eccezionale ha dato un posto a Nietzsche nel pensiero degli ultimi 100 anni, che sembra potersi definire, per le sue implicazioni, unico e incomparabile. Ma da quella condizione derivano le conseguenze. Se così agiscono le parole di Nietzsche, è naturale non solo che le interpretazioni date di lui siano da un lato inadeguate perché partenti da concetti, e d’altro lato tanto varie quanto lo sono le persone che le forniscono, ma inoltre, e la cosa è più grave, che le passioni, gli entusiasmi e le esecrazioni, da lui suscitati per il meccanismo che si è detto, si siano rivolti nelle più impensate e contraddittorie direzioni, ed essendo moti irrazionali di una media umanità, si siano spesso legati a contenuti volgari, o addirittura esecrabili» (G. Colli, La ragione errabonda, Milano 1982, pp. 176-177). Prototipo di questa rinuncia alla comprensione è stata una certa lettura marxista della filosofia di Nietzsche, e non solo di essa, negli ultimi quarant’anni, a partire senza dubbio dalla Distruzione della ragione di Lukács.

Così la volontà viene ancorata ad una precisa situazione di classe, in questo riceve la sua autorizzazione ad essere come elemento decisivo nella scelta morale, elemento che caratterizza l’azione rivoluzionaria.

Questa preferenza verso la categoria del fare è chiara, ad esempio, in Malatesta: «... confessiamo la nostra preferenza per coloro che vogliono fare troppo presto contro quelli altri che vogliono sempre aspettare, che lasciano di proposito passare le migliori occasioni e per paura di cogliere un frutto acerbo lasciano tutto marcire» (“Umanità Nova”, 6 settembre 1921). E altrove: «Noi vogliamo fare la rivoluzione il più presto possibile», (“Il risveglio” 30 dicembre 1922), o, più in dettaglio: «Il nostro compito dunque è quello di fare o aiutare a fare la rivoluzione profittando di tutte le occasioni e di tutte le forze disponibili: spingere la rivoluzione più in avanti che sia possibile non solo nella distruzione ma anche e soprattutto nella ricostruzione, e restare avversari di qualsiasi governo abbia a costituirsi ignorandolo o combattendolo il più che ci sarà possibile» (“Pensiero e Volontà”, 1° giugno 1926).

Concetto che su un altro piano viene ribadito da Nicolai Berdjaev: «L’Etica scientifica può concepire la morale soltanto come adattamento dell’individuale a ciò che è tipico; essa vede la fonte della morale non nella speculazione su un tornaconto più o meno grande, su un godimento più o meno grande, bensì in un ordine di vita esistente all’esterno dell’uomo che lo spinge possentemente nella tale o nella tal altra direzione» (“F. A. Lange und die kritische Philosophie” in “Die Neue Zeit”, ns. tr., anno XVIII, 1899, vol. II, p. 200).

I borghesi e i loro reggicoda teorici hanno sempre visto con disprezzo (e con paura) questa unità etica, fondata sulla decisione responsabile dell’azione contro l’ordine costituito, acquisizione di coscienza che, in ultima analisi, accomuna rivoluzionario e bandito, diretti, da due punti diversi, ad incontrarsi nel fatto rivoluzionario.

Edward C. Banfield, professore di sociologia urbana a Harvard e presidente della commissione di ricerche urbanistiche creata da Nixon, così si pone davanti al problema dei neri negli Stati Uniti: « ...gli appartenenti alle classi inferiori, in particolare i negri, sono moralmente depravati e mentalmente deficienti [...] deboli [...] sospettosi e ostili, arroganti e tuttavia per nulla autosufficienti [...] privi di qualsiasi attaccamento alla comunità, ai vicini o agli amici vivono negli slums e tuttavia non vedono motivo di lamentarsene [...] non si preoccupano dell’insufficienza di scuole, giardini pubblici o biblioteche [...] le caratteristiche che rendono gli slums repellenti per gli altri a loro piacciono [...] preferiscono la miseria senza lavorare all’abbondanza che il lavoro può procurare [...] la morale delle classi inferiori è fuori di ogni convenzione, cioè è guidata non dalla coscienza ma solo dal proprio tornaconto [...]» (The Unheavenly City: The Nature and Future of our Urban Crisis, ns. tr., Boston 1970, p. 211. Una recensione critica di questo lavoro è stata pubblicata da H. Aptheker, “Banfield: The Nixon Model Planner”, in “Political Affairs”, Dicembre 1970).

Il problema nero non viene collocato nella sua giusta dimensione fin quando non si vedono le radici morali oltre che economiche della rivolta che si è sviluppata negli Stati Uniti. È un chiaro esempio di come la borghesia dominante è incapace, non meno di alcune elite in ascesa, pronte a sostituirla, di comprendere le motivazioni delle rivolte.

James Farmer ex direttore del Congresso per l’eguaglianza razziale: «La violenza politica si diffonde come un’epidemia. Ecco un nuovo esempio. Gli americani dovrebbero imparare a regolare i loro contrasti con la parola e non con le pallottole» (citato in R. Costa, Violenza in America, Roma 1968, p. 12).

Mike Mansfield, leader democratico del Senato: «Mi chiedo cosa stia accadendo in questo Paese. Sono spaventato dal fatto che la violenza stia diventando così dominante. Temo per il futuro del mio Paese se non riusciremo a ritrovare la nostra stabilità» (Ib., p. 13).

La Commissione d’inchiesta del 29 febbraio 1968, incaricata di indagare sui disordini civili ha dichiarato al Congresso degli Stati Uniti. «Lo sviluppo di una società razzialmente integrata diventerà virtualmente impossibile quando la popolazione negra dei soli ghetti, costituita ora da 12 milioni di persone, passerà nel 1985 a 31 milioni di abitanti» (Ib., p. 43).

Il 2 luglio 1964 Lyndon Johnson firmava la legge sui diritti civili, dichiarando: «Essa non limita la libertà di nessun americano, fintantoché egli rispetta i diritti degli altri... Afferma che coloro i quali sono eguali davanti a Dio dovranno anche essere eguali alle urne, nelle aule scolastiche, nelle fabbriche, negli alberghi, nei ristoranti, nei cinematografi e in ogni altro locale pubblico» (Ib., p. 57).

La realtà è molto diversa, ed è essa che genera – tra le tante altre cose – la rivolta e, con la rivolta, il banditismo sociale.

Riportiamo il caso “letterario” di una scenetta che ci dà l’indice della “spontaneità” e quindi dell’estrema gravità del fatto discriminatorio ai riguardo i neri e le minoranze in genere. Le riflessioni sono quelle in prima persona dette dal nero stesso:

« – Toh, un negro! era uno stimolo esteriore che mi colpiva secco e leggero in mezzo alla fronte mentre passavo. Abbozzavo un sorriso.

« – Guarda un negro! Era vero. Mi divertivo.

« – Guarda un negro! A poco a poco il cerchio si stringeva. Mi divertivo apertamente.

« – Mamma, guarda il negro, ho paura! Paura? Paura? Si mettevano ad aver paura di me! Volli divertirmi fino a soffocare, ma mi era diventato impossibile.

« – Guarda quel negro... Mamma, un negro!... Zitto, che si arrabbia... Non badateci signore. Non sa che siete civilizzato quanto noi...

«In quel bianco giorno d’inverno il mio corpo mi ritornava disteso, disgiunto, rimesso insieme, tutto dolorante. Il negro è una bestia, il negro è cattivo, il negro è maligno, il negro è brutto. Toh, un negro... fa freddo; il negro trema, il negro trema perché fa freddo, il ragazzino trema perché ha paura del negro, il negro trema di freddo, questo freddo che torce le ossa... il bel ragazzino bianco si getta in braccio alla madre: Mamma, il negro mi mangerà!

«Tutto questo biancore che mi calcifica... Mi siedo nel canto del fuoco... la biancheria del negro ha odor di negro, i denti del negro sono bianchi, i piedi del negro sono grandi, il gran petto del negro, scivolo nei cantucci, sto zitto, desidero l’anonimato, l’oblio. Accetto tutto, ma che non mi si scorga più» (F. Fanon, Il negro e l’altro, tr. it., Milano 1965, pp. 134-136).

È la stessa morale borghese che abbiamo visto in azione partendo dal caso del sacerdote partecipante all’attacco controrivoluzionario a Cuba. Il risultato è l’isolamento, le conseguenze ulteriori, la creazione di una minoranza rivoluzionaria che è espressione della massa, e l’esplosione di una rivolta individuale, spesso inconsulta, che finisce per non avere con la massa che il solo contatto di fondo: lo sfruttamento. Su di questa base, banditi sociali e rivoluzionari si ritroveranno nella crescita della coscienza rivoluzionaria dei primi e nell’abbandono dei secondi dei residui eventuali della morale borghese.

L’isolamento serve per consolidare l’accettazione dell’essere diverso, il rifiuto dell’integrazione. Qui sta, in ultima analisi, la grande caratteristica del bandito sociale, non solo nell’accettazione di un modulo di valori diverso, ma nella lotta per impedire la penetrazione dei valori avversari all’interno del proprio modulo.

«È l’eresia contro le proprie origini, la fuga terrorizzata dalle proprie reazioni e intuizioni più radicate [...] Il rifiuto del sentimento [...] che io considero il più spregevole dei mali» (L. Jones, Il Sistema dell’Inferno Dantesco, in Il Predicatore Morto, tr. it., Milano 1968, p. 7). Lottare contro l’essere nero per apparire meno nero è il rifiuto di ogni rivolta, l’alienazione accettata come unica misura del possibile, l’inglobazione resa operante, il sistema vittorioso.

Emerge allora il simbolo e il realizzatore dell’azione liberatoria. Scrive James Baldwin a proposito di George Jackson: «Ora anche per George, che resistette fieramente fino alla fine. Sotto una pioggia di fuoco nemico, cadde il 21 agosto 1971, nel penitenziario di San Quentin. L’amore per la sua gente oppressa fu sconfinato, la sua partecipazione alla causa rivoluzionaria incondizionata, il suo contributo alla lotta incalcolabile. Anche se i suoi carcerieri pensavano di distruggerlo, George sopravvive, esempio e sprone per tutti noi» (cfr. A. Davis, La rivolta nera, op. cit., p. 11).

Sorge il simbolo, ma quanto diverso dal simbolo demagogico dell’élite che vuole conquistare il potere per asservire il popolo. Simbolo di dedizione alla causa della libertà, simbolo di azione diretta, di abolizione del diaframma della rappresentanza e della fiducia incondizionata nel capo, simbolo dell’autogestione della lotta. Il più profondo messaggio morale sta proprio in questo.

Il banditismo sociale si riscatta per la piena coscienza dei propri limiti e per l’incondizionata fiducia nella volontà del singolo, nella volontà di tutti gli sfruttati, di potere costruire le condizioni necessarie alla liberazione.


[Pubblicato su “Pantagruel”, maggio 1981, n. 2, pp. 38-78 con lo pseudonimo di Giuliano Giuffrida].

L’esperienza guerrigliera

Il banditismo sociale nelle campagne

Nella terminologia corrente “bandito” ha un significato dispregiativo diversamente a quanto avveniva in passato. Prima dell’Unità d’Italia il fenomeno del banditismo sociale significava più o meno quello che oggi significa il fenomeno della guerriglia. Il termine usato era quello di “guerra di bande”.

Il nostro codice incorre nello stesso tipo di errore trattando del delitto di “banda armata” prefigurandovi anche la fattispecie dell’organizzazione guerrigliera. La tesi della lotta di guerriglia fu per primo in Italia sviluppata da Carlo Bianco di Saint-Joriaz, nel libro: Della guerra nazionale d’insurrezione per bande, applicata all’Italia, 2 voll., s. l. 1830. Per la verità vi era stato un modesto contributo precedente, cioè lo scritto apparso su “La Minerva napolitana” intitolato: “Della guerra di parteggiani”, in data 10 febbraio 1821. Seguirono i lavori di Mazzini: Istruzione generale per gli affratellati, del 1831; e Della guerra d’insurrezione conveniente all’Italia, del 1833. Il libro di Giuseppe Budini: Alcune idee sull’Italia, del 1843, tratta lo stesso argomento e preludia al lavoro di Pisacane: Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-1849 del 1851.

La letteratura sulla guerriglia rurale è grandissima e sarebbe del tutto impensabile darne conto in questa sede.

Le opere più significative sono: T. Argiolas, La guerriglia. Storia e dottrina, Firenze 1967; E. O. Ballance, The Greek civil war 1944-1949, London 1966; Che Guevara, Opere, vol. I, La guerra rivoluzionaria; vol. II, Le scelte di una vera rivoluzione; vol. III, Nella fucina del socialismo, 2 tomi, tr. it., Milano 1968-1969; R. Debray, Rivoluzione nella rivoluzione? America latina: alcuni problemi di strategia rivoluzionaria, tr. it., Milano 1968; C. Delmas, La guerre révolutionnaire, Paris 1915; M.D. Havron, J. A. Whittenburg, A. T. Rambo, Department of the Army Pamphlet, n. 550-100 U.S. Army Handbook of Counterinsurgency guidelines for area commanders. An analysis of criteria, Washington 1966; A. Fjodorow, Il comitato clandestino al lavoro, tr. it., Roma 1951; Istituto Marx-Engels-Lenin, La guerra partigiana vista dai classici del marxismo-leninismo, Mosca 1945; H. Koechlin, Die Pariser Komnune im Bewusstsein ihrer Anhänger, Basel 1950; T. E. Lawrence, I sette pilastri della saggezza, tr. it., Milano 1949; Lin Piao, Viva la vittoria della guerra popolare!, tr. it., Pechino 1963; Mao Tse-tung, Scritti filosofici, politici e militari, 1926-1954, tr. it., Milano 1968; H. Michel, Les mouvements clandestins en Europe (1938-1945), Parigi 1965; C. Milanese, Principi generali della guerra rivoluzionaria, Milano 1970; A. Neuberg, L’insurrezione armata, tr. it. Milano 1970; W. Hahlweg, Storia della guerriglia, tr. it., Milano 1973; Ponomarenko, K. Simonov, T. Strokac, E. Gabrilovic, G. Fish, V. Latis, ecc., Behind the front line. Being an account of the military activites, exploits, adventures and day life of the some Guerrillas operating behind the German linea, from the Finish-Karelian front to the Crimea, s. l., s. d. (circa 1944); L. Trotski, Scritti militari. Vol. I, La rivoluzione armata, tr. it., Milano 1971; Vo Nguyen Giap, Guerra del popolo, esercito del popolo. La situazione attuale nel Vietman, tr. it., Milano 1968; H. Bejar, Les guérillas péruviennes de 1965, Paris 1969; R. Ramirez, Autobiografia di una guerriglia. Guatemala 1960-1968, tr. it. Milano 1969; M. Humbert, Guerriglia in Argentina, tr. it., Milano 1968; A. Beal, (intervista) La lotta armata del popolo portoricano per l’indipendenza, tr. it., Milano 1968; B. Crimi, (a cura) Guerra rivoluzionaria in Mozambico, Milano 1970; (MPLA), Il popolo dell’Angola in armi contro la barbarie del sistema coloniale portoghese, tr. it. Milano 1969; B. Davidson, The Liberation of Guiné. Aspects of an African Revolution, London 1971; Ulster by The “Sunday Times”, London 1972; T. P. Coogan, The I.R.A., London e Glasgow 1970; J. Bowyer Bell, The segret army. A history of the I.R.A., 1916-1970, London 1972; M. Dillon e Denis Lehane, Political murder in Northern Ireland, London 1973; J. McGuffin, Internment!, Tralee 1973. Dobbiano precisare comunque i limiti della nostra ricerca. All’interno della guerriglia, dal suo sorgere come fenomeno differenziato dalla guerra vera e propria, fino ad oggi, si possono individuare gli elementi di un contributo più specificatamente popolare e spontaneo: un contributo di individui o piccoli gruppi che, se pur riconducibili alla logica complessiva del movimento guerrigliero, a cui si richiamano (per contingenza storica o per dichiarata ammissione), presentano caratteristiche più precise nel senso del “banditismo sociale”. Come abbiamo detto, queste caratteristiche sono a volte semplici sfumature, e sono difficilmente reperibili, ma ci saranno di grande aiuto per qualificare storicamente il fenomeno del “banditismo sociale”, sottraendolo .all’ottusa condanna gestita dalla reazione e supinamente accettata dai cosiddetti democratici. Il termine guerriglia nasce con la resistenza spagnola contro l’invasione dei soldati di Napoleone (1807-1814). Usato spesso, oltre il termine citato di “guerra per bande”, anche quello di piccola guerra (petite guerre, kleiner Krieg, small war). Si tratta sostanzialmente della guerra partigiana che, per essere tale, si caratterizza in modo abbastanza preciso.

Per prima cosa si ha la presenza di piccole bande irregolari il cui numero supera raramente le trenta persone. Anche in epoche diverse questo numero resta stranamente costante. La lotta avviene alla spicciolata e non secondo le tecniche della guerra di linea. Nel caso di una guerra civile si sviluppa abbastanza rapidamente un movimento opposto fondato sulle stesse tecniche (controrivoluzione o guerriglia controrivoluzionaria). Riguardo all’aspetto giuridico, si tratta di gruppi non autorizzati a condurre operazioni belliche che combattono contro lo Stato o contro una potenza straniera occupante.

In secondo luogo bisogna distinguere tra guerriglieri che hanno acquisito una coscienza rivoluzionaria socialista e, come tali, conducono la loro battaglia, e guerriglieri che non hanno raggiunto questa coscienza ma si inseriscono nell’azione, o anche la determinano, restando al di fuori del movimento rivoluzionario. Qui la distinzione diventa sottile e difficile. Il banditismo sociale, nei fenomeni del passato, ha sempre ingrossato le fila di quest’ultimo tipo di guerrigliero, oggi le cose sono profondamente cambiate. Uno dei motivi di questo cambiamento potrebbe essere l’elevata sensibilizzazione che si è andata sviluppando nelle carceri ad opera dei detenuti politici. Attraverso questo canale i “detenuti comuni” hanno avuto modo di venire a contatto con le ideologie rivoluzionarie per cui, nella continuazione della loro azione contro la proprietà, spesso operano con una maggiore coscienza rivoluzionaria. Su questo problema in particolare c’è da dire che lo sviluppo di un movimento di guerriglia, in una data zona, comporta una pronta sensibilizzazione del “banditismo sociale” operante in quella zona, sensibilizzazione molto più rapida di quanto non accada in periodi di scarso sviluppo del movimento rivoluzionario.

La jacquerie (21 maggio 1358 - 24 giugno 1358)

Una delle cause importanti dello scoppio di questa insurrezione contadina fu la miseria delle campagne francesi sotto le rapine delle Grandi Compagnie e sotto lo sfruttamento organizzato da Filippo di Valois e dal re Giovanni.

La rivolta scoppia ferocissima, i signori sono massacrati in molte zone. I movimenti parigini, guidati da Marcel, si alleano alla rivolta non comprendendone l’estrazione anarchica, profondamente in contrasto con il riformismo costituzionalista dei parigini. Guglielmo Carle guida la Jacquerie. Scrive Siméon Luce, uno degli storici più informati di questo moto rivoluzionario: «Era facile, allora, fare di un gentiluomo un brigante! Si passava insensibilmente dall’una all’altra esistenza, e si aveva un brigante di più e un gentiluomo di meno. Spesso, senza confondersi intimamente, gentiluomini e briganti si associavano e marciavano insieme facendo a metà» (Histoire de la Jacquerie. D’après des documents inédits, ns. tr., Paris 1894).

Il movimento contadino si legò a questi briganti che combattevano sia a fianco degli Inglesi come a fianco dei Francesi, senza una linea di fede ben precisa. Oggi sfruttatori, domani sfruttati, questi connubi stranissimi divennero condottieri di contadini affamati e paurosamente inferociti. I massacri, descritti in un Manoscritto della Biblioteca Nazionale di Parigi (Man. n. 2655), furono incredibili. La presenza del banditismo non fu sensibilizzata alla rivolta per il semplice motivo che anche quest’ultima, al di là dell’esplosione distruttiva vera e propria, non aveva orizzonti più chiari. Il 24 giugno del 1358 tutto era finito, ma la rivolta vera e propria finì a metà giugno, gli ultimi giorni furono una caccia diretta all’annientamento dei Jacques, fatta dal re di Navarra, dai gentiluomini e dai briganti. “Jacques” erano soprannominati i contadini francesi nel Medioevo, forse a causa del vestito corto che usavano (da jaque o jacque).

Povertà nelle campagne, banditismo sociale e rivolta dei contadini (1521-novembre 1525)

La società che esce dal Medioevo si avvia ad accettare una grossa trasformazione delle proprie componenti. Tra l’altro, il banditismo, dapprima esercizio esclusivo di cavalieri e organizzazioni d’arme (coperti dall’ideologia cavalleresca), diventa, a poco a poco, fatto di massa. La causa prima di questa modificazione è la crisi della società chiusa di tipo medievale, chiaramente visibile nella composizione sociale delle campagne, e l’aumento della povertà.

Bisogna intendersi sul significato di quest’ultima affermazione. L’aumento della povertà fu un fatto quantitativo, tanto macroscopico da mettere in crisi le strutture di assistenza della carità ecclesiastica che pure avevano retto più o meno bene durante diversi secoli (Cfr. Joseph M. de Gerando, De la Bienfaisance publique, vol. IV, Paris 1839, p. 480 e sgg; B. Geremek, La popolazione marginale tra il Medioevo e l’era moderna, in Istituto Gramsci, Agricoltura e sviluppo del capitalismo, Roma 1970, pp. 201-216; G. Duby, L’economie rurale et la vie des campagnes dans l’Occident médiéval, Paris 1962, vol. I). Il fenomeno è documentato in modo specifico per l’Inghilterra nei rapporti contenuti nel Domesday of Inclosures (I. S. Leadam, The Domesday of Inclosures, 1517-1518, London 1879). Come ha giustamente analizzato Richard Henry Tawney (The Agrarian Problem in the Sixteenth Century, London 1912), si costituisce una residual population che si può definire oggettivamente “povera” e che vivrà di espedienti alimentando il banditismo di massa nelle campagne.

Secondo alcuni censimenti (J. Garnier, La Recherche de Feux en Bourgogne, Digione 1876) a Digione, nel 1375, su 6.277 si avevano 1.169 famiglie povere, il 18,6%. Nella stessa provincia, nel 1431 le proporzioni su un campione di 4.000 sono le seguenti: a) famiglie solvibili: 22,5%; b) famiglie miserabili: 29,5%; c) famiglie mendicanti: 43%. Col termine “mendicanti” in questi censimenti si indica coloro che vanno in giro a chiedere il pane (povre et pain quérant).

Secondo le ricerche di Giuliano Procacci (Classi sociali e monarchia assoluta nella Francia della prima metà del secolo XVI, Torino 1955), in Normandia all’inizio del XVI secolo le famiglie considerate povere erano il 15%, nel corso del secolo un altro censimento porta al 24% questo rapporto. Per quanto possano essere stati diversi i criteri di rilevazione, siamo davanti ad un costante aumento del generale livello di pauperismo.

Lovanio passa dal 7,6% (1437) al 21,7% (1524); Bruxelles dal 10,5% (1437) al 21% (1524); Anversa dal 13,5% (1437) al 28,8% (compreso le campagne, nel 1496); Bois-le-Doc dal 10,4% (1437) al 14,3% (1524); il Ducato del Brabante dal 23,4% (1437) al 28,5% (1524).

Folle enormi di contadini invadono le città cercandovi i mezzi per vivere, le organizzazioni di assistenza cercano di affrontare il problema onde evitare sommosse che si annunciano gravissime. Il fisco, le guerre, le stagioni inclementi, accrescono la portata del problema.

Bisogna comprendere bene questo fenomeno, perché è la prima volta che si affaccia nella storia, in forma massiccia, il problema di contenere larghi strati della popolazione che premono per avere miglioramenti. Scomparsa quasi del tutto l’ideologia che aveva sostenuto la schiavitù, il potere deve affrontare il problema con nuovi mezzi. Essendo molto basso il livello di vita generale non si può supporre una soluzione di tipo produttivo, per cui si ricorre alla vecchia soluzione (già sperimentata per risolvere il problema della plebe in Roma), cioè quella dell’assistenza pubblica. In questo modo una grande massa di poveri viene mantenuta con piccoli interventi a un livello di vita pauroso, senza che per altro avverta la necessità di mettersi a lavorare in quanto l’incremento di reddito che avrebbe ottenuto sarebbe stato del tutto insignificante. Resta, è vero, la soluzione del brigantaggio, ed è in questa direzione che molti poveri si indirizzano.

Anche i piccoli proprietari, ridotti dagli oneri feudali al di sotto del minimo vitale, finiscono per cadere nelle braccia dei proprietari medi che ingrandiscono le proprie fortune con un processo di redistribuzione della proprietà contadina che non può mancare di eccitare ogni tipo di sentimento di rivolta. (B. Geremek, La popolazione marginale tra il Medioevo e l’era moderna, op. cit., pp. 212-215).

Dopo lenta maturazione scoppia la rivolta in Germania. La situazione era di molto peggiore che in Inghilterra o in Francia. L’agricoltura poco sviluppata, l’industria non aveva avuto modo di trovare nuove soluzioni, il commercio veniva sistematicamente battuto dagli intraprendenti olandesi. L’accentramento della ricchezza (tipo Fugger) turbava gli animi ma non metteva in moto nessuna vera e propria accumulazione capitalista. Gli stessi centri più sviluppati erano distaccati. Il Sud aveva propri sbocchi commerciali diversi e in contrasto con quelli del Nord. La media nobiltà del Medioevo o era scomparsa o si era elevata al rango principesco, acquistando notevole potere. Quando non aveva avuto fortuna si era tanto impoverita da scomparire del tutto. Non ultimo il lusso dei castelli fece sì che le poche rendite sfumassero in breve tempo.

Tutto finiva per pesare sul contadino, come sempre. Da parte sua il clero aveva problemi interni che lo dividevano in due (alto e basso) e problemi di tale portata che finivano per impedirgli l’esercizio della funzione tradizionale di custode dell’ideologia della sopportazione e del sacrificio. Il basso clero qualche volta faceva lega coi contadini nel guardare con occhio avido e ribelle il lusso sfrenato dell’alto clero. Le rivendicazioni morali si vestivano di questa sostanza, gravissima, la sostanza della miseria e della sopraffazione.

Scrive Engels: «Sul contadino pesava, stratiforme, tutta la società: prìncipi, funzionari, nobiltà, preti, patrizi e borghesi. Sia ch’egli appartenesse a un principe, a un barone imperiale, a un vescovo, a un chiostro, o a una città, egli era trattato ugualmente da tutti come una cosa, come una bestia da soma e peggio. Se servo della gleba, egli era in tutto alla mercé del signore; se tributario, gli obblighi fissati per legge erano già sufficienti a schiacciarlo e questi obblighi crescevano ogni giorno. La più gran parte del tempo doveva lavorare sulle terre del padrone, di ciò che egli poteva guadagnarsi nel poco tempo libero, dovevano essere pagate decime, censi, terratico, imposte di guerra, imposte di Stato, imposte d’Impero. Non poteva né ammogliarsi né morire senza pagare imposta al suo signore» (La guerra dei contadini, tr. it., Roma 1904, pp. 23-24).

Anche l’esempio delle sollevazioni degli hussiti e dei taboriti ebbe la sua importanza. Uno dei centri da cui si diffuse la rivoluzione fu Zwickau, assai vicino al confine con la Boemia. Si trattò di una motivazione religiosa di tipo particolare. Accanto alla spinta millenarista si associò, come lo era stato per le rivolte boeme, una componente sociale e comunista. Si partì dalla libertà predicata da Lutero per arrivare, in breve tempo, ad affermazioni di vera uguaglianza materiale, affermazioni che fecero comprendere di quale stoffa fosse il messaggio luterano. Per paura di perdere l’appoggio del potere, il novello messia protestante si scagliò contro i contadini eccitando i signori all’eccidio. È importante seguire Lutero nel suo scritto contro i contadini perché si vede come fosse presente in lui la paura della rivolta contadina, rivolta di banditi « ...che hanno rotto la fedeltà, la devozione, i giuramenti e gli obblighi promessi all’autorità» (Patto tra l’onorevole Lega Sveva e i due gruppi di contadini del Bodensee e dell’Allgäu. Con preambolo ed esortazione, in Scritti politici, tr. it., Torino 1959, p. 482).

Sembra di sentire l’altro grande apostolo dell’autorità e dell’ordine degli inforcatori e degli affossatori del popolo: S. Paolo. «I nostri contadini [...] si sono caricati di colpe gravi e capitali, richiamando così su di sé l’ira tremenda e inesorabile di Dio [...] con aver cercato di vendicarsi da sé e impugnata la spada con proprio empio arbitrio e tracotanza, mentre Dio vuole temuta ed onorata l’autorità, anche se fosse pagana e compisse solo ingiustizie, come Cristo la onorò in Pilato, suo ingiusto giudice e crocefissore. Ma i contadini non si contentarono di infuriare come infedeli, spergiuri, ribelli ed empi contro gli ordinamenti di Dio, sibbene anche saccheggiano, devastano e predano dove possono, come briganti e ladri da strada che turbano la pace del paese e la tranquillità delle cose; e, quel ch’è peggio di tutto, compiono tante insane nefandezze e tanti orrendi peccati sotto il nome di Cristo e il segno del Vangelo» (M. Lutero, Contro le empie e scellerate bande dei contadini, in Scritti politici, op. cit., p. 485).

In una lettera di Thomas Münzer, che dal 1524 in poi fu uno dei capi più avanzati del movimento contadino, si legge chiaramente un riferimento ai gruppi delle montagne: « ...incitate, risvegliate nei villaggi e nelle città e soprattutto i giovani delle montagne, insieme con altri buoni compagni [...]» (Lettera riportata in: M. Lutero, Una terribile storia e un giudizio di Dio sopra Tommaso Münzer, nei quali Dio manifestamente ne smaschera e condanna lo spirito, in Scritti politici, op. cit., pp. 496-497). E, più avanti, nella stessa lettera: «Fate pervenire questa lettera ai compagni delle montagne» (Ibidem).

La lotta fu lunga ed ebbe fasi alterne che non mette conto ricordare qui. Alla fine, le bande contadine, sconfitte separatamente (prima gli Svevi e i Franchi e poi le bande della Foresta Nera e quelle basso-alsaziane), si videro costrette a una inutile resistenza. I cavalieri, eccitati al massacro dalle sacre parole di Lutero, compirono degli eccidi contro cui nulla valse la lunga resistenza di piccoli gruppi che continuarono a lottare fino agli ultimi mesi del 1526. La prima esperienza rivoluzionaria delle masse popolari si concluse con una impressionante carneficina.

Scrive Eric Hobsbawm: «Il brigantaggio ebbe tendenza a diventare «endemico in epoche di impoverimento e di crisi economiche. L’aumento imponente del brigantaggio nel Mediterraneo alla fine del secolo XVI rifletteva il declino impressionante delle condizioni di vita dei contadini dell’epoca» (I banditi, op. cit., p. 17). È la stessa cosa che successe intorno agli anni Sessanta in Sardegna e che succede oggi [1981] in tutta l’Italia. In questo fenomeno si deve vedere non solo la maggiore disponibilità di uomini in grado di agire, ma anche una disgregazione della classe lavoratrice sotto i colpi dello sfruttamento. Non ultima, in questa prospettiva, si verifica, all’interno della suddetta classe, una precisa discriminazione tra proletariato industriale e sottoproletariato e popolazione marginale. In quest’ultima categoria rientrano spesso i contadini poveri e i braccianti. È errato affermare, come fa Hobsbawm (Ib., p. 18), che il banditismo qualche volta precorre movimenti più importanti della società contadina: il più delle volte siamo davanti a fenomeni che si sviluppano con riflessi reciproci, ambedue dipendenti da trasformazioni più o meno profonde della compagine sociale. Il banditismo sociale è fenomeno quasi costante, sono le sue modificazioni (in quantità e qualità) che risentono dell’andamento della situazione generale (economica in particolar modo) e del maggiore o minore sviluppo delle organizzazioni rivoluzionarie. Non bisogna dimenticare, infatti, che il problema più serio è sempre quello di qualificare socialmente le manifestazioni banditesche, in caso contrario si ricade nell’affermazione di esistenza di una criminalità che da sempre accompagna la società umana in tutte le sue forme. Il banditismo sociale può restare staccato dalla sensibilizzazione rivoluzionaria, ed è questo il caso più corrente, ma può inserirsi all’interno del movimento. In quest’ultima eventualità deve essere studiato dall’interno delle manifestazioni di guerriglia e non come fenomeno staccato.

Col nascere della struttura militare moderna negli eserciti, dovuta al genio della Grande rivoluzione e alle iniziative imperiali di Napoleone, si verificò una profonda modificazione nell’organizzazione di resistenza dei paesi occupati. Come vedremo subito dopo, sia in Russia che in Spagna, come in altre regioni, si ripresentarono gli stessi problemi che i partigiani americani avevano affrontato e risolto contro l’Inghilterra all’epoca delle lotte di liberazione. Il contesto oggettivo in cui queste lotte si svolsero favorì moltissimo l’innesto tra bande rurali e organizzazioni rivoluzionarie, accelerando il processo della presa di coscienza.

Le insurrezioni di liberazione nazionale tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo e la presenza del banditismo

In uno scritto del 1785, Mihály Lajos von Jeney elencava le qualità del “partigiano” scrivendo: «Immaginazione ricca di progetti, astuzie e trovate. Spirito penetrante, capace di afferrare con una sola occhiata tutte le circostanze di una situazione. Cuore imperturbabile di fronte a qualsiasi pericolo. Temperamento saldo e sicuro, che non si lasci mai trapelare il minimo segno di inquietudine. Memoria forte, per ricordare i nomi di tutto e di tutti. Carattere vivace, forte e instancabile, per essere ovunque presente ed essere l’anima di tutto. Colpo d’occhio rapido e preciso, per poter valutare sul momento difetti, svantaggi, ostacoli, punti deboli. Maniere e sentimenti che gli attirino la fiducia, il rispetto e l’attaccamento della truppa» (Der Partheygänger oder die Kunst den kleinen Krieg zu führen, ns. tr., Vienna 1785. Una traduzione inglese porta come titolo: Capitaine de Jeney, The partisan: or the art of making war in detachment. With plans proper to facilitate the understanding of the several dispositions and Movements necessary to Light Troops, in order to accomplish their Marshes, Ambuscades, Attacks and Retreats with Success, translated from the French of Mr. De Jeney, by an officer in the Army, London, Griffith, 1760).

Onde ben si consideri si tratta dei requisiti indispensabili che ritroviamo in molte descrizioni di banditi. Oggi, forse, si potrebbero delineare tratti abbastanza diversi, Ma la sostanza delle cose dovrebbe restare quasi immutata.

L’azione del bandito, nel suo complesso, non oltrepassa la partecipazione “esterna” al movimento insurrezionale di liberazione nazionale. Si tratta di una forza che vive ai margini dello Stato, con proprie leggi, ma una forza sostanzialmente di tipo conservatore, che, in momenti precisi, si associa a numerosi strati della popolazione, sopraffatti dalla miseria, allargandosi e venendo a contatto con prospettive di tipo rivoluzionario che, a priori, risultano estranee al banditismo vero e proprio. È per questo motivo che alcuni autori, come lo stesso Hobsbawm, hanno concluso per un “programma” dei banditi costantemente conservatore: «I banditi raddrizzano i torti, correggono e vendicano le ingiustizie, applicando un criterio più generale di giustizia e di equità nei rapporti fra gli uomini in generale, e in particolare tra il ricco e il povero, tra il potente e il debole. Il fine, però, è modesto, e ammette che il ricco sfrutti il povero (ma senza oltrepassare i limiti riconosciuti tradizionalmente come “equi”, che il potente opprima il debole (ma entro i limiti del ragionevole, senza dimenticare i propri: doveri morali e sociali). Il banditismo non chiede che non ci siano più padroni e neppure si aspetta che i signori non prendano più le donne dei propri sudditi, ma esige che quando lo fanno non si sottraggano all’obbligo di dare un’educazione ai propri bastardi. I banditi sociali sono, in questo senso, dei riformatori non dei rivoluzionari» (E.J. Hobsbawm, I banditi, op. cit., pp. 20-21).

In questo modo non si fa altro che confondere il già abbastanza complesso problema. Il banditismo sociale costituisce una “forza” al di là della legge, una forza che vive “al di fuori della società”. Come tale ha interesse che questa società si muova in senso progressista, che addolcisca le sue leggi, che obblighi i signori ad essere meno duri e a mitigare il loro sfruttamento. Ciò non ha nulla a che vedere col riformismo. Parlare di riformismo significa non comprendere bene il termine nel significato che oggi assume.

Per considerare una forza sociale come riformista occorre che quest’ultima agisca all’interno del sistema e che si batta per modificarlo, a poco a poco. I banditi non agiscono all’interno della società, sono per definizione “al di fuori”. Il loro desiderio che la società diventi quanto più possibile meno oppressiva è il desiderio che dividono con tutti, a prescindere dell’etichetta di rivoluzionari o riformisti, è in sostanza il desiderio di tutti gli uomini ragionevoli, e i banditi sono molto ragionevoli.

Considerarli, per questo soltanto, una forza conservatrice è un errore. Un errore di portata notevole, una volta che si tiene conto dell’eventualità che qualche volta i banditi possono anche costituire una forza “reazionaria”, mentre qualche altra volta possono svolgere un ruolo rivoluzionario. È la situazione storica che condiziona fortemente il “ruolo” di questa forza sociale non “qualificata” dal condizionamento di classe operante all’interno delle strutture della società, ma, anzi, per definizione, al di fuori delle strutture stesse. Se l’andamento della lotta di classe presenta un’involuzione in senso reazionario, è molto probabile che la presa di coscienza da parte dei gruppi alla macchia non avvenga e che la loro estraneità allo sforzo di rinnovamento sociale li trasporti verso interessi reazionari; al contrario nel caso di uno sviluppo del movimento rivoluzionario la loro presenza, all’interno del movimento stesso, è quasi sempre scontata.

Un problema a parte resta evidentemente quello dei gruppi che passano dal movimento rivoluzionario al banditismo sociale agendo nella logica di quest’ultimo, ma con le premesse politiche del primo.

Ritornando al nostro problema, abbiamo, nel passaggio tra il XVIII secolo e il XIX un estendersi e un perfezionarsi dei movimenti di liberazione nazionale. Il banditismo non fu estraneo a questi movimenti e, da questi contatti, trasse materiale per un rinnovamento, una maggiore riflessione sugli obiettivi e sui mezzi tecnici e una maggiore presa di coscienza.

Nell’India, la rivolta contro i musulmani venne guidata alla fine del XVII secolo da Sivaji, figlio di un governatore ma di professione bandito da strada e da foresta. In un articolo molto interessante, André Mater, scriveva: «Sivaji diventa un figlio del diavolo e padre della strategia del banditismo, s’impadronisce per divertimento di tutti i forti abbandonati, e cattura tutti i convogli che trasportavano il denaro che suo padre, il governatore, avrebbe dovuto proteggere. Diventa potente e celebre, ingrandisce le sue usurpazioni di territorio, e a trentun anni distrugge una armata del re che possedeva Poona [...] Sivaji fu il distruttore della potenza musulmana. Si fece pagare tributi da tutti i re dell’India peninsulare, divenne il loro padrone più del Gran Mogol, ricevette rinforzi per le sue guerre contro Aureng-Zeb, e questa “guerra dei Mahrattes” divenne la guerra di tutta l’India contro l’Islam e determinò la irrimediabile decadenza dell’impero di Delhi. Ecco perché Sivaji, con il guru Govinda, è considerato il precursore degli estremisti indiani» (“Les origines de l’Anarchisme Hindou”, in “Revue de Paris”, ns. tr., agosto 1909, p. 554.)

Riguardo al Vietnam ascoltiamo le riflessioni di due vecchi storici. Il primo, l’abate Launay, scrive: «In genere, gli annalisti hanno raccontato le dispute e le gesta dei grandi, le guerre con i regni vicini, ma non si sono curati del popolo; ci è difficile supplire al loro silenzio; tuttavia il popolo vietnamita esisteva, soffriva [...], accettava la propria sorte senza troppo lamentarsi. Qualche volta, tuttavia, gente malcontenta fuggiva sulle montagne vivendo di saccheggio, si gettava nelle campagne rubando tutto quello che trovava; soltanto allora gli annalisti sembrano ricordarsi del popolo, la cui collera si manifesta, come sempre, con atti di sangue, di saccheggio e di violenza» (Histoire ancienne et moderne de l’Annam, Paris 1884, citato da J. Chesneaux, Storia del Vietnam, tr. it., Roma 1971, p. 26).

Il secondo è Alfred Schreiner: «L’organizzazione dei villaggi nel Vietnam ci rivela l’esistenza di una folla di uomini ch’era soltanto tollerata nell’associazione comunale e senza altro diritto, contro una quantità enorme di obblighi, che quello di vivere. Senza dubbio questa gente rappresentava un’immensa riserva proletaria, decisamente incline a migliorare la propria situazione e disposta a rischiare tutto, non avendo nulla da perdere» (Abrégé d’histoire d’Annam, Saigon 1906, citato da J. Chesneaux, Storia del Vietnam, op. cit., pp. 26-27).

Verso la fine del XVIII secolo aumentano le rivolte nelle campagne e nelle montagne e il numero dei vagabondi e dei banditi s’ingrossa. (Cfr. J. Chesneaux, op. cit., pp. 43-44). Si preannunziano le guerre che porteranno alla definitiva sistemazione del territorio sotto l’assetto coloniale.

Allo scoppio della guerra d’indipendenza americana (1775-1783) gli eserciti europei si trovano di fronte ad un nuovo tipo di combattente. Jac Weller individua in ciò il motivo della vittoria degli insorti: «I partigiani patrioti e i loro capi, erano abilissimi tiratori, si rendevano conto dei vantaggi della sorpresa, si impegnavano con la massima energia tanto nella difesa come nelle azioni di disturbo e sapevano improvvisare le azioni necessarie secondo il momento» (“Irregular but effective: Partizan weapons tactics in the American Revolution, Southern Theatre”, in “Military Affairs”, ns. tr., XXI, ottobre 1957, p. 131). Non conosciamo l’apporto materiale delle bande, ma possiamo dedurre questo apporto dalle tecniche di combattimento impiegate, tecniche tipiche dell’esperienza indiana e di tutti coloro che vivevano nelle foreste. L’importanza dell’avvenimento americano fu grandissima, anche per la futura applicazione di queste tecniche e per una riconsiderazione dei rapporti con i gruppi “fuorilegge”. Su questo problema: P. Paret, Colonial Experience and European Militare Reform at the end of the 18th Century, Comunicazione al Congresso anglo-americano di studi storici, Londra 12 luglio 1962.

Nel Perù (1780-1781) scoppia la rivolta guidata da Tupac Amarú. I gruppi che lo seguirono, come avvenne anche ad Haiti, nel Brasile e nel Venezuela, erano meticci, cioè figli degli incroci tra europei e donne peruviane, cui erano negati tutti i diritti, negri e creoli (bianchi nati in America). Si trattava di uno strato notevole della popolazione che alimentava le bande marginali, dedite al saccheggio e alle azioni di ripresa individuale contro gli spagnoli. Tupac Amarú guidò l’insurrezione per sei mesi, poi venne catturato e squartato insieme a sua moglie e ai suoi figli. (Cfr. C. C. Griffin, The United States and the Distruption of the Spanish Empire, New York 1937).

Allo scoppio della rivoluzione francese, Saint Domingue (l’attuale Haiti) è scossa dalla rivolta (1791-1804). La guida è uno schiavo ribelle: Toussaint l’Ouverture, un negro nipote di un re africano. Sulla scia dell’abolizione della schiavitù proclamata dalla Francia, i ribelli neri si scagliano contro i padroni e si organizzano in bande che saccheggiano e bruciano in tutto il paese. Non ci interessa la sorte di questo capo ribelle, che per altro commise azioni abbastanza contraddittorie, ma ci importa notare che fu in queste zone, in queste paludi e in queste boscaglie, che si svilupparono sia le tecniche della guerriglia, sia la riflessione sulla validità della insurrezione di massa. In futuro tutte le insurrezioni considereranno, attraverso i loro capi, la possibilità di una utilizzazione rivoluzionaria delle bande “marginali”. A loro volta, queste ultime, porteranno il bagaglio della propria esperienza sebbene, spesso, appesantiranno la situazione con la scarsa chiarezza dei propri obiettivi. (Cfr. The Origins of the Latin-American Revolution, a cura di R. A. Humphreys e J. Lynch, New York 1965).

La rivolta in Vandea (1793-1796) è un esempio di come sia possibile strumentalizzare in senso reazionario il banditismo. Addirittura la stesse masse contadine fecero fronte unito con i reazionari monarchici, scatenando contro la nuova repubblica un terribile attacco. La guerra che ne scaturì assunse l’aspetto di una guerra popolare da ambedue le parti. Non si aveva in campo un vero e proprio esercito né da parte repubblicana né da parte monarchica. I gruppi di banditi, aderenti all’appello monarchico, vennero poi liquidati in pochi anni dall’esercito francese, in modo radicale,con un’operazione che potrebbe paragonarsi a quella attuata dal nuovo Stato italiano contro i banditi filoborbonici del meridione. (Cfr. A. de Beauchamps, Histoire de la guerre de la Vendée et des Chouans depuis son origine jusqu’à sa pacification de 1800, vol. I, Paris 1806, p. 179).

Di fronte all’occupazione napoleonica si organizza la resistenza spagnola (1808-1814). È la guerra popolare. Prima nelle Asturie, poi nelle altre regioni, spontaneamente i contadini si organizzano sfruttando le campagne e passando all’azione di propria iniziativa. Quando l’esercito regolare spagnolo è definitivamente annientato l’organizzazione fuorilegge della guerriglia è la sola a fronteggiare lo scontro con i Francesi. Spesso le bande armate devono obbligare la popolazione ai rifornimenti, si distingue in queste azioni di rappresaglia il guerrigliero Espoz y Mina. Scrive Werner Hahlweg: «Nei ranghi delle truppe guerrigliere affluivano uomini di tutte le condizioni sociali, preti, ex ufficiali, avvocati, poliziotti, doganieri, e anche veri banditi; in complesso tuttavia prevaleva la popolazione rurale [...] si aveva un quadro di variopinta confusione; i singoli gruppi si distinguevano fra loro per la composizione e per i compiti militari affidati a ciascuno; non esisteva una direzione centrale che potesse coordinare i movimenti delle bande partigiane, le quali operavano più o meno indipendentemente, senza che venisse per questo limitata la loro libertà d’azione [...]. Questo modo di combattere poteva richiamarsi ad illustri tradizioni storiche; la terra spagnola, col suo paesaggio montuoso, le foreste e le macchie, le sue gole e i suoi anfratti, aveva favorito la guerriglia fin dall’antichità» (Storia della guerriglia, op. cit. p. 50).

Situazioni insurrezionali si svilupparono in Germania nel 1809 e nel Tirolo lo stesso anno. In Germania si attuarono rivolte isolate, come quelle del “Duca Nero” o di Schill, e rivolte popolari di massa, come quella di Marburgo. Nel Tirolo l’insurrezione dei montanari assunse vastissime proporzioni. Lo stesso accadde nel corso della campagna di Russia del 1812 e durante la resistenza prussiana all’invasione napoleonica. Non possediamo dati sufficienti per fissare un rapporto preciso tra banditismo sociale e organizzazioni partigiane in questo periodo. Per la Russia la figura del vagabondo era diffusissima, le bande di rasboiniki si trasferivano da una contrada all’altra alla ricerca di “Terra e Libertà”. Numerosi i servi fuggiti, i disertori, gli evasi, coloro che avevano lasciato il seminario e, come sottolinea Hobsbawm, i figli dei preti. Alimentavano questa categoria anche piccoli proprietari terrieri di confine, che avevano ricevuto la terra dall’imperatore con il compito di difendere il confine, ma si sentivano in fondo indipendenti e si abbandonavano a scorrerie e saccheggi a preferenza della coltivazione dei campi. In Russia venivano chiamati cosacchi, in Grecia clefti, in Ucraina haidamak. (Cfr. I banditi, op. cit., tutto il capitolo V, pp. 65-77). In Germania i disertori alimentavano largamente il banditismo sociale. Si tratta per lo più di contadini-soldati che si rifiutano di combattere o, più spesso, ritornano al villaggio dopo una campagna. Qui sono del tutto sradicati dal contesto sociale che li rifiuta. Nella campagna però possono cominciare un’attività che il più delle volte confina con il brigantaggio “lieve”: caccia di frodo, qualche furto di bestiame. Il processo di sviluppo è normale, si costituiscono i gruppi e si ripete il fenomeno dell’ingrossamento del banditismo. Quando incontrano un compagno più indomito degli altri, un ribelle che non si vuole piegare alle strutture del potere, hanno trovato il loro capo. Da non trascurare la presenza di piccoli nobili squattrinati, diventati fuorilegge. La Guascogna del 1600 fornì moltissimi di questi esempi. Anche in Germania e nel Tirolo molti capi dell’insurrezione erano di origine nobile. Spesso, in questi casi, il mito finisce per ricoprire la figura storica, ponendosi nell’antica tradizione iniziata, probabilmente, con Rinaldo stesso.

Il periodo che trattiamo adesso si prestò molto meno a certe elaborazioni letterarie e a certe mistificazioni, ma per i periodi precedenti, in un certo senso per la stessa resistenza spagnola, queste operazioni “di aggiustamento” furono frequenti. I capi ribelli venivano promossi “nobili” proprio per essere accettati all’interno della logica letteraria ufficiale, che avrebbe rifiutato di cantare le gesta di un uomo del popolo.

La prima metà del XIX secolo. Banditismo, guerriglia e banditismo sociale

La situazione delle campagne va migliorando progressivamente. In Francia la Rivoluzione aveva creato nuovi piccoli e medi proprietari con l’abolizione dei diritti feudali, la qual cosa non fu senza conseguenze per la storia delle campagne francesi. Il periodo migliore fu tra il 1815 e il 1820, ad annate negative seguirono ottimi raccolti che fecero precipitare i prezzi, ma la crisi che ne conseguì fu superata perché si erano estese le colture. L’assenza di una aristocrazia terriera favorì la redistribuzione dei redditi agricoli. Se a questo si aggiunge la radicale lotta al banditismo fatta dall’esercito repubblicano, si avrà un’idea della lenta ma progressiva scomparsa di questo fenomeno nelle campagne francesi. (Cfr. P. Sagnac, L’œuvre sociale de la Révolution française, Paris 1901; H. Sée, Esquisse d’une histoire du régime agraire en Europe, Paris 1921, pp. 205 e sgg.).

In Germania non si aveva una situazione uniforme a causa dell’esistenza di numerosi piccoli Stati. In generale si può concludere per una grave situazione di sfruttamento, per altro meno forte delle parallele situazioni del sud dell’Italia, dell’Oriente o dell’America latina. Nella Germania occidentale era migliore che nell’orientale; qui gli Junkers avevano scavato un grande abisso tra loro e i contadini, la grande massa dei quali era quasi in stato di schiavitù. (Cfr. G. F. Knapp, Die Bauernbefreiung und der Ursprung der Landarbeiter in den älteren Theilen Preussens, 2 voll., Leipzig 1887).

Diverse in Oriente le condizioni dei contadini. In Cina l’isolamento era aumentato, l’antico Stato aperto verso l’esterno si era andato stringendo sempre di più, come in Giappone. I pirati ritornarono a infestare i mari, i mercanti stranieri sfruttarono come non mai le situazioni di debolezza, l’oppio in grandissime quantità finiva di addormentare ogni tentativo di risveglio nazionale. In Giappone le tasse e l’usura dissanguavano il miserabile contadino, mentre risorgeva la schiavitù di poveri infelici che volontariamente si rendevano schiavi per sopravvivere. L’India ha vaste trasformazioni in conseguenza della sua anglicizzazione e dei cambiamenti nella gestione e nei programmi della Compagnia delle Indie, ma le campagne restano in preda alla miseria e alla fame. Il banditismo dilaga nelle sue forme più feroci e reazionarie. In Egitto il banditismo dei soldati e dei disertori tiene in soggezione lo Stato, ormai distaccato da Costantinopoli. La miseria è paurosa, i contadini decadono da piccoli proprietari a braccianti, tutto va in rovina, le stesse opere idrauliche del passato vengono abbandonate, la popolazione si riduce ad un terzo, si vive nel “paese della schiavitù e della tirannia”. (Cfr. H. McAleavy, Storia della Cina moderna, tr. it. Milano 1969; G. B. Belzoni, Viaggi in Egitto e Nubia seguiti da un altro viaggio lungo la costa del Mar Rosso e all'Oasi di Giove Ammone, Milano 1825; C.-F. de Volney, Voyage en Syrie et en Égipte, vol. I, Paris 1807).

Nell’America latina il risveglio rivoluzionario è un dato di fatto. Il primo Stato a ottenere l’indipendenza è il Brasile; attraverso una incruenta rivoluzione. I portoghesi abbandonano l’ingovernabile colonia. Presenti in quest’operazione di basso governo e nelle piccole scaramucce marginali, gruppi di avventurieri e di banditi, che però non riescono a legare con la popolazione, date le condizioni di fatto. Un esempio di questo banditismo è Lord Thomas Cochrane, lo scozzese, miscuglio di bandito e difensore della libertà. Partecipò alla presa di Bahia, intervenendo dal mare e ottenne una licenza di pirata da Pedro I, senza grandi risultati pratici. (Cfr. C. Lloyd, Lord Cochrane, London 1947).

In questo periodo il Messico è preda della dittatura di Agustin de Iturbide, spregevole personaggio che era riuscito, ancora una volta, a strumentalizzare le bande di léperos, mendicanti e banditi, utilizzando i soldi dei creoli più ricchi. Fino alla metà del secolo, sotto le diverse attività contraddittorie di Antonio López de Santa Anna, questi gruppi di banditi vennero utilizzati in sostanza più o meno reazionariamente. (Cfr. H. G. Ward, Mexico in 1827, London 1828, 2 voll.).

A Cuba, l’ultima isola fedele alla Spagna, la guerra dei dieci anni (1868-1878) causa circa 200.000 morti e la distruzione di quasi tutte le piantagioni. Si vedono qui all’opera le bande guerrigliere. La situazione ad Haiti, dopo la parentesi piuttosto “dolce” del governo di Pétion, precipita in una grandissima miseria. La società è divisa in due classi, i ricchi che vivono nelle città imitando lo stile parigino, e “gli intoccabili”, i “paria”, che vivono più o meno come in India, analfabeti, parlanti il creolo (strano miscuglio di francese e spagnolo), aderenti ai riti vudu. Il contadino è tra i più poveri del mondo, il tasso di mortalità è altissimo. Le rivolte frequenti ma di scarso respiro, il banditismo è endemico ma presenta caratteristiche precise: assai limitato in quanto ad azioni, è del tutto escluso dagli interessi più ampi di tipo rivoluzionario. (Cfr. E. Chapman, A History of the Cuban Republic, New York 1927; J. G. Leyburn, The Haitian People, New Haven 1941).

Nell’America centrale, verso il 1830 si sviluppa una sollevazione degli Indiani, guidati da Rafael Carrera, un guatemalteco di sangue indiano, che porta alla definitiva divisione degli interessi dei cinque Stati. I tentativi di unificazione finiscono. Non si può comprendere con chiarezza in che modo le masse contadine e i mendicanti vennero utilizzate in queste sollevazioni. In Colombia, tra il 1810 e il 1824 si sviluppano le guerre d’indipendenza che consentono ai settori dei commercianti e dei proprietari terrieri schiavisti di imporre il loro dominio. Alla metà del secolo lo sviluppo commerciale consente l’attacco decisivo contro i proprietari terrieri da parte della democrazia borghese. Nel programma democratico era inclusa la libertà degli schiavi e la distribuzione delle terre, cose, quest’ultime, che avrebbero garantito alla borghesia l’allargamento del mercato interno. Fino alla fine del secolo si avranno in Colombia ben quaranta guerre civili, la sola guerra dei mille giorni (1899-1901) fece più di 100.000 morti. Lo sfruttamento si intensifica nei settori della coltivazione della canna da zucchero e del tabacco. La situazione geografica, per altro, favorisce lo sviluppo di una vera e propria classe di banditi. (Cfr. J. Lloyd Stephens, Incidents of Travel in Central America Ciapas and Yucatán, a cura di R. L. Predmore, 2 voll., New Brunswick 1949. Opera di grande importanza per la conoscenza dell’America centrale. Per la Colombia: “Colombie. Imperialisme et lutte de classe”, “Bulletin de liaison du Cedetim, Centre d’Etudes anti-imperialistes”, n. 31, Luglio 1974, Parigi).

In Venezuela José Antonio Páez, grande guerrigliero, condusse alla vittoria, contro José Thomás Boves, al servizio della Spagna, i suoi compagni della prateria. Come Juan Manuel Rosas in Argentina, siamo davanti a mandriani che hanno moltissimo in comune con i banditi della regione: ne condividono lo spirito e la vita selvaggia. Páez fece l’ultimo tentativo di azione guerrigliera, subito dopo essere stato deposto, all’età di 71 anni. Dopo, il dominio passò ai liberali.

In Argentina Rosas diventa in poco tempo il leader del nazionalismo capitalista, in opposizione ai monopoli stranieri. Poi la base che lo sosteneva finisce per allearsi con gli Inglesi e Rosas viene abbandonato. Se Páez fu definito “il primo presidente-bandito” lo stesso si potrebbe dire di Rosas. (Cfr. H. Herring, Storia dell’America Latina, tr. it., Milano 1972, pp. 721-751; “Argentine: Mobilisation populaire contre l’imperialisme”, “Bulletin de liaison du Cedetim, Centre d’Etudes anti-imperialistes”, nn. 32-33, settembre 1974, Parigi).

In Ecuador la lotta tra due dittatori si svolse per quindici anni (1830-1845) gettando il paese nella miseria ancora più nera di prima. Poi cominciò un periodo in cui salirono al potere in circa dieci anni ben undici dittatori. Il conflitto tra il clero e i liberali suoi oppositori divenne gravissimo e determinò non poche guerre civili.

Nel Perù le lotte dei caudillos caratterizzarono la separazione dalla Spagna, imposta dai colombiani di José de San Martín. I soldati non pagati disertarono e divennero banditi. Le campagne vennero devastate, le fattorie incendiate, il bestiame disperso. L’economia, nel periodo successivo, sarà risollevata dall’esportazione del guano. (Sull’Ecuador, cfr. F. G. Calderón, Latin America: Its Rise and Progress, London 1913 p. 220 e sgg.; sul Perù, cfr. J. Basadre, Historia de la República del Perú, 2 voll., Lima 1946).

In Bolivia i presidenti-banditi non si contano. Il peggiore fu Mariano Melgarejo, detto il “flagello di Dio”. Nel Cile, dopo la cacciata degli Spagnoli, ritroviamo Lord Cochrane e la sua attività di pirata sotto la bandiera cilena, attività organizzata da un altro europeo, l’irlandese O’ Higgins, nominato governatore. Le rivolte, frequenti sebbene meno sanguinose che negli altri paesi, vedevano all’opera bande armate di rapinatori e saccheggiatori. (Sulla Bolivia, cfr. H.Herring, Storia dell’America Latina, op. cit., cap. XXXIII, pp.871-900. Sul Cile, Ib., pp. 901-967). I contadini vivevano nel più assoluto isolamento, in un ambiente che ricordava quello medievale europeo: i padroni era quasi sempre bianchi, i servi negri o indiani.

L’Uruguay vide le prime rivolte del 1810 guidate da José Gervasio Artigas, un gaucho che era stato contrabbandiere e ladro di bestiame. Le sue lotte, durate fino al 1820, lo fecero “padre dell’indipendenza uruguayana”. (Cfr. S. G. Hanson, Utopia in Uruguay. Chapters in the Economic History of Uruguay, New York 1938).

Il quadro generale che abbiamo cercato di delineare era quanto mai grave per i contadini e per tutte le popolazioni soggette al più brutale degli sfruttamenti. Non mette conto parlare in dettaglio della situazione russa, in cui i servi della gleba riconfermavano la situazione medievale che attanagliava quel paese. Ma la nuova rivoluzione si andava preparando dovunque in Europa. Le campagne, ad ogni modo, vivevano un periodo sonnacchioso, in attesa di quelle scosse che trasformeranno il mondo.

Scoppia la lotta di liberazione greca (1821-1829), la guerra civile spagnola (1833-1840), le rivolte in Polonia (1830-1831 e 1848), le rivoluzioni in Germania, Austria e Ungheria (1848-1849), la guerra in Danimarca (1848), le campagne di Garibaldi nel meridione italiano (1860), la guerra di secessione americana (1861-1865), le guerre tedesche per l’unità (1864, 1866 e 1870-1871), le insurrezioni in Bosnia ed Erzegovina (1878 e 1882).

In tutti questi avvenimenti, ed in altri più piccoli e meno noti, si svilupparono e giunsero alle loro ultime conseguenze quelle contraddizioni economiche e sociali che avevano determinato il banditismo sociale e lo avevano mantenuto in certe zone. Le caratteristiche si precisano ancora di più, il periodo del banditismo, salvo rare eccezioni, finirà con lo spirare del secolo, trasformandosi nell’impatto con una realtà che si trasformava e con un movimento rivoluzionario che finiva per assorbire gli elementi migliori.

Una serissima rivista inglese, la “Edimburg Review”, scriveva durante la lotta contro Napoleone: «Il solo ostacolo alle usurpazioni del potere, agli atti di oppressione [...] sta nel coraggio, l’intelligenza, la vigilanza, la resistenza organizzata del popolo. La grande invalicabile barriera, ch’è possibile opporre alla corruzione, all’oppressione di un potere arbitrario, bisogna fondarla sempre sull’opinione pubblica, su di un’opinione sicura di sé e pronta ad affermarsi, fino a ricorrere risolutamente alla resistenza, tutte le volte che si trova offesa e provocata» (“Edimburg Review”, ns. tr., luglio 1809, n. 28, vedi anche il 34 del febbraio 1811). Erano idee che penetravano tutti i livelli, anche quelli tradizionalmente chiusi ai movimenti popolari, come appunto l’accademia e l’università inglesi.

La situazione in Russia veniva tradizionalmente fronteggiata con una serie di decreti contro il banditismo che non avevano quasi alcuna efficacia. Agli inizi del XIX secolo le imprese dei banditi si erano fatte rarissime nelle città e erano aumentate nelle campagne, specie nei posti di frontiera, dove si avevano, come abbiamo visto, dei piccoli proprietari terrieri che si dedicavano anche al brigantaggio, e nelle regioni abitate da minoranze etniche. L’abolizione della servitù della gleba segnò una grossa diminuzione del banditismo sociale.

Anche in Germania, tra i due secoli, si avevano casi di nobili decaduti che si trasformavano in predoni (i ladroni cavalieri); una specie di reminiscenza medievale nel racconto dei cronisti o un vero e proprio dato storico? La risposta non è facile. In realtà si avevano gruppi di banditi che agivano nelle campagne, appoggiandosi sull’aiuto delle masse supersfruttate, specie nella parte orientale e lottando, con piccoli saccheggi, contro le angherie degli Junker.

Nella Cina e in Giappone il banditismo aveva connotati precisi, sviluppandosi in relazione all’appartenenza a certe caste. Con la “chiusura” cinese successiva alla seconda guerra dell’oppio, questo sistema si fece ancora più serrato. Certo il banditismo restava sempre in relazione al grado, allo sfruttamento e alla possibilità di appoggio sulle masse dei contadini insofferenti. Proprio per questo la legislazione cinese dell’epoca prevedeva una ripartizione in zone di brigantaggio e zone prive di questo fenomeno. La presenza di sfruttatori più esosi degli altri poteva determinare un aumento del fenomeno. Comunque esistono teorie molto disparate su questi problemi, esaminati con accuratezza da Ernest Alabaster. (Notes and Commentaries on the Chinese Criminal Law, London 1899, pp. 400-402).

In India, verso la metà del secolo, divenne famosa una tribù di cacciatori e uccellatori che si diede quasi per intero alle rapine e ai saccheggi, in un momento in cui la carestia era più grave del solito. (Cfr. W. Crooke, The Tribes and Castes of the North West Provinces and Oudhe, Calcutta 1896, 4 voll., vol. I, p. 49).

Riguardo alla problematica superstiziosa, nei gruppi dei banditi europei, il problema è molto vasto. Grosso modo si può affermare che non si possono riscontrare quelle intolleranze religiose che caratterizzarono l’Europa dei tempi bui; ad esempio non è raro il caso di riscontrare documentazioni in cui appaiono accettati e difesi dai banditi gli eretici e tutti i perseguitati, come gli Ebrei. Per un bandito, diffondere la fama di avere steso un patto col diavolo era, oltre che un fatto superstizioso, anche un utile strumento di propaganda per intimorire gli avversari. Non bisogna pensare che simili problemi siano di carattere medievale, possono ritrovarsi anche in epoca industriale, ovviamente in quelle regioni dove, appunto, attecchiva il fenomeno del banditismo sociale.

Quello che si delineò, nella prima metà del XIX secolo, fu un banditismo che si andava liberando di alcune caratteristiche del periodo precedente. La figura del bandito “delicato”, per usare la definizione di Camus, divenne oleografica più che aderente alla realtà. Non comprendiamo bene perché alcuni studiosi, e lo stesso Hobsbawm, abbiamo accettate per vere alcune regole fondamentali, valide forse in una società più strettamente contadina, ma difficilmente immaginabili in una società in via di profonda modificazione, come quella della metà del XIX secolo. Il problema della violenza, che nel secolo precedente era stato al centro di ogni riflessione sull’attività e sui limiti dei banditi sociali, risente l’influsso delle modificate condizioni della lotta. Adesso le masse sono entrate nell’area del banditismo sociale attraverso lo sviluppo di alcuni avvenimenti popolari a carattere insurrezionale. Questo ingresso segna anche il tracollo di alcune figure tipiche del banditismo, eccetto alcune zone dove il modello rimane fino ai nostri giorni. Con questo tramonto si modificarono profondamente anche i canoni morali che impedivano al “vecchio” bandito sociale di uccidere se non per difesa personale, o di fare male senza un preciso motivo di difesa. Gli eccessi delle masse in rivolta, giustamente visti come violenza difensiva, contro quella violenza sempre presente che è l’istituzione dell’oppressore, non potevano rientrare nell’ottica miope del vecchio banditismo sociale che, in questo modo, tramontava nella realtà, e si trasferiva nel mito e nella letteratura, raccogliendo l’eredità di quella ininterrotta tradizione che si riscontra nell’epica popolare.

Con l’accrescersi della presa di coscienza, con lo sviluppo delle teorie libertarie, con la propaganda anarchica nelle campagne e nelle città, con l’aumento delle fila del movimento operaio, si assottiglia la differenza tra banditismo sociale e bande armate di guerriglieri. Il primo assorbe velocemente temi e rivendicazioni che non aveva mai avuto in passato, sebbene a volte continui a prestarsi ingenuamente alle strumentalizzazioni dei reazionari; le seconde non si differenziano dalle bande dei briganti, e spesso accettano nelle loro organizzazioni i banditi o li liberano dai penitenziari.

L’attenzione si sposta dal bandito in quanto persona singola, alimento dell’epica popolare, al gruppo, alla banda, al movimento. Il tanto travagliato problema della violenza emerge come manifestazione di massa, atterrendo i benpensanti, che comprendono come i deboli e gli sfruttati possono diventare terribili nel momento della vendetta. Mentre, in passato, le loro condanne risuonavano logiche alle ottuse intelligenze dei popolani, questa volta non riesce loro facile imbrogliarli. Qualche volta, come nel caso di Pisacane, i preti ci riescono ancora, ma più spesso, come accadde con i garibaldini, il popolo – almeno agli inizi – non cade nella trappola. Mito e realtà, comunque, restano sempre troppo strettamente avviluppati, per poterne parlare con chiara cognizione. Il problema del banditismo, toccando un argomento troppo vicino alle paure umane, difficilmente può superare queste difficoltà.

Un’altra riflessione da fare, prima di andare avanti, è quella che il banditismo sociale, nella forma che prese in questa prima metà del secolo XIX, non è morto ma può sempre ritornare a svilupparsi, quando condizioni oggettive ne facilitano il ritorno. Non dobbiamo dimenticare il banditismo che si sviluppò nella provincia di Huanaco nel Perù intorno al 1917, e quello del 1948 in Colombia, esplosioni di violenza raramente viste prima. Non valgono quindi le schematizzazioni a priori: quando le condizioni di sfruttamento raggiungono certi limiti, come nel caso della Colombia, tutto un paese può sviluppare una terribile guerra civile che fa esplodere il banditismo sociale in manifestazioni che si reputavano estinte da molto tempo.

L’azione di Pisacane e la sua importanza

Il 25 giugno 1857, Carlo Pisacane con trenta volontari, tra cui Giovanni Nicotera e Giovanni Battista Falcone, su notizie provenienti dal comitato segreto insurrezionale napoletano, decide di partire da Genova per operare uno sbarco e dare inizio alla guerriglia di liberazione. La nave “Cagliari”, su cui la spedizione si era imbarcata, viene obbligata a dirottare e a fermarsi a Ponza, dove trecento detenuti vengono liberati. Lo sbarco avviene a Sapri il 28 giugno. Il proclama lanciato alla popolazione non ottiene l’effetto sperato, i preti chiamano a raccolta la gente mettendo in circolazione la voce che si tratta di briganti venuti per saccheggiare. La colonna giunge a Torraca e poi prosegue per Fortino, Castelnuovo e Padula. Il 1° luglio gli insorti sono attaccati a Sanza anche dalla popolazione. Pisacane viene ucciso insieme a molti suoi compagni. Nicotera è fatto prigioniero. La stampa borbonica li definirà: “accozzaglia di inceppati e di galerati”. I resti degli uccisi furono arsi in un rogo.

Al di là dell’esperienza militare in se stessa, è importante per noi la figura di Pisacane e la sua elaborazione teorica. Egli si rese perfettamente conto che il movimento insurrezionale doveva rivedere le antiche tecniche della guerra, studiando le nuove tecniche della guerriglia alla luce delle esperienze più recenti. (Le letture di Pisacane furono svariate ma, nel campo dei problemi militari, sono state ricostruite da Oreste Mosca nel libro: Vita di Pisacane, Roma 1953. Cfr. anche: L. Russi, Pisacane e la rivoluzione fallita del 1948-1849, Milano 1972). Egli si rese anche conto che lo spirito egualitario e libertario che esisteva nel banditismo sociale, doveva penetrare le organizzazioni di guerriglieri se non si voleva ridurle all’impotenza. Così scriveva: «L’elezione e l’eguaglianza del salario per tutti i gradi sono i soli mezzi che in questi casi rivestono le nomine di legalità, diminuiscono il numero de’ sollecitatori di spallini, estinguono quel sentimento d’invidia che vien generato fra officiali e soldati dalla diversità di vivere, e riducono il grado ad un tributo imposto all’intelligenza» (Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-1849, Napoli 1969, pp. 70-71). In un altro scritto: «Dubitate voi che se i sottoufficiali dovessero scegliere l’individuo da promuoversi ufficiale, s’ingannerebbero nella scelta? Chi meglio conosce il merito di ogni subalterno, se non i subalterni stessi, e però sono i più atti ad eleggere i capitani? Né questi errano se debbono scegliere il comandante di un corpo. Né un congresso di ufficiali, così promossi, s’ingannerebbe sulla scelta dei generali. Né questi nel creare il capo supremo» (Saggi storici-politici-militari sull’Italia, Milano-Roma 1957, vol. IV, p. 142).

Ma non bisogna ingannarsi. Per Pisacane la guerra per bande, sollecitata anche da Mazzini, era il primo passo verso un’organizzazione insurrezionale organizzata. Egli scriveva, appunto contro Mazzini: «Una banda potrà battere la campagna con lo scopo di sollevare il paese; ma se non riesce in otto giorni, è meglio che si sciolga; essa sarà più dannosa che utile [...]. Un tale metodo di combattere non solo è inefficace, ma genera culti individuali, perniciosi e vergognosi per un popolo libero» (Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-1849, op. cit., p. 313).

Sono le prime grosse preoccupazioni in merito al passaggio dal banditismo sociale al movimento rivoluzionario organizzato. Ma a questo problema dedicheremo, più avanti, maggiore attenzione.

Occorre notare, infine, che l’attacco insurrezionale fino agli ultimi mesi del 1856, era stato destinato verso la Sicilia. A ragione si riteneva che quasi tutti gli strati sociali nell’isola erano contro i Borboni. Inoltre, tra i contadini vi erano stati esempi di rivolta e di organizzazione di bande armate nel 1820 e nel 1848. Solo il fallimento del moto organizzato da Francesco Bentivegna a Corleone, indusse a dirigersi verso il Mezzogiorno d’Italia.

Non è possibile trattare qui di tutti questi tentativi minori che si cercano di mettere in moto. Oltre quello del barone Bentivegna che cercò disperatamente di raggiungere Palermo partendo dalle montagne di Corleone, bisogna ricordare il tentativo di Salvatore Spinuzza che partì da Cefalù e resistette diversi mesi sui monti prima di essere catturato e fucilato. Tutti questi moti sarebbero impensabili in una realtà contadina non abituata alla presenza di bande armate. La sfortuna di Pisacane fu di non essere riuscito a influenzare i contadini, prima della solita strumentalizzazione del clero e dei reazionari.

Il banditismo nel Mezzogiorno d’Italia dopo l’unità

Il banditismo sociale nelle terre dell’ex regno borbonico fu un fenomeno di vastissima portata e comportò tutte le caratteristiche principali che consentono di riassumere e valutare il problema del banditismo sociale. Fu insieme una ribellione contro l’autorità costituita e uno strumento per il tentativo di ripristinare un’autorità ancora più bieca e reazionaria di quella in carica, fu azione libertaria e venne guidato da sanfedisti reazionari della peggiore specie, si riallacciò a giusti sentimenti di rivendicazione di un minimo di benessere e accettò di servire gli interessi di coloro che, giunti al potere, avrebbero del tutto distrutto ogni sorta di benessere. Anche dal punto di vista militare fu di grande importanza in quanto fece vedere il limite tra azione di bande di guerriglia organizzata, quel limite che aveva chiaramente indicato Pisacane in contrasto con Mazzini, ma fece pure vedere le grandi difficoltà, per un esercito di linea, di sconfiggere un’azione affidata a numerose bande armate agenti nelle campagne. Infine, sviluppò tutte quelle caratteristiche mitiche che ritroviamo nel banditismo di ogni tempo e di ogni genere, di cui abbiamo parlato nelle pagine precedenti. Per tutti questi motivi è bene esaminarlo più in profondo.

Il banditismo sociale nelle campagne del Meridione non era un fatto nuovo, determinato da elementi sociali ed economici messi in moto con l’Unità. Al contrario poteva definirsi come una componente endemica di quella società, eternamente afflitta da una spaventevole forma di sfruttamento. La rivolta, che nel banditismo sociale si riassume, era la rivolta del diseredato, del contadino povero, del bracciante affamato che non riesce a lavorare che pochi giorni al mese e che deve sfamare famiglie ricche di figli e di debiti. Come nella fase post-unitaria, anche in precedenza rivolte banditesche erano state sfruttate a scopi reazionari, sebbene, altre volte, erano servite a dare spinta alle insurrezioni liberali.

Nel regno delle due Sicilie la formazione della carboneria, prima del 1820, avvenne non solo negli strati dei piccoli possidenti, dei professionisti, dei mercanti e degli artigiani, ma anche in quello dei contadini e, in alcune zone, anche riuscì a interessare gruppi di malviventi e di briganti. (Cfr. M. Manfredi, Luigi Minichini e la Carboneria a Nola, Firenze 1932; A. Lucarelli, Il brigantaggio politico del Mezzogiorno, 1815-1818: G. Vardarelli-C. Annicchiarico, Bari 1942).

A Palermo, nel corso dell’insurrezione del 1820, se le maestranze furono l’anima della rivolta, quest’ultima prese una piega molto più violenta e paurosa per i reazionari, dopo che vennero liberati dal carcere i detenuti “senza discriminazione alcuna”. Vi furono stragi e saccheggi che dettero un’impronta terribilmente “popolare” all’insurrezione, ben diversa dalla parallela insurrezione napoletana. (Cfr. A. Sansone, La Rivoluzione del 1820 in Sicilia, Palermo 1888; N. Cortese, La prima rivoluzione separatista siciliana, Napoli 1951).

Dopo l’ondata della reazione, quando la carboneria venne ufficialmente sciolta, si formarono gruppi segreti di cospiratori, in contatto con le bande dei disertori e dei banditi. In questo periodo il brigantaggio ebbe una notevole ripresa e non fu, chiaramente, filoborbonico. Una banda guidata dal capitano Giuseppe Venita fu scoperta nella Basilicata e sgominata, il Venita venne fucilato; altre condanne a morte si ebbero a Catanzaro, a Napoli, a Salerno e a Capua. A Siracusa si ebbe una condanna a morte, nove a Palermo. Nel 1828 l’insurrezione del Cilento, diretta dal canonico Antonio De Luca, ex deputato del 1820, venne collaborata validamente dalla banda dei fratelli Capozzoli. Gli insorti, che occuparono subito diversi villaggi vicino Nola, vennero sconfitti dalla gendarmeria del colonnello Del Carretto che si abbandonò ad una feroce repressione. Il comune di Bosco, origine dell’insurrezione, fu raso al suolo e gli abitanti trasferiti nei paesi vicini: si ebbero trentaquattro condanne a morte e diciotto all’ergastolo. I tre fratelli Capozzoli, che erano riusciti a riparare in Corsica, ritornarono nel Cilento l’anno successivo, caddero in un agguato e furono fucilati. (Cfr. M. Mazziotti, La rivolta del Cilento nel 1828, Roma-Milano 1906).

Una prova dell’unione tra mondo contadino e banditismo sociale nelle campagne è data, ulteriormente, dalla spedizione di Garibaldi in Sicilia. L’adesione dei contadini all’impresa garibaldina fu notevole agli inizi. Spesso erano piccoli possidenti e democratici che si mettevano alla testa dei contadini guidandoli all’attacco contro i presidi borbonici. Scrive Giorgio Candeloro: «Sebbene le rivolte contadine fossero guidate in molti comuni da elementi democratici di provenienza borghese, l’alleanza tra le masse contadine in movimento e le forze garibaldine si limitò solo alla prima fase della guerra antiborbonica, perché derivò da una transitoria concomitanza di due azioni verso uno stesso obiettivo: l’abbattimento del regime borbonico nell’isola. Ma, una volta ottenuto questo primo risultato, i contadini tendevano ad attaccare le classi dominanti locali per strappare loro il possesso e l’uso della terra e si disinteressavano degli obiettivi della guerra garibaldina, come la liberazione del Mezzogiorno continentale e l’unità d’Italia [...]. Verso la fine di giugno e nel corso del luglio la frattura tra governo garibaldino e movimento contadino si venne via via accentuando, non solo per la resistenza popolare alla coscrizione, ma anche perché le autorità governative e le forze armate garibaldine furono portate sempre più a schierarsi a favore dei ceti dominanti, aristocratici e borghesi, e a reprimere duramente le agitazioni contadine, anche quando esse rivendicavano l’applicazione della legge vigente sulla divisione dei demani» (Storia dell’Italia moderna, vol. IV, 1849-1860, Milano 1971, pp. 464-465).

Come abbiamo già visto, un esempio notevole di queste azioni repressive fu quello di Nino Bixio a Bronte, conclusasi il 4 agosto con fucilazioni e arresti. In questa insurrezione, che si propagò subitamente nei comuni vicini di Randazzo, Maletto, ecc., un ruolo determinante fu svolto dai gruppi dei “carbonai” che vivevano sulla montagna e che per l’occasione scesero a valle, gruppi che si rifiutarono di accettare l’ingresso delle truppe garibaldine a Bronte, fiutando il tradimento, per una tradizionale sfiducia nel potere, anche quando si veste dei panni del liberatore, tipica dei banditi. (D. Mack Smith, “L’insurrezione dei contadini siciliani del 1860”, tr. it., in “Quaderni del Meridione”, 1958, pp. 1-40).

È in questa prospettiva che deve considerarsi il brigantaggio post-unitario, evitando di pronunciare una condanna in blocco, coinvolgente tutta la classe contadina, in quanto quel fenomeno trovò alimento e sostegno proprio in questa classe di diseredati. Erano le speranze deluse che spingevano questa gente a rigettare gli ideali per i quali Garibaldi era venuto nel Meridione, ideali che sentivano vuoti e fatti di sole parole, ideali che vedevano con chiarezza come fossero funzionali alla sola classe dirigente che aveva saputo trarne profitto con poco danno. In ultima analisi le masse popolari avevano dato il più grosso contributo all’impresa e ne ricevevano repressione e sfruttamento. Di fatto continuavano a esistere i contadini senza terra o con piccolissimi pezzi che non potevano bastare a sfamare una famiglia, continuavano i braccianti con condizioni di lavoro spaventose, erano aumentati i disoccupati, i raccolti scarseggiavano. Il problema demaniale, vecchio almeno dall’epoca napoleonica, non era stato risolto a causa delle pressioni e delle usurpazioni dei nobili e dei borghesi. Il governo cercò di procedere con la quotizzazione ma fu troppo lento e questa fu una delle cause principali del malcontento. In seguito, quando si intensificarono le operazioni di ripartizione e, in qualche modo, si pose riparo alle usurpazioni, il brigantaggio (anche per altri motivi) andò declinando. Un altro elemento, alimentatore del banditismo, fu lo scioglimento dell’esercito borbonico, forte di centomila uomini. La maggior parte dei soldati tornò a causa, per non trovarvi che miseria e fame, solo gli alti ufficiali restarono fedeli ai Borboni, gli ufficiali medi e i sottoufficiali di carriera vennero reintegrati nel nuovo esercito col rispetto dell’anzianità. Quelli che vennero a trovarsi in una situazione terribile furono i soldati e i piccoli graduati.

Il famoso Crocco (Carmine Donatelli) era un ex soldato borbonico che nel 1860 si era unito alla rivoluzione garibaldina per poi passare come capo guerrigliero dei briganti borbonici. Fatto prigioniero venne consegnato dallo Stato della Chiesa al governo italiano che lo condannò all’ergastolo. Ninco Nanco (Giuseppe Nicola Summa), suo luogotenente, aveva più o meno la stessa carriera. Venne ucciso nel 1864.

Furono i borbonici a cercare di dare al brigantaggio meridionale post-unitario la caratteristica della guerriglia con intenzioni politiche. Non potendo entrare nel territorio liberato con grossi contingenti armati, vi penetravano in piccoli gruppi per assicurare il vettovagliamento delle bande di briganti. Quest’ultime vedevano di buon occhio la situazione in quanto avevano un appoggio considerevole e insperato dall’esterno e potevano dedicarsi all’attività tradizionale del banditismo senza la paura di restare privi di armi e di viveri ed essere costretti a procurarseli in azioni disperate. A loro l’ideologia politica era del tutto estranea, combattevano in prima persona e contro ogni tipo di autorità. Se poi l’obiettiva miopia politica li rese facilmente strumenti della reazione non possiamo ascriverlo a loro colpa, in forza degli stessi elementi che abbiamo prima elencato.

Su 328 briganti condannati dalla Corte di Appello di Catanzaro nell’anno 1863: 201 erano braccianti, 51 contadini, 4 massari e 24 artigiani. Spesso si riscontra l’indicazione della professione: pastori, mandriani, ex militari, braccianti senza terra, giornalieri, guardie campestri.

Da un punto di vista strettamente militare, l’errore più grosso fu dei borbonici che non compresero la possibilità d’impiantare un’organizzazione di guerriglia su vasta scala, ma insistettero per considerare le bande come un mezzo per consentire l’ingresso di un grosso esercito di linea. Da canto suo il generale Enrico Cialdini, comandante in capo delle forze unitarie, sostituto dell’inutile generale Giacomo Durando, seppe fronteggiare con astuzia il pericolo di un’organizzazione guerrigliera su vasta portata, frazionando l’attività delle bande e riducendole, a poco a poco, all’inazione. Sarebbe un errore pensare che l’ideologia unitaria e liberale poteva convincere i contadini a non schierarsi in una guerra di massa contro il governo unitario, al contrario, alcune esperienze, come quella della coscrizione in Sicilia, li avevano messi davanti all’evidenza che i padroni sono tutti uguali e che la soluzione è schierarsi dalla parte dove sta il male minore. In questo senso, il banditismo sociale del Meridione post-unitario, venne sconfitto perché si incominciò celermente a risolvere il problema delle quotizzazioni e perché si cercò anche di alleviare il problema degli ex militari, ma pure fu sconfitto perché non riuscì a sboccare in una guerriglia di massa a causa dell’inettitudine borbonica e dell’intelligente condotta di Cialdini.

Il tentativo più importante, nel senso della trasformazione in guerriglia di massa, fu fatto quando venne sbarcato sulle coste calabresi il generale carlista spagnolo José Borjes, per altro arrivato con forze insufficienti. Ma i capi briganti non accettarono di essere guidati da uno straniero, come avevano sempre emarginato i reazionari belgi, spagnoli e francesi che si trovavano dall’inizio dei combattimenti fra le loro fila. Crocco e compagni non accettarono le azioni proposte, come l’occupazione di paesi e un attacco contro Potenza, azioni non congeniali al loro modo di concepire la guerriglia, e lasciarono quasi solo il comandante spagnolo che nel tentativo di rientrare in territorio pontificio venne fatto prigioniero ed immediatamente fucilato.

Da quel momento il brigantaggio vide venire meno anche l’aiuto sistematico che riceveva dai Borboni e, a poco a poco, come abbiamo detto anche per il concorso di vari altri elementi, si andò affievolendo. La guerriglia dei contadini poveri contro gli sfruttatori nuovi e vecchi era finita.

Lo Stato nominò una commissione d’inchiesta diretta da Giuseppe Massari che visitò il territorio e interrogò moltissime persone. I risultati dell’inchiesta vennero però pubblicati soltanto parzialmente e si cercò di mettere in luce esclusivamente l’attività degli agenti borbonici provocatori e non le condizioni sociali ed economiche che avevano determinato il fenomeno. Di conseguenza si optò subito per l’applicazione dello stato d’assedio e per la votazione di una particolare legge che sospendeva le garanzie dello Statuto. Tutte le province continentali dell’ex regno di Napoli caddero sotto queste leggi eccezionali, escluso Napoli, Teramo e Reggio Calabria. Il generale Emilio Pallavicini, che diresse la repressione, applicò una tattica mobilissima, impiegando i bersaglieri, che ben si adattò alle specifiche condizioni della guerriglia.

Forme di guerriglia nella seconda metà del XIX secolo. La banda del Matese

Come abbiamo visto la tecnica della guerriglia si andò sviluppando durante tutta la prima metà del XIX secolo, arrivando allo scontro con le bande del Mezzogiorno d’Italia ad un alto grado di perfezione. Le operazioni di Cialdini e, più ancora, quelle decisive di Pallavicini tengono conto di questi risultati. Ma non mancarono, in quell’epoca, ulteriori occasioni di verificare, nella realtà, le teorie della guerriglia. Un attacco dei Prussiani contro l’isola Fehmarn, nel corso della guerra contro i Danesi, venne realizzato secondo le dottrine di Albert von Boguslawski e dello stesso Radetzky. (Cfr. Der kleine Krieg und seine Bedeutung for die Gegenwart, Posen 1881, si tratta di due conferenze tenute alla Scuola militare). Imprese di pari importanza compirono i volontari norvegesi impegnati a Sundewitt, ad Assndrup e negli scontri di Lundby e Sönder-Tranders.

Nel 1866 gli Austriaci prepararono dei piani precisi per sollevare la popolazione della Boemia, della Moravia e della Slesia alle spalle dei Prussiani. Nacquero così diverse bande armate che assalirono i piccoli gruppi dell’esercito incaricati delle requisizioni, i corrieri, i portaordini, i singoli ufficiali, sorsero qua e là gruppi di specialisti che s’incaricarono di distruggere gli impianti telegrafici, i ponti e altri mezzi di comunicazione. Non è possibile sapere in che modo la presenza di questi gruppi di guerriglieri organizzati influì nella firma dell’armistizio, comunque si può essere sicuri che ne accelerò i termini.

Riguardo alle operazioni di guerriglia nel 1870-1871, scrive K. F. von Ditfurth, riferendosi all’organizzazione clandestina della popolazione francese contro i Tedeschi: «Questi dovevano ora esplorare con somma cautela intorno a sé da ogni parte, senza mai sentirsi sicuri neppure quando nessun pericolo visibile li minacciava; ora si aveva a che fare con un nemico di cui si doveva sospettare l’occulta presenza ovunque e in ogni momento, ma compariva improvvisamente solo dove e quando nessuno se lo aspettava: si sottraeva abilmente a ogni incontro decisivo e si disperdeva nel folto dei boschi o scompariva dietro le mura delle sue fortezze, quando si sentiva inseguito. Erano fatti assolutamente imprevisti, contro cui non valevano né le esperienze di guerra né l’addestramento fatto in tempo di pace. Inoltre per natura il soldato tedesco è poco portato alla diffidenza e all’attenta cautela; è al contrario fiducioso, cordiale, comunicativo, fa lega facilmente con quelli che lo circondano: qualità senz’altro simpatiche, ma che costituiscono un serio pericolo di fronte a una popolazione la quale, se non proprio completamente ostile e bellicosa, è tuttavia brulicante di elementi fanatizzati» (“Betrachtungen Über den kleinen Krieg, 1870-1871” in “Beiheft zur Militär-Wochenblatt”, ns. tr., 1898, p. 457).

Nell’occupazione della Bosnia e dell’Erzegovina (1878-1882) gli austro-ungarici si trovarono davanti ad una resistenza popolare organizzata per bande che, come ha affermato Hahlweg, preludia alla resistenza diffusasi nella seconda guerra mondiale. Scrive il colonnello ungherese Fülek von Wittinghausen-Szatmárvár: «Compariva qui la guerriglia nella sua forma più chiara, la quale, contrariamente alla guerra campale, non cimenta le sue forze in campo aperto, bensì in una ininterotta azione di molestia del nemico, di imboscate e attacchi di sorpresa, nello sparire con la velocità del lampo e ricomparire all’improvviso. E le operazioni dovettero essere condotte in pieno inverno, fra tutte le difficoltà di un clima eccezionalmente inclemente» (citato in W. Hahlweg, Storia della guerriglia, op. cit. p. 85).

Nel 1867, il tenente colonnello dell’artiglieria svizzera Franz von Erlach scriveva un libro dal titolo Die Freiheitskriege kleiner Vellker gegen grosse Heere, dove si diceva tra l’altro: «Le lotte di libertà dei piccoli popoli sono fra gli avvenimenti più nobili ed entusiasmanti della storia dell’umanità. In esse l’abnegazione del singolo combattente capace di sacrificarsi fino alla morte per il bene spirituale dei suoi appare veramente una delle cose più sante e benedette che l’umanità possa offrire» (cfr. Ib., p. 85). Ma, a prescindere dalla tirata retorica, il tecnico svizzero vedeva nell’esperienza polacca un classico esempio di guerriglia. Un’altra analisi profonda delle tecniche attuate nel corso delle lotte polacche è quella di Ludwig von Mieroslawski.

Un altro lavoro, invece, che si basa sulle esperienze guerrigliere nell’Algeria dopo il 1830, è quello del prussiano Carl von Decker (Algerien und die dortige Kriegführung, Berlin 1844). Vi si tratta dei particolari della guerriglia in funzione della geografia e del carattere delle popolazioni locali. «Un esercito europeo, con tutti i suoi bagagli, le sue abitudini effeminate, le sue debolezze e le sue esigenze di lusso, contro le bande africane insensibili alle fatiche della guerra, e che infine non dipendono da nessun commissariato e da nessuno stato maggiore, ma che spuntano per così dire dall’aria. [...]. Il nemico non è legato alle grandi vie di comunicazione, perché non esistono: il più dirupato sentiero può servirgli come linea operativa, quando ne ha voglia. Non è possibile minacciare i suoi depositi di vettovaglie, perché egli tiene i suoi viveri sepolti nella terra, o se li porta in sella. Infatti, il paese non possiede un cosiddetto “centro di forza”, né una capitale, la cui caduta potrebbe far cessare la resistenza. In una parola: in questo paese non vi è nulla di fermo, tutto è mobile! tutto è in movimento!» (cfr. Ib., p. 92).

Sono le prime esperienze con i popoli africani che arrivano all’onore delle cronache e dei libri teorici europei. Alla fine del secolo il colonnello inglese C. E. Callwell scrive un libro sulla guerriglia, ristampato ancora nel 1914, dove parla dell’esperienza delle lotte contro i Maori e i Cafri: «... benché il nemico mostrasse scarso coraggio e fosse malamente armato, era stato difficilissimo sottometterlo, poiché sapeva sfruttare con grande vantaggio il terreno in regioni coperte di boscaglie e paludi. Per le truppe regolari, la lotta contro tali nemici è estremamente faticosa e molesta: essi evitano gli scontri decisivi e la loro tattica porta necessariamente a una lunga e snervante guerra di posizione» (cfr. Ib., p. 99).

Frattanto in Italia si erano avute, dopo l’unificazione, continue rivolte specie nel Meridione e in Sicilia. A parte il problema del brigantaggio, specie in Sicilia esisteva il problema della renitenza alla leva, visto che i Siciliani non avevano mai avuta la coscrizione obbligatoria. Questo, ed altri motivi, determinarono la rivolta di Palermo, che si prolungò nel settembre 1866 per più di una settimana e che finì nel sangue. Alla rivolta parteciparono le bande armate delle montagne per un totale di più di 3.000 uomini. (Cfr. P. Alatri, La lotta politica in Sicilia sotto il governo della Destra: 1866-1874, Torino 1954).

Giustamente Bakunin scriveva: «In relazione alla Rivoluzione sociale, si può dire che le campagne d’Italia sono anche più avanzate delle città. Rimaste al di fuori di tutti i moti e di tutti gli sviluppi storici, di cui sinora hanno soltanto pagato le spese, le campagne italiane non hanno né tendenze politiche né patriottismo [...]. Ma destate appena l’istinto profondamente socialista che sonnecchia nel cuore d’ogni contadino italiano; rinnovate in tutta Italia, ma con un fine rivoluzionario, la propaganda che il cardinale Ruffo aveva fatta in Calabria, alla fine del secolo scorso; gettate soltanto questo grido: “La terra è di chi la lavora con le proprie braccia!” e vedrete se tutti i contadini italiani non si muoveranno per fare la Rivoluzione sociale, e se i preti vogliono opporsi, uccideranno i preti. Il movimento del tutto spontaneo dei contadini italiani nello scorso anno, movimento provocato dalla legge che ha colpito con una imposta la macinatura del grano, ha dato la misura del naturale socialismo rivoluzionario dei contadini italiani. Questi hanno battuto dei distaccamenti di truppe regolari, e, quando venivano in massa nelle città, cominciavano sempre col bruciare tutta la cartaccia ufficiale, che capitava tra le loro mani» (citato in M. Nettlau, Bakunin e l’Internazionale in Italia dal 1864 al 1872, tr. it., Ginevra 1928, p. 185).

E, sullo stesso tono, Andrea Costa, rifacendosi alla Comune di Parigi: «Attorno alla bandiera rossa della Comune le masse popolari si battevano sulle barricate, tutti i reazionari d’Europa, tutti i preti, tutte le spie trattavano i comunardi come briganti. [...]. Questo bastava perché essi avessero le simpatie dei rivoluzionari italiani più ansiosi, degli studenti materialisti, di una grande massa di repubblicani sinceri [...]. Furono questi vecchi soldati, furono questi giovani, che gettarono le basi dei primi fasci operai e delle prime sezioni dell’internazionale in Romagna, Toscana, Marche, Umbria e province meridionali» (“L’Egalité” del 18 marzo 1880. Citato in P.C. Masini, Storia degli anarchici italiani da Bakunin a Malatesta, Milano 1969, p. 46).

Il moto insurrezionale che venne poi chiamato la “banda del Matese” si svolse nell’aprile del 1877 e venne guidato da Cafiero, Malatesta e Ceccarelli. Il simbolo è la bandiera rosso-nera dell’anarchia e della rivoluzione sociale. È l’Internazionale italiana che propugna l’insurrezione. I contadini sono entusiasti in quanto fanno un facile raffronto tra la “rivoluzione italiana” di qualche anno prima che aveva portato più tasse e la coscrizione, e questa “socialista” che brucia i registri delle tasse e i titoli della proprietà. Tutti vengono facilmente catturati dalla polizia, da lungo tempo in stato di allerta, per una delazione. Si scatena la repressione. Il ministro Nicotera, traditore del suo passato rivoluzionario, definisce gli anarchici: “gente perduta, che nulla ha da perdere”. (Cfr. Ib., p. 127).

Questo breve moto, senza conseguenze visibili, fu molto importante per diversi motivi. Innanzi tutto il progetto insurrezionale venne diretto verso la campagna e non verso la città. In questo senso Pietro Cesare Ceccareli scriveva in una lettera a Amilcare Cipriani: «Contro i contadini, o anche solamente senza i contadini, è possibile un cambiamento politico, ma non la rivoluzione sociale, massime in un paese come l’Italia, in cui l’elemento rurale è in grande maggioranza, ed in cui non esistono ancora che allo stato d’eccezione la grande industria e le grandi agglomerazioni operaie. Il tempo delle Jacqueries non è finito; invece è ora che cominci il tempo della grande Jacquerie dell’epoca moderna. Jacquerie che questa volta sarà feconda di risultati perché il socialismo è venuto a dare coscienza e lumi a questi grandi scoppi dell’ira popolare» (Citato da F. Della Peruta, Il socialismo italiano dal 1875 al 1882, Milano 1958, p. 51).

Scrive Masini: «Bakunin aveva messo in guardia i suoi amici italiani, in ripetute occasioni contro l’errore di trascurare l’apporto determinante delle masse contadine, soprattutto meridionali, alla auspicata rivoluzione sociale. C’era poi nella recente storia del Mezzogiorno il lungo e sanguinoso episodio del brigantaggio a segnalare quale profonda frattura esistesse ancora fra le plebi delle campagne meridionali e il nuovo Stato unitario. Perché se al fenomeno del brigantaggio non erano state estranee le mene reazionarie dei sovrani spodestati, i propositi di restaurazione dei gruppi sconfitti e una fiammata di sanfedismo retrivo, tutti questi elementi si erano innestati su una obiettiva condizione di miseria e di servitù che l’Unificazione, anziché alleviare, aveva appesantito di nuovi gravami dalla tassa sul macinato alla leva militare, dalla meccanica estensione di inadeguati ordinamenti amministrativi alla calata dal Nord di grossi sciami di funzionari, talvolta voraci e spietati» (Storia degli anarchici italiani da Bakunin a Malatesta, op. cit., p. 110).

Lo stesso Andrea Costa dava una interpretazione in senso rivoluzionario del brigantaggio sociale del Meridione in una relazione al Congresso internazionale di Verviers. (Cfr. “L’Anarchia” pubblicato a Napoli, 6 ottobre 1877).

Il motivo stesso per cui gli internazionalisti vennero facilmente accerchiati e arrestati, fu che preferirono restare quanto più possibile in campagna, anziché fortificarsi in un solo paese, poniamo a San Lupo, dove avevano avuto accoglienze particolarmente favorevoli.

Scrive Pietro Cesare Ceccarelli: «Fortificarci in un paesello sarebbe stato mancare allo scopo che ci proponevamo. Noi dovevamo anzitutto restare in campagna il più a lungo possibile per dar tempo ai contadini di comprendere il nostro moto e di seguirlo: fermarci in un comune sarebbe stato condannarci ad essere disfatti dopo qualche giorno alla più bella» (Citato in P.C. Masini, Storia degli anarchici italiani da Bakunin a Malatesta, op. cit., p. 116).

Il movimento machnovista (1917-1921)

Con la pace separata di Brest-Litovsk i bolscevichi aprivano agli eserciti austriaci le porte dell’Ucraina, il granaio russo. Questi entrarono da padroni e cercarono di utilizzare la regione come centrale di rifornimento per il fronte. Ma, per fare ciò, dovettero ripristinare l’autorità dei possidenti, abbattuta dalla rivoluzione, e sostenere una specie di potere militare-poliziesco ucraino, quello del generale Skoropádski. Scrive Pëtr Archinov: «L’occupazione dell’Ucraina da parte degli Austro-Tedeschi è una pagina dolorosa nella storia della sua rivoluzione. Oltre che dall’aperto saccheggio dei militari e dalla violenza degli occupanti, essa fu contraddistinta dalla più nera reazione dei possidenti» (La rivoluzione anarchica in Ucraina. Storia del movimento machnovista (1917-1921), tr. it., Milano 1972, p. 38).

Ciò determinò una situazione di insofferenza che sboccò nel movimento insurrezionale. «Il metodo insurrezionale pose i contadini nella situazione di dover curare da sé il movimento, di doverlo guidare da soli e da soli condurlo alla vittoria [...]. Ciò ebbe una influenza grandissima sul carattere di tutto il movimento rivoluzionario. Il suo tratto più caratteristico, là dove esso rimase sino all’ultimo movimento di classe e non cadde sotto l’influenza di elementi partitici o nazionalistici, non fu soltanto il fatto di uscire dal cuore della massa contadina, ma anche la coscienza comune a tutti i contadini di essere essi stessi i dirigenti del loro movimento. Di ciò erano convinte le brigate partigiane e se ne gloriavano, sentendo in sé la forza della loro grande missione» (Ib., p. 39).

Siamo di fronte a un’organizzazione di guerriglia e di resistenza che presenta il più grande interesse in quanto accomuna le caratteristiche del metodo autogestionario, tipico degli anarchici, con quelle dell’organizzazione guerrigliera, già sperimentata in precedenza. L’organizzazione partigiana avvenne in maniera rapida e decisa. I principali compiti da risolvere erano: a) fare un lavoro propagandistico e organizzativo tra i contadini, b) condurre una lotta spietata contro i loro nemici. Le conclusioni furono assai elementari: ogni proprietario che avesse perseguitato i contadini, ogni militare appartenente alla guardia nazionale, ogni ufficiale russo o tedesco, in quanto nemici irriducibili dei contadini, doveva essere ucciso. «Veloci come il vento, senza paura e senza compassione, i partigiani piombavano sulla dimora di un proprietario, accoppavano tutti i nemici dei contadini che gli erano stati segnalati, quindi scomparivano rapidamente. Il giorno seguente facevano un’incursione in un grande villaggio a più di cento verste da quel luogo, uccidevano i militi della guardia nazionale, gli ufficiali, i proprietari e scomparivano senza dare tempo alle forze tedesche, vicinissime, di comprendere quello che era avvenuto e di orientarsi. Il giorno dopo, a una distanza di più di cento verste da quel villaggio, facevano i conti con un distaccamento di cavalleria magiara che aveva punito i contadini oppure impiccavano i militi della guardia nazionale» (Ib., p. 52).

«Makhno, con un gruppo di partigiani, tutti travestiti da militi della guardia nazionale, si cacciava proprio tra le braccia del nemico, si informava dei suoi piani e degli ordini ricevuti, partiva con una brigata nemica alla caccia di se stesso e durante il cammino eliminava tutti gli avversari. Nei rapporti con le truppe austro-tedesche e ungheresi, era regola comune ai partigiani uccidere gli ufficiali, ma lasciare andare i soldati caduti prigionieri, proponendo loro di tornare in patria a raccontare come agivano i contadini ucraini e a lavorare per la rivoluzione sociale. A questo scopo li fornivano di pubblicazioni e talvolta anche di denaro. Punivano con la morte soltanto i soldati colpevoli di violenza contro i contadini. Questa condotta verso i soldati prigionieri austro-tedeschi e ungheresi ebbe una grande influenza rivoluzionaria» (Ib., p. 53).

Ma quando, dopo la resa degli Austriaci e l’inversione del rapporto di forza con i nazionalisti ucraini e con i bolscevichi, il movimento machnovista, dalla fase distruttiva, passò a quella costruttiva, le preoccupazioni del governo centrale comunista non ebbero più limiti. Infatti le linee principali del movimento erano: «Profonda sfiducia con partiti politici, profonda sfiducia nei gruppi sociali dei non lavoratori e dei privilegiati, rifiuto della dittatura sul popolo da parte di qualsiasi organizzazione, rifiuto del principio di organizzazione statale, completo autogoverno locale dei lavoratori. Concreto fondamentale modo di questo autogoverno devono essere i liberi consigli delle organizzazioni dei lavoratori contadini e operai» (Ib., pp. 81-82).

Contro queste prospettive la reazione armata si profilava all’orizzonte sotto un duplice, contrastante aspetto. Da nord avanzava l’esercito statale dei comunisti bolscevichi, da sud-est l’esercito del generale Denikin, il condottiero della controrivoluzione bianca.

Le speranze di Denikin di approfittare dell’imbrogliata situazione dell’Ucraina e di penetrarvi con facilità furono deluse dalla resistenza dell’esercito machnovista. «Le truppe di Denikin, imitarono i machnovisti, ricorsero alla tattica partigiana: reparti a cavallo irrompevano nel profondo delle retrovie, portavano distruzione, incendi, morte in un villaggio, scomparivano e di nuovo improvvisi erano in un altro luogo a portarvi le stesse rovine. Di queste incursioni soffriva esclusivamente la popolazione stabile dei lavoratori. Si vendicavano così dell’aiuto che dava all’esercito degli insorti e della sua avversione alle truppe di Denikin, cercando di provocarla a reagire alla rivoluzione» (Ib., p. 95).

Quando arrivarono i bolscevichi la lotta contro Denikin durava da tre mesi e i bianchi erano già stati scacciati quasi totalmente dalla regione. I comunisti autoritari sconoscevano quasi tutto del movimento machnovista, ammiravano soltanto le realizzazioni della lotta condotta in Ucraina. Qui si profilarono chiaramente alcune debolezze, elencate con acume da Volin (La rivoluzione sconosciuta, tr. it., Napoli 1950, p. 397), tra le quali “una certa bonarietà, non abbastanza diffidente, nei riguardi dei comunisti”.

Infatti, malgrado gli accordi, quando i bolscevichi si resero conto di come stavano veramente le cose sguarnirono il fronte nord-orientale, consentendo alle truppe di Denikin di penetrare alle spalle dei machnovisti e cessarono il rifornimento delle armi, che pure si erano impegnati a mantenere. I risultati furono che spesso i guerriglieri del movimento anarchico si videro costretti ad attaccare gli uomini di Denikin al solo scopo di strappare loro le armi. Dopo, quando si profilò l’altra offensiva quella di Wrangel, si fissarono degli accordi precisi con i bolscevichi, ma nessuno dei machnovisti si fece delle illusioni. Scrive Volin: «Dopo quanto era avvenuto, nessuno fra i makhnovisti si faceva illusioni sulla lealtà rivoluzionaria dei bolscevichi. Si sapeva che solo il pericolo dell’offensiva di Wrangel li aveva costretti a trattare con Makhno; e si aveva la certezza che, una volta questo pericolo scongiurato, il governo bolscevico non tarderebbe a intraprendere una nuova campagna contro la Makhnovtchina sotto un qualsiasi pretesto. Tuttavia, si sperava che la buona intesa si sarebbe mantenuta per tre o quattro mesi, e si sperava di approfittare di questo tempo per condurre una energica propaganda in favore del movimento makhnovista e delle idee libertarie. Ma anche quest’ultima speranza fu delusa» (Ib., p. 511).

Abbiamo delineato i motivi di fondo del contrasto tra bolscevichi e anarchici in Ucraina per fare comprendere come, nella valutazione del governo bolscevico, si ricorse, quando la polemica divampò, anche all’accusa di banditismo. Cadevano tutte le valutazioni rivoluzionarie, il movimento machnovista, davanti alla volontà di non inchinarsi alle diretttive autoritarie dei bolscevichi, diventava “un pugno di banditi”. Lo scontro fatale avvenne in condizioni di forze che sarebbe poco definire impari. Contro tremila militanti anarchici si lanciò un esercito di 150.000 uomini. Eppure non ci si arrese e Machno riuscì anche a fare circa 20.000 prigionieri, secondo la valutazione di Archinov. Il senso del nervosismo dei bolscevichi è chiaro nella seguente lettera di Lenin: «Compagno Slianski! Accludo ancora un avvertimento. Il nostro comando militare ha subito uno scacco vergognoso lasciandosi sfuggire Makhno (malgrado l’enorme preponderanza delle nostre forze e l’ordine categorico di catturarlo), e adesso sta subendo uno scacco ancora più vergognoso con la incapacità di schiacciare un pugno di banditi. Fate fare per me un breve rapporto del Comandante in capo (con uno schema sommario della dislocazione delle bande e delle truppe) su quello che si sta facendo. Come viene utilizzata la cavalleria, sulla quale si può fare pieno affidamento? – I treni blindati? Sono dislocati razionalmente? o corrono su e giù inutilmente, a caccia di grano? Le autoblindate? Gli aeroplani? Come e in qual misura vengono impiegati? Il grano, la legna, tutto va in malora a causa delle bande, mentre abbiamo un esercito di milioni di uomini. Bisogna mettersi d’impegno per far filare dritto il Comandante in capo» (Lettera al Consiglio Militare Rivoluzionario della Repubblica, in data 6 novembre 1921, in Opere Complete, Carteggio febbraio 1912 - dicembre 1922, vol. XXXV, tr. it., Roma 1955).

È Volin che cerca di affrontare il problema: «Abbiamo parlato degli sforzi fatti dai bolscevichi per rappresentare il movimento makhnovista come una manifestazione di banditismo, e Makhno stesso come un bandito di alto bordo [...]. Il movimento makhnovista [...] in quanto vero movimento – concreto, pieno di vita e non di scartoffie, né di meraviglie di “capi geniali” e di super-uomini – esso non ebbe il tempo, né la possibilità, e nemmeno il bisogno, di concertare, di fissare “per la posterità” le sue idee, i suoi documenti, i suoi atti. Lascia poche tracce tangibili. I suoi titoli di merito non furono in nessun modo raccolti [...]. Non è facile penetrare la sua profonda sostanza [...]. Durante le lotte intestine in Ucraina, – lotte confuse caotiche e che disorganizzarono completamente la vita del paese – vi pullulavano, approfittando del caos che ne conseguiva, formazioni armate, guidate da avventurieri, da veri “banditi”, e composte da elementi torbidi e di spostati. Queste formazioni non disdegnavano di ricorrere a una specie di “camuffamento”; i loro “partigiani” si ornavano sovente di un nastro nero e, in certe circostanze, non esitavano a dichiararsi “makhnovisti”. Ciò creò, naturalmente, incresciose confusioni. È chiaro, che queste formazioni non avevano nulla di comune col movimento makhnovista. È chiaro, anche, che i makhnovisti stessi lottarono contro queste bande, pervenendo a disperderle. È chiaro, infine, che i bolscevichi, conoscendo perfettamente la differenza fra il movimento insurrezionale e le bande armate senza fede né morale, si servissero di questa confusione e, da “uomini di Stato esperti”, la sfruttassero nel loro interesse» (Volin, La rivoluzione sconosciuta, op. cit., pp. 547-549. Su tutta la problematica del movimento machnovista esistono diversi lavori. Le memorie di Nestor Machno sono state pubblicate in russo in 3 volumi. In italiano esiste la traduzione del I volume [Marzo 1917-Aprile 1918] col titolo: La Rivoluzione russa in Ucraina, Ragusa 1971. Sappiamo che il dattiloscritto con la traduzione francese delle altre due parti è pronto ma che non trova editore in Francia, per diversi motivi che sarebbe fuori luogo elencare [nota redatta nel 1975]).

La Rivoluzione messicana (1910-1920)

È stato George Woodcock a paragonare Zapata a Makhno. Non sappiamo cosa dire del paragone, riportato da Irving Horowitz (The anarchist, New York 1964, pp. 483-484), malgrado la notevole incapacità di Woodcock di comprendere i problemi dell’anarchismo, dobbiamo dire che il paragone potrebbe reggere. Zapata è un guerrigliero ed è anche un contadino, i suoi compagni sono contadini e il suo piano politico è sempre lo stesso, “Terra e Libertà”. È la situazione oggettiva che è profondamente diversa e che rende inutile il paragone.

Come ha dimostrato Pietro Ferrua (“Ricardo Flores Magón e la rivoluzione messicana”, in “Anarchismo” n. 1, 1975, pp. 25-37) il redattore del Plan de Ayala, da cui è tratto il programma contadino di Zapata, fu Antonio Diaz Soto y Gama, anarchico durante la sua gioventù e amico di Magón. In questo modo resterebbe provato, a parte la valutazione diretta delle operazioni di guerriglia di Zapata, la sua qualificazione politica e la visione sociale del suo banditismo.

Malgrado le critiche degli anarchici francesi, i rapporti tra Zapata e Magón sono provati in tanti modi. (Cfr. la bibliografia in margine al suddetto articolo di Ferrua). Zapata non soltanto voleva come Magón la libertà economica per i contadini, ma, fin quando gli fu possibile, espropriò le terre, le distribuì e le coltivò. In un manifesto dell’agosto 1914 redatto a Milpa Alta dichiarava: «... questa faccenda della libertà di stampa per coloro che non sanno scrivere, della libertà di votare per coloro che non conoscono i candidati, dell’equa amministrazione della giustizia per coloro che non ricorsero mai ad un avvocato, tutte queste bellezze democratiche, tutte queste grandi parole con cui si dilettarono i nostri nonni e i nostri padri, hanno già perso il loro aspetto magico e il loro significato per il popolo. Il popolo ha constatato che con o senza elezioni, con la dittatura porfirista o con la democrazia maderista, con la stampa imbavagliata o con la libertà di stampa, sempre e in ogni modo, esso continua a ruminare le sue amarezze, divorando le sue interminabili umiliazioni, e perciò teme, e ha ragioni da vendere, che i liberatori di oggi diventino uguali ai caudillos di ieri» (Ib., p. 34).

I guerriglieri di Zapata procedevano dal Sud attaccando le roccaforti degli agrari messicani, le haciendas, bruciandole e distruggendole, uccidendone i proprietari. La collaborazione tra Zapata e Madero cessò quando quest’ultimo si rifiutò di distribuire le terre. Nel Settentrione e nella zona di Durando, Pancho Villa svolgeva lo stesso lavoro sebbene con una minore coscienza rivoluzionaria. La storiografia borghese ha disegnato con colori foschi le imprese di Villa e anche quelle di Zapata. Qualche altro, come Hobsbawm, se ne è uscito in modo affatto insufficiente.

Mariano Azuela, un medico che aveva militato con Villa, ci ha lasciato una specie di romanzo in cui la figura del militante contadino è travisata in forma tipicamente borghese. Egli considera le azioni di Villa come una semplice strumentalizzazione borghese, mentre i contadini lo seguono perché non sanno bene da quale parte devono combattere. (The Underdogs, tr. inglese, New York 1929). Un altro libro dello stesso genere è: M. L. Guzmán (vedere più avanti), The Eagle and the Serpent, tr. inglese, New York 1930). Da canto suo, Hobsbawm risolve semplicisticamente il problema del rapporto tra banditismo sociale e rivoluzione, nel caso in particolare: «Il grande Pancho Villa fu reclutato dagli uomini di Madero durante la rivoluzione messicana e divenne un formidabile generale delle armate rivoluzionarie. Di tutti i banditi professionisti del mondo occidentale, fu forse quello che ebbe la carriera rivoluzionaria più brillante. Quando gli emissari di Madero andarono da lui, si lasciò prontamente convincere. Madero era un uomo ricco e colto. Se stava dalla parte del popolo, dava prova di non essere un egoista e dunque la causa era pura. Un uomo del popolo come lui, un uomo d’onore che, data la sua posizione di brigante, si sentiva onorato da un invito del genere, come avrebbe potuto esitare a mettere uomini e armi a servizio della rivoluzione» (I banditi, op. cit., p. 99).

La tesi si rifà a quella di Guzmán (The Memoirs of Pancho Villa, Austin 1965). Il preteso reclutamento è un fatto almeno strano. Furono non solo Villa e Zapata ad avere contattati con Madero, ma anche lo stesso Magón, uomo indiscussamente molto più preparato dal punto di vista rivoluzionario dei due guerriglieri, e che non poteva, in nessun modo, essere “reclutato” da Madero. La sostanza delle cose fu che Magón, come d’altro canto la coppia guerrigliera, utilizzarono Madero per quello che poteva servire a favore della comune causa della liberazione, ma ebbero chiara l’idea dell’estrazione borghese e moderata del ricco liberale. «Madero rimane un ricco borghese che deve difendere i suoi interessi di classe e a cui non conviene che la progettata insurrezione si trasformi in una vera rivoluzione» (P. Ferrua, “Ricardo Flores Magón e la rivoluzione messicana”, op. cit., p. 32).

Da un punto di vista strategico la rivoluzione messicana non presenta un grande interesse, ponendosi sulla scia di quelle naturali esplosioni di violenza che rendevano furiosi i contadini e gli sfruttati dell’America latina. Ma, dal punto di vista del rapporto tra banditismo sociale e movimento rivoluzionario, si può dire che è ancora tutta da scoprire. Solo inquadrando le diverse fasi della rivoluzione in questa prospettiva si possono valutare esattamente. La lotta tra Villa, Zapata e Carranza, le diversioni di Villa in territorio statunitense, i suggerimenti diObregón a Carranza per attuare una veloce legislazione sociale, l’adesione tardiva degli intellettuali al movimento contadino di Zapata, ecc., sono tutti elementi di un grosso problema storico e teorico che resta ancora aperto.

La guerriglia e il banditismo sociale in rapporto alla seconda guerra mondiale. Evoluzione metodologica

I perfezionamenti tecnici della seconda guerra mondiale e lo sviluppo, a livello mondiale, del conflitto resero possibile un approfondimento metodologico del problema della guerriglia. Bisogna subito dire che questa volta non è possibile identificare una componente sufficientemente netta di banditismo sociale, in quanto, spesso, le bande di guerriglieri furono organizzate su sollecitazione, consiglio e dietro precise direttive di alcuni governi. In questo senso gli Inglesi avevano una grande esperienza per le lotte coloniali in India, Sud Africa, Arabia e la misero visibilmente a frutto. Altri elementi che bisogna tenere presenti sono gli forzi di liberazione nazionale, in ogni caso strumentalizzati dalla borghesia locale, e le componenti socialiste. Tutto ciò finì per avere una grande importanza sull’assetto postbellico, avendosi situazioni influenzate in modo decisivo dalla presenza o meno di un movimento di resistenza clandestino.

D’altro canto, se operarono all’interno delle linee d’azione alcune organizzazioni di guerriglia, bande che si potrebbero più specificatamente rapportare al brigantaggio sociale, non è facile stabilirlo. Una volta che l’evoluzione metodologica della “piccola guerra” raggiunse gli stessi stati maggiori degli eserciti in conflitto, si assistette ad una vera e propria “regolamentazione” della guerriglia, con centri operativi, ecc. Restava intatto l’aspetto esteriore, ma veniva a mancare l’elemento intrinseco che aveva caratterizzato questo stesso tipo di lotta in passato. Il rapporto con la popolazione permaneva, il sostegno tradizionale veniva quasi sempre assicurato, ma le condizioni del fenomeno si erano profondamente modificate. In alcune regioni, l’elemento banditesco, stimolato dalla situazione di crisi e di miseria che anche a causa della guerra si era venuta a creare, finiva per confondersi con l’azione militare di guerriglia e veniva quasi sempre assorbito dalle organizzazioni ufficiali.

Con questa nuova situazione si modificarono anche alcune “regole” del banditismo classico. Ecco un caso, molto significativo, citato da Hobsbawm: «... i Montenegrini ortodossi avevano da sempre l’abitudine di fare scorrerie ai danni dei loro vicini, gli albanesi cattolici e i bosniaci musulmani, o di subirle a loro volta. All’inizio degli anni Venti, una banda partì per un’incursione nei villaggi della Bosnia, come da tempo immemorabile si era soliti fare. Gli uomini scoprirono con orrore che stavano compiendo azioni mai commesse in passato e ritenute riprovevoli, come torturare, violentare, uccidere bambini. E non potevano trattenersi dal farle. Le norme che avevano regolato le loro vite una volta erano comprese chiaramente da tutti: i diritti e doveri, come le finalità, i limiti, i tempi e gli oggetti delle loro azioni erano fissati dalle consuetudini e dai precedenti. Quelle norme erano imperative non solo per queste ragioni, ma anche perché facevano parte di un sistema in cui alcuni elementi non erano troppo apertamente in conflitto con la realtà. Una parte del sistema però era crollata» (I banditi, op. cit., p. 61). Questa situazione tipica si andò incrudelendo durante tutta la seconda guerra mondiale e divenne ordinaria amministrazione nel corso di tutte le guerriglie che si svolsero a margine. I movimenti di guerriglia in Russia e in Jugoslavia presentano anche una più specifica militarizzazione, arrivando a configurarsi come dirette emanazioni di un’organizzazione guerrigliera centralizzata, dove non è più possibile individuare l’elemento spontaneo se non a livello strategico e di tecnica militare. A questa affermazione fa fede l’accurata preparazione ideologica e politica che veniva data ai componenti delle bande guerrigliere attraverso meccanismi all’uopo costituiti. Qui non si esprimono affermazioni di merito, si sottolinea soltanto che siamo davanti ad un fenomeno diverso da quello che era possibile studiare appena prima della guerra.

Il caso del Belgio è chiarissimo. Mentre la resistenza del 1914, quella dei franchi tiratori, era stata un fenomeno di massa che aveva coinvolto anche bande autonome; quella della fine del mese di maggio del 1940 è organizzata militarmente. Nelle Fiandre e nelle province vallone si formano i gruppi ad opera di militari. Agenti britannici paracadutati coordineranno tutta l’operazione. Infine i civili aderiranno al movimento, andando anche in Inghilterra per un periodo di addestramento. I belgi della resistenza sapevano quindi manovrare apparecchi radio, usare armi ed esplosivi, sapevano servirsi del paracadute e conoscevano i metodi della polizia nemica.

Gli scioperi olandesi e le manifestazioni organizzate da agenti alleati, si possono ricondurre allo stesso principio. Non si scelsero i sistemi belgi della guerriglia data l’alta densità della popolazione e la ristrettezza del territorio che rendeva improbabile un buon uso di questo metodo.

Le azioni dei partigiani greci vennero in gran parte organizzate da ufficiali inglesi e procurarono grossi fastidi ai Tedeschi, facilitate, come furono, dalle cattive condizioni delle vie di comunicazione nelle montagne. Anche in Albania si ebbe l’intervento e la collaborazione dell’organizzazione di guerriglia inglese.

Per l’Italia le condizioni furono diverse, gli alleati non si interessarono molto alla resistenza italiana che, peraltro, non si coordinò mai in forma unitaria, finendo per denunciare anche a livello organizzativo la presenza contrastante di forze veramente democratiche e di forze reazionarie il cui solo scopo era quello di prepararsi il terreno per il futuro dominio del paese.

Nei movimenti di guerriglia successivi alla seconda guerra mondiale si intensificò questo processo di centralizzazione e di politicizzazione. Per altro, le condizioni obiettive, economiche e sociali, che avevano consentito lo sviluppo del banditismo sociale, come fenomeno separato e autonomo dalle organizzazioni rivoluzionarie, andavano modificandosi. Con ciò si trasformava anche la distribuzione geografica del banditismo sociale, restringendosi in alcune zone (Sardegna, Cina, Colombia, ecc.) e subendo l’influsso metodologico proveniente dai movimenti di resistenza.

Emerge con chiarezza la sostanza sociale di questa separazione. In precedenza, nei periodi d’oro del banditismo sociale, quest’ultimo si delineava come un fenomeno a sé, determinato da causa precise, più o meno individuabili, che poteva, in certe situazioni, con certi limiti, essere “qualificato” politicamente in senso rivoluzionario o “strumentalizzato” in senso reazionario. Con lo sviluppo della guerriglia a livello mondiale come prodotto di tecnica avanzata gestito da centrali militari, e con la modificazione delle condizioni economiche e sociali, il banditismo finì per scomparire e quando persistette non fu più possibile distinguerlo con chiarezza.

Come abbiamo detto si verificarono precise condizioni in alcune zone che consentirono il persistere di questo fenomeno. Studiamo, qui di seguito, le più importanti manifestazioni.

Persistenza del banditismo sociale all’interno di alcune organizzazioni di guerriglia. Sue limitazioni e tendenza a scomparire

Nelle lotte di emancipazione dei popoli sottosviluppati esistono condizioni obiettive che rendono possibile la persistenza del fenomeno del banditismo.

Nella guerriglia degli anni 1945-1949 in Indocina, come ha affermato Patrick Van Wulfften Palthe (cfr. Psychological Aspects of the Indonesian Problem, Leiden 1949, pp. 32 e sgg.), esistevano bande di “ladroni” che si presentavano sotto l’aspetto di guerriglieri, utilizzando metodi specifici della guerriglia più avanzata, e organizzazioni di guerriglia che, per l’oggettiva situazione in cui agivano e per i mezzi usati, non si distinguevano facilmente dai primi. Cominciano a distinguersi altri elementi, sempre più importanti negli anni successivi, che renderanno ancora più difficile il problema della separazione che finiranno per eliminare del tutto il banditismo sociale come fenomeno autonomo. Essi sono, la fine del sistema coloniale, la facilità d’interessare masse sempre più grandi dell’opinione pubblica mondiale al problema dei popoli “deboli”, l’interesse degli Stati Uniti e della Russia ad una “ripartizione” del mondo in “zone d’influenza”, indispensabile conseguenza della fine del sistema coloniale, l’ideologia dell’autodeterminazione dei popoli, le nuove tecniche dello sfruttamento internazionale, i movimenti rivoluzionari ispirati al marxismo, la diffusione dell’ideologia di “liberazione nazionale”, spesso intelligentemente legata al concetto stesso di lotta di classe.

Tutto ciò rende anacronistico e limita fortemente la persistenza e la diffusione del banditismo sociale. Infatti quando l’Olanda tentò, in ogni modo, di riprendere i suoi domini coloniali in Indonesia, nel 1945, l’opinione pubblica mondiale le fu subito contro e la Conferenza dell’Aja del 1949 finiva per riconoscere gli Stati Uniti dell’Indonesia.

Abdul Haris Nasution, il capo della guerriglia indocinese di quegli anni, si rifece direttamente a Mao e al suo esempio del “pesce nell’acqua”: «Questo capo cinese ha detto che l’acqua, nel suo naturale clima politico e socioeconomico, deve essere curata in modo da offrire un libero sviluppo al guerrigliero che vi nuota. Perciò è importante per un guerrigliero, che sia insieme un capo della lotta di liberazione del suo popolo, saper mantenere nel popolo questo clima favorevole. Poiché egli combatte per il popolo, le sue azioni devono trovare il diretto consenso e l’approvazione della popolazione» (La guerra di guerriglia: principi fondamentali della Guerriglia dal punto di vista del sistema difensivo indonesiano nel passato e nel futuro [1953], cfr. W. Hahlweg, Storia della guerriglia, op. cit., p. 209). Sempre Nasution si poneva il problema della sostanziale parità metodologica tra guerriglia e antiguerriglia, problema che si riporta alla nostra precedente ipotesi, specifica del banditismo sociale, della possibile strumentalizzazione anche in senso reazionario, e afferma: «Il problema fondamentale è se l’antiguerriglia sia in grado di inculcare al popolo un’ideologia migliore, o di portare almeno ad un miglioramento delle sue condizioni, che sia concreto e immediatamente visibile. Un’antiguerriglia nell’interesse del colonialismo, o del dominio straniero, non può avere successo» (Ib., pp. 209-210).

Anche nella resistenza cinese agli ordini di Mao e nei diversi momenti della lotta contro i Giapponesi e contro i nazionalisti, per la conquista del potere, emersero, in particolare all’inizio, delle presenze di banditismo sociale. Purtroppo si tratta del periodo meno conosciuto della storia del movimento comunista cinese. Non ci possiamo ovviamente riferire alla documentazione nazionalista dell’epoca, per la quale tutti i comunisti erano “briganti rossi”, ma dobbiamo tenere presenti alcuni spunti, rari ma indicativi, che si trovano in Mao stesso e in altri studiosi occidentali. Per prima cosa bisogna tenere presente che il gruppo di Mao e di Chu Teh restò per tre anni circa (1927-1930) intorno ai monti Chingkangshan, antica roccaforte del banditismo cinese. Nulla conosciamo dell’attività di guerriglia svolta in questo periodo, come nulla conosciamo dell’esistenza o meno di fenomeni di banditismo sociale. Stuart Schram (Mao-Tse-Tung, London 1966, p. 43 e sgg.) ci fa sapere che Mao indicava come modello i banditi guerriglieri del romanzo “Lungo la Riva”, ai suoi uomini nel 1928, e che intorno a quell’epoca la parte più importante dell’armata rossa era costituita da “soldati, banditi, rapinatori, mendicanti e prostitute”, in quanto solo chi era fuorilegge poteva affrontare il rischio di entrare in una formazione fuorilegge. E si trattò di gente che combatté con estremo coraggio fino a diventare una forza rivoluzionaria. Non sappiamo quanta verità ci sia sotto le affermazioni di Stuart Schram, come non sappiamo i veri termini del rapporto tra guerriglieri e masse contadine in quel periodo. H. McAleavy riferendosi a questo periodo della guerriglia maoista scrive: «A portare il verbo marxista in questi territori erano unità dell’esercito rosso, che si spingevano avanti a ventaglio dal quartier generale di Kiangsi non solo per propagare la fede ma anche per estendere la zona ove potevano rifornirsi di viveri. Man mano che avanzavano si ingrossavano per l’afflusso di reclute della stessa origine sociale, cioè soprattutto di estrazione contadina; ma non mancavano i disertori provenienti dalle formazioni governative e gli ex banditi» (Storia della Cina moderna, op. cit., p. 358).

Lo stesso Mao, in un opuscolo: La condotta della guerriglia, in sette brevi capitoli, redatti in stile assai stringato e conciso, destinato evidentemente alla propaganda, scriveva parlando della guerriglia come “guerra totale”. Così esamina questo scritto Hahlweg: «Qui Mao non considerava la guerriglia come una forma separata di guerra, ma la utilizzava come un mezzo di guerra totale; a questo proposito faceva rilevare che era necessario distinguere fra due tipi principali, ossia la guerriglia rivoluzionaria, che ha le sue radici nelle masse popolari, e quella controrivoluzionaria, che non è sostenuta dalle masse ed è perciò facile da sconfiggere. Interessante è inoltre l’esposizione dei diversi modi possibili di formare unità guerrigliere (per esempio: dalle masse popolari; da unità dell’esercito regolare, temporaneamente destinate ad azioni di guerriglia; da unità dell’esercito regolare destinate in permanenza alla guerriglia; dalla combinazione di unità dell’esercito regolare e unità reclutate nelle masse popolari; dalla milizia cittadina locale; da disertori delle truppe nemiche e da ex banditi o banditi) [...]» (Storia della guerriglia, op. cit., p. 205).

Il cosiddetto periodo della violenza in Colombia, negli anni 1948-1958, ci può dare un grande esempio della persistenza del banditismo sociale a livello di massa, in alcune zone particolarmente adatte a recepire questo fenomeno, e della sua disponibilità alla strumentalizzazione reazionaria.

In questo periodo violento si produce una grossa trasformazione negli strati contadini. Da un lato la spinta ideologica della borghesia liberale, dall’altro la presenza dei latifondisti conservatori, determinano un contrasto nel quale la classe contadina si scontra con se stessa in una guerra senza quartiere. La prima conseguenza è il flusso dei piccoli e medi proprietari verso le città con la creazione di una grossa armata di disoccupati che funge da ultima riserva del capitalismo agrario. Su questa base, malgrado i gravi disordini, il capitalismo si sviluppa attraverso due fattori: a) trasformazione degli antichi latifondi in organizzazioni moderne dove trovano investimento i capitali precedentemente accumulati grazie allo sfruttamento dei latifondi, b) trasformazione delle terre abbandonate dai piccoli e medi coltivatori in grandi unità agricole.

Ma la persistenza della lotta (circa 300.000 morti) rendeva impossibile quelle condizioni di “pace sociale”, necessarie allo sviluppo del capitalismo secondo le direttive suddette, da ciò l’andata al potere dei militari in modo da frenare le lotte sociali.

Generalmente l’inizio delle lotte si fa risalire all’uccisione di Jorge Eliecer Gaitan, avvocato liberale, che era uno dei più amati leader del popolo. Nel solo primo giorno della rivolta si hanno tremila morti. Le sommosse non hanno un chiaro orientamento politico e vengono trascinate, in un senso o nell’altro, dalla presenza di individui e gruppi armati con chiaro intendimento brigantesco. Il risultato è una feroce repressione governativa.

Con l’evolversi delle lotte, intorno al 1951, si sviluppano dei gruppi, di tendenza comunista e liberale, che si rifugiano nelle montagne. Questi gruppi, formati da studenti e contadini, ex soldati e poliziotti liberali, e anche da banditi, si oppongono ad altri gruppi armati, d’ispirazione conservatrice, legati a una visione ancora più reazionaria di quella della borghesia al potere.

Nel 1953 il governo militare riesce a imporre la pace, ma molti gruppi non l’accettano e continuano la guerriglia. Il governo di Rojas Pinilla (1953-1957) è il governo di un sadico che applica un regime di terrore. Nel febbraio del 1956, nello stadio della corrida di Bogotà, quando venne innalzata la bandiera di Rojas, la polizia segreta, infiltratasi tra gli spettatori, colpì con coltelli e bastoni tutti coloro che non avevano applaudito. Nessuno conosce il numero dei morti e dei feriti.

Il discorso potrebbe continuare accennando agli altri movimenti guerriglieri in Guatemala, Argentina, Portorico, Perù, Uruguay; alle organizzazioni nere di guerriglia negli Stati Uniti; a quelle nere del Mozambico, dell’Angola, ecc., ma c’è qualcosa, in questi esempi di lotte in corso [1980], che ci porta sempre di più verso una qualificazione politica e un’organizzazione centralizzata. Con ciò il periodo del vero e proprio banditismo sociale è morto. Quando gli atti specifici del cosiddetto banditismo sono compiuti da questi combattenti, sono atti di espropriazione di beni a danno del nemico, espropriazioni che rientrano nella pratica rivoluzionaria e che vengono effettuate da elementi profondamente coscienti. Ecco, le preoccupazioni ideologiche alimentano tutta l’impostazione tecnica della guerriglia e, quindi, condizionano in modo radicale l’eventuale presenza, al suo interno, di gruppi più vicini al banditismo sociale.

Anche quando ci si spinge oltre, affrontando prima l’elemento umano della rivolta e poi l’elemento politico, come nel caso di Le Roi Jones o di Frantz Fanon, la visione è sempre quella sublimata dalla maturità rivoluzionaria. Il ribelle spontaneo, quello che correva sulle montagne perché questo atto gli era congeniale, perché attaccava l’istituzione prima ancora di rendersi conto della sua nocività, che s’imbestialiva alla sola presenza dello sfruttamento brutale, si è trasformato nel rivoluzionario. Ed è meglio così.

Ecco Le Roi Jones come parla contro la nonviolenza: «Il negro deve mettersi decisamente in posizione offensiva, deve attaccare il sistema del bianco, servendosi delle sue stesse catene; per piegare quel sistema e indurlo a un effettivo mutamento. L’uomo nero è l’unica forza rivoluzionaria della società americana contemporanea, sia pure solo per difetto. Il presunto ideale cristiano della nonviolenza è additato come meta per placare persino il più naturale elemento insurrezionale. [...]. Non solo il bianco opprime il negro, ma arriva al punto di dirgli come deve reagire all’oppressione. Naturalmente, però, anche il cristiano più paziente deve rendersi conto che in qualunque situazione l’autodifesa è onesta e naturale. Ed è anche obbligatoria, altrimenti non serve a nulla esigere un diritto se chi lo sollecita non è presumibilmente in condizione di trarre vantaggio dal diritto concesso. [...]. Un legittimo movimento di protesta negro non inceppato dalla mistificazione del simbolismo o da corrotte mire borghesi potrebbe riuscire a rifare questa società e a stabilire onesti rapporti fra essa e il resto del mondo non bianco» (Sempre più nero, tr. it., Milano 1968, pp. 129-131).

La chiarificazione rivoluzionaria diventa essenziale alla rivolta. Ciò è un grande passo avanti nella strada della mobilitazione rivoluzionaria dei negri americani, ma, se vista attraverso lo specchio deformante dell’ideologia autoritaria tipica del marxismo-leninismo, potrebbe essere una delle cause della creazione di una coesione fittizia, strumentalizzata da una minoranza agente, professionista della rivoluzione, candidata ad assumere il potere dopo la conquista dei diritti alla vita e alla libertà. Ovviamente le cose potrebbero andare in modo diverso, ma ciò resta affidato alla volontà di lotta, di rivolta dei singoli, e, nei neri, di volontà di questo genere ne esiste a sufficienza.

Più chiara ancora Renate Zahar, riprendendo la tesi di Fanon: «Il realizzarsi della violenza emancipatrice nella lotta di liberazione anticoloniale, con lo scopo rivoluzionario di una ristrutturazione dei rapporti esistenti, collegato a condizioni tanto psicologiche che politico-organizzative. Per una durevole riuscita della rivoluzione è indispensabile che in una prima fase avvenga una presa di coscienza degli oppressi: lo sdegno deve strutturarsi concettualmente fino a giungere alla piena consapevolezza dell’oppressione che si subisce. Solo questa consapevolezza, superando l’esplosione immediata delle prime violente reazioni contro l’oppressore, può rendere possibili azioni politiche spontanee che vadano oltre il semplice atto individuale. I capi nazionali hanno semplicemente il compito di canalizzare questa spontaneità, e debbono ben guardarsi dall’agire da soli al posto delle masse» (Il pensiero di Frantz Fanon, tr. it., Milano 1954, p. 112).

La validità del discorso è fuori discussione, quello che ci preoccupa è che il fondamento materialista e storico delle premesse venga travisato nel senso dell’azione determinante della minoranza agente, dell’avanguardia, nei confronti del ruolo creativo, trasformativo delle masse, ruolo che non può essere tagliato fuori dalla carica esplosiva e rivoluzionaria che le masse hanno accumulato in conseguenza, appunto, dello sfruttamento subito. Mao scriveva: «I contadini stessi hanno eretto queste statue, verrà il tempo che le demoliranno con le loro proprie mani: ma non v’è alcuna necessità che qualcun altro lo faccia prematuramente al loro posto. [...]. I contadini stessi debbono distruggere le immagini degli dèi. [...]. Sarebbe un errore in questa faccenda porsi al posto dei contadini» (Œuvres choisies de Mao Tse-tung, vol I, tr. fr., Pechino 1966, pp. 129-130, ns. tr.). Questa tesi si deve interpretare, secondo noi, nel senso che la mitologia degli sfruttati può essere sostituita, anche involontariamente, dalla nuova mitologia dei distruttori dello sfruttamento (soltanto superficialmente) se questa distruzione non è stata opera degli sfruttati stessi. Giusto, quindi, il processo di sensibilizzazione delle coscienze, giusta la preoccupazione davanti al ripresentarsi delle forme spontanee della rivolta facilmente strumentalizzabili dalla reazione; ma tutto ciò non può arrivare ad accettare la tesi del partito autoritario marxista-leninista, onniscente, che si presume in grado di tutto canalizzare e dirigere verso la rivoluzione.

In una intervista, Fabio Vazquez, capo dell’Esercito di liberazione nazionale di Colombia, dichiarava: «Un capo guerrigliero deve essere soprattutto un uomo convinto, pienamente convinto della giustezza della causa per la quale combatte, non potrà essere uno che vacilla, trascinato in questa posizione da interessi diversi da quelli della base che lo nomina. [...]. Dovrà essere un uomo con idee politiche sufficientemente chiare per essere cosciente della serietà e responsabilità della sua missione di fronte al popolo; dovrà rispondere delle sue azioni di fronte ai suoi organismi superiori, e, per trovarsi di fronte questi organismi suoi superiori ovviamente dovrà essere in montagna e sul campo di battaglia, perché un capo guerrigliero non deve permettere, anzi, non deve neppure concepire di ricevere ordini dalla città, e infine, quello che è più importante, dovrà rispondere al popolo» (M. Menendez, Intervista con Fabio Vazquez capo dell’Esercito di liberazione nazionale di Colombia, tr. it., Milano 1968, pp. 13-14).

Così in una dichiarazione di Héctor Béjar: «Il guerrigliero è un propagandista rivoluzionario; molto di più, ancora, egli è un autentico dirigente delle masse. Come potremmo politicizzare la masse senza venire loro incontro e senza dimostrare nella pratica di essere al loro fianco e che combattiamo i loro nemici?» (H. Béjar espone le sue concezioni di lotta, tr. it., Milano 1969, p. 31).

Queste le ultime parole del banditismo sociale a livello contadino. Le campagne sono sempre di più penetrate dalle organizzazioni rivoluzionarie. Il risultato di questo processo potrà essere solo positivo. Le strumentalizzazioni del passato, la visione nefasta delle bande di briganti all’opera, senza senso e senza logica rivoluzionaria, oggi non sono che un ricordo. Ma bisogna essere prudenti, avere il coraggio di guardare con fermezza la realtà. Quando l’autoritarismo dei movimenti organizzatori della guerriglia finisce per uccidere la spontaneità rivoluzionaria delle masse degli sfruttati, o si uccide la rivoluzione o si sviluppa un processo rivoluzionario parziale che si concluderà con la solidificazione di un nuovo potere in nome del popolo in teoria, ma a danno del popolo in sostanza.

Un ultimo esempio: il banditismo sociale in Sardegna

Il brigantaggio sardo si può fare risalire alla resistenza nazionale isolana, la resistenza dei gruppi e delle comunità dei pastori della montagna, contro l’invasione straniera.

La situazione quasi simile ad altre regioni italiane, come la Romagna o la Calabria, si è evoluta, dentro i limiti della stessa concezione capitalista, consentendo la progressiva eliminazione del fenomeno.

Le condizioni imposte al pastore dai proprietari terrieri sono tali che per l’uso della terra, che per due terzi non è migliorata, il pastore spende circa il 50% del ricavato lordo del suo lavoro. In questo modo, nel 1968, un pastore sardo guadagnava in media 10.000 lire al mese, cioè 330 lire al giorno. Per altro, il pastore è costretto ad acquistare le merci di cui ha bisogno al prezzo imposto dalle industrie del Nord, mentre vende i propri prodotti alle condizioni imposte sul mercato dai grossi monopoli nazionali. Le zone dell’interno sono state escluse dai poli industriali, realizzati o soltanto ipotizzati, perché poco allettanti per gli investimenti capitalistici, non solo a causa della totale mancanza di infrastrutture ma, soprattutto, per l’ostinata resistenza degli abitanti alle intenzioni colonizzatrici, più volte ripetutesi nella storia di queste operazioni di conquista economica.

È stata caldeggiata una spietata repressione poliziesca. Nel 1954, in un intervento al Senato, Emilio Lussu diceva: «Ai problemi sardi non può rispondere un commissario di pubblica sicurezza o un colonnello dei carabinieri, sia pure molto evoluto, se professionalmente succube della disciplina propria mentale, a queste domande, non può neppure rispondere un ministro dell’interno qualsiasi, se gli è estranea una preparazione di politico, direi d’uomo di Stato. Naturalmente, come c’era da attendersi, i primi a rispondere a queste domande sono stati i poliziotti di carriera [...] “occorre sbrigarsi occorre far presto e ristabilire l’ordine! Fatti e non chiacchere”. Il corrispondente di un grande quotidiano romano, inviato speciale in Sardegna, evidentemente un nostalgico, ha senz’altro proposto, dopo un rapido volo d’aquila sulla storia passata e presente dell’isola, che in Sardegna si adoperino gli stessi metodi che con tanto successo usò il maresciallo Graziani contro i ribelli in Cirenaica [...]. Un altro poliziotto [...] ha scritto: “Vogliamo che i carabinieri conducano una lotta senza quartiere”, e, per dirla come si è espresso un ufficiale dell’Arma, “vogliamo che nelle battute nelle foreste del Suprammonte si usino i lanciafiamme. La boscaglia non ci serve, è un covo di briganti. Le piante potranno rinascere ma i banditi dovranno essere distrutti. Si seguano razionali sistemi di caccia all’uomo, intendiamo dire: con i cani poliziotto, con squadriglie armate di mortai e di armi automatiche, come facevano i tedeschi negli Appennini contro i partigiani”. E ancora: “Assieme alla lotta sul Suprammonte contro le animalesche bande dei fuorilegge, si facciano le battute nelle città del nuorese”» (Il discorso è stato riportato dalla rivista “Il Ponte”, 1954, ib. p. 211).

Le tradizioni del banditismo sociale, in Sardegna, sono importantissime. Bande del passato, come quella del sacerdote Bachis, parroco di Siliqua, uomo di cultura, che attaccava le diligenze dei notabili assassinandoli e depredandoli, si ricordano ancora nei racconti popolari. Si trattava di bande che avevano precise motivazioni sociali e che erano considerate dal popolo con onore e rispetto. Spesso il brigantaggio si intensificava a seconda delle situazioni politiche. Nel passaggio dal dominio sardo a quello piemontese si ebbe un’aspra recrudescenza e negli altri passaggi precedenti risalendo fino agli Aragonesi. Continua Lussu, notevole conoscitore della problematica sarda: «Motivi sociali si innestarono a motivi nazionali, ché, se è vero che la Sardegna non è stata mai unita, è peraltro vero che la sua gente si è sempre, nella storia passata, considerata un popolo a sé, con i suoi diritti, anche se vinto e diviso, talmente diviso che non è neppure riuscito a unificare la sua lingua, pur essendo il sardo il più caratteristico degli idiomi neolatini. Nemico sempre degli invasori e degli oppressori [...]. Le rivolte in forma di brigantaggio nelle epopee popolari e nei cicli di cui ho fatto un rapido cenno, erano rivolte che avevano un’origine ed una essenza sociali. Era la difesa della terra sarda, sia pure condotta da una rappresentanza popolare esigua e barbarica, era la difesa della ricchezza sarda contro i rapinatori stranieri. La lotta che i popoli coloniali conducono oggi in Asia, in Africa, in forme collettive nazionali di liberazione, sono in grande quelle che sono state in piccolo le rivolte popolari nostre, attraverso il brigantaggio, fino all’altro secolo» (Ib., pp. 213-214).

Ma le idee repressive dei responsabili dell’ordine pubblico, dal 1954 ad oggi [1975], non sono cambiate di molto. In una dichiarazione rilasciata a “La Nuova Sardegna”, il colonnello Todde diceva: «Occorre ritornare all’impiego dell’esercito. [...]. L’addestramento tattico anziché svolgersi in Alto Adige si svolgerebbe nelle Barbagie. Unità da impiegare: quattro brigate di fanteria da dislocare una a Macomer, una a Nuoro, una tra Ditti e Buddusò. Ogni brigata dovrebbe disporre di autoblindo, otto-dieci. Bastano complessivamente da 15 a 20 mila soldati. [...]. Quando le azioni offensive non dessero i risultati sperati, si potrebbe ricorrere ad una specie di assedio per snidare con la fame i briganti dai loro covi inaccessibili. [...]. La Grecia ha sistemato le sue faccende senza lo spargimento di una goccia di sangue. [...]. Noi vediamo nel colpo di Stato nient’altro che un colpo di scopa contro il marciume politico che in nome della democrazia appesta i popoli» (Pubblicato da “Rinascita Sarda” del 25 luglio 1967).

Se, come è vero, le cause immediate del banditismo sardo sono l’arretratezza economica, lo sfruttamento coloniale, le violenze e gli arbitri dei poteri dello Stato; le misure eccezionali della repressione di ogni genere non risolvono nulla. È questo l’ultimo messaggio che ci viene dalla Sardegna, l’ultimo posto dove il banditismo sociale combatte la sua ultima, anacronistica, battaglia.


[1982]

La rivolta degli schiavi e il mito di Dioniso

L’insurrezione degli schiavi guidata da Spartaco

Verso il 73 a.C. nell’Italia meridionale scoppiò con violenza inaudita l’insurrezione degli schiavi che fu anche chiamata l’insurrezione dei gladiatori. Spartaco, sul cui nome si costruì un mito rivoluzionario che dura fino a oggi, fu uno dei capi della rivolta che ebbe dimensioni mai viste e che mise in forse l’esistenza stessa dell’impero romano.

Certo non era la prima volta che gli schiavi insorgevano. La prima rivolta fu quella di Euno (136-131 a.C.), poi quella di Salvio e Atenione (104-101 a.C.) ed infine quella di Aristonico (132-130). Per più di cinquant’anni non vi furono altri tentativi fino all’insurrezione del 73.

Le motivazioni di classe da cui trassero origine la totalità di queste rivolte servili sono presto dette. Il gran numero di schiavi provenienti dai bottini di guerra si andava ingrossando in modo incredibile a causa della riduzione in schiavitù dei liberi contadini che per le carestie non potevano far fronte al pagamento delle tasse. I contadini liberi diminuivano anche per le continue guerre, in quanto erano obbligati a prestare servizio militare per periodi quasi mai inferiori ai vent’anni; mentre le ricchezze accumulate dai senatori e dai vari speculatori estendevano il latifondo e quindi l’interesse a impiegare schiavi anziché salariati. Nel Meridione poi la diffusione del latifondo fu ancora più ampia e quindi anche l’impiego degli schiavi nei lavori agricoli. Il clima favorevole rendeva possibile anche uno sfruttamento più razionale, con minori costi per i padroni, minori spese per i vestiti e per il vitto.

A insorgere sono infatti gli schiavi addetti ai lavori agricoli mentre quelli della pastorizia, godendo di una maggiore libertà, restano quasi estranei al movimento. Lo stesso per quelli legati alla catena e rinchiusi negli ergastoli perché sottoposti a terribili procedure di sorveglianza.

La spinta iniziale è data però da un piccolo nucleo di schiavi ridotti da recente in stato di schiavitù. In effetti la sempre maggiore richiesta di schiavi da impiegare nei latifondi aveva sviluppato un’industria che si basava anche sulla pirateria. Interi villaggi erano saccheggiati dai pirati e popolazioni intere ridotte in schiavitù. La cosa divenne evidente intorno all’anno 105 a.C., dopo la prima guerra servile e prima dell’insurrezione guidata da Salvio. L’esercito romano aveva subito gravissime perdite in Gallia e trovandosi davanti alla necessità di reclutare nuovi soldati il Senato approvò una legge che restituiva la libertà a quegli schiavi che erano stati ridotti in schiavitù con la forza, purché entrassero nell’esercito. Questa legge, che era stata pensata come fatto limitato, appunto per rifornire di uomini l’esercito, venne vista invece dagli schiavi come un provvedimento generale. La delusione grande non fu ultima causa dell’insurrezione. (Cfr. Diodoro Siculo, Biblioteca, XXXVI, 3).

«Né è da trascurare la circostanza – scrive Emanuele Ciaceri – che il proletariato libero faceva causa comune con gli schiavi, tanto nella prima come nella seconda guerra, sostenendoli più o meno direttamente nell’opera di ribellione» (“Roma e le Guerre Servili in Sicilia”, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, Anno IV, 1907, p. 388. Cfr. anche Diodoro Siculo, op. cit., XXXIV, 48 e XXXVI, 11). A sostenere la posizione estremamente precaria dei contadini liberi e dei proletari della campagna era la politica della riforma agraria, già da tempo impostata dai Gracchi. Infatti ogni tentativo di ridurre lo strapotere dei latifondisti e di migliorare le condizioni del proletariato agricolo, finiva necessariamente col dover risolvere il problema della diffusione della schiavitù, denunciando le pratiche violente della schiavizzazione, si otteneva così il risultato indiretto di mettere in difficoltà la classe dei proprietari terrieri e quindi di accrescere il potere contrattuale dei contadini liberi. Continua Ciaceri: «Ed accrescere il numero dei piccoli proprietari colla distribuzione dell’agro pubblico, ed allargare la classe dei liberi contadini, corrispondeva a limitare la massa degli schiavi e quindi ad impedire che uomini liberi, attraverso la speculazione e la pirateria, cadessero nella stato di servitù» (Ib., pp. 388-389).

L’insurrezione guidata da Euno, durata circa otto anni, causò 40.000 morti e un profondo stravolgimento nell’economia siciliana. Le bande ribelli dilagano nelle campagne, distruggono le residenze dei ricchi, i raccolti, ma lasciano intatti i piccoli campi dei contadini. Questi ultimi vedono con gioia bruciare le ricchezze degli sfruttatori e anche loro partecipano al saccheggio e alle scorrerie. Alcuni gruppi di banditi, tra cui quello famoso di Cleone, si associano agli insorti e riconoscono la guida di Euno. Scrive Gérard Walter: «Per otto anni consecutivi le autorità romane si sforzarono invano di avere ragione delle truppe di Euno. Ottennero soltanto una serie di umilianti sconfitte. Euno arrivò ad estendere il suo dominio su quasi tutto il territorio dell’isola» (Les origines du communisme, ns. tr., Paris 1975, p. 330).

La cosa si ripeté un quarto di secolo dopo con Salvio e Atenione. La descrizione di Diodoro Siculo resta insuperabile: «Non soltanto una moltitudine di schiavi ribelli, ma anche di uomini liberi senza fortune né risorse, si abbandonò al saccheggio e ad ogni sorta di eccesso. Spinti dalla loro indigenza e dalla loro scelleratezza, essi percorrevano il paese per bande, rubavano i greggi, saccheggiavano i granai e, per assicurarsi l’impunità dei propri crimini, sgozzavano senza pietà tutti coloro che incontravano, schiavi e uomini liberi. Così tutti gli abitanti considerarono a stento come possesso i beni che avevano all’interno della città, mentre tutto ciò che era situato fuori le mura divenne preda della violenza. [...]. Gli stessi schiavi rinchiusi dentro le mura della città erano raggiunti dal contagio della rivolta e si ribellavano ai padroni» (Biblioteca, XXXVI, 5). Soltanto un corpo di spedizione dell’esercito romano di ben 17.000 uomini perfettamente equipaggiati, poté avere ragione delle truppe di Euno.

Ma l’avvenimento più noto e più imponente fu la rivolta guidata da Spartaco. Il pericolo che l’Impero corse in questo frangente fu paragonato da Eutropio a quello della guerra contro Annibale con in più – come nota un altro storico romano, Floro – la presenza costante del ridicolo. Difatti altro era combattere contro i Cartaginesi, tradizionali nemici dei Romani, e altro affrontare degli schiavi, cioè individui considerati inferiori, gente di nessun conto. Le sconfitte che questi ultimi infliggevano sistematicamente alle armate romane erano quindi ancora più terribili. Il focolaio della rivolta è nella scuola dei gladiatori di Capua. All’inizio sono pochi uomini, dopo pochi mesi Spartaco ha praticamente sotto il suo comando un esercito di 40.000 uomini. Dapprima gli schiavi si indirizzano a Nord e puntano su Modena con lo scopo di raggiungere i valichi delle Alpi e assicurare il rimpatrio nelle zone di origine. Poi le forti pressioni interne degli altri capi e delle singole bande di ribelli impediscono questo disegno e si decide di marciare contro Roma. Il programma è però rinviato perché ritenuto, forse a ragione, troppo ambizioso e si ripiega verso l’Adriatico e verso la Lucania. Il Senato si rende finalmente conto del grave pericolo che minaccia la stessa capitale e organizza un esercito, al comando di Crasso, formato da sei nuove legioni e dai resti di quattro legioni che erano state sconfitte da Spartaco. In Calabria Crasso costruisce un vallo trincerato lungo ben 55 chilometri nelle vicinanze del fiume Sibari (attuale Coscile). Lo scopo di Spartaco era di passare in Sicilia e sollevare gli schiavi dell’isola come era accaduto nelle precedenti insurrezioni. A questo punto si verificano le prime defezioni: i pirati cilici abbandonano la causa degli insorti. Crasso ha quasi la vittoria in pugno, ma Spartaco con un’abile manovra si sgancia e ripiega sul Lazio: Roma è di nuovo in pericolo. Si decide anche l’intervento di Pompeo ma questo non è necessario, l’esercito di Spartaco, diviso in due tronconi, è sconfitto separatamente in Lucania e in Apulia. Solo i fuggiaschi sono annientati da Pompeo. La repressione fu terribile: migliaia di schiavi vennero crocifissi per ricordare agli altri come si vendicano i padroni quando hanno avuto paura.

Le motivazioni della rivolta

Solo superficialmente queste rivolte, culminate con l’epopea di Spartaco, si possono spiegare con la situazione terribilmente oppressiva in cui si trovavano gli schiavi nell’Impero romano. Certo l’intollerabile sfruttamento bestiale costituiva uno degli elementi di spinta alla sollevazione, ma l’elemento che servì da raccordo e che, per molti versi, costituisce per noi una traccia attraverso cui spiegarci il movimento pressoché continuo delle insurrezioni popolari, è un altro.

In effetti una corrente ideologica sotterranea percorre tutto il pensiero antico e si contrappone all’ideologia dominante con una propria cultura, cioè con un insieme di miti e di leggende, di ricordi e di racconti orali. È certamente molto approssimativo identificare questo insieme culturale col mito di Dioniso, ma questo mito dovette senz’altro rappresentare una larga parte di quel movimento antagonista, per quanto poi si intrecciasse e si confondesse con altri miti e altre tradizioni.

Il pensiero classico ufficiale è difatti molto coerente nella condanna delle insurrezioni degli schiavi. E non poteva essere altrimenti. Gli storici del potere sono essi stessi un’espressione del potere, e abbiamo visto nelle precedenti parole di Diodoro Siculo, accanto a una malcelata paura, lo scandalizzarsi vero e proprio per l’ardire di questa sottospecie di uomini che osano attaccare la santità stessa dell’Impero.

Il concetto moderno di “rivolta”, e quindi anche quello correlato e più ampio di “rivoluzione”, manca del tutto nel pensiero antico. Il motivo è semplice: la concezione del mondo per gli antichi aveva un fondamento esclusivamente statico, manca loro un’idea di progresso che facesse considerare la storia come uno svolgimento, cioè come una vicenda che si delinea nel tempo, che si sviluppa, si costruisce lentamente e che può anche subire improvvisi e profondi cambiamenti. Certo gli antichi avevano esperienza dei fatti storici che oggi definiamo come insurrezioni, rivolte, ecc., e avevano anche una vasta conoscenza delle insurrezioni popolari legate alle frequenti crisi economiche del potere contralizzato, come pure del diffondersi delle idee di violente trasformazioni della realtà sociale; ma queste esperienze non andavano mai al di là dei concetti politicamente limitati di “sollevazione”. (In greco venivano usate le parole taraché e kínesis, corrispondenti alle parole latine tumultus, seditio, motus, ecc.). Scrive su questo argomento Santo Mazzarino: «... alla società classica manca l’idea di revolutio, “rivoluzione”, nell’accezione di questo termine [...]. La metabolé (cambiamento) costituzionale, vista come fenomeno di natura (alla maniera della metabolé geologica), e la stasis (“insurrezione”, che si è posta contro l’ordine e la concordia), sono concetti notevolmente diversi dalla moderna idea di rivoluzione» (Il pensiero storico classico, Bari 1966, vol. II, 2, p. 253). La considerazione assolutamente positiva – anzi religiosa – in cui erano tenuti i costumi degli antenati, le tradizioni degli antichi, impediva quindi qualsiasi concezione positiva di un atto violento che si ponesse contro quei costumi e quella tradizione. E non c’è dubbio che l’orrore che ispiravano le gesta insurrezionali degli schiavi doveva sottolineare con tinte estremamente fosche le intenzioni di questi ultimi di distruggere quella tradizione e quei costumi che li avevano resi schiavi e nella schiavitù li mantenevano. Bisognerà aspettare lo sviluppo del pensiero cristiano per vedere una valutazione positiva del concetto di “allontanamento dalle tradizioni”. Ma questa concezione prenderà due strade: una, quella minoritaria, che sarà sviluppata dalle fasce estremiste cristiano-comuniste (ad esempio dagli encratiti e dai carpocraziani, distrutti in seguito dalla repressione delle autorità della nuova fede diventata dogma e quindi potere) e che parlerà di una negazione totale e immediata della tradizione; l’altra, quella dell’ortodossia nascente, dapprima apologetica e poi istituzionalizzata, che accuserà lo stesso paganesimo di un progressivo allontanamento dai costumi degli antenati e dalle loro tradizioni, per cui il cristianesimo viene anche visto come un ripristinatore delle antiche virtù.

Nel mito di Dioniso sono state identificate tante costanti che si è cercato di cristallizzare nel segno dell’emarginazione: i seguaci del Dio diventano gli emarginati, gli oppressi che, nella gioia del rito orgiastico, nella violenza del delirio del baccanale, capovolgevano la loro situazione di dolore in un’audace scalata al cielo dell’ordine e del dominio degli adoratori di Apollo. La contrapposizione è evidentemente schematica, mentre l’importanza del problema richiede molto più spazio di quanto non possiamo dedicarle in questa sede. C’è da dire subito però che il mito di Dioniso si presenta come un mito del Dio che nasce, muore e rinasce. La sua origine è legata ai riti vegetali dell’albero e del grano. Il dio viene pianto quando scompare e si festeggia quando rinasce. Ciò consente lo sviluppo di un culto del cambiamento che si contrappone realmente al culto circolare del passato capace soltanto di ripresentarsi sempre identico. In questo senso il mito dell’eterno ritorno in Nietzsche è da rileggersi in chiave diversa: il ritorno cui fa riferimento il filosofo tedesco è il ritorno mai identico e si contrappone al ritorno dell’identico che consentiva nel pensiero classico il rispetto delle antiche tradizioni. Scrive Furio Jesi: «... così come nell’iniziazione primordiale, l’esperienza di morte e rinascita è innanzitutto cambiamento e passaggio da uno stato ad un altro, da un tempo ad un altro. La morte che prelude la rinascita è l’abbandono del passato, il quale cessa di essere tale e non è ricordato perché è divenuto presente. La rinascita è appunto, l’esperienza di quel presente che comprende in sé tutto ciò che nel mondo del passato era vivo ed è vivo: tutto ciò che non si ricorda» (Inattualità di Dioniso, Introduzione a H. Jeanmaire, Dioniso. Religione e cultura in Grecia, tr. it., Torino 1972, p. XIV). Su questa base il mito di Dioniso è visto più che altro come un sistema organico contrapposto al mondo delle idee platoniche. L’insieme stesso dei culti dionisiaci e delle varie tradizioni appare come scompagnato e poco conseguente. Si tratta di un affastellarsi disorganico di riutali e di procedure magiche. Continua Jesi: «A differenza di quasi tutti gli dèi greci, egli [Dioniso] non rivela la sua fisionomia nelle attività religiose cui presiede o nelle tradizioni mitiche di cui è protagonista: esse si sono raggruppate attorno a lui, quasi come sovrapposizioni a posteriori [...]. Dioniso è dunque, esibizione di una realtà, il cui essere profondo è contraddistinto dalla tonalità passato-morte-invisibile: Dioniso è il paradosso divino del ricordare ciò che si dimentica, del presente in cui il passato sopravvive appunto perché ha cessato di essere» (Ib., p. XVI). Si nota bene qui la contrapposizione con il mondo ufficiale del pensiero antico e con la sua concezione statica della tradizione.

Questa realtà del mito dionisiaco appare in tutta la sua significatività nella contrapposizione all’apollineo e nella prospettiva della visione artistica. Qui le condizioni stesse dell’intuizione estetica rendono più evidente il contrasto tra due universi abbastanza chiaramente contrapposti: quello ufficiale che si riassume nell’apollineo e quello sotterraneo che si riassume nel dionisiaco. La dimensione della visione appare statica nell’ipotesi apollinea e come flusso in quella dionisiaca. Scrive Domenico Pesce: «L’esperienza dell’apollineo è essenzialmente quella della teoria della visione, nella quale il reale appare come molteplicità statica di figure nitidamente segnate nei loro contorni. In essa l’intera esistenza, fatta oggetto di pura contemplazione viene come a purificarsi e tutti i suoi aspetti, ricondotti a forme significanti e necessarie, vengono a costituire un mondo ideale. Di qui il carattere serenamente ottimistico della visione apollinea cui si accompagna l’etica delfica della misura. I netti contorni delle figure diventano infatti nella vita pratica i limiti delle azioni, l’uomo acquista chiara consapevolezza della propria natura e delle proprie possibilità e si tiene scrupolosamente entro questi esatti confini, evitando ogni eccesso. Nell’esperienza dionisiaca invece ogni limite e contorno vien meno, le figure si confondono nell’indistinto, i confini sono tutti trascesi e, caduto, perfino l’ultimo baluardo che opponeva il soggetto all’oggetto, l’uomo disindividualizzandosi, si ricongiunge con l’unità originaria. La quale inoltre non è statico essere, ma perenne divenire, flusso continuo della vita che si impone come potenza irresistibile, infrangendo nel suo corso ogni ostacolo e non tollerando alcun freno» (Apollineo e dionisiaco nella storia del classicismo, Napoli 1968, pp. 13-14). È proprio in questa realtà “altra” che si coglie il significato profondo della rivolta, al di là del circoscritto significato peggiorativo che il mondo ufficiale apollineo e accademico andava perfezionando.

Una ricerca più approfondita sulle origini e lo sviluppo storico del mito di Dioniso potrebbe indicare con chiarezza le forme di esaltazione collettiva che risultano abbastanza simili a quelle del misticismo medievale. Allo stesso modo una ricerca del genere potrebbe indicare i rapporti tra il diffondersi di questo mito e le varie insurrezioni popolari contro invasori e tiranni. Certo il rapporto non fu schematico perché la religione dionisiaca, come insieme di culto e comportamento, raggiunse strati sociali diversi da quelli popolari, ma si può essere certi che solo nel popolo si ebbe un’adesione reale al culto della gioia e dell’ebbrezza come risposta vincente nei confronti della morte e dello sfruttamento. Si può infine affacciare l’ipotesi che le classi più elevate nel rivolgersi al mito di Dioniso vi vedessero l’aspetto della sospensione transitoria delle formalità sociali, dei tabù e delle limitazioni assegnate dalla tradizione. La loro era pur sempre un’opposizione critica nei confronti dei costumi antichi, ma fatta in nome di una transitoria deviazione che non faceva altro che ripresentare sotto una forma rinnovellata e quindi più efficace la validità della tradizione stessa. Non per nulla le orgie dei boschi e tutti gli aspetti del menadismo, cioè delle danze erotiche femminili, per come possiamo vedere nella letteratura e nell’arte, specie nella ceramistica, trovano una certa diffusione nelle classi più elevate. Comunque l’espansione del culto di Dioniso tra i ceti popolari è un fatto accertato, come pure la corrispondenza tra le pratiche dell’estasi collettiva e gli impulsi liberatori del mondo degli sfruttati. Scrive Nietzsche: «Sotto l’incantesimo del dionisiaco non solo si restringe il legame fra uomo e uomo, ma anche la natura estraniata, ostile e soggiogata celebra di nuovo la sua festa di riconciliazione col suo figlio perduto, l’uomo. [...]. Ora lo schiavo è uomo libero, ora si infrangono tutte le rigide, ostili delimitazioni che la necessità, l’arbitrio e la moda sfacciata hanno stabilito fra gli uomini. Ora, nel vangelo dell’armonia universale, ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma addirittura uno con esso [...]. Cantando e danzando, l’uomo si manifesta come membro di una comunità superiore» (La nascita della tragedia, tr. it., Milano 1981, pp.. 26-27).

È all’interno di questo grandioso fiume sotterraneo di cui conosciamo solo una piccola parte per come è stata tramandata nell’insieme disorganico del mito di Dioniso, che bisogna cercare l’unità del movimento popolare che a un certo punto della storia del mondo antico prende la forma delle insurrezioni degli schiavi.

Spartaco e Dioniso

In tutte le rivolte degli schiavi l’elemento mitico gioca un ruolo di grande importanza. Diodoro Siculo ci fa sapere che Euno si dichiarava sacerdote della Siria (Biblioteca, XXXIV, 2) la quale aveva un culto misterico molto vicino a quello di Dioniso. Salvio è indicato dallo stesso storico come suonatore di flauto nel coro per il culto delle dee femminili orientali (Ib., XXXVI, 4), mentre Atenione è messo a capo della rivolta da un’investitura astrologica fondata sulla predizione delle stelle (Ib., XXXVI, 5). Plutarco dice chiaramente a proposito di Spartaco che: «... la prima volta che fu condotto a Roma, per esservi venduto, vide durante il sonno un serpente slanciarsi sul viso, mentre la sua compagna, della sua stessa razza, era profetessa e soggetta alle estasi dei misteri dionisiaci» (Crasso, 8). In Sicilia gli insorti sacrificavano agli dèi Palici che dai tempi antichi rappresentavano il culto nazionale dei Siculi. Diodoro Siculo racconta che anche quando finirono le insurrezioni gli schiavi fuggiti si rifugiavano nei templi degli dèi Palici e qui acquistavano il diritto di inviolabilità e contrattavano con i loro padroni le modalità del ritorno (Cfr. Biblioteca, XI, 89). E fu proprio nel tempio dei Palici dove si riunirono gli schiavi che si erano recati a Siracusa per avere restituita la libertà e se la videro negare. Da quella riunione nacque la prima insurrezione siciliana guidata da Euno. (Cfr. Ib., XXXVI, 3).

Il mondo definitivamente chiuso delle tradizioni viene considerato come il fondamento stesso dell’oppressione da coloro che – come gli schiavi – si sentono sottoposti ad una situazione di inferiorità sancita appunto da quelle tradizioni. Con il rifiuto di quel mondo si ha anche il rifiuto dell’apatia e del fatalismo che sono la sua caratteristica principale. In contrapposizione si sviluppa una dinamicità prorompente, una vitalità quasi isterica che costituisce il fondamento stesso della rivolta armata contro il potere. Nella rivolta di Spartaco si trovano già tutte le caratteristiche dei movimenti religiosi millenaristici a carattere comunitario che accompagneranno le insurrezioni medievali nelle campagne e nelle città. In merito al rapporto tra gli schiavi e le loro credenze religiose Pasquale Masiello scrive: «Tra [gli schiavi] e le loro divinità sorge un rapporto che ha riflessi anche sul terreno militare e sociale. Gli schiavi ribelli sono portati ad unire le loro sorti ai voleri della divinità, che li “esorta” alla rivolta armata, nella disperata conquista di una società diversa da quella in cui erano costretti a vivere» (“L’ideologia messianica e le rivolte servili”, in “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia”, vol. XI, Bari 1966, p. 182).

Non è certo soltanto il fatto che la compagna di Spartaco fosse sacerdotessa di Dioniso che costituisce un interessante elemento di riavvicinamento. Importante anche il sogno riportato da Plutarco e citato sopra del serpente sul viso di Spartaco. Infatti non bisogna dimenticare che Spartaco è originario della Tracia e che proprio in questa regione il culto di Dioniso, altrimenti chiamato Sabazio, è molto diffuso. Scrive Raffaele Pettazzoni: «Quanto ai serpenti, la loro presenza nel culto di Sabazio è anch’essa, credo, da riportare originariamente all’ambito tracio e nordico in genere» (I Misteri, Bologna 1924, p. 86). E, più dettagliatamente, Paul Foucart: «In ogni tempo le alte cime boscose, le spesse foreste di quercie e di pini, gli antri tappezzati d’edera, sono rimasti suo [di Dioniso] dominio preferito. I mortali che si preoccupassero di conoscere la potente divinità che regna in quelle solitudini, non avevano altro mezzo che osservare quel che avveniva nel suo regno, e individuarla attraverso i fenomeni in cui essa manifestava la sua potenza. Nel vedere i ruscelli precipitarsi in cascate spumose e rumoreggianti, nell’intendere il muggito dei tori che pascolano sugli elevati altopiani e i rumori strani della foresta battuta dal vento, i Traci s’immaginarono di riconoscere la voce e l’appello del signore di questo impero, si figurarono un Dio che si compiaceva anch’esso nei salti disordinati e nelle corse folli attraverso la montagna boscosa» (“Le culte de Dionysos en Attigue” in “Mém. Acad. Des Inscr.”, ns. tr., t. XXXVII, 1904, p. 22).

Concludendo possiamo dire che l’insurrezione degli schiavi guidata da Spartaco, come le precedenti, e come le altre innumerevoli insurrezioni delle masse sfruttate che costellano lo svolgimento della storia fino ai nostri giorni, hanno tutte una profonda motivazione millenarista, cioè si pongono anche come movimenti che annunciano la fine del mondo vecchio, fondato sullo sfrutttamento, e l’avvento di un mondo nuovo, fondato sull’uguaglianza e la libertà. Questo contenuto è stato approfondito abbastanza per il periodo medievale mentre non è stato molto studiato per quanto riguarda le insurrezioni della storia antica e in particolare per le insurrezioni degli schiavi.

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«La tendenza alla più ampia universalità e la tendenza alla estrema individualità vanno di pari passo e insieme danno luogo a quel progresso che porta al di là dei singoli complessi, ciascuno dei quali include in sé una pluralità di componenti singole senza tener conto della loro individualità, e rivendica invece per sé come tutto unitario una specificità individuale. La medesima forma di sviluppo è osservata dal processo conoscitivo qui in questione. Questo piccolo segmento della sfera cosmica, la storia umana, include in sé un gran numero di elementi singoli da essa ricondotti sotto il proprio concetto unitario, e rivendica per sé leggi specifiche. Il progresso del conoscere consiste, qui, da una parte nel dissolvere la specificità e la compattezza di questo complesso, nel comprenderlo come una componente del cosmo coordinata con le altre e perciò in base alle sole leggi universali del cosmo stesso, non in base a una legge specifica valida unicamente per quel complesso; d’altra parte, però, nel seguire ogni suo elemento nella sua particolarità, nel descrivere la forza specifica in ciascuno depositata e sviluppata e nel comprendere così il tutto come la somma delle parti ciascuna per sé compresa. Evidentemente il movimento che procede in queste due direzioni è sempre lo stesso. Le leggi delle parti elementari, che esprimono le forze primarie, sono infatti appunto quelle leggi che governano la totalità del cosmo. Solo queste leggi hanno la sicurezza di una validità realmente universale, che, secondo quanto si è appurato in precedenza, resta invece preclusa alle forme di movimento delle strutture complesse. L’una e l’altra tendenza, quella verso il più universale come quella verso i1 più semplice, si lasciano parimenti alle spalle quel grado provvisorio di conoscenza che pretende di considerare il complesso – nel quale una pluralità di elementi sono raccolti sotto un punto di vista comune – come un tutto governato da leggi specifiche. Non si può disconoscere che, riducendo in questo modo le leggi storiche a leggi cosmiche, si viene così del tutto a dissolvere il concetto specifico di storia. E in effetti la tendenza a questa dissoluzione esige una riflessione particolare, in quanto già a partire da qui viene messa in questione la stessa possibilità delle leggi storiche» (G. Simmel, I problemi della filosofia della storia, tr. it., Genova 1982, pp. 93-94).

«La “legge storica” della differenziazione come norma determinante la storia universale indica un secondo tipo di esempi. L’insieme delle attività necessarie alla conservazione della vita è eseguito, nelle epoche primitive, da ciascun individuo, e il progresso consiste nel fatto che tali attività vengono sempre più ripartite tra individui e che ognuno anziché molte ne svolge una sola e sempre più specializzata. L’affinamento della vita effettiva, la diversificazione degli interessi che proprio attraverso questo processo tornano a intrecciarsi organicamente, l’eliminazione delle forme di socializzazione violenta, l’istituzione di associazioni dalla sempre maggiore funzionalità oggettiva – tutte queste sono trasformazioni che si possono senz’altro ricondurre sotto il concetto di differenziazione. A produrre queste singole trasformazioni sono certo singole forze particolari, sollecitate dalla necessità o da costellazioni casuali, da gelosia o da genialità, i cui risultati solo in un secondo momento vengono riassunti nel concetto di differenziazione. La differenziazione è ciò che risulta dopo l’intervento di tutte queste forze, e non la si può porre al di sopra di esse come forza collettiva, né come fonte di energia unitaria, di cui solo la casualità delle situazioni chiamerebbe a un’attuazione fenomenica diversa certe quantità parziali. Tuttavia il problema storico non si riferisce affatto esclusivamente a quei processi reali fondamentali e alle loro forze motrici individuali. Al contrario, una volta che tali fatti siano stati ricondotti sotto il concetto di differenziazione, noi esigiamo di conoscere i molteplici gradi e tipi in cui tale differenziazione si articola, le regolarità delle sue manifestazioni fenomeniche, la sua connessione con gli altri concetti che riassumono i processi primari da una uguale distanza – come i concetti di libertà, ritmo di sviluppo, coscienza collettiva, forma e contenuto dei movimenti sociali, le loro ripercussioni nelle formazioni oggettive del diritto, del costume, della tecnica, e molti altri ancora. Naturalmente non ci si riferisce qui a rapporti e sviluppi di tipo logico-concettuali, ma agli eventi storici concreti e alle loro regolarità, compresi in relazione alla loro manifestazione fenomenica globale esprimibile in termini concettuali Si tratta qui di un peculiare strato di concetti che rappresentano una particolare sublimazione dei fatti elementari. Quando certi eventi storici, o certe situazioni, prodotti da forze singole, vengono designati come differenziazione o integrazione, come tensione e liberazione di energie sociali, come costituzione di strati sociali, come infezione sociale, come accelerazione o irrigidimento dei processi di vita del gruppo, – questi non sono puri concetti universali, che designerebbero quanto è comune a certi dati primari, né puri simboli, che rappresenterebbero per quei dati un sistema di segni, senza avere nessuna relazione di contenuto con loro. Piuttosto tali concetti partecipano in certa misura sia dell’una che dell’altra categoria, in quanto, se colgono i singoli fattori storici in base al loro risultato come manifestazione fenomenica globale, il concetto che esprime questa manifestazione si colloca tuttavia in una regione a sé stante e, pur essendo nutrito dalla fonte della realtà immediata, ha tuttavia elevato tale realtà a una nuova unità, come fa un corpo organico col proprio nutrimento. Perciò la funzione di questi concetti storici e delle loro applicazioni non è solo quella di superare la quantità e la qualità dei fenomeni storici in quanto inconoscibile nella sua interezza. Questo compito, infatti, ha in ultima analisi solo carattere negativo, mentre il vero problema era quello di interpretare il loro ruolo nella scienza esistente, e nasceva dal fatto che tali concetti costruiscono in positivo un nuovo mondo concettuale. Gli esempi di “leggi storiche” da me prima criticati ricevono su questo piano un significato del tutto diverso da quello precedentemente connesso all’esigenza di ricalcare esattamente le energie che producono l’accadere immediato. Di fronte a una “legge” dello sviluppo storico come per esempio quella secondo cui ogni grande gruppo percorre gli stadi della giovinezza, della maturità e della vecchiaia, potevamo negare che fosse possibile scorgere in tale sequenza le forze motrici capaci di spiegare i singoli fatti così riassunti. Se noi ora sentiamo tuttavia che a questo tipo di asserti è inerente un qualche significato di verità – a prescindere dalla contestabilità del loro contenuto specifico –, se l’immagine dello sviluppo storico ci si presenta innumerevoli volte attraverso concetti di questo tipo, con tutto ciò viene alla luce un’esigenza conoscitiva che non coincide più con quella della causalità immediata, elementare. Infatti, una volta avvenuta la riorganizzazione dei singoli eventi concreti in questi concetti storici più elevati, si modificano anche quelle connessioni con cui da essi si ricava una conoscenza» (Ib., pp. 104-106).

«Considerando nel loro insieme i pensieri qui esposti, si corre facilmente il rischio di vederli centrati su un orientamento scettico. Fin dall’inizio si è limitato il concetto di “storia” a ciò che non si può immediatamente constatare, ossia ai processi psichici. Si è mostrato che questa uguaglianza di natura tra soggetto e oggetto della storiografia non porta a una coincidenza di questa col contenuto della conoscenza; che il conoscere non significa affatto un meccanico parallelismo con l’oggetto, ma è piuttosto un processo variamente mediato che ha col suo oggetto le più svariate relazioni – del tutto indipendentemente dal fatto che questo oggetto sia esso stesso spirito, anzi marcando proprio con questa unità sostanziale l’autonomia funzionale del conoscere e della sua validità. Abbiamo visto inoltre che i tipi e i concetti in cui ogni storiografia deve fissare l’accadere reale, le sintesi delle varie sequenze in fenomeni complessivi di grado più elevato: tutto ciò viene a costruire un regno del conoscere la cui peculiarità non potrebbe essere rimpiazzata neppure dalla conoscenza più esatta degli elementi singoli nella loro realtà e causalità. In questi innumerevoli problemi la storia si discosta nettamente dalla realtà immediatamente data o vissuta, che siamo soliti designare semplicemente come la “realtà”. Che però con quei problemi la storia non raggiunga tale realtà, ciò non significa un venir meno delle sue forze, un non-potere, bensì un non-volere, una direzione originariamente diversa, una costruzione basata sugli stessi materiali che compongono la realtà come può essere colta nei suoi particolari, ma secondo altre dimensioni e altro stile. L’organizzazione complessiva dell’immagine della storia si è infine rivelata dipendente da idee e interessi meta-teorici. II senso della storia, senza il quale non ci saremmo sentiti indotti a delineare quell’immagine, viene a essa conferita da quei presupposti che la distinguono qualitativamente dal “puro fatto”, così come lo fa quantitativamente la necessità di una selezione dal complesso totalmente coordinato degli eventi oggettivi. Considerare tutto questo come una sorta di rassegnazione non sarebbe più sensato del voler muovere all’arte l’accusa di non raggiungere la realtà, mentre proprio in questa distanza risiede tutto il suo diritto all’esistenza: certo non nell’aspetto negativo del non-raggiungere, ma nella costruzione positiva, dotata di valori misurati secondo criteri propri, e non in base alla grandezza di quella distanza. La concezione qui sostenuta può apparire scettica solo se si pretende dalla storia ciò che per essa è del tutto contraddittorio: ossia di descrivere le cose “così come sono realmente state”, – una pretesa che non coincide affatto con l’esigenza della verità, perché fa di un rapporto funzionale una concordanza meccanica» (Ib., pp. 167-168).

Rinaldo e la Chanson de geste

Non è tanto una sortita nel leggendario fantastico – arenatosi in un probabilismo e fortemente disumanizzante –, quanto il fatto che la narrativa e il teatro avvertono di dovere recuperare dal passato quelle presenzialità mitiche che continuano a esercitare vive suggestioni. L’ostacolo che però si contrappone alla riproposta di fatti e personaggi eternati nel “tipo”, è costituito dal naturale rigetto della modernità, quando non si riesce a inserirli nel tessuto sociale come elementi attivi di un’avventura cui l’uomo-gente possa aderire e partecipare. Che ci rimane da vivere nel mito di Ulisse o di Enea, di Carlo Magno e dei paladini, se queste figure sono uscite dalla problematica del nostro tempo, se nessuno in questo 1975 trova più modo di investirsi della drammaticità di Achille o di Orlando? I loro itinerari tipologici sono stati tutti coperti e non stimolano più ricognizioni entro noi stessi. Eppure è di appena un secolo fa lo scoprimento, in Sicilia, dell’epopea paladina che, trasferita nella rappresentazione dei “pupi”, ha reso possibile il perdurare nel popolo di un’avventura, di per sé deteriorata, costitutiva di un’etica, richiesta dal particolare momento storico, corrispondente al bisogno di far trionfare la giustizia, nella quale venivano a evidenziarsi motivi, aspirazioni, norme comportamentali di un modus vivendi che opponeva resistenza al patimento esistenziale. Un’etica sorta nella dimensione del mito e per molti versi, dunque, extralegale o addirittura antilegale, come proveniente da una remotissima ma inalienabile istanza, ridestata per la ricomparsa di archetipi immutabili, riempibili di cronaca quotidiana. Il popolo siciliano, attraverso l’opera dei “pupi”, veniva a partecipare al gioco della storia, confondendola nel suo segreto farsi con il leggendario. Vivificata la ragione poetica dalla ragione sociale, il pupo, diveniva emblematico attore di avvenimenti che, pur restando reiterazioni fantastiche, assumevano valore di perennità.

Scrive Mircea Eliade: «L’uomo diviene consapevole del sacro perché il sacro si manifesta come qualcosa di completamente diverso dal profano. Per designare l’atto attraverso il quale il sacro si manifesta abbiamo proposto il termine “ierofania”. È un termine appropriato, perché non implica null’altro che quello che dice; non esprime nulla di più di quanto implichi il suo significato etimologico, e cioè che qualcosa di sacro si mostra a noi. Si potrebbe dire che la storia delle religioni – da quelle più primitive a quelle più progredite – è costituita da un gran numero di ierofanie, da manifestazioni di realtà sacre. Dalla ierofania più elementare – la manifestazione del sacro in oggetti comuni, come una pietra o un albero – alla ierofania suprema (per il cristianesimo, l’incarnazione di Dio in Gesù Cristo) non vi è soluzione di continuità. In ogni ierofania ci si trova di fronte al medesimo atto misterioso: qualcosa che appartiene a un ordine del tutto diverso, una realtà che non appartiene al nostro mondo si manifesta in oggetti che sono parte integrante del nostro mondo naturale “profano”. L’uomo occidentale moderno prova un certo disagio di fronte a molte manifestazioni del sacro. Trova difficile accettare il fatto che, per molti esseri umani, il sacro può manifestarsi, ad esempio, nella forma di una pietra o di un albero. Ma non si tratta in verità di una venerazione della pietra in quanto tale, di un culto dell’albero in quanto tale. L’albero sacro, la pietra sacra non sono adorati come pietra o come albero; sono venerati proprio perché ierofanie, perché in essi si mostra qualcosa che non è più pietra o albero, ma il sacro, l’“interamente altro” (ganz andere), secondo l’espressione di R. Otto. Non si sottolineerà mai abbastanza il paradosso rappresentato da ogni ierofania, anche la più elementare. Manifestando il sacro, un qualsiasi oggetto diviene “qualcosa di diverso” pur rimanendo quello che è, perché continua a far parte dell’ambiente cosmico che lo circonda. Una pietra “sacra” resta una “pietra”; in apparenza (o, più esattamente, sotto l’aspetto profano), nulla la distingue da tutte le altre pietre. Ma per coloro cui la pietra si rivela sacra, la sua realtà immediata si tramuta in una realtà soprannaturale. In altre parole, per coloro che vivono un’esperienza religiosa tutta la natura è in grado di rivelarsi come sacralità cosmica. Il cosmo nella sua globalità può diventare una ierofania. L’uomo delle società arcaiche tende a vivere il più possibile nel sacro o in prossimità di oggetti consacrati. Questa tendenza è perfettamente comprensibile, perché, per i primitivi come per l’uomo di tutte le società premoderne, sacro equivale a “potenza” e, in ultima analisi, a “realtà”. Il sacro è saturo di “essere”. Potenza sacra significa realtà e al tempo stesso permanenza ed efficacia. La polarità sacro-profano si esprime spesso come opposizione tra reale e irreale o pseudoreale. (Naturalmente, non ci si può aspettare di trovare nelle lingue di società arcaiche questa terminologia filosofica: reale-irreale, ecc.; ma si trova la “cosa”). È perciò facile capire perché l’uomo religioso desidera profondamente “essere”, partecipare della “realtà”, impregnarsi di potenza» (Voce Religione, “Enciclopedia del Novecento”, Roma 1975, p. 123). Queste riflessioni sono indispensabili per capire il funzionamento della fantasia popolare che sollecita, direttamente nella rappresentazione teatrale dei “pupi”, l’evolversi della trama, tutto ben al di là dei testi più o meno originari.

Quando nel 1861 il teatro dei “pupi” armati giunge da Napoli in Sicilia, gravido di quasi mille anni di epopea, offre lo spunto per fare emergere dal fitto delle narrazioni proliferatesi attorno alla Chanson de geste, delle caratteristiche sostanziali in diretto conflitto con la situazione post-risorgimentale, che trova il popolo siciliano, come di consueto, tradito nelle sue malriposte aspettative. Ricostituire il carattere intransitivo di questo o di quel personaggio, esaltare questa o quella gesta, significava manifestare un giudizio positivo, collegato per larghe linee agli avvenimenti di quegli anni travagliati. La materia dell’epopea carolingia veniva, pertanto, rielaborata e adattata nel segno di una presa di posizione perentoria. Ha giustamente scritto Guy Debord: “In ultima analisi, non è né il talento né l’assenza di talento, e neppure l’industria cinematografica o la pubblicità, è il bisogno che si ha di essa a creare la star. È la miseria del bisogno, è la vita squallida e anonima che vorrebbe dilatarsi alle dimensioni della vita del cinema. La vita immaginaria dello schermo è il prodotto di questo bisogno reale. La star è la proiezione di questo bisogno”.

Del resto, il romanzo cavalleresco ha sempre mosso le sue trame nel contesto della storia, tendendo a rappresentarla come avrebbe dovuto essere e non certamente come è stata. Le finalità del cantore di gesta sono sempre state dettate da scelte che riflettono la momentaneità dell’assetto politico-sociale, subordinate al volere del potere dominante (centrale o locale) ma tenendo anche conto del pubblico dei lettori o degli ascoltatori. Così Nicola Abbagnano: «Dalle dottrine filosofiche che si sono succedute nei secoli, l’uomo è messo in possesso degli strumenti indispensabili per intendere e interpretare se stesso e il mondo e assumere l’atteggiamento del vero filosofare, cioè dell’autentico esistere. Ma le dottrine sono mezzi e non fini. Esse offrono all’uomo un aiuto efficace, ma non sono tutto. Da ultimo, l’uomo, l’uomo singolo, deve decidere. La vita gli pone continuamente domande, alle quali deve rispondere. Ogni sua azione di qualche rilievo è una risposta. Per ognuna di queste risposte il mondo esce un po’ dalla nebbia e prende una certa forma di fronte a lui. Rifiutarsi di rispondere è ricacciarlo nella nebbia. Alla filosofia l’uomo può e deve chiedere di comprendere un po’ meglio se stesso; e gli uomini di intendersi un po’ meglio tra loro. La comprensione di sé, l’intelligenza reciproca fra gli uomini, sono a fondamento di ogni opera, di ogni lavoro umano; e costituiscono la trama, di cui è tessuta la vita quotidiana del singolo, come la vita storica dell’umanità. A nulla gioverebbero le esperienze più dure, i dolori e le tragedie, se gli uomini non dovessero derivarne un insegnamento; e tale insegnamento la filosofia sola può formularlo, traendo dalle esperienze della storia l’incentivo per una più profonda e più umana comprensione dell’uomo» (Introduzione all’esistenzialismo, Torino 1957, pp. 14-15). Questo spiega perché il popolo minuto non assurge mai al rango di protagonista. Ma, al di là di ogni attribuzione poetica, derivata dalla morale e dalla politica contingente, nella fase memorizzante è sempre il popolo il destinatario di ultimo appello. Il mutare delle attribuzioni dei personaggi, anche se assumono nella successione dei fatti comportamenti contrastanti, non sposta il giudizio finale delle masse popolari. In maniera penetrante Ernst Bloch: «Esso [il consenso] giunge dal basso, è libero nei confronti della nostra storia e dispone in maniera libera e uguale per tutti. Questo andare avanti non è certo ancora possibile nell’establishment borghese e neppure in tutti quelli a metà zaristi e a metà socialisti, anche se ogni autorità divenuta repubblicana deve prestare il suo servizio delle labbra davanti al popolo di cui pro forma si fa serva. Tutte le monarchie sono scomparse, e le poche eccezioni si sono fatte inoffensive; il vertice dell’autorità non è più legittimato dalla presenza di un signore celeste. Qui è soprattutto importante il fatto che per l’Io-Padre non risuoni più, neppure nell’istituzione dello Stato, il glorioso kling-klang che le monarchie rivolsero verso il più alto dei cieli a beneficio dei loro sudditi, ricavandone un così grande vantaggio sia per il suo riflesso che per l’ideologia; ma proprio questa rendeva credibile agli schiavi abituali, se pur senza bisogni religiosi, la sua immagine speculare in cielo. Vera immagine speculare, con il sovrano che si riflette nell’altissimo ed insondabile consiglio, con lo squillante coro di lodi riflesso nella corte di angeli privi di volontà» (L’Ateismo nel cristianesimo. Per la religione dell’Esodo e del Regno, tr. it., Milano 1972, pp. 25-26). Perdersi e ritrovarsi, in fondo è questo il compito della rappresentazione artistica, un suggerimento ai miseri e una panacea prestata loro per conto del potere.

Ad esempio, un Carlo Magno, glorificato nella prima Chanson de geste come fondatore e ordinatore dell’Impero, non perde la sua dignità neppure dopo che il mondo borghese e mercantile della Toscana del 1400 si rende dissacratore del principio, ancora presente in Dante, dell’investitura imperiale per volere divino. L’epopea, dunque, diviene per il popolo storia familiare, quella non definitivamente accaduta ma che accade ogni giorno, che si ripresenta nelle sue componenti sostanziali in ogni atto e personaggio della realtà presente. Di volta in volta Carlo e i paladini, Gano e i Magonzesi, i Saraceni e i Pagani prendono l’aspetto di questo o quel re, di questo o quel signore, di questo o quel ministro, di questo o quel nemico, e ne sorge un continuo raffronto, come una consecutio che si dispiega infinitamente. Ancora Bloch: «Non si deve certo più usare un nome divenuto dannoso: altrimenti esso risveglia opinioni false che confondono, e per sgombrarle occorre poi un lavoro superfluo. Non si deve versare il vino nuovo negli otri vecchi, neppure in quegli otri che non è possibile cambiare, e che un tempo andavano così bene. Il loro tempo è passato e anche la parola metafisica sembra ormai diventata storica e corrotta. Per di più sfortunatamente sotto questa etichetta furfanti fascisti come Rosenberg hanno venduto le loro sudicerie, e collaboratori fascisti come Jung e Klages hanno smerciato cose pseudo-originarie, prese dall’oggi, ma evidentemente vecchie» (Ib., p. 26).

Se si considera che il nucleo centrale del romanzo cavalleresco affonda le sue radici in un episodio marginale dell’Alto Medioevo, che peraltro viene abbondantemente alterato già alla fonte, appare chiaro come il formarsi del mito paladino, e il suo inesauribile accrescersi di dettagli, derivi da una richiesta politico-religiosa, ma parimenti popolare, che nell’interpretazione poetica vuole fissare i termini dell’ineluttabilità storica alla luce di una “vera” giustizia discriminatrice del bene dal male. La qualità è un fine non è un mezzo. Così precisa Bloch: «Nel suo levarsi che trascende essa non può ricevere elemosina, non può avere alle spalle l’umana nullità imposta dal cosiddetto peccato originale, non può essere sovrastata dalla grazia dominatrice che non solo secondo Lutero è immeritata. Certamente dove vi è speranza ivi è anche religione, ma dove vi è religione non è presente una speranza che non sia trasposta ideologicamente, che sia edificata dal basso verso l’alto. Speranza, in che cosa? Alla questione senza dubbio non solo le parti teocratiche della Bibbia continuano a dare alle pure nature l’eterna risposta, e gioia eterna sarà sul loro capo. Essa risplende de profundis, e la luce umana del tutto viene utopicamente svelata, scaturendo quivi chiarissima dal de profundis dell’umana profondità e non dell’umana bassezza. Il sogno di una cosa, proprio in questa sua estrema conseguenza utopica e quindi apocalittica, emergerebbe dunque dalla linea della speranza che più gli è propria, e nel peggiore dei casi, quando cioè gli è più estranea ed eteronoma, si risolverebbe in una fantasia» (Ib., p. 324).

Per farsi ritenere degna di credibilità ogni vicenda cavalleresca deve fingere di riferirsi al reale, di partire dal documento, anche se l’intento è quello di travisare gli accadimenti da cima a fondo. D’altra parte, se il mito non sorgesse dall’oscurità del passato per appartenere, però, alla modernità, non potrebbe assumere valore di evento meraviglioso, in grado di operare sulla storia una purificazione etica e di prospettare emblematiche indicazioni per la modificazione dei fatti che concorrono a determinare la storia di domani. Ancora Mircea Eliade: «Il “tempo d’origine” di una realtà – cioè il tempo inaugurato dalla prima apparizione di quella realtà – ha valore e funzione paradigmatici. È questo il motivo per cui l’uomo cerca di riattualizzarlo periodicamente attraverso appropriati rituali. Ma la “prima manifestazione” di una realtà equivale alla sua creazione ad opera di Esseri divini o semi-divini; pertanto, recuperare il “tempo d’origine” implica la ripetizione rituale dell’atto creativo degli dèi. La riattualizzazione periodica degli atti creativi compiuti dagli Esseri divini in illo tempore costituisce il calendario sacro, la serie delle feste. Una festa si svolge sempre nel tempo originario. È proprio la reintegrazione di questo tempo originario e sacro che differenzia il comportamento dell’uomo durante la festa dal suo comportamento prima o dopo. Infatti, sebbene siano molti i casi nei quali i medesimi atti vengono compiuti sia durante la festa sia durante i periodi non festivi, l’uomo religioso crede di vivere in un “altro” tempo, di essere riuscito a ritornare al mitico illud tempus» (Voce Religione, op. cit., p. 123). È sulla scorta di queste chiarificazioni che si comprende meglio perché Carlo Magno, Orlando, Oliviero, Gano, possono ben coincidere con Vittorio Emanuele II e Garibaldi, Nino Bixio e Cavour.

In effetti ogni invenzione poetica appartiene al suo autore letterario più per quanto riguarda le finalità perseguite che per la trama e i personaggi di cui si serve. Un personaggio, per quanto inventato, ha sempre una sua matrice storica o mitologica, comunque è sempre il derivato di una richiesta di pochi o di molti che vogliono essere tipicamente rappresentati. L’autore che ne organizza la rappresentazione è in ogni modo l’unico interprete della loro funzione sociale, e in tal senso non subisce altro stimolo e influsso se non nell’operare la scelta dei motivi ritenuti più idonei a concludere la vicenda in una prospettiva che, pur mostrando di fissare un avvenimento del passato, fa vedere come direttrice di eventi futuri. Non importa se deve ricorrere ad anacronismi facilmente rilevabili, se accanto al personaggio presumibilmente vissuto nella realtà di un’epoca altri se ne affiancano non esistiti, se temporalità e geografia vengono mescolate ed equivocate senza alcun apparente nesso logico, se il meraviglioso rischia di sconfinare nel paradosso. La credibilità delle gesta e dei suoi personaggi si deve soprattutto alle condizioni antistoriche, ideali, che vengono a coagularsi attorno a un’aspirazione generica, che l’autore fa sua e trasfigura realizzandola artisticamente con la più sicura assolutezza. In questo senso sono da leggere le recriminazioni di Alcibiade: «Amici, se non temessi di apparire veramente ubriaco, vi racconterei sotto giuramento quali cose appunto ho subito io stesso ad opera dei discorsi di quest’uomo [Socrate] ed ancor oggi subisco. Infatti, quando lo ascolto, molto più che ai coribanti il cuore mi palpita e mi sgorgano le lacrime per effetto dei suoi discorsi e vedo che anche moltissimi altri provano le stesse cose, mentre quando ascoltavo Pericle e altri bravi retori, ritenevo che parlassero bene, ma non provavo niente di simile, né la mia anima era messa in subbuglio, né s’irritava pensando che io mi trovassi in una condizione da schiavo, anzi ad opera di questo Marsia qui sovente mi sono trovato in una condizione tale da credere di non poter più vivere nello stato in cui sono. E questo, Socrate, non dirai che non è vero. Anche adesso sono consapevole che, se volessi prestargli orecchio, non resisterei e proverei le stesse cose, perché egli mi costringe ad ammettere che io, pur essendo bisognoso di molte cose, non mi curo ancora di me stesso e mi occupo, invece, degli affari degli Ateniesi. Con violenza allora, come dalle Sirene, tappandomi le orecchie me ne scappo via, per non finire di invecchiare seduto nello stesso luogo vicino a lui. Solo di fronte a quest’uomo ho provato ciò che nessuno crederebbe presente in me, il vergognarsi davanti a qualcuno. Ma io di lui solo mi vergogno, perché sono consapevole di non essere in grado di contestare che non si debba fare ciò a cui egli invita e di lasciarmi vincere, invece, non appena ne sono lontano, dalla considerazione dei più. Lo evito, dunque, e lo fuggo come uno schiavo in fuga e, quando lo vedo, mi vergogno delle mie precedenti ammissioni. E spesso volentieri non lo vedrei più esistere tra gli uomini; ma d’altra parte se ciò avvenisse, so bene che ne sarei ancor più abbattuto, sicché non so proprio che farmene di quest’uomo» (Platone, Simposio 215d-216c). L’autore (o gli autori?) della Chanson de geste era perfettamente consapevole di unificare i tempi e i luoghi dei fatti accaduti durante due secoli, talora di sovvertirne date ed azioni; ma appunto per questo era altrettanto consapevole di fornire una vicenda emblematica capace di rappresentare come già realizzata un’attesa che in quel momento era sollecitata tanto dalla Chiesa quanto dalla monarchia francese, tanto dai piccoli vassalli “senza terra”, quanto dalle masse povere urbane e agricole affamate. Così come, in seguito, gli autori del ciclo rinaldiano, pressapoco a distanza di un secolo, saranno consapevoli di dovere fornire delle vicende e dei personaggi adeguati alle richieste delle nuove condizioni feudali. È dunque l’autore che inventa e determina le vicende e i personaggi che entreranno a fare parte del mito. Ma quando vicende e personaggi diverranno patrimonio popolare, rimarranno gli stessi, fedeli all’originale, aderenti all’invenzione poetica? E dato che, da un’epoca all’altra, vicende e personaggi saranno adibiti a versioni differenti, quali di essi rimarranno?

Il mito è un prodotto della conservazione e tale rimane anche col mutare della sua ricetta costitutiva. Il gusto letterario, però, muta non soltanto col mutare delle condizioni e delle concezioni di vita, ma col mutare del linguaggio e delle forme dell’artificio artistico. Precisa Armando Carlini: «La pura esistenza di valore contiene già in sé tutte le ragioni dell’esistenza, anche di fatto, senza presupporre, quindi, altro. Il valore, qui, è libertà assoluta: non solo come liberazione da ogni esteriorità, ma anche dall’interiorità condizionata a questa nella sintesi esistenziale di fatto (per es., nell’arte). Non è questione, dunque, soltanto di pensiero critico, ma anche di fede religiosa. Per chi possiede questa fede, lo svolgimento del mito incentrato nell’idea cosmologica è, insieme, un processo di approfondimento di sé in se stesso. Così corretta e ripensata criticamente, possiamo accogliere anche noi la mitologia del Neoplatonismo cristiano: come un invito rivolto all’atto, immanente nel mondo dell’esteriorità, a trascendere, non soltanto questo, ma anche se stesso nella propria interiorità (trascende et te ipsum): perché così soltanto esso troverà la verità di se stesso» (Lineamenti di una concezione realistica dello spirito umano, in Filosofi italiani contemporanei, Milano 1947, p. 247). Conservazione, ma non solo. Occorre guardare più a fondo, più lontano.

Il popolo subisce anch’esso il fascino della moda letteraria, ma più che recepirne i valori formali, lirici e stilistici, ne accoglie quelli fantastici. «La scienza è un processo molto complesso in cui intervengono anche altri fattori, oltre alla ricerca del massimo rigore. Si tratta di fattori che incidono soprattutto sulla creazione delle teorie e dei modelli esplicativi proposti per la razionalizzazione (cioè la spiegazione) dei vari fenomeni. Uno dei più interessanti fra questi fattori è la fantasia che si avvale in special modo del principio di analogia postulando che il nuovo fenomeno risulti analogo, almeno per alcuni aspetti, ad altri fenomeni già largamente studiati dalla scienza. Orbene anche la presenza di questo fattore contribuisce alla storicizzazione della scienza perché i fenomeni ai quali ci si può riferire in un’epoca sono diversi da quelli ai quali ci si può riferire in altre epoche; basti pensare alla utilizzazione che nei primi anni del nostro secolo si è fatta del modello planetario nello studio della struttura dell’atomo, utilizzazione che non avrebbe potuto venire fatta quando i moti dei pianeti venivano descritti con schemi del tutto diversi. Quando si parla del fattore fantasia, spesso si ritiene di introdurre un riferimento all’intuizione, ma la cosa non è del tutto esatta, perché l’intuizione vuole essere un processo che in certo modo ci trascina fuori del tempo; o così almeno è stata di solito presentata dai metafisici. Al contrario la fantasia scientifica non opera se non nel tempo, con strumenti (immagini, ecc.) che hanno una precisa collocazione temporale. L’intuizione intende rivelarci qualcosa di assoluto, e proprio perciò privo di sviluppo, mentre la fantasia produce immagini collocate nel tempo, che non hanno alcuna pretesa di assolutezza perché sono flessibili, correggibili, sempre in movimento. E proprio tal confusione tra fantasia e intuizione che ha prodotto molti gravi equivoci nella filosofia della scienza» (L. Geymonat e G. Giorello, Le ragioni della scienza, Bari-Roma 1986, p. 7).

Non vi è episodio in rima o in prosa, scritto per tramandare vita, gesta, amori e morte di Carlo Magno, Orlando, Rinaldo, Gano e tanti altri, che non abbia trovato una sua collocazione episodica nell’inesauribile romanzo dei Paladini di Francia, dove finiscono per convivere personaggi inventati nell’XI secolo con altri inventati nel XVII secolo; anzi, il più delle volte, i progenitori dei personaggi apparsi tanti secoli prima, vengono scoperti e individuati nella più tarda produzione di questo genere. Perché, in sostanza, tutta l’epopea paladina è incentrata sulla necessità di andare a ritroso per indagare e chiarire i retroscena preparatori della grande tragedia finale che si compie nella sconfitta di Roncisvalle, punto di confluenza di quasi tutte le storie successive alla Chanson de geste, in cui l’autore si sofferma a descrivere i nomi delle spade e dei cavalli di ciascun cavaliere, il numero delle schiere, i colori dei vessilli, ma tace riguardo la genealogia anche dei maggiori protagonisti; mentre fa intravedere chissà quali intrighi nei rapporti familiari tra Orlando e Gano, figliastro e patrigno, rispettivamente decisi alla rovina l’uno dell’altro. Anche di Carlo Magno – che assume tutte le memorie del nonno Carlo Martello, del padre Pipino il Breve, di Ludovico il Pio e di Carlo il Calvo, nonché quelle presenti e future di ogni grande difensore della cristianità e propugnatore di crociate contro gli infedeli di Spagna, d’Africa e d’Asia (tanto che l’autore della Chanson gli accredita la bella età di 250 anni) – non si sa nulla circa la nascita (infatti, era bastardo, non figlio di Pipino e, quindi, per nulla discendente da Carlo Martello), la fanciullezza, la prima giovinezza; come non si sa nulla della discendenza di Orlando, e nessun riferimento storico o leggendario si conosce del suo saggio compagno Oliviero; non si ha alcuna notizia su Gano il quale, a rigore di logica, non può essere nemmeno il capostipite della gente di Magonza (presumibilmente Mayance, città tedesca nella regione Renania-Palatinato), per il semplice fatto che l’unico personaggio illustre della gente di Mayance nella Chanson è un Anthelme (Anselmo), a cui Carlo affida il compito (insieme a Namo di Baviera e a Jozeran di Provenza) di ordinare le schiere, quando si accinge a passare al contrattacco per vendicare la strage di Roncisvalle, subito dopo che il tradimento di Gano è stato scoperto. È assurdo, infatti, che Carlo Magno affidi un compito tanto delicato al vassallo di un traditore riconosciuto. A dare spiegazione di tanti perché faticheranno fino ed oltre il XIV secolo gli autori dell’epopea carolingia. Il fatto è che la Chanson fu produzione letteraria di sicura marca clericale e segna il trapasso dalla storia della vita dei Santi Martiri a quella dei Santi Eroi della Croce di Cristo, architettata e orchestrata su moduli drammatici ispirati alla tradizione classica, biblica e agiografica. Per cui Oliviero serve a rappresentare l’alter ego di Orlando, e Gano l’alter ego di Carlo Magno. Si può addirittura supporre che Ganelone, dispregiativo di Gano, non sia mai esistito, ma che indichi genericamente il principale rappresentante di ogni più forte famiglia rivale della monarchia, la figura su cui riversare tutto il male di cui viene purgato Carlo Magno. Ma se è il capostipite di una ipotetica schiatta di feudatari ribelli, la più numerosa e temibile – se si tiene conto che il consesso dei Grandi di Francia, nella Chanson, respinge la personale richiesta dell’imperatore di condannarlo a morte – Gano è innanzitutto il Lucifero della tradizione religiosa. Egli è il più bello, il più ardito, il più fiero e robusto dei baroni di Carlo. Come Lucifero, mitizzato negativamente, è diventato il sovrano delle forze del Male, così Gano è destinato a divenire il traditore per eccellenza, il colpevole di ogni errore e crudeltà commessi da Carlo. Per chiarire ogni punto oscuro della Chanson bisogneranno motivazioni puntuali, date, luoghi, fatti, nomi, che saranno offerti alla curiosità del lettore da un nugolo di autori talvolta più fantasiosi di Turoldo, anche se meno dotati artisticamente. Così Georg Simmel: «Tutta l’incertezza dell’intellettualità moderna, anzi della stessa esistenza moderna, la sua aspirazione che non è mai soggettivamente priva di scopo, ma ne rimane sempre lontana, non poteva esprimersi con più forza, anzi – se Kant permette questo concetto – con più passione, di quanto traspaia nel fatto che egli, il cui cuore batteva tutto dal lato delle verità compiute della matematica e delle proposizioni a priori, negava tuttavia a queste ultime un valore autonomo per il coglimento spirituale della piena realtà effettuale. Questo valore egli piuttosto lo affidò alle nozze tra quella apriorità e l’immagine sensoriale soggettivo-casuale, il cui diritto, quasi morganatico, ha ereditato, invece della perfezione, la capacità di evoluzione. In questa affermazione circa l’essenza di ogni conoscenza in generale è anticipato il moderno concetto di evoluzione; per la sua forma più profonda e onnicomprensiva, il conoscere ha già acquisito quel carattere i cui contenuti sarebbero stati maturi soltanto circa un secolo dopo. Questa soluzione del problema della conoscenza si inquadra in un diverso tipo di sintesi storico-spirituale. Era stata proprio la percezione, che procura innanzi tutto contenuto e significato alla conoscenza, a impedire che quest’ultima acquisisse validità e obiettività incondizionate; e d’altro lato: proprio le categorie e i princìpi fondamentali dell’intelletto, ossia quell’elemento della conoscenza che conferisce a ogni percezione obiettività e validità più che momentanea, si riducevano di per se stesse a una vuota formula, capace di rendere possibile la conoscenza soltanto quando scende dalla sua altezza e si riempie della casualità dei contenuti sensoriali. E ciò rientra proprio in quel grande tipo delineato da Platone: nessuno degli dèi si dedica alla conoscenza, perché essi possiedono già il sapere; e anche tra i totalmente ignoranti nessuno lo fa, perché non ha alcun desiderio di sapere; se i filosofi non sono dunque né del tutto ignoranti né del tutto sapienti, essi saranno evidentemente quelli che mediano fra questi due estremi. I problemi più profondi della vita assumono per noi questa tipica forma. I fenomeni psichici carichi di destino, pieni di valori, ci vengono incontro come delle unità con le quali, a tutta prima, la nostra coscienza non sa, per così dire, cosa fare; per immedesimarcisi, per lasciare che il loro senso si riproduca dentro di noi, traiamo fuori da ciascuno una dualità di elementi che, rappresentati nella loro unilaterale assolutezza, danno, attraverso modificazioni reciproche, il fenomeno concreto, che appare quindi come una mescolanza o un medio di quegli estremi. Così l’evoluzione del mondo si presenta come la lotta fra Dio e il diavolo, Ormuz e Ahriman; così si interpreta l’esistenza sociale come la risultante di un istinto in sé puramente individualistico e di uno in sé puramente sociale; così infine portiamo queste formazioni unitarie dell’arte, della educazione e del linguaggio, a una tale prossimità, da far sorgere, accanto all’interesse per il loro puro contenuto, l’interesse per la loro pura forma, e cogliendo soltanto nella sintesi di entrambe la significatività del tutto. Sia pur questo un circolo e una finzione, che da qualcosa di unitario e delimitato comincia con l’estrarre un doppio assoluto, per riconquistare il primo attraverso questa doppia limitazione, – il fatto fondamentale della vita organica superiore è tuttavia certamente che solo dalla mescolanza di due potenze contrapposte scaturisce una nuova unità vitale; e in ogni caso sembra che sia la formula inevitabile del nostro tipo spirituale quella di assimilarci intellettualmente all’unità delle cose a cui non abbiamo un accesso diretto. Così Kant ha per primo sottomesso l’intellettualità alle sue proprie leggi. Ha conferito al processo conoscitivo la più salda unità, accessibile all’intelletto, riconoscendo entrambi gli elementi che prima tale processo alternativamente rivendicavano a sé, come gli estremi in sé irreali, la cui fusione e reciproca azione genererebbe l’unica conoscenza legittima» (Kant. Sedici lezioni berlinesi, tr. it., Verona 1986, pp. 108-109). Queste considerazioni teoriche sono ovviamente molto distanti dal pratico artificio contestualizzante di chi lavora per l’arte, in modo particolare per il teatro, ma non possono essere tenute da canto, in quanto hanno influenza sul modo in cui si concepisce lo scontro tra individuo e società, particolarmente sentito dalla povera gente siciliana.

Quando appariranno i quattro figli di Amone, per inserire nel ciclo il più prestigioso di essi, Rinaldo, occorrerebbe procurargli un documento ben circostanziato: parentela con Orlando (sono cugini perché i loro padri, Amone e Milone, sono fratelli) e tali trame e intrighi da farlo apparire il giusto campione della ribellione. A loro volta, gli autori obbligati alla difesa della monarchia cercheranno di recuperarlo facendolo divenire un ubbidiente servitore di Carlo; mentre gli autori clericali, in extremis, lo guadagneranno alla causa della Chiesa, santificandolo. Particolari curiosi: Rinaldo proviene dalle Ardenne; Gano da Magonza, presupponendogli una discendenza di stirpe germanica, figura signore di Pontieri, nella Piccardia. Ardenne e Piccardia sono confinanti. L’odio fra le famiglie dei due, Chiaramontese e Magonzese, è dunque spiegato. Rinaldo diventa principe di Montalbano: Montauban si trova in territorio Basco; i Baschi, e non i Saraceni, distrussero nella valle di Roncisvalle la retroguardia dell’esercito franco. Rinaldo non entrerebbe mai, in nessun romanzo del ciclo, fra i caduti nella valle. Sono baschi i banditi che Rinaldo capeggia quando spoglia regnanti e cardinali alleati di Carlo. Alla base di questa logica ci sta il rifiuto dello Stato o, meglio, la condanna della “ragion di Stato”. Ecco come descrive questa brutta bestia Gerolamo Graziani:

«Intorno a lei stava il drappel raccolto,
ch’agli officii del Tempio era sacrato;
ed essa, in trono eccelso e d’ostro avvolto,
lieta sedea con due compagni a lato.
Cela il perfido con placido volto,
lusinga il riso ed avvelena il fiato,
mira quel che non vuol l’occhio mendace,
ha parole soavi e man rapace».

(Conquisto di Granata, Modena 1650, I, 90).

Man mano che il romanzo cavalleresco si svolge per tutto l’arco del Medioevo e si infiltra attraverso nuovi eventi, assimilando gli umori del ciclo bretone, come pure del cantare amoroso e cortese delle corti di Provenza e di Aquitania, esso si accresce di motivi e di ambientazioni che affinano e arricchiscono di spiritualità, di simbolismo, di incantamento, la sovrabbondante materia carolingia; ma il filone diretto, quello popolaresco, che si tramanda in Italia tramite i franco-veneti romanzieri della Marca Trevigiana, conserva pressoché immutato il supporto originale della Chanson, anzi, nella sua rude essenzialità narrativa, tende a integrarlo ed a completarlo in un grandioso affresco che risale all’imperatore Costantino, dal cui ceppo si fanno discendere i progenitori di Carlo, mentre la stirpe di Gano trova la sua radice nel re Franco venuto in Gallia fuggendo da Ilo. Magie, stregonerie, vaneggiamenti sono quasi del tutto assenti, il sovrumano non invade la scena degli uomini, o comunque viene sottoposto all’esame rigoroso di una razionalità che ammette il potere delle erbe e dei veleni, raramente l’intromissione pagana del diavolo nelle faccende terrene, ma non la trascendenza.

Ancora sul tema dell’imperio assoluto, Prospero Bonarelli:

«Altra legge han costoro in dar la fede
E ’n osservarla, o figlia!
Non splende ella, non splende in fra di loro
Nell’immobile spera,
come dovria, della ragion sublime;
ma negli orbi più bassi ed inconstanti
de’ reali pensier la scorgi affissa,
ché del cerchio più rapido e possente
del proprio bene e di ragion d’Impero
son, con moto contrario al giusto moto,
come da primo mobile, rapiti».

(Il Solimano, Firenze 1620, I, 3).

In Andrea da Barberino, il più prolifico ed il più noto di questi romanzieri, la leggenda non si tinge mai di soprannaturale misticismo, è sempre compresa in un realismo secco e svelto, l’autore non indugia e non si compiace di stordire il lettore col prodigio se non per quel tanto che giustifichi l’inafferrabilità di taluni avvenimenti.

I rimatori toscani, che ne accoglieranno l’eredità, daranno nuova linfa all’epopea, una linfa sanguigna, e staccheranno la materia paladinesca dal surreale per restituirla alla festosità borghese e popolana fragrante di sensismo. Con essi Rinaldo si caratterizza in una carnalità che è esplosione di vita, di fantasia, di arguzia e di astuzia, in un’esaltazione dell’individuo che travolge ogni norma e legge limitative della libertà di farsi attimo per attimo nell’avventura d’armi, d’amori, d’audaci imprese (come apprenderà un secolo dopo l’Ariosto).

Pulci nel 1400 calcherà la mano sull’aspetto gioioso di questa letteratura dando al suo Morgante un carattere antideale, dilettevolmente iperbolico, come iperbolica è la fantasia dell’artigiano, del mercante, del popolo minuto. I toscani, peraltro, reagiscono a Beatrice e a Laura inventando una Bradamante polposa di modernità. Dalla duplice natura di guerriera e di amante, primo modello dell’eroina rinascimentale cui terranno dietro le Marfise e le Clorinde degli ulteriori poemi.

Intanto la cavalleria militaresca, com’era intesa nel Medioevo, germanica e normanna, non esiste più. Quella che appare nei poemi italiani del 1500 è una cavalleria sognata, evocata dall’area del meraviglioso. Le Signorie, costrette a chiudersi in brevi territori, aspirano a evadere dalla cerchia delle mura cittadine, come evadeva nel Basso Medioevo la feudalità dalla cinta dei castelli, a inglobare un mondo fantastico così vasto da straripare oltre i confini del reale. La poesia cavalleresca portava loro il mondo in casa come oggi la televisione lo porta al pensionato. Sicché, attraverso gli specchi della fantasia, ogni Signore vuol riprodotto in miniatura l’universo che l’accerchia, lo vuol vedere dipinto nelle sue stanze meravigliosamente. In questa sorta di reinvenzione si disserta sul senso del bello, del nobile, dell’eroico, del prodigioso, dell’occulto, dell’arcano, secondo il gusto della nobiltà; ma, per converso, ne discutono anche i ceti più bassi, riducendo la tematica agli elementi primari del comportamento cavalleresco in rapporto alle aspirazioni del vivere concreto. Il mondo paladinesco assume allora i toni e le motivazioni del circolo letterario, che però vengono corretti dal cantastorie quando lo comunica alle masse popolari. Scrive Hans G. Gadamer: «Che cos’è l’ermeneutica? Per rispondere a questa domanda vorrei prendere le mosse da due esperienze di estraniazione che incontriamo in campi rilevanti della nostra esistenza, e, precisamente, l’esperienza di estraniazione della coscienza estetica e quella della coscienza storica. La mia posizione può essere precisata con poche parole in entrambi i casi. La coscienza estetica attua la possibilità (che, come tale, non possiamo negare né di cui possiamo sminuire il valore) di assumere un atteggiamento critico o positivo nei confronti della qualità di un’opera d’arte, il che vuol dire, in ultima analisi, che sta al nostro giudizio decidere della forza espressiva e della validità di ciò che così giudichiamo. Ciò che respingiamo non ha nulla da dirci o lo respingiamo perché non ha nulla da dirci. Questo caratterizza il nostro rapporto con l’arte nel senso lato del termine che, notoriamente, come ha mostrato Hegel, include anche l’intero mondo religioso greco-pagano come religione dell’arte, quale modo di esperimentare il divino nella risposta plasmatrice data dall’uomo. Ora, quando questo intero mondo di esperienza si estrania in oggetto di giudizio estetico, perde evidentemente la sua autorità originaria ed indiscussa. Tuttavia dobbiamo ammettere che il mondo della tradizione artistica, la grandiosa contemporaneità con tanti mondi umani procurataci dall’arte, è per noi qualcosa di più di un semplice oggetto che possiamo liberamente accettare o respingere. Non è forse vero che ciò che ci ha afferrati come opera d’arte non ci lascia più la libertà di metterlo da parte e di essere noi a decidere se accettarlo o respingerlo? E non è forse vero che queste creazioni della capacità artistica dell’uomo, che durano attraverso i millenni, non sono state certo realizzate in funzione di una tale accettazione o rifiuto estetico? Nessun artista delle civiltà del passato a fondamento religioso ha mai approntato la sua opera se non con l’intento che fosse accolta e appartenesse al mondo in cui gli uomini vivono legati in comunità. La coscienza dell’arte, la coscienza estetica, è sempre una forma secondaria di coscienza, ed è secondaria rispetto alla pretesa immediata di verità che si sprigiona dall’arte. In questo senso, quando giudichiamo qualcosa in rapporto alla sua qualità estetica, si ha un’estraniazione di qualcosa che in verità ci è familiare in un modo molto più intimo. Una tale estraniazione in vista del giudizio estetico avviene sempre quando ci siamo ritratti, non ci siamo esposti all’appello immediato di quello che ci afferra. Perciò uno dei punti di partenza delle mie riflessioni è stato proprio il fatto che la sovranità estetica, che si fa valere nel campo dell’esperienza dell’arte, rappresenta un’estraniazione rispetto all’autentica realtà dell’esperienza che ci si fa incontro nella figura del messaggio artistico. […]. Il secondo modo di esperienza dell’estraniazione è quello che si chiama coscienza storica, quella grandiosa arte di diventare critici nei confronti di se stessi per quanto riguarda l’accettazione delle testimonianze del passato. La nota formula di Ranke che parla di “eliminazione dell’individualità”, esprime in modo divulgativo quello che è l’ethos del pensiero storico, e cioè il fatto che la coscienza storica si pone il compito di comprendere tutte le testimonianze di un’epoca, muovendo dallo spirito di quell’epoca, di metterle al riparo dalle preoccupazioni di attualità del presente, e di conoscere il passato, senza saccenteria moralistica, proprio nella sua qualità di passato dell’uomo. È un fatto ormai scontato nella nostra esperienza scientifica che i capolavori della ricerca storica, dove sembra aver trovato attuazione pressoché perfetta 1’autoeliminazione dell’individualità richiesta da Ranke, possono tuttavia essere riallacciati con assoluta sicurezza alle tendenze politiche del loro tempo. Quando ad es. leggiamo la storia romana di Mommsen, sappiamo chi soltanto può averla scritta, cioè in quale situazione politica del proprio tempo questo storico ha raccolto e ordinato le voci del passato in un racconto significativo. Lo stesso vale per Treitschke o per Sybel, per citare soltanto un paio di esempi molto caratteristici tratti dalla storiografia prussiana. Questo, anzitutto, vuol dire soltanto che il modo in cui il metodo storico concepisce se stesso evidentemente non esprime l’intera realtà della esperienza storica. È indubbiamente legittimo proporsi di mettere sotto controllo i pregiudizi del proprio presente sì da evitare di fraintendere le testimonianze del passato. Ma questo non esaurisce certo il compito della comprensione del passato e della sua tradizione. Potrebbe anche darsi – e seguire questa ipotesi è uno dei primi compiti che si pongono nell’esame critico del modo in cui la scienza storica concepisce se stessa – che soltanto le cose irrilevanti consentano di avvicinarsi, nella ricerca storica, a questo ideale di totale eliminazione dell’individualità, mentre le grandi opere, risultato di una ricerca storica feconda, conservano sempre qualcosa dello splendido incanto che viene dall’immediato specchiarsi del presente nel passato e del passato nel presente» (Die Universalität des hermeneutischen Problems, ns. tr., in Kleine Schriften, Tübingen 1967, pp. 101-103). Più o meno, con le limitazioni intrinseche a qualsiasi interpretazione, è quello che stiamo perseguendo in questo saggio.

Sulla scia della tradizione e della fortuna dei poeti al servizio dei Signori, sopravvengono numerosissimi i poeti cosiddetti minori, dalla cui fantasia fioriscono, aggrovigliandosi, personaggi e vicende di tutt’altro conio. Carlo, Orlando, Ugieri, Rinaldo, si vanno diversificando e moltiplicando in un fantastico carosello di tipi, per cui accade talora che alcuni di essi perdono lo smalto originario e devono far posto ai nuovi venuti. Ma, affinché l’invenzione abbia un senso ideale di continuità del passato, i principali fra essi resistono, spiccando sempre fra tanta proliferazione di figli, nipoti e parenti che vanno crescendo sul loro tronco.

Nel presente studio stiamo muovendo dall’eroe paladino al bandito sociale, esaminando le origini e gli sviluppi dell’epopea cavalleresca sino ai nostri giorni, in rapporto alla interdipendenza tra invenzione poetico-letteraria e reinvenzione popolaresca, e a spiegare come e perché il modello esemplare dell’eroe paladino, che diviene bandito sociale, sia rimasto definitivamente Rinaldo. La sua figura viene trasmessa ai pupari siciliani dell’Ottocento più dalla tradizione romanzesca del Trecento che dal poema del Cinquecento; ma essa arriva attraverso la versione ribellistica castigliana, per quanto di gusto aristocratico, quella della cortigianeria spagnola più propensa a simpatizzare per un principe dongiovannesco, avversario di Carlo Magno, che per un principe fattosi bandito sociale. È il Vicere spagnolo don Rodriguez Ponche de Leon duca d’Arcos che nel 1646 si porta dietro a Napoli il teatrino dei titeres (teatro dei burattini), per diletto suo e del suo nobile seguito. All’odiato cortigiano spagnolo lo sottrae il popolo napoletano, invaghitosi del mezzo tecnico della rappresentazione, della foggia e dell’aspetto di quei “pupi” armati. A essi il puparo applica i sensi ideali circolanti fra la sua gente. Ed ecco che quel Rinaldo spagnolesco, fine parlatore e seduttore, forbito cavaliere di cappa e spada, il più intellettuale fra i paladini, diventa lo spregiudicato, ardimentoso punitore di delitti che mette il suo braccio a servizio dell’inerme e del povero, e si batte contro il sopruso del potente e la violenza della legge, la quale trova in Gano il più spietato esecutore. E allora alcune trovate marginali, contenute nei poemi eroicomici dei secoli XV, XVI, XVII, assurgono a episodi di primissimo piano, dando modo di esaltare quelle che sono le virtù fondamentali di Rinaldo: la povertà, l’onore, il valore, la ribellione, il coraggio di spingere sino alle estreme conseguenze la sua audacia. Con esso si avvera infine il sogno di sconfiggere tutti i nemici del popolo, di scalzare dal soglio regale il vigliacco Carlo, di incoronare un eroe a furor di popolo. È questa, senza dubbio, la più azzardata dissacrazione cui giunge il poema burlesco, ma presso il popolo siciliano acquista un valore profondamente sociale, quello per cui la leggenda del mondo paladino attecchisce e trionfa in piena unità d’Italia. Oggi non c’è molto spazio, in pieni anni Settanta, per ricostruire questi sentimenti contrari all’appiattimento storico. Ecco come affronta l’argomento Alessandro Dal Lago: «Affermare che la nostra cultura è dominata dallo storicismo può sembrare una boutade o un vero e proprio abbaglio. Ogni apparenza indicherebbe, al contrario, la dissoluzione dei presupposti e dei pregiudizi storici del pensiero: le principali scuole filosofiche del nostro secolo – dall’esistenzialismo alla fenomenologia, per non parlare delle filosofie analitiche e scientifiche – si sarebbero edificate sulle rovine dello storicismo; proliferano oggi, nei linguaggi specializzati e nell’opinione pubblica, discorsi sulla natura impensabili solo quarant’anni fa le correnti più avanzate della teoria storiografica amano confondersi con le scienze umane, sistematiche o empiriche che siano. Ma si tratta appunto di apparenze, o meglio di effetti inconsapevoli dello storicismo. Se infatti nel secolo XIX dominavano le filosofie teleologiche della storia (con Hegel, Comte e Marx, soprattutto), il nostro tempo ha visto l’affermarsi di una rinuncia a qualsiasi senso o fine ultimo della storia, ma riconduce nondimeno le esperienze e gli eventi umani alla processualità della loro formazione, e quindi al loro carattere storico. In questo senso con storicismo non si deve intendere una specifica tendenza filosofica, o un effetto dell’accresciuta importanza della storiografia, ma uno stile di pensiero affermato nei campi più disparati della cultura. Così, per fare un esempio, le scienze sociali ed umane – ora che l’ondata strutturalistica si è ritirata – rivelano tracce cospicue della loro origine storicistica (in particolare della loro dipendenza dal Metho-denstreit del primo Novecento). I fatti, in sociologia come in molte scuole psicologiche e antropologiche, sono definiti dal loro carattere evolutivo, dal mutamento. Che oggi nelle scienze dell’uomo non si parli più di leggi significa soltanto che l’unica legge ammessa, implicitamente o esplicitamente, è quella dello sviluppo. Ma il problema non è limitato ovviamente alla filosofia o alle scienze umane: dopo che gli ideali umanistici o razionalistici di un progresso sensato dell’umanità sono caduti in discredito, il sentimento diffuso della nostra cultura è quello di un movimento inarrestabile eppure privo di direzione, di una sorta di corsa verso il niente. Metafore come erranza, declino, esilio – al di là della loro specifica accezione filosofica – esprimono bene il carattere non più storico, ma storicistico, della nostra cultura» (“L’autodistruzione della storia”, in “Aut-Aut”, n. 222, 1987, pp. 3-4). Che è considerazione interessante, anche se mi è stata di aiuto in tempi successivi alla prima stesura del presente lavoro.

A cospetto dell’umanità di Rinaldo, prototipo ineguagliabile del bandito sociale, gli altri paladini restano dei veri e propri “pupi”. Orlando fortissimo ma ottuso, nella sua adamantina onestà finisce per servire la disonestà di Gano; la figura di Oliviero inaridisce nel tipo del burocrate militaresco; Ugieri è una rimembranza stanca di una virtù cavalleresca in procinto di spegnersi. Soltanto Astolfo, il nuovo arrivato per la penna del Boiardo, arieggia e ricalca la personalità del cugino Rinaldo. Ma intanto si affina la figura dell’incantatore Malagigi, cugino di Rinaldo e figlio di Buovo e Lucietta di Aigremont, mentre il conte Gano scade al rango di volgare impostore.

Dall’immensa selva dei fatti narrati e cantati per nove secoli, si dipana la fittissima galleria di personaggi di cui dispone la letteratura, il puparo deve operare una sua scelta da proporre al pubblico, deve plasmare caratteri che nel corso delle svariate vicende non subiscono alterazioni incompatibili con lo svolgersi dell’unica grande stesura rappresentativa. Rendendosi spettacolo, parola e gesto, immagine corposa, il romanzo cavalleresco subisce una verifica che lo libera da ogni incongruenza. Il puparo, portando la vicenda sulla scena, qualunque essa sia, a qualsiasi epoca risalga, deve fare in modo che i personaggi vi si ambientino senza venire meno alle loro virtù, ai loro difetti, alle loro abitudini e attitudini, a quello che è il loro comportamento prefigurato nella leggenda: per cui debbono agire e reagire osservando una rigida condotta consequenziale, che non sopporta le differenziazioni subite passando dalla Chanson de geste ai romanzi del 1300 e ai poemi del 1400, del 1500 e del 1600, dove giocano il gusto, il linguaggio, lo stile, la sensibilità artistica di ciascuno degli autori-inventori. L’autore puparo non crea più stando nel limbo solitario della sua immaginazione, ma sotto il controllo vigile, il suggerimento, la spinta ideale del popolo. Dal libro scritto egli ricava la materia del narrare, ma la narrazione attiva, quella spettacolare, la deve inventare lui, ispirandosi al genio popolare. Cosicché, personaggi del mondo franco-germanico, armati alla maniera spagnola, in quanto “pupi” parlano e agiscono da siciliani. Così John Dewey: «C’è uno speciale servizio che può rendere la filosofia. Perseguita con metodo empirico essa non sarà uno studio della filosofia, ma uno studio, per mezzo della filosofia, dell’esperienza vitale. Ma questa esperienza è satura e carica dei prodotti della riflessione delle passate generazioni e delle età trascorse. È piena di interpretazioni, classificazioni dovute al pensiero sofisticato, che si sono ormai incorporate in ciò che sembra essere materiale empirico allo stato nascente, primitivo. Ci vorrebbe più saggezza di quella posseduta dal più saggio degli eruditi di storia per riportare tutti questi prodotti rifiniti che furono accolti e assorbiti dall’esperienza alle loro fonti originarie. Se per un momento ci è consentito chiamare pregiudizi questi materiali (anche se sono veri, fintantoché è sconosciuta la loro fonte e il loro fondamento), la filosofia allora è una critica dei pregiudizi. Questi risultati, incorporati nella passata riflessione e fusi con il materiale autentico dell’esperienza di prima mano, possono diventare strumenti di arricchimento una volta che vengano scoperti e fatti oggetto di riflessione. Se non vengono scoperti i loro fondamenti, offuscano e distorcono. Quando vengono scoperti i loro fondamenti e quando vengono rifiutati, ne consegue chiarificazione ed emancipazione; e uno dei principali scopi della filosofia è realizzare questo compito. In altri termini, l’arte non è natura, ma è natura trasformata dall’entrare in nuove relazioni in cui evoca una nuova reazione emotiva. Molti attori rimangono estranei alla particolare emozione che ritraggono. Questo fatto è noto come il paradosso di Diderot, poiché egli ne sviluppò il tema per primo. Di fatto, è un paradosso soltanto dal punto di vista implicito nella citazione, su riferita, di Samuel Johnson. Indagini più recenti hanno mostrato, infatti, che vi sono due tipi di attori. Vi sono quelli che riferiscono di trovarsi nelle condizioni migliori quando “si perdono” emotivamente nella propria parte. Il problema di conferire qualità estetica a tutti i modi di produzione è un problema serio. Ma è un problema umano suscettibile di soluzioni umane, non un problema che non ammette soluzione perché posto al di là di qualche invalicabile abisso della natura umana o della natura delle cose. In una società imperfetta, e non vi sarà mai una società perfetta, l’arte sarà, in un certo senso, un’evasione dalle, o una decorazione supplementare delle principali attività della vita. Ma in una società ordinata meglio di quella in cui viviamo, accompagnerà tutti i modi di produzione una felicità infinitamente più grande di quella che noi abbiamo» (L’arte come esperienza, tr. it., Firenze 1951, pp. 96-97). Vasto il discorso diretto a chiarire il rapporto tra mediatore (la scena) e fruitore (lo spettatore). Non lo si può affrontare qui, per ovvi motivi.

C’è da dire che in questo ritorno di destinazione al popolo, i personaggi centrali – pur attraversati dalle mille coloriture impresse nello spazio di un millennio – tornano ad ancorarsi alla prima Chanson, che sin quasi alla metà di questo XX secolo appare la progenitrice diretta del mondo puparo. Anche i “pupi”, come nella Chanson i baroni cristiani e saraceni, posseggono una spada e un cavallo che hanno un nome, una determinata insegna, una determinata armatura, perfino una determinata fisionomia. È in queste minuterie che il mito si eternizza. È la forma che nasce dal vago nulla e trova riscontro in mille particolari che la storia non può che limitarsi a registrare.

«Figlia di Dio e madre delle cose,
vincolo del mondo e suo stabile nesso,
bellezza della terra, specchio delle cose che passano,
luce del mondo;
pace, amore, virtù, governo, potere,
ordine, legge, fine, via, guida, origine,
vita, luce, splendore, forma, immagine,
regola del mondo;
tu che governi con le tue redini il mondo,
che stringi d’un nodo concorde tutte le cose
che tu hai stabilito, e col cemento della pace
unisci cielo e terra;
tu che applichi le idee pure di Noûs
e forzi ogni specie di esseri,
tu che rivesti di forme la materia e con le tue dita
dài forma alla forma».

(Alano di Lilla, Liber de planctu naturae, in Cosmologie medievali, tr. it., Torino 1986, p. 193-194).

In tal senso Andrea da Barberino vale quanto Pulci e Ariosto, un puparo geniale vale cento rifacitori e commentatori letterari. Qui si custodisce la vera “memoria” di fatti che la storia è andata macinando per secoli. «Se affermiamo che la memoria è essa stessa costruttiva, come possiamo differenziarla dall’immaginazione e dal pensiero costruttivi? La soluzione più semplice è quella di dire che si tratta semplicemente di una differenza di “grado”. Questo particolare tipo di differenziazione è nella psicologia tanto comune quanto causa di confusione. In questo contesto esso deve significare che la rievocazione, l’immaginazione ed il pensiero differiscono soltanto per ciò che riguarda la fissità del particolare con cui esse hanno a che fare. I nostri studi hanno però dimostrato che si verificano costantemente tutti i modi possibili di trasformazione dei particolari, anche in casi che chiunque riterrebbe autentici ricordi. Il grado di fissità è in questo caso un criterio che sarebbe sicuramente difficile da applicare» (F.C. Bartlett, La memoria, tr. it., Milano pp. 388-389).

Nel marasma delle storie cavalleresche, a esempio, le cronache letterarie ricordano appena il personaggio di Don Chiaro, fratello di Gherardo di Vienna e zio di Oliviero; sconosciuto è l’autore del poema Antifor di Barosia; un cenno appena basta a ricordare la Dama Rovenza, Drusiano del Leone, Morbello Malaguerra; nell’oscurità restano Pulicane, lo Scapigliato, Gattamogliere, ma nell’opera dei “pupi” essi giganteggiano al pari di Marfisa, Rodomonte, Mandricardo e Gradasso.

Bisognerebbe avere assistito almeno una volta alle centocinquanta serate in cui si svolge la storia dei paladini di Francia per conoscere da vicino quale immenso mondo sia riuscito a contenere il teatro dei “pupi”, quale carica drammatica abbiano dato i pupari a personaggi che sono assenti dai libri di testo della letteratura italiana. Dal Pitrè al Rajna, al Viscardi, il difetto comune nel concionare sull’epopea cavalleresca è quello di non aver interrogato direttamente il popolo, di non aver frequentato per anni un’opera dei “pupi”. Radicale il pensiero di Nietzsche, come gli accade molto spesso: «Così tutti gli artisti e gli uomini delle “opere” percepiscono gli uomini di tipo materno: essi credono sempre, in ogni epoca della loro vita – cui corrisponde ogni volta un’opera – di essere arrivati alla meta, per cui accoglierebbero pazientemente la morte, con questo sentimento: “siamo maturi”. Non si tratta di un’espressione di stanchezza, semmai di una certa solarità e mitezza autunnale, e ogni volta è l’opera stessa, il fatto che un’opera è giunta a maturazione, a lasciare queste tracce nel suo creatore. Allora il ritmo della vita rallenta e si fa denso e stillante come il miele – fino a conoscere lunghe pause, e la fede nella lunga pausa. […]» (La gaia scienza, V, 376).

Tre giorni e tre notti combattono Orlando e Don Chiaro, prima che la Durlindana del paladino scenda a spaccare in due il glorioso avversario, e il compianto popolare per la morte di quest’eroe, anch’esso cristiano, vittima innocente per volere del fato, è talmente sentito che un’ombra densa di antipatia cala sul generoso Orlando. In Don Chiaro il teatro puparesco recupera il mito di Ettore, con grande impeto rigenerativo e forza poetica, così come l’episodio di Terigi, tratto dall’Antifor, è il più nobile commento drammatico alla fedeltà della donna amata e dell’amico scudiero.

Moltissimi autori, classificati minori, sono seppelliti sotto la coltre della dimenticanza perché ritenuti licenziosi e osceni, ma il puparo non se ne duole e ne porta i testi alla ribalta raffrenandoli in una pudicizia mai compiacente e grossolana. Pudicizia e rispetto per l’etica del popolo e per l’etica del personaggio. Per rispetto di Rinaldo, del suo carattere fondamentalmente nobile, che non gli permette di compiere atti indecorosi e villani anche nei confronti del nemico, viene inventato Morbello Malaguerra, un giovane figlio di ignoti che il paladino ha allevato ed educato alla sua scuola. Morbello rimane un impenitente scapestrato che non ha timore di compiere le azioni che il popolo richiede a Rinaldo, ma che Rinaldo non può compiere in quanto condizionato dal mito. Per cui Morbello lo sostituisce per essere il conclamato rappresentante del bassofondo isolano, una parentesi di sfogo totale, in cui si visualizza tutta la rabbia popolare portata al compimento di azioni che non hanno più alcun riferimento con l’epopea cavalleresca. Ancora Nietzsche: «È vero che ci sono uomini che, all’avvicinarsi di un grande dolore, gridano esattamente il comando opposto e che non lanciano mai sguardi più superbi, bellicosi e felici di quando si avvicina la tempesta; sì, è lo stesso dolore a procurare loro i momenti più grandi! Sono gli uomini eroici, i grandi portatori di dolore dell’umanità: quei pochi o quei rari per cui è necessaria la stessa apologia come per il dolore – e, davvero, non gliela si può negare! Sono energie di prim’ordine, quelle che conservano e promuovono la specie, foss’anche soltanto perché si oppongono agli agi e non nascondono la loro nausea per questo genere di felicità» (Ib., IV, 318).

Indimenticabile quanto la morte di Don Chiaro il vantamento che precede l’ennesimo bandimento di Rinaldo, il compiersi della sua vendetta di bandito sociale, la sua cattura, la sua condanna alle forche, la sua liberazione per l’insorgere del popolo, la sua elezione a imperatore. Sono queste le serate del grande riscatto popolare, che sino a una trentina di anni fa nel teatro dei “pupi” poteva ancora avvenire in maniera incruenta.


[1975], [1995]


Gli abiti nuovi del presidente Mao

“Ma l’imperatore è nudo” – “esclamò il bambino”. E occorre proprio la limpida chiarezza antiideologica di un fanciullo per scrutare dietro la maschera maoista della cosiddetta rivoluzione culturale.

Il geniale volume di Simon Leys (Gli abiti nuovi del presidente Mao, Antistato, Milano 1977) tenta proprio questa affascinante impresa. Smontare i meccanismi ideologici di una tra le grandi mistificazioni di massa dei nostri tempi, mistificazione importata nel nostro paese da ingenui gruppi filocinesi e gestita da pochi uomini – meno ingenui – desiderosi di affermare il proprio pezzettino di potere.

Ora, che non poca acqua è passata sotto i ponti dell’autoritarismo maoista nostrano, la lettura di un libro come quello editato dai compagni di Antistato può assumere il significato particolare di un ultimo chiodo sulla bara delle illusioni.

Le necessità interne dello Stato cinese hanno finito per rendere chiaro a tutti, dopo la morte di Mao, il fondamento reazionario del preteso Stato proletario uscito dalla rivoluzione della lunga marcia. Tagliate le parti marginali di un estremismo che poteva utilizzare il materiale della rivoluzione culturale in senso liberatorio, mettendo in forse le sicurezze tecnocratiche di cui ogni Stato ha bisogno, il nuovo dittatore della Cina “rossa”, ex ministro di polizia, ha deciso di mettere le carte in tavola, dichiarando definitivamente chiuso il gioco (cinese) dei bussolotti in cui era andata a finire l’iniziale istanza rivoluzionaria delle proposte di trasformazione dei rapporti di produzione all’interno dello Stato cinese.

In definitiva il volume di Leys, malgrado sia stato scritto molto prima degli ultimi avvenimenti, regge bene alla riprova della storia. Ora non possono esserci più dubbi, come gli anarchici avevano previsto, che lo Stato cinese, come ogni Stato, serve solo per tutelare gli interessi di una gerarchia dominante, sfruttatrice dei lavoratori, anche quando questa gerarchia si chiama partito comunista ed afferma di governare in nome del popolo.


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 19, anno IV, 1978, p. 38]

La democrazia totalitaria

Arrivato in ritardo sul mercato librario, per motivi che riteniamo di natura tecnica, questo libro (Domenico Tarantini, La democrazia totalitaria, Bertani Editore, Verona 1979) si presenta, sin dalle prime battute, come qualcosa di diverso del solito collage giornalistico che questi ultimi mesi ci hanno fatto vedere.

Tarantini approfondisce e cerca di portare alle loro logiche conseguenze tre motivi fondamentali, leggibili nella vicenda del processo proletario ad Aldo Moro, realizzato dall’organizzazione combattente delle Brigate Rosse. Esaminiamo nell’ordine questi tre motivi.

Primo, il coacervo di responsabilità che cade sulla testa del massimo rappresentante della DC, responsabilità che riflettono anni di sfruttamento, di sfacciata gestione del potere clientelare, di continue uccisioni sui posti di lavoro, di pestaggi nelle carceri, di torture e di sacrifici. Anni neri per il proletariato, costretto a subire un potere che solo apparentemente vestiva i panni della democrazia socialdemocratica, ma che, in sostanza, non era (e non è) altro che una forma più raffinata di fascismo. Questo insieme di responsabilità storiche si riunisce improvvisamente sulla testa del leader democristiano e lo espone a uno dei più interessanti processi che il contropotere proletario ha organizzato, il primo, comunque, ad avere forma organicamente strutturata e a corrispondere a quelle necessità pubblicistiche (e se si vuole spettacolari) che un processo deve pur avere. Si può dissentire con l’idea stessa di “processo”, e gli anarchici contestano la validità di questo strumento, anche quando prende la forma del processo proletario contro gli sfruttatori; ma ciò non può impedirci di ammettere che in sostanza l’operazione è stata condotta con perfetto tempismo e senso dell’organizzazione.

Secondo, Tarantini analizza il problema della validità delle conclusioni che le BR hanno voluto dare al loro processo, cioè la sentenza di morte; concludendo per una consequenzialità indiscutibile tra punto di partenza (sequestro e istruzione del processo) e punto di arrivo (esecuzione della sentenza di morte). Anche in questo caso, per quante riserve si possano fare sulla validità dello strumento e del processo, come sulla formalità della sentenza, non si può non ammettere che si tratta sempre dell’uccisione di uno sfruttatore, di uno dei massimi sfruttatori che la nostra storia recente abbia registrato.

Terzo, il grosso problema del meccanismo politico che il sequestro Moro ha messo in moto, meccanismo che ha rivelato la crudele spietatezza della logica della ragion di Stato, la quale, in fin dei conti, è proprio quella che ha tirato il grilletto della pistola che ha ucciso Moro. Zaccagnini e soci, Berlinguer e soci, con il coro stupido degli altri comprimari, sempre pronti – come il rimbambito La Malfa – a invocare la pena di morte o altre allegre ritorsioni contro i compagni in galera colpevoli (quest’ultimi) solo di aver cercato la strada della rivoluzione; Zaccagnini e Berlinguer, insieme agli altri, sono, come fa notare benissimo Tarantini nel suo libro, gli artefici della condanna definitiva di Moro, i realizzatori spietati e cinici della sua esecuzione.

Non ci pare priva di interesse, infine, la lettura dell’Appendice che contiene le lettere di Moro, comprese quelle tenute in disparte e poi pubblicate successivamente, lettere che fanno scorgere con grande chiarezza, lo stupore e l’orrore di un uomo che – abituato a gestire il potere, a sentirselo scorrere tra le mani –, di colpo si sente sotto la pressione di quello stesso meccanismo che lui aveva contribuito a rendere tanto ottuso quanto efficiente.


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 25, anno V, 1979, pp. 45-46]


Né in cielo né in terra

Sarà stata forse l’attesa, sarà stata l’impressione fortissima che ricevemmo dalla lettura del precedente libro di Tarantini, quel La maniera forte che riconfermiamo tra le cose migliori pubblicate recentemente in Italia, ma quest’ultimo ci ha lasciati delusi.

Conoscevamo già il primo testo di cui si compone il libro (Domenico Tarantini, Né in cielo né in terra, Bertani editore, Verona 1977), Il nemico ride, già uscito su questa stessa rivista (n. 7, 1976), e si trattava di interessanti considerazioni su un libro “scomodo”: Ormai è fatta, di Horst Fantazzini, nulla di più. La lettura del resto ci ha presentato un Tarantini fine e perfetto conoscitore della penna, dotato della solita capacità di lavorare con gli strumenti della satira e dell’ironia, ma il tutto ci è sembrato troppo velato, troppo tirato a lungo, troppo accomodato fra le pieghe di un paludamento signorile (linguisticamente parlando) ma anche stucchevole.

Questa la nostra franca opinione. Risalendo alla Tromba del giudizio universale e passando per Censor, per non scomodare il buon Antonio che di queste cose se ne intendeva, lo strumento è simpatico, ma deve essere breve. Se si allunga, il lettore (o almeno un lettore, cioè chi scrive queste righe) finisce per chiedersi dove vada a parare cotale messa in scena.

Questo per la forma. Per la sostanza i pezzi contenuti nel volume hanno interesse disparato. Il primo pezzo è di notevole interesse, quando il secondo e il quarto ne hanno molto di meno. Certo la critica della religione è momento importante della critica generale di una società che la religione utilizza come strumento di potere ma, sminuzzandola come ha fatto Tarantini, ci pare risulti troppo annacquata, troppo diluita, quando a ogni angolo di strada i compagni cadono morti e i preti sghignazzano sopra. Significa trattare con l’ironia chi andrebbe trattato a pesci in faccia.

A questo punto, sentiamo quasi la voce del nostro caro amico e compagno dire con fare suadente ma non per questo meno deciso: “Caro amico, tu non sai quanto può essere penetrante l’ironia, quanto può convincere e ferire il frizzo e la satira, specie quando è garbata, simpatica e quando usa lo strumento retorico dell’affermazione rovesciata”. E a questo non sapremmo cosa rispondere, se non una semplice affermazione: “porco dio”. Sgradevole? forse. Perico-loso? Potrebbe essere. (A proposito, siamo stati recentemente assolti dal fatto di avere chiamato porco quel porco di Paolo VI), ma, come diceva il vecchio Boileau, nel chiuso della nostra modesta capacità d’espressione un gatto preferiamo chiamarlo gatto.


[Pubblicato su “Anarchismo” nn. 16-17, anno III, 1977, p. 297]

Sciopero!

Esce in Italia la traduzione del notissimo libro di Jeremy Brecher (Sciopero!, La Salamandra, 2 volumi, Milano 1976, pp. 182+194) dedicato alla storia delle lotte operaie negli Stati Uniti dal 1877 ai giorni nostri. Tranne qualche sporadico intervento in questo settore, non possedevamo nulla se non studi d’insieme, per altro inseriti nell’ottica sindacale. Con questo contributo, invece, l’insurrezione di massa viene vista attraverso i meccanismi spontanei che la rendono possibile e che ne segnano, di volta in volta, i limiti e le carenze.

Forse non ben approfondito ci appare il ruolo svolto dalle minoranze anarchiche alla fine del secolo, sebbene il discorso venga più volte affrontato da Brecher. Comunque la documentazione ci appare sempre molto valida, la scelta delle testimonianze è fatta con cura e il risultato d’insieme è un libro di utile consultazione.

Un discorso a parte andrebbe intrapreso riguardo al concetto di sciopero di massa che spesso l’autore impiega nel corso del libro e che si riserva di chiarire, teoricamente, alla fine, in una seconda parte dedicata ai problemi di fondo. Sostanzialmente, per Brecher, sciopero di massa corrisponde ad azione collettiva e spontanea, al di là e contro le direttive sindacali e partitiche, che si realizza non solo nell’astensione dal lavoro, ma in tutta una serie di azioni (boicottaggio, sabotaggio, resistenza passiva, organizzazione di resistenza armata, scontro con la polizia, ecc.) che sono dirette a trasformare in movimento collettivo i rapporti di passività e di isolamento in cui si trovano gli operai.

L’autogestione viene vista nascere nel momento in cui i bisogni immediati della lotta (tenere la fabbrica, resistere agli assalti, rifornire gli assediati, ecc.) spingono gli operai a constatare che, se non gestiscono le proprie attività, ci sarà sempre qualcun altro a gestirle nel proprio interesse.

Continua Brecher: “La solidarietà è una risposta sia ai bisogni immediati della lotta, sia ai problemi fondamentali della società. Nel corso delle lotte sociali essa sorge direttamente dalla consapevolezza che senza di essa le lotte sono perdute, ma si tratta fondamentalmente di una risposta all’obsolescenza delle soluzioni individuali ai problemi collettivi. Questa coincidenza tra interesse individuale e collettivo, e il senso di unità che essa produce, sono la base necessaria di una società fondata sulla collaborazione invece che sulla competizione. Da un certo punto di vista, quindi, lo sciopero di massa può essere interpretato come un processo in cui gli operai sono trasformati da concorrenti in cooperatori”.

Un libro interessante, sia per i problemi che solleva, sia per la documentazione che presenta. L’auto-organizzazione dei lavoratori, la resistenza armata, i limiti di questa resistenza, i problemi dell’azione diretta, le compiacenze sindacali, le collusioni dei partiti, le prospettive dei padroni, la nuova resistenza embrionale all’interno delle unità produttive, le prospettive di un’organizzazione che tenga conto di queste vaste possibilità che oggi sono ancore in embrione: questi i suggerimenti e le riflessioni che sono possibili dopo la lettura di questo lavoro. Un contributo valido alla soluzione di tanti problemi che sono oggi sul tappeto.


[Pubblicato su “Anarchismo” nn. 10-11, anno II, 1976, p. 292]



La maniera forte

Un libro notevole (Domenico Tarantini, La maniera forte. Elogio della polizia. Storia del potere politico in Italia: 1860-1975, Bertani editore, Verona 1975). Teso, appassionato e, nello stesso tempo, sottile e garbato, un pugno in un occhio dato con tante scuse, con quell’aria mite e indifesa che è tipica dell’autore e che nasconde – per chi lo conosce bene – una decisione e una risolutezza non comuni.

Qualcosa di più. Una documentazione schiacciante, senza respiro, che costringe alla resa il lettore, anche il più tiepido e sprovveduto. Man mano che le pagine scorrono via, ci si sente nascere qualcosa dentro, qualcosa che somiglia molto alla rabbia. E va bene, ci si dice, il vecchio sbirro, quello della vecchia Italia torturava e uccideva con sadica ignoranza, ma poi, con l’avvento della repubblica democratica, con la presenza di una forza di sinistra, con la stessa sinistra al potere... la storia è sempre la stessa: massacratori al servizio della borghesia prima, massacratori dopo al servizio dello stesso padrone.

Il quadro di Tarantini è chiaro in tutte le sue parti. La polizia è lo strumento del potere, al servizio esclusivo dei padroni e della Chiesa (grande sodalizio dello sfruttamento) per reprimere ogni tentativo di ribellione da parte degli sfruttati. L’autore mostra come viene costruito questo strumento, iI condizionamento che viene fatto subire a dei poveri cafoni, in genere meridionali, per trasformarli in meccanismi di brutalizzazione cieca e senza controllo. Il poliziotto è ideologicamente condizionato a vedere nel contadino e nell’operaio, nel poveraccio che gli sta davanti e nel quale dovrebbe vedere soltanto un fratello e un compagno di sventura, a vedere, dicevamo, un nemico. Grandi cure vengono destinate per raggiungere la perfezione in questo condizionamento. La repressione deve essere realizzata in forma tale da non dare troppo nell’occhio, quando poi si è costretti a sparare sulla folla, uccidendo poveri disgraziati che chiedono qualcosa, un piccolo miglioramento da strappare ai padroni, allora interviene la copertura del parlamento e della magistratura. Il cerchio dei servitori del capitale si chiude. I lavori grossi vengono fatti fare alla polizia, che alleva bisonti da carica da lanciare nelle piazze, ciechi di un assurdo odio oculatamente somministrato, le rifiniture le compiono i deputati (clamorose, diverse dichiarazioni di ministri e gente simile, riportate da Tarantini a giustificazione degli eccidi della polizia), e la magistratura. Per un giudice, la parola di uno sbirro è legge nei riguardi di quella di un povero cafone.

Ma il libro di Tarantini allarga l’orizzonte della ricerca. Con un’allarmante pacatezza ci dice come “la maniera forte” non sia stata impiegata sporadicamente dai padroni, ma costituisca il fondo stesso della loro ideologia, il modo stesso di gestire i1 potere. Anche le guerre sono state fatte con lo stesso criterio. Generate da necessità commerciali e industriali, dai bisogni della borghesia di allargare le proprie mire di guadagno, le guerre italiane, dall’Unità in poi, esaminate in dettaglio nel libro, scoprono il macello determinato delle classi più povere, in particolare dei contadini. Prendendo in esame la grande guerra, Tarantini dimostra come a pagarne il peso maggiore furono proprio i contadini, quella classe che non solo sopportò il peso produttivo più grave, ma non ne ricavò utile alcuno e venne sottoposta a una sistematica decimazione tutte le volte che tentava di ribellarsi, rifiutandosi di trucidare i contadini della parte opposta. È questo l’argomento proibito della storiografia italiana, progressista e democratica. I massacri attuati nelle retrovie dai capi del nostro esercito, dei predecessori di quelli che oggi allegramente finiscono in prigione senza battere ciglio per avere organizzato complotti fascisti o vengono indiziati di peculato per avere incassato i soldi degli Americani (di condanne vere e proprie, come è naturale, non se ne parla, essendo i generali cittadini di rango speciale per essere seriamente intaccati dalle leggi della nostra democrazia); i massacri, dicevamo, decisi dai capi dell’esercito per terrorizzare le già terrorizzate masse di contadini che andavano al macello, vengono inseriti da Tarantini in quel disprezzo della vita proletaria che è alla base della produzione capitalista nel suo significato più profondo. La vita del lavoratore non vale nulla se non in termini di produttività e in guerra questa si riduce a quella di arma da guerra e si brucia nell’attimo di un attacco alle trincee nemiche.

L’ultimo capitolo del libro è quello che esamina gli avvenimenti più recenti, l’impiego della polizia nelle repressioni di piazza, nei massacri di proletari indifesi, nelle uccisioni di Pinelli, di Serantini, di Franceschi, dei lavoratori di Avola, di Battipaglia. L’impiego della polizia e dell’esercito nelle repressioni nelle carceri. Il filo sanguinoso continua. Le bombe di Milano, le trame dei fascisti assistiti dalla connivenza e dalla complicità di alti funzionari delle gerarchie.

Chiedersi cosa fare, dopo la lettura di un libro simile, è quasi d’obbligo. La rabbia che si sente crescere spinge a porci delle domande. Se tutto cambia e, nello stesso tempo, tutto resta immutato, quanto sospetto dobbiamo includere nei nostri sguardi di speranza verso le prospettive dei cosiddetti partiti proletari? Se i cafoni che insorgono sono, per i comunisti, della vile canaglia quando il governo è rosso, perché diventano compagni lavoratori quando il governo e bianco o nero? I cafoni sono sempre cafoni, non possono diventare oggi canagliume e domani compagni lavoratori. E se sono sempre cafoni, se insorgono con o senza il governo rosso, significa che la situazione non è tanto diversa. La polizia uccide i cafoni cantando l’inno di Mameli, oggi, ma, domani, potrebbe ucciderli cantando bandiera rossa. E, allora, come la mettiamo?


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 7, anno II, 1976, pp. 56-57]


Nuclei Armati Proletari


Libro di documentazione (Soccorso Rosso Napoletano, I NAP, Storia politica dei Nuclei Armati Proletari e requisitoria del Tribunale di Napoli, Milano 1976) comprendente oltre alla requisitoria del P. M. dell’aprile di quest’anno [1976], una breve storia politica dei Nuclei Armati Proletari, i loro documenti, una cronologia di sette anni di lotta e due note in memoria di Sergio Romeo e di Vito Principe.

Lo scopo del libro è quello di dare gli strumenti per un’analisi su una delle due grosse organizzazioni di lotta armata in Italia, oggi, strumenti che dovrebbero consentire di uscire dal ributtante coro reazionario che vede appaiati, in un mistico abbraccio, fascisti della vecchia guardia, democristiani di rinnovellate speranze, e comunisti di pelo antico e di bramosie nuove.

I responsabili dell’Introduzione scrivono: “[Il problema della lotta armata], questo è dunque il problema che anche i NAP hanno aperto, indipendentemente dal giudizio politico che si può dare sulla loro esistenza come organizzazione complessiva della classe e indipendentemente anche dal giudizio che gli stessi NAP danno sull’uso della violenza come ‘politica in sé’. E questa ci sembra una grande verità, non solo a parole, ma con fatti, questi compagni hanno sviluppato l’ipotesi della lotta armata in un paese capitalista allo stadio attuale dell’Italia, scontrandosi subito con tutte le conseguenze ed incongruenze che ciò lasciava immaginare”.

Adesso, di fronte al processo di Napoli in corso, questi compagni affrontano la ciarlatanesca farsa della giustizia borghese, ancora una volta, e in grande stile, lo strumento repressivo della magistratura verrà usato dalla borghesia per intimidire più che per chiarire, per decimare più che per giudicare, per assassinare più che per applicare le norme di legge volute da un regime fascista di funesta memoria. L’ordine che la magistratura ha ricevuto dal capitale è chiaro: la strategia armata in Italia oggi disturberebbe troppo l’idillio con le sinistre vendute e con le frange che stanno aspettando, più o meno a bocca aperta, di ricevere il loro boccone, questo idillio va a tutti i costi tutelato.

Certo spegnere i focolai di lotta armata non è possibile solo con la repressione poliziesca e con la magistratura; occorre anche far ricorso alla calunnia, alla disinformazione e alla provocazione onde gettare il discredito e la confusione tra le masse che seguono sempre con simpatia ogni attacco contro il potere.

Da parte nostra, come sempre fatto finora, abbiamo senza esitazioni, anche quando tanti compagni restavano fermi a mezz’aria in attesa di chiarimenti opportunisti, pubblicato i documenti dei NAP e delle Brigate Rosse, riconoscendo nel contesto dei loro documenti e nella logica delle loro azioni, la matrice rivoluzionaria comunista. Anche se non siamo mai stati d’accordo con le tesi politiche di fondo della loro strategia, anche se non siamo mai stati d’accordo con le forme organizzative scelte, non abbiamo esitato, come non esitiamo oggi, a sostenerli nella loro lotta, per quanto ci è possibile. In un momento come questo, quando questi tentativi rivoluzionari – con tutte le limitazioni che comportano per degli anarchici – minacciano di soccombere sotto i colpi del potere e dei servitori del potere, non possiamo usare la bilancia del farmacista. Quindi il nostro sostegno suona più ampio e globale possibile. Che la rivolta si estenda, trovi le giuste vie della liberazione, trascini con sé gli animi degli sfruttati, sollevi le loro speranze in un domani diverso, non frutto determinato dal volere di pochi capi, ma conseguenza logica di un allargarsi della lotta in modo libertario. Che dal chiuso del “partito militare” si passi all’aperto della rivolta armata più decentrata possibile, che i lavoratori si accorgano della possibilità di questo progetto insurrezionale, che trovino le loro coordinazioni più naturali e rivoluzionarie, che nasca, infine, un vero e proprio movimento rivoluzionario – anche se privo di sigle e di emblemi precisi – ma in grado di strappare dalle mani della borghesia del capitale il monopolio della forza per capovolgerlo e farlo diventare quello strumento di liberazione definitiva che è la violenza degli sfruttati.


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 12, anno II, 1976, p. 364]

Moro e i suonatori di trombone

Anche se i suonatori di trombone hanno dato fiato fino in fondo ai propri strumenti, toccando tutte le corde del cuore, non bisogna dimenticare che è stato giustiziato uno dei responsabili della politica di rapina e di sfruttamento attuata dal capitalismo in Italia dalla fine della guerra a oggi.

Qualsiasi cosa possa costare questa uccisione, in qualsiasi modo possano andare le cose, non si devono mettere da parte le responsabilità di Moro e della classe da lui rappresentata, di fronte a valutazioni politiche o strategiche che reggono fino a un certo punto.

Passata l’ubriacatura che i mezzi d’ informazione hanno interesse a diffondere, anche le grandi masse degli sfruttati si renderanno conto di questa semplice evidenza: lo sfruttamento continua, quindi la lotta deve continuare.

Il giorno del rapimento del presidente della DC morirono cinque poliziotti. Gli strepiti per tanto sangue “proletario” non riuscirono, però, a coprire, nel profondo di ogni singolo sfruttato, la realtà: quegli uomini, anche se di estrazione proletaria, erano dei traditori della loro classe, in quanto avevano accettato, sia pure per il solito motivo del pane, di mettere la propria forza in difesa del capitale. E non dobbiamo scoprirla oggi la profonda diffidenza, anzi la profonda antipatia che la gente comune, il popolo, ha per la politica e gli sbirri di ogni forma. Questa antipatia è radicata a tal punto da costituire grave offesa la parola “sbirro” pronunciata contro qualcuno nell’ambiente proletario in genere.

Ora è stata la volta del grosso personaggio a trovare la morte. E non saranno certo i proletari a piangerlo, una volta che una piccola parte di loro avrà smaltito la sbornia di smancerie sentimentali che i giornali e la televisione stanno mettendo in circolazione. Subito dopo, nel disprezzo dei lavoratori, subito dopo gli sbirri, vengono gli uomini politici e i sindacalisti. Questi si utilizzano, a volte, per quello che possono dare, ma per loro non si ha mai del rispetto, in quanto non sono lavoratori, ma semplici affamatori del popolo, gente che vive alle spalle di chi lavora. Ogni tanto è bene richiamarsi a queste semplici idee, tanto diffuse tra le masse, anche se poi, quando le sottoponiamo alle nostre analisi, così complicate, risultano un poco approssimative. Non importa. Il popolo “sente” queste idee e giudica e valuta molto spesso in base a esse, almeno quando la pressione dei mezzi d’informazione si alleggerisce.

Non dimentichiamoci che se dovesse mettersi in marcia quel processo rivoluzionario che sembra sussultare sotto le stesse incapacità della classe dominante italiana; se dovessero cominciare a realizzarsi certi avvenimenti insurrezionali, non improbabili in una situazione di radicalizzazione dello scontro di classe; i personaggi come Moro troverebbero la morte a decine e senza tanto strepito e nemmeno tante lacrime da parte del cosiddetto popolo.

Certo, adesso non siamo in quella situazione e a realizzare il fatto non è stata la massa, ma un gruppo minoritario di rivoluzionari che agisce nella clandestinità. Ed è giusta osservazione. Noi anarchici siamo contro la pena di morte, contro i tribunali, contro i processi, contro le prigioni e contro tutti gli altri accorgimenti usati dallo Stato e da chi intende ripetere – anche se su scala diversa e con intendimenti diversi – gli errori dello Stato. E non solo siamo contro tutto ciò, ma siamo anche, e principalmente, contro la morte, perché ci battiamo per la vita. Ma la morte non è solo data dalla privazione violenta della vita, è data anche dalla lenta accettazione di una parvenza di vita che vita non è, che è anzi negazione della vita e accettazione della morte. E se lo sfruttamento obbliga all’accettazione di questa forma di vita, che condurrà alla completa negazione dell’uomo, all’automazione dei rapporti, alla stessa distruzione di ogni forma vitale; allora è il caso, è indispensabile, attaccare ora e subito, anche se dovessimo essere noi per primi a dare la morte a coloro che da sempre lavorano per la morte, anche se dovessimo essere noi, contro la nostra stessa volontà, a uccidere coloro che intendono ucciderci, coloro che stanno uccidendoci.

Molto ci sarebbe da dire riguardo al modo in cui le BR hanno ritenuto opportuno condurre l’azione del rapimento Moro, riguardo alla strategia impiegata, riguardo al loro modo di porsi di fronte allo Stato come organizzazione di contro-potere, come struttura in grado di dialogare e di porre condizioni a nome e per conto di una forza che, per il momento, resta apparentemente inerte e passiva (il proletariato). Molto ci sarebbe da dire sulla legittimità di questa rappresentanza, anche se quello che si potrebbe dire non è soltanto una serie di negazioni, dovendosi pure ammettere che se da un lato una struttura come le BR contribuisce a bloccare i processi di autorganizzazione all’interno della massa degli sfruttati (o comunque li rallenta), dall’altro si deve riconoscere che una qualche rispondenza o forma organizzativa riesce a darsela, proprio in quella stessa massa che l’ottusità padronale insiste nel vedere del tutto estranea a ogni prospettiva rivoluzionaria. E anche molto ci sarebbe da dire riguardo al compito di sviluppare le forme spontanee di attacco rivoluzionario al potere, impedendo il polarizzarsi dell’attenzione delle masse su di una sola forma d’intervento, quella altamente specialistica, privilegiata dalle BR.

Ma tutto questo discorso è bene che venga fatto altrove. Adesso, molto semplicemente, dobbiamo dire che quando un responsabile dello sfruttamento trova la morte, in un modo o nell’altro, la cosa, anche se in misura minima, non è mai un danno per gli sfruttati. Questo principio, chiarissimo nella coscienza di tutti coloro che lo sfruttamento lo vivono e non lo leggono nei libri, potrà essere parzialmente oscurato dai giochi di potere, ma non potrà mai essere del tutto cancellato. Che i dirigenti del PCI si ricordino di questo: il popolo non guarda tanto al colore della casacca, quanto all’azione concreta che si svolge contro di esso e, per quanto possa sembrare lento a reagire, finisce sempre per colpire i traditori.


[(Buenaventura Henri) Alfredo M. Bonanno, “Moro e i suonatori di trombone”, pubblicato su “Anarchismo” n. 20, anno IV, pp. 81-82]

* * * * *

Nota. Inserisco qui di seguito due gruppi di testi pubblicati nella prima edizione del libro Teoria e pratica dell’insurrezione, Catania 1985, ma tolti nella seconda edizione, Trieste 2003. L’esercito, in tutte le sue componenti istituzionali, e la mafia, in tutte le sue varianti che vanno dal burocrate al brutto ceffo armato di lupara, costituiscono il baluardo costante che lo Stato contrappone alla lotta degli sfruttati, in particolare quando prende la forma del banditismo sociale. Per questo motivo penso che questi scritti trovino qui la loro collocazione più appropriata.

Contro il militarismo

Antimilitarismo e insegnamenti della lotta contro la base missilistica di Comiso

A prescindere da come sono andate le cose a Comiso c’è da trarre alcune considerazioni importanti dall’esperienza fatta in relazione ai possibili sviluppi futuri della lotta antimilitarista.

A Comiso si è partiti da un problema organizzativo preciso (le Leghe e il Coordinamento) e si è rifiutata l’impostazione classica dell’analisi calata sulla realtà attraverso il filtro politico di una struttura esterna (cosa che invece era accaduta precedentemente nel corso dell’intervento a opera del Comitato promotore, realizzato in collaborazione con i marxisti, al cui interno si trovavano alcuni compagni anarchici).

Riteniamo che qualcosa del genere possa essere tentata per impostare un intervento sistematico antimilitarista nelle caserme, partendo da una chiara analisi delle differenze tra obiezione di coscienza e obiezione totale, e fornendo indicazioni precise in merito alla diserzione e al sabotaggio. Si verrebbe così a fornire un piano di discussione concreto, favorendo l’uscita dal vago e dall’approssimativo, prestando elementi precisi alla discussione tra compagni. Anche la cattiva esperienza fatta in passato con strutture di intervento tipo “proletari in divisa” potrebbe dare indicazioni su cosa non bisogna fare: organizzazioni d’opinione e di dibattito assembleare. Tutto ciò è ormai superato dall’esperienza. Il futuro della lotta antimilitarista penso si indirizzi verso una corretta impostazione del rapporto tra organismi di massa (dei militari di leva o dei giovani che stanno per affrontare il problema del soldato) e organismi specifici (gruppi anarchici in primo luogo). Su questa linea programmatica sorgono le maggiori difficoltà.

Non possiamo continuare a diffondere all’infinito la nostra stampa e i nostri volantini diretti a sollecitare una semplice presa di coscienza del problema antimilitarista. Allo stesso modo non appare chiaro in che prospettiva il nostro intervento si possa distinguere realmente da quello dei pacifisti, dei cristiani o di forze laiche che si pongono contro la guerra ma con metodologie diverse dalla nostra.

Non saranno le artificiosità verbali e gli estremismi retorici quelli che potranno contraddistinguere la nostra posizione e le nostre analisi, quanto invece la capacità che sapremo dimostrare di fornire indicazioni organizzative e operative nei riguardi della lotta antimilitarista.

La creazione di un organismo di raccordo delle diverse lotte che in una zona vengono realizzate contro il militarismo nelle sue varie espressioni, appare allora come il primo punto da cui partire. Trovano così unità le lotte contro le centrali nucleari, contro le caserme, contro le fabbriche di armi, contro le basi militari, navali e aeree, contro le grandi ditte che commerciano in armi, contro tutte le strutture dell’esercito. Da questo organismo si potrà partire per impostare uno sforzo comune e per evitare che i singoli tentativi si perdano nella spontaneità del singolo individuo e del singolo gruppo.

Anche le azioni non coordinate, anche le decisioni individuali, azioni e decisioni che, almeno fino a questo momento, hanno caratterizzato la gran parte della lotta antimilitarista, potranno attraverso questa strada trovare una collocazione più significativa. Alla diserzione singola si potrà sostituire un programma di diserzione di massa, al sabotaggio singolo un programma di sabotaggi coordinati. Lo stesso – a livello preventivo – per quanto riguarda l’obiezione totale che da momento individuale e sporadico può diventare strategia collettiva coordinata.

Per una ripresa della lotta antimilitarista

In un’epoca in cui le strutture del capitale avvertono i sintomi di uno squilibrio profondo che non può essere sanato con il ricorso ai normali processi dell’economia concorrenziale, il ruolo dell’intervento dello Stato si fa sempre più determinante.

Lo Stato cassiere del capitale si trasforma in Stato banchiere e imprenditore. Investe, organizza e regolamenta la produzione, cercando così di razionalizzare il dominio.

Gli scompensi ciclici che l’irrazionale condotta capitalista rende inevitabili si riducono, mentre si rafforzano le strutture di controllo.

In fondo lo Stato non ha elementi di sicura applicazione sul piano dell’intervento economico. Basti pensare al fallimento delle manie della programmazione, in voga qualche decennio fa, per capire come il dominio statale e capitalistico non può realizzarsi su di un preteso (e illusorio) controllo totale dell’economia.

Nel settore produttivo esiste un elemento non facilmente programmabile e, quindi, irriducibile alle dinamiche prevedibili del razionalismo economico: l’elemento uomo.

Così, il riavvicinarsi dello Stato al mondo della produzione, la sua tutela sempre più severa nei riguardi del capitale, sono aspetti di qualcosa di più complesso e organico. Lo Stato interviene nell’economia ma il suo intervento si allarga alla gestione e al controllo delle idee e dei comportamenti non adeguati ai suoi progetti di dominio.

Le idee vengono controllate tramite la scuola, i mezzi di comunicazione di massa, l’asservimento della classe intellettuale, i comportamenti vengono controllati tramite la repressione militare delle diverse polizie e dell’esercito.

Lo Stato, in quanto produttore di pace sociale, tende a operare su tre piani:

a) produttivo: interviene direttamente tramite le aziende di Stato e indirettamente tramite i sindacati, le banche, le manovre fiscali e monetarie,

b) culturale: controlla la circolazione delle idee tramite gli intellettuali impiegati nelle scuole e nei mezzi di informazione,

c) repressivo: intimidisce i comportamenti non adeguati tramite la magistratura, le carceri, le polizie, l’esercito.

Questi tre momenti sono legati fra loro da un unico filo di conservazione e perfezionamento del dominio.

L’esercito rappresenta la punta estrema, la più perfezionata e la più radicale, l’ultima arma repressiva.

Come appare ogni giorno più chiaro, anche esaminando la struttura degli armamenti in dotazione agli eserciti dei paesi capitalisti moderni, in particolare l’esercito italiano, lo scopo reale di un esercito, il solo per cui ha ancora una funzione di grande significato, è quello di strumento di repressione interna.

Il preteso ruolo di difesa da possibili invasori del sacro suolo patrio è una favola cui ormai stentano a credere anche i bambini.

L’esercito si evolve e con esso la mentalità militare. Nel fondo resta sempre il sogno insoddisfatto del dominio assoluto che la casta militare ritiene possibile attingere sia per la disponibilità eccezionale di mezzi, sia per i presunti meriti che gli derivano dal costituire il baluardo estremo degli interessi dei capitalisti. Questi ultimi sarebbero molto ingrati se non capissero quanti sacrifici fanno i militari per difenderli. E poi si sa che i militari hanno una specie di disprezzo per la borghesia che si arricchisce con scarso rischio.

In effetti, in questi ultimi decenni, le cose stanno cambiando. I rischi dei militari sono veramente ridotti al minimo, mentre si è esaltata la loro funzione repressiva e poliziesca. In questo sono diventati strumento armato del capitale in modo tanto evidente che anche la retorica tradizionale, a base di “Italia”, “Patria” e altre favole nazionaliste, si è un poco alleggerita. I poliziotti fanno il loro mestiere e non hanno bisogno di molti simboli gratificanti. I borghesi restituiscono il tradizionale disprezzo dei militari con quel disprezzo, altrettanto tradizionale, che tutte le classi sociali (in forme diverse) hanno per gli sbirri.

Tramontate le ultime avvisaglie di “golpe”, rintuzzate le velleità fasciste di vecchi tromboni non adeguati ai tempi, l’esercito oggi, in Italia, si avvia ad assolvere la sua funzione di strumento repressivo di uno Stato democratico capitalista, con quei livelli di tecnicità e di organizzazione che sono necessari. Il capitale – dal canto suo – non bada a spese.

Quale sarà il futuro dell’esercito? Diventare efficiente, professionale, dotato di armi perfezionate e imparare a usare queste armi. Una struttura pletorica, fondata in larga parte sulla leva obbligatoria, ha praticamente fatto il suo tempo.

A sostenere l’esercito professionale è anche la sinistra italiana, riflettendo in pieno gli interessi del capitale in corso di assestamento e della classe di tecnocrati che produce pace sociale adeguando le strutture dello Stato (esercito compreso) alle nuove necessità del capitale.

Uno Stato si controlla meglio quando non esistono situazioni speciali, quando anche le forze repressive armate sono ricondotte al rango di “lavoratori”. Meno retorica e più corporativismo sindacale. Per il momento è stata la polizia a sindacalizzarsi. Domani potrebbe anche essere l’esercito. Ciò in funzione di due tendenze: il progressivo snaturamento dell’azione sindacale e la trasformazione dello strumento repressivo del passato in strumento adeguato ai tempi dell’efficientismo e della tecnocrazia.

Le funzioni dell’esercito sono:

a) funzione repressiva. La prima e la più importante. I carabinieri sono in Italia l’elemento di raccordo tra il primo impatto della polizia e il secondo impatto dell’esercito vero e proprio. I carabinieri sono una struttura di grande efficienza che appartiene all’esercito ma svolge “istituzionalmente” e costantemente compiti di polizia. In questo modo l’intervento dell’esercito è sempre possibile, attraverso gli stessi carabinieri, senza traumi istituzionali e senza nemmeno il ricorso a quelle norme speciali che consentono ai prefetti l’impiego dell’esercito direttamente in azioni di ordine pubblico.

b) funzione ideologica. Il mito della difesa della patria, anche se meno carico di retorica, serve a bloccare molte critiche e potrebbe costituire un potente mezzo di coesione, attorno alle forze reazionarie, di larghi strati sociali di fronte al verificarsi di sommovimenti popolari. Oggi si gioca molto sul mito della difesa delle istituzioni democratiche da parte dell’esercito, ecc.

c) funzione tattica a livello internazionale. Nell’ambito degli equilibri politici l’esercito svolge un ruolo importante (e l’abbiamo visto in Libano ultimamente [1983]) come sostegno delle forze americane in Europa.

d) funzione di sostegno produttivo. In caso di scioperi o di lotte più intense da parte dei lavoratori l’esercito può essere fatto intervenire come potente organizzazione di crumiraggio.

e) funzione di supporto organizzativo. La struttura militare, come insieme di mezzi (trasporti, comunicazioni, materiali da costruzione, pronto intervento, attrezzature scientifiche e di ricerca, informatica, ecc.), è un potente strumento di sostegno del capitale in eventuale situazione di pericolo di fronte ai sommovimenti popolari.

Per avere le idee chiare riguardo alle possibilità di una corretta impostazione delle lotta antimilitarista occorre sbarazzarsi di quello che può essere definitivo l’equivoco del pacifismo.

Chi è contro l’esercito, contro tutti gli eserciti, è contro la guerra, quindi è contro la violenza degli Stati che rende possibile e protegge la violenza degli sfruttatori.

Occorre però tenere presente che non esiste possibilità reale di lotta contro una società fondata sulla sopraffazione e lo sfruttamento che non sia lotta violenta, per cui non esiste liberazione possibile se non facendo ricorso alla violenza degli sfruttati contro gli sfruttatori e contro tutti gli Stati.

Noi siamo per la pace ma non per la pace sociale, siamo contro la guerra ma non siamo contro la guerra di classe, cioè lo scontro sociale che si sviluppa per gradi fino ad arrivare all’insurrezione e alla rivoluzione.

Contrastare questo processo in nome di un malinteso pacifismo significa contribuire a riconfermare le condizioni attuali di soggezione e sfruttamento.

Il primo elemento d’intervento rivoluzionario, come sappiamo, è la propaganda e la controinformazione. Allo stato attuale delle cose l’esercito professionale non consente – al suo interno – una propaganda rivoluzionaria. Si tratta di una organizzazione chiusa dello stesso genere della polizia, dei carabinieri o della magistratura. Nei riguardi di queste strutture al servizio dei padroni non è possibile discorso diverso da quello dello scontro aperto e senza mezzi termini.

Cadere nell’imbroglio che i soldati e i sottufficiali professionisti sono quasi sempre sottoproletari che non hanno trovato altro sistema per sopravvivere è un gravissimo errore. Proprio questi sottoproletari, tradendo le loro origini di classe, costituiscono lo strumento più forte ed efferato di repressione e saranno i primi a sparare sulla folla insorta.

Certo, nel corso della rivoluzione, le cose possono evolversi molto rapidamente e anche far diventare possibile una propaganda all’interno di alcuni ranghi dell’esercito professionale, ma con le dovute cautele e con non pochi limiti.

Diversa la situazione nei riguardi dell’esercito di leva. Qui è ovviamente possibile una penetrazione rivoluzionaria anarchica.

I militari di leva sono sostanzialmente un corpo estraneo all’esercito vero e proprio, un corpo che si cerca sempre più di mantenere lontano dalle strutture più importanti e militarmente significative dell’esercito stesso. Si tratta di giovani che portano dentro le caserme le proprie idee e le esperienze fatte a scuola o in fabbrica. Ciò consente l’inizio di un discorso che però deve essere fatto con chiarezza e senza gli equivoci in cui si è caduti in passato (a esempio, l’esperienza di “proletari in divisa”).

L’errore fatto in precedenza è stato una conseguenza della tesi che si basava sul tentativo di costituire gruppi di pressione all’interno dell’esercito, per arrivare a una gestione diversa della caserma. Non appena i militari di leva rivelano posizioni politiche, più o meno chiare, vengono subito colpiti dalla repressione (punizioni, condanne, minacce, ecc.) e, cosa ben più efficace e grave, vengono estromessi sempre più dalle strutture vere e proprie dell’esercito.

Lo sviluppo di un movimento di militari di leva, basato sulle forme tradizionali della politica cosiddetta di sinistra, avrebbe l’immediato risultato di una riduzione del servizio di leva per arrivare, nel caso di pressioni sempre maggiori, a una sua abolizione. Sarebbe una ulteriore e definitiva spinta verso l’esercito professionale.

Un’altra forma di lotta inconsistente è quella basata sull’imbroglio dell’obiezione di coscienza. Pur essendo praticata anche da molti compagni anarchici non ci convince. Si tratta di un regalo che è stato fatto dall’inquinamento religioso (cattolico, in primo luogo) all’antimilitarismo italiano degli ultimi trent’anni.

Obiezione di coscienza! Ma di quale coscienza si tratta? Non certo della sola e unica coscienza che per un anarchico ha valore: la coscienza rivoluzionaria della classe degli sfruttati.

Un’ipotetica coscienza morale che impedisce di prendere le armi è un imbroglio che ci viene dall’equivoco pacifista. Gli anarchici sono disponibilissimi a impugnare le armi, al momento opportuno, per sparare sugli oppressori. E non faranno certamente questione di coscienza, come probabilmente – svelando il loro sottofondo interclassista – faranno i pacifisti di ogni pelo.

E poi, accettando un rapporto con lo Stato, che fissa i limiti, la retribuzione e l’attività sostitutiva del servizio militare, non si viene a riconfermare nei fatti proprio la sostanza del servizio di leva che è quella di rendere un servizio allo Stato pulendo cessi, scrivendo a macchina, portando a spasso generali e, all’occorrenza, difendendo gli interessi dei padroni?

Ma veniamo alle forme reali di lotta.

L’obiezione totale e la renitenza sono le due forme più radicali ed efficaci che oggi sia possibile realizzare contro l’esercito di leva. Lo Stato chiama a un obbligo che si riconosce come assurdo. Si risponde con un rifiuto totale, motivato politicamente (obiezione totale), o non si risponde affatto (renitenza) continuando la propria vita come se nulla fosse avvenuto. Nessun imbroglio su questioni di coscienza. Non si rifiuta il servizio di leva perché non si vogliono usare le armi o non si vuole indossare la divisa. Si rifiuta tutto in una volta: armi, divisa, esercito, Stato e padroni.

Per il momento ci rifiutiamo totalmente e definitivamente. Poi, quando le condizioni dello scontro di classe lo permetteranno, impugneremo le armi e ci riuniremo sotto le nostre bandiere per combattere a nostro modo l’esercito, lo Stato e i padroni.

Ma esiste un’altra scelta di lotta, altrettanto legittima. Quella che porta ad accettare ufficialmente di indossare la divisa e di prestare servizio militare per poi organizzare, all’interno delle caserme, non una improbabile struttura politica di dissenso assembleare, ma una lotta diretta di attacco alle strutture dell’esercito facendo ricorso al sabotaggio.

Non si tratta della classica ipotesi entrista che è destinata sempre al fallimento. Entrismo sarebbe presupporre possibile un discorso come questo diretto ai militari professionisti. Tanto varrebbe allora ipotizzarlo possibile anche nei riguardi dei poliziotti.

Non dimentichiamo che qui siamo davanti a giovani che hanno un rapporto particolare con la struttura dell’esercito che li ospita. Sono obbligati a trovarsi in un posto, a prestare un servizio senza ombra di professionalità, senza prospettiva di carriera, e senza ricevere alcuna gratificazione.

Possono fare scattare, a un certo punto, la molla dell’odio verso tutto quello che li circonda, verso l’idiozia di chi li comanda, verso l’assurdità di un sistema senza capo né coda, verso l’inutilità di uno sforzo che palesemente produce solo imbecillità, morte e distruzione.

E da questa alta scuola di stupidità possono trarre quel disgusto profondo che spinge alle grandi decisioni. Un giovane sano, intelligente, robusto, vivo, amante della vita, della libertà, a questo punto, non può prendere che due strade: attaccare subito la struttura che gli sta davanti o andarsene. La prima di queste strade porta al sabotaggio, la seconda alla diserzione.

La diserzione è l’abbandono puro e semplice della caserma, del posto dove si realizza quell’incredibile rapporto di imbecillità e sfruttamento che si chiama servizio militare.

L’obiezione totale richiede una notevole padronanza del problema antimilitarista e può essere attuata soltanto da piccole minoranze di compagni perfettamente coscienti della repressione cui vanno incontro.

La grande maggioranza dei giovani prende realmente contatto con la vita di caserma, con la vacuità intellettiva dell’esercito, con la barbarie del rapporto gerarchico, soltanto dopo, quando ormai si trovano in una situazione che prima sottovalutavano o sconoscevano del tutto.

In questo senso una propaganda per la diserzione in massa ha una sua logica. Consente di sviluppare organicamente il significato del servizio militare, della effettiva funzione dell’esercito, della prospettiva cui si va incontro continuando a restare sotto le armi.

In un lavoro di propaganda di ampio respiro la diserzione deve essere collegata col sabotaggio. Le due cose si coordinano insieme, costituiscono due strumenti di lotta all’interno delle caserme e minano nei fatti, in modo difficilmente recuperabile, l’organizzazione e i programmi dell’esercito.

Per gli anarchici l’antimilitarismo non è un insieme di teorie e di analisi. Comprende un certo numero di informazioni e di dati, ma non si arresta a questo aspetto. L’antimilitarismo è azione rivoluzionaria, coordinazione e progetto d’intervento.

E, principalmente, non è una lotta di settore. Non è una lotta che si circoscrive al terreno specifico dell’istituzione militare. L’antimilitarismo è un aspetto della lotta complessiva contro il nemico di classe.

([A. M. Bonanno], Diserzione!, in “Senzapatria”, n. 18, aprile 1983, p. 10).

Contro la mafia

Lo Stato mafìoso

Dalla morte del generale Dalla Chiesa alle uccisioni dei funzionari della squadra mobile della Questura di Palermo di questi giorni [agosto 1985] sono state dette tante cose sulla mafia e sul suo modo di operare.

Personalmente non so chi ha ucciso questi poliziotti e nemmeno mi interessa, non so cioè se è stata la mafia o se sono stati i servizi segreti o qualche altra organizzazione più o meno ufficiale del potere: quello che so è che erano poliziotti, non mi occorre altro.

La guerra tra bande continua. Per capire questi fenomeni, e quindi anche il fenomeno della mafia, non bisogna cercare di essere per forza troppo intelligenti. Volendo almanaccare troppo si corre il rischio di capire poco.

La mafia oggi è lo Stato e lo Stato è la mafia. Siamo davanti a uno Stato mafioso e, nello stesso tempo, davanti a una mafia statale.

Le assunzioni fatte dalla Regione Sicilia tra il 1946 e il 1963 si svolsero tutte per “chiamata diretta”, cioè senza ricorrere ai sindacati e agli uffici addetti. Si tratta della formazione della più vasta clientela che oggi esiste in Italia.

Nella relazione di maggioranza della commissione antimafia [1980] (Doc. XXIII, n. 2, p. 203 e sgg.) si legge che il 92,7 per cento di queste assunzioni furono di persone che in un modo o nell’altro risultano parenti di mafiosi o mafiosi essi stessi. Si tratta di 8.887 dipendenti della Regione di cui il 73 per cento è originario della Sicilia occidentale.

Il filtro politico che realizzò questa grande operazione burocratica e mafiosa fu la Democrazia Cristiana, assistita, nella parte finale dell’impresa, dalla complicità del Partito Socialista e del Partito repubblicano, sempre come risulta dai documenti pubblicati dalla commissione antimafia.

Sono mafiosi gli uomini politici, i burocrati della Regione Sicilia, gli alti funzionari dello Stato. Sono mafiosi gli appartenenti alla P2 che circolano liberamente e che non sono stati rimossi del tutto dai propri posti. Sono mafiosi i grandi banchieri, i più alti prelati della Chiesa, i maggiori responsabili della finanza, dell’esercito, della polizia e dei carabinieri. Sono mafiosi i grandi appaltatori siciliani e nazionali, i grandi industriali, i proprietari di giornali a tiratura locale e nazionale. Mafiosi sono la maggior parte dei giornalisti, degli avvocati, dei dirigenti industriali. E, se ci siamo scordati di qualche categoria del dominio e dell’oppressione, non è stato con l’intenzione di escluderla.

La mafia è un modo di gestire la cosa pubblica fondato sull’interesse personale e privato. Ed è uno dei modi che risulta in fondo più facile combattere, qualora la cricca emergente ne avesse veramente voglia e possibilità. È il modo del racket sperimentato per la prima volta dal nazismo e dal fascismo su scala continentale.

Esistono altri modi di gestire la cosa pubblica, su base ideologica e su base fanatica, modi che sono altrettanto deleteri e ben più difficili da estirpare: il gesuitismo, il giacobinismo, il leninismo, lo stalinismo sono esempi di questo secondo modo.

In Italia, oggi, non è quindi possibile parlare di lotta contro la mafia se non si parte dalla lotta diretta a estirpare il cancro della gestione e della mentalità mafiosa che dilaga dappertutto.

Solo gli sfruttati non hanno nulla da spartire con il progetto mafioso. Ne subiscono le conseguenze, ne pagano e ne sostengono le spese, ma i vantaggi sono tutti nelle tasche degli sfruttatori.

Spetta quindi agli sfruttati la vera e propria lotta contro le strutture e le conseguenze della mafia. Ma questa lotta non potrà essere basata sulla delega, sul voto, sull’accettazione del fatto che altri decidano al nostro posto, sulla rassegnazione e sul compromesso: in questo caso sarà anch’essa una lotta fittizia che tornerà utile proprio alla continuazione del potere mafioso.

Il guaio più grosso è che spesso la mafia più spicciola, quella legata ai commerci immediatamente remunerativi e anche più pericolosi, mafia che ha un raccordo intimo con le altre mafie dello Stato, ma che si presenta apparentemente in lotta con queste ultime, questo tipo di mafia, viene spesso considerato in modo favorevole dagli sfruttati. Infatti appare loro come una via alternativa allo sfruttamento. Di più, spesso essa recluta proprio la sua manovalanza fra gli strati più poveri della società, con offerte che non possono essere rifiutate per la loro vantaggiosità e anche per lo strano fascino della loro stessa pericolosità.

Per gli anarchici la lotta contro la mafia deve quindi essere impostata in modo corretto. Non si tratta di una lotta contro forme marginali del fenomeno ma di una lotta generalizzata contro lo Stato e quindi anche contro quelle forme mafiose in cui esso si personifica, mostrando la sua radice anche sotto le spoglie più lontane e impensabili.

Facciamo l’esempio della mafia della droga pesante. Questa viene in pratica finanziata dallo Stato stesso. Infatti in Sicilia le cinque famiglie mafiose che gestiscono il giro della droga pesante fanno tutte capo alla famiglia Salvo che è stata per decenni la famiglia che ha gestito le esattorie statali nella regione. Queste esattorie percepivano, nell’isola, il 12 per cento circa di aggio esattoriale mentre altrove, nel resto della penisola italiana, l’aggio si aggirava intorno al 5 per cento. Ma la cosa più interessante è che i versamenti allo Stato delle somme incassate come imposte pagate dai cittadini, venivano effettuati con un ritardo di alcuni anni. Poiché si tratta di centinaia di miliardi è facile capire in che cosa queste somme ingenti venissero investite dalla famiglia Salvo e dalle cosche collaterali. La stessa struttura mafiosa statale finanziava la struttura mafiosa periferica consentendo l’acquisto di eroina allo stato puro o permettendo la costruzione delle grandi reti di raffinazione e distribuzione che si stanno scoprendo in questi ultimi anni in Sicilia.

Prendiamo la mafia degli appalti, che si è sviluppata, contrariamente alla precedente, nella Sicilia orientale. Le grandi aziende catanesi di costruzioni sono tutte aziende mafiose. Le costruzioni delle autostrade, dei grandi edifici pubblici, dei porti e delle dighe, vengono appaltate con procedimenti mafiosi e con centinaia di cadaveri come contorno. Per molti anni l’assessore all’urbanistica di Catania è stato il fratello di un mafioso ucciso (insieme ai tre carabinieri che lo scortavano) durante un trasferimento da un carcere a un altro per subire un interrogatorio. Questo assessore, della Democrazia Cristiana, è stato uno dei tanti cardini su cui si è basato lo sviluppo mafioso del settore degli appalti nella Sicilia orientale. Tutto è avvenuto con la connivenza e la protezione delle strutture mafiose statali che, anche in questo modo, attraverso i mafiosi della DC, finanziano e proteggono le strutture mafiose periferiche.

La base missilistica di Comiso vede coinvolti gli interessi di queste grandi imprese mafiose che si stanno contendendo gli appalti. Nello scontro di Comiso, quale possa essere l’evoluzione della lotta in corso, occorrerà fare i conti principalmente con loro. E quando i compagni che distribuiscono i volantini davanti le scuole della zona, davanti le fabbriche e davanti la base si trovano di fronte polizia e carabinieri, non possono non pensare come queste cosiddette forze dell’ordine siano là non solo per difendere gli interessi di un progetto politico criminale e imperialista, ma anche per difendere gli interessi mafiosi più spiccioli e immediati di coloro che sono interessati alla costruzione della base per guadagnarci miliardi. Ed è un esempio ulteriore di come la mafia statale, anche attraverso i suoi corpi armati, difende e tutela gli interessi delle mafie periferiche.

Occorre spiegare questa situazione agli sfruttati, e spiegarla in modo nudo e crudo, facendo capire che ogni lotta parziale, se condotta con il sostegno (apparente) di quei partiti che dicono di volere guidare il proletariato, finisce per risultare utile allo Stato e quindi alla mafia.

Scontri tra mafie

In questi ultimi tempi sono stati arrestati in Sicilia, con grande clamore, magistrati e alti ufficiali dei carabinieri. Non si tratta, a mio avviso, di uno dei tanti casi di corruzione, ma di qualcosa di più.

È tutta una vecchia struttura di potere mafioso che viene attaccata da una struttura se non proprio nascente, almeno portatrice di modelli riformisti di migliore efficienza tecnocratica. A farsi portavoce delle nuove tendenze è stata la magistratura piemontese, più che altro per caso, venendo a capo di una serie di accertamenti sulle attività svolte dalle organizzazioni catanesi e siciliane in quel di Torino (droga e omicidi compresi).

Questa volta non si è chiuso un occhio come in passato. Sono partiti i mandati di cattura. Perché? Gli intoccabili erano pur sempre tali. Che cosa era cambiato?

Secondo me la capacità politica della cosca che sosteneva le organizzazioni mafiose catanesi e siciliane e da queste riceveva in cambio clientele e denaro per le campagne politiche.

La spiegazione del fenomeno è proprio nella possibilità di individuare questa parte perdente che sta indietreggiando su tutto il fronte e che non smette di dare colpi di coda.

È in corso in Italia una profonda ristrutturazione nelle strutture di potere, e ciò in corrispondenza con le rinnovate (e non sempre ben comprese) necessità del capitale. Le vecchie corti dei miracoli stanno per chiudersi per lasciare il posto ai palazzi di vetro del nuovo modo dì gestire la cosa pubblica. Più visibile, ma non per questo meno centralizzata e interessata.

Il problema morale è stato posto perché dal lato produttivo viene un invito sempre più pressante. Lo Stato deve riorganizzare le contraddizioni capitaliste, e proprio per questo non può più utilizzare il vecchio apparato di regime, ereditato in parte sia dal fascismo che dalla classica mentalità mafiosa della Democrazia Cristiana.

Occorrono uomini nuovi, più efficienti, qualche volta innamorati del potere forse più che del danaro. Fanatici giacobini in veste da camera (e con i piedi al caldo), capaci di fare proposte corrette in materia fiscale (la classica rivoluzione in un bicchiere), capaci di denunciare scandali e migliorare programmi a corto termine, per andare a cadere diritti per terra davanti alla prima nevicata di dieci centimetri.

Non è dell’efficientismo che qui si discute. Uno Stato efficientista non è mai esistito, e questo la scuola liberale dell’economia l’aveva capito un secolo fa. Si discute di una specie di cambio della guardia.

Lo spettatore statale degli intrighi del capitale poteva starsene a guardare dedicandosi, nel frattempo, ai suoi affari e alla sua clientela. Il tecnocrate invitato a partecipare alla riorganizzazione capitalista non può più essere un “cliente”, deve avere una preparazione, un progetto, le idee chiare.

Il capitale non ha più bisogno di “mammasantissima”, occorrono specialisti usciti dalle università dedicate all’ideologia imperante. Nel cambio la vecchia guardia tramonta. Le beghe sotterranee si vedono arrivare alla superficie. E sono faccende meschine. Complotti e organizzazioni segrete, logge numerate e partiti nostalgici, accumulatori di tangenti e faccendieri girano attorno all’attenzione ormai assuefatta della gente e sembrano ripetere con monotonia sempre la stessa vicenda. Ma occorre leggere bene questa vicenda.

La parte che sta per essere messa da canto non intende andarsene, abbandonando le leve del potere che da molti anni aveva in mano. Almeno vuole avere il tempo per sistemare le sue faccende. Per questo le stragi e le bombe sui treni. Avviso, intimidazione, ricatto e segnale d’allarme. Le stragi hanno chiamato a raccolta la parte peggiore degli uomini di potere, coloro che non si fanno certo scrupolo di uccidere la povera gente per realizzare i loro progetti di arricchimento e di dominio. E la parte cosiddetta nuova, quella che fa tanto rumore sulla questione morale, sa perfettamente da dove vengono questi colpi di coda e sa anche il pericolo che tutti corriamo di possibili altri fatti del genere.

In sostanza – specie nel Sud – la vecchia mentalità clientelare resta ancora in piedi. Qui c’è gente che si chiede con angoscia cosa accadrà quando si smantelleranno i trentamila posti di lavoro che vengono tenuti in piedi nel catanese dai “cavalieri” legati alle organizzazioni mafiose. E francamente si può anche fare un pensiero a quanto dei furori della questione morale, sbandierata dalla parte politicamente vincente, si regga, almeno per la Sicilia orientale, sulla concorrenza riguardo al grossissimo affare della costruzione delle nuove basi missilistiche siciliane, affare che viene valutato a circa 1.000 miliardi nei prossimi tre anni.

Gli anarchici contro la mafia

Col termine “mafia”, per facilitazione terminologica, intendo riassumere le varie forme di potere, che sono differenti e hanno caratteristiche molto interessanti, le quali impiegano tutte una mentalità comune, che appunto è caratterizzata dal clientelismo.

La struttura mafiosa si basa su di un rapporto clientelare tra capo e subordinati. La raccolta degli accoliti non avviene sulla base di specifiche competenze – tranne rari casi riguardanti la ripartizione di compiti al vertice – quanto per adesione incondizionata e totale al capo clientela. Ogni tradimento o sgarro viene punito severamente, in modo concreto e in modo simbolico, perché fermi la tendenza e dissuada dall’imitazione.

Altre caratteristiche del rapporto mafioso sono: l’accettazione della delega al superiore, il valore della gerarchia, la soddisfazione di un interesse personale, il superamento di problemi contingenti realizzato attraverso l’intervento dell’organizzazione.

Col tempo, negli ultimi cento anni, questi rapporti si sono modificati, passando da un paternalismo romantico a un efficientismo tecnocratico. Ma la sostanza della questione è rimasta la stessa. La mafia è un’organizzazione produttiva a livello locale o internazionale che lavora sulla base di precise regole di mercato. In fondo, i dati più eclatanti, più di centocinquanta morti l’anno a Palermo e più di duecento morti bianche, centinaia a Napoli, in Calabria e a Catania, in fondo, questi dati non sono molto diversi da quelli di altre grandi attività produttive: la Fiat si presenta con decine di morti, l’Ansaldo gli sta dietro, la Montedison arriva a quasi una cinquantina.

Gli altri impianti industriali uccidono alla media di un morto ogni ora e feriscono un operaio ogni 5 minuti. A questo non si possono aggiungere i dati relativi alle morti per cancro, alle morti sulla strada per incidenti mentre ci si reca al lavoro, ecc., perché l’INAIL non fornisce i dati e non è facile trovarli.

Il fatto che un uomo venga ucciso dalla lupara o stritolato da una impastatrice cambia poco. Certo, al potere fa più comodo – qualche volta – sottolineare di più la lupara e meno l’impastatrice.

Gli anarchici sono contro la mafia allo stesso modo in cui sono contro lo Stato e contro i meccanismi di morte che lo Stato costruisce per l’arricchimento di pochi e la sopravvivenza stentata di molti.

Quello che gli anarchici combattono è la mentalità mafiosa. Il sottoproletario che entra a far parte di un’organizzazione mafiosa non possiede più quell’aggressività di classe che poteva contraddistinguerlo prima: vendendosi diventa uno strumento del potere, allo stesso modo di chi accetta la logica del compromesso andando a lavorare in fabbrica, in ufficio, al catasto o in bottega. Individualmente ci potranno sempre essere le ribellioni e i cambiamenti, lo sviluppo di una coscienza individuale di classe e un rifiuto della delega e della clientela, ma sul piano del fenomeno nel suo complesso non si possono fare differenziazioni sensibili solo perché il primo usa il mitra e la lupara e il secondo la zappa o la chiave inglese. Chi tira le fila dell’organizzazione non si distingue affatto, in quanto mafioso o camorrista, dall’uomo politico, dallo statista, dal proprietario di aziende industriali, dall’imprenditore pubblico, dal dirigente, dal giudice, dall’avvocato o dal professore universitario. Le strutture sono equivalenti anche senza essere identiche. Alla mafia in senso specifico fa riscontro la mafia statale e allo Stato mafioso fa riscontro l’organizzazione individuabile in modo esatto nel territorio e nell’attività produttiva che la caratterizza.

Ma lo Stato fa pur qualcosa – qualcuno potrebbe ribattere –, arresta, confina, fa lavorare commissioni contro la mafia, ecc. La stessa Chiesa cattolica si muove dopo anni di connivenza. In realtà nulla è cambiato. Sono forse diminuiti i magistrati, i poliziotti, i politici mafiosi? Sono forse diminuiti i preti mafiosi come ai tempi del mafioso cardinale Ruffini?

Ma lo Stato non si muove per sistemare le cose. Il suo intento è sempre quello di proporsi come regolatore della contraddittorietà del capitale. Quest’ultimo produce valore a costi eccessivamente alti e in modo irrazionale e disorganico. Il capitale (mafia in testa) non è capace di darsi una effettiva regolamentazione. La formazione del valore è estremamente difettosa. In un settore come quello mafioso questa difettosità economica esiste lo stesso anche se meno visibile a causa delle altissime percentuali di guadagno che sono possibili. Ma le cose non vanno diversamente: uomini politici troppo pretenziosi, magistrati e generali troppo desiderosi di potere, vescovi troppo poco interessati al pascolo delle anime, possono benissimo risultare eccessivamente pesanti per la mafia e quindi può partire da questa organizzazione una spinta ai processi di ristrutturazione interna, proprio con l’intervento dello Stato. Alcuni capi sono in galera, ma i capi effettivi, i più significativi, sono sempre fuori e praticamente sconosciuti. In galera l’attività di un capo è dimezzata. Il concorrente lo aiuta, al limite se gli è gregario esegue i suoi ordini, ma nel frattempo si prepara a fargli le scarpe. Lo Stato funge, in questo modo, da regolatore interno dei processi di assestamento e perfezionamento delle strutture mafiose.

Ma c’è un altro aspetto. Mettere in moto un processo di regolamentazione significa avviare il passaggio dal dominio formale al dominio reale. Il capitale sa perfettamente ciò, e sa che una prima condizione inderogabile della trasformazione è la progressiva modifica della mentalità che da gerarchica, clientelare e delegante deve diventare più autonoma, socialdemocratica, assembleare. Il capitale si è per tempo strutturato organismi adatti allo scopo come, a esempio, i sindacati che fungono da ruota di trasmissione tra l’imposizione regolativa statale e la contraddittorietà della produzione del valore. In fondo lo stimolo più importante che spinge il capitale a questa scelta dolorosa è l’abbassamento del profitto, accompagnato dalle difficoltà dell’accumulazione e dall’intensificarsi dello scontro sociale. La mafia si trova, in tal senso, in una situazione di privilegio a causa delle sue alte percentuali di guadagno sui capitali investiti. Ma la tendenza generale verso la produzione di pace sociale, cioè verso l’intervento regolativo dello Stato, vale anche per la mafia. Non è infatti raro il caso che alcuni organi statali, davanti a una prospettiva di ristrutturazione, diventino più realisti del re. Ci sono poliziotti che farebbero i poliziotti a qualsiasi costo. Questi integerrimi imbecilli allignano dappertutto e non appena si apre per loro la porta di una maggiore autonomia d’azione, si scatenano. Il cardinale Pappalardo è uno di questi gustosi personaggi. Non possiede per nulla la finezza politica del mafioso suo predecessore, cardinale Ruffini, e quindi cade spesso in ingenuità che possono anche intralciare i progetti mafiosi. Non si tratta di virtù ma di semplice stupidità.

Ora, la lotta contro la mafia è lotta di lunga durata e non può essere affidata all’estemporanea occasionalità di un poliziotto più coriaceo degli altri o alla stupidità di un pastore di anime. Cosa fare?

Le chiacchiere e le analisi sono utili, ma fino a un certo punto. La letteratura sull’argomento riempirebbe una o più biblioteche. Nei fatti, noi rivoluzionari, finiamo necessariamente, prima o poi, nella nostra lotta, se questa assume una certa significatività, per entrare in uno scontro col potere: i poliziotti ci fermano, ci arrestano, i padroni ci schedano, ci isolano non dandoci lavoro, la magistratura ci condanna, la mafia ci intimidisce, ci uccide. Pensare di fare un discorso ai poliziotti, ai padroni, ai magistrati sarebbe pura follia. Perché dovrebbe essere possibile un discorso ai mafiosi? Perché tanta poca chiarezza su questo punto?

Però c’è da dire una cosa. Non possiamo fare un discorso ai padroni, ma possiamo farlo agli operai, ai lavoratori che col loro consenso permettono ai padroni di realizzare l’isolamento in cui ci veniamo a trovare. Non possiamo fare un discorso ai poliziotti e ai magistrati, ma possiamo farlo a tutti i giovani proletari che sperano di trovare un lavoro nella polizia o nei carabinieri, o ai giovani intellettuali imbrogliati dal mito della giustizia uguale per tutti.

Allo stesso modo possiamo fare un discorso ai proletari e ai sottoproletari che costituiscono la manovalanza della mafia. Solo che una differenza c’è, anche se non è facile vederla. Agli operai, ai proletari futuri poliziotti e agli intellettuali futuri giudici o dirigenti d’azienda, si può fare un discorso di chiarificazione, di approfondimento anche ideologico, di spazi di scelta, di alternative di lavoro, di progressiva realizzazione degli obiettivi di libertà e di pace. Al serbatoio sottoproletario della mafia questo discorso non direbbe nulla. Qui la violenza e la sopraffazione dello Stato, in tutte le sue espressioni, sono legge da sempre. Qui bisogna presentarsi con un programma preciso, con proposte significative, con obiettivi concreti, con soluzioni alternative. Le parole non bastano. Se non possediamo questo programma o non abbiamo le idee chiare per fare le giuste proposte e indicare le soluzioni più adatte, facciamo bene a stare zitti in quanto finiremo per essere messi anche noi, in fondo senza significato, nel mirino del loro fucile.


[(A. M. Bonanno), Lo Stato mafioso, in “L’Anarchia”, Numero unico, novembre 1982, p. 5].

[Cfr. [A. M. Bonanno], Scontri tra mafie a Catania, in “Anarchismo” n. 45, marzo 1985, pp. 9-11. Cfr. anche [A. M. Bonanno], Lo Stato delle stragi, ib., pp. 4-5].

 
 

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