#sku opuscoli-000072 #opuscoli 72 #cover a-c-a-cura-di-alfredo-m-bonanno-e-santo-cali-lecca-x-cover.jpg #teaser Opuscoli provvisori – 72
2015, pagine 96
euro 4,00

Poche settimane prima di morire a Segrate, Giangiacomo Feltrinelli fa uscire per la sua casa editrice un grosso volume di scritti fascisti. Pochi giorni dopo per le edizioni Underground di Catania e La Fiaccola di Ragusa esce un opuscolo con alcuni degli scritti contenuti in quel volume. Il nostro scopo era quello di fare conoscere le responsabilità fasciste di alcuni intellettuali e uomini politici, tutti all’epoca ancora viventi (escluso Adriano Tilgher, morto nel 1941), riciclati nell’arca democratica, e di alcuni fascisti, coperti anche loro di un nuovo alone perbenista, eppure a suo tempo compromessi non solo col fascismo ma con la sua versione razzista. #title Leccaculi e delinquenti #subtitle Quindici scritti fascisti di cui suggeriamo la rilettura #author A cura di Alfredo M. Bonanno e Santo Calì #SORTauthors Bonanno, Alfredo M.; Calì, Santo #cat opuscoli #lang it #pubdate 2017-06-19T22:00:00 #notes Opuscoli provvisori n. 72
Prima edizione: Edizioni Underground – La Fiaccola, dicembre 1971
Seconda edizione: maggio 2015 ** Nota introduttiva alla seconda edizione Poche settimana prima di morire a Segrate, Giangiacomo Feltrinelli fa uscire per la sua casa editrice un grosso volume di scritti fascisti. Pochi giorni dopo per le edizioni Underground di Catania e La Fiaccola di Ragusa esce un opuscolo con alcuni degli scritti contenuti in quel volume. Il nostro scopo era quello di fare conoscere le responsabilità fasciste di alcuni intellettuali e uomini politici, tutti all’epoca ancora viventi (escluso Adriano Tilgher, morto nel 1941), riciclati nell’arca democratica, e di alcuni fascisti, coperti anche loro di un nuovo alone perbenista, eppure a suo tempo compromessi non solo col fascismo ma con la sua versione razzista. Indro Montanelli merita una citazione a parte. Questo ignobile figuro aveva scritto in una delle sua note che Camilla Cederna frequentava i gruppi anarchici dell’epoca (si era, come ognuno sa, ancora nell’onda lunga della strage di Stato), perché vi si trovavano dei bei giovanotti. La signora Cederna, che non era tipo di prendere in mano il volumone della Feltrinelli, aveva avuto modo invece di leggere il nostro opuscolo, datogli da Augusta Farvo, la compagna che distribuiva a Milano le nostre edizioni nella sua rivendita di giornali di via Orefici, e rispose a Montanelli dicendo di stare zitto perché il suo articolo sul Duce era “attraversato dall’ombra di un grande fallo”. Cosa verissima, di cui tutti possono rendersi conto. Riflettiamo un poco sui personaggi di cui pubblichiamo qui le prodezze letterarie. Togliamo subito di mezzo i fascisti veri e propri, i quali, in fondo, appaiono qui gli unici conseguenti, sia pure un po’ appannati dalla necessità che avevano di riciclarsi in qualche modo un po’ meno oltranzista. Lo stesso Evola aveva preso una tangente esoterica che lo portava lontano dal razzismo vero e proprio di estrazione “Difesa della razza”. Ruggero Orlando, antifascista dal 1943. Paolo Monelli, antifascista dal 1943. Alfonso Gatto, antifascista dal 1936. Guido Piovene, antifascista dal 1943. Vasco Pratolini, antifascista, a suo dire, da sempre. Carlo Doglio, anarchico dal 1950. Giorgio Vecchietti, condirettore di “Primato”, riciclato solo negli anni Settanta. Amintore Fanfani, democristiano dal 1945. Aldo Moro, democristiano dal 1945. Adriano Tilgher, antifascista, ma più di tutto antigentiliano. Ugo Spirito, gentiliano, teorico del corporativismo. Aldo Visalberghi, antifascista e partigiano, a suo dire. Comprendo benissimo che occorre un po’ di stomaco a reggere queste letture, ma sono utili per non dimenticare.
Trieste, 17 aprile 2014 ** Alfredo M. Bonanno
Nota introduttiva alla prima edizione La Casa Editrice Feltrinelli ha pubblicato negli ultimi giorni del dicembre 1971 un volume dal titolo Eia, Eia, Eia, Alalà!, una scelta accurata della stampa italiana sotto il fascismo dal 1919 al 1943. Il prezzo eccessivo e la eccessiva incrostazione dottrinale che i curatori hanno voluto dare all’iniziativa, due cose che a nostro avviso concorrono insieme a distogliere il lettore, che alla scarsezza di mezzi finanziari accomuna la non dimestichezza nel districarsi tra le artificiosità letterarie, ci hanno spinto a fare una piccolissima raccolta, agile e spedita, senza troppe pretese, senza apparato critico, ma con due scopi ben precisi: 1) Riportare i testi di personaggi, per la maggior parte tuttora viventi, scritti durante il fascismo, testi di osanna al regime in forma decisamente spudorata. Questi personaggi hanno tutti, oggi [1971], in un clima generalmente antifascista, una più o meno grande influenza sull’opinione pubblica, ed è quindi giusto che quest’ultima sappia con chi ha da fare. 2) Indicare la pericolosità di alcuni giornalisti che oggi tengono banco e addirittura si atteggiano a moralisti del paese, di alcuni professori che ancora blaterano dalle cattedre, di alcuni politici che siedono in Parlamento e che si apprestano a vestire cariche sempre maggiori, di alcuni delinquenti che camuffano il loro attuale fascismo (in definitiva poi sarebbero i soli conseguenti) con le mentite spoglie dei giochetti di parole e delle rinnovellate sigle tipo MSI o Avanguardia Nazionale o Ordine Nuovo. Come si vede non ci poniamo scopi storici o documentaristici, per cui, al di là dell’indicazione della fonte, non aggiungeremo commenti riguardo il clima o i motivi che dettarono quegli scritti. Nella maggior parte dei casi ci troviamo davanti a capolavori di servilismo ottuso che il lettore potrà benissimo valutare da sé.
Catania, 17 dicembre 1971 Alfredo M. Bonanno – Santo Calì * * * * * “Tutti gli sforzi in vista di un’estetizzazione della politica convergono verso un punto. Questo punto è la guerra. La guerra, e soltanto la guerra, permette di fornire uno scopo ai movimenti di massa di grandi proporzioni, previa conservazione dei tradizionali rapporti di proprietà. Così si configura questa situazione dall’angolo visuale della politica. Dall’angolo visuale della tecnica, essa si formula come segue: soltanto la guerra permette di mobilitare tutti i mezzi tecnici attuali, previa conservazione dei rapporti di proprietà. È ovvio che l’apoteosi della guerra da parte del fascismo non si serva di questi argomenti. Nonostante questo, è utile gettarvi un’occhiata. Nel manifesto di Marinetti per la guerra coloniale d’Etiopia si dice che da ventisette anni i futuristi si oppongono a che la guerra venga definita come antiestetica. Pertanto asseriscono: ‘...la guerra è bella, perché – grazie alle maschere antigas, ai terrificanti megafoni, ai lanciafiamme e ai piccoli carri armati – fonda il dominio dell’uomo sulla macchina soggiogata. La guerra è bella perché inaugura la sognata metallizzazione del corpo umano. La guerra è bella, perché arricchisce un prato in fiore delle fiammanti orchidee delle mitragliatrici. La guerra è bella perché riunisce in una sinfonia il fuoco di fucili, le cannonate, le paure tra gli spari, i profumi e gli odori della decomposizione, come i grandi carri armati, le geometriche squadriglie aeree, le spirali di fumo elevantisi da villaggi bruciati e molto altro ancora...’. I poeti e artisti del futurismo... si ricordino di questi princìpi di un’estetica della guerra, perché da essi venga illuminata... la loro lotta per una nuova poesia e una nuova plastica! Questo manifesto ha il vantaggio di essere chiaro. La sua impostazione merita di essere ripresa dal dialettico. Per lui l’estetica della guerra attuale si presenta nel modo che segue: se l’utilizzazione naturale delle forze produttive viene frenata dall’ordinamento attuale dei rapporti di proprietà, l’espansione dei mezzi tecnici, dei ritmi di lavoro, delle fonti di energia spinge verso un’utilizzazione innaturale. Questa utilizzazione avviene nella guerra, la quale, con le sue distruzioni, fornisce la dimostrazione che la società non era sufficientemente matura per fare della tecnica un proprio organo, e che la tecnica non era sufficientemente elaborata per dominare le energie elementari della società. La guerra imperialista è determinata in tutta la sua spaventosa fisionomia dalla discrepanza tra l’esistenza di poderosi mezzi di produzione e la insufficienza della loro utilizzazione nel processo di produzione (in altre parole, dalla disoccupazione e dalla mancanza di mercati di sbocco). La guerra imperialista è una ribellione della tecnica, la quale ricupera dal materiale umano le esigenze alle quali la società ha sottratto il loro materiale naturale. Invece che incanalare fiumi, essa devia la fiumana umana nel letto delle trincee, invece di utilizzare gli aeroplani per spargere le sementi, essa li usa per seminare le bombe incendiarie sopra le città; nell’uso bellico dei gas ha trovato un mezzo per distruggere l’aria in modo nuovo. Fiat arspereat mundus, dice il fascismo, e, come ammette Marinetti, si aspetta dalla guerra il soddisfacimento artistico della percezione sensoriale modificata dalla tecnica. È questo, evidentemente, il compimento dell’arte per l’arte”. Walter Benjamin ** Indro Montanelli
Mussolini e noi Tante volte abbiamo tentato di sottrarci alla Sua presa, e a forza slontanandolo, riguardarlo con freddezza di fotografi. E forse nulla, quanto la vanità di questo sforzo, dà la misura del suo ipnotico potere su di noi. Di dedizione non parlerei, o per lo meno non di una dedizione facile e paga, continua e uguale: altrettanto impetuose sono le ondate di tenerezza e di ribellione di cui essa si increspa. Anche, occorre dire che parlarne non ci è facile, tenuti fra l’ansia di piacergli e il dubbio di esserne disprezzati, smaniosi di uscir dall’anonimo della frase oramai abusata e di trovare un atteggiamento nostro preciso e immutabile, sincero e dignitoso a un tempo: atteggiamento da uomo ad uomo. Ma quando come uomini ci formammo, Lui era già un mito lontano, il secolo Gli apparteneva ed anche noi eravamo roba Sua, tutti: anche chi, di proposito, aveva voluto odiarlo o ignorarlo. Oggi Egli è diventato l’unico spettatore delle nostre gesta. Intendo dire che tutto ciò che facciamo è a Lui solo riferito, del consenso o dell’indignazione altrui poco importandoci. Il pubblico più non esiste. Finita l’epoca degli amoreggiamenti e civettamenti con le folle, il rapporto con la società si è trasformato e condensato nel rapporto con un uomo. Ma non per questo si è semplificato. Anzi. Il rispetto di questo singolo è molto più difficile a guadagnarsi che non il consenso di un collegio elettorale: dinanzi ai Suoi occhi non si istrioneggia, le parole di cui sovente ammantiamo le cose e gli eventi si sfaldano, l’orpello e il belletto non aderiscono. Quando Mussolini ti guarda è inutile tentare di recitare e di ricorrere alla suggestione di una messinscena qualunque. Quando Mussolini ti guarda, non puoi che esser nudo dinanzi a Lui. Ma anche Lui sta, nudo, dinanzi a noi. Che importanza possono avere il fez di Caporale d’Onore o la feluca di Ministro? C’è chi, per essere qualcuno, ha bisogno di ricorrere a una divisa o a un distintivo. Mussolini no. Il Suo volto e il Suo torso di bronzo sono ribelli ai panneggi e alle bardature. Ansiosi e insofferenti, noi stessi glieli strappiamo di dosso, mirando solo all’inimitabile essenzialità di questo Uomo che è un vibrare e pulsare formidabilmente umani. E il resto non conta. Lo amiamo? Non credo. Ma forse sarà meglio lasciare nell’ombra di una certa indeterminatezza questo complesso rapporto tra Lui e noi o l’inquietudine continua in cui ci tiene. Del resto, ci sono molti modi di amar Mussolini: come padre della patria, come instauratore di un ordine nuovo, come vate di giustizia, come “uomo che ha successo”. Molti modi – e tutti veri e tutti, anche, irriverenti. Infatti ci sono nella storia altri padri della patria, altri instauratori di ordini nuovi, altri vati di giustizia, altri beniamini del successo; amati al pari di Mussolini; ma non, quanto Lui, combattuti e venerati, discacciati e assetatamente ricercati dalle coscienze ch’Egli stesso ha foggiato, che tutto Gli debbono e, per questo, tutto talvolta Gli negano. Amarlo. Ma non desiderare di essere le favorite di un harem. Aspirare alla Sua stima, ma non mendicare il Suo encomio. Amarlo: ma senza epilessia e senza il gusto sadico di farsene picchiare e schernire. Amarlo senza umiliarsi – difficile cimento –, da quei liberi e forti uomini che debbono essere i figli di Mussolini. (Indro Montanelli,”Meridiani”, ottobre 1936) ** Ruggero Orlando
Tramonto della goliardia Una circolare di Roberto Maltini, della quale i giornali hanno dato notizia, prescrive l’abolizione negli ambienti universitari della tradizionale festa delle matricole. Quando se ne va qualche cosa di tradizionale, è nostra abitudine, o, a Dio piacendo, fissazione, tirare un sospiro di sollievo: quanto viene chiamato “tradizionale”, ci sembra lo sia appunto perché non merita altro aggettivo atto a dargli uno scopo, vivendo senza ragione alcuna, per forza di inerzia, inutilmente. Fino dai primi anni di vita universitaria, poi ci urtò sempre, come un nugolo d’insetti molesti, quella che da molti entusiasticamente veniva chiamata la goliardia, consistente nell’esaltazione sfrenata e platonica a un tempo, talvolta nostalgica, di immaginari Bacco, Tabacco e Venere, spolverati e bons à tout faire in tutte le occasioni più impensate: feste sacre, profane, sportive, scolastiche, sessioni concesse e sessioni mancate, gite o vacanze. Molti corifei urlanti della goliardia (per lo più matricolini) erano, conosciuti da vicini, ottimi giovini, avvezzi, pare incredibile, a razzolare bene e a predicare male, all’opposto del padre Zappata; tutti ripieni di ambizioni romantiche, costruite sulla letteratura alla Fusinato, alla Mürger, all’Addio Giovinezza, che li perdoni la cara e gloriosa ombra di Nino Oxilia; i quali poeti hanno animato le loro creazioni di vita artistica, ma che è ingenuo possano servire di guida per ricostruzioni reali. Quello che vive nell’arte rassomiglia alle nuvole, che spesso su in cielo assumono colori magnifici, immagini mutevoli e inebrianti, ma se scendono a terra si risolvono in antipatica nebbia. Fa piacere vedere ora che questa goliardia, in una delle sue manifestazioni più caratteristiche, è sconfessata esplicitamente dalle gerarchie del Partito. La vecchia Italia ha vissuto molto di retorica, assai più di quanto non si creda, anche più dell’Italia attuale, dove tuttavia di quella malattia antipatica ne perdura ancora parecchia e a espellerla per bene si dovrà faticare un bel pezzo: era naturale, dal momento che improvvisate nazioni, avevano dovuto assumere imbastiture politiche prese a prestito, non mai o non più nostre, abitudini di altri tempi e altri luoghi; copiare tradizioni straniere o riverniciarne a nuovo nostrane, fiorenti già nell’Italia divisa, male adatte a un paese unificato. Questa incompatibilità tra ciò che c’era e ciò che si voleva è stata la nota riassuntiva di tutta la nostra crisi d’anteguerra, che ci condusse all’intervento, come a una liberazione, reclamando la necessità di un rinnovamento, attuatosi nel Fascismo, bisognoso e capace più di ogni altro di fare piazza pulita... Cadano i luoghi comuni, le false fierezze, i romantici piagnistei della decrepita goliardia: la miseria, per esempio, è una cosa dura e bisogna avvezzarsi a saperla affrontare con coraggio e sdegnosa dignità, se è necessario anche con il sorriso; bisogna trovarsi in condizione di saper portare abiti decenti e perfino i guanti, senza sfigurare mai in nessun luogo, senza cedere all’eccesso, indice di scarsa virilità, consistente nell’esaltazione della miseria come modo di vita, menandone vanto e scherzandoci con leggerezza, quasi che l’attività più commendevole fosse l’accattonaggio... Il Fascismo rivoluzionario disperderà anche la leggenda romantica del goliardo, sostituendovi l’avanguardia della sua milizia armata, curando l’educazione di una coscienza, senza camaleonti multicolori di facile contentatura, disposti a nutrirsi di fumo, preparando una seria falange di intellettuali, pronti a porsi alla testa degnamente di ogni opera pacifica e disposti anche alla difesa guerresca del lavoro compiuto. (Ruggero Orlando, “Rivista del G. U. F. napoletano”, ottobre-novembre 1929) ** Paolo Monelli
Scritti e discorsi del Duce L’editore Hoepli si accinge a pubblicare i discorsi e gli scritti di Benito Mussolini e del fratello Arnaldo; e sono usciti di questi giorni il primo ed il settimo volume degli Scritti e discorsi di Benito Mussolini, edizione definitiva. Il primo volume comprende articoli e discorsi dal tempo della campagna per l’intervento all’inizio del fascismo; il settimo contiene la materia degli anni 1929, 1930 e 1931... Dice Mussolini nella prefazione: “Non riconosco alle mie prose speciali meriti letterari”. Ma uno ne hanno, e grandissimo; e appunto questo, che non sono letterarie. Questa, se Dio vuole, non è letteratura; come non sono letteratura i discorsi di Machiavelli, le cronache del Guicciardini, i dialoghi del Galileo, gli studi di Gioberti. (Noteremo ancora una volta come sia strano che con un passato così illustre di scritture politiche civili economiche filosofiche scientifiche e religiose, oggi si gabellino per strumenti della gloria letteraria italiana il lacrimoso romanzo, la mencia novella?). Ma questa è gagliarda prosa civile; piena di fatti, di idee, di azione. Tecnica, aderente alla realtà; ma non mai dimessa, non mai abbandonata. Qui si riconosce la scuola dell’uomo; che fu, che è ancora giornalista, cioè scrittore di cose. E a scriver di cose, di problemi, di situazioni politiche, a far polemiche, a cacciare in testa ai restii verità ostiche, si è fatto i muscoli, il respiro vasto, quel senso ineffabile della parola per cui anche un arido elenco di opere pubbliche si trasfigura in suggestione. Altra conseguenza della scuola, del nobile mestiere esercitato sulle colonne dei giornali: l’inquadramento della materia, il risalire dal particolare a visioni vaste; per cui fissando, per esempio, alla corte dei conti i suoi compiti in una seduta di ordinarie deliberazioni, Mussolini sa rievocare accanto alle generose attese del Piemonte del 1862 il corso delle formidabili vicende “che hanno reso più grande l’Italia, nel territorio e negli spiriti”. E questo non con digressioni liriche, con pretesti oratorii; sì bene citando altre parole tecniche, quelle con cui Quintino Sella presentava al parlamento torinese il progetto di legge sulla creazione della corte dei conti; e commentandole con propositi immutati di scrupolosa gestione della ricchezza pubblica. E leggete come in quattro periodetti scarni, quasi dispettosi, per ricordare alla camera la vita del trentaduenne onorevole Domeneghini, baleni il fiero dovere della guerra e della rivoluzione, e l’oscuro sacrificio, e il crudele oblio degli uomini, e la vanità delle parole nel tempo frettoloso che non permette nemmeno di fermarsi troppo a richiamare il compagno caduto. Come in guerra: “Altre cose vorrei dire, ma il tempo delle parole declina...”. Passare dal tumulto del primo volume alle prose del volume VII è come trovarsi d’un tratto fuori da una passione di folla fra il sommesso fruscio d’un passo di marcia. Il fascismo, e col fascismo l’Italia, in marcia. Da undici, dodici anni: la strada percorsa è lunghissima, ma ancora più lunga è quella che un impeto sempre giovane e rinnovato si propone; gloriose sono le tappe, ma non c’è tempo di fermarsi a considerarle, perché l’ansia di superare altri termini incalza. Qui gli scritti di Mussolini non sono più bollettini di guerra, rullio di tamburo; sono discorsi di tappa, densi di risoluzioni, di riepiloghi, di incoraggiamenti, di programmi. L’antico tribuno non ha disarmato, la sua vigoria è intatta (leggete in questo volume i Discorsi del maggio toscano e milanese, anno di macchinazioni internazionali 1930, detti dalle ringhiere popolari perché, riempito il cuore del popolo devoto, traboccassero oltre confine, giungessero all’orecchio degli autentici lupi camuffati da belanti agnelli; qui lo stile è ferro, è inesorabile durezza; e chi sa come la parola detta impallidisca nella trascrizione, ripensi a quello che furono queste parole nel cuore degli ascoltanti se oggi, leggendole, stringono la gola. Ma di Mussolini oratore vorremmo dire di più; di quelle sue parole collocate rare e precise come, sul palco, i diretti e i montanti di esperto pugilatore; o quelle altre umili, succinte, che inumidiscono gli occhi; come quelle che il popolo di Torino udì lo scorso anno dal balcone reale, evocanti con così toccante semplicità lo squallore della casa fredda e del desco vuoto). Ma la saggezza e l’esperienza del politico affina il tono, approfondisce i rapporti; si veda la lunga, lucida, perspicua Relazione sugli accordi del Laterano; più che relazione studio storico e diplomatico, in cui nulla si concede al lenocinio stilistico, alla mozione degli affetti, all’eleganza formale, eppure lo scritto è limpido ed esaltante; tanto, anche qui, dall’importanza del fatto storico il pensiero e la parola trascendono al valore eterno di Roma nel mondo, al valore universale della rivoluzione fascista. La cosa che più mi piace in queste prose è quella commossa visione geografica dell’Italia che sta sempre innanzi agli occhi di Mussolini, espressa o no, e inquadra e colorisce la sua opera; sia che elenchi i frutti d’un programma già annunciato, sia che indica nuovo programma di lotta, per il grano, per la bonifica, per la moneta, per i sindacati, per i lavori pubblici; o ricontempli dall’alto di ogni nuova tappa l’ubertoso cammino percorso: “Ecco: io ho dinanzi al mio spirito la nostra Italia nella sua configurazione geografica, nella sua storia, nella sua gente: mare, montagne, fiumi, città, campagne, popolo”. (Paolo Monelli, “Gerarchia”, dicembre 1933) ** Alfonso Gatto
Espressione di Mussolini Quando Mussolini parla della Patria trova la sua situazione di contemplatore, il sentimento suo più intimo, direi più individuale. Di una estrema realtà la sua Patria è costante: di una posizione nel tempo e nello spazio la sua terra è precisa: figura e storia assunte nello stesso ordine di sguardo. Così il Duce quando parla, si esprime: gli italiani che ascoltano comprendono prima di tutto come Mussolini debba esprimersi in quella forma e non altrimenti: con quelle parole giuste e rilevate, per rendere concreta nell’azione del linguaggio la sua storia di uomo. La folla – in cui Mussolini trova ridestata e precisa di presagi la sua memoria, la sua vita – sente la sua animazione disposta allo sguardo del Capo: vi si approssima sempre più, ripopolandosi e propagandosi in sé sola: diventa vero popolo, ma concreto, presente, senza astrazioni. E Mussolini ne ha il senso, allo sguardo aperto, al corpo orientato: Mussolini lo vede, lo misura esistente dal bisogno che ne ha in sé: Mussolini lo chiama per lo spazio che esso occupa e difende, per il lavoro aperto nelle case, nelle scuole, nelle officine. Le città italiane diventano la natura operosa di questo popolo che ha memoria lunga e di un giorno amato interamente si rende piena la vita, e non dimentica più le parole ferme per cui si sentì esistere e tremare. Le città continuano, l’una nell’altra: tutte le porte aperte alla voce. Il Duce parla: l’orizzonte è nel giro rapido dei suoi occhi. Non può che vedere come le sue parole diventino l’attenzione stessa del popolo che le ascolta: l’unità è assoluta, inamovibile: una vera distesa della Patria. Questo è il sentimento che il Capo realizza per tutti. Quando Mussolini parla del Lavoro, trova il suo destino di uomo, la sua mano, ed il segno di un’autentica durezza. L’operaio è richiamato ad una sua qualità, ad un suo bisogno di esprimersi nel lavoro, di esistere per la vita che crea od assicura a tutti ed a se stesso. Le ragioni della società – economiche, esatte, e persino meccaniche – nell’individuo che le rende sue, diventano volontari sentimenti ed espressive attitudini. Il Capo che vive di lavoro ha dato agli operai il riconoscimento della loro individualità, della loro intelligenza alla produzione: questi si sono visti esistere per Lui, raggiunti da un compito, da una responsabilità, dall’evidenza stessa del loro ordine. Anche in questo, Mussolini non ha parlato, ma si è espresso: ha trovato la sua memoria senza rimorsi, la sua vita senza riposo; si è potuto mostrare al popolo senza le riserve dell’uomo temperato ed ipocrita per fortuna: ed ha indicato le ragioni della sua volontà, della sua opera nel tempo che dura ed ha durato a realizzarle. Così, nel lavoro, Mussolini ha indicato agli operai il sentimento della vita stessa, il risveglio assiduo dell’individualità e della fede nei mezzi concessi all’uomo: volontà, intelligenza, amore dell’opera. Il Duce si è espresso nell’unico sentimento in cui ha sempre vissuto: Milano era questa città della sua memoria, del suo lavoro ed insieme la metropoli dei più perfetti operai d’Europa, dei più instancabili iniziatori di vita: qui, dove la volontà degli uomini è dura, Mussolini ha risentito tutto il suo carattere e l’esistenza fisica, la virilità dell’Italia. La piazza era aperta dal popolo dei lavoratori: nell’immagine della patria, questi erano soldati: nel corpo della terra italiana, questi erano i figli. Ed i legami sintattici, con cui Mussolini è passato a parlare della “preparazione integrale e militare del Popolo italiano”, erano stretti a questa estrema unità di intenti in cui il lavoro assicura la pace e rende preparata ogni guerra. Per Mussolini – è questo il punto che bisogna notare – i legami precisi della espressione, il passaggio opportuno da un pensiero ad un altro restano congiunti, incarnati all’unità del loro stato: questa realtà unica brucia le intenzioni, ma assolve i destini. Egli ha parlato di tutti gli aspetti dello Stato per renderlo sicuro nelle relazioni del suo essere e del suo divenire. I rapporti intimi della memoria del Capo sono così leciti e concreti impegni per il futuro. Ma ricordiamo i legami intimi del suo ordine mentale: “Le due cose si tengono”. Così stando le cose voi non vi sorprenderete che noi oggi puntiamo decisamente “sulla preparazione integrale e militare del Popolo italiano”. Sono i rilievi del pensiero dominante di Mussolini: qui l’espressione diventa inamovibile, cruciale. Ed il popolo è stretto ad un’attenzione su cui cala anche il gesto del Capo: le sue mani strette, mordenti: il suo volto penetrato dagli occhi. In questa estrema semplicità e precisione di linguaggio. Mussolini determina l’intelligenza del popolo, ne coglie l’ansia e vi affida in modo aperto le conclusioni più definite. “Il vostro contegno davanti a questa esposizione è così finemente intelligente, che dimostra, e mi riprova, che mentre i metodi di lavoro della diplomazia devono essere riservati, si può benissimo parlare direttamente al popolo, quando si vogliano segnare le direttive della politica estera di un grande paese come l’Italia”. Qui il popolo si riconobbe vivo: tutta la piazza ebbe un tremito umano: il Capo aveva visto, aveva risentito, quasi in un modo fisico, l’estrema sensibilità della folla. Questa concordia fu un risalto per tutti: l’ora chiara della sera slargava Milano, liberandola in un respiro di strade mosse dal popolo. Immaginammo l’Italia imbandierata da questo vento. Ora possiamo dire che davanti al popolo di Milano, Mussolini ha espresso il suo sentimento di Capo, dando alla memoria una sete sempre più tesa di futuro. Tra questi luoghi che seppero la sua vita dura e polemica, in questa terra fedele, il Duce si è commosso ed ha additato, a tutti, la necessità di risentire ancora sveglio e pronto il cuore. Ha ribadito, un’altra volta, che “gli indifferenti non hanno mai fatto, né mai faranno la Storia”. Noi aggiungiamo che anche la natura li respinge; anche la morte li trascura. I poeti, gli artisti sanno negare ogni diritto di vero agli esseri inanimati della vita; sanno negare ogni rifugio di astrazione agli esiliati della morale. I poeti, come gli operai, lavorano per la continuità della vita. (Alfonso Gatto, “L’Italia letteraria”, 20 ottobre 1934) ** Guido Piovene
Contra judaeos Il breve libro di Telesio Interlandi, Contra judaeos, edito dalla “Difesa della razza” in Roma, è uno dei migliori, forse il migliore, uscito sull’argomento. L’autore è un giornalista politico perfetto; ma nel libro, che è poi sempre la prova del fuoco, la sua prosa regge anche meglio che nelle pagine del giornale, per la tessitura serrata degli argomenti e per la forza dello stile. La sua brevità stessa gli conferisce vigore; e per trovargli un paragone recente bisogna forse nominare quel meraviglioso libretto, che l’Interlandi cita. Saggio sull’indole dell’Inghilterra contemporanea [tr. it., Firenze 1938] di Hilaire Belloc, che in ottantacinque pagine dice più di un trattato. È una mia idea fissa, contro coloro che lamentano l’abbassamento di tono dei prosatori di oggi, che abbiano il vizio di guardare soltanto ai romanzieri e ai novellieri, e insomma agli scritti d’arte; dimenticando che il massimo prosatore artista del Cinquecento è uno storico e del Seicento, uno scienziato. Credo che un giorno, quando sarà scritta la storia dell’arte del nostro tempo, il centro sarà tenuto da prosatori politici e polemisti. Intorno alla razza e agli ebrei si sono già scritte in Italia molte cose intelligenti; molte però con un difetto comune, quello della frondosità, e cioè un eccesso di argomentazione. Pareva che molti portassero una tendenza analitica e titubante nell’accumulare argomenti, giustificazioni, cavilli su una questione assai semplice per chi l’affronti senza tema. Parlo specialmente dei molti che si smarriscono alla caccia di tutte le manifestazioni della cultura giudaica. Si deve sentire d’istinto, e quasi per l’odore, quello che v’è di giudaico nella cultura; chi non difetta d’istinto, non confonde l’opera ebrea con una che sembra simile per analogie esterne. La ricerca del giudaismo nelle arti e nelle lettere non dovrebbe mai essere soverchiamente ragionata, o può accadere quel che è accaduto ad alcuni, che, a furia di sottigliezze, finiscono per concludere che il mondo è per quattro quinti giudeo. Il libro dell’Interlandi ha questo grandissimo pregio: d’essere tutto sfrondato, e perciò persuasivo. Lo scrittore parla all’inizio dei “malati di misura”. Non ha questa malattia e perciò colpisce nel segno. I misurati, se anche fanno propria una tesi, non riescono che a intorbidarla; gli intelletti decisi sono semplificatori. Chiarire agli Italiani che la razza è un dato scientifico, biologico, basato sull’affinità del sangue, è il primo compito che il libro incoraggia; secondo, dimostrare che l’inferiorità di alcune razze è perpetua; che negli incroci l’inferiore prevale sul superiore; che la razza italiana dev’essere gelosa della sua immunità. La polemica mira contro le correnti che accolgono la parola patria in senso che variamente si definì idealistico o storico e si traducono in “una affermazione tutta retorica e letteraria di romanità senza radici”, in un “imperialismo spirituale”, in un rifiuto della parola “razza” per quella meno impegnativa di “stirpe”. Giusti essendo questi princìpi, è forza che gli ebrei sentano, quando li sentono, legami solo intellettuali e formali con la nazione italiana, e anche quelli non infrangibili; e che quei legami siano meno potenti dell’affinità della razza di tutti gli ebrei tra loro, che i loro uomini costantemente riaffermano, primo fra tutti il Rabbino Capo di Roma. Nella polemica contro gli ebrei che l’Interlandi, per anni e per primo, ha sostenuto sul “Tevere”, ha accumulato molti scritti di ebrei che suonano rivelatori: qui cita i più probativi. Max Nordau: “Il sionismo politico è la conclusione logica di due premesse: l’esistenza della nazione ebraica e l’impossibilità per essa d’integrarsi onorevolmente nella vita nazionale dei popoli”. I rabbini d’Italia riuniti a congresso: “Conservando fedeltà al nostro sangue, alla nostra storia e alla nostra missione non veniamo meno a nessun altro nostro dovere... A suo tempo, cari giovani, ricreate su basi interamente ebraiche la vostra nuova casa, senza cedere a lusinghe di assimilazione”. Un popolo che si sente popolo, e che è diffuso in tutte le parti del mondo, non può che essere avverso a tutti i regimi sorti da una riaffermazione dei valori nazionali; ed un ebreo che pensasse altrimenti sarebbe illogico e insensato. Gli ebrei americani a congresso hanno manifestato la necessità ebrea di serrare le file per la difesa delle idee democratiche e la loro inimicizia per i regimi autoritari. Seguendo questa inevitabile logica, gli ebrei si riallacciano alle loro tradizioni mai indebolite, che sono universalistiche e mirano alla tutela di tutti i popoli nel seno del popolo eletto; e in quelle tradizioni trovano sempre nuovo stimolo e forza. Ma ve dell’altro, che il libretto dimostra. Gli ebrei possono essere solo nemici e sopraffattori della nazione che li ospita. Di sangue diverso, e coscienti dei loro vincoli, non possono che collegarsi contro la razza aliena. L’enorme numero di posizioni eminenti occupate in Italia dagli ebrei è il risultato di una tenace battaglia. Come stranieri, essi tentano di ottenere il trionfo sulla cultura nazionale altrui, portandola “a forme europeistiche”, staccandola dalle “radici popolari dell’arte”, come avvenuto in Italia. Queste necessità, evidenti alla logica sono anche provate dal loro ripresentarsi continuo attraverso la storia. La fortuna degli ebrei presso i popoli alieni passa sempre per cinque tappe riconosciute: accoglienza senza sospetto e simpatia; affermazione ebraica; dominio ed apogeo; reazione popolare, per lo più osteggiata dal clero e dal governo; insurrezione del popolo e massacro, talvolta prevenuto con l’espulsione degli ebrei. Ho fatto il riassunto di alcuni punti di questo bel libro, spesso giovandomi delle sue stesse parole. La sua virtù principale è di avere ridotta all’osso la questione ebrea, ed alla semplice constatazione di fatti che bastano copiosamente a vincere la causa, senza che possano essere ribattuti. (Guido Piovene, “Corriere della Sera”, novembre 1938) ** Vasco Pratolini
Preparazione e consegna guerriera Mussolini comandò di vivere pericolosamente. Non interessa la parafrasi nittiana; è importante riscontrare come, oggi, gl’italiani abbiano elevato il comandamento a “costume” di vita essendosi portati, come massa, nel vaticinio d’Oriani; e prossimo, in quanto popolo, al padre Mazzini. (Avere riportato il proletariato italiano dalla fata morgana dei marxisti bolscevici all’operosità fruttuosa del corporativismo, al riconoscimento del valore d’una guerra da lui voluta e vinta in grandezza, all’esistenza della famiglia come cellula dello Stato, dell’orgoglio di sentirsi e sapersi italiano e solo in forza di ciò universale, è stata l’opera prefissa, la mèta raggiunta – non il miracolo come è in uso di dire – dei primi dieci anni di governo fascista; ed è già storia. Il popolo, rimasto sano alla radice, partecipò alla rinascita nelle squadre d’azione, poi con l’aderenza totalitaria al verbo fatto carne). Dicevo di vivere pericolosamente, ma parlando degl’italiani corre l’obbligo – per gli altri, non per noi – d’una distinzione che precede un possibile equivoco intenzionato, quindi distinzione fra “vita pericolosa” a un fine ideale e l’incoscienza del pericolo, fra l’uomo d’azione e il maniaco, fra lo schermitore e il prestidigitatore; fra l’industriale corporativista e il capitalista speculatore, fra la Fiat e la Ford; in definitiva fra il latino-italiano e l’inglese-americano. Come dire: fra la civiltà e il progresso. Vivere, nel caso nostro, cercando il pericolo in rapporto all’avvenire imperiale apportatore di respiro economico... L’Italia fascista è la dimostrazione di come possa sortire da una umanità temprata a questo clima eroico una civiltà da impero (e senza reminiscenze spartane). Cioè, l’adeguarsi di un popolo alla castigatezza del regime di vita contrapposto e identità al vivere pericolosamente –, affiancato nel suo intento dalle organizzazioni sindacali e assistenziali: sangue della Nazione nelle vene del proletariato; per la certezza di un “suo” domani. Questa la massa: operai e rurali, forza leva della rivoluzione che continua “rappresentanti la razza nel suo significato più profondo e immutabile” (ha detto l’altro ieri il Duce ai contadini), mentre le generazioni giovani vengono addestrate coll’armi per l’armi nelle parentesi degli arnesi del mestiere. E l’esempio di un Capo fatto a immagine e somiglianza, più ancora: fatto della stessa “materia” del suo popolo. Un popolo entrato in quest’ordine d’idee era maturo per una guerra, massimo per una guerra coloniale che significa l’avvio dell’impero; pronto cioè a percorrere un’altra tappa del suo cammino rivoluzionario. Ed è pronto a sostenere “l’assedio economico che la storia bollerà come un crimine assurdo”; forte nell’adempimento del suo “dovere” e conscio del suo “sacrificio” che, ha detto il Duce, nella odierna consegna sarà il solo “privilegio” del quale potrà essere fiero. La preparazione è completata. La consegna consiste nell’aderire spiritualmente e fisicamente sempre di più a “questa epoca nella quale bisogna sentire l’orgoglio di vivere e di combattere”, “nell’epoca in cui un popolo misura al metro delle forze ostili la sua capacità di resistenza e di vittoria”. Il popolo italiano è preparato a mantenere la consegna! Eternità della rappresaglia. Parlare (agire) in nome di un popolo significa averne l’identità nel cuore e nel cervello: Mazzini è l’esempio più recente ed eterno. Ma per la costruzione di un ideale che implica la conquista d’impero, il cuore non sorpassa mai il cervello, come nel costume di vita il godimento, sia pure estetico, non deve fiaccarne l’umanità. (Su questo piano la massa collabora colla massima fede). Per non aver voluto riconoscere l’unità di tale azione fra il Capo e il popolo italiano – o, peggio, per non aver calcolato la potenza, fisica e ideale, che ne consegue, l’egoismo idealista dell’Inghilterra, l’idealismo egoistico della Russia e le nazioni-tender alle locomotive degli interessi ginevrini, hanno applicato le sanzioni contro l’Italia che per la prima volta, dopo il separatismo millenario, si trova unita negli spiriti e forte nelle armi agli ordini di un Duce rivoluzionario. Serrando i denti e le cinghie, sfogliando dell’oro e costruendo fucili, il popolo italiano, universale e paesano, sopportatore e mistico, ribelle e vendicativo reggerà all’assedio economico; il Capo l’ha chiamato proletario e proletario non è un aggettivo più o meno simpatico, ma gerarchia della giustizia sociale. L’affronto va scontato: o soddisfazione, senza vuotezze diplomatiche, o rappresaglia economica eterna; eternità che può avere un termine conquistata l’Etiopia ed iniziata la revisione degli imperi. (Vasco Pratolini, “Il Bargello”, gennaio 1935) ** Carlo Doglio
Funzione politica dei GUF Per quanto ciò possa, a prima vista, sembrare una assurdità, sta di fatto che la più importante funzione dei Gruppi Universitari Fascisti non si esplica nelle relazioni tra Università e studenti. A contrasto di ogni organizzazione goliardica d’altri tempi, sono ben minime infatti, le occasioni d’un intervento dei Guf presso il Corpo Accademico, a difesa d’un qualsivoglia interesse degli studenti che si pretenda conculcato; ed è ciò tanto più logico, in quanto le Università non vivono una loro libera vita, bensì dipendono e si costruiscono per opera della stessa organizzazione politica che ha formato le esistenze dei Guf. Ma, d’altro lato, non bisogna affatto pensare all’organizzazione studentesca in Italia, come a un semplice parallelo delle altre istituzioni giovanili cui il Partito Fascista ha dato vita; che una tale idea mostrerebbe assoluta incomprensione dei fondamenti su cui e per cui se creato in Italia il Regime Fascista... Dopo ciò che s’è detto, altra questione che ci appare opportuno sia al più presto chiarita, è quella appunto delle attività dei Guf alle quali, nel nostro esame, ci riferiremo: perché, iniziando il nostro studio, c’è, per la verità, apparso inutile riferirci a quelle manifestazioni di carattere nazionale e solenne, che di per se stesse sono dimostrazioni dell’assunto che le anima – e tali appaiono i Littoriali sia della Cultura e Arte, sia dello Sport – bensì abbiamo riconosciuto importantissima quella che è la vita giorno per giorno dell’organizzazione, e sopratutto l’attività compiuta dai Guf nelle piccole città di provincia. Infatti, crediamo di potere identificare l’impressione di chi, per la prima volta, si trovi negli uffici di un Gruppo Universitario, rappresentandola come lo stupore di trovare dei giovani che tendono ad affogare la tradizione goliardica; perché (è questo un concetto largamente diffuso ancora nelle varie classi della popolazione) non si riesce a scindere l’idea “studenti” da tutto quel ciarpame che i secoli hanno incrostato a questa pura parola, non si comprende che non può esistere rinnovamento, se per primi i giovani non troncano ogni rapporto col romanticismo del passato: sopratutto poi, quando questo passato altro non è che una camuffatura di necessità sociali un tempo esistenti (come fan fede le ricerche sulla costituzione prima delle Universitas Studiorum), e trascinatesi poi nei secoli, sino ad essere cosa coreografica ed inutile semplicemente. Ora, con tutto questo passato cristallizzato in feste e ludi matricolari, logicamente non si poteva combinare il nuovo spirito che il Fascismo crea nella intelligenza umana; e nemmeno, si badi bene, poteva esserci consentimento alle agitazioni – sia pure animate da amore verso la Patria – che erano una caratteristica della classe studentesca in Italia, come ancora lo sono in quasi tutti i paesi del mondo. Non poteva ciò più ammettersi, ponendo mente al valore che il Fascismo ha attribuito allo Stato, anzi meglio al suo Capo. Poiché non è certo l’Italia il Paese, ove abbia attecchito l’innaturale concetto dello Stato Leviatano; ma è la Nazione, invece, ove con perfetta logica umana tutto si riassuma nella sintesi d’ogni interesse spirituale ed economico espresso nella unica persona che del popolo è reggitore supremo. Per cui, ritornando là dove avevamo prese le mosse, ecco che gli studenti addetti alla direzione dei Guf sono, in un certo senso, rappresentanti dello Stato, e per lo Stato agiscono, non già per gli interessi, sempre egoistici, d’una specifica categoria. Ed è questa la vera grande novità dell’organizzazione universitaria italiana: che non si esaurisce nell’ambito dell’attività studentesca ma, formati i giovani universitari alla disciplina, tende inoltre ad avvicinare questa classe – in certo senso privilegiata – alla massa che è ragione d’esistenza della Nazione... (Carlo Doglio, “Meridiani”, agosto 1936) ** Giorgio Vecchietti
Il più grande divulgatore: Mussolini ...E se poi per concludere guardiamo, come ormai ci ha abituati il Fascismo, un po’ in alto, non ci appare forse il Duce come il più grande divulgatore delle verità fasciste? Al Mussolini creatore subito succede il Mussolini divulgatore; e come non si circonda, al modo asiatico, di tenebre, di mistero e di sacrifici inumani per accrescersi fascino e potenza, ma anzi, italianamente, lavora sotto il sole, in piena luce meridiana, sì che ognuno può vederlo e giudicarlo; così le parole Egli usa non per mascherare i concetti, ma per interpretare le verità “solari” e “luminose”, che va svelando agl’Italiani. Mussolini perciò, anche quando disputa, dinnanzi agli scienziati, intorno a Roma antica o intorno ai rapporti fra scienza e fede, soprattutto allora, vorrei aggiungere, s’indirizza al popolo, e l’eloquio gli esce facile, colorito, incisivo come non mai. Senza dubbio i chirurgi adunatisi a Roma sanno che “alle sue radici greche chirurgia non ha che un modesto significato: lavoro della mano”. Certamente conoscono le origini della gloriosa scuola medica di Salerno, e non una volta sola si sono imbattuti nei quattro gloriosi Maestri del Rinascimento “cui ancora oggi essa (la scienza chirurgica), come ai numi più venerati, devotamente si raccomanda: da Andrea Vasalio al Wurtzins, da Paracelso ad Ambrogio Parè”. Certamente gli scienziati convenuti all’Archiginnasio bolognese sanno l’origine delle ricerche scientifiche, e che ne pensasse Aristotile e come sorgesse “una scuola filosofica greca, quella dei sofisti, che impugnava e irrideva a qualsiasi esperienza, negando l’esistenza del fenomeno stesso”. Sì, tutto questo, e molt’altro ancora, sanno gli scienziati e i chirurgi; ma è il popolo che non sa, è al popolo quindi che si rivolge Mussolini. E perché i giornalisti non dovrebbero imitarlo, estendendo il più possibile l’opera di divulgazione da Lui intrapresa?... (Giorgio Vecchietti, “Critica fascista” 1° Gennaio 1929) ** Amintore Fanfani
Cinquant’anni di preparazione all’Impero La cosciente preparazione dell’Italia all’Impero non è più lunga di quattordici anni. Spetta a Benito Mussolini la preveggente preparazione di forze nuove per l’ora, ormai non lontana, in cui la politica del piede di casa non sarebbe più apparsa come il capolavoro dell’arte di governare il nostro popolo. Tuttavia da più di cinquant’anni l’Italia marcia, talvolta a dispetto dei suoi governanti, tal’altra contro le agitazioni dei partiti, sempre malgrado i piani di amici, protettori e nemici internazionali, sulla via dell’impero. Ricordare i tempi di questo incedere, faticoso prima per oltre un quarantennio, celere poi, e travolgente in questi ultimi dieci mesi, ha un notevole valore culturale e didattico, ed ha il grande significato di ricordo grato di tutti coloro che con l’opera e con il sangue, in momenti non propizi, segnarono le fatali mete ed i confini del nuovo impero di Roma. È stato detto – molto bene – che con la proclamazione dell’impero fascista si conclude il Risorgimento. Nulla di più esatto. L’impero completa i doni materiali di cui la nostra nazione ha bisogno per difendere il suo patrimonio ideale, e di cui la natura dotò avaramente il suolo della Patria. Di più ancora, il moto del Risorgimento è moto verso la libertà, l’unità, la potenza nazionale quale si addice ad un popolo di diecine di milioni d’abitanti, vivente in un mare che fu tutto suo, con una storia che non ha uguali; l’impresa africana per la conquista dell’impero è l’ultimo tempo di questo moto e la sua ideazione, il suo svolgimento, il successo, svincolano per la prima volta completamente l’Italia dalla tradizionale posizione di potenza pupilla tra le maggiori potenze europee. Per la prima volta nei tempi moderni l’Italia si è opposta al mondo ed ha vinto. Così si rinnova la genuina tradizione di Roma... Guerra libica e guerra europea sono due magnifiche tappe verso l’impero e perché dettero all’Italia la “quarta sponda” e le due Venezie e perché videro l’affermarsi di due forze politiche nuove: il nazionalismo prima, il mussolinismo poi. Quest’ultimo, dalle compressioni straniere alla vittoria italiana e dagli stravolgimenti sovversivi interni, prese nuova forza e generò il Fascismo (1919), che doveva mettersi decisamente e coscientemente sulla via dell’impero... Che valore abbia avuto la più che decennale preparazione all’impero dimostra la delusione subita da tutti coloro che, quando suonò l’ora fatale in cui il tempo delle pacifiche offerte d’amicizia ad Ailé Sellassié era finito, videro crollare miseramente i perfidi calcoli fatti sull’astuzia, sul numero e sul valore delle orde scioane, e sull’ostacolo delle pioggie, piccole e grandi. Soprattutto però i nostri nemici e tiepidi amici contavano sulla povertà e pretesa disunione degli italiani. Le loro illusioni collaudarono la nostra unione e la nostra potenza. Con l’oro delle nostre fedi, con la fede dei nostri cuori, con le nostre armi, da soli, conquistammo l’impero. I timidi tentativi del quarantennio 1882-1922, la preparazione decisa del periodo 1922-1935 trovarono un trionfale epilogo nelle vittorie che dall’ottobre al maggio accrebbero la gloria delle armi italiane e nella notte del 9 maggio 1936 dettero al popolo italiano, “protagonista” della grande impresa, l’impero. La consapevolezza fascista non s’acquieta nella conquista. Nel momento stesso in cui lo fondava, il Duce chiese al popolo italiano il giuramento di difenderlo e di fecondarlo. Per l’Italia l’impero non è un lusso; è il necessario completamento delle nostre possibilità. Rinunziarvi significa il suicidio. Possederlo menomato, significa l’inedia. Potenziarlo e difenderlo è il benessere, la forza, l’impegno a svolgere una politica imperiale nel mondo. Potenziare e difendere l’impero nei suoi confini, nelle sue ricchezze, nei suoi accessi è per gli italiani della presente e delle future generazioni una questione di dignità, un problema di vita e di morte. (Amintore Fanfani, “Quaderni dell’Istituto coloniale fascista”, maggio-giugno 1936) ** Aldo Moro
Dottrina del Fascismo Nel Convegno di Dottrina del Fascismo si è sottoposto ad esame, quest’anno, un tema ampio ed assai importante: “Principi e valori universali del Fascismo”. Tutta la portata dell’argomento, era, a ben guardare, nel suo carattere di centralità. Perché è evidente che tutti gli aspetti della vita fascista e non già soltanto di quella strettamente politica, prendono luce particolare, quando siano valutati di fronte ad un nucleo essenziale di dottrina, di cui siano riconosciuti i caratteri di universalità. È proprio e solo per questo, che si può parlare di un nuovo, completo sistema di civiltà fascista, tale che imponga all’Italia particolari compiti nella ricostruzione dell’agitato scacchiere politico europeo, le prospetti particolari problemi di politica educativa, determini un’attenta ricerca di valori, che nelle arti, nelle lettere, nelle scienze, esprimano il valore fondamentale del Fascismo, nella storia della civiltà. Il tema del Convegno di dottrina del Fascismo è apparso così il tema centrale di questi Littoriali della Cultura dell’anno XVI, la premessa logica di tutti gli altri studi che sono stati compiuti in essi. Gli equivoci che potevano sorgere sono stati subito dissipati. Si è chiarito che la universalità della nostra dottrina non ha nulla a che fare con una qualsiasi Internazionale Fascista, come pure si è messo in rilievo che tutte le esperienze parafasciste, che sembrano apparire in taluni settori della vita europea, possono avere certo il valore di una riprova, ma non sono esse stesse nell’essenza della universalità della nostra concezione politica; essenza di universalità che va invece ricercata nella sua intrinseca, direi, razionale capacità di dominare tutte le situazioni storiche, in quanto atta a soddisfare tutte le esigenze che esse presentano alla formula politica e che debbono essere tutte, sistematicamente soddisfatte... (Aldo Moro, “Azione fucina”, 6 maggio 1938) ** Giorgio Almirante
Contro le ”pecorelle” dello pseudo-razzismo antibiologico ... Dateci dunque la mano, signori avversari del razzismo biologico; e vediamo di riconoscere assieme il cammino. La prima tappa si chiama... Ma, prima di giungere al termine della prima tappa, lasciate che ci liberiamo da un ronzio che ci va disturbando l’udito. È un ronzio molteplice, come di voci udite in sogno o in delirio. Volete ripeterci quel che esse suggeriscono, visto che sembrate ritmare su di esse la marcia verso la prima mèta? Grazie, abbiamo capito. È un motivo a due voci, identiche per ampiezza, timbro e volume; la prima dice: cattolici, e la seconda aggiunge: e fascisti; dopo di che la prima riprende e la seconda incalza, all’infinito. Cattolici e fascisti: ora ricordiamo di aver spesse volte notato questa endiadi nei vostri scritti. In quest’ordine, è un’endiadi stupefacente, in pieno Anno XX. E non crediate che l’altra endiadi: fascisti e cattolici, ci soddisfaccia un gran che. Non siamo abituati a far questioni di forma; e tanto meno di burocratiche precedenze. E allora? Eresia, anticattolicesimo, paganesimo? Alto là! Noi vogliamo essere, e ci vantiamo di essere, cattolici e buoni cattolici. Ma la nostra intransigenza fascista non tollera confusioni di sorta; soprattutto quelle confusioni che minacciano di degenerare in menomazioni. Nel nostro operare di Italiani, di cittadini, di combattenti – nel nostro credere obbedire combattere – noi siamo esclusivamente e gelosamente fascisti, noi siamo nella teoria e nella pratica del razzismo. Il cattolicesimo sarà da noi seguito e rispettato per quel che riguarda la morale del singolo in questa vita, l’imperscrutabile futuro di tutti nell’altra. Ma con la teorica e con la politica della razza il cattolicesimo non ha nulla e non può avere nulla a che vedere. Non sa quel che si fa, chi pretende di conciliare, in sede teorica, il cattolicesimo con il razzismo. La Conciliazione fra Stato e Chiesa è stata forse operata in sede di teoria? Affatto. Stato e Chiesa si sono riconciliati sul terreno della pratica, riconoscendo l’uno all’altra le proprie caratteristiche, le proprie attribuzioni e i propri privilegi. Né il Fascismo si è sognato di mettere in discussione i dogmi religiosi, né la Chiesa ha avanzato obbiezioni circa i princìpi etici del Fascismo. E questo non già perche i princìpi etici del Fascismo coincidano o si accordino in tutto con i princìpi della Chiesa: ma perché si tratta di due realtà, di due mondi tra i quali non vi possono essere – finché uno dei due non vien meno a se stesso – frizioni di sorta. Scoppia la guerra. La Chiesa, coerente a sé medesima, la considera una tremenda calamità. Il Fascismo, non meno coerente (la guerra sta all’uomo come la maternità sta alla donna. Mussolini, “Dottrina del Fascismo”) la considera come una grande fatale epopea di liberazione e di consacrazione della nuova Italia. Le due concezioni sono evidentemente molto lontane; eppure, i cattolici e fascisti non se ne sentono affatto turbati, o almeno non confessano di essere turbati; giacché sanno che di fronte al fatto guerra ogni Italiano degno di questo nome è fascista, e poi ancora fascista, e poi fascista ancora, e poi altre due volte fascista, e finalmente anche cattolico. E di fronte al fatto razza, di fronte alla battaglia per la razza, che è guerra permanente, e totalitaria, e intesa ad una Vittoria non meno alta di quella delle armi? Qui – non essendovi il pericolo di esser tacciati di pacifismo o addirittura di disfattismo – i Farisei del nostro secolo riprendono fiato; e simulano sdegno, e gridano all’eresia e al paganesimo, se taluno invoca l’antico “A Cesare quel che è di Cesare” e chiede che di razzismo fascista si discuta e si giudichi soltanto in sede di Fascismo e di scienza. Strani tipi, questi Farisei 1942! Si ergono a custodi del cattolicesimo; e al tempo stesso vogliono spingere il cattolicesimo verso avventure proibite. Si autonominano difensori della verità rivelata; e fanno decadere la rivelazione al rango della politica e della scienza, cercando impossibili connubi. (Giorgio Almirante, “La difesa della razza”, 5 maggio 1942) ** Adriano Tilgher
Nietzsche profeta Nell’ora che volge, è Nietzsche un grande sconfitto o un grande vincitore dello spirito? A sostegno dell’affermazione che egli è un grande sconfitto si possono avanzare ragioni tutt’altro che prive di peso, che si potrebbero formulare come segue. Nietzzsche è stato antidemocratico e antisocialista accanitissimo: orbene, a che assistiamo noi oggi se non al trionfo della vera democrazia e del vero socialismo? I partiti che hanno abbattuto il parlamentarismo e il demolibelarismo tengono a metter bene in rilievo di non aver voluto far altro che sostituire la vera democrazia alla falsa, il genuino socialismo allo spurio, e il fascismo si autodefinisce per la bocca stessa del suo Capo “democrazia autoritaria” e il nazismo non è che un’abbreviazione di nazionalsocialismo. Il nostro è il tempo delle masse e del popolo, e mai il sogno nietzschiano delle aristocrazie fu più lontano dalla realtà. Il nostro è il tempo del nazionalsocialismo, e Nietzsche non fu sempre un antinazionalista, nostalgico dell’unità spirituale europea e lodatore delle età (Rinascimento, Illuminismo) in cui quell’unità sembrò ricomporsi per un attimo? Il nostro è il tempo dello Stato autoritario e del Governo forte, e Nietzsche non è colui che contro lo Stato, “mostro crudele e freddo”, lanciò gli strali più acuminati, e non sullo Stato ma sull’individuo pose sempre con tutta energia l’accento delle sue speranze? Antidemocratico, antisocialista, individualista: tale fu Nietzsche. E poiché l’età che volge è, secondo i suoi modi, democratica, socialista, nazionalista, statalista, solidarista, come negare che se nella fase storica che viviamo c’è uno sconfitto dello spirito questi è Nietzsche? Ho esposto, acuendone al possibile la punta, le ragioni che militano in sostegno di questa tesi. E sul piano dell’apparenza esse sembrano non lasciar posto a replica. Ma sul piano dell’apparenza soltanto. Basta discendere al disotto di quel piano perché il problema appaia assai più complesso e difficile... Ma il solco del pensiero di Nietzsche scende più profondo di quanto si è detto finora. Certo, egli non fu razzista, non ebbe affatto il culto della purezza del sangue, vide al contrario nell’ibridismo e nell’esogamia forze favorevoli alla cultura, ma che la razza dei Capi non potesse nascere che dai sapienti dosaggi di sangue, questo egli lo credette, e sull’affermazione del fondamento biologico della civiltà fu d’accordo con il razzismo. Il suo antisemitismo (religioso, se non razziale), il suo odio del cristianesimo, accusato di ammollire le forze che creano e propagano la vita, il suo mito del germano alto e biondo sono pure per qualcosa nell’ideologia del nazismo, onde se questo ha riconosciuto in Nietzsche uno dei suoi santi padri e se lo è incamerato, qualche ragione, se non proprio tutte le ragioni, ce l’ha. Ma, soprattutto, nietzschiana è la visione agonistica del mondo, che è quella dominante al nostro tempo: il sentir la vita come energia fatta per la lotta e che nella lotta gusta la massima gioia. È vero che per molti del nostro tempo lotta significa pressoché esclusivamente guerra guerreggiata a colpi di bombe e di cannoni, mentre per Nietzsche lotta ha un senso più interno che esterno, e significa soprattutto lotta contro se stessi, contro la fiacchezza, la mollezza, la pigrizia insite alla nostra natura. Nietzschiana è la tavola di valori che oggi prevale (culto della disciplina, freddo entusiasmo, calmo e risoluto volere, antisentimentalismo, senso di cameratismo e di onore), anche qui con l’avvertenza di cui sopra. Nietzschiano, il culto del corpo e l’atletismo, anche se Nietzsche non avrebbe approvato gli eccessi dello sportismo, che è un ascetismo della materia altrettanto nocivo, sebbene per opposte ragioni, di quello dello spirito. Nietzschiana, la concezione del mondo come campo dove forze molteplici si danno battaglia e si compongono di volta in volta in equilibri mobili e instabili, senza che nessuna legge naturale o spirituale o provvidenziale predetermini a priori il corso e la meta della storia: concezione che fa credito illimitato all’impeto di una energia possente, di una volontà risoluta che sa quello che vuole. Se il nostro tempo, meno qualche superstite idealista ritardatario di casa nostra, crede sempre meno alla fatalità della storia in qualunque forma la si concepisca, come legge naturale o come sviluppo di uno spirito del mondo, l’artefice principale di questa grande mutazione spirituale è Nietzsche. Certo, non tutto del nostro tempo fu previsto e desiderato e sarebbe approvato da Nietzsche. Ma è lo scarto che c’è sempre, inevitabilmente, tra la profezia e la realtà in cui la profezia si attua. Ma quello scarto è, nel caso di Nietzsche, assai più piccolo che nel caso di altri, che in solitudine antividero tempi futuri, tanto piccolo da autorizzare a qualificare Nietzsche non come il grande vinto, ma, al contrario, come il grande vincitore spirituale dell’ora che volge. (Adriano Tilgher, “Oggi”, 29 Giugno 1940) ** Julius Evola
Razza: realtà del mito Per ben orientarsi nel problema, che qui intendiamo di trattare, bisogna cominciare col distinguere adeguatamente i tre concetti di Nazione, Stato e Razza. Il concetto di “ nazione”, spesso fatto sinonimo di “popolo”, “stirpe”, “gente” o “schiatta”, va riferito ad un gruppo umano unificato da fattori varii, non esclusivamente etnico-antropologici, ma anche storici, sociali, culturali, linguistici, religiosi: sangui diversi possono aver affluito in una stessa nazione, e così pure gli elementi di civiltà distinte, assorbite, travolte o trasformate da una civiltà più forte. Secondo la concezione fascista antidemocratica, l’unità vera della “nazione” si compie solo nello Stato. La Carta fascista del Lavoro (§1) parla della “nazione italiana” per affermare che “essa si realizza integralmente nello Stato fascista”. Si può dunque vedere nella “nazione” la condizione elementare di affinità esistente in una data collettività storica, condizione che può anche determinare uno stato d’animo collettivo esprimentesi nell’aspirazione a divenire e costituire un unico Stato. A tale stregua, lo Stato, fascisticamente inteso, attua la nazione, è il suo motore, la forza motrice di essa, l’“anima della sua anima”, come si legge nella Dottrina del Fascismo (§ 12). “Senza lo Stato, non c’è nazione”. (Ib., nota 20). Il razzismo fascista è da considerarsi, essenzialmente, come una assunzione più dinamica e come un potenziamento di questa concezione fascista della nazione. Il concetto “razza” viene introdotto per dar un fondamento più concreto alla unità nazionale attuata e per evocare al centro di essa quelle forze più profonde, che sono esse, e non quelle dell’astratta intellettualità o di una incorporea spiritualità, a presiedere ogni processo veramente creativo. A partir dalla tornata del 6 ottobre del Gran Consiglio, il “mito del sangue” è dunque entrato a far da parte costitutiva nella dottrina ufficiale del fascismo. Ma che cosa si deve intendere propriamente per “razza”, in questa congiuntura, e non astrattamente e accademicamente, bensì nel riferimento alla nazione italiana? Per ora, vogliamo trattare questo problema così come esso si presenta ad un razzismo soprattutto biologico, a quello, che noi, nel precedente articolo, abbiamo chiamato di “primo grado”. Vi è, anzitutto, da fare una distinzione. Bisogna distinguere il razzismo vero e proprio dall’insieme di misure di carattere protettivo, igienico, profilattico, demografico, antibridistico, che si applicano all’insieme indiscriminato del gruppo etnico nazionale, misure, che in parte già erano state adottate dal fascismo, in parte si sono imposte con la conquista africana, specie di fronte al pericolo di connubi contaminatori. Non si deve tuttavia disconoscere che il parlar di “razza” già in ordine a queste misure, benché sia teoricamente poco corretto, presenta il vantaggio pratico di propiziare o potenziare nei singoli un sentimento e un orgoglio, che spesso sono più efficaci di ogni paragrafo di legge e che non possono esser trascurati nel processo di “totalitarizzazione” fascista-nazionale. La prima nota “razzista” dell’“Informazione diplomatica” si è espressa precisamente in questo senso. Ciò, però, non toglie che il problema della razza in senso proprio e “scientifico” sia soprattutto quello dei gruppi umani primari, della loro diversa realtà e qualificazione in seno – nel nostro caso – della comunità nazionale italiana. Un conto è parlar di “razza”, un altro è parlare di razza assolutamente pura. Quest’ultima è una specie di concetto-limite, o di limite ideale, che (prescindendo da un mondo assolutamente primordiale) può attuarsi solo in determinate condizioni, come più giù diremo, e potrebbe corrispondere agli “elementi semplici” o di “corpi indivisibili” della chimica. Ora, nessuno vuol essere più realista del re, perché non vi è razzista, per estremista che sia, il quale non abbia ammesso, che i vari popoli europei di oggi sono dei composti etnici più o meno stabili, in cui l’una o l’altra razza può esser prevalente. Chi poi crede che le leggi di Mendel sulla ereditarietà siano estensibili all’essere umano, trae da ciò ulteriori conseguenze. Secondo tali leggi, l’elemento eterogeneo che una data mescolanza, o incrocio, ha introdotto in un dato sangue, non scompare mai del tutto: anche se in forma invisibile e latente, esso permane come una eredità, pronta a manifestarsi e a riemergere o secondo il ritmo di certe leggi cicliche, dopo alcune generazioni, ovvero in determinate circostanze. Perciò, una volta ammesso che delle mescolanze fra le varie razze quali “corpi semplici assoluti” siano avvenute, anche se in un’epoca remota, si deve pensare che il tipo umano corrispondente comprenda sempre in sé le possibilità di tutte queste razze (si potrebbe anche dire: tutte queste razze come “possibilità”), anche quando esso esteriormente e prevalentemente mostri i caratteri propri ad una soltanto di esse. Qui cade il parlar del sangue come “mito”. L’ebreo o l’ebraizzante, che impugna trionfalmente questa espressione credendola bastante per ridurre ad un castello di carte le posizioni del suo avversario, non si accorge di riuscire, con ciò, solo a testimoniare il suo materialismo. Grasso materialismo, infatti, è non riconoscere che le forze del sentimento e del “mito” possono esser ben più reali di quelle della materia e della corporeità, e reali non in senso lato o traslato, bensì agli effetti della loro capacità a tradursi in una realtà oggettiva, tangibile e imprescrivibile, corrispondente. La forza formatrice di un “mito”, che qui finisce con l’equivalere a quella di una tradizione o di un ideale di civiltà, può selezionare non solo, ma perfino forgiare e plasmare una “razza”, là dove prima non esisteva, essendo solo presente una certa mescolanza instabile, diciamo così, di materie prime etniche. Si potrebbero addurre, nel riguardo, vari esempi storici. A prescindere dai tempi antichi, ricordiamo l’America: sotto l’influenza di una stessa civilizzazione e di uno stesso modo di sentire sta formandosi, negli Stati Uniti, un tipo comune, ben riconoscibile, lo yankee, dal più inverosimile miscuglio etnico. Ma vi è un esempio ancor più vicino e decisivo: col fascismo sta effettivamente svolgendosi il processo di creazione di un “tipo” comune nuovo e di una “razza” nuova. L’“uomo di Mussolini” non è una metafora: un determinato ideale, congiunto a precise discipline, è in via di enucleare perfino nel corpo un tipo comune nuovo dalla sostanza etnica complessiva costituente la “nazione” italiana. Questa è la realtà del “mito”... (Julius Evola, “La difesa della razza”, 20 gennaio 1939) ** Ugo Spirito
Gerarchia del lavoro e fine del sindacato ... I. – Che il sindacato non possa fare e che quindi non farà mai né in Italia né fuori d’Italia la rivoluzione è una verità relativamente pacifica da alcuni anni a questa parte. Il passaggio dalle economie individuali a quelle sempre più nazionali e internazionali ha tolto al proletariato ogni speranza di potersi sostituire alla classe capitalistica. Esso sa di non avere la competenza necessaria a dirigere la vita economica. Sa anche che questa competenza non potrà mai acquistarla perché appena un membro della classe operaia si eleva culturalmente al di sopra della media, esce dalla classe depauperandola del suo contributo. Nonostante tutta la retorica dei socialisti, la classe operaia non potrà mai elevarsi al livello della classe capitalistica per il semplice fatto che la classe ha porte di uscita verso l’alto e che non v’è nessun peggiore capitalista dell’ex-proletario. La classe concepita come strumento di difesa finisce con l’essere il limite insuperabile di chi vi si è rinchiuso.
II. – Che il sindacato non possa controllare o comunque intervenire nell’azienda deve risultare chiaro a chi rifletta al fine che dovrebbe avere un tale intervento. Esso dovrebbe limitarsi a un compito di informazione che consentisse poi ad una più efficace difesa dei lavoratori. Ora, il concetto stesso di una informazione che non implichi direzione si risolve in una contraddizione in termini per lo meno sterile, ma quasi certamente dannosa e disgregatrice. Non si avvicina il lavoro all’azienda, ma si accentua il dualismo degli interessi delle classi opposte a tutto svantaggio del superiore interesse della produzione. Al solito si dimentica la corporazione che ne è il vero rappresentante e che sola può e deve entrare nell’azienda perché soltanto essa è in grado di informarsi e dirigere al tempo stesso e soltanto essa può giudicare il sistema di interferenze degli interessi da armonizzare. Controlla chi ha una visione superiore e una superiore competenza non chi ha preparazione inferiore e ha interessi di parte.
III. – Che il sindacato non possa continuare per molto tempo a fare il contratto collettivo è una conseguenza che si trae dalla stessa critica del controllo aziendale. Contratto collettivo vuol dire determinazione di alcuni elementi del sistema (in particolare orari e salari); ma, se è vero che l’economia corporativa è economia programmatica, ne deriva che non è possibile determinare alcuni elementi del sistema (orari, salari) senza determinarli tutti (produzione, consumo). Il sindacato, evidentemente, non può determinarli tutti, che in tal caso non sarebbe parte, ma totalità, e deve dunque lasciare il compito di farlo a chi rappresenta appunto la totalità, ossia alla corporazione. Chi ha seguito i primi lavori delle corporazioni ha potuto già avere una certa conferma di questa inevitabile prossima conclusione in alcune norme dettate per la compilazione dei contratti collettivi.
IV. – Che il sindacato non possa avere funzioni di elevazione culturale del proletariato è anch’essa una conseguenza che si deve trarre dal concetto di parte proprio del sindacato in contrapposto al concetto di universalità proprio della cultura. Educarsi significa uscire dalla propria particolarità ed entrare in commercio spirituale con gli altri: in senso più specifico avvicinarsi ai migliori è elevarsi fino a loro. Così che una classe può educarsi non chiudendosi in un’astratta opera di autodidattica (l’autodidattica senza l’eterodidattica è vana presunzione), bensì convivendo spiritualmente con le altre classi; non chiudendosi in organizzazioni di classe, ma partecipando a organizzazioni che trascendono la realtà della classe. Soltanto per questa via il proletario acquisterà nozione dei suoi limiti, coscienza delle posizioni da raggiungere, e non scambierà ridicolmente per scienza e per cultura il riecheggiamento disorganico delle più disparate cognizioni. Anche e soprattutto in questo campo la vaga ideologia socialista della dittatura del proletariato ha fatto diffondere nei propagandisti meno intelligenti e nelle masse la persuasione che della cultura come del capitale ci si possa impadronire con la violenza. E, come per il capitale, anche e soprattutto per la cultura è certo che il sindacato non riuscirà mai a conquiste effettive e sistematiche.
V. – Che il sindacato, infine, non abbia più ragione di sussistere è una conclusione che si deve trarre dalle considerazioni che precedono e che tutte possono riassumersi nel carattere democratico, particolaristico e materialistico del sindacalismo e del socialismo in genere. Esso ha valore e significato nel disordinato conflitto delle forze sociali in un regime liberale individualistico dove trionfa l’arbitrio e la violenza, ed ha assolto il compito storico di elemento dialettico propulsore del sistema capitalistico, ma tramonta per sempre il giorno in cui ci si convince che la vita sociale è sistema risultante da un esplicito programma determinato attraverso una comune volontà. Un’ultima obiezione si può affacciare di fronte alla conclusione alla quale si è pervenuti ed è che, pur ammesso il trapasso delle funzioni del sindacato alla corporazione, ci sarà tuttavia bisogno dei sindacati per formare le corporazioni. L’organo centrale disciplinatore della vita economica in tanto può avere una visione superiore e totalitaria in quanto rappresenta tutte le forze produttive e quindi anche gli esponenti del lavoro designati dai sindacati. Inteso in tal guisa, il sindacato dovrebbe avere una funzione elettoralistica nei riguardi della corporazione e in tale funzione esaurire la sua ragion d’essere e la sua attività. Ora, non è il caso di ripetere qui le critiche perentorie ormai da un pezzo rivolte a ogni criterio elettoralistico e rappresentativo. Anche a voler ammettere come tuttora valide tali esigenze, deve essere chiaro che, se le corporazioni restano organismi centrali e risultano composte soltanto di alcune centinaia di persone, ogni effettivo ponte tra il sistema sindacale e il sistema corporativo è completamente da escludersi. I pochi rappresentanti dei lavoratori (lavoratori o legali ch’essi siano) vengono necessariamente a trovarsi su di una piattaforma politica di notorietà che deve far nascere in loro altri sentimenti e altri interessi che non siano quelli di chi è soltanto un modesto lavoratore. Ma, a parte tutto ciò, il lavoratore che entra nella corporazione rappresenta pariteticamente di fronte al capitale il lavoro, cioè un interesse contro un altro, non una competenza tecnica superiore che risponda al fine precipuo della corporazione di dirigere con superiore consapevolezza la vita sociale. Il lavoratore che entra nella corporazione, in altri termini, abbassa sul piano degli interessi più materialistici, rispondenti alla sua minore preparazione culturale e spirituale, la discussione dei problemi superiori; e soltanto a questa condizione può partecipare attivamente alla determinazione della volontà comune corporativa. Che se invece la corporazione dovesse essere davvero la più eccelsa espressione dell’intelligenza della Nazione e perciò dovesse svolgere davvero la sua opera sul piano consentitole dalla superiore preparazione, i rappresentanti dei lavoratori non avrebbero che ben poco da dirvi e la loro presunta funzione paritetica sarebbe evidentemente un non senso. L’assurdo dipende dal fatto che il lavoratore che entra nelle corporazioni non vi entra gerarchicamente per selezione di competenze, ma democraticamente per astuzia di politicanti. Egli non rappresenta il lavoro, essendo il migliore dei tecnici, ma rappresenta la massa dei lavoratori, come uno tra gli altri: non ha virtù per dirigere, ma abilità per godere della fiducia dei compagni e per difendere i loro interessi. Ne deriva che la corporazione assume una fisionomia ibrida in cui la coscienza del problema da risolvere nel modo migliore per il bene di tutti è offuscata dalla pressione incompetente dei difensori di interessi particolari di classi o di gruppi o più spesso di individui. Le ragioni che ci hanno indotto alla critica del sindacato valgono anche a determinare i criteri per l’approfondimento teorico e pratico delle funzioni e dei fini delle corporazioni. È evidente che la negazione del sindacato non può essere giustificata se non si potenzia la corporazione, facendo da essa assolvere in modo più compiuto ed organico i compiti dei sindacati. La critica, dunque, implica una ricostruzione e solo alla luce di questa essa può chiarirsi in tutta la sua portata. Fine precipuo del sindacato ci è risultato essere la difesa degli interessi del lavoratore o meglio delle classi opposte: fine, invece, della corporazione la direzione della vita sociale da un punto di vista extraclassista. Il problema che perciò si pone è di risolvere il sindacato nella corporazione facendo operare direttamente in questa il lavoratore. Se potremmo raggiungere tale risultato avremo definitivamente superato il dualismo classista e avremo elevato il lavoratore dal terreno materialistico dell’interesse di parte a quello veramente politico della competenza tecnica. È stata già fatta da qualcuno la proposta del sindacato unico del lavoro o sindacato dei produttori che si differenzierebbe dal sindacato misto in quanto non raccoglierebbe insieme datori di lavoro e lavoratori, ma soltanto lavoratori nel senso più comprensivo della parola, dal manovale al grande imprenditore. Sarebbero esclusi i datori di lavoro o i capitalisti in quanto meri detentori di capitali o proprietari di aziende. Un simile sindacato, fondato su di un concetto più adeguato del termine lavoro e soprattutto sul superamento del dualismo di lavoro e tecnica, rappresenta certamente il massimo ideale che oggi possa concepirsi sul terreno sindacale. È il più gran passo che il sindacalismo possa fare per giungere alla corporazione. Tuttavia tra il sindacato unico e la corporazione vi è ancora un abisso. Sindacato unico vuol dire organizzazione politica accanto all’organizzazione produttiva: corporazione, invece, organizzazione politica coincidente con l’organizzazione produttiva, attraverso un’unica gerarchia tecnica. Per individuare le tappe della trasformazione del regime sindacale in regime corporativo, sarà opportuno prendere lo spunto dalle attuali ventidue corporazioni. La loro caratteristica è data appunto dalla più o meno esplicita identificazione che in esse si raggiunge della competenza tecnica e della competenza politica: allorché esse dettano una norma direttiva per un determinato campo della produzione, tale norma ha una validità tecnica inscindibile dalla validità politica. In altri termini la corporazione supera ogni dualismo di interesse e dovere, di individuo e di Stato, di classi contrastanti. La sua volontà è volontà statale come autogoverno della nazione. Tutto questo in linea teorica e sia pure in linea giuridica. In linea di fatto poi l’ideale non può essere ancora raggiunto perché vi è soluzione di continuità tra corporazione e organismi produttivi, tra corporazione e sindacati. Tra corporazione e organismi produttivi perché la corporazione non è l’apice della gerarchia delle aziende e non si riconnette perciò gerarchicamente agli organi esecutivi della norma da essa dettata: tra corporazione e sindacati perché i sindacati non sono neanche essi gerarchicamente ordinati in modo da far capo alle corporazioni, né si occupano della norma corporativa in quanto norma tecnica della produzione. Né vi è da sperare che la soluzione di continuità possa attenuarsi in un prossimo domani, permanendo l’attuale organizzazione a-ziendale e sindacale, perché il dualismo è in essa costituzionale. L’unità di tecnica e politica che si ha nella corporazione si scinde nella tecnica aziendale e nella politica sindacale, senza che rimanga luogo per la formazione di gerarchie unitarie che trovino il logico sbocco nella corporazione centrale. Ne segue che, al centro, le ventidue corporazioni non risultano organicamente da una selezione di uomini svoltasi gerarchicamente, ma sono costituite attraverso una scelta relativamente arbitraria, poco tecnica e perciò poco politica, effettuata da uno Stato trascendente la corporazione e non legato neppure esso alla gerarchia corporativa. Basta porre in tal guisa il problema perché la soluzione appaia subito chiara. Dalla corporazione centrale si dovrebbe poter passare a organismi corporativi dipendenti sempre più periferici fino a raggiungere l’azienda, e tutti i lavoratori (la figura del datore di lavoro in quanto non lavoratore andrebbe naturalmente esclusa) dovrebbero trovar posto lungo la scala corporativa così costituita. Quanto poi al criterio per la formazione della scala, trattandosi di una gerarchia politica che si identifica con quella produttiva, non può valere che la competenza tecnica sanzionata in veri e propri gradi numericamente distinti. Non v’è nessuna ragione per non trasportare nel campo del lavoro il criterio gerarchico oggi vigente nell’amministrazione dello Stato e trasportarlo anzi con gli stessi gradi in modo da accomunare fin d’ora tutti i lavoratori, che tutti nello Stato e per lo Stato lavorano. Non più sindacato ma corporazione: non più due classi contrapposte, ma tredici o più gradi di un’unica scala che tutti possano salire: non presunta e irrealizzabile pariteticità, ma selezione continua dei migliori per il migliore autogoverno di tutti. Alla logica di tale soluzione si oppone soltanto il grande pericolo segnato dal periodo di transizione. Inquadrare oggi tutti i lavoratori in una gerarchia bene determinata significa in certo senso consolidare l’attuale gerarchia di fatto sorta in regime capitalistico e rispondente ai criteri di selezione propri del capitalismo. I grandi industriali entrerebbero a far parte del primo grado, i manovali dell’ultimo grado della gerarchia e tutto potrebbe sembrare inalterato. L’obiezione è certamente grave e sarebbe inutile nasconderne quel tanto che è indiscutibile. Ma sarebbe atteggiamento sterile quello di chi si arrestasse di fronte al residuo negativo e non tenesse conto delle nuove condizioni e delle nuove forze che si metterebbero in atto. Intanto scomparirebbe ufficialmente dalla gerarchia sociale la figura del capitalista e del proprietario non lavoratore, e basterebbe questo per eliminare uno degli aspetti più immorali e più materialistici del vecchio regime. Ma la differenza sostanziale consisterebbe nell’eliminazione dell’abisso tra datore di lavoro e lavoratore che caratterizza in modo costituzionale e pressoché irriducibile due classi sociali. La distanza che separa un grado gerarchico da un altro in una scala di tredici gradi è ben diversa da quella che separa una classe da un’altra. Che la scala si salga è la regola, che l’abisso si salti è l’eccezione. E se anche tra il primo e l’ultimo grado della scala può sembrare vi sia – sia pure molto attenuato – lo stesso abisso che tra le due classi sociali, non ve tuttavia alcun grado della scala in cui la diversità diventi radicale e in cui perciò l’abisso si determini. La distanza tra le classi è data dalla diversa natura sociale laddove la distanza dei gradi non può essere data che dalla differenziazione della capacità tecnica: è questo il carattere distintivo delle due specie di gerarchie e in sostanza del regime capitalista e del regime corporativo. Allorché ci si pone il problema della formazione delle gerarchie e si definisce il fascismo regime gerarchico, s’intende appunto sostituire a un criterio naturalistico ed ereditario un principio spirituale di selezione. Le diversità economiche e politiche sono portate al livello tecnico, garanzia di superiore oggettività. La coscienza gerarchica del fascismo è nell’intuizione che la storia della civiltà consiste nel processo di tecnicizzazione delle gerarchie politiche, cui corrisponde il processo di elevazione dell’arbitrio alla libertà. Perché poi dallo stato di transizione in cui si convalida in qualche modo l’attuale gerarchia sia possibile pensare all’eliminazione di ogni residuo del vecchio regime, occorre naturalmente rendere effettiva la parità dei diritti di fronte al lavoro. Occorre cioè che l’ascesa della scala non sia condizionata inizialmente dal fattore capitalistico. Su questo terreno si sposta radicalmente il problema della formazione della gerarchia corporativa e su questo terreno va coraggiosamente imposto e risolto. La differenziazione delle capacità tecniche ha valore morale soltanto se tutti son posti in grado di educarsi con gli stessi mezzi. Sarà un’eguaglianza che avrà tuttavia limiti naturalistici contro cui converrà continuare a combattere, ma che non sarà negata a priori da una diversità istituzionale di carattere generale. A questo patto l’ideale corporativo supera l’ambito di una trasformazione economica e professionale e caratterizza la rivoluzione fascista nella sua essenza politica superiore o etica e nella sua portata di carattere universale. Una delle prime conseguenze sarà la liquidazione definitiva del lato demagogico del socialismo, impostato sull’esaltazione del lavoro nella sua accezione meno elevata e nella conseguente esaltazione del proletariato. Il fascismo non permette all’operaio nessuna dittatura, ma soltanto il diritto di salire la scala gerarchica del lavoro a parità di condizioni. – S’egli non saprà salire resti ai primi gradini, ma non pretenda nessuna gesuitica pariteticità di comando. In regime di corporativismo integrale al centro giungeranno i supremi gerarchi e non v’è alcuna ragione di far giungere i cosiddetti rappresentanti dei lavoratori, vale a dire i lavoratori che hanno dimostrato di non avere le qualità per salire. Il motivo sentimentale, pietoso e lusingatore, del socialismo non ha più alcuna giustificazione una volta costruita la gerarchia tecnicamente. Al centro si va per raccogliere le fila del lavoro compiuto da tutti e per determinare nelle sue linee definitive un piano o un programma sociale a cui tutti hanno collaborato. Ma se è così, soltanto coloro che sono le espressioni delle più alte competenze hanno il diritto, il dovere e la possibilità di arrivarvi. Il corporativismo paritetico deve cedere il posto al corporativismo gerarchico... (Ugo Spirito, “La Stirpe”, dicembre 1935) ** Aldo Visalberghi
Testimonianze di giovani: arte e popolo Fuori ormai, nell’intenzione ed anche nel tempo, dall’atmosfera della polemica, tentiamo ancora una volta una serena messa a fuoco dello scottante problema: il problema dell’Arte in generale, ma considerato con una coscienza diversa: dal punto di vista della totalità della Nazione. In due modi principalmente; in quanto si vuole un’arte che esprima il clima fascista, ed in quanto si vuole un’Arte non privilegio di pochi iniziati, ma, potenzialmente almeno, patrimonio spirituale di tutti. Ma se non si approfondisce questa prima, embrionale posizione, è facile lasciarsi attrarre dalle soluzioni semplicistiche, che, dove c’è una piaga, provocano la cancrena. L’Arte è espressione mediata, ed i mezzi per questa mediazione ci sono forniti da una doppia esperienza di vita: pratica e artistica, elementi non staccati ma profondamente intersecantisi. Solo quando una tale esperienza sia viva, dolorosamente, passionalmente viva (esperienza che è del linguaggio, dell’immagine e di tutto, sino alla più vasta concezione della vita: in Arte non v’è contenuto in senso logico), potrà divenire materia per un’Arte viva; materia, mezzo, ed allora sarà naturalmente purificato, dalla passione, da ogni emotività, ma proprio in quanto passione c’è stata. Se non v’è moralità in Arte, v’è però una moralità, per così dire, preartistica, conditio sine qua non dell’Arte, che significa aver vissuto e vivere profondamente, integralmente, senza compromessi, la propria esperienza. E vi può essere un’Arte comprensibile solo in quanto l’esperienza, la vita dell’artista, è in certa parte, se non in massima parte, l’esperienza, la vita di tutti. Da queste quasi viete generalità si deduce che nel campo stesso dell’arte nulla può la volontà (che sarebbe poi una assai facile volontà); perché muti il poeta deve mutare l’uomo nella maniera più profonda, perché solo la parte più profonda ed intima della sua esperienza può farsi materia d’Arte. Ora è inutile prendersela con gli artisti italiani perché, diciamolo francamente, non sono mutati (o peggio perché hanno voluto artificialmente mutarsi, così, immediatamente, nell’Arte prima che nella vita), e lavorar di forbicette nel campo stesso dell’Arte, senza accorgersi che il Fascismo, proprio quando al problema in particolare non pensa, fa grandi passi verso la soluzione. Non bisogna dimenticare che l’opera del Fascismo “dal punto di vista del costume, del carattere, delle distanze sociali è appena cominciata”, e che solo nella soluzione di quel più vasto problema si può intravedere una soluzione per il nostro problema artistico. Primum vivere è una formula che poche volte ha tanto significato, quanto in quello artistico. Ed una vita unitaria, profondamente unitaria; tale che ciascun individuo, pur attento al suo preciso compito, sia spiritualmente vicino a tutti gli altri; tale che l’esperienza più sentita sia questo senso di comune, appassionato lavoro svolgentesi in un’atmosfera di comprensione e di simpatia reciproca, non c’è ancora o non c’è abbastanza in generale, ma non c’è affatto in quel mondo intellettuale che è e, badate, sarà sempre il mondo degli artisti. I quali poi singolarmente presi potranno anche essere tutti buonissimi fascisti: ma questo senso della “collettività”, che del Fascismo è l’espressione eticamente più alta, è coscienza che si può solo arduamente e faticosamente conquistare, ed è bene che sia così. Ora si può intendere in che senso Arte fascista ed Arte per il popolo (popolo significa totalità della nazione) vengano nella soluzione a coincidere. Nulla di propagandistico, di agiografico, di divulgativo, ma mezzi d’espressione forniti da questa vita unitaria, e quindi alla portata di tutti. È ovvio che per quanto sia bene studiare i vari problemi, per esempio quello del teatro, anche dal punto di vista tecnico ed economico, le soluzioni vere e durature si avranno soltanto per la via che additiamo, la più lunga, la più difficile, la più “integrale”. È ovvio anche che la moralità, politicità, fascisticità dell’Arte sarà cosa naturale, interna, inessenziale, e che per l’Arte non ci sarà mai un criterio di giudizio... estrinseco. (Aldo Visalberghi, “Critica fascista”, V, maggio 1939)