Titolo: Il cristianesimo delle origini
Sottotitolo: Dalla condanna alla giustificazione della ricchezza
Note: Prima edizione: novembre 2013
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“... un ricco difficilmente entrerà nel regno dei cieli”.

(Matteo)

Introduzione

Nato quasi certamente in un’epoca di violenti contrasti politici e sociali, il cristianesimo andò consolidandosi come insieme di pratiche e di dottrine in maniera confusa ed eterodossa. Gli Esseni, comunità pacifiste molto diffuse nella Palestina dell’epoca, vi ebbero il loro influsso, come appare chiaro dai documenti trovati nelle grotte di Qumran, ma anche parecchi maestri di giustizia, come venivano chiamati sapienti e predicatori itineranti che diffondevano teorie e critiche nei confronti dell’ebraismo tradizionale, considerato troppo ristretto e troppo legato a miti e tradizioni ormai disadatti alla realtà di un paese sotto l’occupazione romana.

Non mi è mai interessato molto questo aspetto, se non di passata, nei lunghi studi che ho condotto nei miei anni verdi per preparare la mia tesi di laurea in economia. È da quegli studi che trae origine questo libro, scritto nuovamente nel 1991 a Londra, quindi con supporti bibliografici ridotti e approssimativi.

Anche adesso, che mi avvio al tramonto della mia vita, penso che questi studi giovanili partivano da un convincimento tuttora valido. Il momento culminante del bisogno di grandi masse di sfruttati è proprio quando si arriva alla ribellione, e in questo momento regna anche un dilagare delle forze vitali e migliori di una civiltà. In un certo senso la rivolta, prima di stabilirsi non dico in ortodossia di potere, ma in corpo dottrinale organico in grado di fornire risposte, produce uno smanioso desiderio di sperperare se stessa, di diluirsi nella realtà circostante per trasformarla e fa ciò con orgoglio, con zelo perfino aggressivo. Fu questo anche il caso del cristianesimo? Alle origini di certo sì.

Malgrado l’equilibrio delle forme pacifiste in esso presenti, ci dovettero essere degli estremismi radicali particolarmente felici, sviluppatisi poi fino a prendere corpo dottrinale, forse per circa un secolo, per poi cominciare a rientrare nell’ordine, fino alla definitiva scomparsa – dopo trecento anni – in concomitanza con la conquista del potere. La supremazia non si conquista se non a scapito della qualità.

Uno degli estremismi, di cui mi occupo in questo libro, fu la condanna assoluta e senza mezzi termini della ricchezza, cioè l’idea di comunismo senza la quale quella condanna sarebbe stata priva di senso.

Certo, non tutto nelle forme cristiane primitive, poniamo nei Vangeli o negli Atti degli Apostoli, è estremismo ideologico. Spesso si incontrano passi che riprendono i temi cari alla religione ebraica, vecchi residui di un Dio prevaricatore e ottuso, ma molto più spesso si colgono affermazioni provocatorie inusitate che rendono vana la preoccupazione di mettersi al riparo delle ripercussioni politiche stabilendo un confine tra Cesare e Dio, confine che non poteva essere mantenuto se quest’ultimo diventava un Dio della misericordia e non restava un Dio della vendetta cieca, tiranno e custode di un solo popolo eletto.

Le comunità primitive cristiane non furono quindi che spine nel fianco per un potere di occupazione che doveva dare conto a un imperatore, sia pure remoto ma comunque presente grazie a una burocrazia efficientissima. Non erano timorosi gruppi sparsi che cercavano di camuffarsi sotto l’acquiescenza collaborazionista degli Ebrei, non ruminavano prerogative ormai scomparse, non coltivavano storie di templi eterni e di sinedri subalterni a un qualsiasi procuratore romano. Splendevano, queste comunità, per un loro modo di pensare diverso, erano gruppi che mettevano in comune tutti i beni dei singoli aderenti e organizzavano, su questa base comunitaria, una produzione e una distribuzione primitive ma soddisfacenti.

La frattura col vecchio modo di gestire una religione della vendetta e del privilegio non poteva essere più radicale. Forse questa situazione non durò a lungo, forse meno di qualche decennio, forse un secolo. Non lo sappiamo. Certo la predicazione di Paolo, una vera calamità, con il suo proselitismo professionista e la sua illusione quantitativa, almeno nei primi tempi, dovette procedere parallelamente e accettare il comunismo pratico delle comunità. Ma questo non è possibile saperlo.

Quando una rivolta si sviluppa organizzativamente e prende forma concreta, la vita delle persone cambia e non è facile tornare a ragionare alla vecchia maniera, e Paolo fu sempre un qualcosa di estraneo, anche se di potente, almeno dal punto di vista della diffusione del cristianesimo.

C’è da credere che il proselitismo non fosse il primo pensiero delle comunità comuniste cristiane delle origini. Non che cercassero la chiusura o l’anonimato, ma certo dovevano essere piuttosto prudenti e seguire procedimenti iniziatici quotidiani di cui il battesimo è una traccia. Non avevano di mira la conquista del mondo ma solo la pratica religiosa e la vita in comune, forse la difesa militare contro l’occupazione romana. Non avevano ancora acquisito quell’attitudine teatrale che fa di ogni religione costituita in affermazioni categoriche uno spettacolo a cui i più deboli devono piegarsi senza discutere. Sostenevano le loro pratiche, per la maggior parte basate sulla preghiera, la pietà e la comprensione dei bisogni dei più miseri, la fratellanza e certamente la segretezza. Come ogni ricerca spirituale non cercavano l’oblio ma neppure il feroce proselitismo di Paolo.

Non è dato sapere quali contrasti sorsero su questo punto, ma il professionismo non dovette essere accettato che come male minore, se non altro per mantenere i contatti fra le diverse comunità. Il messaggio cristiano delle origini era non solo il capovolgimento della religione ebraica – per quanto i Vangeli, redatti quasi un secolo dopo,lo neghino esplicitamente, ma anche un’ispirazione diversa riguardo la condizione dei più poveri.

Gli appartenenti alle comunità non si consideravano più Ebrei, non accettavano di fare parte di un popolo eletto, ma avevano una visione globale del rapporto con Dio, un Dio lontanissimo dal feroce incubo ebraico. Questa costruzione era nuova? Non del tutto. Comunità del genere dovettero esistere anche nei secoli precedenti in questa meravigliosa terra di Palestina, ma si hanno tracce troppo deboli. Certo vi fu una fioritura di messaggi, una rivoluzione di pratiche di aiuto reciproco, di comunismo e di fratellanza, che sono da sempre esistite fra i miseri in tutte le epoche, e questa rivalutazione prese le forme rituali e simboliche di una nuova religione, priva all’inizio dell’assillo chiesastico e sacerdotale, forse guidata da unti dal Signore o da Messia – i due concetti si equivalgono – oppure da guide spirituali chiamate maestri di giustizia.

Ma non vi furono in queste forme rituali nascenti, almeno fino alla prima metà del secondo secolo, né gli interessi economici dei grandi centri commerciali inglobati nella nuova religione né gli scontri per motivi di supremazia teorica, che cominciarono a sorgere più tardi, man mano che l’estensione del cristianesimo cresceva e ci si rendeva conto che i grandi battesimi di massa non conducevano automaticamente alla messa in comune dei beni dei nuovi adepti.

La Chiesa nascente provava una sorta di disgusto per le pratiche comunitarie reali e cercava di trasformarle in gesti simbolici, in procedure rituali senza nessuna ambizione concreta di venire incontro alle miserie della povera gente. La casta sacerdotale, professionalizzandosi sullo schema paolino, diventava sempre più forte e sempre più cercava di gestire il proprio potere. Cominciavano le lotte intestine, le scissioni, le eresie e tutto il resto che ben conosciamo. La forza degli inizi era ormai spenta, l’utopia comunista sopravviverà in piccole comunità subito emarginate e combattute fino allo sterminio.

Nel cristianesimo primitivo c’era una vitalità che non ricomparirà mai più, non si trattava di condizioni di lotta o di pericolo, che si dovevano affrontare prima del riconoscimento ufficiale e della conquista del potere, ma si trattava di idee, di progetti, di amore fraterno, di misericordia e di pietà, tutte qualità che verranno sommerse dalle procedure burocratiche, dall’autorità ecclesiale, dalle decisioni teologiche dei vari Concili, da una frammentazione compartimentale che a volte rasentava lo sfruttamento dei più miseri da parte dei più forti se non la riduzione in servitù – opera ancora più facile – in nome del comune ideale cristiano.

Più che studiare quello che è diventato, bisogna capire quello che era alle origini il cristianesimo, un’eresia ebraica radicale e pericolosa per gli equilibri precari di potere dell’epoca e per il messaggio comunista e contrario alla ricchezza che esso portava ai miseri della Palestina, oppressa allo stesso modo in cui lo è oggi. La catalessi del potere non riusciva a desiderare che lo statu quo, mentre questa eresia predicava la messa in comune dei beni di coloro che entravano nella comunità. Di più, essa non accettava di farsi strumento del dominio ma proponeva una divisione – forse tarda, anzi quasi certamente dovuta all’influsso del militante Paolo – comunque presente fin dall’inizio nella tendenza a vivere appartati, a non mischiarsi con gli intrighi dei sacerdoti dominanti.

Dalla parte dei poveri non può collocarsi il potere, né re né sacerdoti, solo visionari, utopisti, eretici. La mostruosità delle teste dirigenti non ha tempo né voglia per guardare in basso, essa è orgogliosamente certa di sé, energica, militarmente in grado di spegnere nel sangue qualunque accenno di diversità. Invece il cristianesimo primitivo andava in cerca di questa diversità, la consegnava al futuro, la proponeva al destino, a un regno diverso, quello dei cieli, metafora pudica e accattivante, comunque in grado – nella sua inconsistenza pragmatica – di dare corpo alla dignità del povero, a farlo sentire pronto a considerarsi portatore di un valore.

Che cosa potevano chiedere questi miseri all’arroganza dei sacerdoti custodi della legge di Mosè o all’ottusità militare degli occupanti romani? Era interesse di questi due organismi, il Tempio e Roma, svigorire ogni tentativo di rivolta, ogni richiesta concretamente diretta a ottenere un miglioramento delle condizioni di vita. Dio, che altro può dare al disperato se non la speranza di un appoggio nella sofferenza? Per il potente egli sarà sempre uno strumento, uno spauracchio da agitare davanti alla furia della rivolta. Che fede è quella dei potenti? Una messa in scena, impeccabile nella sua ritualità, priva di sostanza nella misericordia, qualche briciola caduta dal tavolo del ricco. Il movimento comunista delle origini cristiane non è di già più comprensibile all’epoca di Cipriano (verso il 250), che ha sotto gli occhi una degenerazione ed è di già sospetto mezzo secolo prima, all’epoca di Tertulliano, malgrado le sue affermazioni di purezza comunitaria, troppo estreme per essere credibili. Quando si ha bisogno di apologeti il cadavere sta cominciando a puzzare.

Calcolando che i Vangeli sono stati redatti alla fine del primo secolo si deve poter pensare a un radicalismo comunista ancora più estremo dei passi che è pur sempre possibile rintracciare in questi ultimi. Si paga caro l’avere preso nel modo giusto l’indirizzo di crescita quantitativa, essa porta direttamente alla formazione e alla stabilizzazione di un potere. I più svegli – Paolo fra i primi – capiscono la potenzialità costruttiva della nuova dottrina e si mettono al lavoro per gettare le basi di quello che trecento anni dopo sarà, con Agostino, la conquista di un impero, forse non molto stabile con i Vandali alle porte, ma sempre un impero.

Il lavoro più difficile, che richiese appunto tre secoli di polemiche e approfondimenti teorici, fu quello di smussare dapprima, e azzerare dopo, la radicale condanna della ricchezza e della proprietà privata. Feroci e tristi, questi costruttori dell’Impero cristiano sotto forma di Chiesa non hanno nulla della semplicità spontanea delle origini, sono straripanti di filosofia, sono retori dotti contro i quali è difficile combattere. Essere sconfitti sul piano teorico – pensiamo a Pelagio – significava essere messi fuori dalla Chiesa, trovarsi isolati ed eretici. C’è nel processo di santificazione della ricchezza una malinconia tipica del tramonto. L’antica utopia è stata ritualizzata, la concretezza della vita ridotta a una serie di procedure in espansione, la fede in un Dio di misericordia e di pietà capace di stare dalla parte dei vinti sostituita da un insieme di divieti e di precisazioni su ciò che si può fare e su ciò che non si può fare. Il ragionamento comincia a prendere il posto dello slancio creativo. Certo, Agostino non è Tommaso, molti secoli li separano, ma ha di già in sé il germe perverso della ragione, egli è un filosofo e un maestro e utilizza gli strumenti del pensiero per combattere contro la condanna della ricchezza, l’ostacolo più grande per la conversione delle masse e la costruzione della Chiesa universale.

Il destino del cristianesimo è di già segnato con la svolta paolina. Non che il rigetto della ricchezza avvenga nella seconda metà del primo secolo, ma la diffusione a macchia d’olio delle comunità sotto la nuova spinta propagandistica non aveva alla lunga altra scelta. La povertà e il comunismo venivano così inesorabilmente messi da parte. Nuovi progetti si profilavano all’orizzonte e ne è testimonianza la diatriba, per alcuni sanguinosa, tra Paolo e Giacomo. I tormenti del secondo, di cui alla sua lettera canonica, sono materia di scherno per l’ex sgherro dei sacerdoti del Tempio, per l’ex uccisore di cristiani e martirizzatore di Stefano. Il pensiero primitivo e originario del cristianesimo doveva essere molto più ricco di quello che ci registrano i Vangeli, più lussureggiante nei riguardi delle forme rituali e organizzative che si fondavano sulla vita in comune. Non erano, quegli uomini delle origini, e quelle donne, secondo la regola del Tempio, ma ne costituivano di già una eresia molto distante. Cosa per altro anche valida per il paolismo, ma in senso inverso.

Quando Paolo viene arrestato si dichiara cittadino romano per non essere torturato e viene processato a Roma, dove quasi certamente non è ucciso, come afferma l’affrettata chiusura degli Atti, dove un Luca preoccupato di illustrare la figura del vero fondatore del cristianesimo ulteriore – per l’appunto Paolo – taglia corto ma si giustifica e dice di potere spiegare tutto, cioè la sua non intenzione eversiva nei riguardi del dominio romano. Paolo di certo non era uno zelota nazionalista ma non poteva essere tanto vicino alla religione romana che all’epoca imperiale aveva riassunto i suoi dèi nella figura dell’Imperatore. Di certo il comunismo non è nello stile di Paolo, egli è un professionista e un fanatico capace di scatenare una zuffa nel Tempio e forse, secondo alcuni, di uccidere Giacomo, fatto precipitare da uno dei pinnacoli e finito a bastonate.

Ma, anche se non fanatico fino a questo punto, Paolo è il propagandista che vuole fare crescere più che sia possibile la sua ideologia – mai parola fu scelta meglio per definire il paolismo – con qualunque mezzo. Richiede quindi un sostegno finanziario alle comunità di cui è propagandista itinerante, a volte più o meno volontario, e collaboratori, anche donne definite “sorelle”, e definisce ciò come un “diritto” derivante dal proprio “lavoro”. La sua opera smantella dalle basi le comunità primitive comuniste, ma queste resistono e trovano nelle posizioni teologiche di Paolo i germi di una eresia molto più estesa, quella dell’uomo-Dio, che non poteva trovarsi fra i primi cristiani. Questa distinzione, come il mito della concezione immacolata e tutto il resto di un cristianesimo cristocentrico, è opera di Paolo.

Il muro eretto da lui diventa in futuro sempre più impenetrabile e l’insipienza dei redattori dei Vangeli, in particolare Luca, fanno il resto, ma in epoca più tarda di qualche decennio. La nuova religione resta ancora comunista e comunitaria per quasi un secolo, almeno per come ce ne parlano gli apologeti, ma non si è sicuri. Di certo le grandi masse delle città la dovevano pensare diversamente.

È sconsolante, ed è in fondo qui l’interesse della mia ricerca, come questa azione di Paolo, in altre parole la sua eresia, costituisca la vera rottura con l’ebraismo in quanto Giacomo, capo della comunità di Gerusalemme, può essere considerato come un sacerdote eterodosso del Tempio, ma tollerato dallo stesso Anna, che in quei decenni era il capo collaborazionista legato ai Romani. Paolo è infatti arrestato – sembra su denuncia di Anna – non per la morte di Giacomo e di Stefano – ma perché sovversivo e pericoloso proprio per le sue nuove teorie di rottura che non potevano essere tollerate dai Romani. In ogni caso, dicevo, non sarebbe bastata l’azione pratica, occorreva una rielaborazione teorica e filosofica, in altre parola una teologia trinitaria, e questo non si possedeva. I Vangeli non sono un’opera teologica, sono un racconto, spesso contraddittorio, di fatti accaduti almeno una cinquantina di anni prima che nella mente dei redattori prendono forma mitologica. Validi per la massa precedente, non lo erano per quella reclutata da Paolo, cioè non erano sufficienti a fondare una giustificazione dell’uso e del possesso della ricchezza e un rifiuto del comunismo. La prudenza e la modestia non erano certo di casa nelle grandi città commerciali come Alessandria, e l’indottrinamento preceduto ai battesimi di massa doveva per forza essere fatto un po’ superficialmente. Non si potevano aspettare i tre anni canonici, come aveva dovuto fare Paolo prima di entrare in una comunità, forse quella di Gerico o di Qumran. Nuovi comportamenti attendevano una fondazione teorica e filosofica.

I sussulti prima dell’adeguamento furono molti, la superiorità del povero nei riguardi del ricco, dell’ultimo nei riguardi del primo, non poteva essere cancellata facilmente, doveva realizzarsi un recupero teorico lento e parallelo alla diffusione della nuova religione – rivisitata da Paolo – fra le grandi masse. Tutto l’impianto doveva, per mano dei teologici, diventare modesto e virtuoso, la povertà essere aiutata non abolita, la disparità dello stato di benessere del singolo proprietario sollecitata ad appiattirsi un poco non a scomparire nella comunità con la divisione dei propri beni fra i partecipanti. L’eredità del sogno comunista doveva sgretolarsi a poco a poco, nel corso di due secoli, e all’antica fierezza della diversità sostituire la difesa della stabilità. I gigli dei campi non potevano a lungo essere portati ad esempio. L’azzardo delle antiche comunità, capaci di sfidare dall’interno il sacerdozio ebraico e di obbligarlo a ricorrere all’aiuto militare degli occupanti, diventava un cumulo di regole di comportamento capace di delineare le decenze di una società in cui la ricchezza non costituiva più uno scandalo ma la regola e in cui, per evitare estremi troppo dissonanti, si sollecitava ad aiutare i più poveri.

Invece di incoraggiare la follia comunista dei primi tempi, si andò incontro alla ricerca di un modo accomodante di vivere insieme nei grandi e nei piccoli centri, non più la felicità di un regno ma l’acquiescenza di un possesso incontrovertibile. La suggestione tragica scompariva e veniva sostituita, nel tempo, da oculate riflessioni su di un giusto uso della ricchezza. I Vangeli, opera tarda ma ancora impregnata dello spirito comunitario, sono pieni di aneddoti che glorificano l’uso produttivo – valido per tutti – della ricchezza, per quanto mantengano ancora una radicale condanna di fondo. Le contraddizioni, a volte, come nelle due versioni del Discorso della montagna, non disturbano, si trattava dopotutto di storie narrate al popolo e non di opere teologiche. Nel frattempo la mediocrità e l’abbassamento si andavano sostituendo ai tempi eroici. Il coraggio di dirsi cristiani avvizziva in una sorta di statuto protettivo, fino al trionfo e alla conquista del potere. Prima si detestava il potere, rappresentato dagli occupanti romani e dal Sinedrio dei sacerdoti del Tempio, poi lo si corteggerà e alla fine lo si gestirà in proprio.

Certo, il percorso fu lungo e le resistenze e le lotte feroci e senza quartiere. Agostino nel combattere Pelagio arriva a predeterminare l’abitante della Città di Dio, in fondo a prescindere dalle sue opere. Si lasciò trascinare dalla polemica? Forse, oppure c’è in lui troppo spazio per lo spirito paolino vincente? La ricchezza, a partire dalla metà del secondo secolo, non è più un incubo per nessuno, si condanna l’eccesso, l’aberrazione e l’ostentazione, ma non la sostanza. Per diventare normale religione dello Stato futuro, il cristianesimo doveva eliminare dal suo seno ogni traccia di comunismo diventata eretica. Occorreva certezza e quindi bisognava partire dall’argomento pragmatico della ricchezza, anche se il resto rimaneva legato a una visione intima e a volte mistica che in Agostino ha forma profondamente contraddittoria.

Si dubitava del razionalismo della filosofia romana, lo stoicismo era quella forma che faceva più paura e quindi risultava più pericolosa, ma non si faceva un passo indietro sul piano della giustificazione della ricchezza. La nuova religione si ergeva così, alla vigilia della conquista del potere, come una grande massa di fedeli in movimento, controllata da strutture fisse, la varie Chiese, grosso modo afferenti agli insegnamenti di Paolo. Ciò non toglie che molti erano i dissidenti che innalzavano la bandiera del comunismo, e questi erano quasi tutti appartenenti ai ceti più poveri, continuamente vessati sia dalle stesse Chiese che dal potere centrale romano. Con questi movimenti non poteva all’inizio essere usata la forza militare in modo diretto, per quanto vi furono casi di annientamento di intere comunità eretiche, piuttosto si preferiva ripiegare sul convincimento dotto, sull’egemonia culturale, per quanto la tesi filogovernativa della giustificazione andava spesso incontro a non poche umiliazioni e sconfitte.

Ma la ricchezza, se di per sé è sterile come idea e come potenza culturale, ha a propria disposizione la forza militare e anche quella dei filosofi e degli storici sempre disposti ad alimentare la caverna del lago di sangue. La storia futura non sarà solo quella del potere oppressivo e sempre più ritualizzato, ma anche quella di un cristianesimo eretico – perseguitato e oppresso – che cercherà in ogni modo di tornare ai primitivi splendori.

Il comunismo nel cristianesimo delle origini era non tanto una scelta teorica quanto una necessità pratica. Non so quanto regga la tesi di comunità pacifiste o quella contraria di comunità guerriere di Zeloti, non è questo il punto centrale della mia ricerca, certo è che dovevano essere tempi durissimi, strette come erano queste comunità tra i Romani conquistatori e la dinastia dei sacerdoti del Tempio fedeli a un re fantoccio legato e voluto da Roma. Esse affrontavano quotidianamente una grande prova di sopravvivenza e, in queste condizioni, il comunismo si rivela un’arma di coesione e fratellanza potentissima. Non possiamo farci un’idea dell’intensità della fede in questa nuova eresia ebraica guardando alla superficialità dei nostri giorni o agli orrori della Chiesa dominante, uno dei peggiori poteri è senza dubbio quello teocratico.

Paolo innesta una sua eresia nella nuova eresia cristiana, si allarga – qualcuno lo vede come un agente al servizio di Roma –, cerca di aumentare il numero dei proseliti e il cristianesimo futuro è tutto opera sua, almeno è una derivazione dell’opera da lui intrapresa. In appena due secoli solo rovine si troveranno delle aspirazioni utopiste delle origini. Studiando l’evolversi non tanto degli scritti imposti, come gli Atti, quanto quelli dei teorici fino ad Agostino – che poi è questo il compito nostro – si avverte un brivido di paura. Una eresia radicale è stata a poco a poco smantellata sul campo, con attività violente e certamente contraddittorie, e poi giustificata non come nuova eresia ma come vulgata ufficiale col terrore metodico dei teologi.

Queste talpe cieche e sorde hanno lavorato in un modo soggettivamente orientato fino ad Agostino, cioè parlando ai potenti delle possibilità di un uso corretto e santificato delle loro ricchezze e ai poveri di accontentarsi delle briciole. Non era affatto un discorso razionale il loro, bisognerà aspettare Tommaso per avere un razionalismo scientifico a disposizione, tratto da Aristotele. Ma la nuova Chiesa era pronta per la lotta diretta alla conquista del potere. Fin dalla metà del secondo secolo i poveri vengono a poco a poco messi a tacere. Paolo non affronta il problema ma la sua attività di propagandista rende implicita la negazione del comunismo primitivo e ciò anche volendo tralasciare la sua concezione cristocentrica, del tutto assente prima, poniamo nelle Lettere di Giacomo.

Il ruolo che adesso ha la fede si sostituisce al rispetto della legge del tempio, anche a quella modificata di cui parlavano Giovanni, Giacomo e Pietro. Una grande sfida è lanciata al mondo, la possibilità di una ricchezza che abbia anche delle ricadute favorevoli per i poveri. La concezione classista del cristianesimo delle origini si sposta nell’anticlassismo della fede. Le tracce di estremismi come la citazione del cammello e della cruna dell’ago, vengono affievolite e fatte interpretare in modo diverso da ogni teologo giustificazionista, una sorta di gioco di parole. Il grande grido delle Beatitudini, “beati i poveri”, nella versione di Matteo, della fine del primo secolo, è “beati i poveri in spirito”. La fede paolina ha già fatto presa e il regno dei cieli lo si potrà così avere addomesticando il proprio spirito, cioè lasciando pure soffrire il corpo nelle angustie della povertà, mentre i ricchi manterranno intatta la loro purezza, appunto di spirito, avendo la fede, cosa che può benissimo amalgamarsi con una considerevole disponibilità patrimoniale. Le grandi città sono ormai pronte per essere battezzate in massa e senza nessun problema di ordine sociale. L’ultima insurrezione, a metà del secondo secolo, è sconfitta e i seguaci della nuova eresia riformata possono ormai avviarsi alla piena giustificazione della ricchezza. Si tratta di un colpo di grazia per le speranze dei miseri e di una grande occasione per l’Impero romano che alla fine raccoglierà i frutti della predicazione di Paolo accogliendo nel proprio seno la nuova religione, mezzo non ultimo per fronteggiare i nuovi pericoli provenenti dalle invasioni barbariche.

La fede cristiana diventa così un processo fortemente ritualizzato in mano a una casta di sacerdoti staccata definitivamente dall’ebraismo. Alle origini, i cristiani comunisti avevano attorno a loro un universo affettivo in cui si riconoscevano. Questo era molto vicino alla legge ebraica ma lontano e contrastante con il collaborazionismo dei sacerdoti del Tempio come pure con ogni idea di popolo eletto. Erano, insomma, ebrei eretici, ed erano uniti alla comunità di origine dalla sofferenza, dalla paura e dall’oppressione. Tutto ciò produceva comunismo come sensazione, stimolo, modo di agire, non come teoria.

La lunga riflessione sul problema della ricchezza, ancora più di quello della fede o della violenza, si radica all’interno del cristianesimo delle origini e ne spegne gli eccessi eretici della coscienza a favore di un radicamento nella società gestita dai grandi interessi imperiali romani. A vincere non sono un mondo e un pensiero più forti ma solo meglio organizzati e in grado di offrire quello che le grandi masse e il potere, ognuno per proprio conto, cercavano, l’ubbidienza da una parte e il dominio dall’altra. Quella che fu una grande eresia ebraica fondata sullo spirito di uguaglianza del comunismo diventa abitudine tranquilla e finisce per irrobustirsi in modo da fornire un sostegno non spirituale ma concreto al potere in carica contro tutti gli sconvolgimenti che la storia e i suoi massacri dovevano via via proporre.

Il cristianesimo sbocca così in una religione cimiteriale, dove il culto della morte finisce per prevalere sui valori umani della vita. Agostino, nella sua forza polemica, butta via l’acqua sporca con tutto il bambino e parla apertamente di predestinazione, per i fedeli non restava altro da sperare che di essere nati dalla parte giusta della città e di non essere predestinati alla dannazione eterna. Questi eccessi non sono solo conseguenza della vis polemica, sono legati alla percezione che il singolo ha riguardo il proprio posto nel mondo. I poveri sono predestinati al regno dei cieli? È quindi giusto – se è così, ma non è sicuro – che tali restino, saranno ricompensati in seguito. I ricchi possono essere predestinati anche loro per cui le loro opere non possono che essere briciole cadute a caso dalla loro tavola per evitare il disgusto di stare a guardare qualcuno crepare davanti alla porta della propria casa, tanto non è con le opere che si conquista il regno dei cieli.

Certo, ci sono delle sfumature nella grande costruzione filosofica di Agostino di altro genere e di altra portata, ma ci vogliono orecchi fini per percepirle. Come ci si potrebbe opporre alle certezze dogmatiche della teologia, forse con la superstizione – che tale è bollata – di una utopia primitiva forse adatta a piccoli gruppi di iniziati, perseguitati e costretti a nascondersi? Agostino, e perfino gli stessi apologeti precedenti, costruiscono a poco a poco, operando su fronti opposti, una intolleranza che trasforma la fede viva in uno strumento di difesa o di attacco. Non si spiegherebbero le critiche interne alla stessa idea di comunità condotte in nome di una migliore e più corretta gestione comunista e l’estremismo di Agostino nel difendere la ricchezza con i termini usati nella Lettera a Proba.

Gli apologeti si battono per una realtà che già nel secondo secolo è in via di esaurimento, non ha più la spinta viva del grande sogno eretico capace di opporsi con la forza della rettitudine al dominio dei sacerdoti del Tempio, venduti ai Romani. Le difese sono spesso convinzioni deboli portate al loro estremo per apparire forti. Attestando la vivacità e la bontà del comunismo, si acquisiva così il diritto di vantarsi di farne parte, di essere difensori della vera fede. Ma sono sintomi di debolezza, i colpi inferti dalla propaganda di Paolo avevano preparato da tempo non solo l’allargamento del cristianesimo alle grandi masse ma anche la collaborazione con Roma e la conquista del potere.

La fede è sostituita alla pratica, si è fedeli non comunitari che spartiscono la realtà della propria vita con i loro fratelli, ognuno distrugge i vecchi idoli a modo suo e ne costruisce altri nella propria casa. Simboli succedono a cose concrete. Il comunismo è concreta maniera di risolvere i gravi problemi della disuguaglianza e della conseguente miseria irrisa dalla ricchezza, la ritualità è un processo oggettivo che pretende di garantire la salvezza seguendo certe regole o affidandosi – nel caso estremo di Agostino – all’ordalia della predestinazione. Il rito è finzione e porta a costruire sospetti e pregiudizi. Non si è fratelli ma correligionari, non è il bisogno e il sentimento fondato sull’aiuto reciproco per affrontare il bisogno la base del rapporto ma qualcosa di esterno, peculiare a professionisti educati ai misteri rituali che in breve diventano casta sacerdotale come accade dovunque ci sono riti da propiziare e c’è da tenere salda l’ubbidienza. Come fare a disfarsi di questa rete di legamenti e di compromessi? Impossibile. I rapporti adesso non sono più fra libere comunità ma fra rappresentanti di comunità, delegati professionisti di cui il prototipo è Paolo, il vero fondatore di questo cristianesimo favorevole alla ricchezza.

L’incoscienza e l’ardore del cristianesimo delle origini aveva tutte le caratteristiche dell’utopia egualitaria, non ragionava, non aveva una propria fede religiosa nel senso moderno del termine, derivato da Paolo. Viveva un’esperienza unica, praticamente comunista e comunitaria, poco ritualizzata, credeva nella fratellanza, nella pietà e in un Dio misericordioso con gli umili. La chiaroveggenza programmatica paolina irrompe in questo contesto ancora prima della stesura dei Vangeli e, se non è in grado di deformare del tutto il suo contenuto, lo indirizza fortemente sulla figura del figlio di Dio, forse non centrale per il cristianesimo precedente e per gli stessi Giacomo, Giovanni e Pietro. Questa riflessione trinitaria introduce elementi nuovi nell’antico ceppo della legge ebraica e quindi disfa un tessuto secolare di potere per cominciare a costruirne un altro diverso.

Alla fine del primo secolo non c’è più una vera e propria eresia ebraica ma una nuova religione. La coscienza di partecipare a un’impresa comune diversa, quindi sempre interna alla legge del Tempio ma non asservita agli invasori romani, si disfa e al suo interno si insinua il pregiudizio rituale, la fede che crede a prescindere dalle opere. Finzioni mascherate, come in qualsiasi struttura di potere ecclesiale, ed era proprio per cambiare queste finzioni che l’eresia cristiana iniziale si era mossa all’interno del ceppo ebraico dell’antica religione. Ma questo mascheramento svuota di energia l’insieme delle comunità e conferisce tutto lo sforzo a giustificazioni teologiche prodotte da pensatori che negheranno la sostanza del movimento iniziale, il comunismo, e ripristineranno il valore della ricchezza e della divisione delle fortune temporali.

L’antico equilibrio è rotto per sempre, nuove analisi verranno, lucide e fredde, incapaci di riscaldare i cuori ma in grado di fare convivere miseri e ricchi sotto la medesima denominazione chiesastica. Se l’antica unione viene distrutta nella sua costruzione concreta fondata sul quotidiano, la nuova deve il suo splendore quantitativo e la sua crescita alla forza connettiva gerarchica di una classe dominante, da cui uscivano i sacerdoti e i teologi, in grado di reggere lo sforzo organizzativo della conquista del potere. L’elenco delle verità da non mettere in dubbio cresce a dismisura, il nuovo Dio trinitario giustifica qualunque fantasia ed è in grado di assorbire qualunque dubbio. La fede è un ottimo connettivo di potere, riduce al silenzio gli scettici i quali non possono esprimere i loro dubbi in quanto subito tacciati di non avere la fede. Ogni interrogativo è ricomposto all’interno dell’ortodossia, così la domanda di verità si avvia al silenzio, anzi vi corre incontro. Soccombe in questo frangente l’aspirazione utopica e ne scompare perfino il ricordo. Le costruzioni teoriche, mischiate alle favole per i più semplici, si fondono insieme e celano le inquietudini dei poveri con la speranza del regno dei cieli. L’egualitarismo comunista richiede un impegno militante personale e quotidiano, la nuova religione cristiana è al contrario un grande contenitore che mette insieme coloro che non hanno avuto risposta alle loro domande più intime e pressanti con coloro che la risposta l’hanno avuta avendo trovato il modo di salvare il proprio patrimonio senza incorrere nelle disgrazie di Anania.

È curioso vedere come i nuovi filosofi giustificatori siano persone scarsamente dotate di fede nella costruzione di un mondo migliore, qui e subito, per i diseredati, anzi la loro fede li porta a diventare fanaticamente assertori di una vera vita collocata altrove, dopo la morte. La costruzione di un nuovo potere è sempre una faccenda lunga e contraddittoria, comincia con la costruzione di una pretesa nuova verità e si conclude – quando lo scopo è pienamente attinto – con un surrogato di verità, con un pregiudizio. È chiaro che la fede in un Dio della pietà e della misericordia può alimentare, nella immediatezza, la realizzazione – sia pure parziale – di una visione utopica della vita. Ma un Dio che si preoccupa di stabilire rapporti di convivenza col potere in carica, che si modula a seconda delle necessità della Chiesa che lo propone e illustra, che si basa sulla cecità della fede e che non considera se non dall’alto, direi a volo d’uccello, il grave problema delle disuguaglianze sociali, questo Dio può solo alimentare l’altra parte del potere, quella spirituale, complemento indispensabile di ogni struttura repressiva esclusivamente politica e militare. L’ingigantirsi nel tempo di questa seconda forma di divinità ha finito per fare dimenticare la forza e il valore della prima.

Il paolismo maturo, intellettualmente sostenuto dalla filosofia diventata ormai sovvenzionatrice costante della teologia, non poteva inglobare il cristianesimo delle origini senza cancellarne per sempre lo spirito comunitario. Ciò avviene sul piano puramente teorico per una durate di tre secoli, ma sul piano favolistico, mitico, il piano più adatto a colpire l’immaginazione di milioni di persone e a sostenere una fede con pretese oggettive, avviene con i Vangeli, seppure in maniera contraddittoria. Il segno ottuso dell’ideologia paolina è rintracciabile non solo negli sviluppi teorici successivi ai Vangeli ma anche in questi stessi e – fatte salve le opportune eccezioni – è favorevole a un allargamento e a una irreggimentazione dell’antica eresia cristiana delle origini. Si tratta di un progredire quantitativo che rovinerà l’afflato iniziale per sempre, sostituendolo con una religione ottusa e vendicativa capace di dare vita al potere ecclesiale, l’alleato per eccellenza del potere politico.

Agostino, pur lavorando con i Vandali alle calcagna, sa che la sua costruzione, degna erede dell’opera di Paolo, è destinata al futuro e sarà uno dei mezzi più potenti per arginare la forza primitiva e brutale, ma viva e con potenti istituti comunitari, delle nuove genti in arrivo.

Non si posso dire che il cristianesimo sia venuto meno alla sua formulazione originaria, come forse un tempo molto lontano, quando ero altro uomo da quello che sono, posso aver pensato. Lo sconvolgimento delle antiche tesi comunitarie e comuniste – opera essenzialmente teorica – non sarebbe stato possibile senza l’opera pratica del proselitismo internazionale di Paolo. Potrebbe essere intesa, questa nuova eresia ordinata in una ortodossia chiesastica di nuovo conio, come una tremenda baraonda ma sarebbe errato. Non fu una visione ristretta o politicamente servile al dominio romano universalmente diffuso, fu un progetto diretto prima ad affiancare questo dominio, svuotandolo dall’interno dei suoi valori, per poi sostituirlo. Non era una limitata rivisitazione delle leggi del Tempio, era una progettazione universale del tutto nuova che faceva della religione cristiana il modulo vincente del nuovo potere.

La politica cristiana comincia con la conquista del potere e manterrà, fino ai giorni nostri, una pazzia vigorosissima, sempre risorgente, sempre assistita dal fanatismo e dalla coscienza di combattere per una santa causa. In fondo l’idea di crociata attraversa tutta la storia del cristianesimo paolino e ne costituisce l’ossatura politica. L’orgoglio delle organizzazioni della Chiesa cristiana non cessa mai di sbalordire, parallelo all’ipocrisia, esso non perde mai di mordacità, si insinua nella vita di ogni uomo dalla nascita alla morte e la domina senza misericordia. Il mondo non avrebbe senso senza questa religione che lo ha governato per tanti secoli quasi totalmente, pretendendo di inoltrarsi anche in zone in cui altre religioni – alcune non meno perniciose – tenevano banco.

L’imperialismo cristiano ha una storia sanguinosa che mette paura e che fa vedere il baratro profondo in cui è stato cacciato l’animo umano e che ha contrassegnato il suo scacco per due millenni. Da questo abisso di miseria e di sangue, abisso che non è possibile distinguere fino a che punto sia politico o religioso, l’uomo non si è ancora risollevato. Occorreranno ancora molti secoli per la nascita di popoli nuovi, di nuove energie, di nuove concezioni di vita in comune, perché tutto questo sangue cessi o almeno riduca il proprio afflusso nella caverna dei massacri. In altre parole, occorre il caos, l’anarchia.

La storia non può venirci in aiuto, non parla mai a nome dell’avvenire. Occorrerebbe leggerla – come è bene leggere questo libro – contro se stessi, sentirsi corresponsabili per la propria inedia, collaboratori di coloro che hanno impunemente calpestato, ammazzato, insanguinato. Ma nessuno è disposto a leggere un libro di storia in questo modo. Anzi, al contrario, lo storia è in genere un mezzo a portata di mano per trovare i propri alibi, le proprie eccezioni di responsabilità. Se dobbiamo poter pensare a un nuovo concetto di comunismo, come di certo lo è quello anarchico, dobbiamo anche capire perché l’illusione quantitativa sia perniciosa. La vicenda del suicidio delle prime comunità cristiane di fronte al proselitismo paolino è molto interessante in questa prospettiva. Gli intellettuali di cui si parla in questo libro erano stanchi di quella esperienza, in fondo estranea perfino agli apologeti, ecco perché aprirono il fianco all’eresia paolina. A nessuno piace predicare nel deserto, meno di tutti ai filosofi.

Per un ateo come me, se Dio ha un senso l’ha solo per i miseri e per gli oppressi e spesso si confonde non tanto con la pietà e la misericordia, quanto con l’idea del comunismo, cioè l’abolizione della disuguaglianza. La tolleranza è un ideale non accettabile per chi soffre, significa in sostanza continuare a soffrire e sopportare con pazienza gli autori di questa sofferenza ai quali va tutto il beneficio della stessa. Un Dio della tolleranza verso gli oppressori è un Dio ingiusto e ributtante, non può albergare a lungo nel cuore del povero, può attecchire invece in quello del ricco che però è sollecitamente portato a costruire una casta sacerdotale capace di essere intollerante contro coloro che premono per avere almeno una piccola parte di quanto è stato loro tolto. Ecco come, attraverso la Chiesa, dalla tolleranza si passa alla repressione in prima persona o sotto forma delegata. La casta si arricchisce e accumula potere grazie alla gestione del terrore.

L’ideale di libertà è spesso vago e confuso nell’oppresso e si traduce quasi sempre nell’immediata liberazione dalle condizioni di sfruttamento che lo rendono stanco, povero, diseredato, pauroso e bisognoso di misericordia. Non è questa la libertà, lo so benissimo, ma non essendo un sofista so bene che in questa direzione si muove chi soffre e che sarebbe inutile mettergli sotto il naso il mio artificiale ateismo da persona colta o un estremo ideale di libertà assoluta, quale lo si sperimenta nell’azione, di cui il mio interlocutore avrà difficoltà a cogliere le sfumature.

Certo, se in Dio egli cerca pietà per le proprie piaghe è nella rivolta che cerca lo spazio per costruire la sua comunità di eguali. E il cristianesimo delle origini fu quasi certamente costituito da comunità di credenti vicine alla resistenza antiromana e anticollaborazionista contraria ai sacerdoti ebraici del Tempio venduti a Roma. Fu un’avventura dettata dalla miseria e dalla persecuzione ma anche dalla fede in un Dio diverso dall’arcigno vendicatore e alleato dei forti, predicatore di divieti e di obblighi, di cui si parla nella tradizione ebraica.

Questo straordinario viaggio nella ricerca di un territorio diverso durò pochi decenni o qualche secolo? Non è facile rispondere. Certo trovò presto un terribile nemico nell’organizzatore Paolo, filoromano e ammiratore della crescita quantitativa. L’apostolo delle genti stava forgiando le nuove catene dell’illusione e intendeva mettere un freno alla corruzione comunista del vivere insieme non solo la quotidianità ma la stessa esperienza religiosa. Il fatto che la fede in Cristo sostituisse quella collettiva nel Dio della pietà, nel Dio dei poveri, avrebbe prima o poi bloccato l’azione – a volte violenta per motivi di necessaria difesa – delle primitive comunità cristiane.

Ecco quindi che la nuova eresia, contrariamente alla prima, rompe radicalmente con il collaborazionismo ambiguo del Tempio e si getta a capofitto in una costruzione mitologica articolata e centrata sulla figura del Cristo. Ciò avrebbe permesso un linguaggio pragmatico ed efficace nella predicazione a popoli e strati sociali che nulla conoscevano della prima eresia e che trovavano molto comodo restare a contatto con la dominazione romana, non seguire né le avventure insurrezionali né una convivenza poco chiara ma accettare il gioco in attesa di prendere il potere.

I nuovi adepti stabilivano subito una distanza tra la propria vita – e quindi anche tra la propria fortuna e ricchezza – e la propria fede cristiana. Nessuna sensazione di disagio in questa separazione, qua e là qualche accenno alla necessità di pensare ai fratelli derelitti, ma qualche briciola alla fine era sufficiente per mettersi il cuore in pace. È con questa stanchezza della tensione morale che si preparano e si consolidano le tirannie peggiori.

La leggerezza dell’impegno, la superficialità della fede, lo stesso scetticismo camuffato da sofismi riguardo a molti problemi – ad esempio alla domanda rimasta per secoli in sospeso se la donna avesse un’anima – non porta che ad una lucidità metafisica, pronta a riversarsi con tutta la rabbia teologica sulla testa di chi chiede qualche cosa in più della semplice briciola. Alla tavola del ricco non bisogna nemmeno avvicinarsi, altrimenti si potrebbero ridestare le antiche premesse comuniste che avevano fatto fremere di giusta gioia e di grande dedizione comunitaria le prime forme del cristianesimo. La stupidità delle masse non può essere chiamata come sola causa di questo dilagare del paolinismo, c’è anche l’interesse dei ceti più abbienti diretto a comprimere le istanze di liberazione della gran parte di queste stesse masse. I becchini intellettuali sono al lavoro e inebetiscono sempre di più le istanze di ogni rivolta comunitaria.

Eretico di seconda categoria, aristocratico romano, disgustato dal comunismo e dalla concezione ristretta delle comunità del cristianesimo primitivo, che cercavano prima di tutto di difendere il loro attaccamento alla povertà e all’uguaglianza, poi – soltanto in subordine – alle leggi del Tempio, Paolo va alla conquista degli spazi smisurati e delle grandi masse. È l’impersonalità del soggetto di fede sottoposto alla figura del Cristo che per lui è l’elemento centrale, la leva potente per sollevare il mondo, sconvolgere la consuetudine, allontanarsi dalla miseria e costruire il potere di domani. L’ultimo idolo da abbattere è un Dio della pietà e della misericordia, un Dio caro ai miseri e agli oppressi, dalle sue rovine sarebbe venuta una maggiore gloria per l’Impero romano ma anche per la Chiesa da costruire, universale, non indirizzata alla minuzia ortodossa di un popolo eletto.

Egli modella così una nuova religione, nuovi dèi pullulano in questa religione, a cominciare dal primo martire – probabilmente ucciso da lui stesso – Stefano, usa nomi nuovi per chiamare vecchie pratiche rituali, abbatte ostacoli e interdetti, non si cura del grado o della intensità della fede dei nuovi battezzati, quello che conta per lui è il numero, non ha il palato difficile, non sta a soppesare la verità delle dichiarazioni dei nuovi credenti.

Infiacchito, questo nuovo cristianesimo non ha la forza di quello originario, si basa soltanto sul numero e sulla potenza delle ricchezze che si andavano accumulando se non nelle mani dei nuovi sacerdoti, certo in quelle della casta dei mercanti. Alla fine, demolito, indebolito, il suo patrimonio eretico striscia davanti al potere politico e si prepara ad affiancarlo per poi cercare di sostituirlo. Il grande Gregorio è lontano ma la sua idea di un regno universale della Chiesa nasce proprio dal lavoro di Paolo. La voce del povero è adesso, e lo sarà poi per sempre tranne i casi delle grandi eresie e delle spaventose insurrezioni, sovrastata dalla liturgia, dal rituale. Qui si costruiscono parodie della fede, non concrete possibilità umane di vivere insieme un futuro migliore. Tutto naufraga in un asservimento strumentale al potere e tutto aspira a svuotare dall’interno la fede per farla corrispondere non a un moto dell’animo umano, da cui trarre sostegno e forza per lottare contro la miseria e, se necessario, insorgere uniti contro i soprusi, ma a un apparato burocratico ritualizzato.

Se l’eresia nasce con l’inizio dello spirito critico, essa muore quando questo spirito smette di continuare a cercare e afferma di avere trovato la verità. La fede, in questo caso, da stimolo interno dell’animo sofferente diventa espressione totalmente esteriore, un susseguirsi di adempimenti vuoti di contenuto, necessari di una difesa oggettuale perché ridotti allo schema fisso di un qualsiasi fare produttivo. Se l’antico comunismo si alimentava della fede nel Dio del Tempio rivisto attraverso l’eretica concezione di un’abolizione delle caste e delle disuguaglianze, il nuovo cristianesimo paolino, gettando le basi per una futura e necessaria giustificazione della ricchezza, diventa a poco a poco arcigno, conquistatore e difensore dei propri nuovi possessi, aggressivo non tanto contro gli invasori – che questa difesa apparteneva anche al cristianesimo delle origini – ma contro tutti coloro che non accettano i nuovi dogmi, le nuove favole, i nuovi dèi, la nuova visione del potere.

Dovendo accostare l’illusione quantitativa bisognava costruire un tessuto logico capace di rendere comprensibili concetti non semplici da spiegare. Da qui le difficoltà delle prime analisi, che persistono nello stesso Agostino, il frequente travalicare in anacronistici estremismi, la necessità di grandi Concili per fissare i punti essenziali – obbligatori per tutti – in base ai quali la Chiesa può dirsi finalmente fondata su solide basi.

Nelle favole dei Vangeli, e in alcune analisi successive, non solo apologetiche, affiora la visione di un comunismo indispensabile per dirsi perfetto cristiano, credente in un solo Dio, un Dio di misericordia e non di vendetta, ma molte volte queste teorie vengono ricevute male. Di già, a partire dalla metà del secondo secolo, il tessuto sociale è talmente cambiato che manca la spontanea ingenuità dei primi tempi eretici, manca la tensione egualitaria e molti sostenitori del comunismo si scoprono circondati dal nulla teorico e da un certo numero di profittatori che sfruttano la residua fede ingenua per arricchirsi alle spalle degli ultimi cristiani dell’eresia iniziale. Cipriano denuncia proprio questa degenerazione.

L’eresia delle origini non era tributaria dello stile chiesastico centralizzato del Tempio, probabilmente non voleva guastarsi con le Leggi ma certo il costume politico di rimanere sottomessi al potere invasore non le andava bene. Coglieva un mondo passato, in cui i re locali, i vari Erode, erano fantocci senza significato e sentiva il bisogno di fare a meno non solo dell’Imperatore lontano ma anche dei suoi dèi e della stessa divinità imperiale. Non siamo davanti a una eresia parziale ma a una totale divergenza. Il fatto del rispetto delle Leggi è secondario, per quel che penso, all’impostazione comunista di fondo a cui davano vita le comunità. È qui il punto di maggiore lontananza dalla posizione mosaica del Tempio. La verità colta col cuore, vicina al Dio della pietà, è per forza di cose una verità semplice fatta per gente semplice, una verità che libera dalle pene, dall’affanno di doversi destreggiare fra due poteri politici associati nella comune funzione di sfruttamento.

Le comunità cristiane primitive – e questa è una considerazione straordinariamente diversa – non erano cristocentriche. La raffinatezza successiva, non solo di Agostino, estremo punto di recupero e di riassetto, ma anche degli apologeti, nasconde un principio di giustificazione che non è connaturato necessariamente alla nascita delle prime comunità come concezione eretica della vecchia religione. Da sola, questa raffinatezza, non avrebbe mai costruito la potenza cristiana dominante e non avrebbe mai attinto la conquista del potere, essa si fondava, proprio in quanto finezza filosofica e teologica, sul costrutto pratico paolino, base seria e irreggimentata per tempo prima di qualsiasi giustificazione dialettica più o meno abile.

L’antica filosofia aveva aperto alla nuova grandi tesori accademici, per quanto non ancora perfettamente razionalizzabili, e aveva contribuito a mettere da parte alcuni scrupoli pratici che i primi cristiani consideravano fondamentali, a esempio la vita in comune e quindi l’abolizione della disuguaglianza, ma queste aperture a una visione più organica dal punto di vista intellettuale erano indirizzate verso sofismi attorno al rito o al concetto astratto di fede, questa volta sì, cristocentrica. Una fede da costruttori di imperi, da dragatori di bassifondi allo scopo di ripulirli della feccia sociale, i poveri, i miserabili, sempre pronti alla rivolta e a una ulteriore svolta eretica.

Malgrado la forza della nuova concezione paolina, le idee precedenti, sempre a sfondo comunista e poverista, oltre che comunitario, pullulavano. Anche se non riuscivano a raggiungere né la forza numericamente immensa del cristianesimo trionfante né l’ingenua e immediata fede delle origini. Ci voleva altro per impoverire un meccanismo di potere che attirava affaristi e teologi, stessa categoria di massacratori in pectore. La religione dominante produceva idoli da venerare in grande quantità e per tutti i gusti, inglobava i resti del paganesimo consegnando le antiche storie a nuove mitologie con nomi a volte quasi identici. Sulle rovine dei vecchi templi si costruivano le nuove chiese. La gente, in un’ottica quantitativa, deve essere accontentata e le sue abitudini non possono essere sconvolte troppo radicalmente, si potrebbe verificare un senso di vergogna e di disastro incombente. Le nuove generazioni ritrovavano così i propri idoli protettori sotto una verniciatura diversa, e questo era quello che chiedevano.

I teologi costruivano frattanto le loro fantasie contorte e non sempre sufficientemente giustificate dal punto di vista logico, ma quello che importava era proprio che questa stessa illogicità venisse percepita come coesione e forza, non come contraddizione disgregatrice, coesione nella stessa incredibilità, nella stessa assurdità più estrema. Le acrobazie della teologia potevano arrivare ad assurdità non conosciute neanche dal paganesimo, anzi più queste erano estreme e più alcuni aspetti marginali – poniamo le tendenze eremitiche e quelle mistiche – potevano essere fronteggiate prima di causare danni seri, cioè prima di arrivare a una riproposizione, più o meno modificata, delle comunità comuniste delle origini. La nuova potenza religiosa andava apprendendo l’arte di sopravvivere a se stessa, cioè di costruirsi una storia e una tradizione unitarie. Gli estremi delle assurdità contribuivano a chiudere il cerchio, tutto tornava utile salvo la condanna della ricchezza.

Per trionfare politicamente come forza organizzata, diretta a cogestire il potere e, a volte, a mantenerlo in proprio saldamente, la Chiesa cristiana – a prescindere dalle sue future scissioni che qui interessano meno – doveva fallire come eresia minoritaria fondata sulla difesa in proprio, realizzata dai poveri e da coloro che poveri diventavano mettendo tutte le loro ricchezze in comune. Questo fallimento è il più prezioso esempio di come il potere e la brama di conquista corrompino le migliori intenzioni e le assoggettino alle loro regole. Fallimento prima, maturatosi in tre secoli, e liquidazione poi di ogni residuo dell’antico patrimonio di esperienze comunitarie. Di fronte alle antiche speranze e alle attese di una redenzione dapprima e soprattutto terrena, si ergeva a poco a poco la formazione potente di un potere implacabile fondato sulla convinzione del proprio destino di forza capace di conquistare il mondo intero.

Il mito di una immolazione primitiva viene coltivato e concretizzato in un rito che consente di rivivere quotidianamente una favola affascinante e coinvolgente, la morte e la resurrezione di Dio, di uno degli dèi che ormai compongono una instabile trinità. Una teologia risoluta e intransigente accumula testimonianze su questa ripartizione incompresa e inspiegata fino a quando la razionalità aristotelica di Tommaso verrà a mettere assetto definitivo alle incerte questioni lasciate aperte. La barbarie è in questi gangli teologici, proprio al loro interno sempre più ammantato di ragione, e sarà essa a scatenare le spaventose esperienze delle Crociate e dell’Inquisizione. E un potere forte – un altro tipo di potere non mette conto tenerlo presente – non deve forse basarsi sulla barbarie? Quanti milioni di uomini sono stati massacrati in nome di Dio? Il motto che le SS hitleriane portavano alla cintura non era forse “Dio è con noi”? E certamente è a questo Dio del potere assoluto che quel motto pretendeva fare riferimento. Di fronte alle invasioni che una storiografia stolidamente monocorde continua a chiamare “barbariche”, la Chiesa in via di costruzione, per come stava uscendo dalle carte della Città di Dio, con i Vandali dietro l’angolo, mi sembra la vera barriera, l’unica in grado di progettare e benedire i grandi massacri che attraverseranno l’intera storia umana.

Non si costruisce una ignominia di questa portata senza un’atmosfera di distacco e una profonda presunzione di essere nel vero. Una leggenda può reggere fino a un certo punto. Le esperienze dell’uguaglianza primitiva non potevano avere nessuna speranza di contrastare una macchina da guerra di questa portata. Anche le grandi eresie, che hanno scosso la storia della Chiesa, dopo tremendi colpi inferti alla costruzione monolitica e centralizzata, si sono poi costituite in altrettante Chiese, parimenti allettate dal potere, oppure sono perite fra le fiamme dei roghi accessi dal fanatismo degli avversari religiosi o della feroce repressione del potere politico.

L’uguaglianza comunista delle origini – che è in fondo il problema che ci concerne – ha resistito forse meno dei tre secoli che impiegò la teorizzazione giustificativa della ricchezza a minarne le basi. La predicazione di Paolo era di già stata una critica concreta molto più efficace e radicale. I comunisti cristiani delle origini si resero subito conto, fin dalla resistenza organizzata da Giacomo contro l’apostolo delle genti, di non potere frenare una nuova ondata eretica assistita dalla prepotente forza di occupazione romana e dalla gestione di ricchezze considerevoli che entravano a far parte della disponibilità della nuova casta sacerdotale. Non poteva intraprendere molto per resistere né per scongiurare l’inevitabile fine. I fieri lottatori, contrari non solo alla ricchezza ma anche alla visione collaborativa del Tempio e alla propaganda professionale paolina, divennero troppo deboli in breve tempo e, forse, al loro interno, come sottolinea Cipriano, si svilupparono attività di mestatori e di profittatori della loro buona fede. Diventati vittime, accettarono la sconfitta ancora prima che i loro nemici – i Romani, gli Ebrei e i cristiani paolini – fossero in grado di cancellarli definitivamente. Le comunità cominciarono a sfaldarsi ed è qui che nasce la necessità di esaltare che fa velo alla realtà delle cose. Il sogno avrebbe impiegato ancora del tempo a morire, ma qualcuno si stava incaricando alacremente di scavargli la fossa.

Esiste certamente un’aspirazione alla libertà in generale ma essa è molto più radicata nella libertà dal bisogno. È quest’ultima che nella povera gente stimola alla scoperta di mille soluzioni – ma anche di mille compromessi – e fra queste soluzioni c’è l’invenzione dei miti, menzogna fomentatrice di azioni, spesso al di là di qualsiasi verità pedissequamente rispecchiata. L’insoddisfazione genera un entusiasmo circolare, morbosamente ripetitivo, ma che cresce qualitativamente non appena ottiene risultati tangibili. Il comunismo primitivo dei cristiani fu di certo un prodotto di questo entusiasmo capace di collegare una pratica non di sicuro sconosciuta a un bisogno da soddisfare, l’uguaglianza alla soluzione del problema sociale, la prospettiva divina a una organizzazione di resistenza e di lotta ereticamente lontana dalle compromissioni del Tempio. Questa spinta non poteva spegnersi dall’esterno, con le persecuzioni e la guerra si sarebbe rinsaldata e non inaridita. Difatti fu proprio dall’interno che venne realizzato il processo di riduzione e di svuotamento.

L’uguaglianza non si può schiacciare con la forza, occorre un convincimento teorico accompagnato da un esempio più ampio di funzionamento di strutture fondate sulla disuguaglianza sociale, traballanti e dolorose per i più ma benevole per una ristretta minoranza, per una casta dirigente. L’esempio di qualcuno che tenta e realizza una scalata sociale e arriva a posti di comando è un’eccezionalità contagiosa, ha un fascino a cui è difficile resistere. Le moltitudini si incantano di fronte al rito e restano prigioniere all’interno di una rete procedurale che nella religione acquista una tangibilità difficilmente raggiungibile dalla sacralità del potere politico puro e semplice, sia pure bardato con i simboli mutuati dalla religione. Ciò rende le masse abuliche e ipnotizzate, la loro sofferenza viene sublimata in un abbandono a qualcosa di superiore e di grande, la fede nel Dio trinitario, assurda concezione eretica tardo-cristiana, è rinfocolata continuamente da uno stuolo di professionisti prezzolati, da una casta benestante di facitori di miracoli. Niente è più confortante del lasciarsi trascinare da queste faraoniche parate. Lo stesso orrore dell’Inquisizione era allestito non nella tortura segreta ma principalmente nella punizione pubblica, spettacolo che durava spesso parecchi giorni e che veniva indicato come un “atto di fede”, cioè un’attestazione delle fede collettiva. Niente è più ragionevole di una delega di questo tipo. Spettatori attoniti ed eccitati subiscono lo stesso trattamento della plebe romana attraverso gli spettacoli dei gladiatori o i massacri dei cristiani. Come sempre gli antichi perseguitati diventano i peggiori persecutori. Gli Ebrei lo dimostrano oggi come meglio non si potrebbe.

Al fondo quindi della primitiva concezione cristiana c’era una fede di tipo diverso, essa era certamente in un Dio unico lontano sia dall’occhiuto Dio degli Ebrei sia dalla Trinità paolina. Un Dio della misericordia non ha iniziative, gesti, non compie imprese che fissano regole o pronunciano condanne, è un Dio della pietà e del perdono. Non va dietro la ruggine che ognuno di noi accumula nel proprio cuore, egli è vitalità prima di tutto, e questa si manifesta nelle cose della quotidianità, nella gestione comunitaria del problema sociale, non è un Dio remoto, interpretato dai teologi e gestito nei suoi misteri insondabili da una casta di intoccabili sacerdoti.

È una sollecitazione alla pazzia che è in noi, che ci spinge alla novità e all’avventura, che ci fa eretici come è eretico un simile Dio privo di altari e rifiutante sacrifici o adorazione. La vita è molto simile a questo straordinario Dio che fa respirare un’aria nuova all’interno degli angusti precetti del Vecchio Testamento, è essa che ci consente di andare avanti anche in condizioni difficili, che non ci abbandona se non quando il nostro corpo non c’è più, polvere nella polvere. Questa vitalità deve fruttificare e inorgoglirsi della propria forza fra uguali, non fra superiori e inferiori. La normalità piramidale della società fondata sul potere politico e religioso dominante non è vita, è solo apparenza, essa è morte camuffata da vita. Se esiste qualcosa di nuovo e di bello nel mio futuro, per quanto oggi possa essere nelle tenebre più profonde, ciò dipende da un poco di pazzia che mi scorre nelle vene. Questo filo può avere molti nomi, per il cristiano primitivo si chiamava Dio.

La grande verità di quel primitivo movimento consisteva nel vaneggiamento di inserire una struttura comunitaria comunista, in cui erano abolite le disuguaglianze, all’interno delle tradizionali leggi del Tempio. Il paolinismo, più sensatamente, si intimidisce di fronte a questo impegno pazzesco e retrocede su tutti i fronti, sulla povertà, sul comunismo, sulla propaganda di massa, sul rispetto delle Leggi, su tutto. Questa seconda eresia non è più un vaneggiamento utopico ma un concreto progetto di potere, impedisce alla sorgente viva della vita di scorrere nel suo letto più adeguato, la deforma e la indirizza, violentandola, alla conquista del mondo.

Dell’antico coraggio di innovare resta una modificazione servile, accettabile ai Romani, prostrata più del suo cominciamento, vigliacca nel riconoscere il dominio di Cesare, indirizzata a un abisso di orrore che è quello stabile e millenario del massacro esercitato dal potere. Rifiutando e avendo una profonda avversione per gli atti sconsiderati, questa deformazione implicita nella nuova eresia non si arrischia a parlare di uguaglianza, lavora a poco a poco ad ammorbidire il primitivo estremismo, si trincera in una metafisica della conservazione, della difesa del di già acquisito, una teologia zoppicante fondata sul buonsenso più che sulla sconvolgente scoperta di una vita diversa, qualitativamente diversa, ora, non nel regno dei cieli.

La spaventevole ponderatezza degli aggiustatori del problema sociale si riflette nel rifiuto dell’impertinente sfida che l’uguaglianza dei miseri aveva lanciato alla casta sacerdotale serva dei Romani. Diventa così inevitabile un declino che sembra un’ascesa, un tramonto che sembra uno sviluppo e una conquista. Finito l’eccesso si torna a una normalità utilizzabile dal potere, una normalità organizzata e funzionale, in grado di assorbire al proprio interno qualunque forma di vita sociale modificandola in processi fattivi ritualizzati. Al principio vitale dell’eccesso, ereditato dagli antichi movimenti ereticali dal paganesimo – Dioniso è sullo sfondo – si sostituisce un raduno di fantasmi in preda a procedure mummificate capaci, una volta introiettate, di trasformare tutti in automi consenzienti alle leggi del dominio politico, prima di tutto, e poi a quello religioso.

C’è, in questo lento approssimarsi al potere, una certa voluttà dell’imperio in avvicinamento. Non si vogliono più rimettere in discussione le basi che hanno reso possibile il ripristino della giustificazione della ricchezza. Si comprende, dapprima in modo nebuloso, poi sempre più chiaramente, che senza di essa non è possibile l’intera impalcatura della Chiesa e quindi una sua condanna suona come negazione dell’intero movimento diretto a conquistare il dominio del mondo. Questa volontà si vede in modo aperto proprio negli scrittori degli inizi, ancora incerti sulla via da prendere, si coglie nelle aperte contraddizioni delle favole narrate nei Vangeli, poi il tempo continua a scorrere e gli strumenti teorici si affinano, fino all’arrivo della grande mente filosofica di Agostino, senza paura nell’immergersi all’interno delle sue spaventose contraddizioni.

Agostino sa che la vecchia eresia comunista non potrebbe convivere con l’impalcatura chiesastica di cui lui stesso fa parte e ha anche spesso intenzioni impressionanti riguardo l’inutilità di uno sforzo di fede fatto in simili condizioni. La predestinazione, in fondo, se ben considerata, all’interno del suo pensiero, non è soltanto un incidente polemico di percorso, è qualcosa di più, giustifica una vacuità di fede che egli non poteva non vedere attorno a sé, quando un Cipriano l’aveva denunciata di già all’interno delle stesse comunità primitive in corso di degenerazione.

La cancrena organizzativa e piramidale della religione ha solo un indirizzo, la strada del potere, per il resto è apparenza, morte, suicidio della fede in Dio, nel Dio misericordioso dei miseri e dei diseredati. Il Dio degli Eserciti, è il Dio della civiltà, prima di tutto romana, poi universale. Lo stesso scontro con i nuovi arrivati è uno scontro di civiltà e un asservimento al potere. Il Dio che guida questa battaglia ha il volto del futuro crociato e del futuro inquisitore. Dovunque, sarà ormai disperazione e non fede. Solo pochi eletti usufruiranno dei benefici di queste conquiste, ma questi appartenenti alle caste sacerdotali dominanti erano e sono tutt’altro che uomini di fede. Erano e sono soltanto comuni massacratori.

Se l’odierno cristianesimo si potesse guardare dentro, nelle sue varie forme temporali, non troverebbe una sola goccia del sentimento ingenuo e spontaneo delle sue origini o, almeno, delle origini della prima eresia ebraica e non del revisionismo paolino che oggi, molto superficialmente, chiamiamo cristianesimo. Sono rimasti i residui delle macchinazioni dei tanti secoli trascorsi, è rimasta la brama del potere e la lontananza dalla pietà e dalla misericordia. Sono trafficanti arricchiti nel commercio di una impostura spirituale. Questo stato di cose non ha rimedio perché non consente di accettare criticamente i propri limiti. Anche le critiche – o le scissioni più o meno settarie – non toccano il nocciolo del problema, il rapporto col potere, la forza del denaro, la potenza di prospettare quando che sia il dominio del mondo. Grande è la distretta in cui si trova la religione oggi, qualsiasi religione, anche l’Islam che nelle versioni estreme – dettate da contingenze politiche oppressive – sembra più puro e raffinato spiritualmente, e a essa non c’è rimedio, non si può suggerire un ridicolo ritorno alle origini.

La casta al potere ha la giusta dose di cinismo politico e si ammanta di uno strato di belletto e di fasto che non è possibile vedere la sua pelle ormai in decomposizione. Sarà un cadavere fra breve tempo, un cadavere che contribuirà a governare il mondo continuando a ingannare in una rigorosa e metodica mediocrità che aborre gli estremi della fede sincera dei miseri e del rifiuto altrettanto sincero dei miscredenti in genere – ma non necessariamente – appartenenti alle classi più elevate. C’è nella religione oggi un male intrinseco che torna comodo al potere, ben al di là del semplice strumento machiavellico, è un male troppo flagrante, ineluttabile, appartenente al meccanismo stesso del fare coatto che amministra la vita quotidiana. Viviamo in un’epoca di agonia persistente e non riusciamo né a morire né a vivere, siamo ridotti a pura apparenza e anche le forme in cui si presenta la religione hanno questa sostanza spettrale, non sono più violentemente repressive in proprio – non sempre potrebbero permetterselo – non sono neanche apertamente favorevoli a una feroce repressione da parte del potere politico, i tempi nuovi trovano fuori luogo anche questa seconda opzione. Respirando quindi per conto terzi anche queste forme religiose hanno una condizione agonica, quasi stipulata per contratto con la politica, ciò consente loro di adeguarsi alla dilagante concezione democratica o alle teocrazie che sono forme alchemiche diversamente composte ma sostanzialmente tendenti al medesimo scopo, cooptare la spiritualità per mascherare nelle proprie mani il potere politico.

La fioritura delle eccezioni è ormai passata, non può più tornare, quindi non c’è nella religione cristiana – torniamo all’argomento che ci occupa – nemmeno il problema delle varianti possibili, degli estremismi in grado di indebolire la supremazia delle singole Chiese. Ciò provoca una progressiva condizione di abbassamento, una irruzione del vuoto all’interno del rito che finisce per girare attorno alle proprie stesse formule prive di senso. Non ci si può ingannare, anche la preghiera spontanea, e spesso inframmezzata da esecrazioni feroci, che il povero indirizza al suo Dio, adesso è per forza di cose, dopo secoli di ritualità forzata, un momento pubblico, quindi con pretese obiettive, una piccola pietra gettata nel lago in tempesta della miseria che sovrasta la disperazione del povero. Non c’è, neanche in questo aspetto più basso, e forse più sincero – l’unico ad avere la possibilità di esserlo – una sorta di slancio umanamente comprensibile verso il Dio della pietà, tutto è stato accecato dal dominio ritualizzato. Né moto dell’animo né sforzo di meditazione né spoliazione della propria coscienza di miserabili per consegnarsi nelle mani di una Provvidenza, cieca, se si vuole, ma forse ancora ultima dea possibile a immaginare. Niente di tutto questo. Il dolore rinchiuso in se stesso non riesce più neanche ad accedere a quella coscienza di classe che poteva spingere – e lo ha fatto – alla ribellione contro lo sfruttamento.

Spezzata la condizione lavorativa, polverizzata in mille frammenti la realtà di una sopravvivenza flessibile e sottoposta alle necessità assolute del dominio, il povero è ora racchiuso nel bozzolo oscuro della sua disperazione. Deve cercare la sua strada attraverso il nulla, l’antico messaggio comunista del cristianesimo delle origini non ha più niente da dirgli.

Immerso ormai in una metafisica anemica che cerca disperatamente di tenere in vita il tomismo originale ma che è costretta ogni giorno a fare i conti con stravolgimenti scientifici inspiegabili su base logica aristotelica, il cristianesimo avanza sempre più verso il proprio svuotamento, nei riguardi di uno sforzo filosofico rinnovatore gli ultimi sussulti del modernismo – subito perseguitati come perniciosa eresia – sono stati un tentativo di dare contenuto a coscienze che ormai in sé non contengono che il vuoto. Perfettamente adeguato alla sua funzione di servizio del potere, vivacchia degradandosi nel tentativo impossibile di nascondere la propria vacuità rituale. Dell’antica forza innovativa si è dimenticato perfino il ricordo, della forza bruta più tarda – crociate e Inquisizione – si preferisce tacere. Nessun futuro per questa religione se non quello di raccogliere i residui che il potere lascerà per paura delle peggiori conseguenze. Ogni ulteriore sussulto correttivo, ogni ripensamento critico, sono caricature.

L’uomo ha bisogno di ritrovare la compattezza della propria coscienza. Dio non può essergli utile se filtrato attraverso la guardia di una qualsiasi Chiesa. Eppure la povertà è sempre alle porte. Milioni di uomini, donne, bambini, vecchi, muoiono dappertutto alla periferia dei pochi imperi residui e anche all’interno. Il loro sforzo collettivo produrrà una nuova utopia comunista, sia pure sotto forma religiosa più o meno vicina al cristianesimo delle origini? Non è possibile rispondere a questa domanda. Potranno le soluzioni dirigiste fatte piovere dall’alto fornire loro non una soluzione – di fatto impossibile in condizioni di sudditanza – ma almeno una speranza? Assolutamente no. Eppure accorrerebbero una forza, una profondità, una finezza di sentimenti che non mancano ma sono soltanto bloccate dalla miseria. Occorrerebbe mettere da parte la ragione, questa vecchia incantatrice di serpenti, e aspirare a una liberazione immediata e totale, gettarsi a corpo morto in una ribellione che ha in sé solo il rischio di perdere le catene che tengono avvinti i miseri e gli ultimi della terra, ormai agli stremi e costretti a muoversi verso il miraggio dei paesi ricchi per avere una minima speranza di sopravvivenza. Ma in questo movimento manca l’ispirazione fondamentale, l’obiettivo del comunismo, la realizzazione delle comunità di vita diversa.

Al loro posto c’è il pervertimento di una integrazione nello stile di vita dei paesi ricchi, una aspirazione che corrisponde a una riduzione in schiavitù. La religione è vista come uno dei pochi fagotti di stracci da portarsi dietro, non come qualcosa di intrinsecamente esplosivo perché costituito dal rapporto personale e insostituibile col Dio della misericordia, il Dio dei miseri. In questi progetti religiosi c’è il Dio vendicativo dei loro padri, la negazione più feroce e deludente di quello che i miseri hanno bisogno. Senza questo stimolo sublimato nella rivolta eretica e introiettato in mille modi diversi ma non in quello voluto e diretto da una qualsiasi Chiesa, non ci potrà essere nessuna esperienza comunitaria, nessuna prospettiva comunista. La miseria da sola non basta, ci vuole anche il sogno e se questo ha l’insignificanza e l’irrisorietà della sopravvivenza, il bilancio sarà un nuovo asservimento.

Ancora una volta lo scontro sarà tra poveri e ricchi, tra chi non ha nulla da perdere e chi non vuole perdere nulla, tra l’assenza del potere e il potere che non accetta ci siano realtà con la pretesa di fare a meno della sua presenza. Ancora una volta, in primo piano, il problema di giustificare l’ingiustificabile ricchezza di fronte ai poveri che della disuguaglianza avvertono la tirannia sulla propria pelle e sulla propria dignità.

Che il ricordo di quelle antiche esperienze comuniste, di cui parlo in questo mio libro, possa essere stimolo ad approfondire l’abisso in cui siamo piombati in questa nostra epoca di decadimento.


Alfredo M. Bonanno

Finito nel carcere di Korydallos (Atene), 25 ottobre 2010

* * * * *

“Le religioni sono come le lucciole, per splendere hanno bisogno delle tenebre”.

Schopenhauer

Introduzione al pensiero economico greco

La teoricità della cultura greca

Sollevare, come d’abitudine, al momento di dare inizio a un esame del mondo culturale greco del periodo storico, l’annosa questione se si debba ritenere o meno “miracolosa” l’attitudine rivelata dal popolo greco di costruire una conoscenza scientifica, ci sembra di secondaria importanza. Alcuni studiosi (Ciccotti), e in generale la storiografia positivistica, ci hanno parlato di “miracolo greco”, e ciò in controsenso anche con quanto veniva affermato dagli antichi storici (Erodoto, Le Storie, I, 94 e sgg.), come di qualche cosa che fosse maturata a opera esclusiva dell’ingegno greco, senza nessuna influenza straniera. Le scoperte più recenti, invece, e le impostazioni storiografiche idealiste, hanno definitivamente ammesso questa ingerenza esterna, e hanno limitato l’azione greca a una trasposizione teoretica delle nozioni pratiche accumulate da precedenti civiltà e a un riordinamento su basi scientifiche.

Come a dire che in effetti il “miracolo” ci fu, ma fu un miracolo spirituale e non pratico, tanto è vero che la scienza che maggiormente fiorì in Grecia fu la filosofia.

La Mesopotamia e l’Egitto avevano dato ai Greci un vastissimo novero di conoscenze tecniche, l’astronomia, la geometria, l’aritmetica, l’ingegneria, la chimica, la metallurgia, la medicina. Alla subordinazione pratica di queste discipline, il pensiero greco sostituisce quello che sarà lo stimolo più forte della civiltà occidentale, la brama della conoscenza. Essa ispira la preghiera di Aiace Telamonio:

Giove padre, deh, togli a questo buio
I figli degli Achei, spandi il sereno,
Rendi agli occhi il vedere; e, poiché spenti
Ne vuoi, ci spegni nella luce almeno.

(Iliade, XVII, 809-812, tr. Vincenzo Monti)

La cultura greca è concretizzata essenzialmente nello sforzo di ricerca del significato della realtà e dei problemi a essa inerenti. Quindi una utilizzazione del patrimonio culturale passato, attraverso la teorizzazione formulata dalla filosofia. Il desiderio della ricerca di una verità oggettiva, libera dalle necessità del caso concreto, valida al di là di ogni immediata applicazione pratica. È importante notare che l’etimologia della parola “filosofia” è identica a quella della parola “ricerca”, quindi la filosofia non è solo “sofia”, cioè possesso della conoscenza, ma “filosofia” cioè amore, desiderio, tendenza verso la conoscenza. Pertanto la scienza, se è ricerca, è filosofia. Donde la legittimità logica da parte degli studiosi greci a perseguire tutte le branche dello scibile, in contrapposizione alla odierna specializzazione dettata, più che da motivi logici, da necessità pratiche.

Anche i problemi economici prendono vita, man mano, nell’ambito di questo generale spirito speculativo, ma non riescono a diventare trattazione organica e definita, cioè non riescono a destare l’attenzione metodologica di nessuno degli studiosi greci, pur così attenti e desiderosi di precisare la parte normativa del loro lavoro. Questa manchevolezza esteriore ha indotto non pochi studiosi a disprezzare la trattazione di quei problemi e a concludere per una, più o meno assoluta, refrattarietà della cultura greca alla rilevazione dei fenomeni economici e al loro studio. Oltre a una difettosa metodologia, altri elementi contribuirono a impedire una trattazione organicamente determinata dell’economia. Eccoli specificati con chiarezza da René Gonnard: «Due soprattutto sembrano da ricordare: in primo luogo, il fatto stesso dell’estrema preoccupazione che i Greci avevano dello Stato (pñlÛw), e della sua teoria doveva stornare i loro occhi dai fenomeni economici, più lontani per loro natura dallo Stato, i meno sottoposti alla sua azione; e, d’altra parte, bisogna notare che questi stessi fenomeni economici erano infinitamente meno apparenti ed evidenti di oggi. La produzione, invece di far vedere l’apparato fastidioso e grandioso delle sue installazioni, come accade oggi, si dissimulava modestamente nei laboratori domestici: per molto tempo, non vi fu una economia politica in senso stretto, ma solo una collezione di piccole economie private; il passaggio dagli uni all’altra farà contrassegnare l’età classica. Bisogna aggiungere che l’attività produttiva era considerata poco, 1° per il prestigio dell’altro modo, che Aristotele, con tutta l’antichità, menziona con elogio: la guerra; e 2° a causa della diffusione della schiavitù e del discredito che rifletteva sui lavoratori liberi stessi, dal fatto che si occupavano di attività analoghe a quelle degli schiavi». (Histoire des doctrines économiques. Doctrines anterieures à Quesnay, vol. I, ns. tr., Paris 1924, pp. 20-21).

Ma lo studio storico delle teorie di una scienza, così come esse sono state via via formulate, modificate e sostituite nel tempo, non può e non deve incominciare dal momento della consacrazione ufficiale di quella scienza, dal momento, cioè, in cui essa viene designata con il suo nome definitivo. Così facendo si darebbe valore di sostanza a una designazione puramente formale. Comunque occorre tenere presente che, dovendosi, come nel caso nostro, indagare in lavori di indole generale e di sviluppo speculativo, potrebbe risultare possibile l’errore di salutare come scoperte specificatamente economiche allusioni e frasi che, a una più accurata riflessione, risultano appartenenti, piuttosto che alla scienza economica in particolare, a quel novero di conoscenze di ordine generale che formano la cosiddetta saggezza dell’“uomo della strada”. Questo pericolo, a cui fa cenno tra gli altri anche Joseph A. Schumpeter (Epoche di Storia delle Dottrine e dei Metodi, tr. it., Torino 1956, p. 8), potrà essere in linea di massima evitato tenendo presente, per quanto sia possibile, un raffronto tra quelle antiche anticipazioni e i risultati più complessi e completi della odierna economia scientifica. In questo modo si vedrà se l’espressione occasionale dell’antico poligrafo permanga, sebbene in forma ovviamente più complessa, anche nella teoria attuale, oppure se quest’ultima dipenda tutta dal meccanismo odierno di ricerca così come viene impiegato dalla scienza economica. In quest’ultimo caso quell’antica notazione resta senza valore storico, dovendosi presupporre la sua formulazione dettata da necessità occasionali. Comunque una eventuale opinione contraria dovrebbe essere corroborata da una indagine condotta attraverso tutta la storia del pensiero economico, riguardante la “fortuna” e l’utilizzazione di quella primitiva notazione.

Ad esempio sono vere e proprie argomentazioni economiche: a) la distinzione tra beni di consumo e beni di produzione, proposta da Aristotele (Politica, I, 4), b) l’esame dell’utilità di istituire la classe dei rivenditori e dei mercanti, tra quella dei produttori e quella dei consumatori, attuato da Platone (Repubblica, II c e XII), c) le osservazioni di Senofonte in materia di commercio con l’estero (Economico, XX). E ancora: la chiarificazione del concetto di capitale, la distinzione tra denaro e ricchezza, il principio della infruttuosità del prestito di consumo, la dottrina del valore, la dottrina del prezzo, tutte dovute al genio di Aristotele.

Invece ci sembra un esempio lampante di notazione di ordine generale e non specificatamente economica quella contenuta ne Le Rane di Aristofane e proposta all’attenzione del mondo degli studiosi, come anticipazione della legge di Gresham, da parte di Y. Urbain (“Les idées économiques d’Aristophane”, in “L’Antiquité classique”, vol. VIII, maggio 1939, pp. 183-200). Così il commediografo greco: «Ci sono ad Atene buoni e cattivi cittadini, nello stesso rapporto delle monete d’oro e di quelle tosate, di conio recente. Le vecchie monete sono di titolo eccellente, hanno corso dappertutto, in Grecia e allo estero: e ciò non ostante sono sottratte all’uso, e noi preferiamo ad esse le pessime monete di rame, recentemente fuse e così mal coniate [...]». (Cfr. G. Barbieri, Fonti per la Storia delle dottrine economiche, Milano 1958, p. 24). In questo caso Aristofane utilizza una conoscenza che gli veniva dal vivere in un’epoca di grande irregolarità monetaria e di frequenti modifiche nel conio, ma non mostra di avere afferrato l’aspetto teorico di quanto afferma. Infatti l’argomento che gli stava a cuore era un altro, dimostrare che frequentemente gli uomini cattivi vengono ricordati e onorati, mentre i giusti subito dimenticati, e per trovare sostegno a questa tesi ricorre al paragone delle monete. Infatti più avanti si legge: «... stessa cosa avviene per i cittadini: i buoni, modesti, giusti, ben nati, noi li dimentichiamo, mentre troviamo eccellenti uomini infami». (Ib., p. 201).

Purtroppo sono frequenti gli studiosi che dalla citazione di Aristofane hanno dedotto che la “legge di Gresham” fosse conosciuta nell’antichità, tra gli altri anche Knut Wicksell (Lezioni di Economia Politica, tr. it., Torino 1950, p. 280).

Un’altra prova dell’impossibilità di sostenere il passo di Aristofane come anticipazione della “legge di Gresham”, è data dal fatto che non è nemmeno legittimo attribuire a Gresham stesso la paternità della legge, una volta che in essa si veda qualche cosa di più complesso del semplice: “la moneta cattiva scaccia la moneta buona”. Come a dire che fino ai tempi di Gresham e anche dopo, fino agli studi di Ricardo, non si aveva in merito niente di più che il semplice concetto, la semplice intuizione che in un mercato, dove circolano più monete, chi deve fare un pagamento è portato a conservare la moneta buona e a dare via quella cattiva.

Affermata, come abbiamo fatto, la base teoretica del pensiero greco, e rilevata la sua tendenza a fissare in modo eccezionalmente preciso i limiti e le possibilità della conoscenza umana, ci resta adesso da chiarire quali furono le cause che resero possibile questa particolare conformazione speculativa nella cultura di un popolo che in definitiva possedeva lo stesso bagaglio di conoscenza di tanti altri popoli.

Innanzi tutto il momento storico e politico fu particolarmente adatto a spingere gli intelletti alla riflessione sulle istituzioni e sul governo degli uomini, e da questo lavoro, per altro, ci è pervenuta la maggior parte dei pensieri economici. L’indebolimento progressivo delle forme democratiche originarie, l’accentrarsi della forza politica in mano alla classe dei proprietari terrieri, il rapido sviluppo della potenza delle classi commerciali, contribuirono al primo grande conflitto. Dal risultato si ebbero le prime riforme: i cittadini divisi in quattro categorie, l’assemblea popolare con possibilità di controllo sul governo, i tribunali di seconda istanza, l’abolizione della schiavitù per debiti, un massimo per il saggio d’interesse. Sotto Pisistrato, e poi sotto Clistene, si consolidò un nuovo potere democratico fondato sul predominio della classe commerciale. Ma già la decadenza interna era cosa fatta: il conflitto con Sparta e lo sviluppo del commercio su basi schiavistiche causarono il definitivo impoverimento della classe dei cittadini liberi. Dopo la sconfitta con Sparta Atene non seppe più fare risorgere le idee di democrazia e di unione interstatale che aveva sognato all’epoca della massima potenza. In questo clima, alla vigilia della definitiva conquista macedone, si sprigionano in pieno le energie spirituali del popolo greco.

L’avanzare dell’individualismo favorì l’indipendenza delle opinioni e modellò il valore della personalità, come non sarà più possibile in futuro, per secoli e secoli; mentre gli estremi negativi di questa tendenza furono costantemente combattuti e limitati da quegli spiriti superiori che fecero della riflessione etica il fondamento di ogni azione della vita pratica.

L’impostazione generale della forma di governo preferita dalla cultura greca fu con tendenze collettiviste. La prova di ciò ci è fornita dalla totale assenza di testimonianze relative all’esistenza di associazioni diverse da quella complessiva dello Stato. Quell’accenno, che si trova in Demostene, rassomiglia di più al caso di una squadra di operai ingaggiata da un appaltatore (Contro Nicostrato, 21, 1253). Giustamente William Cunningham nota: «Non era nel carattere della vita greca di dare dei poteri di autonomia a un gruppo di cittadini e sottrarre così al controllo della comunità intera ciò che riguardava loro e le contese che potevano sorgere tra di loro». (Saggio sulla civiltà occidentale e i suoi aspetti economici, tr. it., vol. I, Firenze 1945, p. 117). Quest’ultima osservazione si ricollega, pertanto, alla tendenza generale di combattere ogni forma di individualismo, anche se presentato sotto la forma molecolare dello stato giuridico di un corp-de-métier o di un craft-gild. Un caso a parte è costituito dalle associazioni scolastiche, che furono invece molto diffuse e assunsero un poco la forma che oggi hanno gli ordini monastici. Evidentemente il governo non vedeva in esse niente di pericoloso, una volta che si conoscevano le idee filosofiche professate dai maestri; mentre sarebbe stato più difficile prevedere le reazioni di una associazione, poniamo, di operai.

Da quanto si è detto, è possibile dedurre le prime due cause della particolare conformazione del pensiero greco: la necessità di ricostruire l’antica grandezza e quella di combattere la tendenza considerata dissociativa dell’individualismo. Ma le misure che furono prese in proposito, in sede teorica prima e in sede pratica poi, non videro che raramente la negazione di quelle libertà essenziali che fanno di un uomo un libero cittadino. Precisa Cunningham: «Fu per questa coscienza della sua missione di conservare e diffondere un concetto più alto della vita di un libero cittadino, che Atene raggiunse la sua gloria di prima culla di una nobile civiltà». (Ib., p. 80).

Le restanti cause sono essenzialmente economiche. Lo sviluppo commerciale e l’abbandono progressivo dell’economia naturale. Da ciò la nascita di una pessima opinione del contadino, costruita e conservata dall’abitante della città e dal commerciante. Il disprezzo compare infatti nel significato della parola ŒsteÝow contro ŒgroÝkow, come accadrà per il latino urbanus contro agrestis, vicanus o rusticus. Gli innumerevoli rapporti di affari con i più lontani paesi finirono per slargare la mentalità “provinciale” dei Greci. Atene del VI secolo non è affatto una città agricola ma una città mercantile, sede di un grande mercato coperto, l’agorà, che poteva contenere più di 10.000 persone e che era situato nel centro della città. È l’economia monetaria che si estende rapidamente. Dice Cunningham: «La principale differenza economica tra l’uomo libero e lo schiavo o servo è che l’uomo libero lavora per amore del compenso, e l’altro per coercizione – il motivo principale è diverso nei due casi. Non appena la mercede è pagata in danaro il lavoratore è molto più libero». (Ib., p. 82). Un altro aspetto dell’impiego della moneta è fatto notare, sempre da Cunningham, per quanto riguarda il pagamento dei tributi: «La sostituzione del tributo in denaro alla prestazione di servizi allo Stato segna un passo considerevole in questa direzione; l’uomo che deve rendere un servizio di qualunque specie è necessariamente legato a qualche luogo dove può essere reperibile quando è necessario; l’uomo che paga imposte è libero di muoversi finché la sua proprietà rimane a portata e può essere richiesta per scopi pubblici». (Ib., p. 101). Dell’importanza della moneta come mezzo di scambio e come strumento indiretto di civiltà e di sviluppo morale delle istituzioni è sicuro indice la frequente trattazione che del problema si trova negli scritti dei filosofi Greci. Nota Gonnard: «Aristotele, in particolare, ci ha lasciato sulla moneta degli sviluppi che si presentano quasi nella forma di un capitolo dei nostri trattati di economia classica». (Histoire des doctrines économiques. Doctrines anterieures à Quesnay, op. cit, p. 26). Inoltre i Greci compresero in pieno la grande differenza che passa tra la moneta e la ricchezza. Le citazioni potrebbero essere parecchie, a titolo di esempio: Aristofane, Pluto; Platone, Repubblica, II, 13; Aristotele, Politica I, 3.

La costruzione di un ordine economico ideale e il suo influsso nell’esame della realtà

Il limite ultimo del pensiero greco è fornito da quello stesso principio teoretico che lo aveva portato a traguardi mai raggiunti da nessun altro popolo in precedenza. Per quanto riguarda la scienza economica questo limite è dato da una costruzione economica ideale, diretta al conseguimento della felicità.

Prima di intraprendere un esame particolareggiato di questo principio generale, è opportuno indicare due differenze: primo, il pensiero greco, e in modo specifico, il pensiero di Aristotele, non tiene conto degli accadimenti del mondo esterno – sia, quindi, resistenze dipendenti e indipendenti dall’uomo, per seguire una terminologia volontaristica – come elementi perturbatori dello schema economico ideale, se non dietro l’aspetto psicologico della scelta. (Cfr. Aristotele, Metafisica, 1025/b 23-24). Il che significa che la politica non ha per oggetto il “necessario” ma il “possibile”, diventando quindi ontologicamente indeterminata. Se fosse possibile dedurre dalle notazioni economiche dei Greci la loro preoccupazione per sottomettere le resistenze indipendenti dall’uomo, sarebbe oltremodo difficile spiegare il motivo che ha impedito il formarsi di una scienza economica definita, nella piena chiarezza del suo oggetto. In altri termini sarebbe come ammettere nei Greci una conoscenza, o quanto meno un dubbio, riguardo l’esistenza di leggi economiche valide indipendentemente dal capriccio della scelta. In secondo luogo ci sembra utile notare che non è la dottrina economica, nella sua specificazione di ramo della politica, a giustificare metodologicamente l’esistenza di un ordine economico razionale, ma è la stessa dottrina politica, come contesto di un discorso più ampio, a dare senso ai singoli problemi economici, tanto da potere, in definitiva, parlare di uno schema ideale complessivo.

È proprio ponendosi su questa linea interpretativa che l’economista russo Vahan Totomianz parlava di Aristotele come di un precursore della moderna teoria psicologica del valore: «... nell’apprezzamento dei beni economici la preferenza si basa sull’utilità degli oggetti, perché gli uomini cercano i beni economici per raggiungere qualche scopo, e più questo raggiungimento è completo tanto più grande è l’attrattiva esercitata dall’oggetto che serve a questo scopo. Come scelta questo apprezzamento ha un carattere soggettivo, e perciò ogni valore economico ha una base soggettiva» (Storia delle dottrine economiche e sociali, tr. it. Torino 1922, p. 15).

Ora, l’esistenza di questa costruzione ideale, portava i pensatori Greci a considerare lo stato attuale del mondo dei fenomeni politici (e quindi anche economici) come diretto al raggiungimento dello scopo ideale, per cui ogni rilevazione che veniva a contrastare con quello, doveva subire una modificazione e adattarsi a limiti ideali che venivano immediatamente formulati. Ad esempio, il desiderio di ricchezza contrastava fortemente con il raggiungimento della felicità, e di questo argomento sono pieni i trattati etici dei filosofi dell’epoca, ma la cosa andava presa nei giusti limiti.

Nota James Bonar: «... nella filosofia politica di Aristotele e di Platone è chiaramente riconosciuto che una certa dose di piacere e una certa distanza dalle preoccupazioni sono necessari per il pieno sviluppo dei più alti poteri dell’uomo. Nei tempi moderni la richiesta si è estesa da pochi membri privilegiati della comunità a tutti gli uomini, la domanda fa in modo che si riduca l’estrema povertà, in quanto l’estremamente povero non può sviluppare la sua mente e il suo corpo». (Philosophy and Political Economy, ns. tr., London 1927, p. 34). Ed è, infatti, attraverso l’impostazione del problema della ricchezza che ci è possibile scoprire con chiarezza i limiti metodologici di tutto il pensiero economico greco.

Il presupposto del ragionamento ha una propria misura etica, come quella che si trova alla base della patristica, però con la differenza che, nel pensiero greco, si parte da una costruzione normale del mondo politico e sociale mentre nella patristica si partirà da una considerazione anormale.

Esistono correnti di pensiero, nel periodo che stiamo esaminando, le quali cercano di riportare al potere l’individualismo delle origini, contestando l’organizzazione della città-Stato, la divisione in classi, ecc., comunque si tratta di correnti di minore importanza. Il principio generale, per quanto riguarda il vasto problema della ricchezza, è che essa non deve mai essere cercata per se stessa, non consistendo nella ricchezza il fine ultimo dell’uomo, cioè la felicità. Notava amaramente Cunningham: «Ogni volta che troviamo la ricerca della ricchezza materiale per se stessa, invece che come mezzo a un fine, o la distruzione e la degradazione della vita umana nella marcia del progresso materiale, vediamo qualche cosa che è estranea allo spirito greco». (Saggio sulla civiltà occidentale e i suoi aspetti economici, op. cit., p. 105).

Questa limitazione etica al problema economico dello sviluppo della ricchezza, viene giustificata, nell’armoniosa impalcatura filosofica, dal principio generale della dottrina politica, che è conservatore.

D’altro canto non bisogna pensare che i filosofi greci non comprendessero la necessità di staccare i processi tipici del comportamento economico da quelli del comportamento etico, errore in cui sono stati in parecchi a cadere. In modo particolare gli storici di scuola romantica, i quali ritennero sempre la scienza politica dei Greci, una “scienza spuria”, dovendosi aspettare il Rinascimento per avere un “concetto di pura politica” come dice Croce o per avere la politica “in una sfera disincagliata dalla morale” come dice uno studioso di Dante, Mario Apollonio. In effetti abbiamo finanche in Platone qualche accenno all’obiettività dell’azione dell’uomo nelle scelte della vita pratica. Nel caso che abbiamo presente si tratta addirittura del problema della ricchezza e quindi di scelte economiche. Saranno queste scelte che daranno all’uomo che li compie, in un senso anziché in un altro, la veste di “economico”, parola accettata comunemente da quasi tutti i traduttori e che dobbiamo intendere come colui il quale ha anteposto l’accumulazione della ricchezza al raggiungimento della felicità, senza per questo potersi dire ancora, malvagio. Ma ecco le stesse parole di Platone: «... i guadagni che si fanno, compiendo insieme azioni giuste e ingiuste, sono più che doppi di quelli che si fanno compiendo azioni solamente giuste, mentre le spese che non son fatte in nessun modo, né onestamente né disonestamente, sono due volte minori di quelle fatte onestamente, e per fini: non è dunque possibile che divenga più ricco di chi guadagna il doppio e spende la metà chi venga a trovarsi in condizioni opposte a queste. Ora, di questi due uomini l’uno è virtuoso, l’altro, se economo, non è malvagio, anche se, talvolta, può divenire assolutamente malvagio: certo, virtuoso mai – nel senso almeno che abbiamo detto ora». (Le Leggi, 734 a-b). Non si tratta di precetti assolutistici, come quelli che è possibile trovare, poniamo, nella patristica e nella scolastica, ma di deduzioni obiettive, disposte in ordine logico, al fine di raggiungere lo scopo prefisso: la felicità.

Questa distinzione assume l’aspetto più completo in Aristotele il quale considererà appartenenti all’economia le azioni che si dirigono verso un acquisto della ricchezza come scopo o mezzo intermedio, e appartenenti alla crematistica le azioni che pervengono all’acquisto della ricchezza a scopo definitivo di lucro. Gino Barbieri, (Fonti per la Storia delle dottrine economiche, op. cit. p. 9) a seguito della interpretazione di Guido Menegazzi propone di fondare su questa distinzione aristotelica la tendenza di qualche nostro economista contemporaneo «a distinguere l’elemento economico (attinente all’economia) da quello finanziario (attinente alla crematistica), per elaborare su tale classificazione una dottrina più conforme ai presupposti della filosofia morale cattolica». (Corso di Scienza Sociale, vol. III, Verona-Lecce 1953, p. 44).

Da quanto si è detto possiamo dedurre l’esistenza di un influsso limitativo, operato dallo schema economico ideale sulla notazione dei singoli fenomeni.

Se non si tiene conto a sufficienza l’aspetto teorico delle riflessioni dei filosofi greci, si finisce per sorprendersi di fronte alle testimonianze storiche dell’attività commerciale del popolo greco.

Questo è il caso che ci è sembrato di vedere nel pur attento e informato studio di Paul Giraud. Lo storico francese incomincia col notare: «Gli Ateniesi sapevano a meraviglia trarre partito dai loro capitali. Essi distinguevano il denaro “ozioso” e il denaro “che lavora”, e volevano che le loro dramme lavorassero il più possibile». (P. Girard, Études économiques sur l’antiquité, ns. tr., Paris 1905, p. 8). Quindi si tratta di una vera attività finanziaria (crematistica), che come abbiamo visto era particolarmente condannata dai filosofi, e ciò nonostante fosse molto fiorente. Ma più avanti lo stesso studioso nota: «Non ci sono istituzioni, non ci sono concezioni politiche nell’antichità che non hanno subito il contraccolpo delle idee economiche del tempo». (Ib., p. 21). Il che ha un fondo di verità, ma viene a porsi in contrasto con quanto notato prima, senza che tra le due osservazioni si ponga una spiegazione dei limiti e delle forme di questo “contraccolpo”. Occorre, però, tenere presente l’annosa questione delle influenze reciproche dei fatti economici sulle teorie e di queste su quelli; questione che qui possiamo sorvolare. Questa necessità non è affatto rilevata da Giraud, che continua: «I filosofi greci che scrivevano su queste materie pensavano, come lui [Platone], che i discorsi interiori avevano la loro origine nelle questioni d’interesse». (Ib., p. 3). E più avanti: «Egli [Aristotele] dimostra che le leggi relative alla proprietà hanno una influenza capitale sullo spirito e sul funzionamento delle costituzioni». (Ib., p. 4). Quindi un’ammissione dell’importanza morale e politica dei problemi economici e l’indicazione delle preoccupazioni dei filosofi per quanto riguarda la loro regolamentazione, ma la mancanza di una spiegazione del perché la realtà economica continua a progredire, in contro senso con le dottrine e le direttive etiche.

Per cogliere l’essenza della realtà economica del mondo greco occorre scendere nello stesso campo delle preoccupazioni etiche dei filosofi. Ma questo potrebbe non essere compito precipuo di una indagine come la nostra, per cui ci limiteremo ad alcune osservazioni, necessarie per dimostrare la persistenza e l’estensione di un fenomeno, al di là delle resistenze ideologiche e delle costruzioni metafisiche. In un certo senso si tratta di un circolo chiuso. Da un canto è proprio il benessere economico e lo sviluppo commerciale a garantire, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, la teoricità del pensiero greco, dall’altro è proprio questa fase di compiuta riflessione intellettiva a preoccuparsi di limitare quello stato di cose che l’aveva reso possibile.

Leggiamo in Tucidide: «I più fertili paesi pagano alla grandezza della nostra città il tributo delle loro produzioni, in modo che i più rari frutti delle loro contrade sono molto presso di noi, più che se nascessero sul nostro suolo». (Elogio funebre dei cittadini morti per la patria, II).

Anche la mitologia ci viene in aiuto, dandoci la misura di un tempo senza storia. L’etimologia della parola Saturno deriva da satus che significa l’azione del seminare e del piantare, e l’altro nome che questo dio possedeva, quello di Sterculus, deriva palesemente dal concime animale. In Nettuno si immedesima l’inventore della navigazione e il fondatore del lavoro retribuito, avendo insieme ad Apollo intrapreso la costruzione delle mura di Troia dietro promessa di un salario, poi non pagato dal re Laomedonte. Vulcano veniva invocato nelle cerimonie del culto greco con l’appellativo di Mulciber, che significa fonditore di metalli. Demetra (per i latini Cerere) aveva la fama di avere insegnato agli uomini l’agricoltura, ed è notevole il fatto che venisse indicata anche con il nome di Tesmofora, cioè legislatrice, perché, come nota Vandregisilo Tocci: «Quando Cerere ebbe insegnato loro [agli uomini] l’agricoltura, essi cominciarono a dividersi le terre, a dissodarle, lavorarle, e a radunarsi in consorzio civile». (Dizionario di mitologia, Milano 1953, p. 118). A proposito dell’insegnamento che si può trarre dalla mitologia, per chiarire l’interesse per le cose economiche, scrive Jules Du Mesnil-Marigny: «I guerrieri stessi ottenevano gli onori divini quando arrivavano a rendere servigi economici purgando le strade dai briganti che le infestavano. Ercole, Teseo, e altri, non avevano forse dei templi per aver fatto regnare dappertutto l’ordine, la pace e la sicurezza?» (Histoire de l’Économie politique des anciens peuples de l’Inde, de l’Egypte, de la Judée et de la Grèce, vol. I, ns. tr., Paris 1873, p. 5).

Un indice di questa tendenza alla speculazione e allo sfruttamento delle risorse, al di là di ogni limitazione etica, è dato dal modo di trattare gli schiavi. Sappiamo che la loro situazione nelle campagne era abbastanza buona (Senofonte, Economico, V, VII, IX, XII, XIII, XXVI). Molto sfruttati erano invece gli schiavi impiegati nelle miniere e nelle officine. Se ne può dedurre quindi, un inasprirsi dei sentimenti umanitari, man mano che dalle forme meno progredite dell’attività economica ci si dirigeva verso le forme familiari dell’economia monetaria.

In questo paragrafo abbiano esaminato il contrasto tra le forme economiche reali e la costruzione filosofica ideale a esse anteposta. Al di sopra di questo contrasto uno spirito politico conservatore, da cui uno statalismo che uniforma i rapporti dei singoli componenti della comunità. Eppure, in pratica, una grande ansia di svilupparsi e di progredire, una smania di ricchezza e di dominio da cui un ulteriore contrasto, che non poteva non influire anche nella olimpica freddezza delle costruzioni ideali. Da ciò possiamo dedurre la necessità di un terzo elemento che funzioni da catalizzatore, e questo elemento sarà lo Stato.

La funzione regolatrice dello Stato

Lo Stato costituisce l’interesse supremo a cui si dirige il pensiero politico greco. Sul mantenimento dell’ordine nello Stato e sull’ideale di giustizia si convogliano le direttive della filosofia e gli sforzi pratici degli uomini politici.

È interessante, ai fini della nostra indagine, trattare due punti: i sistemi organizzativi e il concetto di giustizia politica. Il primo punto di questa analisi ci chiarirà quali furono i mezzi politici approntati per correggere la realtà economica, in conformità allo schema ideale, il secondo punto ci porterà alla conoscenza dell’ultimo strato ideologico, quello della rettitudine politica, in cui trova compimento e giustificazione la rettitudine del singolo.

La città-Stato dei Greci non aveva niente della moderna configurazione di uno Stato. Tutto il territorio non superava l’estensione di una città di medie proporzioni dell’era moderna, e la popolazione, secondo il calcolo di George H. Sabine, non doveva superare le trecentomila persone (Atene).

Le classi erano tre. La più infima classe era quella degli schiavi, privi di qualsiasi importanza politica, ma detentori di una grande forza produttiva: il lavoro. E qui sorgono le prime complicazioni. Evidentemente dovette sembrare strano anche alla mentalità dei Greci, pur così abituati al fenomeno della schiavitù, che la continuità del processo di giustizia si arrestasse per quanto riguardava la persona dello schiavo. E non si tratta di una nostra supposizione, i sofisti (Protagora, Gorgia e in particolare Alcidamante) combatterono la schiavitù in armonia con il loro carattere antitradizionalistico. Per quanto riguarda Platone il suo silenzio sul problema, e il fatto che la sua organizzazione statale potrebbe reggersi senza schiavi, ha indotto qualche studioso (C. Ritter, Platon, sein Leben, seine Schriften, seine Lehre, vol. II, Berlin 1923, p. 596) a parlare di una negazione non espressa. Comunque resta indubbio, ha notato Sabine (Storia delle dottrine politiche, tr. it., Milano 1962, p. 42), che appare strano come Platone «... intendesse abolire una istituzione universale senza assolutamente menzionarla. È più probabile che egli abbia semplicemente considerato la schiavitù un elemento trascurabile». Spetterà ad Aristotele riaffermare la “giustizia” della schiavitù, fondandola su di una differenza di natura tra padrone e schiavo. «Tutti gli uomini – egli scrive – che differiscono dai loro simili tanto quanto l’anima differisce dal corpo e l’uomo dalla belva (e sono in questa condizione quelli il cui compito implica l’uso del corpo, che è ciò che essi hanno di meglio), sono schiavi per natura e per essi il partito migliore è sottomettersi all’autorità di qualcuno [...]». (Politica, 1254 b). In questo modo il filosofo di Stagira ha ricondotto nello schema ideale di giustizia un fenomeno che nelle sue manifestazioni a volte assurde minacciava di mettere in crisi lo schema stesso. In Grecia era facilissimo diventare schiavi, sia perché rapiti dai pirati o per debiti (fino a Solone), o perché ci si veniva a trovare, poniamo durante un viaggio, senza mezzi di sostentamento in una città straniera. Lo stesso Platone venne fatto schiavo per un motivo del genere, e poi riscattato, grazie all’intervento di Anniceride di Cirene.

Il secondo gruppo era costituito dai “meteci”, stranieri non in possesso della cittadinanza greca che, comunque, erano liberi.

Il terzo gruppo era quello dei cittadini, i quali erano chiamati a far parte della vita politica. È da notare che ciò non costituiva un problema di diritto, nel senso moderno della parola, ma piuttosto un problema di distribuzione dei diversi titoli posseduti da un cittadino in seno all’organizzazione ideale dello Stato, in modo che il singolo estrinsecasse tutte le proprie facoltà e le diverse branche della attività umane ricevessero equamente alimentazione delle attività dei diversi singoli.

Sarebbe errato vedere in quest’ultima classe una ristretta aristocrazia. Si trattava piuttosto di un notevole numero di persone che esercitavano tutte le attività commerciali con una limitata percentuale di aristocratici.

Per quanto riguarda il concetto di giustizia politica, la tesi preponderante era che essa veniva attuata quando ognuno aveva, in seno allo Stato, il posto che gli competeva. Quindi non un isolamento della perfezione del singolo, anche nella catastrofe dello Stato, ma una compenetrazione della perfezione del singolo e dello Stato, affinché ambedue si rendessero valide e possibili contemporaneamente.

Per ovviare comunque al contrasto durissimo che scaturiva dall’esistenza della proprietà privata, e dalle cupidigie che sovente quest’ultima suole portare seco, gli antichi filosofi non giunsero mai a propugnare una totale abolizione: sia nel caso di pensatori con tendenze comunitarie (Platone), come nel caso di pensatori parteggianti per un più moderato interventismo (Aristotele). Infatti nella Repubblica la classe degli artigiani non è esclusa dalla proprietà, venendo a essere, i mezzi di produzione e distribuzione, lasciati nelle loro mani. È soltanto la classe dirigente che viene chiamata a sostenere questo sacrificio. Mentre nella Politica Aristotele giustifica la proprietà privata, però vista dietro lo schermo etico, posizione che avvicina questo scrittore, maggiormente, al moderno significato di proprietà privata. René Gonnard ha creduto opportuno negare il fondamento economico delle teorie politiche di Platone: «Bisogna comprendere bene lo spirito di questo socialismo platonico. Esso non s’ispira a concezioni economiche; non si tratta di realizzare una produzione più abbondante, e nemmeno una distribuzione assicurante il benessere ai comunitari. Piuttosto è il contrario. Come nei conventi, la soppressione della proprietà privata è imposta come un sacrificio, come qualcosa di penoso, e non nell’interesse dei privilegiati». (Histoire des doctrines économiques. Doctrines anterieures à Quesnay, op. cit., pp. 28-29). Lo storico francese avrebbe fatto meglio a dire che Platone non si ispira a scopi economici nel senso moderno della parola. Infatti solo in questo caso il periodo riportato non manifesta una grave contraddizione tra la prima e la seconda parte, in quanto le direttive teoriche della economia antica non si indirizzavano agli interessi dei singoli in modo diretto, ma tramite la salvaguardia degli interessi dello Stato.

Del secondo contrasto abbiamo di già parlato, accennando agli sforzi condotti dalla corrente politica dominante per debellare gli spunti estremisti dei sofisti.

E infine il terzo contrasto tra tendenza della popolazione ad accrescersi continuamente e necessità di mantenere un freno se non numerico almeno operante dal punto di vista qualitativo. Ed è in questo campo che si dettano le norme comunitarie più dure, che susciteranno lo sdegno della mentalità cristiana: sostituzione totale di una vita familiare con una vita cittadina e procreazione dei figli secondo le direttive dello Stato, il quale deve, successivamente, pensare al loro allevamento e alla loro educazione. Si sbaglia in pieno Du Mesnil-Marigny scrivendo: «I legislatori dell’antichità condividevano e applicavano le dottrine alle quali Malthus, ai nostri giorni, ha legato il suo nome. Essi temevano che il numero dei cittadini si sviluppasse più rapidamente dei mezzi, e si sforzavano di regolare questo numero in modo che restasse sempre in un rapporto adatto con questi ultimi». (Histoire de l’Économie politique des anciens peuples de l’Inde, de l’Egypte, de la Judée et de la Grèce, op. cit., vol. II, p. 381). La prescrizione fatta da Platone che il numero dei proprietari terrieri in uno Stato doveva essere di 5.040, è dovuta al fatto che questo numero è divisibile per due, tre, quattro, fino a dieci, e quindi facilita di molto «contratti e commerci nel loro complesso, imposte e distribuzioni». (Le leggi, 738 a). Notiamo che Jenny Griziotti Kretschmann, indica un numero di «5.400 cittadini atti alle armi» (Storia delle dottrine economiche, op. cit., p. 9), ma si deve trattare di un errore di trascrizione, mentre è importante notare che non si tratta di cittadini adatti alle armi, ma di proprietari terrieri adatti a difendere la propria terra, quindi con un adeguato numero di schiavi e servi.

È proprio nel tentativo estremo di definire il concetto di “giustizia politica” che il pensiero greco manifesta la propria inadattabilità a venire fuori dalle strettoie dello schema ideale e, nello stesso tempo, la scarsa attitudine del concetto di Stato a fare coesistere la sempre risorgente individualità dinamica con lo statico collettivismo.

 


[Pubblicato su “Studi e ricerche”, anno I, 1965, pp. 97-110]

Il pensiero economico greco dalle origini a Socrate

La filosofia greca delle origini si orienta verso lo studio della cosmologia e verso la ricerca di una unità che giustifichi l’ordine del mondo. Il suo valore si manifesta come contributo alla tecnica del pensiero e come preparazione ad affrontare problemi più vicini all’uomo. Non sono, comunque, mancati studiosi che hanno riscontrato in essa anche un valore politico, in quanto diretta alla designazione di una organizzazione, sia pure estranea all’uomo, ma utilizzabile come metro per la risoluzione dei problemi politici delle comunità umane. Per il nostro campo di studi la filosofia greca delle origini non manifesta molto d’interessante.

Dove ritroviamo delle notazioni economiche è, invece, nelle testimonianze che ci sono pervenute relativamente alle costituzioni dettate da Dracone, Solone e Clistene. Come è noto si tratta di riformatori politici e giuridici, ma i problemi che cercarono di risolvere assumono quasi sempre un notevole interesse economico.

In Dracone vediamo una ulteriore prova della determinatezza che l’elemento economico manifestava nelle cose politiche, anche presso i Greci dei tempi più antichi. Scrive Aristotele: «La cittadinanza venne concessa a tutti quelli che si potevano procurare delle armi; i nove arconti e i tesorieri erano eletti tra coloro che avevano un capitale non inferiore alle dieci mine libero da ipoteche [...].» (Costituzione di Atene, 4). Questo scritto è oggi comunemente attribuito ad Aristotele, specie dopo il ritrovamento del 1891 a opera di Frederic G. Kenyon e dopo gli studi di Werner Jäger.

In seguito, gli sforzi dei filosofi saranno diretti ad assicurare le più alte cariche dello Stato a uomini illuminati, essi stessi filosofi, in modo da diminuire l’influenza della ricchezza. Alcuni studiosi hanno rilevato che la riforma di Dracone prendeva come base della valutazione una quantità di denaro (nel caso visto da Aristotele si trattava di dieci mine), per cui mancava in Dracone un’idea della ricchezza e della sua necessaria differenziazione dal danaro. Ma occorre tenere presente che questi studiosi sono quegli stessi che hanno sempre rifiutato ogni attendibilità storica ai riferimenti alla costituzione di Dracone, contenuti nella Politica (1274 b), e che sono rimasti fermi sulle loro posizioni anacronistiche, anche dopo la scoperta fatta da Friedrich W. Blass nel 1880 di buona parte del testo definitivo della Costituzione di Atene, su di un papiro del Museo Egizio di Berlino. Karl Julius Beloch (Griechische Geschichte, vol. I, Strassburg 1904, p. 261) definisce il documento come «un pieno misconoscimento delle connessioni storiche». Gaetano De Sanctis (Atthis: Storia della Repubblica ateniese, Torino 1912, p. 163) lo considera come un documento «confuso e pieno di incongruenze storiche», mentre a p. 165 propende per una interpretazione di falso, in quanto si sarebbe trattato di un documento fatto stilare da qualche oligarca, intorno al 411, «per attribuire all’antico legislatore il programma del suo partito». In questa interpretazione De Sanctis è seguito anche da Georg Busolt (Griechische Staatskunde, München 1920, p. 55). Studiosi, invece, che hanno affermato l’autenticità del testo aristotelico sono stati maggiormente attenti a curarne i particolari, ad esempio Corrado Barbagallo che nota: «In verità, Dracone fissando il censo occorrente per aspirare alle varie magistrature, discorreva di “sostanza (oésÛa) libera / da gravami”, e perciò si riferiva esclusivamente a beni immobiliari». (Storia Universale, vol. I (Preistoria, Oriente, Grecia), Torino 1955, p. 173).

Più vasto interesse presenta la Costituzione di Solone. Così Aristotele: «Solone, impadronitosi del potere, liberò immediatamente il popolo e per sempre, vietando di imprestare denari prendendo come garanzia la stessa libertà personale, stabilì delle leggi e ordinò il taglio dei debiti pubblici e privati, per alleggerirne il peso con quello che è noto sotto il nome di “alleggerimento” [...]. In base al censo egli divise i cittadini in quattro classi, analoghe del resto a quelle già esistenti, i pentacosiomedimni, i cavalieri, gli zeugiti e i teti [...]. Faceva parte dei pentacosiomedimni chi ritraeva dal suo proprio capitale una rendita di cinquecento misure tra prodotti solidi e liquidi, mentre era cavaliere chi ne raggiungeva solo trecento [...]» (Costituzione di Atene, 6-7). La traduzione da noi seguita propone il termine di “alleggerimento”, comunque sarebbe stato più opportuno il termine di “seisachtheia” (dalle parole “seió” respingere e “achtos” fardello) accettato da Vilfredo Pareto (Cours, tr. it. Torino 1948, p. 382) sulle orme di Salomon Reinach. Per comprendere bene la famosa disposizione dell’alleggerimento occorre tenere presente i malcontenti che aveva suscitato Dracone con l’astenersi dal risolvere la questione dei debiti. Solone aveva trovato il popolo minuto, come afferma Aristotele (Costituzione di Atene, 5), «sempre schiavo di una minoranza» e completamente esausto dai fortissimi tassi fatti pagare sui prestiti di consumo. L’incentivo all’usura fu causato dallo sviluppo dell’economia monetaria. L’agricoltore, abituato al ritmo dell’economia naturale, di fronte all’incalzante fenomeno monetario si trovava frequentemente nella necessità di procurarsi denaro per far fronte ai propri affari e per pagare le tasse. Queste necessità accadevano quasi sempre in modo repentino, e non tenevano conto del ciclo naturale delle coltivazioni, per cui l’agricoltore si trovava ad avere bisogno di prestiti in argento, o a vendere il raccolto in momenti pessimi di mercato.

Sebbene alcuni studiosi, come ad esempio William Cunningham (Saggio sulla civiltà occidentale e i suoi aspetti economici, vol. I, op. cit., p. 107), abbiano presentato questo motivo come il più importante, tra i diversi che originarono le disastrose condizioni trovate da Solone, altri ve ne potettero essere, tra cui uno illustrato efficacemente da Pareto a proposito della situazione romana fin dai primi anni della repubblica, ma che ci sembra adatto anche ai tempi di cui veniamo discorrendo, in quanto la storia dell’usura è vecchia quanto il mondo. Così scrive Pareto: «Un armatore appronti, si supponga, una nave per una campagna da preda. Al capitano e ai marinai potrebbe corrispondere salari più o meno elevati e conservare poi per sé tutto il bottino. Egli vuole invece che l’impresa si compia a spese comuni. I marinai non avendo di che fornire la loro posta, egli presta loro i quattrini di cui costoro han bisogno. Se poi il bottino fosse suddiviso in ragione delle poste di ogni associato, i marinai potrebbero restituire i quattrini che han ricevuto, pagare gli interessi e conseguire in più un guadagno. Ma se l’armatore riserva a sé tutto il bottino, o presso che tutto il bottino, ai marinai non restan più che i debiti e questi disgraziati son votati ad una rovina certa. Tali furono i rapporti che si stabilirono tra i patres e la plebe fin dai primi tempi della repubblica. Onde, nelle lamentele di quest’ultima, le lagnanze relative all’ingiusto riparto effettuato dei frutti dell’industria comune si uniscono e si confondono con le lagnanze relative ai debiti contratti». (Cours, op. cit. pp. 388-389).

La critica antica e moderna non è d’accordo, inoltre, per quanto riguarda l’estensione e la portata della seisachtheia. Alcuni parlano di un taglio completo, in particolare per i debiti agrari, altri di una qualche forma di ammortamento legata alle modificazioni subite dalla mina, che da 70 dramme passa a 100 dramme (dal tipo euboico al tipo eginetico). Così Aristotele: «Solone sancì il taglio dei debiti e poi l’aumento delle misure, dei pesi e della moneta. Sotto di lui entrarono in uso misure maggiori di quelle fidoniane e la mina che prima pesava quasi settanta dramme venne portata a cento». (Costituzione di Atene, 10).

Sono per l’ipotesi del taglio completo, innanzi tutto un frammento pervenutoci a nome dello stesso Solone: «Io strappai allora [dalla terra] le stele ipotecarie piantate dappertutto; prima schiava, essa ora è libera». (Fram. 36, vv. 3-5 dell’edizione curata da Theodor Bergk). Poi, come si è visto, Aristotele non solo non pone relazione alcuna tra il taglio dei debiti e la riforma monetaria, ma li separa nel tempo, indicando che la riforma della Costituzione precedette quella delle misure e delle monete. Sempre nell’antichità, a favore della tesi contraria, si schierò lo storico Androtione, che Plutarco cita senza convenirne. Pareto (Cours, I, 382) indica Androzio, ma si deve trattare di un errore di trascrizione. Barbagallo, più esattamente, Androzione (op. cit. p. 174). Noi seguiamo l’indicazione fornita da Raffaele Cantarella (Storia della Letteratura Greca, Milano 1962, pp. 563 e 566) nel considerare Androtione uno dei numerosi autori di Storie dell’Attica.

Tra gli studiosi moderni nessuno degno di rilievo ha raccolto l’ipotesi dell’ammortamento. Per altro è notevole che se questa ipotesi lasciava perplesso Barbagallo («… che si trattasse di un semplice alleviamento dei debiti, ottenuto in via indiretta, attraverso una svalutazione della moneta, riesce, parmi, incomprensibile», Storia universale, op. cit., p. 174), che non era uno specialista di economia, può anche ammettersi, ma che lasciasse in dubbio anche Pareto non è ammissibile. «È difficile, da un lato, conciliare la completa abolizione dei debiti con la misura adottata per le monete dopo tale abolizione» (Cours, op. cit., p. 382), deve quindi trattarsi di una ipotesi insostenibile.

Vi è, infine, una terza teoria che vede, nella misura presa da Solone, un’abolizione totale delle ipoteche sugli uomini e sui terreni, ma una persistenza dei debiti, indipendentemente da quell’istituto atto a garantirli. Tra gli studiosi moderni questa tesi è stata sostenuta da Georg Friedrich Schömann (Griechische Alterthümer, Berlino 1897). Tra gli antichi: Plutarco, Solone 15; Dionigi D’Alicarnasso, Antichità romane V, 65; Diogene Laerzio, Solone; Dione Crisostomo, Orazioni, 31. Secondo noi questa teoria non regge per un fatto molto semplice: se i debiti non fossero stati effettivamente tagliati in modo netto, ma fossero persistiti anche senza la loro precedente garanzia, non ci sarebbero state quelle accuse contro Solone per l’illecito arricchimento che alcuni nobili suoi amici si procurarono a sua insaputa. Costoro avendo saputo, in buona fede da parte di Solone come dimostra Aristotele, che il legislatore si accingeva al taglio totale dei debiti, alcuni giorni prima che venissero pubblicate le leggi si fecero prestare grandi somme di denaro, con le quali acquistarono terreni e fabbricati, senza dovere poi restituire il prestito avuto grazie alle nuove leggi. È logico dedurne che, se fosse vera l’ipotesi di Schömann, costoro sarebbero stati lo stesso obbligati a rimborsare il debito, specialmente sarebbe stato interesse di Solone che questo rimborso avvenisse. Invece non potendosi quella gente obbligare al rimborso, Solone dovette giustificare il suo operato valendosi della propria parola e fondandosi sui propri meriti. Dice infatti Aristotele: «Non è verosimile che un uomo in tutto il resto così moderato e così sollecito del pubblico interesse, che pur potendo farsi tiranno prevalendo sui suoi concittadini, preferì farsi nemico di tutti e due i partiti e diede maggior valore al decoro e alla salvezza della città che al proprio potere, si macchiasse in cose così piccole e di così poco valore». (Costituzione di Atene, 6). Ma si tratta di una illazione, alla quale sarebbe stata di gran lunga preferibile una prova concreta, come quella della restituzione del mal tolto da parte dei suoi amici.

Nei confronti del problema tecnico della determinazione della ricchezza, Solone parla di rendita, mentre Dracone parlava di capitale, questo si riduce, in definitiva, come nota Barbagallo, alla formazione di «un regime timocratico più ristretto di quello che trent’anni prima Dracone aveva voluto». (Storia universale, op. cit., p. 176).

Per quanto riguarda la riforma di Clistene, non troviamo accenni interessanti dal nostro punto di vista, trattandosi massimamente di disposizioni riguardanti la divisione in classi, gruppi, ceti e associazioni delle antiche categorie volute da Solone.

Con i sofisti la riflessione filosofica si dirige verso lo studio dell’uomo, dando origine al “periodo antropologico”. Inoltre la scienza viene a perdere parte di quella astrattezza che l’aveva accompagnata al suo sorgere. Non che si ricada nei limiti tecnici circoscritti, poniamo, dagli Egizi o dai Babilonesi – la scienza era ormai troppo cresciuta per ridiventare bambina – ma si riconnette alla base teoretica una funzione pratica, nasce, forse per la prima volta, l’idea di una cultura da potersi insegnare e tramandare.

La parola stessa: sofista, indica la persona che possiede una sofÛa (interpretazione dovuta al valore effettivo-strumentale del suffisso), quindi colui il quale se ne serve come di uno strumento. Infatti si narra che Protagora fu il primo a insegnare dietro retribuzione, e che per questa sua attività guadagnò più di Fidia e di dieci altri grandi artisti messi insieme. Ora questa attività divenne di grande importanza a causa della democratizzazione del governo, per cui tutti coloro che intendevano partecipare alla cosa pubblica dovevano necessariamente rendersi padroni dell’arte della retorica. Da qui una socializzazione della scienza, che esce definitivamente dalla fase puramente astratta, per interessarsi anche della realtà pratica. Proprio per questo i sofisti non amavano dirsi continuatori della tradizione filosofica passata, ma si rifacevano invece alla tradizione poetica, in quanto furono proprio i poeti greci delle origini, per quanto strano possa sembrare, che per primi si interessarono di problemi politici. Difatti Protagora espone la propria dottrina, nel dialogo omonimo di Platone, con i versi del poeta Simonide.

È importante osservare che a un primo elenco di nomi (Protagora, Gorgia, Prodico, Trasimaco, Antifonte, Ippia, l’“anonimo di Giamblico”) si sono aggiunti, via via, numerosi altri autori, fino a costituire quella turba di pedanti che viene attaccata da Platone, da Aristofane e sulla loro scia da Aristotole. Nelle Nuvole, Aristofane finisce addirittura per confondere Socrate con questa seconda generazione di sofisti, e li condanna insieme. Quindi la critica degli antichi non si riferisce ai veri sofisti, ma ai loro continuatori e travisatori. Ovviamente questo non viene tenuto presente dagli studiosi moderni, specie quando questi ultimi non sono degli specialisti. Da ciò affermazioni che si rivelano errate. A titolo di esempio esaminiamo una frase di Schumpeter: «... il filosofo greco era essenzialmente un filosofo politico: egli guardava all’universo della polis, e nella polis trovava riflesso l’universo: quello del pensiero, come di tutti gli altri interessi umani. I Sofisti sembra siano stati i primi ad analizzare tale universo in un modo molto simile al nostro: essi sono, di fatti, gli antesignani dei nostri metodi di pensiero, compreso il nostro positivismo logico». (Storia dell’Analisi Economica, vol. I, tr. it., Milano 1962, p. 67). Ora che il filosofo greco fosse essenzialmente un filosofo politico è vero soltanto se si guarda al pensiero maturo della speculazione greca, cioè da Platone in poi, a meno che non si vogliano considerare sotto l’aspetto politico (cosa che per altro è stata fatta come abbiamo già detto) anche le dissertazioni cosmologiche. Quindi i sofisti non possono considerarsi come pensatori politici, ma tutt’al più come pensatori “umani” contro i precedenti che furono pensatori “divini”, se ci è concessa questa terminologia. Il fatto, poi, che la tradizione ci ha trasmesso notizie riguardo la loro posizione nei confronti di questo o di quel problema politico (ad esempio, nei riguardi della schiavitù), è da porsi in dipendenza con l’essere questi pensatori maestri di uomini politici, per cui nel tempo si è finito per confondere le idee politiche di questi ultimi con le dottrine dei maestri. I sofisti della prima generazione si mantennero esenti da posizioni di partito, essi insegnavano l’arte d’imporre il proprio punto di vista con la persuasione, e non si ponevano il problema se quel punto di vista era giusto o sbagliato. Ed è proprio per questo che non possiamo concordare con l’altra affermazione di Schumpeter: che i sofisti fossero gli antesignani dei nostri metodi di pensiero. Il grande economista tedesco pensiamo sia stato indotto a dettare questa frase dal fatto che considerò sempre il pensiero dei sofisti come ancora valido nella speculazione di Aristotele. Infatti, più avanti scrive: «... che Aristotele assorbì una parte del loro pensiero e che influenze dei Sofisti giunsero al Medioevo sopra tutto attraverso le sue opere». (Ib., p. 73). Ma non ci sembra, per quanto a nostra conoscenza, che Aristotele risulti in qualche modo debitore dei sofisti. Anche nel campo stesso della retorica le tesi sono diametralmente opposte. I sofisti vedevano nella retorica l’arte di persuadere a qualsiasi azione buona o cattiva che fosse, Aristotele vi vede, invece, il mezzo per indicare quali sono le cose che possono spingere alla persuasione. Ed inoltre la differenza fondamentale è che il sofista può fare un uso cattivo della sua arte, in quanto non si pone a priori il problema della scelta della verità, mentre l’oratore di Aristotele deve per forza fare un buon uso della sua arte, perché deve metterla solo al servizio della verità. Quindi, non sussistendo il pensiero dei sofisti nella filosofia di Aristotele, dobbiamo ammettere che il Medio Evo conobbe metodi di pensiero tipici della impostazione aristotelica del ragionamento e del tutto estranei alla tecnica dei sofisti. Infine, per l’ultima affermazione, quella riguardante il paragone della sofistica con il nostro positivismo logico, la discordanza ci sembra ancora più palese, specie se teniamo presente che lo scopo principale di questa branca della filosofia contemporanea è quello di fornire princìpi utilizzabili per derivare da premesse vere conclusioni vere, scopo come si vede lontanissimo da quello della sofistica.

Per le opere dei sofisti il tempo non ci è stato favorevole. Quasi niente ci è pervenuto, se si escludono frammenti e qualche elenco di titoli di opere. Ciò non deve autorizzare all’illazione che il pensiero politico, o addirittura quello economico, fosse compiutamente esaminato nei loro scritti. Jenny Griziotti Kretschmann si pone su questa via: « […] il pensiero economico fa invece parte di un organico sistema filosofico nelle due grandi scuole dei Sofisti e dei Presocratici». (Storia delle dottrine economiche, op. cit., p. 6).

A Protagora viene attribuito un Trattato dei Salari, ma non ci sono prove concrete che questo scritto esistette davvero. Importante è invece la famosa frase: «Di tutte le cose è misura l’uomo: di quelle che sono in quanto sono; di quelle che non sono, in quanto non sono». (Diels, 1). Quindi uno spostamento dell’oggetto della filosofia, dal cosmo all’uomo, con la conseguenza che soltanto nel soggetto singolo si viene a porre la realtà, donde una infinità di realtà mutevoli, insomma in questo modo viene ad aprirsi la strada allo scetticismo. In Platone leggiamo: «Io insegno la ponderatezza nelle cose private, quindi nell’amministrazione della propria casa, come nelle cose pubbliche, quindi nell’azione e nella parola adatte al governo dello Stato». (Protagora, 318 e). Queste parole dette da Protagora preludono a quel concetto, di virtù politica ed economica, che sarà la base della futura speculazione sociale dei Greci, ma poiché la tesi fondamentale di Protagora non ammetteva una realtà al di fuori dell’uomo, ne consegue che questa virtù politica (vedi il mito di Prometeo nello stesso dialogo sopra citato di Platone) non ne risulta idealizzata, ma viene presa in considerazione così come si riscontra negli uomini politici, quindi un esame della realtà politica soggettiva, quale essa appare all’occhio dell’osservatore e non quale essa dovrebbe essere idealmente: e questo costituisce il contrasto più forte tra la sofistica e la speculazione platonica.

Niente di importante troviamo in Gorgia, tutto preso dall’amore della parola in quanto tale, per cui giustamente è stato considerato come il creatore della prosa d’arte. Anche questa povertà di contenuto speculativo di Gorgia contribuirà ad alimentare la critica moderna contro i sofisti, specialmente in quegli autori che fanno di tutte le erbe un fascio.

A Prodico è dovuta una rielaborazione del pensiero di Esiodo, sul motivo della rivalutazione del valore etico del lavoro, come stimolo alla virtù, messo da parte dall’aristocratico pensiero greco degli inizi.

È naturale che il culto dell’individualismo dovesse condurre a delle deformazioni come quella che riscontriamo in una corrente di pensiero sofistico che si riassume nel nome di Trasimaco. «Ma la natura, invece, ci fa vedere che è giusto che il più forte prevalga sul debole, il più capace sull’incapace; e ce lo mostra presso gli animali come presso l’uomo, nello Stato come nelle famiglie [...]. Ma se capita un uomo fermamente deciso a scuotere, a infrangere queste catene della convenzione sociale, io son convinto che, calpestando le nostre formule, i nostri incantesimi, le nostre malie, si ergerà davanti a noi come un padrone, da schiavo che era, e il diritto di natura allora ci apparirà in tutto il suo splendore». (Gorgia, 483 d e 484). È Callicle che parla, ma sull’entità storica di questo sofista è lecito avanzare dei dubbi, per cui lo si è identificato nella figura di Alcibiade o in quella di Trasimaco stesso. Sono queste parole che quasi non abbisognano di commento, tanto chiaramente preludono ad alcune teorie nietzschiane del superuomo. Non manca niente, nemmeno il riferimento alla legge della giungla. Per quello che più direttamente ci interessa, possiamo notare che questa tesi dovette allontanare il pensiero greco, in modo notevole, da quella necessaria oggettività che presiede alla notazione economica. Fortunatamente, per uno strano fenomeno di contrapposizione, queste notazioni si ebbero lo stesso, sebbene dettate soltanto da interessi tipici della reazione agli obblighi della tradizione. Giustamente osserva Gonnard, a proposito del fatto che i sofisti incoraggiavano il commercio con l’estero: «perché è l’esercizio di un diritto individuale, e perché molti0plica i contatti tra gli uomini». (Histoire des doctrines économiques. (Doctrines anterieures à Quesnay), op. cit., vol. I, p. 23).

Nello scritto pervenutoci con il nome di “anonimo di Giamblico” (si tratta di un testo d’impronta sofista ritrovato nel Protreptico del neo-platonico Giamblico, risalente ai secoli III-IV d. C., e attribuito, di volta in volta, ad Antifonte, Protagora, Critia, Antistene, ecc.), osserviamo due cose importanti: primo, la perfezione può essere conseguita con la riflessione e lo studio, e causerà la solidarietà non solo tra gli uomini ma tra le città, in modo da evitare un dannoso isolamento che si traduce in un ancor più grave impedimento degli scambi; secondo, l’avidità delle ricchezze è più dannosa ancora, perché finisce per causare la disuguaglianza tra i partecipanti alla comunità, da cui invidie, guerre e infine la tirannide.

Niente altro possono più dirci i sofisti, il resto della loro produzione (seconda generazione) sarà un accentuarsi di quei caratteri deleteri del “professionismo”, che verranno aspramente criticati da Aristotele.

Con Socrate si chiude il periodo transitorio di quella ondata sovversiva e vivificatrice che fu la sofistica, per aprirsi il capitolo più vasto e interessante della filosofia greca e di tutti i tempi. Niente ci è rimasto di un uomo che con ogni probabilità niente ebbe a scrivere, se non il suo metodo, e ben altrimenti che queste poche righe, Socrate meriterebbe in una storia della metodologia.

Suoi grandi meriti furono: il reinserimento della riflessione cosmologica nel nuovo interesse per i problemi antropologici, l’applicazione del metodo dialettico, la trasformazione dell’autoconoscenza tradizionale (vedi il “conosci te stesso” dei Sette Savi) in autocoscienza, cioè in principio morale, la sua idea di città-Stato come elemento regolatore di ogni contrasto tra ideale necessario e reale possibile. È proprio questa sua ultima certezza che gli fa sdegnare la difesa durante il processo e la fuga dopo la condanna, e gli fa accettare la morte.

 


[Pubblicato su “Studi e ricerche”, anno I, 1965, pp. 65-73]

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“Appartengo a coloro che, fra il sistema e il caos, propenderanno sempre per il caos”.

(Emil Michel Cioran, Quaderni 1957-1972)

Le origini del cristianesimo e il problema della ricchezza

Il cristianesimo delle origini, inserendosi nella realtà religiosa e sociale dominata dall’antico giudaismo, venne a causare, sia pure in modeste dimensioni, uno sconvolgimento. Nei Vangeli il contrasto tra le due visioni del mondo è evidente. Giovanni considera avversari scribi e farisei, ma in qualche passo tutti gli Ebrei, Luca è più sfumato e indica come avversari di Gesù e di Giovanni qualche volta i farisei e qualche volta il popolo in generale. Sul piano spirituale il contrasto era estremo. Lo spirito cristiano, impensabile senza il concetto di pneèma della tradizione greca e alessandrina, non poteva paragonarsi al riach ha-kodesh dell’ortodossia giudaica. Se a questo dato di fondo si aggiungono le rivalità del proselitismo, per cui Paolo stava quasi per essere linciato (Atti, 22, 21) a causa delle sue predicazioni ai non circoncisi, e principalmente la diversa concezione della vita, si possono capire le condizioni in cui dovette muoversi il cristianesimo nei suoi primi passi. Il giudaismo sosteneva infatti, come il cristianesimo che da quello la prese portandola a perfetta organizzazione, la necessità del proselitismo fra i pagani. Soltanto dopo la seconda distruzione del tempio di Gerusalemme, quindi sotto Adriano, catastrofe resa possibile, a quanto pare, dal tradimento di alcuni proseliti recentemente convertiti, le comunità religiose giudaiche decisero di sospendere l’attività di propaganda. La controversia, anche feroce, rimase però sospesa almeno fino al riconoscimento del cristianesimo come religione ufficiale, in quanto sembra che gli Ebrei, approfittando della loro posizione privilegiata di appartenenti a una religione lecita, denunciassero i cristiani per mancanza di rispetto nei riguardi del culto dell’imperatore, pratica da cui loro erano esenti in quanto facenti parte di una confessione riconosciuta dallo Stato. Questa situazione dovette influire sulle possibili conversioni al cristianesimo da parte di Ebrei.

Il contrasto maggiore è ovviamente a livello pratico, scatenandosi quando vengono intaccati gli interessi della classe dominante dei sacerdoti, cioè i farisei. Originariamente una delle tante fratellanze giudaiche, i farisei, da perushim, coloro che si tengono da parte, quindi che non si mischiano con gli altri, che tengono ai rituali e alle distanze, erano diventati i razionalizzatori del potere dei rabbini, costituendo una sorta di partito religioso di cui i rabbini non potevano non tenere conto. A loro si contrapponevano gli ‘am ha-arez, gli ignoranti, i nullatenenti, quasi sempre gente di povera condizione, di origine campagnola o facente ancora i contadini, o altri umili mestieri. I farisei cementarono lo sviluppo della società ebraica sotto forma di struttura religiosa e politica mantenendo, anche durante l’esilio, nella diaspora, tutti i contatti necessari alla sopravvivenza della fede. Anche la nobiltà, che aveva le sue fratellanze, come quella dei sadducei, dovette fare i conti con i farisei, che più precisamente si dovrebbero considerare di appartenenza borghese. Le loro tesi filosofiche erano molto semplici e si richiamavano alla semplicità del Talmud. La loro razionalizzazione era adeguata a una società ancora patriarcale e chiusa. Di fronte alla rigidità sadducea, che creava grossi problemi d’interpretazione, poniamo il rigido occhio per occhio, i farisei sceglievano la via di una sistemazione con la penitenza e la conciliazione.

Ai farisei si dovettero le razionalizzazioni economiche che regolarono la protezione del patrimonio personale e dei coniugi, essi tolsero dalla tradizione religiosa tutto quello che nella storia della creazione e nei libri dei patriarchi potesse destare scandalo alla mentalità di borghesi di un certo livello. Introdussero le storie di angeli e di demoni, per altro comuni a tutto l’Oriente, contrapponendosi ai sadducei che come strato colto e nobile insistevano nel mantenere una rigida osservanza dei testi. Con la presenza della demagogia le responsabilità di Yahweh si attenuarono limitatamente all’imperfezione del mondo, non riguardo al “patto” col popolo privilegiato, che restavano ovviamente immutate. I farisei dettero agli strati poveri una fede che i sadducei non potevano dare, la fede in un salvatore, una presenza messianica, la credenza nella resurrezione dei morti e una vita migliore.

Queste razionalizzazioni non potevano però essere facilmente accettate dagli strati popolari in quanto erano sottoposte a condizioni feroci. Occorreva la santità della vita per accedere al regno salvifico, la santità che solo i rabbini realizzavano in questo mondo, sottoponendosi a una rigida osservanza dei rituali e delle leggi, dando alla vita un’impronta segregativa che gli strati popolari non potevano né accettare né sostenere. Questa scelta e l’importanza della cultura, sia pure razionale e semplificata, mettevano fuori gioco gli ‘am ha-arez, i contadini poveri. Questo favorì lo sviluppo dei rabbini e la loro gestione del potere. Ma crescendo la distanza tra la casta culturale e razionalista e i bisogni, anche spirituali, del popolo, quest’ultimo andò a cercarsi direttamente il carisma di cui avvertiva la necessità, e lo trovò spesso in uomini semplici, dalle parole facili, dalle parabole elementari, uomini in contrasto come mentalità e come estrazione sociale coi rabbini, ma considerati “santi”, maestri di vita, anche se conducenti di asini.

Più i rabbini si specializzavano nelle loro scuole, più prendevano l’aspetto sostanziale di giuristi, venivano consultati per problemi economici, eredità, matrimoni, divisioni di patrimoni. Tutte cose che la povera gente, ovviamente, non pensava neanche. Invece, il popolo, i contadini, i nullatenenti, sentivano l’attrazione di un mondo taumaturgico che appariva loro codificato nella persona di alcuni “maestri”. Il posto che i rabbini, col loro razionalismo, avevano lasciato vacante negando validità alla magia, venne preso da un numero imprecisato di uomini del popolo, spesso maghi o comunque proponenti una visione taumaturgica della realtà, i quali facevano vedere ancora possibile l’antica strada magica di forzare la mano a Dio. Per il Talmud la magia è un sacrilegio, ma i rabbini erano molto cauti nel condannare i comportamenti magici quando trovavano una rispondenza nella gente, e poi anche perché l’antica possibilità di trovarsi davanti a un “profeta” non poteva essere messa da parte neanche dal loro razionalismo. Ma la regola per controllare il profeta c’era, egli era senz’altro un falso profeta quando insegnava qualcosa in contrasto con la legge e con i comandamenti di Dio. (Deuteronomio, 13, 2-3).

Comunque il miscuglio esplosivo delle istanze di liberazione sociale e di salvezza, non era facilmente razionalizzabile. Non lo fu successivamente neanche per i teorici cristiani. I movimenti popolari che sentivano il bisogno di un mondo migliore avvertivano anche la necessità immediata di un tipo differente di religiosità, più legata a pratiche cosmologiche e magiche, favole mitiche e generali, miste a oroscopi spiccioli riguardanti la vita di tutti i giorni. Ma su tutto ciò i rabbini erano troppo rigidi, troppo razionalisti. Allo stesso modo, essi erano contrari a ogni tipo di “gnosi”, ad ogni via e ogni ricerca di salvezza mistica, quindi si tagliavano da quegli ambienti in cui questa strada era particolarmente sentita. Le tradizioni dell’antico orgiasmo camminavano parallele dappertutto con il senso di liberazione dalle miserie della vita, dalle sofferenze, dalle costrizioni e perfino dal dominio politico e militare.

Questi bisogni dettero vita a una serie complessa di racconti gnostici, mistici, profetici, o più spesso semplicemente escatologici. Le dottrine di origine babilonese e persiane di un salvatore, figlio dell’uomo, si mischiarono con quelle di un mitico personaggio biblico, Enoch, discendente di Set, e di Matathron, un angelo la cui presenza con sfumature femminili ricorre sempre nelle dottrine apocalittiche. Queste leggende alimentavano il bisogno di immaginarsi liberi dalla sofferenza, anche in un futuro più o meno immediato, quindi si collegavano con gli istinti di rivendicazione che sono sempre presenti fra coloro che soffrono, alimentati quotidianamente dalla sofferenza stessa. Da qui un dualismo tra spirito e corpo, tra purezza divina e corruzione del mondo. L’idea stessa di anima imprigionata nel corpo era estranea al giudaismo e venne inserita da Paolo attraverso l’apporto che egli assorbì dal neoplatonismo di Filone di Alessandria, un filosofo giudaico della diaspora, ma fortemente impregnato di filosofia greca. Il rapporto tra Yahweh e il suo popolo è del tutto differente. Il dio giudaico è un monarca antico, corrusco, violento, ma anche buono con i suoi figli, quelli del popolo eletto, naturalmente, del popolo destinato a dominare il mondo. Non solo l’individuo può farlo adirare, se sbaglia, ma anche l’intero popolo. Da ciò la condanna al lavoro e alla fatica a causa dell’errore di Eva e Adamo. Non si tratta di un peccato originale, solo di una rottura del “patto”, del tutto simile a quella dell’adorazione del vitello d’oro, che aveva causato la disseminazione del popolo ebraico.

Ha scritto molto acutamente Schelling: «Il passaggio alla potenzialità puramente relativa o esteriore fu dunque un passaggio dalla mascolinità alla femminilità, dal dio maschile a una divinità femminile. Al posto del signore celeste, di quel re del cielo che solo era venerato nella prima religione, subentrò quindi la regina celeste, Melaekaeth haschamaim, come è espressamente denominata nell’Antico Testamento, e perciò quel passaggio alla potenzialità relativa o esteriore è connotato in tutte le mitologie più antiche tramite una divinità femminile che subentra al posto del sovrano celeste e che fu venerata da così tanti popoli sotto diversi appellativi, come Militta, Astarte, Urania. Secondo questa derivazione, Urania non è che Urano in figura femminile, l’Urano fattosi donna, ossia il dio reale che ha rinunciato alla tensione contro il dio superiore e relativamente spirituale, come lo abbiamo già denominato. La mitologia greca, che appartiene a un momento molto più tardo, anzi all’ultimo momento del decorso mitologico, ha sussunto tuttavia in sé questi momenti precedenti, solo, si capisce, in una diversa modalità. In un’altra versione quel passaggio poteva infatti essere anche rappresentato come castrazione del dio che prima aveva il potere esclusivo. Così è rappresentato il passaggio nella mitologia ellenica, in cui Urano viene castrato – perché dal figlio Crono è per il momento un fatto ancora incomprensibile che si chiarirà in seguito –. In questo si distingue dunque la rappresentazione ellenica dalla rappresentazione asiatica, che pone immediatamente Urania al posto di Urano; ma l’identità essenziale della rappresentazione ellenica con quella asiatica si mostra nel fatto che la Teogonia greca fa nascere dalla schiuma dei genitali di Urano tagliati e gettati in mare Afrodite, che in realtà è l’immagine corrispettiva della regina del cielo asiatica, e infatti è chiamata anche Urania. Qui dunque Afrodite o Urania è quanto meno una conseguenza immediata della castrazione di Urano, in ogni caso questo evento la precede. Non appena la coscienza si dispone interiormente al passaggio, percepisce come tensione il suo rapporto col dio escluso. L’improvviso allentarsi di questa tensione le può apparire solo come un farsi debole, disponibile al dio, un farsi femminile, una rappresentazione che è così profondamente radicata nel pensiero del paganesimo, che un padre della chiesa particolarmente impegnato nei suoi scritti sul paganesimo e sul suo rapporto col cristianesimo, Clemente Alessandrino, non esita a servirsi delle audaci parole: “Il Dio inesprimibile è il Padre, ma ciò che in lui ci è prossimo si fece Madre, amando il Padre si fece femminile”. Non è qui il luogo per ricercare in quale senso questa espressione del Padre della Chiesa si possa intendere, la presento solo come prova, con quale necessità indipendente da ogni arbitrario rivestimento dovette prodursi anche per la coscienza filosofica questa espressione del maschile e del femminile e poi del farsi femminile, di come dunque la mitologia sia in fondo naturale. Abbiamo così indicato un posto determinato per Urania. Per giustificare ora questo posto in modo ancora più preciso di quanto non sia accaduto finora per via della natura della cosa, ossia anche storicamente, questa posizione di Urania viene confermata principalmente dal fatto che Erodoto, in cui abbiamo la massima fiducia per tutto ciò che ha visto e ha fatto, fa derivare questo culto di Urania proprio dai più antichi popoli storici, ossia da quelli che dapprima si distaccarono dall’unità dell’umanità originaria, gli Assiri, gli Arabi, i Persiani. Che questa dea appartenga a quell’epoca della prima uscita dallo zabismo è confermato in particolare da quanto dice Erodoto dei Persiani in relazione al culto di Urania». (Filosofia della mitologia, tr. it., Milano 1990, pp. 50-51).

Principalmente, ed è importante per il lavoro che ci aspetta qui, il giudaismo farisaico, e quindi rabbinico, giustificava pienamente la ricchezza, ed era lontano dal pensare che il possesso di questa potesse compromettere la salvezza. Per i sacerdoti, il possesso della ricchezza era addirittura indispensabile per assicurare la loro indipendenza e l’attività dedita soltanto allo studio e alla religione. Concezione questa che il cristianesimo riuscirà a imporre dopo lunghe e difficili controversie, come vedremo. Lo sfruttamento feroce del fratello era ovviamente condannato dai comandamenti di Yahweh, ma soltanto rispetto all’antica ritualità della fratellanza fra compatrioti. Un altro effetto importante della razionalizzazione rabbinica fu l’eliminazione del risentimento, considerato come sentimento plebeo e combattuto dal giudaismo talmudico. L’insegnamento che doveva condurre alla interiorizzazione del bisogno di vendetta sarà possibile al cristianesimo, il quale potrà sostenere la necessità di porgere l’altra guancia, ma solo perché avrà prima sviluppato pienamente una divisione del mondo in funzione della salvezza, venendo così a spostare la speranza di una vendetta in una sublimazione futura. Non potendo fare ciò, il giudaismo si vide sempre di più spiazzato nei riguardi degli strati popolari, che invece si sentivano più vicini ad altre concezioni.

Infine, l’esacerbarsi della struttura, la sempre crescente rigidità dei rituali, assolutamente impensabili per tutti, conferirono ai farisei e ai rabbini una purezza che di fatto li escludeva dal mondo e li contrapponeva agli strati popolari. Da ciò la tendenza a perpetuare e aumentare i privilegi della struttura, a gestire il potere a esclusivo beneficio proprio, o almeno privilegiando le condizioni e le necessità degli aderenti perfetti. Divennero così disprezzabili, e di fatto vennero disprezzate, quelle attività che erano lontane dal modo di vita di questa piccola borghesia dominante. I viaggiatori, coloro che dovevano spostarsi a causa del proprio lavoro, i conduttori di asini e cammelli, i mercanti, i trasportatori, gli immigrati, vennero a costituire una specie di casta di intoccabili, sul tipo di quelle dell’induismo. Poi tutti i lavoratori ambulanti, tutti quelli che per il proprio lavoro avevano un contatto frequente con le donne, e infine gli stessi mestieri che per secoli caratterizzeranno proprio gli Ebrei, vennero anche emarginati.

Bisogna intendere bene il movimento di queste masse emarginate, nei confronti delle quali, seppure non primariamente, si indirizzava il proselitismo ancora non paolino del cristianesimo primitivo. Nella divisione rigida che si andava formando e consolidando all’interno del popolo d’Israele esistevano molte distinzioni, sia a livello di rituale, come per i Samaritani, sia a livello di scelte di vita di particolare purezza e ascesi, come per Esseni. Da canto suo, la predominanza di Gerusalemme, quindi della discendenza degli esuli babilonesi, venne determinata sia da una supremazia economica, solo più tardi eguagliata ma non superata dagli alessandrini, ma anche da una maggiore purezza del rituale e da una casta particolarmente attiva di sacerdoti.

La considerazione della ricchezza, nella religione giudaica, è stata sempre positiva. Il benessere economico era segno del favore divino, della grazia di Dio. La povertà, segno della sua collera. Allo stesso modo la malattia e la perdita dei propri beni erano considerate segno dell’ira divina. Con l’evolversi della società giudaica, quando dall’antica condizione di contadini guerrieri si arrivò all’insediamento urbano e alle formazioni delle caste nobili e ricche, divenne chiaro, per i poveri e i diseredati, che costoro non menavano una vita perfetta dal punto di vista religioso, anzi al contrario. Nell’elaborazione dei testi della Torah cominciò quindi ad apparire un possibile rapporto tra povertà e devozione. Anche il povero poteva essere osservante e religioso, per cui diventava obbligatorio per i ricchi intervenire con una carità operosa nei riguardi dei poveri, che adesso diventano bene accetti a Yahweh. Con questa modificazione non si può comunque parlare della nascita di un Dio che sostenesse una qualche idea di uguaglianza tra ricchi e poveri, ma piuttosto una precisazione nell’antico concetto di Dio, più adatto a una stirpe di guerrieri, nel senso che adesso l’occhio di Dio guarda adirato la superbia e considera in modo positivo l’umiltà del popolo semplice.

Questo lavoro di razionalizzazione sul concetto di povertà e di popolo-paria è lungo e contraddittorio. Operante all’interno della necessità di distinzione, del mantenimento delle distanze, non poteva non avere conseguenze di rinuncia e di rassegnazione, trovando una giustificazione parallela nelle vicende complessive dell’esilio e della diaspora. Tutti erano stati puniti da Dio, il povero poteva subire due tipi di punizione, ma non si stabiliva più una necessaria concatenazione tra punizione divina e irritualità nei comportamenti. L’intenzione di Dio appariva sempre più imperscrutabile. La pazienza e la sopportazione del popolo giudaico in generale e dei suoi strati più poveri in particolare assumevano in questo modo un grado di dignità religiosa che contribuiva a incatenare ognuno nella propria condizione, stilizzando comportamenti ritualmente obbligatori. «La sofferenza è la legge suprema del cristianesimo; la storia del cristianesimo stesso è la storia della sofferenza umana. Il mistero della passione». (L. Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, tr. it., Milano 1994, p. 82).

Il cristianesimo raccoglie questa eredità, facendosi portatore di un discorso diretto verso queste masse di diseredati, proponendo la validità della pace e della non resistenza alle autorità, accentuata quest’ultima nella versione paolina, ma proponendo anche una maggiore separazione tra comunità che dà a Cesare e quella che non dà, perché non ha nulla da dare. Vedremo, nel corso di questa indagine, in che modo il cristianesimo regolarizzò questo stesso suo assunto iniziale, precisandolo e racchiudendolo in fondo a uno schema socialmente inoffensivo. Ma dovettero passare diversi secoli per pervenire a questa inoffensività. Agli inizi, dovendo far leva su strati poveri o, comunque, non appartenenti alle aristocrazie religiose e nobiliari del giudaismo, assorbì e portò alle sue estreme conseguenze le istanze di questi strati, modificando profondamente lo schema salvifico precedente. Precisa meglio Feuerbach: «Lo Spirito Santo deve la propria esistenza personale soltanto a un nome, a una parola che sta a rappresentare unicamente il sentimento e l’entusiasmo religioso, l’amore e l’anelito della creatura verso il creatore». (Ib., p. 88).

Secondo me, l’obiezione morale di Nietzsche, tanto famosa da costituire un luogo comune di riferimento a questo punto, obiezione riguardante il “risentimento”, è stata colta da una vera e propria commedia degli equivoci che non è pensabile dissolvere qui, restando quasi totalmente dal di fuori del nostro raggio d’interessi, per cui ci limiteremo a poche considerazioni. Scrive Nietzsche: «Nella morale la rivolta degli schiavi ha inizio da quando il ressentiment diventa esso stesso creatore e genera valori; il ressentiment di quei tali esseri a cui la vera reazione, quella dell’azione, è negata e che si consolano soltanto attraverso un vendetta immaginaria. Mentre ogni morale aristocratica germoglia da un trionfante sì pronunciato a se stessi, la morale degli schiavi dice fin dal principio no a un “di fuori”, a un “altro”, a un “non io”: e questo no è la sua azione creatrice. Questo rovesciamento del giudizio che stabilisce valori – questo necessario dirigersi all’esterno, anziché a ritroso verso se stessi – si conviene appunto al ressentiment: la morale degli schiavi ha bisogno, per la sua nascita, sempre e in primo luogo di un mondo opposto ed esteriore, ha bisogno, per esprimerci in termini psicologici, di stimoli esterni per potere in generale agire – la sua azione è fondamentalmente una reazione». (Genealogia della morale, tr. it., Opere Complete, Vol. VI, tomo II, Milano 1976, pp. 235-236). Il primo critico radicale di questa intuizione, per la verità un po’ confusa, è Nietzsche stesso. Egli nell’Anticristo scrive, rifacendosi espressamente al problema del ressentiment: «Per quella specie di uomini che nell’ebraismo e nel cristianesimo desiderano la potenza, una specie sacerdotale, la décadence è soltanto un mezzo: questo genere di uomini trova un interesse vitale nel rendere malata l’umanità e nel rovesciare, in un senso pericoloso per la vita e denigratorio per il mondo, i concetti di “buono” e “malvagio”, “vero” e “falso”. (L’anticristo, tr. it., Opere Complete, vol. VI, tomo III, Milano 1975, p. 194). È questa sorta di uomini, quella che produce il risvolto ordinativo del risentimento, la casta intellettuale e sacerdotale che è quindi la depositaria della morale degli schiavi, non gli schiavi stessi, i quali non hanno una morale, corpo sviluppato e sufficientemente identificabile, di concetti, di comportamento di vita. E, difatti, per insistere sui chiarimenti che lo stesso Nietzsche fornisce al suo concetto di morale del ressentiment ne La volontà di potenza (cfr. par. 259 e 287), viene applicato, giustamente, questo concetto alla filosofia e ai filosofi, come strumenti e artefici della negazione della vita, tutti diretti a calunniare la realtà che sfugge loro lasciandoli in preda al desiderio di catturarla negli schemi metafisici approntati inutilmente.

Il modo in cui la massa fluttuante di diseredati, che si pose in un certo modo in movimento, anche a seguito di una individuata forza connettiva del cristianesimo, non può assumere connotazioni oggettive, né nel senso che vorrebbe intendere Nietzsche né nel senso, del tutto moderno, che si potrebbe prestare a essa, di classe sfruttata. Il concetto di classe è estremamente complesso e corre il rischio, costantemente, di venire coinvolto in un meccanismo oggettivo, dove gli individui e le condizioni specifiche in cui questi vivono si amalgamano secondo le idee del teorico che pensa quel concetto, mentre la realtà sistematicamente penalizza questi modelli, facendo vedere all’opera realtà diverse. Che gli schiavi, o i poveri, o i ceti estraniati dalla comunità religiosa giudaica, intendessero una “redenzione” nel senso di una vendetta e di un livellamento delle condizioni di vita presenti, più che di una felicità futura da goderne nel regno dei cieli, la cosa è molto probabile. D’altro canto, nei sogni comunitari di un povero ci deve essere per forza di cose la partecipazione alla ricchezza del ricco, in caso contrario che cosa sognerebbe una comunità, forse la propria miseria?

Questa parallela intuizione di superamento della povertà e di comunismo è sempre accompagnata da un sospetto terribile nei riguardi di coloro che gestiscono il potere: intellettuali, sacerdoti, nobili, proprietari, sfruttatori del lavoro e dei bisogni altrui. L’orecchio abituato alla musica moderna, fortemente colorata in mille possibilità politiche, non accenna a comprendere i toni schiaccianti e uniformi della sensibilità antica degli sfruttati, il ripresentarsi di desideri, bisogni, immagini, esplosioni di gioia, feroci vendette, la scomparsa del tempo, l’attualizzazione di ogni richiesta, la logica del tutto e subito. La lunga abitudine all’analisi ci coglie impreparati. Anche Nietzsche era impreparato. Difatti scrive: «Chi pone un tale valore nel fatto di essere creduto da garantire il cielo come compenso di questa fede e a chiunque, sia pure a un ladrone crocifisso, – costui deve aver sofferto un dubbio terribile e conosciuto ogni sorta di crocifissione: altrimenti non comprerebbe a così caro prezzo i suoi credenti». (Aurora, I, 67). Con la sua morale del superuomo, non faceva altro che proporre una regolamentazione, la sostituzione della morale aristocratica a quella plebea, della morale affermativa a quella negativa, non la scomparsa. E come poteva, il buon borghese tedesco dell’Ottocento, immaginarsi una cosa del genere? Poteva vivere una realtà “diversa”, e anche morire o impazzire, ma non vederla, pienamente, come il miserabile straccione della società giudaica dove s’innestò il sogno cristiano, o come il “diverso” della società odierna, che un potente meccanismo difensivo del potere spinge sempre di più ai margini, dove è silenzio e tenebra.

La morale aristocratica della belva bionda, della barbara belva feroce, non si è mai concretizzata in una teoria, se escludiamo le fantasie di Nietzsche, ma si è realizzata nella pratica, ed è sempre stata, come Nietzsche nota giustamente questa volta, una realizzazione inconscia, un dire semplicemente di sì alla propria natura di animale da preda. Una zampata e via. E questo è ben altro della razionale, teutonica, ordinata macchina omicida dei nazisti. Non possono essere loro le belve bionde, o brune, immaginate da Nietzsche e identificate da lui nei barbari che distrussero le regole dell’Impero romano, e i suoi sogni di eternità. La caratteristica essenziale della violenza liberatrice è quindi il superamento della fase regolamentativa, in cui il singolo miserabile guarda e valuta, prende le misure e desidera e sogna la vendetta. Questa fase non ha niente di morale, perché è la fase della regola, e ogni regola è immorale, proprio perché pretende di fissare i moduli di comportamento, anche quando questi sottolineano la necessità del comunismo o dell’abolizione delle ricchezze. In questo caso, come ora sappiamo benissimo, quelle idee sono state trasformate in ideologia, strumenti di controllo, non di liberazione. Ha scritto in modo penetrante Karl Jaspers: «Sembra che ci possa essere una soluzione nella comunicazione con la divinità, nel rifugio della religione che offre la possibilità di sottrarsi alla lotta amorosa e di sussistere nella tranquillità del proprio isolamento, senza rischiare né soffrire alcuna problematizzazione che metta in questione il proprio se-stesso. Queste forme deviate possono essere sviluppate a piacere, nell’ambito della psicologia comprensiva, ma il vero cammino della comunicazione in lotta è diretto, e non lo si può mostrare in termini universali, perché nella sua realtà è sempre unico e inimitabile. Ogni azione ha nel mondo delle conseguenze insospettate, di fronte alle quali, chi agisce si spaventa perché non può non ritenersi responsabile anche di quelle conseguenze a cui, peraltro, non aveva pensato. Se col mio esserci mi permetto quelle condizioni che, pur essendo indispensabili alla mia vita, esigono lotta e sofferenza altrui, sono colpevole dello sfruttamento di cui vivo, anche se ne pago il prezzo con la sofferenza, con la fatica e il lavoro che la vita impone, e, da ultimo, con la mia fine. I motivi della mia azione e dei miei sentimenti nati dagli impulsi originari sono così equivoci, a causa delle molte possibilità che si offrono e delle molte speranze che su di me agiscono, che solo in rari momenti, e solo apparentemente, è possibile giungere, attraverso una cieca astrazione razionale, a una chiara decisione. Io vivo, per così dire, nella materialità dell’esserci, che spesso irretisce, frena la mia disposizione alla vita attiva, per raggiungere, esistente, la purezza dell’anima, che poi sarebbe l’innocenza della semplice univocità. Ma l’impurità dell’essere affondato nell’esserci si ricrea immediatamente nell’esserci col superamento dell’esserci stesso. Non solo devo eliminare le scorie, ma, se vivo, sono costretto a vedere che se ne formano continuamente delle altre. Senza sapere come sia la purezza dell’anima, di cui mi preoccupo come esistenza possibile, mi ritrovo guidato dalla concretezza della mia coscienza che, in un certo senso, mi fa sentire colpevole anche nei miei sentimenti più intimi. La purezza dell’anima è la verità dell’esistenza che, nell’esserci, deve osare e addirittura realizzare l’impurità affinché, sentendosi colpevole, possa concepire la realizzazione della purezza come un compito infinito che si snoda nella tensione dell’esserci temporale. Se nell’esserci sono esistenza possibile, allora mi realizzo attraverso l’Uno. Cogliere l’Uno significa rifiutare l’altro possibile, anche se per la morale tradizionale è qualcosa di tranquillo e di innocente. L’altro è costituito dagli uomini che sono per me esistenze possibili. L’intelletto crede davvero di trovare una soluzione semplice nel concedere a ciascuno il proprio diritto, ma incontrare l’essere in quest’ambito di diritti astratti significa annullare ogni realtà esistenziale. Io devo scegliere tra i molti nella loro varietà e sostituibilità, con la conseguenza, però, che tutto è nulla e che una cosa in fondo è sostituibile con l’altra, perché entrambe mi si presentano come possibilità che potrebbero realizzarsi nella disposizione del momento che poi svanisce. Attraverso la più profonda decisione nella realtà dell’esistere, incorro in una colpa oggettivamente inconcepibile che, con la sua incomprensibilità, mi minaccia nel fondo segreto della mia anima; questa colpa distrugge nella maniera più radicale ogni autogiustificazione dell’esistenza che si dovesse realizzare. Abbracciando attivamente la vita, tolgo qualcosa agli altri, nei momenti di difficoltà tollero l’impunità dell’anima, e con la mia realizzazione escludente rifiuto l’esistenza possibile. Se mi spavento davanti alle conseguenze di questo mio agire, posso pensare di evitare la colpa non entrando nel mondo e quindi non facendo nulla; in questo caso non toglierei niente a nessuno, anzi rimarrei puro e, mantenendomi nella possibilità universale, non mi troverei a rifiutare alcuna possibilità. Ma anche non agire è un agire nella forma dell’omissione che conduce a una fine più rapida, dovuta a quell’inerzia sistematica e assoluta che assomiglia al suicidio. Non intervenire nel mondo significa sottrarsi all’esigenza della realtà che mi si presenta chiedendomi, sia pure in un modo che resta sempre oscuro, di rischiare e di sperimentare ciò che nasce col mio ingresso nel mondo. Nella mia situazione sono responsabile di ciò che accade per non essere intervenuto, e se non faccio ciò che posso fare, mi rendo colpevole delle conseguenze che derivano dalla mia astensione. Pertanto, sia l’azione sia la non-azione implicano delle conseguenze, per cui in ogni caso io sono inevitabilmente colpevole. In questa situazione-limite divento consapevolmente responsabile di ciò che accade, senza che io l’abbia propriamente voluto. Se chi agisce è consapevole di queste conseguenze diventa insicuro perché, nel compiere l’azione, egli pensava ad altre conseguenze». (Filosofia, tr. it., Torino 1978, pp. 723-725). Soltanto nel caso in cui gli schiavi reagiscono veramente contro tutto quello che li opprime, al di là delle stesse regole che avevano fatto vedere la possibilità di insorgere e battersi, al di là di tutti i programmi e i progetti regolamentativi precedenti, si ha la violenza liberatoria, e solo in questo caso la bestia si scatena, portandosi dietro, in un unico torrente ingrossato a dismisura, la propria coscienza di classe, la propria situazione oggettiva di sfruttamento, e l’insieme opprimente delle ideologie contrastanti che giustificavano o condannavano la possibilità d’insorgere. Ma, a questo punto, parlare di morale, del risentimento o meno, è non solo superfluo, ma sbagliato. Nietzsche, sia detto una volta per tutte, si ferma sempre un attimo prima della conclusione naturale a cui le sue stesse intuizioni potevano condurlo, non può fare il passo successivo.

La pienezza di sé si ha proprio quando si reagisce con la più totale spontaneità, appunto aristocraticamente, in questo l’intuizione niciana è esatta, cioè quando non si stanno a calcolare i risultati immediati, le piccole convenienze, i tornaconti, quando tutto è eccessivo, sovrabbondante, lussuoso, quando i desideri s’innalzano verso possessi che neanche i momenti di delirio passati sotto la sofferenza potevano immaginare. Ora, il dilagare della violenza rivoluzionaria, è una condizione superiore di calma, di coscienza dei propri mezzi e dei propri desideri, che poi sarebbe l’assenza completa di ogni limitazione, di ogni regola morale o sociale, di ogni statuizione o patto, misericordia o collaborazione, anche dei ricordi dei benefici ricevuti, anche nei confronti di coloro che erano stati alleati, anche dei traditori della loro classe, anche nei loro confronti, la calma distruttiva, dilaga appunto aristocraticamente, sommergendo questi futuri dominatori. Così Nietzsche: «Esistono ricette a seconda del senso della potenza, in primo luogo per coloro che sono capaci di dominare se stessi e che perciò già si sentono a casa nel sentimento della potenza: in secondo luogo per coloro cui manca proprio questo. Degli uomini della prima specie si è preoccupato il brahamanesimo, di quelli della seconda il cristianesimo». (Aurora, I, 65).

Per comprendere il desiderio, la passione del comunismo, bisogna calarsi in queste regioni turbolente e calme nello stesso tempo, e allora si capisce perché molti aspetti dell’antico orgiasmo mistico, a sfondo sessuale e sensuale, camminavano sempre di pari passo con le sofferenze degli umili e con i loro sogni di liberazione e i loro desideri di vendetta, i loro risentimenti. Ma questo argomento lo abbiamo considerato in modo più esteso altrove. Qui, occorre dire qualcosa di più specifico della concezione di Nietzsche. Che ci si trovi davanti proprio alla sua ipotesi, cioè dell’aristocrazia reale che si scatena, quell’aristocrazia che si esprime solo positivamente, lo si vede nel fatto che questi istinti di ribellione, per come si concretizzano nella violenza rivoluzionaria, non sono mai la traduzione in pratica del desiderio di riappropriazione. Non c’è l’idea di qualcosa che si possedeva e che si è perduta, o di qualcosa che si vorrebbe avere al posto degli altri. Il povero non vuole diventare ricco, con altri poveri da cui difendersi, questo, se fa parte dei suoi sogni, è un sogno diremo personale e secondario, egli vuole condividere, la sua passione non è la proprietà, di cui sconosce gli aspetti negativi, ma che riesce comunque a vedere in termini di preoccupazioni e di gestione, ma è il comunismo. Egli può quindi essere aristocratico, nel senso niciano, perché disprezza quelle cose di cui vuole venire in possesso, tanto è vero che nella pratica dei saccheggi o delle rivolte la gente più povera s’impadronisce di beni assolutamente non primari, ma voluttuari, addirittura simbolici, mentre soltanto la truppa compatta degli ideologizzati mira alle cose essenziali, fondamentali per la vita, in quanto questa truppa ha sempre scambiato la vita con la sopravvivenza. Pensiero di lunga percorrenza questo. «La forma che subordina la possibilità della conoscenza all’elemento volitivo (soggettivo e individuale per eccellenza) si può riconoscere in molti filosofi antichi a partire da Eraclito. Vero è che già in Senofane troviamo una specie di presentimento embrionale del vincolo tra la conoscenza e lo sforzo spirituale volontario dell’uomo, quando, in un frammento (B 17 in Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker) egli dichiara che “gli dèi non hanno mostrato agli uomini tutto fin dal principio, ma gli uomini cercano e col tempo trovano il meglio”. Presentando così la conoscenza come conquista umana attiva, che progredisce a poco a poco, anziché come ricezione passiva di un dono divino, Senofane mette in rilievo l’importanza essenziale che ha lo sforzo della volontà umana nel processo dello sviluppo conoscitivo, bisogna cercare per trovare e la ricerca implica la tensione dello sforzo come condizione di ogni scoperta e avanzamento delle conoscenze. Così come l’avevano detto Esiodo (Erga, 287) e Solone (fr., 15), e come tornerà a dire più tardi Epicarmo, seguito da altri autori nei secoli successivi: «A prezzo di lavori gli dèi ci vendono tutti i beni». (Diels, 23, B 36). L’idea del conoscere come un fare si va delineando così con Senofane, ma la prima affermazione esplicita di un orientamento volontaristico in relazione al problema gnoseologico appare con Eraclito. Si sa che per Eraclito la possibilità della conoscenza e della comprensione della verità è condizionata da una comunicazione dell’intelligenza individuale con il logos universale, di cui è parte. Vero è che questa vicissitudine di unione e separazione è stata da Eraclito messa in rapporto anzitutto con cause naturali distinte dall’intervento della volontà, cioè con la successione degli stati di veglia e di sonno». (R. Mondolfo, La comprensione del soggetto umano nell’antichità classica, Firenze 1958, pp. 150-151).

Abbiamo di già accennato all’esistenza, in questi primi anni di diffusione del cristianesimo, di taumaturghi, maghi, maestri di giustizia e altro che predicavano e facevano prodigi sullo stile antico che i farisei avevano, come sappiamo proibito, o cercavano di razionalizzare. Uno di questi fu senz’altro Gesù, o all’interno di una serie di leggende, più o meno attinenti a uno o più di essi, si fuse la leggenda più armonicamente unificata, così come ci è pervenuta, attraverso diverse varianti, nei Vangeli.

Prima di inoltrarci ancora di più nel nostro compito, riguardante la razionalizzazione, attuata dalle nuove gerarchie cristiane, del potente istinto di liberazione implicito nelle più antiche formule comunitarie, di rivelazione gioiosa e clamorosa di una realtà possibile, immediata, di una luce che avrebbe squarciato le tenebre, bisogna dire di più sugli strumenti di avvicinamento. Questi saranno razionali, costituiti come sono da documenti storici, da ipotesi più o meno chiare, da teorie e analisi. Ma non dobbiamo dimenticare quello che sta sullo sfondo, un movimento potentissimo di masse diseredate, afflitte da una crescente segregazione, da miserie cicliche e eccezionali, da carestie e superstizioni, da bisogni che spesso neanche riusciamo ad immaginare. Masse che sentivano pulsioni per noi irrazionali, ma le sentivano come conclusioni di ragionamenti precisi, di analisi tutte appartenenti all’insieme della loro realtà, non come prodotto costruito nei laboratori del sacerdozio dominante. Così Max Scheler: «Il socialista profeta cristiano, quindi, è, per così dire, un profeta di sventure – non è affatto un profeta di felicità come Marx. E ancora in un altro senso esso somiglia ai profeti di sventura del Vecchio Testamento e di epoche tali, in cui l’uomo superiore scorge tendenze elementari verso il deperimento, verso il crollo di una civiltà. I profeti parlavano molto di un “residuo” di uomini pii, che doveva continuare a sussistere anche con il tramonto di Giuda, residuo dal quale doveva nascere il messia. Quest’idea del residuo è qualcosa di più di una rappresentazione soltanto veterotestamentaria. Essa si ripresenta nei migliori, come forma di pensiero sociologica, con una necessità tipica, tutte le volte che una civiltà (Kultur) si destina alla morte. Vivi in disparte, dicevano gli stoici pervasi del sentimento del tramonto del mondo antico. Benedetto si ritirò da Roma a Subiaco, perché nella metropoli si vedeva sistematicamente disturbato nel vivere una vita cristiana e, nel monachesimo, insieme con l’ideale di perfezione cristiana, si conservano anche residui dell’antica civiltà, che il tempo scacciava calpestandoli». (Lo spirito del capitalismo, Napoli 1988, p. 214).

Per capire la realtà di questo movimento bisogna procedere cautamente con i classici strumenti dell’analisi storica, in quanto l’approccio potrebbe rivelarsi non adatto. Poniamo, i Vangeli, sono certamente il prodotto di una serie complessa di rielaborazioni storiche, per cui sono diventati essi stessi quello che Jung definiva la sostanza astorica dei Vangeli, con lo scopo principale di rendere suggestiva la figura del Cristo, non con quello di documentarne la vita e le opere, secondo il nostro modo moderno di fare un lavoro del genere. Scrive Jung: «Tutta la teologia precristiana e “gnostica” del prossimo oriente (con singole radici che si estendono anche molto più lontano) già gli si avvinghia (al Cristo) e a vista d’occhio si condensa in quella figura dogmatica, che in genere non ha più bisogno della storicità. Quindi già in uno stadio molto primitivo scompare Gesù, uomo reale, dietro le emozioni e proiezioni del suo ambiente prossimo e più lontano; egli venne subito e quasi completamente assimilato a quegli psichici “sistemi predisponenti” che lo circondavano, e con ciò trasformato nella loro espressione foggiata secondo l’archetipo. Egli divenne quella figura collettiva, che l’inconscio dei contemporanei attendeva; onde si domanda invano chi e come egli “propriamente” fosse». (La simbolica dello spirito, tr. it., Torino 1959, pp. 231-232). La funzione dei Vangeli anche come referente circoscritto dell’analisi che ci interesserà nelle prossime pagine è teoricamente fondata, a prescindere della fondatezza della persona a cui vengono riferite quelle idee in essi contenute, proprio perché quel movimento di idee si riferiva più o meno a un consenso generale, limitato ad alcuni strati del popolo, questo è logico, ma estraneo a questa o quella singola persona, venendo in questo modo a corrispondere a un’attesa innestata nei sentimenti di salvezza, di liberazione, di vendetta.

Ma, prima di intraprendere questa strada, che si tradurrà in una lunga puntualizzazione degli elementi favorevoli a una condanna delle ricchezze, parallela a un tentativo dotto di razionalizzare questa condanna in un progressivo sistema di giustificazione, dobbiamo accennare alle intenzioni genericamente politiche del cristianesimo, per come si sono sviluppate sommariamente, con particolare attenzione ai movimenti iniziali, all’interno di una continuità che è quella precisa gestione del potere. In questo breve esame emergerà, chiara per la prima volta, l’intenzione strumentale con cui i dirigenti cristiani dei primi tempi, a cominciare da Paolo, si indirizzano verso le masse separate e disprezzate dalla precedente struttura religiosa giudaica.

Il cristianesimo non poteva essere un semplice annuncio di una vita interiore più profonda e vigile. Non aveva, fin dai primi momenti, una esclusiva anima ascetica, né uno spazio mistico al di là di quei contenuti indispensabili come espressione del dilagante misticismo orgiastico delle masse popolari dell’epoca. Se si fosse limitato a ciò, sarebbe rimasto una delle tante sette che pullulavano nell’ambiente medio-orientale tra la fine della repubblica e l’inizio dell’Impero romano. Il gioco delle passioni politiche e dei disordini sociali l’avrebbe in poco tempo travolto. L’azione del cristianesimo, anche alle sue origini, non fu quindi una semplice sovrapposizione di schemi sociali, accettati in maniera superficiale, allo scopo intimo di far veicolare nuove idee religiose. Ma essa si svolse coerentemente, e in modo diretto, nel senso di modificare l’ambiente sociale, e quindi anche i rapporti di potere, adattandolo alle proprie esigenze di sviluppo. Non volle limitarsi a mettere l’uomo in una certa quale relazione con Dio, ma volle scendere nell’ambiente stesso dell’uomo, nell’organizzazione della sua vita terrena. Fin dagli inizi, fu chiara nella speculazione cristiana, l’idea dell’attuazione di una società religiosa, atta a trattenere, radunare e consolidare quello spirito religioso che altrimenti sarebbe andato dissipato. Importante il “nuovo” significato che in ambiente cristiano prende la parola greca ’ekklesÛa (assemblea). Aristotele, per indicare tutti gli uomini che si trovavano sotto un certo regime politico diceva: «Tutti prendono parte all’assemblea». (Politica, 1272, a). E questa è la traduzione corrente accettata dai moderni. Nel Medio Evo, la traduzione corrente era quella di Guglielmo di Moerbecke, la quale diceva: «Tutti gli uomini fanno parte dell’ecclesia». (Cfr. F. Susemihl, Aristotelis Politicorum libri octo cum vetusta translatione Guilelmi de Moerbeka, Leipzig 1872, p. 20). Se ne deduce che la tradizione cristiana aveva finito per ricondurre il termine ecclesìa, al di là della semplice eccezione di tempio di Dio, come si legge ad esempio in Paolo (Prima Lettera ai Corinti, 11, 22), al suo significato politico più vasto che Aristotele aveva indicato.

Però, l’essenza del cristianesimo, fin dagli inizi, fu di natura spirituale, esso presupponeva di realizzare valori che difficilmente possono coesistere con progetti di “modificazione sociale”, sia pure a lungo termine. Da qui un contrasto. Dove l’individuo assume un valore in quanto parte di un tutto rigidamente fissato c’è sempre la minaccia di un inaridimento, di una svalutazione della personalità. Da parte sua, la vita dello spirito non sempre corrisponde alla costituzione di un mondo interiore, della coscienza, dell’individuo. Salvo personalità particolarmente dotate, spesso questa spiritualità annega nel grigiore quotidiano, nei problemi della vita sociale. Precisa Schelling: «In quanto parliamo di provvidenza, si pone una questione, che è necessario che almeno una volta si imponga in questa trattazione, perché la provvidenza divina abbia consentito che una gran parte dell’umanità, come già vediamo e come vedremo anche in seguito, percorresse un cammino minato da siffatte atrocità, mentre preservò, tentò di preservare un piccolo, esiguo popolo. Non vi è risposta per questioni di tal fatta, che l’assoluta libertà di Dio, che non è condizionata da alcuna legge, oppure quell’esclamazione dell’apostolo in un analogo contesto: come sono imperscrutabili i suoi giudizi e incomprensibili le sue vie! Voglio solo sottolineare quanto dovette pagar cara la predilezione, apparentemente di parte, accordatagli dalla provvidenza divina, quel piccolo popolo insignificante rispetto all’intero genere umano. In lui si è realizzato il detto: i primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi; infatti da duemila anni proprio questo popolo è diventato preda degli altri popoli e fino ai giorni nostri viene da loro perseguitato, mentre coloro che un tempo stavano lontani ed erano pagani, coloro che, come dice l’apostolo, si erano dati a Dio nel loro senso pervertito di prostituzione dei loro stessi corpi, mentre, dico, appunto questi ora sono accolti e sono in possesso di tutte le grazie destinate prima a quel popolo, così che veramente Japhet abita nelle capanne di Sem, come profetizzò il secondo padre del genere umano. È stato già accennato, che del resto neppure la particolare provvidenza divina riuscì a preservare il popolo eletto da tutti gli orrori dei pagani. Se noi leggiamo i suoi stessi libri storici, troviamo che la maggior parte di esso furtivamente già nel deserto, apertamente all’epoca dei Giudici e dei Re, non era indenne da nessuno degli abomini che riscontriamo presso i Babilonesi, i Fenici e gli altri popoli contemporanei. Il monoteismo fu legge, il politeismo prassi. Gli Israeliti concepirono per la prima volta un vero e proprio orrore per ogni idolatria quando tornarono dall’esilio babilonese, non, come si è soliti spiegare, perché trovarono un esempio di una religione più pura, di un monoteismo spirituale, ma perché proprio a quell’epoca il processo mitologico aveva perso in genere il suo potere sull’umanità. Il principio della coscienza, dunque, che è oggetto della sconfitta, deve necessariamente opporre resistenza. La sua volontà naturale – la sua volontà, per quel tanto che è lasciato a se stesso – è di restare puro principio =B, ossia cieco, non affetto da spiritualità. Ma poiché non può affatto sfuggire all’azione del dio, è sempre in una certa misura affetto spiritualmente ed =A, non più materia pura, ma affetta spiritualmente, e neppure semplicemente una possibilità paritetica di entrambi, come era anche prima, allorché B era anche ciò che poteva essere A, bensì è ora effettivamente uno spirituale-non spirituale, è effettivamente entrambi, o tale in cui sono aggrovigliati entrambi. Questa non spiritualità aggrovigliata di spiritualità costituisce il concreto. Il principio puramente positivo della materia, che noi certo non vediamo mai, perché esso appunto, per esser visibile, deve già esser affetto da un’interiorità, questa pura positività della materia è dunque ancora sempre + rispetto a ciò che adesso sorge, che può esser – (negativo) solo nella possibilità. Ciò che ora sorge tuttavia è ciò che consiste effettivamente di +. (Ci siano concesse ora queste espressioni, che ciascuno deve conoscere dalle scienze della natura, in cui si tratta di + e –, di elettricità e magnetismo e così via, poiché consideriamo la formazione mitologica esattamente secondo il genere e il modo in cui altrimenti siamo soliti trattare fenomeni e formazioni della natura). Ciò che qui sorge dunque non è più pura materia, sono già formazioni materiali, e perciò possiamo per la prima volta connotare il passaggio che ha qui luogo come passaggio nel concreto in generale, in cui sorge per la prima volta libera pluralità e molteplicità». (Filosofia della mitologia, op. cit., pp. 101-103).

Infine, per il cristianesimo, la necessità di sistemare le condizioni della vita sociale all’interno di un quadro controllato e accettabile, evitando il protrarsi di condizioni di eccezionalità che non potevano non apparire proibitive ai più, lo portava a darsi una salda organizzazione sociale, chiarendo fin dai primi momenti i propri rapporti col potere in carica.

La fine delle condizioni eccezionali era quindi prevista in anticipo, come stabilizzarsi dei rapporti di convivenza col potere, capovolgendosi in una gestione comune, se non direttamente privilegiata. Queste preoccupazioni si inseriscono nella ragione stessa del cristianesimo, nella sua più intima connessione teologica e religiosa. Sono un elemento programmatico della fede, non un incidente lasciato alle decisioni dell’individuo. Ha scritto Rudolf Eucken: «Ma per questo esso [il cristianesimo] deve entrare in amichevole rapporto con la cultura e da essa appropriarsi gli elementi affini, e deve anche estendere la sua azione sulla cultura, certo più per via indiretta che per via diretta, per mezzo cioè della trasformazione di tutto l’essere umano». (La visione della vita nei grandi pensatori, tr. it., Torino 1969, p. 236). La sistemazione di questi due livelli, quello materiale e quello spirituale, che agli inizi sono discordanti, fu quindi resa possibile attraverso la collaborazione con la cultura del mondo antico. Il cristianesimo, in quasi tutte le sue formulazioni storiche, ha sempre attinto prudentemente a questa cultura, traendone tutti i benefici possibili, condannando ed eliminando da sé, ma per quanto gli è stato possibile anche oggettivamente, la parte che non poteva utilizzare.

In questo senso, le notazioni dei Vangeli sono discordanti. Innanzi tutto il passo di Matteo: «E a te darò le chiavi del regno dei cieli; e qualunque cosa avrai legata, sarà legata anche nei cieli; e qualunque cosa avrai sciolta sulla terra, sarà sciolta anche nei cieli». (Matteo, 16, 19). Con il quale si pone, sia pure in modo non chiaro, una possibilità di pienezza di poteri, terreni e spirituali, in forza appunto di una relazione di intima dipendenza tra regno dei cieli e regno terreno. Altri passi dei Vangeli che fanno pensare a una immediata ingerenza nelle cose di questo mondo, e quindi a un tentativo di razionalizzazione sociale sulla base di principi spirituali propri, sono ancora: «Tutto è stato affidato a me dal Padre mio», (Matteo, 11, 27), parole che Cristo usa nel rimproverare le città che non si erano ravvedute, e «Mi è stato dato ogni potere, in cielo ed in terra», (Matteo, 28, 18), parole di Cristo dopo la resurrezione.

È anche significativo il passo che si riscontra in tre evangelisti: Matteo, Marco e Luca. Cito da Matteo: «Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: andate nel villaggio a voi dirimpetto, e subito troverete legata un’asina col suo puledro: scioglietela e conducetela a me; e se alcuno vi dirà qualche cosa, ditegli che il Signore ne ha bisogno, e subito ve la rilascerà». (Matteo, 21, 1-2; Marco, 11, 1-2; Luca 19, 29-30). E il passo che si trova in Matteo e Marco. Cito da Matteo: «Sbarcato che fu all’altra riva, nel paese dei Gerasesi, gli vennero incontro due indemoniati, che uscivano dai sepolcreti, tanto furiosi che nessuno poteva passare per quella via. Ed eccoli gridare: che abbiamo da fare con te, Gesù, Figlio di Dio? Sei venuto qua prima del tempo a tormentarci? Or non lungi da loro v’era a pascolare un gran branco di porci. E i demoni lo pregavano dicendo: se tu ci cacci da qui, mandaci in quel branco di porci: ed ecco, a precipizio tutto il branco gettarsi in mare e perire nell’acqua». (Matteo, 8, 31-32; Marco, 5, 12-13). Molti secoli dopo, proprio commentando questi passi, Marsilio da Padova (Il Difensore della pace, II Discorso, tr. it., Torino 1960, p. 265) sottolinea la possibilità del Cristo di disporre delle cose temporali. Infatti, dispone per sé dell’asina, e distrugge il branco di porci.

Il passo di Luca, relativo alle due spade, è ancora più determinante per dare indicazioni riguardo le intenzioni sociali dei Vangeli. «Ed essi [gli apostoli] dissero: Signore, ecco qui due spade. Ma egli rispose loro: ne avanza». (Luca, 22, 38). Affermazione che lascia intendere l’esistenza di due autorità, quella temporale e quella spirituale, e che tutt’e due stanno bene nelle mani della Chiesa. Infatti, come nota ancora Marsilio (Ib., p. 266), Gesù non li rimproverò per avere ambedue le spade, ma semplicemente confermò il loro possesso. Purtroppo l’interpretazione di questo passo viene a essere ancora più confusa a causa del fatto che la traduzione qui seguita porta l’affermazione, “ne avanza”, assolutamente infelice, perché troppo vicina a quella, “è superfluo”, che Marsilio da Padova poneva in contrapposizione all’affermazione, “bastano”, che costituisce la migliore versione medievale.

In Paolo si legge: «Non sapete che giudicheremo gli Angeli? Quanto più [potremo giudicare] gli affari mondani». (Prima Lettera ai Corinti, 8, 3). Dal quale sembra legittima la deduzione che la dottrina cristiana, nel suo primo prudente riformatore, autorizza a una immediata ingerenza sul mondo, naturalmente in senso modificativo, in armonia con i propri canoni etici e religiosi. Ma, al contrario, nella Lettera ai Romani, Paolo esprime una tesi diversa: «Ogni persona sia sottomessa alle autorità superiori, perché non v’è autorità che non venga da Dio e quelle che esistono sono istituite da Dio; e quindi chi si oppone alle autorità si oppone all’ordine di Dio, e chi si ribella si attirerà la condanna [...]. Se poi fai il male, temi, perché non porta [l’autorità] invano la spada, quale ministra di Dio vendicatrice, che punisce i malfattori. È necessario dunque essere sottomessi, non solo per timore del castigo, ma anche per l’obbligo di coscienza». (13, 1-6). E ancora in Paolo: «Ognuno resti nella condizione in cui era quando fu chiamato. Sei tu chiamato essendo servo? Non te ne preoccupare, anzi, anche potendo diventar libero, scegli piuttosto di servire, perché chi, essendo servo, è stato chiamato nel Signore, è libero del Signore; parimenti chi è stato chiamato essendo libero, è servo di Cristo». (Prima Lettera ai Corinti, 7, 20-24).

La contraddizione esiste, e ne parleremo subito dopo, prima segniamo alcuni passi contrari, proprio dei Vangeli. Secondo la versione di Giovanni, ecco le parole di Cristo a Pilato: «Il mio regno non è di questo mondo: se fosse di questo mondo il mio regno, i miei ministri, certo, lotterebbero perché non fossi dato in mano ai Giudei; ma il regno mio non è di quaggiù». (Giovanni, 18, 36). Completa separazione, in questo testo, e riduzione della posizione di Cristo a fondatore di una religione spirituale e non di un movimento religioso con profondi interessi sociali. Ancora in Giovanni (Ib., 6, 15), si legge: «Ma Gesù accortosi che stavano per venire a rapirlo per farlo re, fuggì di nuovo solo sul monte». Un rifiuto, ancora una volta radicale delle pratiche del dominio terreno. In Luca si legge: «Or uno della folla gli disse: Maestro ordina a mio fratello di spartir meco l’eredità. Ma Gesù gli rispose: uomo, chi mi ha costituito giudice e arbitro tra di voi?». (Ib., 12, 13-14). Un esimersi da motivi di giustizia civile. Notissimo il passo: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». (Matteo, 22, 17). Separazione ancora più palese dei due poteri.

In Teofilo di Antiochia leggiamo: «Il Verbo divino ci comanda di star sottomessi ai magistrati e alle autorità, e di pregare per essi». (Apologia ad Autolico; 1, 2). Nella lettera pervenutaci col titolo Ad Diognetum, si trova: «Essi [i cristiani] abitano ciascuno la propria patria, ma come stranieri, come cittadini partecipano di tutti i doveri e come stranieri tutto sopportano; ogni terra straniera è per essi una patria ed ogni patria è ad essi straniera [...]. Vivono sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e il loro costume importa una perfezione che trascende le leggi [...]. In breve, ciò che è l’anima nel corpo, sono i cristiani nel mondo». (5, 5; 6, 1). Così Tertulliano: «Per la salute degli imperatori noi invochiamo il Dio eterno, il Dio vero, il Dio vivo, il Dio che gli stessi imperatori preferirebbero avere propizio più di tutti gli altri dei»; e più avanti: «... per tutti gli imperatori, una vita lunga, un regno tranquillo, una casa sicura, eserciti forti, un senato fedele, un popolo onesto, un mondo tranquillo, tutto ciò che può essere nei voti di un uomo e di un Cesare». (Apologeticum, 30, 1; 30, 5).

Prima di entrare all’interno di alcune spiegazioni, dobbiamo tenere presente che la maggior parte di questi testi sono di carattere sacro, cioè seguono una logica tutta loro che sarebbe vano spiegare soltanto sulla base di presupposti razionali. In alcuni casi c’è anche il palese motivo apologetico, la difesa nei confronti di possibili persecuzioni. Ma non sono questi i problemi centrali.

Riguardo la dichiarazione che Gesù fece a Pilato, sul fatto che il suo regno non era di questo mondo, Agostino nota: «Egli parlò in questo modo, non perché temesse di ammettere che era un re, ma per poter non negare di essere un re e, insieme, non affermare di essere un re il cui regno fosse creduto di questo mondo». (Catena Aurea, 12, cfr. Marsilio Da Padova, Il Difensore della pace, II Discorso, op. cit., p. 276). Non si tratta quindi di un rifiuto dei problemi inerenti al mondo terreno, piuttosto dell’affermazione che questo interessamento deve avvenire non isolato dagli scopi che intende raggiungere l’indirizzo spirituale. Infatti, Cristo, come dimostra alquanto causidicamente Agostino, non nega apertamente di essere re di questo mondo, ma afferma di essere re di un regno che di questo mondo non è. Ora, tenendo presente che questo mondo resta in linea di dipendenza dal regno celeste, in forza anche della dottrina del comando di origine divina, è lecito dedurre, in armonia con Agostino, che Cristo essendo re del regno celeste è pure re di questo mondo.

Il cristianesimo antico non ha ancora chiaro, tranne forse in Paolo, il progetto completo del dominio. Per il momento ha solo quello dell’intervento regolamentatore nell’ampio quadro, spesso contraddittorio, fornito dalla iniziale dottrina evangelica, per altro necessitante delle immediate, e quasi contestuali, modificazioni paoline. Sul testo di Giovanni, relativo alla fuga di Gesù davanti a coloro che volevano farlo re, nella Glossa interlinearis ad locum, di Pietro Lombardo si legge: «E da questi monti discese per ammaestrare le turbe, insegnando a fuggire la prosperità mondana e a pregare per resistervi». (Migne, P. L., voll. CXCI-CXCII, cfr. Marsilio Da Padova, Il Difensore della pace, II Discorso, op. cit., p. 277). La stessa cosa si trova in Crisostomo: «E il profeta, cioè Cristo, era adesso tra loro, ed essi volevano porlo sul trono di re [...]. Ma Cristo fuggì, insegnandoci a disprezzare gli onori mondani». (Catena Aurea, 12, cfr. Marsilio da Padova, Ib., pp. 277-278). Dai commenti, più che dalla eccessiva stringatezza della frase evangelica, si capisce come Gesù rifiutasse gli onori mondani, quindi anche gli oneri relativi e le implicanze non sempre chiare moralmente, che ne conseguono, ma intervenisse immediatamente su una questione sociale, come quella della condanna della proprietà.

Riguardo al passo di Luca, relativo al rifiuto di Gesù di esprimersi in merito a una questione tra due fratelli, per una eredità, Ambrogio nota: «Colui che era disceso per la cura dei beni divini rifiuta giustamente i beni terreni, e non si degna di essere giudice delle dispute ed arbitro delle ricchezze, poiché ha il diritto di giudicare e di stabilire i meriti dei vivi e dei morti». (Catena Aurea, 12, cfr. Marsilio Da Padova, Ib., p. 278). Penso che qui, riguardo questo passo, il difetto interpretativo sia stato quello di una eccessiva generalizzazione, difetto a cui, dentro certi limiti, non sfugge nemmeno lo stesso Ambrogio. Gesù si è rifiutato di esaminare un caso particolare non perché, in generale, non gli interessassero gli argomenti e i problemi della vita pratica e sociale, altrimenti non avrebbero alcun senso i passi numerosi che a questi sono dedicati nei Vangeli, ma solo perché non intendeva fare, di una generalizzazione di dottrina, l’applicazione a un caso particolare. Questo compito non è quello del legislatore e dello studioso del problema sociale, meno che mai del riformatore religioso, ma quello del giudice.

Riguardo al famoso “Rendete a Cesare”, la vasta letteratura che lo riguarda trova riscontro nell’elaborazione sollecita dei Padri. Crisostomo nota: «Sappi che egli intende parlare solo di quelle cose che non sono nocive per la pietà, poiché se lo fossero il tributo non verrebbe pagato a Cesare ma al demonio». (Catena Aurea, 11, cfr. Marsilio Da Padova, Ib., pp. 279-280). Limitazione che viene solo lievemente mascherata dall’ipotesi che nel caso di un comando contrario alla pietà, la relativa esecuzione non verrebbe fatta a beneficio dell’imperatore, ma del demonio. È importante notare qui la precauzione presa da Crisostomo di fronte all’affermazione troppo recisa dell’evangelista, la quale consente di rilevare che l’azione pratica, cioè l’adesione assoluta, possa modificarsi in funzione di una valutazione etica, una differenza insorta successivamente, la quale rende intollerabile la precedente acquiescenza.

Bernardo da Chiaravalle precisa: «Colui che istituì Cesare non esitò a pagare il tributo a Cesare; e così vi diede un esempio perché agiate anche voi così». (Da moribus et officio episcoporum, Lettera 42, cap. 8, 30, Migne, P. L., CLXXXII, 829, cfr. Marsilio Da Padova, Ib., p. 282). Bernardo riporta, come farà anche Marsilio, il testo evangelico al principio generale dell’istituzione divina del potere terreno. Infatti, Gesù pone verso questo potere una riverenza dovuta ma non costretta. Ancora una volta, quindi, la tesi della dipendenza del potere temporale da quello divino, con implicita ammissione della possibilità di quest’ultimo di agire su quello in senso modificativo, in rapporto ai propri canoni morali. Gesù, come uomo si dispone a pagare un tributo (Matteo, 17, 23-26), come Dio, quindi come base della dottrina cristiana, si riserva il diritto di autorizzare la stessa nomina e la stessa persistenza di quel potere temporale cui egli stesso, come uomo, paga il tributo. La stessa tesi di Bernardo la si trova in Ambrogio: «Egli, [l’imperatore] domanda il tributo, non lo si neghi, i capi della Chiesa pagano il tributo». (Sermo contra Auxentium de basilicis tradendis, 33, Migne, P. L. XVI, 1960-1961, cfr. Marsilio Da Padova, Ib., p. 282).

Man mano che si sviluppano queste presenze letterarie, appare chiaro come nel cristianesimo primitivo sia di già in atto un corpo regolarizzatore, contenente tutti gli elementi che lo realizzeranno nelle estreme conseguenze del potere e perfino della tirannia temporale e spirituale. È ovvio che nei primi passi queste potenzialità sono come oscurate da necessità più impellenti, quali la sopravvivenza dell’organizzazione stessa. Ma, procedendo nei perfezionamenti dell’assetto, si vedono meglio le tendenze. Per il momento ne possiamo identificare due. La prima riguarda i rapporti con il potere in carica, i quali non possono essere diversi da quelli dell’accettazione e del rispetto, pena un’immediata e catastrofica decimazione, una scomparsa prematura dell’istituzione religiosa e dell’organizzazione terrena. La seconda riguarda i rapporti con le masse che cominciano a considerare il cristianesimo come salvezza non solo futura ma anche presente. Contro queste due tendenze, entrambe disgregatrici, sia pure per motivi antitetici, il cristianesimo applicò una stupefacente politica di equilibri e di piccoli compromessi. Questa politica, eminentemente paolina, ha consentito la costruzione della Chiesa cristiana e ha in contraccambio generato uno stimolo verso la conquista del potere e un disprezzo per le necessità e i bisogni della povera gente, quando questi potevano entrare in conflitto con quello stimolo ben presto trasformatosi in progetto e convincimento. Quando Agostino parlerà di “amore di Dio” è proprio nel senso di Paolo che lo fa, come ha precisato John Burnaby: «Siamo pronti a rilevare che, quando Agostino parla dell’amore di Dio (per cui usa indifferentemente le espressioni amor Dei e caritas Dei), il genitivo è sempre oggettivo in mancanza di un avvertimento contrario: egli intende il nostro amore per Dio e non l’amore di Dio per noi. Le parole di Romani, V, 5 (“l’amore di Dio è sparso ampiamente nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è dato”) non costituiscono solo il suo principale argomento scritturale contro il pelagianesimo; questo testo e quello del 73° Salmo (“È bene per me tenermi saldamente a Dio”) rappresentano, insieme, i cardini del suo intero schema di religione. Ma egli intende l’“amore di Dio” in Roman, V, 5 non come l’“amore con il quale Dio ci ama ma quello con il quale egli fa sì che noi lo amiamo” (De spir. et Litt., LVI). Ciò che è ancor più stupefacente, egli dà sempre la stessa interpretazione al genitivo nel “Quis nos separabit a caritate Christi?” di Romani, VIII. Il contesto di entrambi i passaggi nell’Epistola, naturalmente, rende certi che questa esegesi è sbagliata. I genitivi di S. Paolo possono non essere puramente possessivi – essi probabilmente denotano piuttosto la fonte da cui deriva l’amore; ma certamente essi non sono puramente oggettivi ed è un fatto della più grande importanza per l’apprezzamento della sua dottrina che Agostino non esiti mai nell’intenderli così. Come vedremo, l’amore di Dio che è sparso ampiamente nei nostri cuori non è mero affetto umano: in ultima analisi, nel senso più profondo, esso è l’amore proprio di Dio che è nostro per Suo dono. Ma il suo oggetto rimane alla fine Dio e non l’uomo – o piuttosto l’uomo solo in quanto è “in Dio”». (Amor Dei, ns. tr., London 1960, pp. 95-96).

Ben presto si sviluppò una corrente precisa di difensori della Chiesa, scrittori e diffusori delle Apologie del cristianesimo. La prima Apologia di cui si ha notizia è del 124 e porta il nome di Quadrato, un discepolo diretto degli apostoli. Vedremo più avanti, esaminandone alcune nel quadro degli interessi della presente ricerca, come queste Apologie fossero più o meno romanzate, sempre eccessive, addirittura iperboliche. Nel testo citato di Tertulliano (Apologeticum, 30,1; 30,5), il tono stesso delle affermazioni è iperbolico e poco credibile, specialmente per una mentalità moderna. Ma all’epoca questo modo retorico di esprimersi, ribadendo sempre in modo ripetitivo i medesimi concetti, assolveva alla funzione di difesa. Le persecuzioni resero sempre più necessaria questa pratica e, per molti aspetti, fortificarono il senso di chiusura dottrinaria, rigettando l’atteggiamento radicalmente antipolitico del mistico e ogni ricerca di fratellanza comunitaria e di chiusura nei riguardi del mondo esterno fondato sul dominio e sulle strutture politiche ufficiali. Giustamente ha sottolineato Nietzsche: «Il sangue è un cattivo testimone di una verità: il sangue avvelena una dottrina, fino a farla diventare odio». (Frammenti postumi, 1882-1884, tr. it., Opere Complete, Vol. VII, tomo I, parte I, 1982, p. 137). È sempre nel corso di questa difesa che si svilupparono i prestiti nei riguardi del pensiero filosofico greco e romano, considerato però come possessore di verità parziali, mentre il logos restava esclusivo patrimonio della Chiesa cristiana. Conseguenza teorica che non mancherà di sviluppare aspetti negativi in tutto lo svolgimento del cristianesimo storico.

Nello stesso tempo, e anche qui le condizioni di pericolo degli inizi fecero sentire il loro influsso, si pretese dalla massa un comportamento più rigido, una sublimazione di molti di quei desideri che avevano fatto sognare la liberazione e la salvezza in termini forse un po’ troppo terreni e immediati, cosa quest’ultima che poteva disturbare i rapporti e gli equilibri, difficili e complessi, con il potere in carica. Si chiede quindi ai cristiani di anteporre la propria appartenenza alla comunità cristiana a qualsiasi altro valore di fratellanza, in primo luogo la famiglia e l’antica nazione. «Non sono venuto a portare la pace, ma la spada» (Matteo, 10,34), dice espressamente la tesi originaria riferendosi alla famiglia, quindi alla critica contro il padre e la madre. La “nuova” parentela, la “comunità” dei fratelli, doveva essere sentita come più importante. E questo poteva essere accettato dal popolo, dalla povera gente, che si vedeva così chiamata a fare parte di un’unità organica più forte, tenuta insieme da intenzioni di cui era a conoscenza, ma che genericamente faceva risalire a poteri magici, a pratiche mistiche e orgiastiche, di cui gli strati popolari hanno sempre fatto uso, ma più spesso ancora hanno immaginato e desiderato.

L’afflusso raziocinante dei dirigenti cristiani, inflessibili riguardo all’abbandono delle vecchie pratiche magiche, dovette quindi indirizzarsi verso l’irrobustimento dei vincoli di fratellanza religiosa, precisando i rapporti morali che andavano tenuti fra fratelli. Prima di tutto la doppia moralità, tra esterno e interno, di cui abbiamo sperimentato qualche saggio, anche troppo arrischiato, come nel citato passo di Agostino, poi, la reciprocità nelle morale interna, aspetto che doveva avere considerevoli conseguenze economiche, ma che doveva presto incontrare ostacoli nel momento in cui l’iniziale comunità cristiana, che si modellava sul metodo di vita apostolico, affronterà il problema delle grandi masse urbane e della vita nei centri commerciali dell’epoca.

Il comunismo primitivo si può quindi riassumere in pochi precetti fondamentali, ma importanti, sui quali si dibatterà a lungo e che avranno conseguenze traumatiche nel momento in cui si deciderà di affievolirne l’obbligatorietà. Fra questi, l’obbligo di aiuto fraterno nei riguardi di chi si trova in difficoltà, naturalmente limitato ai rapporti interni. Quindi, uso in comune di alcuni beni, prestito gratuito nel caso di possesso di beni particolari. Ma ciò parallelamente a un sentito amore per il fratello, in una concezione del mondo di sofferenza immeritata che bisognava fare di tutto per alleviare. L’etica comunitaria diventava a questo punto lo strumento indiretto di allargamento e propaganda, e anche il sostegno e la giustificazione dei rapporti di equilibrio col potere, in quanto essa si orientava verso una possibile fratellanza universale, al di là delle presenti barriere politiche e sociali. La forzatura dell’episodio di Anania e consorte è, in un certo senso, in contrasto con la spontaneità della fratellanza comunitaria, ma poté avere la sua funzione di ammaestramento coatto. Ecco il passo: «Un uomo di nome Anania con la moglie Saffira vendette un suo podere e, tenuta per sé una parte dell’importo d’accordo con la moglie, consegnò l’altra parte deponendola ai piedi degli apostoli. Ma Pietro gli disse: ‘Ananìa, perché mai satana si è così impossessato del tuo cuore che tu hai mentito allo Spirito Santo e ti sei trattenuto parte del prezzo del terreno? Prima di venderlo, non era forse tua proprietà e, anche venduto, il ricavato non era sempre a tua disposizione? Perché hai pensato in cuor tuo a quest’azione? Tu non hai mentito agli uomini, ma a Dio’. All’udire queste parole, Ananìa cadde a terra e spirò. E un timore grande prese tutti quelli che ascoltavano. Si alzarono allora i più giovani e, avvoltolo in un lenzuolo, lo portarono fuori e lo seppellirono. Avvenne poi che, circa tre ore più tardi, entrò anche sua moglie, ignara dell’accaduto. Pietro le chiese: ‘Dimmi: avete venduto il campo a tal prezzo?’. Ed essa: ‘Sì, a tanto’. Allora Pietro le disse: ‘Perché vi siete accordati per tentare lo Spirito del Signore? Ecco qui alla porta i passi di coloro che hanno seppellito tuo marito e porteranno via anche te’. D’improvviso cadde ai piedi di Pietro e spirò. Quando i giovani entrarono, la trovarono morta e, portatala fuori, la seppellirono accanto a suo marito». (Atti degli Apostoli, V). Agostino approfondirà bene il problema del comportamento virtuoso, non evitando peraltro anche lui di cadere in estremismi comprensibili, vista la situazione in cui si trovava a riflettere. Così ha scritto Joseph Mausbach: «Agostino intende per concupiscenza il piacere e il desiderio, moralmente disordinati e sregolati, delle creature; desiderio che a causa di questa mancanza di regola spinge al male; egli vede la concupiscenza se non esclusivamente, certamente in modo preminente, trovare il suo luogo nella sfera sensibile dell’anima, specialmente nell’ambito sessuale. In sé, osserva Agostino, la concupiscentia può essere compresa in senso buono, si potrebbe parlare di una concupiscentia beatitudinis ma questa terminologia non si trova usata nella Sacra Scrittura. E dal momento che l’apostolo Giovanni (I, 2, 16) parla in senso negativo della concupiscentia carnis e oculorum, quest’uso indicativo ed esemplare è rimasto nell’insegnamento della Chiesa. Abbiamo detto che la concupiscentia carnis, quando si deve parlare di trasmissione del peccato, sta a significare chiaramente il desiderio sessuale ed il piacere (libido). Anche quando ci si accinge alla descrizione dello stato di peccato per Agostino la sfera della sensualità sta in prima linea; mi basta ricordare la frase da lui più volte ripetuta cum qua et ex qua nascimur. Tuttavia ciò che abbiamo osservato a proposito della libido vale anche per la stessa concupiscentia: entrambi i termini non tanto indicano la pulsione sessuale ed il piacere nella loro natura fisiologica e psicologica, quanto il disordine dell’impulso e rispettivamente l’impulso stesso nella sua sregolatezza morale. Tutto quello che è stato creato e che trova la sua collocazione nell’uomo è buono: (Contra Julianum pelagianum, III, 56). Ora dal momento che i sensi nel momento della loro funzione e del loro soddisfacimento provano del piacere, Giuliano può dire a buon diritto che il piacere di tutti gli organi del senso è qualcosa di naturale. Ma, aggiunge Agostino, lo stato normale, o detto diversamente lo stai paradisiaco, era tale da impedire che “il piacere dei sensi corporei” danneggiasse la “totale disponibilità dell’anima e del corpo di fronte ai diritti della virtù”». (Die Ethik des heiligen Augustinus, vol. II, ns. tr., Freiburg 1929, pp. 174-175).

Si capisce bene come queste concezioni comuniste potessero essere utili nei primi tempi alla crescita del cristianesimo e come si rivelassero poi un considerevole ostacolo al suo sviluppo e alla sua ascesa al potere politico temporale. Parallelamente alla giustificazione della ricchezza saranno quindi, d’ora in poi, questi i due canali di primario interesse verso cui s’indirizzerà il dibattito teorico all’interno del cristianesimo primitivo. Ha scritto Max Weber: «Il denaro è la cosa più astratta e “impersonale” che esista nella vita dell’uomo. Di conseguenza, quanto più il mondo della moderna razionale economia capitalista seguiva le sue leggi immanenti, tanto più diventava inaccessibile a qualsiasi ipotetico rapporto con un’etica religiosa di fratellanza». (Sociologia delle religioni, tr. it., vol. I, Torino 1976, p. 593). Di fronte a queste prospettive, quando esse diventeranno operanti, i virtuosi, cioè i mistici, cercheranno individualmente la via dell’isolamento e dell’esclusione e, in grandi movimenti di massa, la via dell’eresia.

Non si può non restare sconcertati dalla sottile abilità di Paolo, nel passo citato della Lettera ai Romani, quando sollecita la sottomissione alle autorità, o quando, nella Prima Lettera ai Corinti, esorta ognuno a restare nella propria condizione sociale. E il problema della schiavitù? e la fratellanza? e la pietà? e l’amore? Il contrasto sembra incolmabile, ma la dialettica di Paolo interviene ad asserire che sostanzialmente non fa alcuna differenza tra l’essere schiavo o libero, in quanto chi è schiavo è libero del Signore e chi è libero è schiavo del Signore: una svalutazione della posizione terrena dell’uomo, nei confronti del suo essere cristiano, quindi del suo trovarsi in un particolare rapporto con Dio. Per lo schiavo sarebbe stata grande gioia essere libero su questa terra, ma ciò l’avrebbe portato a una rottura violenta con un rapporto che non può essere intaccato pena il coinvolgimento negativo del suo privilegiato rapporto con Dio. Comunque verrà il momento in cui la Chiesa avrà meno preoccupazioni nei riguardi del potere, mentre ne avrà sempre nei riguardi dei fedeli, e allora parlerà in modo diverso della possibilità di gestire i rapporti sociali.

Preoccupazione di indole immediata? Senza dubbio, anche. Ma c’è una preoccupazione di fondo, più importante. I grandi fondatori del cristianesimo, in primo luogo Paolo, senza il quale questa religione sarebbe stata un’avventura settaria come tante altre, hanno in primo piano lo scopo di tenere sotto controllo i cristiani stessi, in modo che assumano un comportamento non solo aderente ai precetti della nuova fede, ma anche nei riguardi dell’autorità costituita. Un atteggiamento “attivo” su quest’ultimo punto non avrebbe mancato di avere ripercussioni anche sul primo, come si è verificato immancabilmente tutte le volte che questi due punti si sono staccati per essere sviluppati separatamente, o congiuntamente, da gruppi o da comunità sociali di fedeli. Non esiste eresia teorica che non abbia implicazioni sociali, e non esiste movimento sociale che non rimetta in discussione le tesi religiose di fondo. Paolo sa bene tutto ciò, ed è per questo che invita all’ubbidienza, e pone come fondate da Dio le autorità, perché non può legittimare la rivolta contro di queste e pretendere l’accettazione e l’ubbidienza dal punto di vista religioso. E neanche la cosa contraria, che poi sarebbe la più assurda.

Commentando la tesi di Paolo sull’ubbidienza, Karl Barth ha scritto: «Vi è un incontenibile impulso verso la libertà, in cui, sotto i buoni come sotto i cattivi governanti, qualcosa si agita contro i vincoli anche meglio intenzionati che i molti vogliono imporci [...]. In questa conoscenza del male nell’ordine, del male che consiste in questo, che l’ordine esiste, suole essere generato l’uomo rivoluzionario, l’uomo che pensa di potersi liberare dal male per il fatto che si accinge a combatterlo e a distruggerlo, cioè a sopprimere ciò che esiste, come la personificazione del male, ed a stabilire in sua vece qualche cosa di nuovo, il diritto. Ma appunto l’uomo rivoluzionario [...] deve lasciarsi dire che per il fatto solo che concepisce questo piano, egli si “lascia vincere dal male”».(L’Epistola ai Romani, tr. it., Milano 1962, p. 458). Il grande tema dell’ubbidienza non è però ben progettato in questo modo. In maniera più ampia e significativa Karl Jaspers: «Se si possono considerare come certamente incondizionate quelle azioni che effettivamente oltrepassano l’esserci e lo abbandonano, allora l’incondizionatezza delle azioni che oltrepassano l’esserci senza abbandonarlo, perché lo comprendono e lo realizzano, può solo esser chiarita nelle forme della sua manifestazione che sfuggono ad ogni comprensione concettuale. Queste forme, nella ricchezza delle finalità mondane e delle possibilità dell’esserci, sono incalcolabili. Come azione interiore, l’incondizionatezza è coscienza assoluta, è libertà che si realizza nell’ambito dell’autoriflessione; come azione nel mondo è l’esistenza nella polarità di soggettività e oggettività. Se chiamiamo etica l’azione di questa incondizionatezza, allora c’è in essa un’analogia con l’azione religiosa. La negazione radicale del mondo e l’indifferenza appartengono all’incondizionatezza che si realizza nel mondo come non-volere, senza cui non c’è alcun autentico volere, e come problematizzazione di ogni altra possibilità. Di analogo alla preghiera c’è la contemplazione attiva del filosofare. L’azione etica si realizza in tensione con quella religiosa. La grandezza di ciò che è assolutamente privo di finalità apparterrebbe all’incondizionatezza dell’azione religiosa, mentre l’azione mondana con riferimenti trascendenti e l’azione interiore sono reali solo nell’ambito delle finalità della realtà dell’esserci. Ma l’incondizionatezza dell’azione religiosa non può mantenersi pura. Man mano che nel mondo si rende sensibile il rapporto con Dio, nel tempo l’azione viene determinata da finalità anche empiriche, mentre, nella magia manifesta e in quella occulta, l’azione religiosa perde la propria incondizionatezza e diventa un mezzo per conseguire finalità desiderate per l’impiego a cui si prestano. Dall’altra parte l’incondizionatezza etica dell’azione mondana e dell’azione interiore non resta senza trascendenza, ma tende al Dio occulto. La tendenza di entrambe le incondizionatezze è quella di unificarsi. Ma questo è possibile solo quando una di esse relativizza l’altra. Un’etica specificatamente religiosa fa dipendere le leggi che presiedono le sue azioni direttamente da Dio; l’osservanza di queste leggi controllata dall’esserci di Dio che nel mondo è presente a livello sensibile nella forma di un’autorità; cessa allora l’incondizionatezza etica dell’azione mondana e dell’azione interiore e rimane, al suo posto, una legalità estranea che non ha alcun fondamento in se stessa. L’incondizionatezza dell’azione etica, invece, pur considerando superflua l’azione religiosa, la ammette come un sovrappiù che dipende dal fondamento etico, e che quindi non dispone di una forza propria, ma solo di una consacrazione aggiunta; questa azione religiosa, che ha perduto la propria incondizionatezza, vive solo della realtà della libertà di cui non ne è la legge o l’impulso, ma, al massimo, la conferma. Le due incondizionatezze hanno in comune il fatto che nell’essere temporale non c’è una finalità ultima, e pertanto ogni azione può essere fine a se stessa in un rapporto trascendente. Entrambe vedono nella trascendenza la loro origine e sono rivolte alla loro divinità. La differenza è nel fatto che Dio è in ogni caso occulto e, proprio per questo, esige la libertà dell’esistenza come condizione di ogni verità nel tempo. L’esistenza si conquista nell’oscurità della trascendenza di cui, a livello oggettivo, non conosce né le richieste, né le risposte. L’azione religiosa incondizionata prende le mosse dal rapporto reale che realizza con Dio per portarne a compimento le richieste rivelate. In questo rapporto, l’esistenza rinuncia alla sua libertà personale che è, in un certo senso, umiliata dalla superiorità di Dio. La pienezza che si realizza attraverso la presenza dell’essere superiore non lascia alcun margine al proprio essere. Io ricevo aiuto in ogni necessità, perché sono completamente assorbito in Dio, sono solo un suo strumento, una creatura da lui guidata. A lui mi affido in un rapporto di completa ubbidienza. Tutto ciò è possibile perché considero la trascendenza come una realtà sensibile. Per rarefatte e spirituali che siano le forme con cui la materializzo, sempre la traduco in qualcosa di oggettivo nel mondo, sia che la consideri come una visione interiore in cui Dio mi appare e mi parla, sia che la intenda come l’autorità di un profeta, di una Chiesa o di un prete, sia che la identifichi con il carattere obbligante di una legge scritta o di un libro sacro. Se sulla base storicamente preesistente di una realtà religiosa, l’incondizionatezza dell’azione si realizza autonomamente come azione etica, allora si presenta come azione interiore e come azione nel mondo». (Filosofia, op. cit., pp. 804-806).

Sullo stesso argomento, nella glossa di Pietro Lombardo, condotta in parte sulle parole di Agostino e in parte su quelle di Ambrogio, si legge: «E qui invita all’umiltà. Perché alcuni pensavano che i padroni cattivi e soprattutto quelli infedeli, non dovessero dominare i fedeli; e che se fossero invece buoni e fedeli dovessero essere uguali agli altri buoni e fedeli. Ma l’Apostolo scaccia appunto questa superbia dalla nostra parte superiore, cioè dall’anima, indicando con questa parola tutto l’uomo». (Collectaneae in omnes D. Pauli epistolas, Migne, P. L., CXCI, 1503/d, cfr. Marsilio Da Padova, Il Difensore della pace, II Discorso, op. cit., p. 295). Si vede, tra i due testi citati per ultimi, il filo che collega l’interpretazione cristiana in questo passo, e l’intuizione geniale di Paolo del pericolo che si trovava dietro la messa in libertà degli istinti di ribellione che circolavano nella comunità cristiana.

Una interpretazione più matura, quindi in relazione a tempi sempre primitivi ma più avanzati del cristianesimo delle origini, si ricava leggendo la glossa di Pietro Lombardo per come si sviluppa in rapporto al De natura boni di Agostino: «Chiunque resiste all’autorità, resiste alla volontà divina. E ciò è così grave che coloro che resistono sono dannati. Perciò nessuno deve resistere, e deve invece sottomettersi. Ma se chi detiene il potere ci ordinerà di far qualcosa che non dobbiamo, non si terrà conto giustamente della sua autorità per timore di un’autorità maggiore». (Collectaneae, op. cit., Migne, P. L., CXCI, 1504, cfr. Marsilio Da Padova, Ib., p. 297). Tempi più consolidati danno quindi ad Agostino la possibilità di suggerire una individuazione specifica all’interno delle disposizioni dell’autorità terrena. La comunità cristiana, contrapponendosi a quella laica, può dare ai suoi partecipanti l’autorità di una simile scelta. Ma non siamo ancora al riconoscimento della progettualità religiosa come dominante quella terrena, all’adeguamento di quest’ultima alla prima. In fondo, si resta alla formulazione di Origene che era: «Poiché sono due le leggi fondamentali, quella naturale di cui è autore Dio, e quella scritta, che è formulata nei diversi Stati, quando la legge scritta non è in contrasto con quella di Dio, conviene che i cittadini la osservino e la antepongano alle leggi straniere; ma quando la legge naturale, cioè la legge di Dio, ordina cose contrarie alla legge scritta, bada se la ragione non ti consiglia di lasciare di buon grado le leggi scritte e la volontà dei legislatori e di obbedire unicamente alla legge di Dio». (Contra Celsum, 5, 37). Solo che Origene aveva anche l’implicazione difensiva esterna, che con Agostino si è attenuata. Comunque, l’autonomia cristiana ai tempi di Origene doveva essere sufficientemente larga se troviamo il primo vero rifiuto, non generico ma specifico, della legge laica, quindi dell’autorità dell’imperatore: quello di prendere le armi: «Noi non prenderemo le armi per combattere sotto le insegne, anche se a ciò ci costringesse, ma combattiamo in suo favore innalzando a Dio fervide preghiere presso gli altari della fede». (Ib., 8, 73).

Ma, per affermarsi come forza autonoma nell’ambito del potere temporale, il cristianesimo aveva bisogno di alcuni strumenti che all’epoca, poniamo di Agostino, possedeva soltanto in forma attenuata o non possedeva affatto. Questi strumenti, di cui parleremo in seguito nel loro insieme, erano due di ordine pratico e due di ordine teorico. I primi, di ordine pratico, riguardavano l’autonomia di giurisdizione e la scomunica, cioè l’allontanamento dalla comunità di chi aveva commesso peccati di una certa consistenza; i secondi, di ordine teorico, riguardavano la liceità della ricchezza e quindi l’abolizione dell’imperativo della suprema povertà, e la liceità della costrizione. Ha scritto Martin Heidegger: «Modi del prendersi cura sono anche il privare, il plagiare, il defraudare, il sottrarre, il rubare, cioè il non far fronte a istanze di possesso avanzate da qualcuno. Tale essere in debito è sempre riferito a ciò che è oggetto possibile del prendersi cura. Esser colpevole ha anche il significato di “è colpa mia”, cioè di esser causa, esser autore di qualcosa, o anche “esser occasione” di qualcosa. In questa forma di “aver colpa” di qualcosa si può “esser colpevole” senza “essere in debito” con qualcuno o essergli debitore. E, rovesciando, si può dovere qualcosa a qualcuno senza tuttavia averne colpa (esserne la causa). Un Altro può “aver debiti” presso un terzo “per colpa mia”. Questi significati correnti dell’“esser colpevole” come l’“aver debiti presso” o 1’“aver colpa di”, possono confluire in un comportamento a cui alludiamo con l’espressione “rendersi colpevole”, cioè: essendo colpevole di aver-debiti, calpestare il buon diritto di qualcuno e rendersi così reo. La richiesta a cui non si soddisfa non è necessariamente legata a un possesso, ma può regolare in generale l’essere-assieme pubblico. Il “rendersi colpevole” calpestando il buon diritto, quale abbiamo ora chiarito, può assumere anche la forma di un “aver colpa se gli Altri”. Ciò non accade in virtù di una violazione del diritto come tale, ma per il fatto che è colpa mia se l’Altro, nella sua esistenza, è messo a repentaglio, è indotto in errore, è rovinato. Questo “aver colpa se gli Altri...” è possibile senza violazione della legge “pubblica”. Il concetto formale dell’esser-colpevole nel senso dell’“aver colpa se gli Altri...” può esser determinato così: esser-fondamento di una deficienza nell’Esserci dell’Altro in modo tale che questo “fondamento” stesso si determini, in ragione del suo “perche”, come “difettivo”. Questa deficienza consiste nel non far fronte a un’esigenza proveniente dall’esistere come con-essere con gli Altri. Resterebbe da vedere come nascano queste esigenze e in qual modo – in base alla loro origine – siano da concepirsi i rispettivi caratteri di esigenza e di legge. Comunque, l’esser-colpevole, nell’ultimo significato di violazione di un’“esigenza morale”, è un modo di essere dell’Esserci. Ciò vale certamente anche per l’esser-colpevole come “esser reo”, “aver debiti” e “aver colpa di”. Anche questi sono comportamenti dell’Esserci». (Essere e tempo, tr. it., Torino 1978, pp. 419-420). La trattazione di questi punti attraversa tutta la storia della Chiesa cristiana e sarebbe cosa fuor di luogo pensare di affrontarla qui in esteso. Lo faremo soltanto per il problema della ricchezza, il quale, com’è facile capire, diventa centrale sia per capire gli altri tre strumenti come sono stati elaborati e come sono stati impiegati. In una logica di fratellanza comunitaria, quale era quella delle origini, tutto lo svolgimento storico del cristianesimo, qualora questo non fosse scomparso nelle eccezioni di comportamento che la storia casualmente registra, sarebbe stato molto differente. Diciamo che, grosso modo, il cristianesimo, da posizioni di estrema rigidità riguardo la povertà, specialmente dei capi delle comunità, e quindi degli incaricati delle pratiche di religione, sacerdoti nel linguaggio attuale, passa a posizioni di tolleranza e infine di giustificazione. «Non vogliamo possedere né oro né argento» (Matteo, 10, 9), e ciò si riferisce certamente ai dirigenti religiosi, come sottolineerà più tardi Pietro Lombardo: «Perché se li possedessero, sembrerebbe che non predicassero per il fine della salvezza ma per il guadagno» (Glossa ordinaria, ad locum, cfr. Marsilio Da Padova, Il Difensore della pace, II Discorso, op. cit., p. 373), ma taceva il commentatore il fatto che non c’è un motivo preciso per leggere in Matteo, 10, 9 un riferimento esclusivo ai dirigenti religiosi, invece che a tutti i cristiani in generale.

Necessitò molto tempo perché il termine proprietà acquistasse il significato potestativo di rivendicazione di una cosa acquistata in modo conforme al diritto, cioè, innanzi tutto, in modo regolare dal punto di vista giuridico, quindi in modo documentabile, e infine in piena scienza e coscienza. In sostegno del termine “proprietà” si aggiunse dopo il concetto di “dominio”, per indicare l’azione della volontà e della libertà umane sulla cosa oggetto di proprietà. La codificazione definita di queste, non è un caso che fossero di già diffuse in Agostino, avvenne con Ubertino da Casale (Responsio a Giovanni XXII, cfr. F. Callary, L’idealisme spirituel au XIVe siècle. Etude sur Ubertin de Casale, Lovanio 1911). Le polemiche di Bernardo da Chiaravalle sono ancora di là da venire, come l’imbroglio del Constitutum di Costantino. Questo apocrifo specificava nel modo seguente: “In considerazione del fatto che il nostro potere imperiale è terreno, noi decretiamo che si debba venerare e onorare la nostra santissima Chiesa Romana e che il Sacro Vescovado del santo Pietro debba essere gloriosamente esaltato sopra il nostro Impero e trono terreno. Il vescovo di Roma deve regnare sopra le quattro principali sedi, Antiochia, Alessandria, Costantinopoli e Gerusalemme, e sopra tutte le chiese di Dio nel mondo [...]. Finalmente noi diamo a Silvestro, Papa universale, il nostro palazzo e tutte le province, palazzi e distretti della città di Roma e dell’Italia e delle regioni occidentali”.

Il termine “possesso” indicò lo stesso dominio di cui ho detto a proposito della proprietà, però con la sostituzione della dimostrazione giuridica con il semplice uso. Anche qui le polemiche furono feroci, in particolare da parte francescana. Infatti, questi sostennero che il possesso dei beni da parte della Chiesa, era lecito soltanto se fosse anteposta l’importanza del loro uso al concetto di proprietà che risulta giuridicamente più completo (uso e abuso). Come ha fatto notare Felice Tocco, i francescani negavano la tesi del dominio connesso al possesso, venendo a restringere quest’ultimo al semplice concetto di maneggio corporale e attuale della cosa posseduta. (Cfr. La questione della povertà secondo nuovi documenti, Napoli 1910).

Veniamo alle definizioni dei termini “povero” e “ricco”. Si dice ricco chi possiede lecitamente quantità considerevoli di cose temporali, che prendono appunto il nome di ricchezze, per qualsiasi tempo presente o futuro; oppure se le stesse cose gli siano soltanto sufficienti per qualsiasi tempo presente o futuro. Si dice povero per indicare il contrasto privativo dalla precedente definizione. Ho seguito l’esposizione di Marsilio (cfr. Il Difensore della pace, II Discorso, op. cit., pp. 389-390), in quanto in termini moderni i concetti sono radicalmente differenti. Spesso si sono dannosamente sviluppate inutili polemiche sul concetto di capitalismo antico, faccenda che trovo ridicola. Al momento opportuno ne daremo un breve cenno, fornendo una possibile soluzione che non è di natura pratica, ma teorica. Come si vede, nel contesto definitorio di Marsilio interviene la precisazione giuridica. I Padri avevano lavorato duro, come vedremo, e spesso in modo appassionato per rintuzzare le condanne della ricchezza. Da Erma a Clemente Alessandrino, e poi fino ad Agostino, la possibilità che il ricco trovi la salvezza della sua anima, se utilizza in modo socialmente utile le sue ricchezze, è definitivamente provata. Problemi, per altro, sorgono anche nel caso del povero, che deve costruirsi un abito interiore della mente adatto alla povertà, in quanto come dice Basilio, commentando il relativo passo di Luca (6, 20) “Beati i poveri”: «Non tutti coloro che sono oppressi dalla povertà sono beati, molti che sono poveri di beni, sono infatti avidissimi nel loro animo, e la loro povertà non li salva, ma anzi li condanna la loro cupidigia». (Catena aurea, 12).

Ho scelto di condurre questa indagine sul concetto di ricchezza, dalla sua primitiva condanna alla sua giustificazione, perché ritengo costituisca il punto di riferimento più importante per capire uno dei più grandiosi processi di regolarizzazione mai tentati. Non esiste nulla nell’opera nuova del cristianesimo che non si possa ricondurre facilmente a questo problema di fondo. In primo luogo la sua etica che pretende attingere a un valore universale. Purtroppo, non ci sono studi in grado di fornire un valido apporto a una ricerca del genere. Il motivo è presto detto. Molti ritengono che la dottrina cristiana, per come fu elaborata nel periodo patristico, trovi poi una definitiva, e migliore, sistemazione nel periodo scolastico, per cui tanto vale riferirsi direttamente a quest’ultimo periodo e non considerare quello che accadde nel primo. Ma un altro motivo, anch’esso inibitorio, lo si identifica nell’idea, più che ovvia per una certa concezione della scienza economica, che il pensiero dei Padri è troppo inquinato di intendimenti etici per risultare intelligibile da un punto di vista economico. Quelle poche notazioni, per altro di poca estensione, risulterebbero pertanto prive di significato. Ciò non toglie che l’approfondimento etico possa essere parallelo, non sovrapporsi, alle notazioni politiche, quindi economiche. Riflettere sull’organamento della società in cui si vive è, prima di tutto, un dovere di giustizia verso se stessi e verso gli altri. La possibilità di una vita comunitaria va oltre e travalica la giustizia intesa in termini di mero bilanciamento di diritti e doveri. Scrive Benedetto Croce: «Come l’amore, l’amicizia non ha nulla da vedere col giudizio che si rechi sull’individuo nel suo complesso; non ha da vedere coll’ammirazione intellettuale o etica. Hanno torto del pari coloro che pretendono l’amico irreprensibile e coloro che per amicizia smarriscono o relegano in un canto il giudizio critico e morale. L’amicizia consiste tutta in quel reciproco legame delle anime. E per questo essa è un istituto morale, il cui significato e valore sta nella realtà del disinteresse nell’uno e nell’altro, nel sentirsi sollevati sull’utilitarismo. Onde nell’amicizia, come nell’amore, si trova un rifugio: coll’amico ci si sfoga, ci si confida, si piange e si ride insieme. Solo tra amici si ride davvero, di riso sano. A tutti gli altri uomini dobbiamo giustizia, ma all’amico par che si debba non solo giustizia, quella che gli spetta come ad ogni altro uomo, ma qualcosa di più, per l’appunto l’amicizia. E qui potrebbe sembrare che nell’amicizia ci sia dell’ingiustizia, o, come si dice, della parzialità». (Etica e politica, Bari 1973, pp. 79-80).

Attingere le notazioni economiche dei Padri, al di là dell’involucro etico e religioso che spesso le condiziona, a me sembra problema tecnico di facile soluzione, come ogni ostacolo pratico lo si supera esaminando attentamente i testi e inserendoli nella logica dell’epoca, per poi trarne conclusioni che possono anche tenere conto della logica in base alla quale la ricerca stessa è condotta. Poiché non credo possibile nessuna individuazione di legge storica, né a priori né a posteriori, e poiché sono sempre più convinto che quanto accade nella realtà è sempre presente, leggendosi come continuo ritorno e mai come vera e propria novità, donde quello che fa la differenza può anche essere la ripresentazione del rapporto che si era cercato di superare e di annullare in un sogno razionalista, non mi pongo problemi del genere e sono in grado, nei limiti delle possibilità tecniche, di addentrarmi dovunque, senza preclusioni preventive che solo rappresentano paura e grettezza morale. Così Nicola Abbagnano: «L’esistenza non ha un a priori che la condizioni e che condizioni il rapporto con l’essere in cui essa consiste. Il rapporto con l’essere diventa un rapporto fondato, cioè si consolida sulla base della sua condizione originaria ed ultima solo in virtù dell’atto interpretativo. La condizione originaria ed ultima, non è dunque un a priori che comunque precede l’atto esistenziale, ma è un trascendentale che l’atto esistenziale realizza mercé il ritorno interpretativo alla sostanza». (Introduzione all’esistenzialismo, Torino 1957, p. 71).

Il processo di razionalizzazione realizzato dal cristianesimo nei suoi primi secoli di vita è stato un grandioso movimento di espulsione. Esso ha realizzato l’estromissione della dimensione umana dal problema economico. E ha fatto questo enorme lavoro sostituendo al naturale sentimento comunitario, che unificava qualsiasi aspetto della vita, quindi anche quello economico e quello religioso, un sentimento di settore, in base al quale si potevano verificare condizioni oggettive differenti, senza comunione, o comunicazione, fra loro, e tutte altrettanto valide dal punto di vista religioso, cioè della salvezza dell’anima. Più passano gli anni e più mi rendo conto che questo aspetto, meno visibile, costituisce proprio quello che non ero riuscito a cogliere nelle mie ormai vecchie ricerche sull’argomento, vecchie di più di un quarto di secolo, che comunque tengo presenti anche in questa sede [al momento della revisione finale di questo testo (2001) è ormai mezzo secolo che è passato].

Nel campo economico, il cristianesimo delle origini ha fatto lo stesso lavoro che Machiavelli farà nel campo politico, un lavoro da provetto chirurgo. Una domanda legittima, a questo punto, potrebbe essere: perché non ha fatto il cristianesimo la stessa cosa anche riguardo il rapporto con la politica, cioè col potere? La risposta risiede nelle sfumature che passano tra economia e politica, anche se queste due sfere dell’umana attività sono strettamente congiunte. Mentre l’economia investe direttamente la sfera individuale, in quanto ognuno la vede riflessa nella propria condizione sociale, spesso in maniera quantificabile, la politica investe indirettamente la sfera individuale, in quanto ognuno deve rendersene conto attraverso certe limitazioni e certe conoscenze che potrebbe anche non possedere, senza per questo avvertirne in modo brutale e immediato la mancanza. In una società sviluppata come la nostra questa distinzione tende però a diventare troppo articolata per restare rigida, e ciò nei due sensi, nel senso di una penetrazione politica della minuta realtà economica di tutti i giorni, e viceversa di una economicizzazione delle decisioni politiche. Però, e questo è importante, in una società essenzialmente contadina, com’era quella del cristianesimo primitivo, con la partecipazione di fasce dell’artigianato e del commercio di qualche grossa città, questa distinzione era sufficientemente rigida.

Inoltre, mentre il problema economico, pur interessando anche i rapporti dell’organizzazione cristiana con il potere in carica, era essenzialmente un problema della base di massa, cioè dei fedeli tutti, al contrario, il problema politico, era soltanto, o quasi, una questione di equilibri con i governanti, equilibri che potevano essere inquietati anche dal comportamento della base, ma fino a un certo punto, in quanto si provvedeva a bloccarli attraverso una esatta indicazione di obblighi e permessi, sanzionata moralmente e quindi governata dalla norma religiosa.

Infine, la cosa più urgente per i dirigenti cristiani dell’inizio, e quindi l’ostacolo principale alla messa in moto del processo di razionalizzazione, era l’allontanamento delle masse di fedeli da quelle pratiche comunitarie e di esaltazione mistica e orgiastica che proprio nei primi tempi costituivano in sostanza il tessuto privilegiato di reclutamento. E la condanna dell’ideale di povertà mistico, come tutti gli ideali virtuosi paralleli, ad esempio quello della via individuale verso la fede, come quello del ricorso a pratiche magiche di supporto alla fondamentale fede cristiana, e tutto il resto che, come comportamenti considerati irrazionali, navigava nell’ambito comunitario, aveva lo scopo di isolare i fedeli all’interno di un unico e centralizzato progetto di regolamentazione.

Ogni tentativo successivo di fare rientrare l’etica nell’economia, mantenendo le condizioni di una società divisa in classi, antagonizzata dalla presenza di un’economia diretta allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e della natura al di là di ogni limite e immaginazione, non è stato altro che un modo signorile per rinsaldare la divisione, affermando nello stesso tempo la sua ineluttabilità e la necessità di porvi rimedio con opportuni aggiustamenti riformisti, destinati a far restare le condizioni dello sfruttamento come prima, mitigandone soltanto le conseguenze peggiori. Le teorie del liberalismo economico, su cui si basa si può dire tutto il primo sviluppo della moderna economia politica, si rifanno a una oggettivazione delle leggi economiche, considerando però un mondo, come quello messo sotto osservazione negli ultimi tre secoli, all’interno del quale è di già operante la sterilizzazione preventiva di qualsiasi stimolo di natura comunitaria. Solo a questa condizione quelle teorie a partire da Dupont de Nemours, da Quesnay e da Turgot vennero definite espressione dell’ordine naturale delle cose. Un ordine naturale reso tale dall’intervento razionalizzante di sedici secoli di cristianesimo.

Come vedremo, anche il secolo dei filosofi e dei lumi fornì il suo apporto di razionalizzazione, e come poteva non farlo, visto che fu appunto il secolo della ragione, e su questo livello fondamentale cristianesimo e ateismo meccanicistico si danno la mano attraverso il tempo, dimostrando ancora una volta che tra posizioni teoriche antitetiche non c’è sostanziale differenza quando esse non pescano sul fondo della realtà umana, sul movimento generale delle popolazioni. Autonomia, rigore scientifico, astrazione, neutralità della scienza, sono tutti elementi non stranamente concordanti con il cattolicesimo tomistico, anch’esso razionalista, anch’esso aristotelico. I borghesi benpensanti che si dedicavano a ricerche di politica economica si chiedevano come mai si dovesse assistere al flagello della mano d’opera infantile decimata nelle fabbriche, ai contratti di massa sottoscritti da orfanotrofi e industrie, e a tante altre sconcezze del genere, e avanzavano dubbi sulla fondatezza del formalismo economico che tanto spesso veniva, e viene, identificato nell’asettica immagine dell’homo oeconomicus. Una nota di meraviglia si coglie poniamo in Jean Charles de Sismondi per questo genere di astrazioni. Una simile concezione, egli dice, «fa perdere di vista la terra, cioè la concretezza dell’uomo». (Nouveaux principes d’économie politique ou de la richesse dans ses rapport avec la population, ns. tr., Paris 1819, p. 57).

Si può dire che non ci sia autore, per quanto legato ai principi dell’ordine “naturale” dell’economia, che non si lasci scappare qualche accenno alla presenza di movimenti non strettamente economici che potrebbero incidere sulla decisione stessa e quindi sulla validità dell’analisi. Sia pure nel senso di perplessità di ordine metodologico, qua e là affiorano testimonianze di una sorta di insufficienza morale della scienza economica. Uno degli economisti più rigidi nel sostenere la naturalità delle leggi economiche scriveva: «L’economia politica ragiona dunque partendo da assunte premesse, da premesse che ben potrebbero essere senza alcun fondamento nel fatto e che non si pretendono universalmente armonizzare col fatto. Le conclusioni dell’economia politica, per conseguenza, come quelle della geometria, sono vere soltanto in astratto». (J. Stuart Mill, Saggi sopra alcune questioni non ancora risolute di economia politica, tr. it., Torino 1878, p. 689). Eppure, anche questo economista finisce per fare qualche concessione: «Ella [l’economia] predice soltanto quelli tra i fenomeni dello stato sociale che accadono in conseguenza della ricerca di ricchezza. Fa intera astrazione di ogni passione o motivo umano, salvo quelle sole passioni e quei solo motivi che possono riguardarsi come princìpi perpetuamente antagonistici al desiderio di ricchezza, vale a dire l’avversione al lavoro e il desiderio del presente godimento di costosi piaceri». (Sulla definizione dell’economia politica e sul metodo di investigazione ad essa conveniente, tr. it., Torino 1878, pp. 774-775). In parole più adeguate, all’alto funzionario della Compagnia delle Indie era venuto in mente che esistono elementi di disturbo delle cosiddette leggi naturali, e fra questi le passioni del desiderio attuale di godimento e di piacere, esattamente quegli stessi limiti che la religione aveva, sedici secoli prima, cominciato ad allontanare dal calcolo economico, senza forse mai riuscirci del tutto.

Anche i teorici dell’equilibrio si rendono conto dell’esistenza di aspetti che l’elaborazione matematica non può cogliere. Difatti Vilfredo Pareto scrive: «La scienza di cui intraprendiamo lo studio è una scienza naturale come la psicologia, la fisiologia, la chimica, ecc. Come tale, non ha da darci precetti; studia dapprima le proprietà naturali di certe cose e risolve poi dei problemi che consistono nel chiedersi: “date certe premesse, quali saranno le conseguenze?”». (Corso di Economia Politica, tr. it., Torino 1961, pp. 9-10). Eppure, anche il marchese Pareto finisce per rendersi conto della necessità di un orizzonte più ampio da prendere in considerazione, pur restando nell’ambito dei presupposti meccanicistici della teoria dell’equilibrio. Infatti, nel Discorso tenuto a Losanna nel 1917, durante le feste in suo onore, giustificò in questo senso il suo passaggio definitivo alla sociologia, pur non riuscendo del tutto a eliminare l’idea deterministica che gli proveniva dal modello delle scienze naturali, in primo luogo dalla meccanica.

Anche in tempi più recenti, i continuatori del pensiero liberale inglese sembrano afflitti dalla stessa dicotomia, forse in modo ancora più evidente. Ha scritto Lionel Robbins: «L’Economia è completamente neutrale fra gli scopi... il conseguimento di qualsiasi scopo, in quanto dipenda da mezzi scarsi, è attinente alle preoccupazione dell’economista». (Saggio sulla natura e l’importanza della scienza economica, tr. it., Torino 1953, p. 31). Ma, più avanti, nello stesso lavoro, scrive: «E ciò non implica né punto né poco che gli economisti non dovrebbero pronunciarsi su questioni etiche, come l’argomento che la botanica non è l’estetica non vuol dire che i botanici non debbano avere opinioni proprie sull’ordinamento dei giardini. Al contrario, è molto desiderabile che gli economisti abbiano speculato in lungo e in largo su questi argomenti, perché soltanto così essi saranno in grado di apprezzare quali conseguenze implichino quei dati scopi cui mirano i problemi dei quali si chiede loro la soluzione». (Ib., p. 183).

Fra gli economisti legati alla concezione naturale delle leggi economiche, il passaggio dalla vecchia ipotesi razionalizzante alla nuova si ha con Claude-Henri de Saint-Simon. Egli scrive: «Esiste una classe di interessi sentiti da tutti gli uomini, gli interessi che si riferiscono alla conservazione della vita e al benessere. Questa classe d’interessi è la sola sulla quale tutti gli individui si comprendono e debbono mettersi d’accordo, su cui debbono deliberare, agire in comune, e perciò la sola che possa servire di campo d’azione alla politica, [essa è] la scienza della produzione, ossia la scienza che ha come scopo l’ordine di cose più favorevole a tutti i tipi di produzione». (L’industria o discussioni politiche, morali e filosofiche nell’interesse di tutti gli uomini che si dedicano a lavori utili e indipendenti, tr. it., in Opere, Torino 1975, p. 296). Questo problema, attraverso l’elaborazione prima di Saint-Simon, precursore di un certo socialismo, poi attraverso quella del marxismo e la critica corrosiva proudhoniana, si aprirà ad altre soluzioni, che in questa sede ci interessano meno.

Il passaggio verso contemperamenti dell’iniziale politica liberale inglese, coincidente con la fine dell’era vittoriana, viene segnato da perplessità maggiori negli economisti britannici e nei seguaci del principio naturale della legge economica. Di già Alfred Marshall all’inizio del suo manuale (Princìpi di economia, tr. it., Torino 1959, p. 4) sembra deciso ad ammettere un legame tra economia ed etica. Poi, nello sviluppo del ragionamento questo problema iniziale si affievolisce. Egli scrive: «La ricchezza viene divisa usualmente in beni necessari, beni di comodo e beni di lusso: la prima categoria comprende tutte le cose richieste per far fronte ai bisogni che devono essere soddisfatti, mentre le altre due consistono in quelle cose che fanno fronte a bisogni di carattere meno urgente. Ma anche qui si presenta un’ambiguità imbarazzante: quando diciamo che un bisogno deve venire soddisfatto, a quali conseguenze pensiamo, se esso non viene soddisfatto? Comprendono esse la morte? O si limitano soltanto a una perdita di forza e di vigore? In altre parole, il necessario è soltanto quello indispensabile all’esistenza, o quello che è indispensabile per l’efficienza?». (Ib. pp. 66-67). Qui, l’economia liberale inglese sta cercando una strada verso quell’assistenzialismo che sarà la conclusione keynesiana, ma ci vorranno ancora almeno una grande guerra e una crisi tremenda della produzione americana. Per il momento il discorso si mantiene sulle generali, avvertendo però la necessità di una razionalizzazione sostitutiva a quella a suo tempo trovata dal cristianesimo primitivo.

Stretto dall’obbligo di tenere staccata ogni considerazione umana, se non etica, delle condizioni reali di produzione del capitalismo, Marshall dà al suo discorso una conclusione che, dal punto di vista normativo, cioè come capacità regolamentatrice, resta molto al di sotto di quello patristico. «... il reddito di qualsiasi categoria produttiva è inferiore al livello del necessario, ogni qual volta un aumento del reddito stesso determinerà, dopo un certo tempo, un aumento più che proporzionale dell’efficienza (produttività)». (Ib., p. 68). Da cui risulta evidente che in questo modo la valutazione si rende possibile solo a posteriori, dopo alcuni tentativi che hanno certo bisogno di un tempo per manifestare i loro effetti, e solo quando essa venga condotta sistematicamente su vaste categorie di lavoratori.

Il dibattito è sempre stato intenso all’interno delle correnti cattoliche del pensiero economico. Qui, difatti, lo stimolo veniva dalla considerazione che l’arretratezza economica dei Paesi cattolici, se poteva avere molte spiegazioni in termini di processo storico e politico all’interno dei singoli Stati, poteva anche essere vista come ritardo nella razionalizzazione dei rapporti morali, o incapacità, superficialità o debolezza della Chiesa cattolica nel regolarizzare processi morali che le Chiese riformate avevano efficacemente affrontato. Non solo il calvinismo che, com’era di già definitivamente chiarito alla fine del secolo scorso, aveva costituito un potente impulso per lo sviluppo dell’industria, ma anche le Chiese riformate minori, come i quaccheri e i mennoniti, come i pietisti, potevano indicare questo duplice processo di riduzione all’ordine, che non era avvenuto nel cattolicesimo. Max Weber spiega questo successo del protestantesimo con un movente apparentemente semplice: «Il valutare l’adempimento del proprio dovere, nelle professioni mondane, come il più alto contenuto che potesse assumere l’attività etica. Tutto questo, per conseguenza inevitabile, contribuì a dare un significato religioso al lavoro quotidiano e creò, in questo senso, il concetto di professione. Trova dunque espressione nel concetto di Beruf quel dogma centrale di tutte le denominazioni protestanti, che rigetta la distinzione cattolica dei comandamenti etici del cristianesimo in praecepta e consilia, e che riconosce come solo mezzo per vivere in maniera grata a Dio, non il superamento tramite l’ascesi della morale di chi vive nel mondo, ma esclusivamente l’adempimento dei propri doveri mondani, quali essi risultano dalla posizione di ciascuno nella vita, funzione che con ciò appunto diventa la sua “vocazione” (Beruf)». (Sociologia delle religioni, op. cit., vol. I, pp. 163-164).

È chiaro che questa razionalizzazione riformistica era stata possibile perché di già l’antico cristianesimo aveva ridotto la portata dei movimenti di massa che si richiamavano a una diversa concezione della vita, quindi ne aveva snaturato il significato trasformativo, costringendolo a esprimersi nei modi marginali e contraddittori delle eresie, ormai pronto a essere ulteriormente razionalizzato. L’ascesi veniva così inchiodata nel posto in cui si trovava, riconfermando le direttive paoline, perché è là che si è liberi in Dio se schiavi, e schiavi in Dio se liberi, col risultato di non fare differenza più tra schiavitù e libertà, almeno nelle intenzioni dei Padri della Chiesa, mentre nella pratica quotidiana la gente continuerà per secoli a fare le debite e concrete differenze. La dimensione umana trova con il calvinismo la definitiva espulsione dal problema economico, e il capitalismo, da parte sua, troverà il terreno ideale per il suo sviluppo.

Nel pensiero dell’economista cattolico Luigi Einaudi, il problema ha aspetti contraddittori, che comunque concludono per un’accettazione dell’ipotesi etica all’interno delle scelte economiche. Einaudi riprendeva la tesi di Giuseppe Toniolo, che nella Prolusione alle lezioni tenute a Padova nel 1873 parlava proprio dell’elemento etico quale fattore intrinseco delle leggi economiche. Il continuatore cattolico di Toniolo è stato però Francesco Vito, il quale ha sviluppato questa tesi nell’articolo: “Morale et économie” (in “Revue d’Economie politique”, Parigi 1937). In un altro lavoro, sempre sullo stesso argomento, scriveva: «... l’economia non solo come attività, ma anche come pensiero, riceve il suo impulso dai princìpi morali». (“Pensiero economico, attività economica e ordine morale”, in “Rivista Internazionale di scienze sociali”, 1956, p. 396).

Naturalmente nessuno è stato lontano dal problema effettivo quanto gli economisti cattolici, duplicemente incapaci di riprodurre l’antica razionalizzazione, consolidatasi nella dottrina della rassegnazione terrena e nell’accettazione del potere politico come lo manda Dio, da cui poche obiezioni furono fatte al dilagare del fascismo, e quindi al massimo in grado di richiamare la categoria etica come elemento di semplice consolidamento di una linea regolativa ormai applicata da secoli da parte della Chiesa. Con tutti i loro discorsi paternalisti, essi non attingono neanche a un rigetto delle ipotesi di astrazione, come avrebbero dovuto essere condotte fino alle loro estreme conseguenze, mal attagliandosi la matematica alle condizioni di sfruttamento o di povertà nel senso più ampio del termine. Invece rimasero nel loro provincialismo e nella sudditanza teorica, annacquando, specie nella continuazione del pensiero di Vito come è stata sviluppata da Francesco Parrillo, le ultime possibilità dell’economia liberale, il mito delle leggi di natura. Se l’economia, come è stato giustamente detto, è una scienza della banalità, costoro ne costituiscono l’ultima spiaggia.

Ha scritto Alain Caillé: «Se i prezzi esprimono funzionalmente, sintatticamente, l’offerta e la domanda (unico assioma comune a tutte le teorie economiche), che cosa esprimono a loro volta l’offerta e la domanda? Non esprimono altro che un certo modo di ripartire le risorse e le ricchezze. La questione iniziale propriamente empirica diventa allora: qual è la ripartizione giusta e razionale? O ancora, come definire un sistema di prezzi giusto e razionale, giusto perché razionale o viceversa?». (“Il crepuscolo di una scienza”, in “Volontà”, n. 1-2, 1990, p. 93). A questo punto torna utile riflettere sui primi tentativi di razionalizzazione all’interno del cristianesimo antico.

Bisogna comunque dire subito che quasi tutti gli storici del pensiero e dell’analisi economica si sono allontanati da una ricerca sul periodo patristico in quanto, a dire loro «... ad esclusione di qualche piccolo cenno, nei testi del cristianesimo antico non è possibile ritrovare nessuna testimonianza valida per la ricerca sociale e politica». (C. Guignebert, Tertullien, étude sur ses sentiments à l’égard de l’Empire et de la société civile, ns. tr., Paris 1901, p. 21). Negativa l’indicazione di Schumpeter: «Potrebbe sembrare che il movimento cristiano, in quanto mirante a riforme sociali, avrebbe dovuto necessariamente generare un lavoro di analisi, così per esempio, il movimento socialista ha generato un siffatto lavoro ai nostri tempi. Eppure nulla troviamo... ». (Storia dell’analisi economica, vol. I, op. cit., p. 89). Il fatto, sottolineato, che il movimento socialista abbia oggi generato un grosso lavoro analitico, non è certo dipendente dall’essere questo movimento diretto ad alleviare la posizione economica degli oppressi, ma direi è da porsi in relazione all’attuale condizione della tecnica economica, la quale assume forma espressiva analitica. All’epoca dei Padri, le notazioni di ordine economico, inserendosi in una corrente generale del pensiero non analitica e non specializzata, ma totalizzante e speculativa, finivano per avere formulazioni diverse. Questa banale considerazione impedisce spesso la comprensione diretta dei testi che vengono accantonati per la loro apparente superficialità, mentre sono anche più consistenti e realistici di molte formulazioni econometriche contemporanee afflitte dalla più agghiacciante banalità camuffata sotto pretenziose vesti matematiche.

Anche Amintore Fanfani, che pure avrebbe avuto motivi tutti suoi, differenti dai nostri, per entrare in argomento, se ne mantiene ai margini: «Non sarebbe facile sebbene sia possibile, ricostruire il pensiero dei teorici cristiani del primo millennio. Una simile ricostruzione rivelerebbe la costante preoccupazione di ottenere che il mondo economico serva e non ostacoli il mondo morale». (Storia delle dottrine economiche, Milano 1942, vol. I, Il volontarismo, p. 83). Non si può affermare una cosa tanto superficiale, che chiaramente sa di presunzione anche da lontano. Infatti, da questo punto di vista è più corretto Eric Roll quando afferma che la Chiesa di questo periodo condannava talvolta le pratiche economiche dirette allo sfruttamento, mentre talaltra finiva per giustificare le ineguali condizioni di vita a cui Dio aveva sottoposto gli uomini. (Cfr. Storia del pensiero economico, tr. it., Torino 1962, p. 44). Il che, anche se giudizio raffazzonato, è certo più accettabile, indicando una duplicità di comportamento che però andrebbe misurata nei fatti e nelle condizioni politiche che la suggerirono ai Padri.

Una Patristica sotto la totale influenza del mondo romano e delle sue istituzioni viene esposta da George H. Sabine, che indica un ulteriore dualismo tra “lealtà o meno al governo”. (Cfr. Storia delle dottrine politiche, op. cit., pp. 157-162). Sono i temi di Seneca che si ripresentano, afferma Sabine, sebbene con più approfondita autocoscienza dei limiti e dell’importanza del dominio morale. Si tratta di una interessante considerazione, in quanto ci permette di vedere una parte dell’eredità al lavoro e di stabilire anche alcune differenze con l’evoluzione del problema nella filosofia Scolastica.

Un’altra proposta interpretativa è quella indicata da Max Weber nel rapporto tra cristianesimo antico e processo di razionalizzazione intellettuale svolto al suo interno. Breve cenno, ma molto produttivo, almeno secondo la presente ricerca e gli scopi che vuole raggiungere. Egli scrive: «La fede nell’assurdo, che segna il suo trionfo già nei discorsi di Gesù – per cui ai fanciulli e agli infanti, non ai sapienti, è donato il carisma della fede – spiega la straordinaria tensione tra questa religione e l’intellettualismo, che tuttavia essa cerca sempre di impegnare ai propri fini». (Economia e Società, tr. it., Milano 1961, p. 559). Non sembra visibile, per quello che possiamo capire, all’interno del cristianesimo primitivo un rifiuto coerente dell’intellettualismo, questo senza alcun dubbio c’è, ma viene su come espressione del movimento complessivo di tutti coloro che aspettavano la salvezza, la redenzione, e quindi si concretizza nell’idea di qualche rappresentante colto in grado di dare a questa tendenza una dignità letteraria, ma queste espressioni sono quasi sempre rintuzzate con facilità ed emarginate, non costituendo un vero e proprio corpo dottrinario irrazionale e antillettualistico. Diversa è la sorte che avranno le componenti di virtuosi, dichiaratamente mistiche, la quale andranno per la loro strada, ma come corpi estranei al cristianesimo primitivo, almeno non subito ma dentro i primi due secoli, cioè più o meno quanto dovette durare il processo di ordinamento e di razionalizzazione.


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Vediamo i Vangeli. A giudizio unanime, il Discorso della Montagna è il punto della predicazione di Cristo che stabilisce la sua prospettiva sociale. Un vero e proprio statuto che indica le condizioni di ingresso al regno di Dio. (Cfr. L. Mumford, La condizione dell’uomo, tr. it., Milano 1957, p. 68). La più importante beatitudine è quella dei poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Questa versione è quella di Matteo (10, 9), mentre in Luca (6, 25) le parole “in spirito” sono assenti, contribuendo a dare al termine “poveri” un’assolutezza che emerge con rara efficacia all’interno del tono generale di tutto il discorso. In qualsiasi modo si consideri il problema, qui la condanna delle ricchezze è totale. Infatti, come ha notato Gino Barbieri con acume, anche nell’ipotesi di Matteo, il ragionamento è forse più radicale ancora. «La povertà [...] riguarda, in questo senso, tanto i poveri quanto i ricchi, ma non è per questo, una povertà meno effettiva. La povertà dello spirito, come lo spirito di povertà, investe la ricchezza nella sua stessa sorgente, nel giudizio di valore che viene ad essa applicato dalla persona, e l’espressione “poveri in spirito” anziché restringere, dona al concetto di povertà un significato più ampio». (Fonti per la Storia delle Dottrine Economiche, op. cit., p. 65).

Purtroppo, questa duplice considerazione, anche se, come dice Giorgio Barbero, non diminuisce il senso di rigetto delle ricchezze di cui è permeato il Discorso della Montagna, consente di fissare una sorta di limite all’indeterminatezza psicologica e morale del rifiuto assoluto, ed è proprio su questo limite che la razionalizzazione etica interverrà per sostenere l’idea di una ricchezza produttiva contrapposta a una ricchezza passiva. Su questa linea, un altro passo: «Non vogliate accumulare tesori sulla terra, dove la ruggine e la tignola consumano e i ladri dissotterrano e rubano; ma fatevi dei tesori nel cielo». (Matteo, 6, 19-21). Tesi che non deve sembrare in contrasto con quella di restare nella propria situazione, in quanto il rigetto dei progetti accumulativi è coerente. Sempre in Matteo leggiamo: «... non siate molto solleciti per la vita vostra, di quel che mangerete, né per il vostro corpo, di che vi vestirete. La vita non vale più del cibo, e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli dell’aria: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il vostro Padre celeste li nutre [...]. E perché darsi tanta pena del vestito? Guardate come crescono i gigli del campo: non faticano, né filano; eppure vi assicuro che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu mai vestito come uno di loro». (Matteo, 6, 25-29).

In Giacomo, l’autorevolissimo apostolo, troviamo una tremenda invettiva contro la ricchezza: «Orsù ricchi, piangete, urlate per le miserie che verranno sopra di voi. Le vostre ricchezze sono imputridite, le vostre vesti sono rose dalle tignole. Il vostro oro e il vostro argento sono arrugginiti, e la loro ruggine sarà testimonianza contro di voi, e come fuoco divorerà le vostre carni. Vi accumulate un tesoro d’ira per gli ultimi giorni. Ecco, la mercede degli operai che han mietuto i vostri campi, e che è stata frodata da voi, alza le grida, e le grida son giunte agli orecchi del Signore degli eserciti». (Giacomo, Lettera, 5, 1-5). Altro che lealtà negli affari. Qui il tono è quello della profezia biblica, l’appello non è al Dio misericordioso, ma al Dio vendicatore. L’incitamento è tutta una minaccia e una sovversione. Il rapporto tra datore di lavoro e lavoratori non è impostato come eventualità di frode, è dato come frode, esso stesso in quanto rapporto. D’altro canto, nell’animo pratico di Giacomo, che veniva da esperienze personali, da quale altra fonte poteva derivare la ricchezza? Qui è in nuce il fondamento stesso della proprietà come furto, il medesimo concetto di Proudhon, che non va inteso nel senso che l’origine della proprietà è dovuta alla sottrazione della stessa a qualcuno, ma va inteso nel senso dello sfruttamento della forza degli operai impiegati, compresa la capacità collettiva del loro lavoro. Una giusta mercede, secondo Giacomo, impedirebbe alla radice l’accumulazione delle ricchezze, che sta lì a testimoniare il furto e a sollevare l’ira vendicativa di Dio.

Tutte le considerazioni che verranno fatte all’interno del pensiero dei Padri saranno dirette a spostare questa preclusione evangelica assoluta. Vi saranno ancora delle posizioni di condanna della ricchezza, ma saranno in massima parte, a partire dal lavoro revisionista di Paolo, posizioni di difesa della ricchezza. D’altro canto, il problema non era risolvibile diversamente, come abbiamo detto, pena la disgregazione organizzativa e temporale della Chiesa cristiana. La consistenza e l’esaltazione comunitaria dei primi tempi dovette frenare molto l’attività giustificativa, che prenderà il via solo più tardi in forma più pesante e decisiva. Per il momento, cioè nella situazione in cui si pone al lavoro Paolo, l’equa distribuzione delle fortune sembra un problema che non può essere risolto in modo diverso dalla gestione comunitaria. Rinuncia al denaro, all’arricchimento, e sostituzione di questo obiettivo individuale di falsa soddisfazione con i rapporti comunitari. In un certo senso, sebbene non soddisfacente del tutto, interessante la posizione di Karl Jaspers: «Resistenza del proprio esserci. Nell’angoscia si nasconde la forza del proprio esserci; come oscura e arbitraria volontà d’esser così come sono, senza fondamento e senza comunicazione, essa è presente in ogni esserci come sua proprietà vitale. Da lì nasce l’interesse per il bene materiale, per il prestigio, per il piacere che può persino isolare dal prossimo. Questo proprio esserci, che è al di fuori di ogni comunicazione, fonda l’esserci empirico di ogni uomo. In casi di conflitto prende le opportune distanze: può rimaner nascosto nelle situazioni felici, senza peraltro sfuggire a chi, attento, lo sospetta e lo teme nelle parole e nelle azioni. Per quanto riduca le sue pretese e si sacrifichi, ci sono dei conflitti estremi in cui l’egoismo del proprio esserci compare inevitabilmente, almeno per quel tanto che l’uomo vuol vivere. Rinunciarvi significa rinunciare alla propria vita. Ad esempio, l’atteggiamento che assumo nei confronti del denaro può essere un’espressione dell’affermazione egoista del proprio esserci. Non è vero che il denaro è indifferente o non ha alcuna importanza. Infatti l’atteggiamento che si assume nei suoi confronti, se in relazione alla quantità disponibile non è rilevante o quanto meno non è decisivo, è comunque rivelativo della situazione. Le cose vanno diversamente quando si tratta di quantità che per l’individuo assumono un’importanza decisiva o per lo meno rilevante in ordine alla sua sussistenza. Il rendersi chiaramente conto della propria situazione concreta conduce l’uomo sincero a quei limiti in cui percepisce, in sé e nell’altro, l’egoismo del proprio esserci, la sua misura e il suo genere. Sia in me, sia nell’altro, sempre mi imbatto nella resistenza del proprio esserci, che è tanto più rigida quanto più l’esserci non sottostà alle condizioni dell’esistenza, ma sussiste aproblematicamente per sé. Se, partendo dall’esistenza possibile decidessi di non voler più quest’esserci, dimenticherei che l’esistenza ha la sua realizzazione solo nell’esserci. Se invece, partendo dalla vitalità del mero esserci, ammettessi l’interesse del mio esserci empirico e di qualunque altro, riconoscendolo implicitamente nella sua evidenza, dimenticherei l’esistenza. Questi due atteggiamenti, che si limitano ad affermare o a negare il proprio esserci, non risolvono le difficoltà che, Al limite, determinano sempre la rottura della comunicazione. Quando l’uomo annulla la resistenza del suo esserci proprio non vuol nulla per sé, né per la propria vita, ma rinuncia semplicemente al mondo. Anche se da un punto di vista metafisico può essere un santo, non può comunque entrare in comunicazione. Mancandogli l’esserci, non può esistere con l’altro nell’autonomia del suo essere. La sua dedizione, il suo aiuto e il suo amore sono ciechi e impersonali; il suo esserci o è casuale o è perduto. C’è comunicazione solo dove un esserci proprio, disposto a una apertura infinita, è legato all’altro. È una chiarificazione in un fondo sempre oscuro. I mezzi materiali dell’esserci ricevono qui il riconoscimento della loro realtà, quindi ordine e compromesso e, nei momenti più alti, il grande sacrificio. Ma non c’è chi possa cessare d’esserci senza rompere con ciò anche la comunicazione. Se però si considera il proprio esserci come qualcosa d’intangibile naufraga di nuovo la comunicazione che, invece, provenendo dall’esistenza possibile, sottopone il proprio esserci a condizioni, lo problematizza e lo limita. L’oscuro fondamento del proprio esserci diventa il possibile corpo dell’esistenza». (Filosofia, op. cit., pp. 554-557).

Da parte sua, la posizione teorica fondata sul disprezzo delle ricchezze, progredendo, ed entrando in contrasto con l’iniziale equidistanza paolina e la successiva costruzione difensiva dei Padri, non tarderà a radicalizzarsi, cioè a diventare sempre più dispregiativa di qualsiasi suggerimento compromissorio. Ogni soluzione intramondana, come quella paolina di cui stiamo per parlare, in termini di giusta mercede, veniva rigettata da una componente considerevole del movimento cristiano. Non era infatti facile fare capire ai miseri la legittimità della loro sofferenza, anche proiettandola in un riscatto ultramondano. La distribuzione ineguale dei beni appariva senza motivo, non potendosi fare risalire a qualche colpa dei poveri, cosa che era o del tutto dimenticata nella notte dell’etica giudaica, o ancora di là da venire in quella che sarà la logica del calvinismo. Fare risalire la sofferenza e la miseria al peccato e all’ira di Dio, non spiegava nulla, portando comunque alla conclusione che questo mondo era imperfetto, quindi temporaneo, quindi disprezzabile, ricchezze comprese.

Scrive Max Weber: «Il fatto che la morte e la decadenza si affrettavano a livellare gli uomini e le cose migliori come quelli peggiori poteva apparire come un elemento di deprezzamento proprio dei più alti beni intramondani come tali, non appena si concepiva l’idea di una durata eterna del tempo, di un Dio eterno e di un ordine eterno. Se allora a questi si opponevano altri valori, e proprio tra quelli ritenuti più preziosi, che venivano trasfigurati in “eterni”, per cui l’importanza della loro realizzazione nella “cultura” si presentava come indipendente dalla durata temporale del fenomeno concreto della realizzazione, il rigetto etico del mondo empirico trovava l’occasione di un ulteriore progresso». (Sociologia delle religioni, op. cit., vol. I, pp. 619-621). La condanna dei beni, inizialmente circoscritta, si allargava quindi a un rigetto complessivo e programmatico della società, rigetto che, scontrandosi col movimento di razionalizzazione dell’organizzazione, doveva prima o poi alimentare scissioni e polemiche.

Il contrasto col vecchio mondo ellenistico e romano assume adesso aspetti di tensione, ben al di là dei rapporti tra vecchi schemi sociali e nuove forze ammodernatrici. Il fondamento del pensiero greco e, con poche varianti, di quello romano, per quanto concerne la riflessione economica, trovava spiegazione nel contesto di una costruzione politica ideale, difficilmente sottoposta a critiche radicali, intesa come struttura capace di garantire agli appartenenti sufficientemente riconosciuti la felicità. Ora, l’esistenza di questa costruzione ideale, più o meno elaborata nei diversi pensatori greci, e nei riferenti romani, faceva considerare lo stato presente del mondo, cioè i fenomeni economici e sociali, quindi anche politici, come diretto al raggiungimento dello scopo ideale. Ogni contrasto andava pertanto modificato per potere adattare tutta la struttura a quello scopo permanente. Ad esempio, il desiderio di ricchezza contrastava fortemente con il raggiungimento della felicità, almeno in alcuni casi, quindi si riempivano i trattati suggerendo modulazioni e adattamenti. Aristotele determina la felicità in termini di scopo della condotta umana e ricava questo scopo dalla natura razionale dell’uomo. Così scrive: «Ma torniamo di nuovo al bene che stavamo cercando: che cos’è? È manifesto, infatti, che esso è diverso in un’azione e in un’arte diversa: è diverso nella medicina e nella strategia, come pure nelle altre arti. Che cosa è dunque il bene di ciascuna? Non è forse ciò in vista di cui si fa tutto il resto? E ciò in medicina è la salute, in strategia la vittoria, in architettura la casa, una cosa in un’arte, un’altra in un’altra arte, ma in ogni azione e in ogni scelta è il fine: è in vista di questo che tutti fanno il resto. Cosicché, se c’è una cosa che è il fine di tutte le azioni che si compiono, questa sarà il bene realizzabile praticamente; se vi sono più fini, saranno essi il bene. Pur procedendo per altra via il ragionamento è giunto allo stesso punto: ma dobbiamo cercare di chiarirlo ancora meglio. Poiché i fini sono manifestamente molti, e poiché noi ne scegliamo alcuni in vista di altri (per esempio, la ricchezza, i flauti e in genere gli strumenti), è chiaro che non sono tutti perfetti: ma il Bene supremo è, manifestamente, un che di perfetto. Per conseguenza, se vi è una qualche cosa che sola è perfetta, questa deve essere il bene che stiamo cercando, ma se ve ne sono più, lo sarà la più perfetta di esse. Diciamo, poi, “più perfetto” ciò che è perseguito per se stesso in confronto con ciò che è perseguito per altro, e ciò che non è mai scelto in vista di altro in confronto con quelle cose che sono scelte sia per se stesse sia per altro; quindi diciamo perfetto in senso assoluto ciò che è scelto sempre per sé e mai per altro. Di tale natura è, come comunemente si ammette, la felicità, [1097 b] perché la scegliamo sempre per se stessa e mai in vista di altro, mentre onore e piacere e intelligenza e ogni virtù li scegliamo, sì, anche per se stessi (sceglieremmo infatti ciascuno di questi beni anche se non ne derivasse nient’altro), ma li scegliamo anche in vista della felicità, perché è per loro mezzo che pensiamo di diventar felici. La felicità, invece, nessuno la sceglie in vista di queste cose, né in generale in vista di altro. È manifesto che anche partendo dal punto di vista dell’autosufficienza si giunge allo stesso risultato: si ritiene infatti che il Bene perfetto sia autosufficiente. Ma intendiamo l’autosufficienza non in relazione a un individuo nella sua singolarità, cioè a chi conduce una vita solitaria, ma in relazione anche ai genitori, ai figli, alla moglie e, in generale, agli amici e ai concittadini, dal momento che l’uomo per natura è un essere che vive in comunità. A queste persone poi deve essere posto un limite. Se si estende questa considerazione agli antenati e ai discendenti e agli amici degli amici, si procede all’infinito. Ma questo va considerato in seguito. Per ora definiamo l’autosufficienza come ciò che, anche preso singolarmente, rende la vita degna di essere scelta, senza che le manchi alcunché. Di tale natura noi pensiamo che sia la felicità. Inoltre pensiamo che la felicità sia il più degno di scelta tra tutti i beni, senza aggiunte (se fosse così, è chiaro che sarebbe più degna di scelta solo insieme con un altro bene, anche il più piccolo); infatti, quello che le fosse aggiunto sarebbe un sovrappiù di bene, e di due beni quello più grande è sempre più degno di scelta. Per conseguenza la felicità è, manifestamente, qualcosa di perfetto e autosufficiente, in quanto è il fine delle azioni da noi compiute. Ma, certo, dire che la felicità è il bene supremo è, manifestamente, un’affermazione su cui c’è completo accordo; d’altra parte si sente il desiderio che si dica ancora in modo più chiaro che cosa essa è. Forse ci si riuscirebbe se si cogliesse la funzione dell’uomo. Come, infatti, per il flautista, per lo scultore e per chiunque eserciti un’arte, e in generale per tutte le cose che hanno una determinata funzione ed un determinato tipo di attività, si ritiene che il bene e la perfezione consistano appunto in questa funzione, così si potrebbe ritenere che sia anche per l’uomo, se pur c’è una sua funzione propria. Forse, dunque, ci sono funzioni ed azioni proprie del falegname e del calzolaio, mentre non ce n’è alcuna propria dell’uomo, ma è nato senza alcuna funzione specifica? Oppure come c’è, manifestamente, una funzione determinata dell’occhio, della mano, del piede e in genere di ciascuna parte del corpo, così anche dell’uomo si deve ammettere che esista una determinata funzione oltre a tutte queste? Quale, dunque, potrebbe mai essere questa funzione? È manifesto infatti che il vivere è comune anche alle piante, mentre qui si sta cercando ciò che è proprio dell’uomo. [1098 a] Bisogna dunque escludere la vita che si riduca a nutrizione e crescita. Seguirebbe la vita dei sensi, ma anch’essa è, manifestamente, comune anche al cavallo, al bue e ad ogni altro animale. Dunque rimane la vita intesa come un certo tipo di attività della parte razionale dell’anima (e di essa una parte è razionale in quanto è obbediente alla ragione, mentre l’altra lo è in quanto possiede la ragione, cioè pensa). Poiché anche questa ha due sensi, bisogna considerare quella che è in atto, perché è essa che sembra essere chiamata vita nel senso più proprio. Se è funzione dell’anima dell’uomo l’attività secondo ragione o, quanto meno, non senza ragione, e se diciamo che nell’ambito di un genere è identica la funzione di un individuo e quella di un individuo di valore, come del citaredo e del citaredo di valore, questo vale, dunque, in senso assoluto anche in tutti i casi, rimanendo aggiunta alla funzione l’eccellenza dovuta alla virtù: infatti, è proprio del citaredo suonare la cetra, e del citaredo di valore suonarla bene. Se è così, se poniamo come funzione propria dell’uomo un certo tipo di vita (appunto questa attività dell’anima e le azioni accompagnate da ragione) e funzione propria dell’uomo di valore attuarle bene e perfettamente (ciascuna cosa sarà compiuta perfettamente se lo sarà secondo la sua virtù propria); se è così, il bene dell’uomo consiste in un’attività dell’anima secondo la sua virtù, e se le virtù sono più di una, secondo la migliore e la più perfetta. Ma bisogna aggiungere: in una vita compiuta. Infatti, una rondine non fa primavera, né un sol giorno: così un sol giorno o poco tempo non fanno nessuno beato o felice. Il bene, dunque, resti delineato in questo modo: è certo infatti che bisogna prima buttar giù un abbozzo e poi, in seguito, svilupparlo. Si può ritenere che chiunque è in grado di portare avanti e di delineare nei particolari gli elementi che si trovano bene impostati nell’abbozzo, e che il tempo conduce a ritrovarli o comunque è un buon aiuto; di qui sono derivati anche i progressi delle arti: chiunque infatti può aggiungere ciò che manca. Bisogna ricordarsi anche di quello che si è già detto, cioè di non cercare la precisione allo stesso modo in tutte le cose, ma di cercarla in ciascun caso particolare secondo la materia che ne è il soggetto e per quel tanto che è proprio di quella determinata ricerca. Infatti, il falegname e il geometra ricercano entrambi l’angolo retto, ma in maniera diversa: il primo lo ricerca per quel tanto che è utile alla sua opera, il secondo ne ricerca l’essenza o la differenza specifica, poiché è un uomo che contempla la verità. Alla stessa maniera bisogna procedere anche negli altri casi, affinché gli elementi accessori non soverchino l’opera principale. E non bisogna ricercare [1098 b] la causa in tutte le cose in modo uguale, ma in alcune è sufficiente che venga messo adeguatamente in luce il fatto, come, per esempio, anche nel caso dei princìpi: il dato di fatto è un che di originario, cioè è un principio. Alcuni dei princìpi si giunge a vederli per induzione, altri per sensazione, altri mediante una specie di abitudine, altri ancora diversamente. Bisogna, dunque, sforzarsi di tener dietro a ciascun tipo di principio in conformità con la sua natura, e impegnarsi a definirlo adeguatamente. I princìpi, infatti, hanno un gran peso sugli sviluppi successivi: si ammette comunemente che il principio costituisce più che la metà del tutto, cioè che per suo mezzo diventano chiare molte delle cose che si vanno cercando». (Etica Nicomachea, 1, 7). Il trionfo della Chiesa, celebrato con Tommaso, salderà il cerchio tornando ad Aristotele: «Dio è l’ultimo fine dell’uomo». (Summa, 2, 2, quest. 1, 8). Solo che la dimensione in cui si venne a muovere il cristianesimo antico, aveva caratteristiche molto differenti.

Ha notato giustamente René Gonnard: «Le tendenze dei due grandi pensatori greci sono nello stesso tempo conservatrici e socialiste. Conservatrici: esse temono il progresso economico e le modificazioni che ne conseguono. Il loro ideale è un’economia ristretta, modesta, una mediocre produzione, poca circolazione, poco scambio, anche poca ricchezza. Un arricchimento sia pure poco consistente, appariva loro come moralmente compromettente per l’individuo, e soprattutto – questa è la loro massima preoccupazione – per il buon ordine politico. Lo scopo che perseguono è l’organizzazione di uno Stato sociale che lasci al cittadino il tempo libero per dedicarsi consistentemente all’attività politica e agli studi disinteressati: visione anticipata, si potrebbe dire, dello Stato stazionario di Stuart Mill». (Histoire des doctrines économiques, (Doctrines anterieures à Quesnay), op. cit., vol. I, pp. 20-21). In queste considerazioni si notano alcune componenti della filosofia greca, in particolare la corrente stoica, che ritroviamo nello sviluppo del pensiero cristiano. Nelle lettere di Paolo si nota una diretta influenza dello stoicismo, nel senso di un allargarsi dei concetti stoici fondamentali come la fratellanza e l’uguaglianza di tutti gli uomini, il cosmopolitismo, il concetto di un centro totale che regge il mondo. Non si tratta di una Repubblica di Zenone che ritroviamo in lui, con la forza della propria rivolta contro l’aristocratico Platone, ma il pensiero di Seneca e di Epitteto, con la pacatezza e il riferimento continuo a un ideale di Dio comprensibile attraverso la reazione.

Per proprio in Paolo il problema del male diventa drammatico, in quanto è visto come una continua minaccia alle possibilità razionali dell’uomo. Senza risolvere questo problema, egli non poteva accedere a nessuna razionalizzazione del movimento cristiano in corso di svolgimento. La potenza del male nel mondo è tanto forte che non si può pensare di distruggerla senza il sostegno di Dio, quindi senza un appoggio esterno alla ragione stessa, il movimento, come poi chiarirà Agostino, deve quindi essere “dal mondo al di là del mondo”. Ma il divino, nel suo contatto con l’uomo, affinché quest’ultimo venga posto in grado di affrontare la sua strada di sviluppo positivo, deve partecipare al suo dolore, anzi risolverlo in un più alto grado di concentrazione. Tutti i contrasti e le antitesi vengono posti in risalto. Quello che prima restava nascosto tra le pieghe di una speculazione filosofica, e non riusciva che difficilmente a superare l’aspetto esteriore di organicità e compattezza, adesso viene affrontato come contrapposizione aperta. Il trionfo della vita si vale del riconoscimento pieno della morte. Il bene sorge dalla sconfitta del male, ma prima ne prende conoscenza e ne valuta i minimi aspetti, limiti e debolezze. Così Paolo: «Provate tutto, tenete quello che è buono, astenetevi da ogni tipo di male». (Prima Lettera ai Tessalonicesi, 5, 21-22). Su questo punto, è interessante notare che il tema socratico della ricerca libera è impiantato nella ricerca che presuppone il dogma cristiano della fede. (Cfr. G. Calogero, La libertà di vedere, e la censura in Filosofia del dialogo, Milano 1962, p. 247).

È facile capire come da queste premesse venga modificata la posizione stoica e come venga riproposta all’interno di una differente concezione del mondo. Al semplice, e personale, sospetto critico nei riguardi del proprio ambiente, quindi anche dei rapporti sociali, e all’indifferenza verso il giudizio degli altri di fronte alla propria coerente decisione di vita, il cristianesimo sostituisce l’attenta considerazione dei rapporti sociali e la continua rapportazione della vita terrena alle condizioni proposte dalla redenzione. Una felicità differente si sovrappone a quella stoica, e quindi una storia differente, che agisce come motore del progetto umano all’interno della prospettiva di salvezza. Le istituzioni terrene vengono ad assumere aspetti del tutto ignoti. Per i Greci, e anche per i Romani, lo Stato costituiva l’interesse supremo. Il mantenimento dell’ordine e l’ideale di giustizia, convogliano gli sforzi generali del pensiero politico greco. Tucidide considerava da poco chi non partecipasse alla vita politica (Elogio pronunciato da Pericle). Per i Greci, la Città-Stato era qualcosa che penetrava nell’intimo del cittadino, con aspetti anche di tipo religioso. Essa era l’unica garanzia di vita in comune, e la costituzione l’unica forma sociale di vita possibile, una sorta di catalizzatore di tutti i contrasti che sorgevano tra l’ideale e la realtà. Nel pensiero cristiano degli inizi, anche se appare possibile qualche volta rintracciare le fonti o gli schemi retorici che appartengono al mondo classico, in effetti l’utilizzo dei concetti, in particolare di quello statale o di istituzione terrena generale, è molto diverso, come hanno notato giustamente William W. Tarn e Guy Th. Griffith (Hellenistic civilisation, Londra 1952, p. 226).

Con il cristianesimo si punta l’accento sulla “città eterna”, che viene così a sostituire il valore della “città terrestre”, fino a quel momento considerato il più alto. Ne consegue che l’individuo assume un valore per se stesso, a prescindere dallo Stato. Concetto abbastanza pericoloso e difficile da gestire all’interno della comunità, se lo si prende come possibile punto di partenza per una critica al concetto corrente di “giustizia”. Sia quello di origine giudaica, che si era acquietato nella razionalizzazione del Talmud, operazione che aveva sostituito l’antica concezione della giustizia come vendetta di Dio sul peccatore invocata da chi aveva subito un torto. Sia quello di origine ellenica. Per i Greci, la giustizia politica si aveva quando ciascun elemento attivo di uno Stato attendeva ai compiti suoi specifici, avendo in questo modo quello che gli competeva. Così, si garantiva da un lato l’unità dello Stato, dall’altro l’unità del cittadino, indirettamente tramite l’unità dello Stato. Per mantenere questo principio di giustizia nello Stato, occorreva garantire un criterio di “medianità”, cioè di equidistanza nella distribuzione delle ricchezze. Da qui una tendenza conservatrice ineliminabile dalle realtà economica e dalle teorie politiche che la giustificavano. L’individualismo, con le sue intenzioni di cultura eterogenea, con esperienze importate anche personalmente, col rifiuto del controllo dall’alto, veniva posto ai margini e tenuto in sospetto. Una difesa d’ufficio di Agostino, e delle sue intenzione deterministiche predeterminate, è quella di Augusto Guzzo: «Storicamente, dunque, se il pelagianismo sorge come protesta contro una dottrina della grazia che possa significare necessitazione divina dell’umano volere; e se 1’antipelagianesimo di Agostino è una radicale difesa del significato non deterministico che può esser dato alla grazia quando questa sia concepita necessaria perché l’umano volere è insufficiente, debole, intimamente combattuto dopo la sua determinazione al peccato, ma non perciò privato della sua essenziale e naturale libertà: la questione è se Agostino sia riuscito a salvare la libertà umana pur ammettendo che da Dio solo, e per un’iniziativa che nessun merito umano può vantarsi d’aver preparato, derivi la grazia che porge all’uomo l’energia di salvarsi. La soluzione di Agostino è così capillare, che non è meraviglia come basti la più lieve disattenzione per non percepirla. Chi tentasse di condensarla in una formula – nonostante i pericoli di tutte le formule – potrebbe dire che, poiché il libero volere umano è necessario ma non sufficiente, è necessaria la grazia; ma anche questa, in qualche modo, per sé sola non è sufficiente, perché sarebbe non grazia, ma fato, se operasse senza l’uomo e in luogo dell’uomo, ed è invece grazia, grazia di Dio per Gesù Cristo, se scende in un libero volere che, se non la respinge, per essa diventa, da libero ma impotente, libero e potente. Un punto, a ogni modo, è chiarissimo: che Agostino non solo non raccomanda la pura fede trascurando le opere, ma concepisce la grazia come esprimentesi direttamente e necessariamente in opere, anzi insegna attività e sforzo volitivo, non attesa e inerzia, perché è compito dell’uomo vivere, realizzare la grazia. Per Agostino, se il volere umano non è libero, la grazia non è grazia. Essendo libero, può fare il bene: ma che riesca a fare da sé, con le sole sue forze, il bene che può fare, Agostino nega per ragioni che, a mio credere, non sempre sono colte nel loro giusto significato. La dottrina agostiniana della grazia è stata spesso spiegata come un’inevitabile conseguenza dell’ammissione del domma del peccato originale. Credo che uno studio attento degli scritti antipelagiani di Agostino autorizzi la conclusione opposta: che cioè Agostino dal principio della necessità della grazia fu condotto a dover ammettere la trasmissione del peccato originale e della conseguente debolezza volitiva da Adamo a tutte le generazioni degli uomini. Giacché, lungi dal muovere da tal principio, Agostino vi giunse perché non potette non giungervi, e con un disagio che non fece nulla per nascondere o attenuare. Proprio il concetto “filosofico” di un Dio buono, solo autore e reggitore di tutte le cose, esigeva – questo è pacifico – che, se l’universo contiene dei mali, questi fossero addebitati alle creature e non al creatore, e quindi, poiché nelle creature non c’è se non quanto v’ha messo il creatore, che il male fosse imputato a un atto innaturale e antinaturale delle creature, volgenti contro Dio i beni da lui ricevuti. Ma, se Dio ha creato l’uomo libero perché potesse liberamente attuare le sue leggi, e invece l’uomo ha vòlto contro Dio la propria libertà, questo dissidio tra l’uomo e Dio non può esser tolto dall’uomo, che ha offeso e abbandonato il suo padre celeste: può esser tolto solo da un atto di perdono e d’amore da parte di Dio, che riaccoglie, solo perché vuol riaccoglierlo, l’uomo che l’ha abbandonato. Questa concezione s’intende benissimo se riferita all’uomo adulto che pecca e, messosi da sé fuori della casa del Padre, non può rientrarvi se questi non gli perdoni; ma come può intendersi nel caso dei neonati innocenti, incolpevoli di qualsiasi male? perché li si battezza? perché la Chiesa ritiene di doverli lavare e purificare se non hanno commesso nessun male? Il vescovo Agostino si trovava di fronte a un sacramento essenziale della Chiesa, e doveva giustificarlo, anzi comprenderlo, non solo quando – come allora da molti si preferiva – era somministrato ai già adulti, ma anche quando era dato ai neonati. I pelagiani, non volendo ridurre il battesimo dei bambini a un semplice rito esteriore, ammisero perfino che il battesimo, in essi, lavasse loro colpe personali, contando per colpe personali dei neonati, per esempio, l’avidità con cui lattano. Ma ad Agostino questa spiegazione parve mostruosa, repugnante: e poiché doveva pur attribuire agl’infanti qualche colpa per riconoscerne necessario il lavacro, non gli rimase che ricordarsi delle parole di Paolo: “Per un uomo il peccato entrò nel mondo”, interpretandole come affermanti la trasmissione fisica della debolezza volitiva derivante dal peccato del primo uomo, di generazione in generazione. Si è voluto spiegare questa svolta del pensiero agostiniano con l’influenza di alcuni particolari commenti alle Epistole paoline, ma bisogna, allora, spiegare perché il pensiero di Agostino si fermò su l’interpretazione di tali commenti, preferendola a ogni altra. Se non erro, gli scritti antipelagiani di Agostino mostrano chiarissima la ragione per la quale egli dovette accettare la formula della massa damnationis, cioè il principio della trasmissione fisica del peccato originale e della conseguente debolezza, pur non potendo spiegare – e dichiarandolo senza ambagi – come possa la trasmissione fisica contagiare l’anima, che, infine, bisogna ammettere creata singolarmente da Dio, e non propagginata dalle anime dei genitori. E la ragione d’ammettere la trasmissione fisica del peccato originale è che la Chiesa battezzerebbe invano i neonati se non s’ammettesse in essi presente il peccato originale». (“Agostino e Pelagio”, in “Giornale di metafisica”, 1954, pp. 520-521).

Per i Padri, il problema si poneva in maniera differente. Per i primi secoli, essi avvertirono la loro posizione di estranei in seno alle istituzioni temporali, per cui buona parte della letteratura relativa prese la forma di difese o apologie. Restava da risolvere il conflitto, fino a quel punto insanabile, della effettiva posizione civile del cristianesimo con le aspettative di liberazione provenienti dal basso e i sospetti e le preoccupazioni politiche provenienti dall’alto. Man mano che i cristiani, pur restando tali, venivano chiamati ad assolvere funzioni di soldati, magistrati, funzionari governativi, ecc., sorgevano dubbi e problemi pratici nella vita di tutti i giorni. Il vecchio criterio di medianità non poteva continuare a valere in seno a una dottrina che teoricamente predicava l’uguaglianza fra gli uomini, e quindi sotto un certo aspetto, si poteva pensare a una sorta di medianità economica, ma non come decisione dello Stato e conseguente politica imposta dall’alto, ma come decisione dell’individuo e scelta di natura personale. Ne derivava una svalutazione dello Stato come ente catalizzatore di tutti i contrasti politici ed economici, e una sostituzione con il concetto meno pratico, più spirituale, di carità e amore verso il prossimo. L’intuito politico, prima di tutti gli altri di Paolo, poi anche dei Padri, fu genialmente diretto a trasferire queste nuove prospettive, radicalmente diverse, dall’ambito dello Stato a quello della Chiesa, evitando che passassero, sia pure temporaneamente, attraverso una fase individuale, comunistica, funzionante in modo esclusivo, cosa che avrebbe praticamente dissolto ogni forma organizzativa. I maggiori contrasti all’interno del cristianesimo primitivo sono appunto su questo passaggio. Le scissioni e le polemiche avranno tutte lo scopo di recuperare all’individuo quello che veniva sottratto allo Stato, prima di consegnarlo, purtroppo in modo definitivo, alla Chiesa cristiana, come organizzazione sostitutiva dello Stato. Gli equivoci possibili della posizione di Paolo sono evidenziati, in particolare, nella posizione filosofica del mistico Malebranche. Così scrive Genevieve Rodis-Lewis : «Il “misticismo di Malebranche” è sostenuto da molti commentatori. Certamente, l’unione stretta dell’anima a Dio, l’ascesi, lo spirito di sacrificio e di mortificazione, il fervore che agogna soltanto i beni eterni danno al pensiero di Malebranche un accento profondamente religioso. Ma è stata anche messa in luce la sua “scarsa conoscenza ed esperienza delle vie straordinarie”, la sua diffidenza nei riguardi dell’aridità che prova il mistico, il suo moralismo. E lo splendore delle sue elevazioni è sempre solidamente appoggiato su una riflessione essenzialmente filosofica. Questo fautore della luce avrebbe accettato la notte oscura dell’intelligenza? I più accorti tra coloro che hanno conservato il termine l’hanno precisato come “misticismo intellettualistico” oppure “razionalismo mistico”. Non sarebbe allora più onesto tralasciare il termine mistico parlando di Malebranche? Tutti i cristiani ripetono con S. Paolo che è in Dio che abbiamo “l’essere, il movimento e la vita”. Malebranche ha dato a questa affermazione una pienezza particolare, inglobandovi tutta la vita dell’intelligenza. Questa unione non è vissuta in un sentimento di abbandono; essa deve essere conquistata e approfondita attraverso la ricerca della verità. La sua scoperta procurava a Malebranche gioie sublimi, che la sua pietà, come il suo sistema, riferivano subito a Dio. Se il segreto del suo animo resta insondabile, per il lettore delle sue opere queste gioie sono innanzitutto di natura filosofica». (Nicolas Malebranche, ns. tr., Paris 1963, p. 32).

Nella prospettiva suggerita a partire da Paolo, quindi alla luce della prima vera e propria riforma cristiana, il concetto di “proprietà” tiene conto di queste pulsioni e di queste idee, e identifica il sistema produttivo, nei limiti ovviamente dell’epoca, come diretto a un impiego migliore delle ricchezze, cioè delle risorse produttive, allo scopo di raggiungere gli obiettivi cristiani della carità e dell’aiuto verso i fratelli bisognosi. Tutta la Patristica elabora, a poco a poco, la caratteristica dottrina del rapporto tra individuo e mondo economico, considerati come estremi di un dialogo che deve raggiungere l’equilibrio tra sviluppo delle forze produttive e limite etico della cupidigia individuale. Una via diversa, ma altrettanto conservatrice di quel criterio di “medianità” utilizzato dal pensiero economico greco.

La radicalizzazione delle comunità primitive che s’indirizzarono verso una concezione comunistica, e la mantennero, le obbligò a fornire questo loro appartarsi di caratteristiche esteriori differenti. La cosa non dovette essere difficile, in quanto l’ambiente medio-orientale diffondeva quasi automaticamente questa comunità, attraverso la predicazione di questi “maestri di giustizia” girovaghi di cui abbiamo già parlato. Il modello degli Esseni, in essere all’epoca da almeno due secoli, era quello di una setta ascetica di origine farisaica. Il funzionamento di questa setta, adesso abbastanza noto, dovette riflettere quello delle altre comunità cristiane, se non altro come rigidità dei rapporti con l’esterno, o come filtro e condizioni del proselitismo. Ad esempio, l’abitudine di andare in giro a predicare a gruppi di due è chiaramente essenica, e ha preoccupazioni rituali dietro le spalle, oltre che di reciproco controllo, trattandosi anche del mezzo di normale entrata dei beni di sostentamento per la comunità. Altre rigidità, come quella della divisione interna dei partecipanti sulla base di un noviziato, necessaria rigidità per qualsiasi struttura che si ritenga ospite di un sistema che in fondo considera estraneo, erano anch’esse di derivazione essenica. I voti, trovano qui la loro origine, ben prima che queste comunità paoline si separassero dal corpo vero e proprio del cristianesimo antico.

Le pratiche e le regolamentazioni dei digiuni, l’astensione periodica da certi cibi, sono anch’esse di origine giudaica, ma filtrate attraverso la rigidità rituale degli Esseni, per i quali era universalmente obbligatorio un certo comportamento rituale, che invece i farisei assegnavano soltanto a se stessi e non anche ai fedeli. La diversità di ragionamento tra setta e religione universale non è ancora chiara all’interno del cristianesimo comunistico dei primi tempi. La scomunica, che come vedremo in seguito sarà uno degli strumenti autoritari della Chiesa per imporre il proprio dominio, ha origine anche qui, significando esclusione dalla comunità a carico degli impuri, cioè di coloro che non vivevano seguendo le regole. L’istituzione del battesimo, per gli Esseni ripetuto moltissime volte nel corso della propria vita, a scopo purificatorio, ha origine in questa setta giudaica operante come modello per le comunità cristiane primitive.

In particolare, gli Esseni non intendevano assumersi l’obbligo morale di un guadagno qualsiasi, quindi sostenevano l’assoluta povertà. Rigettavano l’uso del denaro, la proprietà dei beni e di schiavi e ammettevano solo il possesso dell’indispensabile alla propria vita come fabbisogno personale o per la coltivazione della terra comune o per il lavoro artigianale. Le comunità cristiane avevano questa stessa forma organizzativa. Quando la Chiesa cristiana diverrà sufficientemente solida per sostituire a queste pratiche e a queste idee originarie l’assetto definitivo dell’organizzazione, i virtuisti prenderanno la strada degli ordini monastici, a partire dal IV secolo, o degli anacoreti, chiamati monaci, cioè soli, i quali manterranno la proprietà comune, la fratellanza, l’obbligo del lavoro, il rifiuto delle ricchezze. Senza prendere il problema delle eresie che proprio qui troverà la sua fonte principale, dobbiamo dire che non sarà facile per la Chiesa fronteggiare questo radicale elemento di condanna delle ricchezze.

Non è molto importante chiarire qui la differenza tra le teorie comuniste antiche e quella proposta dai primi cristiani. Lo faccio quindi in breve. Per Platone, e perfino per l’anticomunista Aristotele, lo scopo è quello di costruire una Città-Stato sufficientemente forte, in grado di superare le difficoltà politiche della gestione del potere. Aristotele si convince anche lui di questo per cui, pur non accettando la proprietà comune, accetta il comunismo d’uso (Politica, 2, 2). Ma questo comunismo è soltanto uno strumento d’ordine, come lo sarà quello ipotizzato da Senofonte (De vectigalibus), mentre il problema dell’uguaglianza dei diritti, e quindi degli uomini, e quindi anche degli schiavi che così per la prima volta escono dal loro “statuto di cose”, sarà affrontato solo dal comunismo dei cinici. Le utopie di questi ultimi avranno sempre una base egualitaria e un richiamo alla natura. La tensione di distacco dai beni terreni ci sarà anche fra i pitagorici, le cui comunità religiose ci sono conosciute solo per brevi cenni. Sembrerebbe possibile anche un influsso pitagorico fra gli Esseni, ma questo è tutto un altro problema. Robert von Pöhlmann ha sostenuto che tutto il pensiero comunista dell’antichità si riassume nel pensiero dei Padri (cfr. Geschichte des antiken Kommunismus und Sozialismus, Monaco 1923, vol. II, pp. 583-617), tesi che così come è stata esposta non è condivisibile, in quanto proprio attraverso un’analisi dei testi, escludendo tracce contrastanti che solleveremo di volta in volta, appare chiaro che i Padri tentano di minimizzare la portata comunista reale del movimento primitivo, e ciò per i motivi che abbiamo più volte accennato. Per un altro aspetto, anche la tesi sostenuta da Gérard Walter (Historie du communisme, vol. I, Paris 1931, p. 148), in base alla quale i Padri recuperano lentamente la teoria comunitaria all’interno della dottrina della Chiesa, spostandola sempre in contesti via via più ampi, facendola infine culminare nell’idea generale della cristianità, che certamente comunitaria non è di certo, andrebbe provata con una ricerca più puntuale. Sulla base di quello che ho potuto constatare, in base alla presente indagine, il movimento teorico dei Padri è invece antitetico, cioè tende a respingere lo spirito comunitario primitivo del cristianesimo, e ciò avviene parallelamente all’allargarsi della diffusione del fenomeno cristiano. Man mano che il numero dapprima ristretto di proseliti prese a estendersi, includendo gente di ogni condizione sociale, la pratica comunitaria iniziale si affievolì, fino a restare patrimonio di gruppi di virtuosi, come abbiamo già detto prima.

* * *

Con Paolo di Tarso si inizia l’opera di assestamento e di recupero del cristianesimo primitivo, che si avvia a diventare una comunità organizzata e munita di regole abbastanza rigide. Nelle sue Lettere, strumento organizzativo e di propaganda di prim’ordine, si intravede l’antico spirito stoico, sia come impostazione culturale, sia come sviluppo di un pensiero tutto teso a garantire un fondamento alla nuova fede sulla base di quella morale che l’antica sapienza aveva prodotto. Ad esempio, il problema della schiavitù, impostato da Aristotele come distinzione naturale, era stato capovolto dagli stoici, che si basavano sull’autorità del contratto civile. È in questa forma che viene recepito da Paolo, pur nella cosciente distinzione che adesso è operata dalla fede in Dio.

L’inizio dell’organizzazione cristiana avviene affermando il diritto al reddito per le professioni intellettuali e per tutti coloro che si incaricavano della diffusione del messaggio cristiano e della cura dei problemi religiosi. Paolo, evidentemente, parla prima di tutto per se stesso, essendosi auto-eletto propagandista della fede. In questo modo fonda e giustifica una “gerarchia” all’interno della comunità cristiana: «Non sono io libero? Non sono Apostolo? Non ho io veduto Gesù Cristo Signor nostro? Non siete voi opera mia nel Signore? [...]. Ecco la mia difesa di fronte a quelli che fan delle inchieste sul mio conto. Non abbiamo noi il diritto di mangiare e di bere? Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna sorella, come fanno gli altri apostoli e i fratelli del Signore a Cefa? Soltanto dunque io e Barnaba non abbiamo diritto di fare queste cose? Chi è mai che milita a proprie spese? Chi è che pianta una vigna e non ne mangia i frutti? Chi pascola il gregge senza cibarsi del latte di esso? Forse in questo parlo da uomo? Non lo dice forse anche la legge? Sta scritto infatti nella legge di Mosè: Non mettere la museruola al bue che trebbia il grano. Che forse Dio si dà pena dei buoi? O, senza forse, dice questo proprio per noi? Sì, proprio per noi sono state scritte queste cose, perché chi ora deve arare con speranza, e chi trebbia il grano, colla speranza di avere la sua parte [...] e noi che abbiamo seminato per voi dei beni spirituali, sarebbe un granché se mietessimo dei beni materiali?». (Prima Lettera ai Corinti, 9, 11). Il problema è serio, e si pone in considerevole contrasto con la figura del Cristo, che Paolo continua a sviluppare nel tempo, e nella pratica, ma in un modo che non poteva non essere differente se, com’era sua intenzione, voleva organizzare una struttura ben precisa e non un movimento religioso di base, fondato soltanto sulla fede. Paolo accanto alla fede pone anche la consistenza, tutta materiale, della pratica quotidiana, il sopravvivere.

Nel giudaismo dell’epoca l’antica figura del rabbino che esercitava la sua attività di consigliere in questioni rituali, continuando a svolgere la propria attività diciamo laica, era scomparsa da tempo. Adesso, i rabbini godevano di alcuni privilegi che si traducevano in un’entrata indiretta: erano esentati dalle imposte e dalle corvées, potevano vendere i propri prodotti al mercato prima degli altri, venivano risarciti per il tempo impiegato nelle consultazioni di cui erano richiesti, godevano anche di doni personali. Quindi, in teoria la loro attività era senza compenso, ma in pratica ne traevano di che vivere, in quanto anche la legge stabiliva che potessero lavorare per un terzo della giornata e studiare nel tempo restante. Ma parlare di un diritto alla retribuzione, paragonandolo alle attività normali dell’agricoltura, era un problema grossissimo che Paolo sollevava, di dubbia soluzione, ma comunque centrale per lo sviluppo dell’organizzazione. Il divieto rabbinico era infatti fondato sulla preoccupazione che dietro il compenso si sviluppasse tutta una attività di mistagoghi e di maghi, astrologhi e divinatori, che era espressamente condannata dal Talmud. La posizione di Paolo era quindi delicata in quanto poteva anche essere confuso con quest’ultima categoria di persone.

Qui, esattamente in questo punto, comincia l’antitesi irrimediabile e definitiva tra la dottrina cristiana e la Chiesa. Molte confusioni, anche all’interno dell’attività anticlericale e ateista, non avendo tenuto bene conto di questa fondamentale realtà, finiscono per diventare irrisolvibili. La Chiesa è il tentativo, irrealizzabile ma continuamente ripreso a diversi livelli, di temporalizzare la divinità, di collocare come un oggetto visibile, organizzativo, nel mondo, un’idea, un bisogno dell’uomo nella sofferenza e nello sfruttamento, un ideale che potrebbe anche trovare differente destinazione. Questo problema attraversa tutta la storia dell’uomo, non solo nel rapporto tra Dio e Chiesa, ma nel rapporto, altrettanto delicato, tra idealità e organizzazione, tra sogno rivoluzionario e pratica della struttura di attacco. Per questo motivo, dentro ogni rivoluzionario, concretamente intento alla sua attività di distruzione dello stato di cose attuali, si nasconde l’animo organizzativo di un prete. Ed ecco perché molti sfuggono all’organizzazione, considerandola semplice riproposizione del male, accettando la tesi dei cristiani degli inizi che, di fronte all’imperativo paolino dell’organizzazione, si chiusero nelle sette eretiche e nei conventi dell’esclusione aristocratica. Purtroppo, mantenendosi al livello della struttura, poniamo del giacobinismo stalinista o del cristianesimo paolino, o dell’anarchismo bakuninista, non è veramente facile fare distinzioni. Ogni distinguo sembra assumere la giustificazione di principio, preventiva e quindi inefficace. Tutti i problemi organizzativi trovano una loro luce preventiva dall’obiettivo che si prefiggono, ma questa luce può essere distorta con operazioni ideologiche non sempre chiare. Solo la pratica realizzazione della struttura, il suo dispiegarsi implacabile, pone fine alla chiacchiere dell’ideologia, e consente bilanci e giudizi, che però potrebbero anche arrivare troppo tardi.

L’avere ridotto l’apostolato a un’attività lavorativa, aspetto che così si viene ad affiancare agli altri, diciamo, trascendenti, getta una luce cristiana in primo luogo sul problema del lavoro, e ciò è stato possibile anche perché Paolo ha posto l’attività di proselitismo come attività di uomini fra gli uomini, banditori del Vangelo sì, ma sempre uomini, con tutte le necessità degli uomini, prima di tutto quella della sopravvivenza in quanto organismi viventi. La sottigliezza della distinzione dimostra il genio paolino per la costruzione della struttura cristiana, e anche la lontananza che passava tra quello che lui andava proponendo e l’aspettativa di rigenerazione comunitaria delle masse che lo ascoltavano. Su questo recupero terreno operato da Paolo ha scritto Karl Barth: «L’incognito divino è strettamente conservato in tutta la chiarezza e univocità dell’Evangelo. Nessuno può parlare di Dio se non nella similitudine del pensare, fare avere – e aver ragione – umano quand’anche parlasse in lingue di fuoco. Noi pure non possiamo altrimenti. Ogni apparato umano col quale intendiamo instaurare, tutelare, ordinare la relazione dell’uomo con Dio è ecclesiastico». (L’Epistola ai Romani, op. cit, p. 315). Mettendo esattamente in luce il paradosso che corre tra l’incomunicabilità dell’ideale e la necessaria comunicazione umana, necessaria affinché quello non si limiti a restare, appunto, ideale. E questo lavoro, tutto umano, è lavoro come qualsiasi altro. Paolo pone il problema in termini brutali, come ogni organizzatore di strutture autoritarie, per quanto, si badi bene, questa specificazione a priori non può mai verificare fino in fondo la differenza, e la storia è zeppa di insegnamenti, per quel che questi possono valere.

In contrasto con la concezione greca il lavoro viene quindi elevato a possibile strumento di dialogo con la divinità. I motivi dell’antico rifiuto della dignità del lavoro sono presto detti, la guerra e gli schiavi. L’attività manuale, sia presso i Greci come presso i barbari, e quindi anche presso i Romani, era considerata cosa grossolana. Senofonte (Economico, 4, 23) afferma che «sono marchiate le arti meccaniche e disonorano le nostre città». Finemente, Aristotele precisava che «il potere signorile è di chi non sa fare le cose necessarie ma le sa usare meglio di chi li sa fare». (Politica, 3, 4). Ma il dialogo con la divinità, attraverso il lavoro, era esattamente il contrario di quello che s’immaginavano le speranze e i sogni degli oppressi e degli umili che vedevano nelle promesse della predicazione, di cui abbiamo tracce confuse nei Vangeli, un sogno di trasformazione sociale. Il lavoro, anche se riscattato moralmente, resta sempre una pena, e una pena terribile nelle terribili condizioni di epoche arretrate. Inoltre, l’esempio oggettivo e diffuso della schiavitù, con lo schiavo obbligato a lavorare come una macchina, non poteva rendere libero il lavoro, modificando il concetto sottostante di pena.

Alle masse che volevano liberarsi dalla sofferenza, dalla miseria, e quindi anche dal lavoro più o meno coatto, il cristianesimo precisava, brutalmente, al di là delle iniziali infatuazioni, che il lavoro, pur restando dissociato del precedente senso di disprezzo, non poteva staccarsi dal senso di pena. Questo resta il limite della proposta cristiana, non solo teorica, ma pratica. Il lavoro è pena, veniva spiegato, perché è il prodotto della corruzione di un bene primitivo. L’uomo, attraverso il lavoro, può scoprire a poco a poco il bene originario e, anche fra le angustie quotidiane, mantenere viva la speranza. Ma questa convinzione non gli deriva da una costrizione esterna, come poniamo la schiavitù, ma da un innalzamento dell’anima sull’antico mondo delle tenebre e del dolore. Da qui contrasti radicali, il possesso della totalità del bene e la negazione assoluta di ogni speranza, il duro lavoro e l’acquisizione lenta di qualcosa di proprio, però contrapposto alla necessità di privarsi di ciò che si è arrivati a possedere. Contrasti che tengono in movimento il cristianesimo primitivo, affascinando gli uomini e le loro prospettive.

L’etica del lavoro costituisce uno dei princìpi fondamentali del cristianesimo. La sua affermazione non fu senza contrasti, specialmente durante le contese filosofiche dei primi secoli, riflesso e insieme prodotto delle aspirazioni popolari dello stesso periodo. Il rigido meccanismo della produzione, il difficilmente accettabile principio della proprietà, l’oscuro compito sociale assegnato ai ricchi, la sollecitudine verso la libertà delle classi più povere. Anche nel ristretto campo speculativo, la difesa del principio etico del lavoro non sarà cosa facile. Filosoficamente, e praticamente, fu molto difficile per i Padri lottare contro le frequenti tendenze estremiste. Ecco la necessità di Paolo di fare riconoscere la propria attività come attività lavorativa a tutti gli effetti, in base al medesimo problema che da sempre hanno avuto i militanti professionisti di non farsi considerare dalla propria base come privilegiati. Il cristianesimo è la sola grande religione mondiale ad affrontare il problema del lavoro nel tentativo di conservargli un valore anche religioso. Da questa sua posizione iniziale deriveranno frequenti polemiche e scissioni eretiche.

Dal problema del lavoro deriva quello della giusta paga, che Paolo affronta riprendendo il tema della già citata Lettera ai Romani: «Servi, obbedite a quelli che secondo la carne vi sono padroni, con rispetto e timore, nella semplicità del vostro cuore, come a Cristo, servendo non all’occhio quasi per piacere agli uomini, ma come servi di Cristo, facendo di cuore la volontà di Dio, e servendo con affezione, come se si trattasse del Signore e non di uomini, ben sapendo che ciascuno, servo o libero che sia, riceverà dal Signore la ricompensa di ciò che avrà fatto di bene. E voi, o padroni, fate altrettanto riguardo ad essi, astenetevi dalle minacce, ben sapendo che il padre loro e vostro è nei cieli e che davanti ad esso non ci sono preferenze personali». (Lettera agli Efesini, 6, 5-9). È curioso notare che qui siamo davanti a una prima indicazione di contrasto tra produttori e datori di lavoro, contrapposizione certamente visibile anche prima, questo è chiaro, ma che adesso, proprio a causa dell’eguaglianza di fondo, ammessa come valore assoluto, diventa leggibile in modo diverso. Infatti, il cristianesimo primitivo, proponendo la redenzione come prospettiva ultramondana, ma comunque legata a comportamenti mondani di natura personale e non esterni al merito e al comportamento del singolo individuo, metteva in moto il principio di uguaglianza, principio di per sé rivoluzionario, che potenziava e rendeva incisiva la portata delle prime comunità cristiane, anche se poi nella pratica la struttura ecclesiale doveva recuperare ogni pulsione verso la libertà esclusivamente a livello di speranza. Le conseguenze di questo principio, innestandosi nella lunga e secolare esperienza comunitaria di fondo, non sono neanche lontanamente valutabili. Emergono, di tanto in tanto, considerazioni come quella che stiamo facendo, la quale appare quasi come una sorpresa. Esaminando bene le parole di Paolo, ci si accorge che, senza volerlo, lui sta ponendo il problema in termini di classe, e che può fare ciò spontaneamente, proprio perché è obbligato a partire dal principio canonico dell’uguaglianza di tutti gli uomini. Che poi questa uguaglianza sia davanti a Dio, non ha importanza, perché il principio agisce di per se stesso, quella parte finale potrà essere un aspetto in grado di fornire i mezzi per un più pronto recupero a livello riformista, come accade a Paolo stesso e al consiglio di astenersi dalle minacce e di dare la giusta ricompensa.

Certo, da Paolo il problema della giusta mercede non viene affrontato con quella precisione di metodo con cui verrà affrontato in seguito, poniamo da Tommaso, il problema del giusto prezzo, però l’avvenuta separazione del lavoro dal peculium rende possibile lo sviluppo dell’idea di indipendenza della mercede dal risultato dell’attività imprenditoriale. In un certo senso, quest’idea, prodotto anch’essa dell’ipotesi di uguaglianza, renderà possibile la successiva idea di contratto, cioè di unione tra due interessi contrapposti ma collimanti. Su questo argomento faceva testo la parabola del vignaiuolo, in grado di giustificare anche l’idea del minimo “necessario” alla sopravvivenza, indicazione fondamentale in un ambiente contadino arretrato. Nella parabola dei Vangeli si racconta di un padrone che al sorgere del giorno prese dei lavoratori per la sua vigna, pattuendo un danaro al giorno. Verso l’ora terza questo padrone vide in piazza degli sfaccendati e li invitò a lavorare nella vigna. Lo stesso fece all’ora sesta. Alla fine della giornata dette a tutti un danaro a testa. A quelli che avevano cominciato la mattina presto, e che si lamentavano del trattamento, egli rispose: «Amico, io non ti faccio torto: non hai pattuito con me un danaro? Piglia il tuo e vattene; ma io voglio dare anche all’ultimo quanto do a te». (Matteo, 20, 1-14). Com’è naturale, si tratta di un testo suscettibile di molte interpretazioni, fra cui quella canonica che si riferisce al pentimento dei peccati, senza contare il momento in cui questo avviene, potendo essere valido anche un pentimento poco prima della morte, cioè prima della fine della giornata lavorativa. Comunque, c’è anche un’altra interpretazione, che afferma il riferimento al minimo necessario alla vita del salariato, ciò che sarà giusto, dice il vignaiolo.

A questo proposito c’è da dire, una volta per tutte, che bisogna stare attenti a non considerare come formulazioni economiche vere e proprie, cioè coscientemente intese come tali, affermazioni, giudizi o allusioni che abbondano nella letteratura Patristica e che costituiscono quel novero di conoscenze di ordine generale, le quali formano la cosiddetta saggezza dell’uomo della strada. A un pericolo del genere, da evitare, fa riferimento Joseph Schumpeter, il quale suggerisce la cautela e anche il paragone tra le quasi-anticipazioni degli antichi e i risultati più complessi dell’odierna riflessione economica. (Cfr. Epoche di Storia delle Dottrine e dei Metodi. Dieci grandi economisti, op. cit., p. 8). In effetti, bisogna ammettere che non è facile evitare questo ostacolo. Immergendosi nella sconfinata produzione Patristica, si resta invischiati nella eccessiva prolissità e nella monotonia degli argomenti. Barbieri, con la mentalità che lo caratterizzava, ha scritto: «Quel che si richiede per la fecondità di tali indagini è un saggio contemperamento del metodo dogmatico con quello storico, al fine di non travisare il significato dei frammenti dottrinali, molto numerosi quanto asistematici e dispersi nella ricca letteratura cristiana antica». (Fonti per la Storia delle Dottrine Economiche, op. cit, p. 141). Ad esempio, il passo dei Vangeli in cui Gesù commenta l’obolo dato da una povera vedova, costituito da due spiccioli, e lo paragona ai consistenti oboli di altri più ricchi, dicendo: «... questa povera vedova ha dato più di tutti quelli [...] perché loro han gettato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, ha dato quanto possedeva, tutto il suo sostentamento», (Marco 12, 41-44), è stato commentato dicendo che anticipava la formulazione del “valore marginale della moneta”. Al massimo qui si potrebbe ricavare il riferimento a un minimo utile alla sopravvivenza, da considerarsi necessario.

La parabola del padrone che dovendo partire dà ai suoi servi dei talenti, a chi cinque, a chi due, a chi uno. Tutti investirono nel commercio il denaro e guadagnarono e fecero il loro rendiconto al ritorno del padrone, da fedeli servitori, solo chi ricevette un talento, per paura di perderlo, avendolo sotterrato, poté restituire la stessa moneta. Il padrone lo rimproverò considerandolo “servo iniquo e infingardo”, gli tolse la moneta e la diede a quello che ne aveva dieci. (Matteo, 15, 24-28). L’elemento dinamico di questa parabola è stato notato dal Francesco Carnelutti (cfr. Chiose al Vangelo di Matteo, Roma s. d., p. 283-287), il quale sollecita all’azione produttiva e condanna l’infingardaggine che si traveste di rettitudine. Su questo testo, che però potrebbe riferirsi soltanto alla propaganda per la fede, si baserà in gran parte la tesi dei Padri per giustificare la ricchezza dal punto di vista del movimento commerciale.

Comunque, per quanto Paolo lavorasse a rendere autonoma la figura dell’apostolo e del propagandista della nuova fede, quindi rimeditasse e ridimensionasse il semplicistico afflato comunitario che sembrerebbe costituire il solo punto di riferimento dei primissimi tempi, egli non può contrastare più di tanto la realtà comunitaria che lo circonda, per cui scrive: «Chi poi è catechizzato nella parola faccia parte di tutti i suoi beni a chi lo catechizza», (Lettera ai Galati, 6, 6). Troppo poco a dire il vero, e ciò spiegherebbe l’aspetto polemico della Lettera di Giacomo, a cui abbiamo fatto riferimento, che potrebbe essere pensata come scritta in antitesi al pensiero troppo attendista e possibilista di Paolo. In effetti le opinioni sono contrastanti. Alcuni sostengono che Giacomo si riferisce a una polemica in corso contro coloro che affermavano possibile la salvezza solo a mezzo della fede, altri parlano di uno scontro diretto con le tesi di Paolo. Tenendo presente il tono violento di Giacomo contro le responsabilità dei ricchi, sembra possibile la polemica diretta contro Paolo che veniva considerato troppo superficiale su alcune cose, come ad esempio sul fatto della circoncisione di Timoteo.

Di Pietro ci sono rimaste due lettere, la cui redazione è attribuita a Silvano, segretario sia di Pietro che di Paolo. L’influenza di Paolo è visibile in queste lettere, per quanto non ci sia l’ardimentosa costruzione regolatrice caratteristica del pensiero paolino. Non si affacciano nuovi problemi, ma l’obbedienza al potere costituito, la persistenza della schiavitù, la paura di una troppo traumatica trasformazione sociale, tutti i temi di Paolo.

In Giustino è manifesta la grande ammirazione per la cultura antica che lo spinge a vedere nei grandi uomini del passato, vissuti nel giusto e nella virtù, cristiani avanti lettera. Per lui la fede sta al termine di una ricerca, e non viene data come mezzo della ricerca stessa, presentando con questa tesi alcune delle affermazioni classiche di Agostino. Attraverso Giustino si riversa nel cristianesimo, tanta parte dell’antica sapienza. La sua posizione sul problema dei tributi da pagare allo Stato, non differisce da quella di Paolo che resta sulla linea del “Rendete a Cesare”. Su questo travagliato passo le interpretazioni moderne si possono riassumere in due tendenze e una variante. La prima, afferma un riconoscimento dell’Impero romano, implicito nella frase, pur nell’affermazione della sua limitatezza terrena che concorre a sottolineare i valori spirituali di gran lunga più importanti (Gerhard Kittel, Joachim Stauffer, ecc.). La seconda restringe il significato della frase di Gesù a un semplice ammonimento rivolto ai giudei, troppo interessati alle attività mammonistiche e troppo audaci nel tentativo di porlo in imbarazzo (Martin Dibelius, Ernesto Buonaiuti, ecc.). La variante è quella proposta da Santo Mazzarino (Trattato di Storia Romana, vol. II, Roma 1956, pp. 108 e sgg.) il quale riporta la parola “rendete” al suo originario significato greco di “restituite”, per cui la risposta di Gesù diventa un semplice riferimento alla meccanica monetaria dell’epoca, che considerava ogni emissione di moneta come un largitas dell’imperatore: cioè: “la moneta di Tiberio è proprietà di Tiberio, nulla di più, nulla di meno”.

L’incerta situazione rende prudente Giustino, il quale scrive: «Quindi è dovere nostro offrire a tutti la possibilità di esame sulla nostra vita e dottrina, onde non sottostare alle penose conseguenze degli errori commessi da chi ignora le cose nostre. Ma d’altra parte voi, come esige la ragione, ascoltate e mostratevi giudici probi. Poiché, se dopo informati non praticherete la giustizia, non avrete più scusa davanti a Dio». (Le due apologie, tr. it., Roma 1944, p. 20). Sul piano dell’obbedienza alle autorità, la sua linea è esattamente quella di Paolo: «Ogni savio riconoscerà onesta e sola giusta questa forma di procedere, che i sudditi dimostrino irreprensibile la loro norma di vita e di parole e, a loro volta, i prìncipi rendano giustizia, lasciandosi guidare non da violenza o tirannide, ma da pietà e saggezza». (Ib. p. 20). In queste parole c’è l’eco di Platone: «A meno che i filosofi non regnino negli Stati o coloro che oggi sono detti re e signori non facciano genuina e valida filosofia, e non riuniscano nella stessa persona la potenza politica e la filosofia, non ci può essere una tregua di mali per gli Stati e nemmeno per il genere umano». (Repubblica, 473 d). Alla larga del governo dei filosofi, questi fornitori dei massacri di qualsiasi genere.

Sempre aderente al pensiero di Paolo, ormai dominante nei circoli dirigenti del cristianesimo antico, è Clemente Romano, quarto successore di Pietro: «Bella cosa è l’elemosina come pentimento del peccato. Il digiuno è migliore della preghiera, e l’elemosina è migliore di tutt’e due. La carità copre la moltitudine dei peccati [frase in corsivo nell’originale] e la preghiera che viene da buona coscienza, scampa dalla morte». (Seconda Lettera ai Corinti, 16,5). L’accento è ancora posto sulla carità, così come Paolo, che la considerava superiore alla speranza e alla stessa fede, mentre il livello complessivo del discorso è scaduto. L’idea complessiva è quella di superare i contrasti economici facendo appello ai ricchi della comunità. Clemente scrive: «Il forte prenda cura del debole e il debole rispetti il forte. Il ricco soccorra il povero, e il povero renda grazie a Dio per avergli dato chi supplisce alla sua indigenza. Il sapiente mostri la sua sapienza non già a parole, ma con opere buone». (Prima Lettera ai Corinti, 38, 2).

Atenagora presenta nella sua Supplica per i Cristiani, diretta a Marco Aurelio secondo alcuni e all’imperatore Commodo secondo altri, la prima prova razionale dell’esistenza di Dio. Nicola Abbagnano la riassume in questo modo: «Se esistessero più divinità, non potrebbero esistere nello stesso luogo perché, essendo tutte ingenerate, non potrebbero cadere sotto un tipo o modello comune. Dovrebbero dunque esistere in luoghi diversi. Ma non possono esitere in luoghi diversi perchè lo spazio al di là del mondo è la sede di un unico Dio che è essenza sopramondana e così non vi è spazio per altra divinità. Un’altra divinità potrebbe esistere in un altro mondo; ma in tal caso essa non giungerebbe a noi e per la limitatezza della sua sfera d’azione essa non sarebbe vera divinità». (Storia della Filosofia, vol. I, Torino 1953, pp. 149-150). La tecnica speculativa è qui un po’ più raffinata, per cui non ci sorprendono considerazioni di natura metodologica, applicate poi al solito problema della povertà e della carità. Scrive Atenagora: «... chi non conosce una cosa che è da fare non potrà assolutamente né tentare né eseguire ciò che non conosce; chi poi conosce bene ciò che è da fare con quale mezzo, e in quale modo si può fare, ma non ha punto di forza per fare quello che conosce, o non l’ha sufficiente, costui, se ha fior di senno e se pone mente alle sue forze, non si accingerà all’opera sua; e se vi si fosse accinto avventatamente, non potrà portare a compimento il suo proposito». (Della risurrezione dei morti, tr. it., Torino 1947, pp. 148-149). Questa analisi dei mezzi è propedeutica a un raggiungimento degli interessi che costituiscono lo scopo di ogni uomo. Si tratta di una considerazione fondata sul senso comune, ma Atenagora vi giunge attraverso un interessante procedimento metodologico. Egli continua: «... troviamo che chiunque abbia senso e si accinga a un’azione [...] agisce o in vista dell’utile proprio, e per vantaggio di qualcun altro che gli sta a cuore, o per l’essere stesso che vien fatto, mosso a produrlo da una naturale inclinazione ed effetto [...] così l’uomo costruisce una casa per l’utilità propria; costruisce pure per i buoi e i cammelli e gli altri animali di cui ha bisogno, un ricovero adatto a ciascuno; e ciò, all’apparenza, non per l’utilità propria; ma, se si guarda al fine, proprio per questo, e se si guarda all’oggetto immediato, per la cura delle cose che gli stanno a cuore». (Ib. pp. 186-188). Questo conduce a una interpretazione soggettiva del concetto di utilità. Pareto si è avvicinato a questa concezione soggettiva dell’utilità, o ofelimità, come lui la chiamava. (Cfr. Corso di Economia Politica, op. cit., p. 11).

Un posto a parte occupa Erma con il suo Pastore, i cui spunti apocalittici, con i frequenti riferimenti a visioni e simboli convenzionali, gravano non poco sull’esposizione del pensiero che appare comunque dotato di una certa saggezza pratica da vero borghese di campagna quale sembra essere stato. La tesi di Paolo è contemperata dalla ricerca di una onesta agiatezza, proposta come possibile in uno con le necessità imprescindibili dello spirito. Ha fatto notare Barbieri: «In realtà ne Il Pastore di Erma vibra il senso di Dio, cui viene ricondotta ogni cosa, compresa la proprietà dei beni economici, ma ad esso si accompagna uno spirito pratico, che suggerisce ed invoca le più adatte soluzioni del cristiano, attingendole alla realtà di ogni giorno, in cui il giusto possesso dei beni può coesistere con l’operosa carità». (Fonti per la Storia delle Dottrine Economiche, op. cit., p. 147). «Beati coloro che hanno compreso l’importanza delle proprie ricchezze! Chi ne è persuaso le amministrerà rettamente e potrà operare qualche cosa di bene». (Erma, Il Pastore, tr. it., Siena 1928, p. 86). Frase dove appare chiaramente una diversa concezione delle ricchezze, un loro valore sociale, con una concreta giusta utilizzazione, indipendentemente dalla soluzione comunitaria. Erma è realista riguardo la povertà, come riguardo il destino dell’iniziale tensione comunitaria. «La sofferenza dei poveri – scrive – è come quella di chi si trova in prigione; e molti, non potendola sopportare, si tolgono da se stessi la vita». (Ib. p. 172). Siamo quindi ben lontani da un mondo idealizzato in maniera idilliaca, in cui tutto si basa su aiuti reciproci e mutua fratellanza. Erma riflette evidentemente di fronte a una situazione di disgregazione e di contrasto, ancora non radicale, ma sufficientemente pronunciata. Le comunità più grosse stanno andando verso una indipendenza pratica, slegandosi dagli originari vincoli fondati su concezioni strettamente comunitarie. Si sta facendo strada l’abitudine a scegliere ognuno la propria valutazione dei problemi economici, con una fiducia in se stessi e una maggiore larghezza di giudizio e di scelta. L’entrata a far parte delle comunità cristiane di larghe schiere di mercanti, di uomini d’affari, di pubblicani, di proprietari, ecc., non dovette essere senza influsso per le sorti della dottrina. La donazione non è più il risultato della consuetudine, né di una passiva tendenza ad associarsi ai propri confratelli, non è più l’atto di immissione nella proprietà collettiva. Essa diventa il risultato di una libera elezione, da parte di ogni individuo, di una linea di condotta, attuata dopo matura riflessione, capace di fare raggiungere o meno gli scopi dell’eterna felicità, ma da per se stessa non in grado di garantirla.

È intorno al II secolo che si differenziano maggiormente le sette comunitarie cristiane dotate di una certa autonomia, spesso definita eretica, cioè come estranea al corpo principale della Chiesa. In questo contesto, gli Esseni ricevono una spinta che li allontanerà sempre più dal giudaismo primitivo per avvicinarsi a una sorta di ritualismo sacramentale ricco di elementi di origine persiana. Il dualismo tra anima e corpo si fa più rigido, subendo le influenze elleniche, anche attraverso l’elaborazione cristiana. Sulla loro tendenza al celibato, al divieto del sacrificio dagli animali e alla rigidità dei gradi interni alla comunità è stata identificata una influenza indiana (Max Weber). Dal punto di vista filosofico, la loro dottrina si avvicina a quella che sarà poi il neoplatonismo di Alessandria. Charles Louis Richard e Jean Joseph Giraud ci danno indicazioni più dettagliate tratte da Filone: «[Gli Esseni] abitano in campagna, ed evitano di vivere nelle città grandi a motivo della corruzione che colà alberga ordinariamente [...]. Gli uni coltivano la terra, e gli altri attendono ad occupazioni di cose che servono soltanto in tempo di pace, non volendo far del bene se non che ad essi medesimi ed agli altri uomini. Essi non curansi d’accumulare né oro, né argento, e non procuransi grandi acquisti di terre per aumentare le loro rendite, accontentandosi di possedere quanto basta affine di sovvenire ai bisogni della vita [...]. In tempo di pace non occupansi mai di cose delle quali gli uomini fanno cattivo uso [...]. Non hanno schiavi, ma servonsi reciprocamente [...]. Infine mostrano il loro amore pel prossimo nella loro liberalità e nella loro condotta sempre eguale con tutti, e nella loro comunione dei beni». (Biblioteca sacra, vol. IV, tr. it., Milano 1840, pp. 377-378).

Queste comunità, originariamente probabile passaggio tra giudaismo e cristianesimo antico, divennero sempre più caratterizzate nel senso del cristianesimo, per quanto da questo si mantenessero distanti proprio sul terreno della compromissione sociale sviluppata a seguito della svolta paolina. Elementi che rimasero comuni col cristianesimo ecclesiastico dei primi tempi furono il battesimo, il banchetto d’amore, il cosiddetto agape, il comunismo d’amore acosmico, l’apostolato, la rinuncia al matrimonio, il carisma del redentore e il riferimento alle profezie. Poi, anche il pacifismo di fondo, la valutazione negativa delle ricchezze, l’ideale comunitario dei beni, per cui il cristianesimo andò via via ad allontanarsi, fino a isolare gli Esseni in una vera e propria setta.

L’irrigidimento in senso comunitario si accompagnò anche alla rimessa in discussione di alcuni aspetti dell’ordinamento cristiano delle origini, in relazione col cedimento e con la riforma in corso, espressione questi dei compromessi necessari al mantenimento della struttura cristiana. Gli indirizzi che queste comunità prenderanno saranno verso lo gnosticismo e verso il manicheismo. Le prime a diffondersi furono le comunità a indirizzo gnostico. In fondo si tratta di uno dei primi tentativi di rielaborazione della dottrina cristiana, in cui si intersecano anche componenti orientali e neoplatoniche. L’assoluto principio comunitario era una discriminante essenziale, col rigetto di qualsiasi tesi compromissoria, sulla linea che conduce da Paolo ad Erma, per quello che fino a questo momento abbiamo esaminato. Ha scritto Ernesto Buonaiuti: «Gli gnostici costituiscono un immenso fenomeno di psicologia religiosa morbosamente esaltata che muovendo da umili origini, ha assunto adagio adagio in un ambiente favorevole come l’atmosfera intellettuale romana del II e III secolo proporzioni allarmanti. Inutile è quindi frazionarlo, sezionarlo, analizzarlo nei suoi coefficienti: è un fenomeno complesso, che raccoglie da mille fonti il suo elemento, che getta in mille disposizioni psicologiche diverse i suoi tentacoli insinuanti». (Lo gnosticismo, Roma 1907, p. 124).

La setta dei carpocraziani, che si ispira alle tesi di Carpocrate, indicate dai Padri come rigidamente comunitarie ma non confutate direttamente, si sviluppò su base gnostica. La tendenza che sembrerebbe prevalere qui è quella della perfezione. La chiusura e l’autodifesa della comunità, nei confronti sia del potere istituzionalizzato, sia riguardo la dottrina cristiana che ormai sta indirizzandosi verso episodi e teorie riformiste e razionalizzanti, dovettero spingere verso l’idea del fedele come perfetto. Approfondendo l’analisi di due trattati gnostici scoperti a Oxford, Émile Amélineau scrive: «[Nel secondo trattato] si tratta come prima cosa dell’iniziazione che Gesù dà ai suoi discepoli per renderli perfetti nel possesso della Gnosi, e delle parole d’ordine che insegna loro per fargli attraversare ogni mondo e condurli fino all’ultimo, dove risiede il Padre di tutte le Paternità, il Dio della verità». (Les traités gnostiques d’Oxford, ns. tr., Paris 1903, p. 9). Questo concetto di perfezione, come autodifesa di quasi tutte le eresie, spingerà all’estremo la contrapposizione critica riguardo i comportamenti accomodanti della dottrina ufficiale della Chiesa. Appena due secoli fa l’eresia di Carpocrate era dipinta come istigazione alla libertà del peccato. Così Dominico Bernino: «Per ridurre in pratica il suo disegno [Carpocrate] formò l’Idea di un Uomo il più brutale, che finger si potesse, così per ridurre in pratica il disegno, gli convenne rintracciar motivi, per li quali l’Uomo, per così dire, si disumanasse, rinunziando al dettame della ragione, alla naturalezza della vergogna, e a tutto ciò per cui viene costituito razionale nelle massime, e civile nei costumi; e perciò in quest’Articolo restrinse tutto il suo Assunto, che nient’altro di quei, che diconsi peccaminosi, di sua natura sia malo, ma sia indifferente, e perciò lecito, e sol allora divenir peccaminoso, malevolo, ed illecito, quando tale si riputava dall’opinione degli Uomini». (Historia di tutte l’Heresie, vol. I, Venezia 1733, p. 47). Questa indicazione, che Bernino ricava da notazioni indirette dei Padri, è importante perché ci fa vedere come all’irrigidirsi della struttura comunitaria, e alla chiusura della setta, corrispondeva anche un maggior valore attribuito all’uomo che, in uno con le sue pratiche, veniva a contrapporsi alle proiezioni esclusivamente ecclesiastiche del cristianesimo in via di sviluppo.

Un altro punto è fatto notare da François André Adrien Pluquet: «Carpocrate e molti altri eretici avevano insegnato che l’anima umana era una emanazione dell’intelligenza suprema, e che era stata rinchiusa negli organi corporali dal Dio creatore. Questo modo di ispirare l’uomo ispirò ai suoi discepoli un’alta idea di se stessi, disprezzo per la vita e un violento odio contro il Dio creatore; ciascuno si fece un dovere di violare le leggi date da Dio agli uomini... ». (Dictionnaire des hérésies, des erreurs et des schismes, vol. I, ns. tr., Paris 1847-1853, col. 310). Con questa tesi ci si allontana dall’iniziale assunto cristiano non solo per l’imprigionamento eterno dell’anima, ma anche per la considerazione negativa del compito di un ipotetico creatore eterno, concezione che potrebbe rapportarsi con la crescente disillusione determinata dagli atteggiamenti compromissori del cristianesimo. Più esplicito Epifane, figlio di Carpocrate, di cui ci sono pervenuti alcuni frammenti tramite Clemente Alessandrino. «... le leggi non potendo vietare l’ignoranza degli uomini insegnarono ad agire contro il diritto: infatti le leggi particolari e private spezzarono e corrosero il comunismo della legge divina, senza comprendere le parole dell’Apostolo che dice: “Per mezzo della legge conobbi il peccato”. [Paolo, Lettera ai Romani, 3, 30]. Il “Mio” e il “Tuo” furono introdotti per mezzo delle leggi, sì che per esse non è più possibile usare in comune delle cose che sono comuni, della terra, dei possessi, e dello stesso matrimonio». (Stromata, 3, 2).

Un’altra setta gnostica, quella di Prodico, si diffonde in Cirenaica. Un elemento dei carpocraziani, il vegetarismo, viene qui probabilmente fuso con una sorta di nudismo, se si deve credere delle feroci critiche dei Padri scandalizzati. Per altro il nome della setta deriverebbe da Adamo, di cui gli adamiti si dicevano continuatori e imitatori. Le loro chiese si identificavano come luoghi comunitari, sorta di paradisi terrestri, dove i perfetti vivevano in totale comunione di beni, anche di donne, sempre a sentire la critica dei Padri. Una variante è data dalla setta comunitaria dei nicolaiti, che si sviluppa più o meno nel II secolo d. C. Nel XVIII secolo Bernino riprende quasi interamente la tesi di S. Epifanio: «... nelle loro chiese oravano nudi a somiglianza di Adamo, vantandosi d’imitare l’innocenza nella nudità della Persona; ma con perversa imitazione... ». (Historia di tutte l’Heresie, vol. I, op. cit., p. 51). Comunque, queste precisazioni riguardanti i costumi delle sette comuniste non sono sicure, essendo dettate da ignoranza o da astio nella letteratura dei Padri. Nel De haeresibus di Agostino ci sono dettagli che appaiono incredibili. È certo però che l’estremizzarsi delle tendenze comunistiche dovette procedere parallelamente a una sorta di ritorno alla natura. Nel V secolo d. C. si diffonde in Persia la setta di Mazdak, dichiaratamente manichea che, sostenuta da re Kavadh, pone in atto alcune riforme di carattere etico e sociale, dirette ad abolire tutti i motivi di cupidigia e la discordia fra gli uomini, instaurando una specie di regime religioso comunista che sarà poi distrutto dal un re successivo. Altre sette simili si diffusero successivamente anche nella civiltà musulmana. Continuando, in un modo più o meno evidente, attraversarono tutto l’alto Medioevo per arrivare alle grandi esplosioni di massa nell’Europa orientale e occidentale. Fra gli Arabi si diffusero le sette dei carmati e degli ismaeliti. In occidente quelle dei bogomili e dei catari. «[I bogomili] hanno in odio gli imperatori, insultano i signori, ritengono che siano odiosi a Dio coloro che lavorano per il re e perciò proibiscono ai singoli servi di lavorare per i loro padroni». (Henri Ch. Puech - André Vaillant, Le Traité contre les Bogomiles de Cosmas le Prètre, ns. tr., Paris 1945, p. 86).

In tempi diciamo storici, le notizie su virtuosi comunisti, che sopravvivono prendendo via via forme e denominazioni diverse, si fanno più esatte. Ha scritto Jean Guiraud a proposito delle sette manichee in generale: «Le prescrizioni della morale manichea erano molto austere, a causa della legge assoluta del celibato e dei rigori delle sue astinenze, essa superava le più severe regole monastiche. Ciò spiega perché quelli che le osservavano non mancò molto tempo che si fecero, in mezzo ai costumi facili del Mezzogiorno, una reputazione di santità [...]. Non potendo negare gli effetti sbalorditivi, i predicatori cattolici ripiegarono sull’accusa che questo puritanismo non era altro che ipocrisia e che sotto questi aspetti austeri si nascondevano i vizi più vergognosi». (Cartulaire de Notre-Dame de Prouille, vol. I, ns. tr., Paris 1907, pp. CII-CIII). E si tratta di un autore che, come abbiamo visto in un altro suo lavoro, è di tendenza cattolica.

A proposito dei taboriti, una branca degli hussiti, Ernest Denis ha scritto: «... la massa di quelli che combatterono e morirono per le loro credenze, era convinta che portava avanti l’opera di Dio distruggendo le ineguaglianze e le ingiustizie sociali. L’idea della comunanza dei beni è molto diffusa nel Medioevo. Il cristianesimo l’ha accettata e sviluppata, e ogni ritorno del pensiero religioso verso la Chiesa primitiva è segnato da un tentativo corrispondente di ritorno verso la comunità apostolica dei beni. Qualche associazione taborita si mantenne per molto tempo; i fratelli lavoravano assieme, riunivano i raccolti e li dividevano con gli altri fratelli armati che combattevano per la verità. È probabile che il ricordo delle antiche abitudini slave favorì l’applicazione delle teorie nuove». (Huss et la guerre des Hussites, ns. tr., Paris 1878, p. 288).

Le idee dell’inglese John Wyclif, professore a Oxford, si diffondono in Boemia, dove vengono propugnate da Jan Hus. I rapporti tra i due Paesi erano cresciuti a seguito del matrimonio di Riccardo II con Anna, figlia del re di Boemia. Ha scritto Ludovic von Pastor: «Come la dottrina di Wyclif, così anche le massime del maestro di Praga [Hus] dovevano di necessità condurre a una rivoluzione sociale, qualora sulle basi di esse si fossero trasformate le esistenti condizioni di possesso [...]. Non occorre mostrare più da presso, come in tali teorie consista la soppressione di tutto il diritto privato [...], come norma della ricostruzione di un nuovo ordine sociale, poiché le guerre degli hussiti scoppiate più tardi in parte hanno avuto un carattere oltre modo sanguinoso appunto perché si dovevano mettere in pratica tali idee. Dichiarata guerra all’ordine sociale, Hus mise in dubbio ogni potere dello Stato». (Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo, vol. I, tr. it., Roma 1931, p. 167).

Il comunismo divenne quindi una concreta paura sia per il papa che per i signori locali. L’eresia boema respingeva ogni autorità non solo spirituale, ma anche temporale, aboliva le decime, le offerte e tutte le tasse e contributi. Malgrado i tentativi di inquinare la situazione con le calunnie e le diffamazioni, la realtà era troppo evidente per distogliere le masse sfruttate dalla partecipazione. Fra queste calunnie vennero riprese le vecchie tesi sugli adamiti, parlando della presenza di una tendenza all’interno della setta, definita dei picardi, che riprendeva le antiche pratiche naturiste e vegetariane. Non sappiamo se la cosa è attendibile, comunque questa critica la si trova in testi del XVIII e perfino del XIX secolo. «Il pretesto della persecuzione [dei Fratelli boemi] venne non soltanto dallo scisma, ma anche dall’unione con la setta, conosciuta e diffamata in Boemia sotto l’odioso nome di picardi». (J. Lenfant, Histoire de la guerre des Hussites et du Concile de Basle, vol. I, ns. tr., Amsterdam 1731, p. 305). Anche Pluquet: «L’eresia degli adamiti condannata fin dagli inizi, si rinnovò (nel quattordicesimo secolo) a causa di uno scellerato chiamato Picard, dal suo paese nativo; passando in Belgio e, sotto la spinta di questo iniquo avventuriero, in Boemia... ». (Dictionnaire des hérésies, des erreurs et des schismes, op. cit., vol. I, col. 312).

Ma lo strumento più efficace fu l’appello alla crociata contro l’eresia. Il documento del Cardinale legato Branda Castiglioni al re di Polonia è chiarissimo: «Scopo della mia missione è l’onore di Dio, il bene della fede e della Chiesa, la salvezza dell’umana società. Gran parte degli eretici afferma che tutto ha da essere in comune e che alle autorità non si debba portare senso, tributo od obbedienza di nessuna sorta, massime queste, per le quali è annientata l’umana civiltà ed è tolta ogni sapiente ed esperta direzione del genere umano. Essi mirano a distruggere con la violenza brutale ogni diritto divino ed umano e si andrà tant’oltre che né il re ed i prìncipi né i loro regni e dominii, né i cittadini nelle città, né insomma alcuno nella propria casa sarà più sicuro dalla loro audacia: questa abominevole eresia perseguita non solo la fede o la Chiesa, ma, ispirata dal diavolo, muove guerra a tutta l’umanità, i cui diritti manomette e calpesta». (Citato da L. v. Pastor, Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo, vol. I, op. cit., p. 168). La crociata è lanciata da Martino V il 1° marzo del 1420, ed è diretta: «all’estirpazione dei Wiclefiti, Hussiti e altri eretici».

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Ma torniamo al nostro problema, seguendo lo sviluppo della difesa cristiana, l’apologia, sia nei riguardi del potere temporale, per il momento nemico, sia nei riguardi dei movimenti ereticali. Con Tertulliano, grande retore e uomo di lettere, il cristianesimo acquista una forza polemica viva, acre nello scontro, ma capace di risvegliare interesse per problemi che si andavano lentamente ammorbidendo all’interno delle comunità cristiane di tendenza paolina, specie dopo la defezione di quelle più rigidamente comuniste. Per primo, egli rivendica una indipendenza di pensiero alla filosofia cristiana, pur non mancando di rilevare i punti di raccordo tra l’antica sapienza e la nuova fede, anche allo scopo di segnare gli errori della prima. Se qualche traccia si può trovare in lui, della filosofia greca, è la dottrina stoica che sembra ancora avere la sua influenza. Fino a Origine, comunque, queste influenze saranno marginali, non raggiungendo l’animo del vasto movimento di seguaci, che nel frattempo si andava diffondendo.

Dai testi di Tertulliano traspare la necessaria superficialità dell’apologeta. Attaccando una donna, una certa Quintilla, che criticava la capacità del battesimo di togliere il peccato originale, la paragona a una vipera, che amando stare nei luoghi aridi non ama l’acqua. Allo stesso modo, tutti quelli che non credono nel battesimo, non amando l’acqua, sono nemici dei cristiani. (De baptimo, 1). Il ragionamento parla da sé e non merita commenti. Purtroppo la retorica non può supplire alla mancanza di consistenza reale nelle argomentazioni. In un altro lavoro, discutendo degli dèi pagani dice: «Debbo ricercare se questi dèi hanno meritato di essere elevati in cielo, e non meglio essere precipitati in fondo al Tartaro, che come affermano [i pagani] è il luogo della pene dei delinquenti». (Apologeticus, 11). Poi, il discorso si dilunga su questi delinquenti e non parla più dei motivi per cui gli dèi pagani dovrebbero andare al Tartaro. Il modo di argomentare è insufficiente, ma è lo stesso efficace dal punto di vista dell’apologia.

In fondo, siamo in un periodo di ristagno. I virtuosi più estremisti hanno costituito le loro comunità, in polemica con i cristiani. Le comunità cristiane in senso tradizionale sono attaccate dalle persecuzioni e dai contrasti con gli eretici. Da ciò le affermazioni di Tertulliano che nelle sue difese del comunismo degli inizi non va tanto per il sottile. «Uniti così nell’animo e nella vita, non esitiamo a mettere in comune le nostre sostanze. Tutto è indiviso presso di noi, tranne le mogli. Rompiamo la comunanza soltanto là dove gli altri uomini sono soliti esercitarla, essi che non solo usurpano le mogli degli amici, ma cedono anche agli amici pazientemente le loro mogli; sull’esempio, io credo, dei loro antenati e dei loro sapienti, del greco Socrate e del romano Catone». (Apologeticus, 28, 11-12). Malgrado questa affermazione non ci convince. I tempi del primitivo movimento comunitario sono ormai lontani. Egli vuole contrapporre una certezza di costumi propria di quelle comunità che praticavano ancora, e quasi certamente in modo esclusivo, il comunismo dei beni, ma di già contrapponendosi al pragmatismo possibilista di cui la Chiesa cristiana si faceva promotrice sull’insegnamento di S. Paolo. Giorgio Barbero ha rilevato la scarsa sensibilità di questo passo: «Il quadro che Tertulliano ci presenta della società cristiana appare fortemente idealizzato. Confrontato con quello che a cinquant’anni di distanza ci offre Cipriano nel De lapsis, 6, dove è denunciato il caso di vescovi che, a disprezzo della loro missione divina, si sono fatti amministratori di beni mondani, lasciano i fratelli delle loro chiese a patire la fame e si impinguano prestando a usura, la sproporzione fra la realtà e l’ideale vagheggiato è tanto forte che riesce impossibile attribuire al passo il valore di un riferimento storicamente attendibile». (Il pensiero politico cristiano, vol. I, Torino 1962, p. 219).

Le stesse riflessioni sulla ricchezza non dicono nulla di nuovo. In Tertulliano la ricchezza è sempre accompagnata dalla cupidigia, «... e per cupidigia non dobbiamo intendere unicamente il desiderio dell’altrui; infatti, anche ciò che sembra nostro, in realtà non ci appartiene, poiché non c’è nulla di nostro, poiché tutto è di Dio al quale anche noi apparteniamo». (De patientia, 7, 5). Il che significa spostare il problema. In questo senso, quindi, nulla di nuovo o d’importante riguardo il dibattuto problema della liceità della ricchezza. Con Tertulliano si approfondisce però l’analisi introspettiva e si arricchiscono i problemi di nuovi contributi terminologici. In un certo modo, si apre la strada al futuro intervento di Agostino.

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Minucio Felice ripresenta alcune delle tesi di Tertulliano, ma in forma più serena e distesa, dovuta in parte al suo carattere di uomo di lettere, avvocato e quindi lontano dalle irruenze del polemista africano. Senza trattare di misteri della fede, e senza ricorrere a testimonianze sacre e ad autorizzazioni, il suo discorso, tenendo conto anche delle presenze culturali greche e latine, risulta il più adatto a penetrare nell’ambiente colto dei pagani. Ecco il passo, famoso, dove è contenuta l’interpretazione psicologica della ricchezza e della povertà. «Quando poi ci dite che siamo poveri, non ci recate infamia, ma gloria, perché mentre nel lusso la volontà si infiacchisce, nella frugalità si fortifica. Del resto come può essere povero chi di nulla ha bisogno, chi non desidera quello che ad altri appartiene, chi si sente ricco di Dio? Povero è colui che, possedendo molte cose, più ancora ne desidera!». (Ottavio, tr. it., Roma 1947, p. 173). Il passo può sembrare di poco valore nei confronti del problema, persistente, di dare una interpretazione ai fenomeni sociali ed economici, ma è proprio con questi piccoli contributi che si è costruita la strada verso il capovolgimento del significato da dare alla ricchezza. Si sta infatti passando, per gradi, dall’idea di semplice quantitativo di moneta, o di beni direttamente trasformabili in moneta, a insieme di facoltà, qualità, attitudini e possedimenti di un individuo inserito in una società attiva e produttiva.

Ancora sotto l’influenza di Tertulliano, restano gli scritti di Cipriano, avviati direttamente alla risoluzione di problemi pratici di organizzazione e di disciplina. Anche lui avvocato, diventa cristiano dopo avere dato tutti i suoi beni ai poveri. Notevole il pessimismo che traspare dalle sue analisi della società cristiana dell’epoca. Non bisogna dimenticare infatti che il fenomeno cristiano, almeno come lo si era visto in atto nei primi tempi, aveva ormai ben tre secoli di vita e un’estensione grandissima. A ciò si deve aggiungere il fatto che raggruppava gente di diversi Paesi, provenienti da diverse religioni, con diverse mentalità. Il fervore del primitivo comunitarismo e della immediatamente successiva elemosina organizzata su vasta scala, strumento con cui la riforma paolina aveva cercato di frenare il predominio strettamente comunitario, non potevano durare a lungo, tenendo conto anche dell’ampiezza del fenomeno sociale in corso. (Cfr. I. Giordani, Il messaggio sociale di Gesù, Milano 1935, vol. III, p. 226). Si imponeva, pena la disgregazione organizzativa di tutta la Chiesa cristiana, con il relativo sacrificio di tutte le conquiste parziali fino a quel momento ottenute, una rigida presa di posizione dottrinale per arrivare alla giustificazione dello spirito produttivo, giustificazione che se faceva inorridire alcuni come Cipriano, alla lunga dovette sembrare un male ineliminabile e quindi necessariamente da accettare superandolo. Come è stato notato (Ernesto Buonaiuti, Giorgio Barbero), con Cipriano si arriva a una delle più accese espressioni dell’antistatalismo africano, ancora più valida ed efficace perché frutto del pensiero di un organizzatore e non di un vivace e superficiale polemista. In questo Cipriano si discosta fortemente da tanti suoi contemporanei, uniti sotto la dottrina compendiata ottimamente da Origene, della lealtà divisa.

Cipriano rifiuta ogni compromissione ufficiale con lo Stato. Dall’interno della libertà spirituale, accetta solo i vincoli della comunità religiosa, a cui si sottomette volontariamente in nome del messaggio divino del cristianesimo. Questa concezione critica dell’autorità temporale fa assumere alla tesi di Cipriano riguardante la ricchezza una connotazione che la distingue dalle altre del suo tempo. Anche lui condanna la preoccupazione per il domani, il desiderio di sempre maggiori guadagni, la schiavitù psicologica dell’uomo vinto dal denaro, e anche lui esorta a cedere tutti i beni e a darli a Dio. Fin qui nulla di nuovo. Ma ai differenti motivi che adduce per esortare a questa prova il cristiano, aggiunge, per la prima volta: «... il patrimonio affidato a Dio non te lo toglie lo Stato e non te lo invade il fisco». (De opere et eleemosyna, 19). Egli fa riferimento a un patrimonio determinato, posto sotto l’insegna di Dio, e appartenente alla comunità religiosa, a cui è possibile attingere per sopperire alle necessità dei più bisognosi della comunità stessa, essendo impensabile che, nell’incitare all’abbandono di tutti i beni per affidarli a Dio, egli volesse riferirsi alla loro distruzione come oggetti di spettanza del diavolo. Si tratta quindi di una comunanza facoltativa, segno di superiore virtù, ma che dimostra come si sia evoluta in senso riformista l’iniziale comunanza di fatto valida per tutti i cristiani. Questo patrimonio, nel suo pensiero di cristiano e di organizzatore, diventa un mezzo per affrontare tutte le difficoltà della Chiesa riguardo le preoccupazioni per le cose terrene. L’antico concetto comunitario, trattandosi di un uomo preso da ben altri problemi, è ormai lontano.

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Con Lattanzio, apologista anche lui di origine africana, abbiamo una nuova formulazione del problema comunitario. Dotato di vasta preparazione filosofica, profondo conoscitore di Epicuro, Lattanzio scrive una delle più chiare e complete esposizioni di tutta la dottrina cristiana. Egli è l’uomo nuovo del pensiero filosofico del cristianesimo, con idee chiare e senza eccessive illusioni. In lui sono scomparse del tutto le antiche idealità di una vita comunitaria felice, fondata su un’equa distribuzione delle ricchezze. Il tono stesso delle sue esortazioni è molto mitigato. «Se vogliamo trarre dalle ricchezze tutto il partito possibile, non dobbiamo usare di esse solamente per soddisfare un nostro egoismo e la nostra sensualità, ma anche per sovvenire alle necessità di tutti e non solo per soddisfare i bisogni corporali della vita presente». (Divinae Institutiones, 4, 12). Quindi, non si tratta di una totale rimessa dei propri averi nelle mani dei capi della comunità, ma di un’azione valutata dal punto di vista produttivo, diretta a conferire alla ricchezza una validità sociale. L’antica dottrina comunitaria si è ormai spostata radicalmente sul piano pratico. Si è arrivati a giustificare il lavoro e la fatica, i quali vengono ad avere in questo modo una prospettiva futura di riconoscimento religioso, come particolare grazia di Dio, e ciò in duro contrasto con l’antica tesi della non preoccupazione per l’avvenire, i gigli dei campi e così via. Bene, su questo punto, Heidegger: «Autenticità e inautenticità (queste espressioni sono state scelte nel loro senso terminologico stretto), sono modi di essere che si fondano nell’esser l’Esserci determinato, in linea generale, sull’esser-sempre-mio. L’inautenticità dell’Esserci non importa però un “minor” essere o un grado “inferiore” di essere. L’inautenticità può invece determinare l’Esserci, con concretezza più piena, nell’operosità e nella vivacità, nella capacità di interessarsi e di godere. Questi due caratteri dell’Esserci, il primato dell’“existentia” sull’essentia e l’esser-sempre-mio, bastano a far vedere che un’analitica di questo ente si trova innanzi a un campo fenomenico del tutto particolare. Questo ente non ha e non può avere il modo di essere proprio di ciò che è semplicemente-presente dentro il mondo. Perciò anche l’esibizione tematica di esso non può essere quella adatta all’incontro con ciò che ha il modo di essere della semplice-presenza. L’approntamento della via di accesso idonea è un’operazione così poco ovvia che la sua determinazione rappresenta una parte essenziale dell’analitica ontologica di questo ente. Dall’approntamento della via di accesso adeguata a questo ente dipende la possibilità di arrivare o meno alla comprensione dell’essere che gli è proprio. Anche se l’analisi è provvisoria, essa esige l’assicurazione dell’esattezza della sua impostazione. L’Esserci si determina come ente sempre a partire da una possibilità che egli stesso è e che, nel suo essere, in qualche modo comprende. Questo è il senso formale della costituzione dell’esistenza dell’Esserci. E qui si fonda, per l’interpretazione ontologica di questo ente, l’indicazione di svolgere la problematica del suo essere a partire dall’esistenzialità della sua esistenza. Ma ciò non significa la costruzione dell’Esserci in base a una possibile concreta idea di esistenza. L’interpretazione dell’Esserci non deve prendere le mosse da ciò che differenzia un modo di esistere particolare, ma deve disvelare l’Esserci nel suo indifferente innanzitutto e per lo più. Questa indifferenza della quotidianità dell’Esserci non è un nulla, ma un carattere fenomenico positivo di questo ente. Ogni esistere è quello che è a partire da questo modo di essere e ritornando ad esso. A questa indifferenza dell’Esserci diamo il nome di medietà. Proprio perché la quotidianità media rappresenta la forma antica in cui l’Esserci si presenta innanzitutto, essa fu ed è di continuo saltata nell’esplicazione dell’Esserci. Ciò che è anticamente più vicino e noto, è ontologicamente più lontano, sconosciuto e disconosciuto nel suo significato mitologica. Quando Agostino chiede: Quid autem propinquius meipso mihi?, e deve rispondere: Ego certe laboro hic et laboro in meipso; factus sum mihi terra difficultatis et sudoris nimii, ciò non vale solo per l’opacità antica e preontologica dell’Esserci, ma anche, e in misura ben maggiore, per il compito ontologico, non solo di non lasciarsi ingannare nella comprensione di questo ente nel suo modo di essere fenomenicamente più vicino, ma di renderlo accessibile nei suoi caratteri positivi. La quotidianità media dell’Esserci non può perciò essere intesa semplicemente come un suo “aspetto”. Anche in essa, se pure nel modo dell’inautenticità, si incontra a priori la struttura dell’esistenzialità. Anche in essa ne va per l’Esserci del suo essere in un modo determinato, poiché l’Esserci, in questo caso, si rapporta al proprio essere nel modo della quotidianità media, anche se questa è soltanto il modo della fuga dinanzi a se stesso e dall’oblio di sé. L’esplicazione dell’Esserci nella sua quotidianità media non offre però solo strutture medie nel senso di approssimative e nebulose. Ciò che è anticamente nel modo della medietà, può essere compreso ontologicamente in strutture pregnanti, che non sono strutturalmente diverse dalle determinazioni ontologiche proprie dell’essere autentico dell’Esserci. Tutti gli esplicati dell’analitica dell’Esserci sono ottenuti in riferimento alla sua struttura esistenziale. Poiché essi si determinano in base all’esistenzialità, diamo ai caratteri d’essere dell’Esserci il nome di esistenziali. Essi sono ben diversi dalle categorie, che sono determinazioni d’essere degli enti non conformi all’Esserci. Quest’ultima espressione è scelta e mantenuta nel suo significato ontologico primario. L’ontologia antica ha assunto come terreno esemplare della sua interpretazione dell’essere l’ente che si incontra all’interno del mondo. Quale modo di accesso a questo ente essa fa valere il noeÝn o il lñgow. È in essi che si incontra l’ente, Ma l’essere di questo ente deve rendersi accessibile in un l¡gein (lasciar vedere) particolare, in modo che questo essere si renda anticipatamente comprensibile in ciò che esso è e come è già in ogni ente». (Essere e tempo, op. cit., pp. 108-110).

Lattanzio propone una interpretazione del comunismo della Chiesa primitiva forse più adeguata ai tempi, inserendosi quindi nel contrasto tra i gruppi eretici e la posizione cristiana favorevole alla ricchezza che si andava sviluppando all’interno delle strutture ecclesiastiche. «Dio ci dette la terra in comune, non perché un’avarizia irritante e spietata si manifestasse, ma perché gli uomini vivessero in comunità e nessuno soffrisse mancanza di quello che la nostra comune madre aveva prodotto con tanta liberalità e magnificenza. Dai dati che ci somministrano i poeti e i primi storici dell’umanità si deduce che quegli uomini primitivi erano così liberali che non nascondevano i frutti della terra, né conservavano con grande attenzione i suoi tesori per godere da soli di essi, ma ammettendo i poveri alla partecipazione del lavoro personale». (Divinae Institutiones, 5, 5). Qui sembra che l’autore si riferisca a una sorta di collettivismo, in cui forse grandi proprietà venivano gestite in modo da fare partecipare ai benefici, anche coloro che non possedevano nulla, purché fossero in grado di lavorare e di rendere. Qualcosa di molto diverso dalla semplice elemosina.

Il comunismo puro e semplice, quello che anche all’interno del cristianesimo dei primi tempi era fondato su di un’ipotesi filosofica radicale, è invece rigettato. Così egli critica non solo Platone, ma anche i tentativi pratici realizzati nell’ambito della filosofia neoplatonica. «Non sfuggì a Platone – egli scrive – cresciuto sotto l’influenza di Socrate, che la forza della giustizia, se è vero che tutti nascono di pari condizione, consiste nell’uguaglianza. Egli ne deduce che gli uomini non hanno nulla di privato e di proprio e, affinché possano essere uguali, come l’essenza della giustizia esige, devono possedere tutto in comune. Questo si può tollerare, finché sembra riferirsi al denaro, se pure anche questo, quanto sia impossibile e ingiusto, potrei dimostrare con molti argomenti. Concediamo tuttavia che possa avvenire: tutti saranno sapienti e disprezzeranno il denaro. A che cosa lo portò dunque questo comunismo? Anche i matrimoni, disse, dovranno essere comuni: alla medesima donna gli uomini come cani, accorreranno in molti [...]. E quale giustificazione addusse per così turpe consiglio? Egli disse: la città così sarà concorde e sarà unita nel vincolo di uno scambievole amore [...]. È chiaro che questo comunismo non può portare che all’adulterio e alla libidine, alla cui distruzione è massimamente necessaria la virtù. Perciò, chi vuole rendere gli uomini uguali tra loro non deve distruggere né il matrimonio né le ricchezze, ma l’arroganza, la superbia, il gonfiore dell’anima [...]. Una volta distrutta l’insolenza e l’iniquità dei ricchi non ha più importanza che gli uni siano ricchi e gli altri poveri, quando tutti sono uguali nell’anima [...]. La proprietà privata contiene infatti materia di vizi e di virtù: il comunismo non offre che sfrenate possibilità di vizio». (Divinae Institutiones, 3, 21-22, cfr. Migne, P. L., VI, coll. 417-421). In questa critica, che comunque si inserisce all’interno del progetto riformista cristiano, progetto diretto a isolare le comunità comuniste ancora persistenti all’epoca di Lattanzio, egli applica il medesimo principio generale che quasi tutti gli apologisti, e perfino lo stesso Agostino, applicavano e applicheranno: “la religione pagana è falsa perché oscena”. Si tratta di un modo di criticare, riguardo il comunismo in particolare, come ha fatto notare Gérard Walter, che anche oggi viene applicato regolarmente. (Cfr. Historie du communisme, op. cit., pp. 186-187). Lattanzio applica lo stesso metodo criticando il culto greco del fallo, estesosi poi anche a Roma e mai interrotto, se lo si ritrova anche in pieno Medioevo, inserito all’interno del cristianesimo, emergente in quasi tutte le cattedrali europee. Egli critica questo culto rilevandone l’oscenità, ma senza riuscire a darsene una spiegazione appropriata. (Cfr. De falsa religione, 21, 25).

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Di Tito Flavio Clemente, scolaro di Panteno ad Alessandria e poi capo di quella scuola catechetica e maestro di Origene, la tradizione ci ha trasmesso un’interpretazione ridimensionata del Quis dives salvetur che, se da un lato ha contribuito a rinsaldarne la fama, dall’altro ne ha duramente segnato i limiti. Per la fama, basta pensare che nel 1550, a Venezia, veniva curata da Piero Vettori una editio princeps, quando ancora si ignorava quasi del tutto questo ramo della letteratura cristiana antica. Ed è ancora da ricordare che nell’opera di un economista letterato del Cinquecento: Bernardo Davanzati, sono costanti i riferimenti a Clemente, secondo come è stato notato da Barbieri (cfr. Fonti per la Storia delle Dottrine Economiche, op. cit., p. 142). In fondo, come abbiamo visto, una forma di accettazione della ricchezza, se non addirittura una larvata difesa della stessa, non cominciano con Clemente, ma si potrebbero fare risalire a Erma. Adesso però i tempi sono molto diversi: Clemente vive in una grande città commerciale come Alessandria e ha contatti con un ambiente di media borghesia che guarda con preoccupazione alle vaste moltitudini di diseredati che, come in ogni tempo, dovevano affollare i margini della grande città, e ha difficoltà a considerare questa gente come possibili confratelli in Cristo. Da considerare che queste grandi masse, spesso di immigrati impoveriti dalle guerre e dalle pestilenze, dai cattivi raccolti e dalle tasse, spinte verso il polo d’attrazione della città commerciale, dove era piuttosto facile ipotizzare una sorta di sopravvivenza basata su piccoli lavori e commissioni, venivano inseriti nelle comunità cristiane avendo in sostanza ricevuto il solo battesimo, per cui permanevano al loro interno ogni sorta di credenze religiose, superstizioni e preconcetti, secondo il rispettivo luogo di provenienza. Ecco i passi più interessanti del Quis dives salvetur, riguardanti il problema della ricchezza: «... Vendi quello che hai. Che cosa vuol significare questo? Non impone già ciò che troppo facilmente alcuni asseriscono, di buttar via le proprie sostanze e di astenersi dal denaro; ma di porre dei limiti, nella propria anima, alla vana fiducia nel denaro, di tagliar via il vano desiderio delle ricchezze e la tabe dell’avarizia, le preoccupazioni, le spine del vivere, che soffocano il seme della vita. Poiché non è gran cosa, né degna di imitazione, il privarsi temerariamente di tutte le sostanze quando ciò non sia per un fine di vita. Se fosse così, tutti coloro che sono sprovvisti di tutto e vanno mendicando ciò che loro occorre ogni giorno, coloro che sono ridotti sul lastrico, che non conoscono Dio e la giustizia di Dio, per il solo fatto di trovarsi nell’estremo bisogno di tutto e di mancare di ogni sussidio, di essere in difficoltà anche per le più piccole cose, sarebbero i più beati e i più pii, i soli in possesso della vita eterna [...]. Non sono quindi da buttare le ricchezze che giovano al prossimo; esse si chiamano possessi perché è loro natura quella di essere possedute [...]. Le ricchezze sono a nostra disposizione e sono a noi sottoposte come materia e strumento, affinché se ne faccia buon uso da parte di coloro che sanno servirsene come di un mezzo. Le cose di cui ti servi secondo arte sono strumenti nelle tue mani. Ma se manchi della capacità di servirtene, esse prevalgono sulla tua imperizia, pur essendo in se stesse immuni da colpa [...]. Anche le ricchezze sono strumento siffatto. Puoi usarle secondo giustizia? Sono ministre, in questo caso, di giustizia. C’è qualcuno che se ne serva senza giustizia? Sono allora, strumento di ingiustizia». (Cfr. Migne, P. G., IX, coll. 613-620. Anche, G. Barbero, Il pensiero politico cristiano, vol. I, op. cit., pp. 194-197).

L’interpretazione del passo evangelico (Marco, 9, 17-27) relativo all’esortazione di Gesù di vendere tutto, diretta a un ricco che gli aveva chiesto come raggiungere la vita eterna, è palesemente contraria al testo e allo spirito di lettura del testo, come risulta dalla tradizione del cristianesimo più antico. Clemente si pone quindi direttamente al centro del problema e sposta l’asse interpretativo sulla coscienza, in linea con quanto andava accadendo all’interno della Chiesa, quasi in modo uniforme. Ci saranno eccezioni, ma sempre più affievolite, mentre quelle esterne si faranno sentire in maniera sempre più estranea, dirette come saranno a giustificarsi a tutti i livelli e quindi a costruire sviluppi che saranno definiti eretici. C’è inoltre in Clemente l’eco del tempo riguardante le notizie e le critiche concernenti la gestione delle ricchezze da parte dei capi della comunità. Tutti i Concili, da quello di Elvira a quello di Arles, di Nicea, e altri, avevano posto l’accento sul problema dell’usura praticata dai ministri della Chiesa. Il Canone 20 del Concilio di Elvira dice: “Se un chierico è riconosciuto colpevole di prestare a usura, si stabilisce che sia deposto dagli ordini sacri e scomunicato”. Il Canone 12 del Concilio di Arles dice: “Quanto ai ministri che imprestano a usura, in conformità con le istituzioni divinamente impartite, si stabilisce che siano esclusi dalla comunione con i fedeli”. Il Canone 17 del Concilio di Nicea dice: “Poiché molti chierici, abbandonandosi all’avarizia e al turpe guadagno e dimenticando la parola divina: ‘Egli non dà il suo denaro a interesse’, esigono, da veri usurai, un tasso dell’uno per cento al mese, il santo e grande concilio stabilisce che, se qualcuno, dopo la pubblicazione di questa ordinanza, è riconosciuto colpevole di ricevere interessi, non importa per quale motivo sia espulso dal clero”. (Cfr. G. Barbero, Il pensiero politico cristiano, vol. I, op. cit., pp. 541-543). Questi Concili, sebbene tutti più tardi di quando scriveva Clemente, come quello di Elvira che è fissato all’incirca verso il 300-303, dovettero affrontare un problema che era nato da tempo e a quell’epoca continuava a persistere.

Comunque, la posizione di Clemente non è conforme ai canoni della dottrina cristiana, e non si potrà mai costruire nessuna artificiosa difesa che riesca a nascondere questa irregolarità, come hanno cercato di fare in seguito Ambrogio, Agostino, Tommaso e altri, allo scopo di trovare reciprocamente una sorta di precursore alle loro posizioni di difesa della ricchezza. Si tratta, al contrario, di vedere perché questa posizione, che per la prima volta in Clemente trova uno sviluppo completo, si sia venuta profilando come necessaria per la salvezza stessa del cristianesimo in quanto organizzazione. Per altro, su questi problemi, al margine con quello altrettanto fondamentale dell’investitura divina del reggitore, c’era anche nel cristianesimo primitivo uno spazio di discussione, cosa che non accadeva su tematiche più direttamente attinenti alla fede, come si vedrà chiaramente in Origene.

Ha scritto Barbieri riguardo alla difesa della ricchezza, e implicitamente alla difesa dell’autorità laica come baluardo per l’esistenza della stessa Chiesa: «Ma i nostri primi scrittori – è bene ripeterlo – non si indugiano a dimostrare o ad analizzare i fenomeni economici nelle loro tendenze naturali e tanto meno nei rispettivi caratteri tecnici. Sono fatti ed aspetti, questi che essi presuppongono, mentre perseguono con crescente volontà chiarificatrice la ricerca dei rapporti fra il cristiano e i beni materiali: ricerca di limiti, che le singole opere pongono con una loro problematica, in cui si accavallano di continuo le considerazioni spirituali e trascendenti a quelle terrene e transitorie. È tutta qui, a dire il vero, la sostanza del problema economico, una volta che sia inteso come problema di scelte razionali, che l’uomo matura ed esprime solo in rapporto agli ideali della sua vita [...]. In tali problemi di limiti l’acutezza di Clemente d’Alessandria rivela tutta la sua attitudine analitica e psicologica [...]. Alla base di un retto ordine economico cristiano Clemente pone con chiarezza la disponibilità del necessario». (Fonti per la Storia delle Dottrine Economiche, op. cit., pp. 144-145).

È ancora in Clemente di Alessandria che troviamo il primo accenno di tutta la Patristica al problema del giusto prezzo, che comunque non viene preso in esame nel suo aspetto tecnico, come avverrà poniamo in Tommaso, ma nel suo significato morale, riducendosi pertanto a uno degli aspetti della questione dell’agire cristiano nella pratica. «Chi vende e compera non dica mai due prezzi dell’oggetto che vende o compera. Dicendone uno solo, e procurando di dire il giusto, se non lo ottiene, ottiene però la verità, ed è ricco per la giusta disposizione della sua anima». (Il Pedagogo, tr. it., Torino 1937, p. 504). Questo fondamento etico nella pratica economica verrà ripreso dalle sette riformate del XVII e XVIII secolo, in particolare dai battisti e dai quaccheri che porteranno alle estreme conseguenze razionali, in campo economico, le posizioni rigoriste della riforma calvinista. Su questo punto ha scritto Max Weber: «... Soprattutto nei Battisti e nei Quaccheri si palesa in particolare l’orgoglio di aver sostituito, proprio nei rapporti economici con gli uomini irreligiosi, la legalità, l’onestà, l’equità alla falsità, all’imbroglio e alla non fidatezza; di aver attuato il sistema dei prezzi fissi [...] in breve la loro superiore etica economica, religiosamente condizionata, assicura loro la superiorità sulla concorrenza degli irreligiosi». (Sociologia delle religioni, op. cit., vol. II, p. 1190).

Con Origene, uno dei massimi filosofi del pensiero cristiano, si chiarisce il problema dell’investitura divina del reggitore che, in ogni caso, è presentato come sorta di ministro di Dio. La posizione che si è andata sviluppando per poi subire ulteriori sviluppi, parte dal presupposto che lo Stato deve essere garantito, onde potere garantire a sua volta l’ordine sociale e la stessa possibilità di vita della Chiesa. Comunque, il posto centrale che lo Stato occupava prima nella mente degli uomini, adesso deve essere preso dalla Chiesa, rappresentante in terra del Dio vivente e quindi anche della città eterna, la città di Dio. L’accettazione del dominio terreno è diretta a fissare sempre più saldamente il dominio della Chiesa, che deve essere, nello stesso tempo, terreno e divino. È questo lo sviluppo del pensiero dei Padri, da Paolo e dal suo «Ognuno sia sottomesso alle autorità in carica», (Lettera ai Romani, 13, 1), e da Pietro «Siate sottomessi, a causa del Signore, a tutte le istituzioni umane». Sviluppo che poi insisterà con una corrente autorevolissima degli apologisti. Giustino: «Perciò noi adoriamo soltanto Dio, ma nelle altre cose obbediamo a voi volentieri, riconoscendovi re e reggitori di uomini». (Prima Apologia, 17). Teofilo di Antiochia: «A lui [al re] fu affidato da Dio, in un certo qual modo, il governo». (Apologia ad Autolico, 1,2). Melitone di Sardi: «Se le persecuzioni vengono date per tuo ordine [si riferisce a Marco Aurelio] sarà ben fatto; un imperatore giusto non può, infatti, volere cose ingiuste». (Apologia, 1, 6). E in Origene: «... per coloro che regolano l’esercizio dell’autorità, che loro fu data, secondo le loro proprie empietà, anziché secondo le leggi divine, ci sarà un giusto castigo di Dio». (Commentaria in Epistolam ad Romanos, 9, 26). Prudente ma rigida affermazione che troverà poi la sua logica conclusione in Ambrogio: «Cosa c’è, infatti, di più onorifico per l’imperatore che essere detto figlio della Chiesa? E quando diciamo questo non lo diciamo per fargli torto, ma con favore. L’imperatore è, infatti, dentro la Chiesa, non al di sopra; e un buon imperatore cerca l’aiuto della Chiesa, non lo rifiuta». (Sermo contra auxentium de basilicis tradendis, 1, 5-36). Il lungo viaggio patristico si sta quindi concludendo. Si è lontani dalle timide parole di Ottato di Milevi: «Non lo Stato è nella Chiesa, ma la Chiesa è nello Stato, cioè nell’Impero romano». (De schismate Donatistarum, 3, 3).

Comunque, a prescindere della grande importanza che Origene ha nello sviluppo del pensiero filosofico cristiano, costituendo uno dei passaggi obbligati tra neoplatonismo, stoicismo, dottrina platonica della caduta e della redenzione così come è esposta nel Fedro, e pensiero cristiano antico, relativamente ai problemi economico della ricchezza, egli è piuttosto limitato. Il passo seguente è però di una certa importanza: «Il bisogno delle cose necessarie alla vita generò l’agricoltura, come la viticoltura, l’orticoltura, la falegnameria, la metallurgia per la costruzione degli utensili necessari alle professioni che servono alla vita. Così il bisogno di coprirsi provocò tanto la scardatura, la filatura e la tessitura quanto l’edilizia, sviluppata poi nell’architettura dall’intelligenza dell’uomo. E sempre la penuria delle cose utili indusse a ricercare in altre regioni i prodotti mediante la navigazione e il commercio marittimo con cui portarli dove mancano». (Contra Celsum, cfr. G. Barbieri, Fonti per la Storia delle Dottrine Economiche, op. cit., p. 142).

Il passo è importante, forse più di quanto non sia stato fino a oggi considerato. Prima di tutto accenna al bisogno come antecedente logico della produzione e del commercio, per cui il consumo in atto genera lo stimolo alla produzione. Poi, fissa l’individualità del bisogno, nel senso che, per fungere da stimolo all’attività economica, questo deve essere avvertito in proprio, in quanto non può aversi stimolo da bisogni avvertiti da altre persone. L’operaio, come sappiamo oggi, non produce un certo oggetto perché vi sono persone che ne hanno bisogno, ma perché in cambio dell’oggetto prodotto riceve il salario, ossia il mezzo per soddisfare i propri personali bisogni. Origene non cade nell’errore di fissare un rapporto diretto tra bisogno e branche dell’attività economica, ma colloca questo rapporto nello scambio commerciale e produttivo, tanto che non esita a porre sullo stesso piano l’agricoltura e i trasporti marittimi, salto qualitativo che doveva essere difficile a cogliere ai suoi tempi, e anche in tempi molto successivi ai suoi. L’interpretazione fornita da Barbieri mi sembra troppo restrittiva: «... per Origene il bisogno è forse identificato e abbassato allo stato di indigenza patologica, mentre il bisogno nella scienza moderna è aspirazione propulsiva di ininterrotto ed insaziabile progresso materiale ed umano». (Ib., pp. 142-143). Penso invece che nel pensiero di Origene non risulti svalutata la categoria logica della stimolo alla produzione, che rimane fermamente saldata al fatto psicologico del bisogno, perché l’intendimento teleologico deve essere a priori limitato alle “cose necessarie alla vita”.

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È in Cappadocia che riprende lo sviluppo del pensiero cristiano, con riferimento anche al problema di giustificazione della ricchezza. Basilio, fratello di Gregorio di Nissa e amico di Gregorio di Nazianzo, è la personalità che dal nostro punto di vista presenta il maggiore interesse. Egli capisce che ormai non si tratta più di combattere sul terreno della polemica, specie nei riguardi dei fratelli separati, ma occorre dare vita a istituzioni di assistenza, capaci di tradurre nel terreno della pratica la tesi cristiana di rifiuto del comunismo primitivo. È a lui che si deve la costruzione di ospedali, di istituti di assistenza e laboratori che, tutti insieme, formarono una città che prese il nome di Basiliade. Il canone etico di generosità “ragionata”, che abbiamo visto sorgere a poco a poco attraverso l’opera cristiana dei Padri dei primi secoli, è completamente assorbito da Basilio. Egli è fra i primi a invitare alla prudenza e alla giusta scelta, anche nel fare opere di carità. «Per debito di carità ci conviene semplicemente e largamente dispensare i nostri beni a coloro che ce ne chieggono parte. Ben è vero, che si dee esaminare con diligenza il bisogno di coloro che dimandano; siccome negli Atti degli Apostoli ci s’insegna ove dice: sia dato a ciascuno secondo il bisogno suo. Perciocché, ci ha molti che trapassando l’uso delle cose necessarie, dimandano quasi per mercantare e per mollemente vivere, vuolsi perciò distribuire con somma prudenza». (Scelta di sentenze, tr. it., Milano 1827, p. 199).

Da ciò trova giustificazione il riconoscimento della positività della ricchezza, sempre in linea con la tradizione che abbiamo definito riformata sulla base dell’insegnamento paolino. «Noi non accettiamo alcuna nuova fede, che ci sia prescritta da altri né presumiamo di esporre i risultati della nostra riflessione per non dare come regola di religione ciò che è solo sapienza umana. Noi comunichiamo a chi ce lo richiede solo ciò che i Santi Padri ci hanno insegnato». (Esamerone, 140, 2). In questo modo, si chiudono in parte quelle relazioni che Origene e altri avevano stabilito con la sapienza pagana, che sarà poi compito di Agostino riaprire. Il dinamismo sperimentato da altri suggerimenti patristici, e solo quello, resta quindi come fondamento giustificativo della ricchezza: «... date retta a me: spalancate le porte dei vostri depositi, lasciate libere tutte le uscite alle ricchezze. Come un gran fiume che per mille canali giunge a fecondare la terra, così anche voi date libero corso alla ricchezza perché si spanda per molteplici vie alle case dei poveri. I pozzi a cui spesso s’attinge danno acqua più limpida e abbondante; lasciati a riposo, l’acqua marcisce: così la ricchezza, fin che sta ferma, è inutile; quando circola passando dall’uno all’altro serve a tutti e fruttifica». (Il ricco insensato, tr. it., Roma 1946, pp. 22-23). Questa interpretazione dinamica è ormai stabilmente lontana da qualsiasi sospetto comunitario. Anche la stessa idea di una differente soluzione sembra allontanata per sempre. Il benessere di una comunità è dato da un flusso di elementi molteplici, tutti dipendenti, nel loro insieme, dal flusso della ricchezza che entra a fare parte del patrimonio di una persona e dalla possibilità, e dalla volontà, che quest’ultima ha di usarla mettendola in circolazione ancora una volta. Da notare che, pure restando manifesto, il movente etico non si nota che all’inizio della proposizione di Basilio, cioè quando esorta alla liberalità e condanna l’avarizia. Ma quando parla della circolazione delle ricchezze e della conseguente utilità che se ne ricava, cioè della conseguente loro crescita, non si tratta più di ricchezze metaforiche, nel senso che alcuni scrittori precedenti avevano dato alla parola, ma di ricchezze concrete. Siamo davanti a un esempio di come il concetto assoluto del Dio dei miseri si riduca a quello strumentale del Dio della conquista e del possesso, sia pure con le migliori intenzioni, che poi, come sappiamo, lastricano l’Inferno. Qualcosa di simile farà Schelling secondo l’analisi di Walter Schultz: «Se si dà uno sguardo panoramico all’evoluzione filosofica di Schelling negli anni dal 1794 al 1797, si può vedere che il filo rosso di questa evoluzione è il problema dell’Assoluto e del suo rapporto con il mondo. Le risposte che Schelling dà a questo problema sono diverse. Se all’inizio, nello scritto sull’Io, l’Assoluto viene proclamato una Unità senza differenziazioni, e posto in opposizione con la sfera del finito, già nelle Lettere Filosofiche Schelling cerca di gettare un ponte sopra l’abisso che si è spalancato attraverso l’affermazione che l’Assoluto è solo da usare in senso pratico immanente, come la missione che ci guida alla libertà e all’autonomia incondizionata. E le Dissertazioni per la chiarificazione della Dottrina della scienza allargano questa idea dell’uso pratico, modificandola in una concezione dello Spirito che determina se stesso, e la cui essenza è lo svolgimento progressivo fino alla pura autocoscienza. Questa concezione di una storia dell’autocoscienza rimane determinante di lì in avanti, nell’opera schellinghiana». (Einführung al System des transzendentalen Idealismus, ns. tr., Hamburg 1957, p. XII).

A questo punto, naturale la conclusione della povertà psicologica dell’avaro: «I granai, divenuti angusti per l’abbondanza delle provviste, si sfasciavano, ma l’avido cuore non si riempiva. Aggiungendo sempre nuove sostanze alle vecchie e coi proventi d’ogni anno aumentando l’abbondanza, cadde in questo imbarazzo da cui non sapeva più uscire: privarsi del vecchio non voleva, per avarizia; ritirare il nuovo non poteva a causa dell’abbondanza. Perciò si scervellava e s’affannava senza nulla concludere. Che farò? Chi non avrebbe pietà di un uomo assediato a quel modo? Impaurito dalla prosperità, è misero per i beni che possiede, più misero per quelli che aspetta. Forse le sue terre gli recano proventi? Gemiti germogliano. Forse gli accumulano abbondanza di frutti? Anzi, affanni, pene, angustie crudeli. Egli si lamenta proprio come un povero». (Basilio Magno, Il ricco insensato, op. cit., pp. 14-15). Concetto non nuovo nella letteratura dei Padri, ma che di volta in volta non ho rilevato perché originato da motivi differenti. Poniamo in Cipriano (A Donato, 1, 2) il tormento del ricco deriva dalla paura di essere depredato o calunniato. Invece Basilio condanna i ricchi per la mancata attività a favore dello “sviluppo” della loro ricchezza, proponendo nello stesso tempo l’importanza psicologica dell’interpretazione della ricchezza non più in termini di patrimonio tesaurizzato e immobile, ma in termini di reddito.

Le note sarcasticamente pietose sulla triste sorte dell’avaro, non si devono confondere con la superficiale formula di perenne condanna della ricchezza, come peccato fondamentale contro la carità. L’interesse di Basilio è piuttosto lontano da questo punto classico del pensiero cristiano. Egli, ovviamente, incita alla carità ma, nello stesso tempo, incita a impiegare le proprie ricchezze in modo adeguato, affinché quella carità possa moltiplicarsi convenientemente. Questa tesi, inizialmente diretta a giustificare una pratica contro cui non si poteva in sostanza opporre rimedio alcuno, se non si voleva distruggere la struttura del cristianesimo, accettando l’ipotesi comunista e perseguendola fino in fondo, prese in seguito una vita propria, ingigantendosi ben al di là di quelle che potevano essere le intenzioni regolamentatrici dei Padri, almeno fino ad Agostino. E ciò accade sempre, quando altre forze prendono in consegna ipotesi teoriche razionalizzanti e le portano alle estreme conseguenze. L’ingiunzione etica di sfuggire ai pericoli della ricchezza, facendola muovere, costituiscono implicitamente un’autorizzazione da parte dell’autorità religiosa ad arricchirsi, in quanto la ricchezza morta, semplicemente tesaurizzata, non produce altra ricchezza. La rinuncia all’adorazione statica del denaro comprende una sollecitazione al suo impiego produttivo. Le conseguenze di questa interpretazione saranno senza limiti più gravose della stessa avarizia, in fondo vizio passivo e stupidamente circoscritto.

In questo modo, il controllo esercitato dalle autorità ecclesiastiche entrava nella decisione dell’individuo, proponendo non solo il rifiuto della soluzione comunitaria, ma anche lo scarico delle responsabilità con il semplice abbandono delle proprie ricchezze nelle mani dei capi religiosi. La perfezione cristiana qui appare raggiungibile in una pratica intramondana, una pratica che in passato aveva sollevato dubbi e condanne, e che non sarà accettata mai del tutto senza limiti e discussioni. Si tratta dell’attività produttiva, diretta a mettere a frutto la ricchezza. Lo stesso Tommaso dirà poi che il lavoro non è necessario, se non per il mantenimento dei singoli e della comunità, dopo diventa più efficace, dal punto di vista della perfezione, la preghiera e perfino la contemplazione. Molto più tardi, con l’avvento della riforma, si potrà parlare di una santificazione quasi generalizzata dell’attività produttiva, e quindi anche del lavoro. Qui l’ascesi come lotta contro la tentazione utilizzerà il lavoro e l’impegno produttivo attraverso le ricchezze individuali, in contrasto anche considerevole con la tradizione cattolica e monacale in senso specifico. Un problema del genere affronterà molto più tardi Bonaventura. Eccolo nell’analisi di Antonio Zigrossi: «È innegabile che un eguale schema Bonaventura lo ebbe comune con quella filosofia [il neoplatonismo], non solo per descrivere la vita di ascesa dell’anima, ma anche per delineare la struttura del reale. Come a suo luogo fu ricordato, anche il noto assioma: “De Deo est altissime et piissime sentiendum”: è una genuina eredità neoplatonica. Su tante altre questioni di dettaglio, come su la dottrina della luce, e sul suo valore metafisico; sul dinamismo proprio al concetto di unità, è altrettanto certo un reale influsso delle idee neoplatoniche. Bonaventura nel proporre queste dottrine non fa mai esplicito appello all’autorità di questa corrente filosofica, se si eccettua il frequente richiamo al Liber de causis, che d’altronde egli, seguendo un’opinione allora comune, attribuisce ad Aristotele. Anzi, se si bada alla espressa citazione dei testi, le sue referenze sono molto più frequentemente rivolte ad Aristotele che ad altri pensatori pagani; Aristotele era anche per lui il Filosofo. Eppure l’anima del suo pensiero non è affatto aristotelica. A spiegazione di un tale orientamento, che potrebbe apparire singolare in un tempo in cui Aristotele era vicino al pieno trionfo, sta il fatto che le idee centrali del Neoplatonismo avevano talmente pervaso il pensiero medievale, da formare l’ambiente naturale in cui si sviluppava la sua dottrina teologica. Tutte le vie attraverso le quali il pensiero antico era stato trasmesso al Medio Evo incanalavano le idee del Neoplatonismo: S. Agostino, lo Ps. Dionigi, Boezio, Scoto Eriugena e Alcuino, il focolaio umanistico di Chartres, e quello teologico di S. Vittore. La filosofia araba era interamente compenetrata di Neoplatonismo, dal quale il suo più illustre rappresentante Averroé, qualificato come il portavoce dell’aristotelismo puro, non era riuscito a liberarsi completamente. Oltre a questa ragione, per così dire, ambientale, per Bonaventura c’era un motivo di più. Il Neoplatonismo è più un misticismo in veste filosofica che una pura filosofia. Esso tende a dare o a ritrovare un’impronta di religiosità nelle cose. Per esso la dialettica dell’intelletto in cerca di verità, non si distingue dall’attività dell’anima che tende ad assimilarsi a questa verità. Ora Bonaventura, a chiunque percorra i suoi scritti, si rivela dotato di una duplice caratteristica: una spiccata tendenza metafisica, ed un profondo senso di pietà. Due qualità, che nonché escludersi a vicenda, si integrano in lui mirabilmente; in quanto, per uno spirito metafisico e devoto nulla c’è di più naturale che porre la speculazione al servizio della devozione, e rendersi idoneo a formulare quella che fu detta una metafisica soprannaturale. In fondo, l’essenza del Neoplatonismo è tutta qui: e se c’è stato un suo influsso su Bonaventura, riguarderà soprattutto questo momento essenziale». (Saggio sul neoplatonismo di S. Bonaventura, Firenze 1954, pp. 116-118).

L’altra direzione del pensiero di Basilio, connessa con la precedente, è dedicata al problema della proprietà. L’idea di fondo è la stessa, idea che poi sarà seguita da Ambrogio: la proprietà deve intendersi come un “deposito”, una gestione per conto di Dio essendo le ricchezze, e le cose produttive tutte, poste in essere perché a tutti riescano utili e quindi non è in alcun modo giustificabile l’incetta e l’accentramento a favore di una singola persona. Così scrive Basilio: «Riconosci, o uomo, il donatore. Ricordati di te stesso, quali beni amministri, da chi li hai ricevuti, perché sei stato preferito a molti. Sei servitore di Dio buono, amministratore dei suoi beni. Non pensare che tutto sia destinato al tuo ventre. Considera le sostanze che sono nelle tue mani come cosa d’altri: per breve tempo ti allietano, poi scorreranno via e scompariranno; ma tu dovrai renderne strettissimo conto». (Il ricco insensato, op. cit., pp. 15-16). Giorgio Barbero ha inteso riconoscere in queste parole di Basilio una negazione dell’ormai cristallizzato rifiuto dei princìpi comunitari. Egli scrive: «Il principio della proprietà privata riceve così, attraverso la sua esegesi del Vangelo, una energica limitazione e la prospettiva sociale presentata dal santo prende una tinta fortemente comunitaria». (Il pensiero politico cristiano, vol. I, op. cit., p. 321). Non sembra accettabile questa interpretazione, in quanto Basilio è un continuatore dell’idea della positività della ricchezza e della conseguente necessità del suo sfruttamento in vista di fini sociali. La limitazione del concetto di proprietà che qui appare è quella solita del pensiero patristico più evoluto, e si dirige verso una critica del diritto romano di proprietà, inteso come signoria eminente e assoluta su di una cosa. I Padri cercarono di riportare quest’azione di dominio al rango più modesto di gestione per conto di Dio, non tanto allo scopo di mitigare le cupidigie, che dovette anche esserci, ma quanto per preparare il terreno alla sottomissione dello Stato alla Chiesa. Infatti, una proprietà sottoposta a questa ipoteca celeste, che la destinava a scopi sociali e non di sfruttamento soltanto privato, rendeva più debole lo Stato, garante in assoluto della pienezza del diritto di proprietà, direttamente o indirettamente questo non ha importanza qui, e quindi più adatto a essere sottoposto alla pregiudiziale ecclesiastica del riconoscimento.

Il concetto di “gestione” non limita che dal punto di vista formale il principio di proprietà, anzi sotto certi aspetti – che magari potevano essere anacronistici per l’epoca in cui i Padri scrivevano, e quindi collocare i loro tentativi nell’ambito delle utopie di regolamentazione, fra le più radicali peraltro – la limitazione suggerita colloca la proprietà nell’ambito della società, sottraendola all’arbitrio del singolo e quindi le conferisce un ruolo di sostegno dell’intero sistema sociale, in quanto è proprio attraverso l’assegnazione dei ruoli e dei compiti nella società che si sviluppa la funzione sociale della proprietà e la sua concezione come gestione per conto di un vero proprietario che ha dato la concessione, e che nel pensiero dei Padri naturalmente è Dio. Sarà attraverso questa concezione, su cui lavoreranno a lungo sia la Patristica che la Scolastica, che si determineranno gli ambiti operativi della struttura ecclesiale e di quella statale, spesso in contrasto tra loro, comunque solo allo scopo di meglio dividersi il dominio della società. Alfred Loisy ha riflettuto su questo problema della “funzione sociale” affrontando la filosofia di Bergson : «[I] culti sono detti magici (si dovrebbero chiamare, piuttosto, “magico-religiosi”), perché, considerati superficialmente, sembrano consistere in prescrizioni per guidare il mondo circostante, il piccolo universo di coloro che li praticano, nell’interesse e secondo il desiderio di tali operatori. Ma si tratta di ben altro che di prestidigitazione volgare. Non soltanto tutto ciò avviene con la massima serietà, come si conviene ad atti la cui importanza si pensa che vada ben oltre la comunità, ma si esegue con la maestà di una liturgia, perché appunto di una liturgia si tratta. Funzione sociale, senza dubbio, ma anche funzione sacra. Umile religione, che vuol venire incontro e soddisfare allo spirito delle cose, pur dirigendolo, affinché si presti a sostenere la vita degli uomini. Questa pretesa magia è anche un modo rudimentale di trattare religiosamente l’universo. Pertanto nelle società primitive non vi sarebbe, inizialmente, che una sola fonte della morale e della religione: il senso mistico, che ispira un certo rispetto degli uomini e delle cose, dettando le regole della condotta e i gesti del culto. Non è propriamente la società impersonale la fonte prima della morale; non è la “funzione fabulatrice” – questa specie di provvidenza istintiva, che taglierebbe corto agli scarti del nostro spirito suscitando davanti a lui futili spauracchi – la fonte prima della religione: è il sentimento religioso la fonte prima della morale e della religione. [...] Il signor de La Palice lo avrebbe detto, probabilmente, prima di noi. A questa fonte unica si ricollegano le morali delle società chiuse e le religioni statiche di queste stesse società. Né avremo alcuno scrupolo a vedervi la fonte immediata della morale aperta e della religione del puro amore. Infatti, il taglio netto che Bergson introduce, nella sua teoria, tra morali e religioni inferiori e la religione morale del divino amore non ci sembra giustificato dalla storia dell’umanità». (Y a-t-il deux sources de la religion et de la morale?, Paris 1933, pp. V-VI e 24-25).

Il precetto comunitario, invece, assume forme ben differenti, anche nelle stesse notazione dei Padri. L’iniziale esortazione a rimettere la proprie ricchezze nelle mani dei capi della comunità, col volgere dei tempi e con la maturazione degli eventi economici, si è andata trasformando, come abbiamo visto, ad esempio, in Lattanzio, in una forma comunitaria più blanda, la partecipazione libera all’attività produttiva, per restringersi ulteriormente, con Basilio, all’utilizzazione positiva delle ricchezze. Il fatto che in una traduzione latina dell’Omelia XII di Basilio, dovuta a Rufino (cfr. Hom. in illud dictum Ev. secundum Lucam, Migne, P. G. XXXI, col. 1752), ci sia un riferimento all’origine violenta della proprietà, contrapposto alla comunità iniziale della terra, non sembra poter fare concludere per un rifiuto della proprietà individuale in Basilio. Come vedremo, ciò non vuole dire che non vi fossero, all’epoca stessa e anche subito dopo, altri Padri sostenenti il riconoscimento del principio comunitario, ma l’impressione personale di Rufino non può negare l’intera produzione di Basilio.

Per altro, il modificarsi lento e progressivo dell’antico comunitarismo, oltre che un fenomeno storicamente ricostruibile nella letteratura dell’epoca, si può considerare come un fenomeno sociologicamente necessario, una volta prese alcune decisioni riguardanti il consolidamento della struttura organizzativa e la gestione del potere temporale. Venuto a contatto con società molto più progredite e complesse, dotate di ricca letteratura giuridica e di tradizioni ormai radicate, il cristianesimo finisce per abbandonare del tutto il primitivo comunitarismo per avviarsi, attraverso forme via via più consistenti, alla costituzione della propria gestione di potere. Si ebbe in questo caso un reciproca azione, messa in moto dall’iniziale processo di razionalizzazione, processo che propose alcune scelte al posto di altre, quelle dell’adeguamento al potere costituito invece di quelle di una lotta sia pure passiva e pacifica, comunque capace di costituire un differente punto di riferimento. A loro volta, queste scelte produssero conseguenze positive per l’organizzazione, conquista di spazi di agibilità, riconoscimenti di non pericolosità, allontanamento delle comunità più rigide, fino al conclusivo riconoscimento da parte dello Stato e al reciproco riconoscimento di quest’ultimo da parte della Chiesa. In quel momento, il cerchio si chiude e il destino futuro del cristianesimo rimane segnato per sempre. Il comunismo seguirà altre strade. Questa la tesi di Paolo secondo Rudolf Bultmann: «La comunità cristiana primitiva è cosciente di essere posta “tra i tempi”, ossia di trovarsi alla fine dell’antico eone e all’inizio o almeno immediatamente prima dell’inizio del nuovo eone. Essa quindi comprende il suo presente come un singolarissimo “tra”. Per Paolo questo regno è il presente che si trova tra la resurrezione e la parusia». (Credere e comprendere, tr. it., Brescia 1960, p. 691).

Per molti versi, abbastanza simile fu la sorte delle comunità germaniche, una volta che vennero a contatto con il mondo culturale romano. I Germani avevano infatti un regime comunitario (Cesare, De bello gallico, 6, 22), regime che di già ai tempi di Tacito (Germania, 26), aveva subito qualche modificazione, cioè circa un secolo e mezzo dopo. La proprietà non era più di tutto il gruppo politico (pagus) ma del gruppo agnatizio, mentre ogni componente di questo gruppo aveva una parte ideale. Eppure, malgrado questa considerevole modificazione, e l’ulteriore possibilità che nei secoli successivi venne riconosciuta ai singoli componenti del gruppo di fare subire alla propria quota diverse sorti e destinazioni, il diritto germanico di proprietà non arrivò mai all’assolutezza del principio romano. Esso rimase legato a un semplice rapporto esteriore tra la cosa posseduta e il possessore, a una “vestitura”, la quale se non differisce di molto dal tradizionale concetto di proprietà formulato dai giuristi romani, formalmente dimostra la mancanza dell’animus del possessore, cioè della volontà di tenere presso di sé la cosa posseduta e di farne l’uso più opportuno.

La stessa cosa avviene per la comunità cristiana che, prima del lavoro dei Padri, non poteva dirsi dotata di nessuna tradizione culturale e tanto meno giuridica. Dal contatto con il mondo romano derivò una modificazione dei princìpi comunitari, troppo disadatti agli scopi che adesso volevano raggiungere le gerarchie ecclesiali. Ma la modificazione non fu totale, il principio di proprietà, caro ai giuristi romani, non venne accettato del tutto, pur contribuendo a mitigare il comunismo dei primi tempi, dando vita al principio di proprietà come gestione per conto di Dio. La situazione complessiva era tanto cambiata che Basilio doveva scrivere: «Certo, qui per ladri non si devono intendere i tagliaborse, oppure quelli che portano via le vesti nei bagni; ma, per esempio, chi, divenuto capo di un esercito, o principe di una città, o sovrano di un popolo, tira a sé sotto sotto, o anche ruba pubblicamente a man salva. Così, chi ritenuto capo di una Chiesa, ricevesse valori da simili individui, per suo uso privato, o con il pretesto di un onore a lui dovuto per la sua dignità, o con la scusa dell’elemosina per i poveri della sua Chiesa, diventerebbe complice di ladronerie. Invece di rimproverare i ladri, di ammonirli, di distoglierli dalle ingiustizie, porge facilmente la mano al dono, e invidia coloro, che tanto più dovrebbe aborrire, quanto maggiori sono le furfanterie». (Commento al Profeta Isaia, tr. it., Torino 1939, p. 158). Il verificarsi di un simile fenomeno sociale, di certo consistente ai tempi di Basilio, tanto da indurlo, assieme ad altri Padri, a considerazioni critiche come questa, accade quando viene a mancare l’iniziale spinta ideale e si esaurisce il fervore dei primi tempi, come pure per le profonde modificazioni economiche. Ha scritto Rudolf Eucken: «... quando i moventi della civiltà penetrano tutta la vita, quando determinano l’apparire di altri sentimenti e di altre aspirazioni, anche la religione non può ripudiarli senza grave danno, senza il pericolo di straniarsi dal centro della vita». (Religione e Verità, tr. it., Torino 1923, p. 421).

Lo spinoso problema dell’usura viene affrontato con grande risolutezza da Basilio. Si tratta di un grave problema, che attraversa tutta la storia dell’uomo. Ma per gli autori non cristiani si prospettavano implicazioni di altro genere. Nei riferimenti di Tacito, Livio, Svetonio, Plutarco, ecc., sulle leggi, sui tassi e sulle conseguenze più o meno gravi per il popolo o, per risalire ancora più indietro, alle notazioni di Aristotele, Demostene, ecc., in materia di debiti per prestiti, si cerca di trovare una soluzione tecnica che alleggerisca queste conseguenze negative, in quanto, come ha notato Pareto: «Non vi è alcuna ragione perché gli interessi, che non vengono pagati all’epoca fissata, non si aggiungano al capitale e producano a loro volta interessi. Siccome però ciò accade soprattutto per i prestiti di consumo, quando lo sventurato debitore non può pagare né l’interesse né il capitale, ben presto si comprende la riprovazione che in tutte le epoche ha circondato tale pratica, sebbene di per sé, non sia affatto riprovevole». (Corso di Economia Politica, op. cit., pp. 394). Per i Padri, specialmente per coloro che rifiutano l’ipotesi comunitaria, l’usura costituisce argomento importante, direi fondamentale, in quanto può mettere in dubbio la bontà del sistema sociale da loro propugnato, alternativo all’ipotesi comunitaria degli inizi. Infatti, i prestiti di consumo erano quasi sempre ineluttabili, in una società fondata in massima parte sull’agricoltura, l’artigianato e il commercio al minuto. Mancando ogni spirito comunitario, restava soltanto la sollecitazione alla carità e la condanna rigida dell’usura, strumenti che spesso erano inefficaci, com’è facile capire dal ritornare assillante delle condanne nella letteratura dei Padri. Di certo il male si era andato acutizzando, a seguito delle modificazioni sociali sia esterne che interne al movimento cristiano stesso.

Il cenno più antico di condanna si trova nei Vangeli. Niente di specifico, niente che si riferisca a questo o quel caso particolare. Nessuna differenza tra prestiti di consumo o prestiti produttivi. Una condanna assoluta: «E se prestate a coloro dai quali sperate di ricevere, quale merito ne avete? Anche i peccatori prestano ai peccatori per ricevere altrettanto. Amate pertanto i vostri nemici, fate del bene, prestate senza speranza di profitto». (Luca, 6, 34-35). Più tardi, il cenno di Clemente Alessandrino, che presenta una consistente limitazione, sostenendo che gli interessi sui capitali prestati non si debbono percepire quando il debitore è nostro fratello, o nostro conterraneo o nostro compagno di fede. «Intorno alla liberalità e intorno alla beneficenza – egli scrive – molto è stato detto, e a noi basta dire questo, che la legge proibisce di prestare ad interesse a un fratello (ed essa intende per fratello non solamente colui che è nato dai medesimi genitori, ma anche colui che appartiene alla medesima tribù, che professa la medesima fede e partecipa al medesimo logos); essa non ritiene conveniente che si percepiscano interessi sui capitali». (Stromata, 18, 84, 4). Un concetto simile ribadisce Lattanzio: «Ma il giusto non tralascerà nessuna occasione per agire secondo misericordia e non si macchierà con un guadagno di questa specie». (Divinae Institutiones, 6, 18). Basilio dedica a questo problema due omelie e parte di una lettera, sviluppando un esame veritiero della scena della richiesta del prestito, battendo principalmente sull’umiliazione del debitore e sull’alterigia del ricco a cui viene richiesto l’aiuto. «Tutto ciò che cresce, non appena ha raggiunto le proporzioni che sono proprie alla sua natura, cessa anche di crescere; ma il denaro degli avari cresce in ogni tempo». (Lettera CLXXXVIII, Canonica I, 14).

Amico di Basilio, Gregorio di Nazianzo seguì scuole di retorica pagana e scuole cristiane ad Atene, Cesarea e Alessandria, prima di rinchiudersi, con una piccola schiera di amici, vicino a Basilio, a Neocesarea. Spirito contemplativo, dovette costituire un forte contrasto con la potenza pratica del pensiero di Basilio. Non mancò comunque di svolgere il suo compito pratico, rispondendo alla chiamata episcopale della cattedra di Sasima. Ritornò poi alla vita di asceta, prima a Nazianzo e poi ad Arianzo. I temi cari a Basilio vengono da Gregorio ripresi con lo spirito sensibile del poeta e trattati con maestria. La tesi della proprietà come gestione, viene sostenuta con l’approfondimento dell’origine patologica della proprietà, come a dire che il peccato sostanziale insito nel separare e dichiarare “proprio” quello che invece è unico e appartiene a tutti viene a essere mitigato formalmente, dichiarando questo “proprio” derivare da una “procura” assegnata da Dio. «Colui che in principio creò il primo uomo, lo lasciò libero e padrone di sé, soggetto unicamente alle leggi del suo comandamento e ricco delle delizie del paradiso. Ma da quando cominciarono invidie e discordie e la fallace tirannia del serpente che non accennò mai a cessare di attirarci con la lusinga del piacere e di spingere i più audaci contro i deboli, l’unica stirpe umana si divise prendendo nomi diversi e l’avarizia infranse la nobiltà della natura tirando dalla sua anche la legge per stabilire il predominio. Ma tu guarda all’uguaglianza primitiva, non alla divisione ultima, non alla legge del vincitore ma a quella del Creatore. Aiuta la natura secondo le tue forze, onora l’antica libertà, rispetta te stesso, nascondi l’ignominia di chi ti è congiunto, vieni in soccorso al morbo, tu che sei nella prosperità, [aiuta] chi geme nella sventura». (Oratio XIV, 26).

La tesi dell’origine violenta della proprietà, ancora una volta, non è sufficiente, come qualcuno ha sostenuto, per assegnare a Gregorio un intendimento comunitario. Per altro, a quel che appare dalla sua produzione letteraria, egli era piuttosto lontano da problemi pratici, nel senso in cui li affrontava Basilio, cioè da un punto di vista organizzativo. C’è in lui piuttosto una visione utopistica del buon tempo antico, quando si viveva felici nella condizione naturale che dovette precedere alla condanna di Dio. Ma, più che altro, questo tema serve come espediente retorico per evitare approfondimenti di dettaglio che forse dovevano risultare ostici a Gregorio, cioè su quali motivi si dovesse fondare un rispetto del fratello, anche curandone i bisogni in momenti di necessità. In quanto maggiormente predisposto all’ascetismo, Gregorio odia i beni terreni più di quanto non accada a Basilio.

Oggi, la vecchia polemica tra origine violenta e origine graduale della proprietà privata non ha l’importanza che ha avuto in passato. Probabilmente, una volta si tendeva a confondere l’accumulazione primitiva di ogni capitale, che deve per forza avere un’origine violenta, con la proprietà vera e propria, generando malintesi. Adesso si è chiarito anche il concetto stesso di violenza, implicito poniamo nell’accumulazione, non trattandosi necessariamente di violenza fisica sulle cose, o sugli uomini, del genere militare, ma potendosi anche trattare di violenza indiretta, cioè nell’obbligare larghi strati di diseredati a lavorare sulla base di un salario minimo. La polemica che sul finire dell’Ottocento vide contrapposti Émile de Laveleye (De la propriété et de ses formes primitives, Paris 1873) e Numa Denis Fustel de Coulanges (Recherches sur quelques problèmes d’histoire, Paris 1885), si fondava sul fatto che de Laveleye affermava la nascita abbastanza recente della proprietà privata, succeduta a quella del comune, dello Stato o in genere della collettività; mentre de Coulanges replicava affermando che la proprietà privata è sempre esistita, fin dai più antichi albori della civiltà. Riflettendo bene, oggi sappiamo che in fondo avevano ragione e torto ambedue. Le forme comunitarie e private della proprietà si sono evolute infatti in modo parallelo, spesso intersecandosi e mischiandosi in maniera mista e anche poco durevole. Molto spesso, l’aspetto formale della proprietà privata nascondeva un sostanziale uso transitorio, il tutto misto alla compresenza di proprietà statali. Lo sviluppo dell’economia capitalista tornerà ad affermare la piena proprietà, in quanto indispensabile per i rapporti di commercializzazione e di monetizzazione che rende possibili.

Veniamo ora all’opera di Gregorio di Nissa, di notevole valore filosofico, ma poco importante dal nostro particolare punto di vista. Anche Gregorio di Nissa, come il suo amico Gregorio di Nazianzo, divenne vescovo per volere di Basilio, il grande organizzatore, ma controvoglia, essendo portato più alla riflessione che all’azione pratica, eppure seppe lo stesso fronteggiare la difficile situazione venutasi a creare dopo la lotta di Basilio contro l’imperatore Valente e contro lo stesso papa Damaso, che non riusciva a spiegarsi, così lontano dai luoghi e dalla mentalità, il continuo fiorire delle eresie in Oriente. Il suo pensiero si rifà alla dottrina platonica dell’unica realtà dell’essenza, utilizzata in seguito anche da Anselmo per dimostrare la composizione duplice della Trinità. La distinzione tra uomo ideale e uomo empirico è invece usata per l’esegesi del racconto biblico.

Con Gregorio di Nissa si ha la prima condanna ufficiale della schiavitù. Come sappiamo, la lungimirante politica ecclesiale di Paolo aveva posto da canto questo spinoso problema, onde non turbare l’incerta posizione del cristianesimo, ancora non del tutto conscio della propria forza sociale e delle proprie possibilità organizzative. Ma Gregorio di Nissa è un figlio del cristianesimo niceno (cfr. J. Burckhardt, Lezioni sulla storia d’Europa, tr. it., Torino 1959, p. 70), cioè di quella stessa organizzazione sociale, non più semplicemente religiosa e ascetica, che sarà capace di sopportare l’urto delle invasioni barbariche, di assorbirlo in tutte le fasi della sua estensione e di mettere a profitto la nuova linfa che da esso scaturiva. Ecco le parole contro la schiavitù: «“Ebbi in dominio schiavi e schiave, con molta famiglia”. (Ecclesiaste, 2, 7). Vedi l’ostentazione arrogante! Quelle parole sono una ribellione a Dio; noi sappiamo, infatti dalla Scrittura che tutte le cose servono unicamente a quel potere che è sopra di tutto. Pertanto, colui che si arroga ciò che appartiene a Dio, e attribuisce a creature della propria specie il potere di credersi padroni di uomini e di donne, che cosa fa se non insolentire contro la natura, considerandosi creatura diversa da quelle che gli sono soggette? Ebbi in dominio schiavi e schiave! Così tu condanni alla schiavitù l’uomo che è dotato di natura libera e indipendente, e fai una legge contraria a Dio, perché sconvolgi la legge di natura che procede da lui. Perché tu sottoponi al giogo della schiavitù chi è stato plasmato dal suo creatore per signoreggiare la terra e per esercitare il comando [...]. Soltanto Dio potrebbe far questo, anzi sarei per dire, non lo potrebbe neppure Dio, perché “Dio non si pente dei suoi doni” (Lettera ai Romani, 2, 9). Come si farà, poi, a vendere una natura che presiede a tutta la terra e alle cose che sono sopra la terra? Nella vendita bisogna, necessariamente, computare anche il potere di ciò che si vende. E quanto stimeremo tutto ciò che è contenuto sopra la terra? E se queste cose sono inestimabili, quale valore daremo a chi è superiore ad esse?». (Homilies in Ecclesiastes, IV).

La vecchia interpretazione aristotelica della differenza di natura e della utilità della schiavitù sia per il padrone che per lo schiavo (Politica, 1, 2, 1252 a) è scomparsa e al suo posto è subentrata una parità assoluta fra tutti gli uomini. Il fatto di innalzare il valore individuale del singolo a questo livello non era accaduto neanche presso gli antichi sofisti, inoltre costituiva un passo in avanti forse troppo grande nei riguardi dei limiti paolini, che raccomandavano di esseri liberi nel Signore, non su questa terra. Per altro, questa posizione verrà ridimensionata dal sistematore filosofico delle cose cristiane, cioè da Tommaso, il quale scriverà: «Che quest’uomo sia servo, a preferenza di un altro, è cosa che da un punto di vista assoluto non ha una ragione naturale ma solo la ragione di una qualche utilità, in quanto è utile allo schiavo che egli sia governato da uno più saggio ed è utile a costui che egli si giovi dello schiavo». (Summa, 2,2, q. 57, a. 3). Infatti, un riconoscimento talmente pieno della personalità umana, del tutto estraneo alla tradizione culturale che proveniva dai testi pagani, non poteva non portare nel proprio intimo i germi della dissoluzione organizzativa del cristianesimo, e questo, a un pensiero altamente strutturato come quello di Tommaso, doveva apparire evidente sopra ogni altra cosa. Ma, a prescindere dalle preoccupazioni successive del dottore angelico, Gregorio di Nissa si rende conto che il movimento cristiano si è andato rafforzando, specie dopo i Concili, e occorre fare un passo avanti, in quanto non si può più restare nell’ambivalenza paolina del doppio statuto terreno e celeste. Forse, anche le prospettive delle comunità isolazioniste si erano andate modificando, in quanto queste venivano sostituendosi con gli ordini monastici o con quello che saranno poi gli ordini monastici. E questa considerazione è confortata dal fatto che i Padri di questo periodo attaccano criticamente anche comportamenti interni all’organizzazione ecclesiale, come abbiamo visto con il problema dell’usura. In condizione di maggiore precarietà la Chiesa non avrebbe corso questo rischio, avrebbe cercato di minimizzare il fenomeno per non gettare il discredito sull’intero movimento. Ma quando un aggregato sociale raggiunge la piena consapevolezza della propria forza, può anche cercare di razionalizzare le procedure interne, quindi agendo anche come critica di se stesso. Per meglio comprendere questo problema occorre ricordare come s’ingegnasse Tertulliano a disegnare con vividi colori di carità la società cristiana del suo tempo, la quale, come appare dalla critica di Cipriano, successiva di circa cinquant’anni, non doveva essere così caritatevole. Ma lo scopo di Tertulliano era quello di nascondere la vera realtà delle cose all’occhio profano, scopo meno sentito mezzo secolo dopo, da Cipriano, e non sentito affatto dai vescovi dei Concili o da Gregorio di Nissa, ormai sicuri della forza dell’organismo di cui facevano parte.

L’appartenenza di Ambrogio a un più vigoroso cristianesimo, capace di fronteggiare dentro certi limiti le condizione esterne del potere temporale, è da tenere presente per capire le notazioni di quest’uomo d’azione e pensatore, uno dei perni su cui ruota l’aspetto che Burckhardt ha definito “traspositivo” del cristianesimo nei riguardi della vecchia società pagana. Barbero (Il pensiero politico cristiano, vol. I, op. cit., p. 426), cominciando col circoscrivere e minimizzare la figura di Gregorio di Nissa (p. 349), ha sostenuto anche una trascurabile importanza di Ambrogio, in quanto sul problema della schiavitù sembra tornare alle posizioni di Paolo. La cosa non mi pare accettabile. Ambrogio è lontano dalla tesi di Paolo più di quanto lo è da quella di Gregorio, e se si può vedere una maggiore cautela nel suo discorso sulla schiavitù, questa è dovuta alla circostanza, fortuita ma significativa, del rilievo che gli era stato mosso di avere venduto ornamenti della Chiesa per affrancare gli schiavi, rilievo che premeva molto ad Ambrogio, in quanto concernendo questioni di principio minacciava di mettere in crisi la stessa possibilità di continuare ad esercitare il suo ministero. Ecco le sue parole: «La misericordia ci invita soprattutto a compatire le sventure altrui, a sovvenire, quanto possiamo e, talvolta, più di quanto possiamo, alle altrui necessità. È meglio, mossi da compassione, prendere la difesa degli altri ed incorrere magari nella disapprovazione, piuttosto che mostrare durezza di cuore. Così io una volta fui biasimato per aver venduto i vasi sacri onde redimere degli schiavi... Come è bello quando da parte della Chiesa si liberano moltitudini di schiavi e quando si può dire: Questi li ha redenti Cristo!». (De officiis ministrorum, 2, 28). Qui c’è prudenza, è chiaro, ma si tratta della necessità di difendersi. Al posto delle parole, parlano i fatti. Ambrogio non invita, come Paolo, a considerarsi liberi in Cristo, ma agisce vendendo i vasi sacri per liberare gli schiavi, interviene cioè positivamente, modificando una condizione giuridica, non accettandola in nome di una superiore concezione ideale.

Anche Barbieri si dimostra eccessivamente prudente e non coglie il processo di razionalizzazione che si sta svolgendo, e che differenzia la linea riformista di Paolo dall’attività socialmente riformatrice, praticamente riformatrice, dei Padri più vicini ad Agostino. Egli scrive: «Fino a qui [cioè fino ad Ambrogio] i nostri pensatori si collegano concettualmente agli spiriti illuminati del mondo antico, che videro nella proprietà e nel danaro l’origine di ogni vizio e lo strumento di involuzione nelle vicende dell’umanità. Gli scrittori cristiani si differenziano dai loro predecessori per le conseguenze derivate dalla critica dell’ordine esistente, poiché ai programmi rivoluzionari preferiscono – è bene ripeterlo ancora – una razionale azione di rettifica, illuminata dalla continua considerazione dei valori trascendenti proposti dall’azione morale dell’uomo». (Fonti per la Storia delle Dottrine Economiche, op. cit., pp. 165-166). Nell’epoca dei Concili è chiaro che la Chiesa fa molto di più. Costruisce il proprio potere e fronteggia una duplice lotta, come abbiamo detto, da un lato contro il dominio temporale, dall’altro contro le eresie. La sorte che alcune di queste subiscono segna altrettanti punti di crescita della versione organizzativa e centralista del movimento cristiano. Lo gnosticismo dualistico, con la grandissima varietà dei suoi sistemi filosofici, si scioglie in comunità sempre più isolate, o in dispute teologiche via via più rarefatte, incapace di sostituire il cristianesimo sul piano dell’incidenza sociale. Gli ebioniti si arenano nel loro formalismo negativo, caratteristico della chiusura rituale di tutte le sette giudaico-cristiane. Il manicheismo si sviluppa sempre sotterraneamente, estendendosi forse più in Oriente che in Occidente, ma non mancando di mantenere i contatti che daranno i suoi vivissimi frutti nell’alto Medioevo e anche dopo. Comunque, sul piano della contrapposizione al cristianesimo paolino riformato, la sua capacità è relativa. Gli Ebrei, da canto loro, non potevano intervenire verso un movimento che consideravano di illusi e di falliti, però le loro preoccupazioni si tradiscono nella grande attività svolta per fomentare discordie tra pagani e cristiani, anche se potrebbe essere non vero che Simon Bar Kochba, rivoluzionario ebreo che condusse la terza guerra giudaica contro i Romani, trucidasse i cristiani.

Ecco come conclude Jacob Burckhardt sull’argomento: «Quando sotto Diocleziano, il Cristianesimo si accinse ad impadronirsi dell’Impero, esso venne dilaniato dai pericolosi scismi trinitari. Senza dubbio la persecuzione diocleziana ha, se non eliminato questi scismi, tuttavia risuscitato lo spirito unitario, che continuava a sussistere accanto ad essi. E quando Costantino venne a un accordo col Cristianesimo, trovò una salda organizzazione ecumenica, sotto forma di tradizione costituita. Senza di questa, egli non avrebbe certo preso il Cristianesimo in considerazione». (Lezioni sulla storia d’Europa, op. cit., p. 74). E tutto questo non può essere scambiato per la semplice persistenza di una antica, modesta tradizione, ma è qualche cosa di più. Si tratta dell’avvento di una nuova struttura sociale, fondata sul sangue e sulle dispute, e proprio per questo, più forte e più temibile.

Anche il mondo di pensiero precedente viene messo al servizio delle nuove aperture, non solo teoriche ma ancora di più politiche. La Grecia e Roma sono amalgamate in una prospettiva differente che, di volta in volta, prende corpo in una strategia attiva, spesso di attacco, quasi mai di sottomissione nei riguardi del potere temporale. Ambrogio utilizza il metodo speculativo di Origene e mostra di conoscere l’esegesi di Filone l’Ebreo, mentre una gran parte dei suoi scritti testimoniano le letture delle opere di Basilio. Due mondi si incontrano. La Chiesa non è soltanto un corpo separato, adesso è organismo che si pone in rapporto alle altre strutture della società, un potere per se stante, sufficientemente compatto e autorevole. I grandi problemi organizzativi, cui abbiamo fatto cenno prima, sono avviati a felice soluzione. Qui vogliamo porre un paragone tra il lavoro che fra poco compirà Agostino e quello di Hegel, seguendo il filo del ragionamento di Rudolf Haym: «Il periodo della vita e della filosofia di Hegel che ci accingiamo ora a ricostruire è il suo periodo più splendido e più felice. Portato dal favore dei potenti, sguazzando nel successo e nella gloria della sua opera, Hegel poteva considerare se stesso, divenuto ormai il dittatore filosofico della Germania, al termine della sua impresa. Ma proprio ciò di cui fu risparmiato a Hegel di prender coscienza, costituisce invece per noi l’aspetto più interessante di quest’epoca. Proprio in tanta fortuna, in tanto splendore, in tanta influenza e in tanta gloria si celava la forza distruttiva che imprime il marchio della transitorietà alla sua opera spirituale. Questo idealismo sopramondano, eppure di ispirazione così mondana, era interamente e saldamente radicato nella temporalità e nella realtà, così da fiorire o appassire con essa. Il sistema hegeliano divenne così filosofia dell’epoca e filosofia prussiana. Ancora una volta è l’indirizzo rivolto ai suoi ascoltatori all’inizio delle sue lezioni berlinesi che può essere considerato come il programma di questa nuova fase dello sviluppo di Hegel. L’essenza di questo programma consiste nell’indicare l’affinità elettiva e l’interna parentela tra lo Stato prussiano e la dottrina hegeliana. La dottrina hegeliana, anzitutto, riposa sull’onnipotenza del concetto: lo Stato prussiano riposa esso pure sulla potenza della Bildung e dell’intelligenza. Ma la loro identità ha un fondamento anche più profondo. La realtà raccolta idealmente in una unità viene definita da questa filosofia anzitutto con il nome di “sostanza” e la sua essenza consiste nel compenetrare questa sostanza con il “soggettivo”, nel conciliare in modo assoluto il suo quieto essere con la mobile riflessione e con l’intelletto critico mediante la conoscenza speculativa. Anche lo Stato prussiano ha una sostanza analoga. Lo Stato prussiano è – dice Hegel, quello stesso Hegel che prima aveva idolatrato Napoleone e si era augurato la vittoria delle truppe francesi su quelle prussiane – la potenza etica dello spirito che in Prussia, durante la grande lotta di liberazione, “ha sentito se stesso nella sua capacità di agire, ha inalberato il proprio vessillo e ha fatto valere questo suo sentimento come potenza e forza della realtà; noi dobbiamo considerare un privilegio inestimabile il fatto che la nostra generazione ha vissuto, agito e operato in questo sentimento, un sentimento, in cui si concentrava tutto ciò che è retto, morale e religioso”. In tal modo Hegel designava con un’espressione elevata e appropriata quello che intendeva come la “sostanza” dello Stato prussiano. Analogamente a quanto avviene nel sistema hegeliano anche nello Stato prussiano si tratta poi, in secondo luogo, di procedere alla mediazione e allo sviluppo sul piano della soggettività. Se il passato più recente ha creato un tale nucleo e un tale contenuto sostanziale, ora, dice Hegel, è compito del presente di svilupparlo ulteriormente in tutte le direzioni, in quella politica, etica, religiosa, scientifica. Il suo compito, aggiunge Hegel, è proprio quello di curare lo sviluppo filosofico di quel fondamento sostanziale, con il lavoro di una conoscenza, che, sorretta dallo spirito solido e ricco di contenuto degli ultimi tempi trascorsi, considera le idee non come qualcosa di irraggiungibile, ma al contrario come l’unica materia e l’unico possesso degno di sé. Chi potrebbe trattenersi dal sottoscrivere incondizionatamente queste idee nella misura in cui concernono l’essenza e i compiti dello Stato prussiano di allora? Ma chi potrebbe volerle sottoscrivere senza ammettere che la Prussia ben presto si è rivelata infedele a questa sua essenza e ha fatto tutt’altro che adempiere a questo suo compito? Lo Stato prussiano, tenuto alle dande dall’Austria, era entrato nel periodo della restaurazione e ha trascinato sulla medesima strada la filosofia che si identificava con esso e si modellava su di esso. Il sistema hegeliano è diventato così la dimora speculativa dello spirito della restaurazione prussiana». (Hegel und seine Zeit, ns. tr., Berlin 1857, pp. 357-358). I commenti su questo parallelismo ci sembrano superflui.

Vediamo di riprendere i motivi essenziali della nuova posizione di forza in cui la Chiesa cristiana paolina si è venuta a trovare in vista della sistemazione di Agostino. La scomunica era strumento di esclusione di già perfezionato e utilizzato da tempo, solo che nei riguardi degli avversari veri e propri, cioè in quanto strutture organizzate e non semplici “devianti”, individui isolati o piccoli gruppi, non era sufficientemente efficace come mezzo repressivo e di intimidazione, quindi preventivo. Cresciuta come organizzazione di potere, la Chiesa adesso ha bisogno di uno strumento di attacco e questo può essere la scomunica solo se questa viene sostenuta anche dallo Stato. Considerando l’eresia come pericolo anche per la società civile, si può rendere possibile l’allontanamento dello scomunicato non solo dalla Chiesa ma anche dalla comunanza con gli altri uomini. Una volta ottenuto questo, in uno con il riconoscimento ufficiale della propria organizzazione, la Chiesa ha in mano uno strumento poderoso, infatti potevano essere scomunicati anche i governanti, e allora questi ultimi venivano a trovarsi soli di fronte all’immane potenza della Chiesa, in quanto, se il popolo li avesse seguiti, sarebbe stato esso stesso oggetto di scomunica. I Padri si accorsero dei pericoli di eccesso che questo mezzo presentava. Infatti, come noterà in seguito Marsilio da Padova: «Se ogni vescovo o prete potesse infliggere, sia da solo o con il suo collegio sacerdotale, la scomunica senza il consenso della comunità dei fedeli, ne seguirebbe che i sacerdoti e i loro collegi potrebbero strappare i regni e i governi a coloro che li detengono». (Il Difensore della pace, II Discorso, op. cit., pp. 327-328). E allora si preoccuparono di affermare che la condanna di scomunica poteva essere emanata soltanto da tutta la comunità, quindi dalla Chiesa nel suo insieme, oppure da un giudice collegiale da questa, a quello scopo, predisposto.

L’altro strumento, perfezionato in quest’epoca, fu l’autonomia di giurisdizione, fondata dapprima timidamente, poi sempre più decisamente, sull’autorità di Aristotele (Fisica, 4, 12, 22 la) e sulla non sempre chiara distinzione tra atti temporali e atti spirituali. Audacemente attuata da Ambrogio, questa autonomia troverà poi il suo organico sviluppo durante tutto il medioevo, fino al definitivo eclissarsi delle loro velleità temporali, comunque mai del tutto cancellate. Era successo che a Callinico, sull’Eufrate, alcuni monaci, sotto la spinta del locale vescovo, avevano bruciato la sinagoga ebraica. L’imperatore aveva giudicato i monaci colpevoli e li aveva condannati, assieme al vescovo, alla ricostruzione della sinagoga. Ambrogio si ribella apertamente all’imperatore, pur trattandosi di un atto di esclusiva competenza dell’autorità civile. A Tessalonica, per la morte di un ufficiale, erano state giustiziate settemila persone su ordine di Teodosio. Ambrogio anche questa volta si schiera contro il potere costituito. Più tardi, nel 385, l’eretico Priscilliano viene giustiziato a Treviri accusato di magia. I sostenitori dell’accusa erano anche alcuni vescovi. La condanna è pronunciata dall’usurpatore Massimo, su richiesta appunto dei vescovi in questione. Ambrogio nega ogni legittimità all’ingerenza del governo centrale in affari di competenza esclusivamente religiosa. Tutta questa attività di contrapposizione sarebbe stata un controsenso appena un secolo prima e giudicata alla stessa stregua di quella di Firmico Materno, cioè come isolato fanatismo. Ha notato giustamente Augusto Rostagni: «L’atteggiamento così fanaticamente ostile e aggressivo di Firmico Materno si propagherà soltanto più tardi, nel secolo V inoltrato, quando, essendo ormai l’Impero d’Occidente in rovina, Roma violata dai Barbari e inetta a difendersi richiamerà su di sé, insieme con la sfiducia generale, gli acuti improperi della collera, della riprensione, dell’insurrezione». (Storia della letteratura latina, Torino 1955, vol. II, p. 672).

Nel contempo, proprio con Ambrogio comincia a manifestarsi una certa rigidità nei riguardi dei precedenti riti pagani. In precedenza, e per molto tempo ancora, c’era stata e ci sarà una libera interpretazione di questi riti da parte del cristianesimo primitivo, allo scopo di inglobare popolazioni di rito differente. Ha scritto Louis Ferdinand Alfred Maury: «... la sostituzione delle pratiche cristiane con i riti pagani si verificava ogni volta che questi erano suscettibili di santificazione. Essa aveva luogo soprattutto nei paesi come la Gallia, la Gran Bretagna, la Germania e le contrade settentrionali, dove il Vangelo fu predicato molto più tardi, dove le credenze pagane si mostravano quindi più vivaci e più ribelli. La Chiesa aveva esortato i suoi apostoli a questo compromesso con la superstizione popolare». (La magie et l’astrologie dans l’antiquité et aux moyen-âge, Parigi 1860, ns. tr., pp. 157-158). Invece, Agostino (Confessioni, 6, 2) ricorda il fatto che Ambrogio aveva proibito a Milano di portare vivande in onore dei santi «per non dare l’occasione agli intemperanti di ubriacarsi, e perché ciò era simile alle superstizioni della Parentalia dei pagani». Segno della nuova potenza sociale raggiunta dalla Chiesa e dell’utilizzazione di questa potenza nel senso di razionalizzare comportamenti e rapporti sociali.

Che questo fatto possa cogliersi proprio nella persona e nell’epoca di Ambrogio, è stato rilevato diverse volte, anche da commentatori illustri. Ricordiamo Lutero, il quale avverte e sottolinea questa raggiunta potenza e ne critica l’utilizzo, sollecitando invece a ricondurla nei limiti spirituali e citando proprio Ambrogio: «... nel predicare, ammaestrare e ministrare i sacramenti, per la qual cosa ciascun vescovo o parroco è egualmente superiore a tutti, proprio come S. Ambrogio nel confessionale fu superiore all’imperatore Teodosio... ». (Alla nobiltà cristiana di nazione tedesca, in Scritti politici, tr. it., Torino 1959, pp. 217-218). Lo stesso con Hugues Félicité Robert de Lamennais che nel meravigliarsi del fatto che in Toscana, ai primi del 1800, la polizia sottoponesse a censura le lettere indirizzate ai vescovi, si chiede: «Se la polizia di Teodosio avesse censurate le lettere indirizzate ai fedeli da Sant’Ambrogio, che cosa avrebbe egli detto di tale abuso?». (Affari di Roma, in Scritti politici, tr. it., Torino 1964, p. 489).

I pontefici romani utilizzeranno poi, per l’applicazione pratica di questo strumento giurisdizionale, nell’ottica dell’ormai conquistata autonomia, delle ordinanze dette Decretali, che saranno dirette non soltanto al clero, ma a ogni specie di diaconi e suddiaconi, chierici di semplice tonsura e infine anche ai laici. All’inizio questa estensione ai laici venne filtrata attraverso le organizzazioni e le comunità di religiosi laici, come ad esempio gli ordini ospedalieri. Queste formazioni, spesso debordanti nell’eresia, come accadde con i beghini, coprivano di fatto quasi tutto il tessuto sociale, specialmente in epoca medievale.

Il terzo strumento per raggiungere la piena autonomia di azione sociale, la Chiesa lo costruisce con la liceità della costrizione. Si trattò di un lungo e travagliato percorso. Ancora Ambrogio, che pure non era uomo eccessivamente ligio alla letteralità delle Scritture, asseriva: «Potrò dolermi, potrò piangere, potrò gemere; contro le armi e contro i soldati, anche Goti, le mie armi sono le lacrime; queste, sono, infatti, le difese del sacerdote». (Sermo contra Auxentium de basilicis tradendis, 2). Ma in questo modo non si poteva utilizzare a pieno la grande potenza della forza secolare, e utilizzarla naturalmente in difesa degli interessi organizzativi e religiosi della Chiesa. A quest’ultima non servivano ormai le lacrime, ma anche gli strumenti di persecuzione: da perseguitata era tempo che si trasformasse in perseguitatrice di coloro che muovevano remore alle sue necessità di razionalizzazione e di dominio, sia spirituale che sociale. Questa tesi sarà sviluppata da Agostino nella Epistola ad catholicos (14, 52 e sgg., P. L., XLIII, 432-434); nel Contra Cresconium (2, 22 e 3, 41, Migne, P. L., XLIII, 482-483 e 520-522); nel Contra Gaudentium (1, 25-28, Migne, P. L. , XLIII, 722-728); nell’Epistola 87 (7-8, Migne, P. L. XXXIII, 299-300); nell’Epistola 93 (1, 1-6, Migne, P. L. , XXXIII, 321-332); nell’Epistola 173 (1-10, Migne, P. L. , XXXIII, 753-757) e nell’Epistola 185 (1, 1-9, Migne, P. L. XXXIII, 792-811). Significativo un passo dell’Epistola 173: «... tanto più vasto si fa il potere di cui dispone la Chiesa e tanto più si dà l’opportunità di invitare, non solo, ma anche di costringere al bene. Ciò volle significare il Signore quando, pur disponendo di un gran potere, scelse di raccomandare prima l’umiltà; ciò, ancora, volle chiaramente indicare nella parabola del convito, là dove si narra di un uomo che mandò il suo servo: “Va’ per le piazze e le vie della città, e conduci qua poveri storpi, ciechi e zoppi. Ma poiché il servo tornò a dire: Signore, è stato fatto come hai ordinato, e ancora c’è posto: il padrone gli disse: Va’ fuori, per le strade e lungo le siepi, e costringi la gente ad entrare, affinché si riempia la mia casa”. (Luca, 14, 21-23). Osserva adesso il significato preciso delle parole. “Conduci qua”, disse prima; non disse di forzare la gente. In questa prima espressione sono simboleggiati i primordi della Chiesa, il tempo in cui essa era destinata a crescere, fino al punto di costringere gli uomini con la forza».

Comunque, come pensatore, Ambrogio resta molto al di qua dell’uomo d’azione. Giustifica il lavoro con argomenti modesti e usuali all’epoca sua, tratti in gran parte da Basilio: «Perché si affatica l’agricoltore e non aspetta piuttosto di portare nei suoi magazzini frutti cresciuti senza lavoro e per privilegio della sua nascita?... Ma non è questo il pensiero di tutti. E in fatto il sollecito agricoltore affondando l’aratro scinde la terra, nudo ara, nudo semina, nudo trebbia sull’aia le biade tostate dal calore estivo; e così l’impaziente negoziante fra il soffiare dei venti, sul malsicuro naviglio solca spesso il mare». (Ambrogio, L’Esamerone, tr. it., Torino 1937, pp. 340-342). Comunque, sull’argomento del lavoro, la Chiesa non uscirà mai da una ambivalenza tra valutazione positiva e negativa, valutazione che verrà estremizzata in senso negativo dagli ordini mendicanti, con il loro ascetismo portato all’interno dell’organizzazione ecclesiale e non estrapolato nei conventi soltanto, e in senso positivo con la riforma, in particolare con il calvinismo. Scrive Max Weber: «[Per Lutero] non solo la condotta di vita dei monaci [cattolici] è evidentemente senza alcun valore per la giustificazione davanti a Dio, ma [gli] appare come il prodotto di una egoistica mancanza di amore, che voglia sottrarsi ai doveri di questo mondo. In contrasto a questa il lavoro professionale nel mondo appare espressione massima dell’amor del prossimo». (Sociologia delle religioni, op. cit., vol. I, p. 168). Comunque, per i Padri, il lavoro avrà sempre una componente di sforzo, di pena e di fatica, nella quale si valuterà il costo umano anche in relazione alle possibilità assai ridotte, in condizioni estreme di sofferenza, di raggiungere la perfezione cristiana.

Sull’argomento della proprietà privata, pur non raggiungendo posizioni definitivamente chiare, ambivalenza che fa pensare a forti contrasti ancora esistenti all’interno della struttura ecclesiale dell’epoca, Ambrogio ripiega sulla solidarietà. «... è manifesta volontà di Dio che ci aiutiamo mutualmente gli uni con gli altri, che ci emuliamo nel farci reciproci servizi, che poniamo a contributo tutto ciò che valiamo, e, servendoci dell’espressione della Sacra Scrittura, dobbiamo aiutarci gli uni con gli altri, in tutti gli ordini, nell’intellettuale, nel morale, nell’economico». (De officiis ministrorum, 50, 1). Anche qui ritorna il pensiero di Basilio riguardo la delega. In un altro passo, infatti Ambrogio dice: «Siccome ti sei appropriato di parte di quello che fu destinato per tutto il genere umano e perfino per gli animali, è giusto che di esso riservi qualche cosa per i poveri, e che non neghi l’alimento a quelli che devi considerare come compagni e partecipi del tuo diritto». (In Ps. XVIII, serm. VIII, 22). Ma, in armonia con lo spirito pratico, Ambrogio è più esplicito nelle cose concrete, ad esempio contro l’incetta del frumento: «Si aumenta il prezzo come accumulato su capitale imprestato a usura e così aumenta il pericolo della vita: per te si moltiplica l’usura delle biade nascoste; tu nascondi il frumento, come un usuraio [e lo vendi poi], come un venditore all’incanto. Perché desideri male a tutti? Perché sia maggiore in seguito la fame, perché non rimanga quasi nulla delle biade, perché segua un’annata meno abbondante. Il pubblico danno è il tuo guadagno». (Dei doveri degli ecclesiastici, tr. it., Torino 1938, pp. 439-440).

L’intervento su questo argomento è importante, in quanto pronuncia un’autorevole condanna su quello che per secoli era stato ansioso dibattito teorico, da un lato, e pena e morte dall’altro. Leggi contro gli accaparratori ne sono esistite in tutti i tempi, ma adesso, a fianco delle pene giuridiche, venivano indicate pene spirituali. Non so quanto questo possa valere contro la cupidigia, certo si sviluppava un raddoppiamento razionalizzante che indirettamente doveva tornare utile alla Chiesa in quanto organizzazione, perché le riconosceva la possibilità di esprimere giudizi di condanna anche su argomenti della pratica economica corrente. Certo, il più grande accaparratore era lo Stato stesso, e ciò teoricamente nel tentativo di impedire che il popolo restasse senza pane, ma poi intervenivano i funzionari che spesso erano accaparratori in proprio. Procopio accenna alle grandi ricchezze accumulate dai prefetti delegati dall’imperatore Giustiniano ai servizi annonari e della grama situazione del popolo mentre «... ad alcuno era concesso l’acquisto del frumento: tutti dovevano fare i loro acquisti presso lo Stato». (Storia Segreta, 27). Al tempo di Ambrogio, circa nel 409, l’imperatore Teodosio costituì una cassa frumentaria per l’alimentazione granaria della città di Costantinopoli, e impedì ai privati l’acquisto che eccedesse le proprie necessità. (Codex Theodosianus, 15, 16, 1). Sempre contro gli accaparratori è diretta la Novella CXXII di Giustiniano: «Ci piace, con questo editto divino, proibire a tutti simile avidità e proibire che, in avvenire, qualsiasi arte, commercio o attività agricola esiga un prezzo o un salario più elevato di quello stabilito dall’antica consuetudine». (Cap. 1°).

Le preoccupazioni dello Stato in materia annonaria non si limitavano soltanto alla “cura comparandi”, approvvigionamento vero e proprio, ma anche alla cura “condendi et dividendi”, cioè alla conservazione e alla distribuzione. I risultati erano mediocri. Tutte le “superindictiones”, cioè le requisizioni, davano un gettito irregolare e difficilmente prevedibile. Anche le stesse “publicae comparationes”, gli acquisti pubblici, dipendevano spesso dalla cassa granaria. Le “frumentationes”, che ai tempi di Augusto erano mensili, secondo come dice Svetonio, ai tempi di Teodosio diventano giornaliere e vengono fatte in pane. Quest’ultimo, secondo Procopio, era molto cattivo e Svetonio lo chiama “sordidus panis”. Intorno al 398 vennero fissate delle vendite del pane a prezzo ridotto, cioè circa un “nummus” per un pane di mezzo chilo, circa cinquanta lire di oggi [1965]. Da ciò si ha un’idea della gravità del problema degli approvvigionamenti granari e dei mezzi che lo Stato impiegava per risolverlo, con scarsi risultati. La Chiesa venne così in aiuto allo Stato, battendo il tasto di certo abbastanza sensibile della condanna divina, lo stesso tasto davanti al quale aveva dovuto chinare il capo un uomo come Teodosio. Prima ancora che la dottrina risolvesse definitivamente il problema della liceità delle ricchezze, la pratica politica della Chiesa era arrivata a dei risultati concreti.

L’opera che Ambrogio pone in atto dalla cattedra di Milano, Giovanni Crisostomo la realizza da quella di Costantinopoli, tra contrasti e difficoltà non minori. È tutto un modo di intendere il comportamento politico dell’uomo di Chiesa che riceve autorizzazione ed esempio dall’attività di questi due Padri. I primi contrasti furono con l’imperatrice Eudossia, le cui abitudini dispendiose urtarono Giovanni. Questa sua azione correttrice nei riguardi dello Stato e anche contro tutti coloro che non seguivano i rigidi canoni della morale cristiana (culminata nella condanna voluta da lui di alcuni vescovi simoniaci), si concluse nel famoso Sinodo della Quercia, in cui Giovanni venne espulso. Dopo un breve ritorno a Costantinopoli, dovette riprendere la via dell’esilio nel Ponto, dove morì.

Anche in Crisostomo c’è un piglio di sicurezza uguale a quello di Ambrogio, e ciò dipende dal fatto che la Chiesa è quasi del tutto libera dalla tutela del potere temporale. Malgrado le illusioni di controllo di Teodosio, è il movimento cristiano che ormai controlla l’Impero. La Chiesa ispira e controlla tutta la politica statale, partendo dall’ipotesi a cui abbiamo fatto cenno, che lo Stato non è sopra la Chiesa, ma nella Chiesa, per cui deve restare subordinato all’autorità morale di quest’ultima, autorità che, pur restando morale, travalica irresistibilmente nel campo sociale. Infatti, non esiste possibilità di operare una scissione tra questi due campi. Così Crisostomo nota: «... Cristo non portò le sue leggi per sovvertire le comuni leggi politiche, ma per indirizzarle al meglio, insegnando a non intraprendere guerre superflue e inutili». (Commento alla Lettera ai Romani, 23, 1). Infatti, lo scopo politico del Cristianesimo non sarà mai la sovversione, ma la riforma, al fine di perseguire quella strategia di avvicinamento al potere che Thomas Hobbes più tardi definirà: «la prima e fondamentale legge di natura... e cioè che si deve ricercare la pace». (Elementi filosofici sul cittadino, tr. it., Torino 1959, p. 98).

Contrario a questa valutazione è George H. Sabine: «Questa posizione [del pensiero di Ambrogio] comportava non solo l’indipendenza della Chiesa, ma anche quella del governo secolare, finché esso agisce entro la sua giurisdizione. Il dovere di obbedienza civica, di soggezione ai poteri esistenti, che S. Paolo aveva espresso con tanto vigore nel tredicesimo capitolo dell’Epistola ai Romani, non era semplicemente annullato dal potere crescente della Chiesa». (Storia delle dottrine politiche, op. cit., p. 156). Mi sembra comunque che questa valutazione sia troppo legata a un esame dei testi degli autori non proprio adeguato al contemporaneo svolgersi dell’opera pratica della Chiesa dei primi secoli. Ad esempio, non può esserci dubbio alcuno che, poniamo, per i fatti di Callinico, Ambrogio abbia invaso il limite giurisdizionale. È naturale quindi che Sabine, impedendosi a priori ogni relazione tra fatti e teoria, riesca a dedurre dal pensiero di Ambrogio e, a maggior ragione di Agostino, solo la teoria delle “due spade”, portandola fino alle soglie della Scolastica.

Giovanni Crisostomo, chiamato così per la sua infuocata eloquenza, non condanna i ricchi ma solo il cattivo uso della ricchezza: «... intendete bene le mie diatribe non sono dirette contro i ricchi, ma contro quelli che usano male delle ricchezze... Sei ricco? Non ho niente da opporti. Sei avaro? L’avarizia si alimenta di ingiustizia». (Homilia de capto Eutropio et de divitiarum vanitate, 1). Con lui ritorna il concetto di circolazione dei beni come mezzo per il loro aumento: «Se poi vuoi accrescerli ed è per questo che li conservi, anche in questo caso il miglior metodo è quello di disperderli e distribuirli a destra e a sinistra». (Omelie su S. Giovanni Evangelista, Omelia XIX, cfr. G. Barbieri, Fonti per la Storia delle Dottrine Economiche, op. cit., p. 208).

In particolare Giovanni approfondisce due problemi, fino a quel momento trattati spesso ma qualche volta in maniera contraddittoria: l’ammirazione per il lavoro produttivo e l’affermazione dell’origine patologica della proprietà privata. Egli riguardo il primo concetto elimina tutti i tentennamenti che trovano origine nella condanna dell’eccessiva sollecitudine per i beni di questa terra, contenuta in Luca (12, 22-34). In effetti, il lavoro, specie nella forma produttiva imprenditoriale, difficilmente si separa da una indispensabile previsione del futuro, tanto che diventa possibile notare in Paolo un tentativo di riabilitazione del lavoro, ferma restando la contraddizione evangelica. Quello che in Ambrogio, sullo stesso argomento, era soltanto accennato, in Giovanni diventa problema vivo e pregnante: «Anche il mercante vuole arricchire: non fa però consistere il volere soltanto nel pensare, ma prepara l’imbarcazione, raduna i marinai, fa venire il pilota, allestisce la nave con tutto l’occorrente, cambia il denaro, e attraverso il mare se ne va in terre lontane, affrontando pericoli e tutte le eventualità che ben conoscono i naviganti. Allo stesso modo bisogna che anche noi compiamo una navigazione, non da una in altra terra, ma dalla terra al cielo». (Omelie su S. Giovanni Evangelista, cfr. G. Barbieri, Fonti per la Storia delle Dottrine Economiche, op. cit., p. 209). Si tratta dell’interpretazione positiva che resterà classica per tutto il medioevo. Alla domanda sottintesa, se ci si debba preoccupare o meno per il futuro, Giovanni risponde in un altro passo: «[Il Vangelo] non dice che non si deve seminare, ma che non si deve stare in pensiero; non che non si deve lavorare, ma che non bisogna avvilirsi né crucciarsi o affannarsi».(Homilia XXI in Matthaeum,VI). Più tardi Tommaso sistemerà canonicamente la cosa costruendo lo stratagemma del tempo congruente. Alla domanda: «Quale deve essere la sollecitudine per il futuro in tempo congruente ed opportuno, non già fuori di questo tempo?». (Summa, 2, 2, q. 55, a. 7). Ma la spiegazione è tutt’altro che convincente, specie se si ascolta anche la conclusione: «A ciascun tempo spetta la propria sollecitudine, così all’estate spetta la cura di mietere, all’autunno quella di vendemmiare. Se dunque qualcuno in estate si curasse già della vendemmia, si darebbe soverchiamente pensiero del futuro». Il problema è meglio formulato dai Padri, non sempre il dottore angelico, sommo sistematore, riusciva a sistemare i problemi.

Da notare, per ultimo, che il paragone posto tra il mercante e il cristiano perfetto, virtuoso, non è solo un espediente retorico. La grande eloquenza di Crisostomo non sarebbe potuta arrivare a tanto se ci fosse stata ancora viva e sentita l’antica diffidenza contro il lavoro in genere, e il mercante in particolare. Di certo, le condizioni morali di valutazione della mercatura stavano modificandosi, e i Padri ne registrano come sensibili sismografi le oscillazioni del cambiamento. L’affermazione agostiniana che “nessun cristiano deve essere mercante”, adesso sembra piuttosto leggibile soltanto sotto l’aspetto spirituale, nel senso che nessun cristiano deve essere mercante nelle cose attinenti all’anima.

L’altro principio, quello dell’origine fraudolenta della proprietà privata, riceve in Giovanni l’espressione più radicale ed esplicita di tutta la letteratura antica cristiana: «Potresti provare, risalendo ai tuoi ascendenti che questa tua fortuna è giusta nelle sue origini? Certamente no, anzi, sarà necessario confessare che questa fortuna procede originariamente dalla ingiustizia e dalla frode. Perché? Perché Dio in principio non fece gli uni poveri e gli altri ricchi, né nel momento della creazione agli uni mostrò molti tesori e agli altri no, ma a tutti lasciò la stessa terra perché la coltivassero... Considera l’economia del piano divino. Dio fece cose di uso comune... quando qualcuno tenta di prendere possesso di qualcosa, appropriandosela, allora sorgono conflitti, come se la natura avesse a male che noi dividiamo ciò che Dio volle stesse unito. Ecco qui il risultato dei nostri sforzi. Quando trattiamo di possedere qualcosa privatamente, tenendo continuamente in bocca le insipide parole mio e tuo, allora è quando sorgono le lotte fratricide, le invidie e i rancori. Così accade perché il possesso in comune è più naturale che la proprietà privata». (Homilia XII Ep. I ad Timoth, 4). Anche in questo caso, vale quanto detto riguardo la parallela concezione di Basilio, in contrasto con C. Bauer (Der heilige Johannes Crysostomus und seine Zeit, vol. II, München 1939), lo studioso più accreditato di Crisostomo, il quale afferma l’aperta negazione della proprietà privata nel pensiero di questo autore. In effetti, questa interpretazione assume contrasti troppo evidenti con i paralleli concetti di ricchezza, di circolazione della ricchezza, di commercio, di navigazione, aperti a possibilità di sviluppo positivo, per non sembrare almeno dubbia. Da questo punto di vista mi pare più attendibile la tesi di Aimé Puech (Un réformateur de la société chrétienne au IVe siècle, Parigi 1891, cfr. p. 70), il quale sottolinea l’utopia del pensiero di Giovanni, in linea con gli antichi riformatori, Platone, gli stoici, ecc., e i moderni pensatori socialisti. Comunque, questi paralleli ultrasecolari, corrono sempre il rischio di risultare inconsistenti e fantastici.

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In questo luogo non si può sviluppare convenientemente l’originale e interessante pensiero di Agostino, per cui dovremo attenerci, per quanto sarà possibile, alla selezione dei problemi che ci riguardano. Spesso la cosa sarà impossibile, in quanto dovremo fare riferimento ad alcuni punti essenziali del suo sistema filosofico che contende a quello di Tommaso il predominio nell’ambito di tutto il cristianesimo. Anzi, sia detto qui una volta per tutte, durante la Scolastica l’agostinismo entrò in polemica vivace col tomismo dei domenicani. I suoi princìpi essenziali, almeno per come appaiono meglio specificati nel corso dei secoli, sono il fluttuare continuo tra verità rivelate e verità razionali, quindi l’impossibilità di una netta divisione tra teologia e filosofia, la dottrina della luce divina che permette il funzionamento dell’intelligenza, il valore superiore della volontà sull’intelletto in relazione al maggior momento del bene sul vero, il riconoscimento dato alla materia di una effettiva positività in contrasto con la mera potenzialità aristotelica. La contrapposizione francescana al tomismo domenicano utilizzerà per sempre queste tematiche. Ha scritto Étienne Gilson: «La dottrina di Bonaventura segna dunque ai nostri occhi il punto culminante della mistica speculativa e ne costituisce la sintesi più completa che sia mai stata realizzata. Si comprenderà, dunque, senza difficoltà che essa non è mai rigorosamente paragonabile in nessun punto alla dottrina di Tommaso d’Aquino. Senza dubbio, sarebbe assurdo negare il loro accordo fondamentale: sono entrambi filosofi cristiani e ogni minaccia contro la fede li trova uniti per fronteggiarla. È di scena il panteismo? Entrambi insegnano la creazione ex nihilo e mantengono una distanza infinita tra l’essere per sé e l’essere partecipato. È di scena l’ontologismo? Entrambi negano formalmente che Dio possa essere visto dal pensiero umano già in questa vita e, a più forte ragione, ne rifiutano quella conoscenza abituale che l’ontologismo ci consentiva. È di scena il fideismo? Entrambi gli oppongono lo sforzo più completo dell’intelligenza per provare Dio e per interpretare i dati della fede. È di scena il razionalismo? Entrambi coordinano lo sforzo dell’intelligenza e l’atto di fede e conservano l’influenza benefica dell’habitus della fede sulle operazioni dell’intelligenza. Accordo profondo, indistruttibile, proclamato dalla tradizione che l’ha sottoposto alla prova dei secoli e che nessuno, del resto, neppure all’epoca delle peggiori lotte dottrinali, ha mai contestato. Se, però, queste due filosofie sono in egual misura cristiane, in quanto soddisfano in egual misura alle esigenze dei dati di fede, esse rimangono nondimeno due filosofie. Per questo, senza dubbio, Sisto V proclamava, nel 1588, e Leone XIII ricordava, nel 1879, che furono quei due filosofi a costituire la sintesi del pensiero scolastico del medio evo e che, ancora oggi, rimangono essi a rappresentarla; due nutrimenti e due luci: duae olivae et duo candelabra in domo Dei lucentia. I tentativi compiuti talvolta dai loro interpreti per trasformare in identità di contenuto l’accordo fondamentale, che abbiamo sottolineato tra i due sistemi, possono dunque essere considerati in anticipo come inutili e vani nel loro stesso fondamento; è chiaro, infatti, che, se due dottrine sono organizzate secondo due preoccupazioni iniziali diverse, non considereranno mai gli stessi problemi sotto lo stesso aspetto, e che, di conseguenza, l’uno non risponderà mai al problema preciso posto dall’altro. La filosofia di S. Tommaso e quella di Bonaventura si completano come le due interpretazioni più universali del cristianesimo: per il fatto che si completano, non possono né escludersi né coincidere». (La philosophie de saint Bonaventure, ns. tr., Paris 1953, p. 396).

Quindi, una filosofia che subordina la conoscenza all’utilizzazione pratica, uno strumento formidabile, un meccanismo per la difesa e la conquista della fede. Con ciò non vuol dire che la filosofia greca sia dimenticata. Sono infatti frequenti le citazioni e i riferimenti ai testi dell’Accademia Antica e dell’Accademia Nuova nella Città di Dio. Da notare la critica di Aristotele riguardo il problema dell’ideale di giustizia (De sermone Domini in monte, 1, 57). Aristotele poneva l’ideale di giustizia nella felicità, mentre Agostino lo pone nella pace. Importante la differenziazione tra riposo e voluttà che lo distingue da Epicuro e gli consente di affrontare l’attività sociale della Chiesa come azione pratica (De civitate Dei, 19, 1). Infine, da ricordare l’approfondimento della filosofia di Plotino, conosciuta attraverso la traduzione di Mario Vittorino e l’interpretazione di Ambrogio (De ordine, 2, 54). Lo studio di questi rapporti con la filosofia greca, escluso Platone, è condotto in maniera ottima da Prosper Alfaric in L’évolution intellectuelle de saint Augustin, vol. I, Du Manicheisme au Néoplatonisme Parigi 1918.

Un posto a parte occupano la filosofia stoica e la figura di Platone. La prima viene purgata da quell’eccessiva astrazione che la conduceva a escludere la natura dall’ordine, allo scopo di pervenire all’affermazione che l’ordine esterno, voluto da Dio, comprende la natura e nello stesso tempo la trascende. Su questo punto ha scritto Eucken: «Questo modo di considerare il mondo ed il male presenta come principale difficoltà quella stessa nella quale urta tutto l’indirizzo soprannaturalistico di quel tempo. Si pone ogni realtà in Dio e tuttavia si persiste nel non voler risolvere il mondo in mera parvenza; si afferma l’esistenza di un mondo fuori di Dio, ma si cerca in Dio tutto ciò che questo mondo ha di essenziale. Così rimangono insieme due ordini d’idee tra loro ripugnanti ed ora prende il sopravvento il punto di vista divino, ora l’umano, ora il temporale, ora l’eterno. Fintanto che tutto si affissa in Dio e nella vita divina si fa entrare come semplice mezzo ogni cosa umana, la dottrina di Agostino, nella sua rudezza, ha una grandezza titanica». (La visione della vita nei grandi pensatori, op. cit., p. 306). Questi rapporti storici e filosofici sono stati studiati in maniera approfondita da Georges de Plinval: “Aspects du determinisme et de la libérté dans la doctrine de saint Augustin”, (in “Revue des études augustinienne”, I, 4, 1955, pp. 363 e sgg). I passi di Agostino che più da vicino risentono dell’influenza stoica, limitandosi ai temi sociali e politici, sono: De libero arbitrio, 2, 37; De musica, 6, 46; Enchiridion ad Laurentium, 3; De ordine, 1, 18; De civitate Dei, 11, 18.

Per Platone il problema si amplia. Innanzi tutto il rifiuto di ammettere la tradizionale tesi della giustizia come utilità, e in questo caso Agostino viene ad accettare la tesi filosofica di Carneide, la cui influenza ed autorità erano grandissime al tempo in cui egli scriveva. Nello scritto sul Sermone della Montagna, di già ricordato, Agostino ha cura di segnalare anche la propria discordanza dai pitagorici, i quali fondavano la giustizia sull’uguaglianza. Lo stesso titolo dell’opera fondamentale di Agostino ha un debito con Platone, come l’ha con Filone Ebreo. Comunque, Agostino ha costruito l’antitesi tra città terrena e città divina sulle orme di quanto si trova accennato nelle lettere di Paolo. Secondo quanto ha notato Henri J. Marrou (Saint Augustin et la fin de la culture antique. Retractatio, Paris 1949, p. 671), è presente anche l’influenza del donatista Ticonia, autore del Commentario all’Apocalisse, più volte citato con rispetto da Agostino. Riguardo Platone, ne La città di Dio leggiamo: «Quanto a Platone, Labeone giudicò di doverlo innalzare al rango dei semidei, come Ercole e come Romolo; ed egli antepone i semidei agli eroi, e colloca gli uni e gli altri nel numero delle divinità. Ma per conto mio, questo che egli chiama semidio, non dubiterei ad anteporlo, non soltanto agli eroi, ma addirittura agli dèi». (2, 14).

Il problema della relazione tra filosofia greco-romana e Patristica non può riassumersi nelle brevi osservazioni fatte, la quali, per altro, non possono tenere conto delle implicazioni più vicine al periodo studiato, perché troppo confuse nell’opera degli autori cristiani, per risultare separabili. Così conclude Wilhelm Windelband su questo argomento: «In una siffatta molteplicità di fili diversi l’un l’altro intrecciantisi, la filosofia antica continua a tessere la sua tela lungo tutto il Medioevo; questo spiega la vivezza di colori che la filosofia di questo millennio presenta alla ricerca storica. In varia vicenda di contatti, e favorevoli, e ostili, gli elementi di una tradizione che di secolo in secolo si vien allargando ed accrescendo, si spostano e si fondono l’un l’altro in immagini sempre nuove; nella fusione di questi elementi si sviluppa una straordinaria finezza di trapassi e di sfumature, e quindi una ricchezza di lavoro speculativo, che in moltissime interessanti personalità di questo periodo si rivela in una stupefacente estensione della produzione letteraria, in un’appassionata vivacità di dispute scientifiche». (Storia della filosofia, vol. I, tr. it., Firenze 1955, pp. 312-313). Che è stato problema preso in considerazione da tutti coloro che, fuori dalle contingenze patristiche si sono messi all’opera affrontando, in termini di riflessione moderna il pensiero di Agostino. Ecco le considerazioni di André Robinet: «Malebranche si rivolge da cartesiano ai cartesiani, perché esce dal bagno cartesiano. Ma è ugualmente inserito nella linea agostiniana che, dopo Cartesio, tenta di comporre le prospettive della nuova filosofia con una antica tradizione. Il sua sforzo non fu isolato: ma egli soltanto ebbe tanta ampiezza [...]- Malebranche, a ragione del carattere fondamentale dell’esperienza religiosa, metteva subito gli schemi agostiniani al centro delle sue preoccupazioni e delineava la sua visione del mondo secondo í loro insegnamenti. Questo contesto era facilmente riconducibile a quello cartesiano, almeno quanto ai primi pensieri. Ma, al fondo, la teologia agostiniana era incompatibile con la separazione della ragione e della fede, che i cartesiani ammettevano. Non si poteva troppo a lungo avere una Prefazione tutta infarcita delle citazioni tratte dalla Filosofia cristiana e una conclusione sulla visione in Dio, inquadrante un insieme di osservazioni a carattere antropologico, ove abbondavano le citazioni cartesiane di ispirazione scientista. Solo una crisi poteva sciogliere il problema. La crisi si è operata a danno della filosofia di Cartesio e a vantaggio della teologia di Agostino. E, indubbiamente, in tale modo Malebranche è diventato teologo, quando è stato per lui necessario avere la filosofia della sua fede. Teologicamente fondata, l’opera di Malebranche si costituisce nella razionalità filosofica. Non ci sono due ragioni. Ci possono essere diverse vocazioni della ragione. (Système et existence dans l’œuvre de Malebranche, Paris 1965, p. 491).

Comunque, Agostino per molti aspetti segna una frattura considerevole tra mondo nuovo e cultura classica. Il primo di questi aspetti è dato dall’interiorità della sua problematica. Ciò non deve intendersi nel senso che sia il primo ad interessarsi dei riflessi psicologici della nuova fede, e tanto meno che sia il primo a comprenderne le conseguenze sociali, solo che con lui si raggiunge il livello più elevato delle notazioni cominciate da Paolo. Era infatti l’apostolo di Tarso che affermava: «Quanto a noi, non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito che viene da Dio, affinché conosciamo le cose che Dio ci ha dato in Virtù della sua grazia». (Prima Lettera ai Corinti, 2,12). È quindi nell’introspezione, la cui anticamera è la preghiera, che viene identificata la possibilità della vera conoscenza. E qui lo spirito di Agostino non passerà in Tommaso ma, molto di più, in Bonaventura. Così ha precisato questo problema Renato Lazzarini: «Ora nessuno più di Bonaventura ha fatto proprio questo senso umano del mondo, per muovere da esso al senso divino. In ciò egli non sarà certo originale, poiché egli non fa che potenziare ed esprimere una grande tradizione stoica. La sua importanza quindi più che speculativa è storica adempiendovi, rispetto alla tradizione cristiana, una funzione analoga a quella che compiranno gli umanisti due secoli più tardi rispetto alla tradizione classica: aventi entrambi come oggetto la riabilitazione dell’uomo. In particolare si deve a Bonaventura se tale tradizione fu salvata e tramandata per una lunga fila di francescani nella coscienza cristiana e moderna. Senza di lui avrebbe trionfato forse del tutto la corrente cosiddetta innovatrice, la quale fu costretta a contenersi entro certi limiti per l’appunto dall’opposizione francescana. Fu questa ad impedire che essa giungesse agli estremi, sfigurando la sensibilità e la speculazione cristiana millenaria così da renderla ormai inutile o irriconoscibile. È il microcosmo ragion d’essere del macrocosmo e non il macrocosmo del microcosmo, perché in tal caso l’uomo sarebbe un essere sperduto nell’immensità del creato senza alcun fondamento per un’eternità di valori umani. A questo giunse l’aristotelismo nel suo sviluppo consequenzionario che è l’averroismo, da cui Tommaso è attratto in virtù del suo aristotelismo e nello stesso tempo respinto in virtù del suo cristianesimo; e che esercitando una profonda frattura nella tradizione, contribuisce come tendenza a un asservimento dell’uomo alla natura anziché della natura all’uomo. Certo l’adesione di Bonaventura alla tradizione è suggerita dalla gelosia che egli ha di conservare il patrimonio spirituale tramandato e avverso alla modernità che minaccia la fede. Onde la sua partecipazione almeno indiretta all’opera di repressione contro l’irrompere delle nuove dottrine nel 1270. Ma io osservo che questo è un motivo del tutto estrinseco. Ve n’è uno più intrinseco e profondo. Ed è che solo l’umanesimo agostiniano e francescano conferisce all’uomo quella posizione centrale ed esclusiva che nel naturalismo aristotelico viene obliterata e in gran parte soffocata, perché, respingendo la dottrina della pluralità delle forme, non considera la natura come una anticipazione e una preparazione all’avvento dell’uomo, e toglie quindi ad esso il suo privilegio di fronte alle creature inferiori. Ravvivare la tradizione significa dunque ravvivare la fede nell’umanità fino al punto da vedere anche l’umanità del cosmo e prepararsi a decifrare in esso il vestigio di Dio. Se nessuno è più audace innovatore di quell’umile seguace della tradizione che è S. Francesco, nessuno come S. Bonaventura lo è altrettanto nella sistemazione speculativa e mistica. E non a caso questa rielaborazione dottrinale dell’umanità primitiva riprese nuovo vigore proprio in un tempo in cui affioravano nella coscienza cristiana le speranze di una nuova epoca della storia umana». (S. Bonaventura, filosofo e mistico del cristianesimo, Milano 1946, pp. 243-244).

Ma il vero problema era di natura intima, a livello della coscienza, dell’immediatezza. Ogni intuizione alberga nella propria unicità e fronteggia la modificazione produttiva dove tutto era cambiato perché tutto alla fine restasse uguale. Pure affrontando la visione di un aspetto della realtà di già noto attraverso l’immediatezza, l’intuizione rimbalza sempre su di una nuova prospettiva e la si vive nell’intimo di se stessi come una nuova esperienza diversa, perché nella qualità la tensione impedisce che quello che viene percepito, la gioia di un attimo, sia uguale a qualcosa di già percepito altrove. Questo grandissimo problema non è stato mai direttamente affrontato in termini diversi dal semplice e superficiale contatto psicologico. E questo anche da importanti storici della filosofia e perfino da filosofi di un cxerto peso. Forse soltanto Heidegger si è accostato maggiormente al nocciolo di cui stiamo individuando la presenza. Le sue parole sono impressionanti: «È merito dell’indagine fenomenologica aver posto su nuove basi l’esame di questi fenomeni. Non solo Scheler, sotto l’influenza di Agostino e di Pascal, ha orientato la problematica nel senso della determinazione del fondamento delle connessioni fra atti “rappresentativi” e atti “di interesse”. Anche qui, però restano sempre oscuri i fondamenti ontologico-esistenziali del fenomeno dell’atto in generale. La situazione emotiva non solo apre l’Esserci nel suo esser gettato e nel suo stato-di-assegnazione a quel mondo che gli è già sempre aperto nel suo essere, ma è anche il modo di essere esistenziale in cui l’Esserci si abbandona al “mondo” e viene affetto da esso in modo da evadere da se stesso. La costituzione esistenziale di questa evasione si farà chiara nel fenomeno della deiezione. La situazione emotiva è un modo di essere esistenziale fondamentale in cui l’Esserci è il suo Ci. Essa, non solo caratterizza ontologicamente l’Esserci ma, in virtù del suo aprire, assume un’importanza metodica fondamentale per l’analitica esistenziale. Questa, come ogni altra interpretazione ontologica, può soltanto, per così dire, chiamare a rendere i conti sul suo essere un ente già aperto. Essa dovrà muoversi dentro le possibilità di aprimento dell’Esserci più adeguate e più ampie, per far proprio, in base ad esse, il disvelamento di questo ente. L’interpretazione fenomenologica deve offrire all’Esserci stesso la possibilità della sua apertura originaria e far sì che esso si interpreti da se stesso. Essa interviene in questa apertura solo per trasferire sul piano concettuale esistenziale il contenuto fenomenico di ciò che risulta aperto. In vista dell’interpretazione di una situazione emotiva dell’Esserci di importanza fondamentale per il suo significato ontologico-esistenziale, l’angoscia, il fenomeno della situazione emotiva deve essere esaminato in modo ancor più concreto, mediante l’analisi di un suo modo determinato, la paura. Il fenomeno della paura può essere considerato sotto tre aspetti. Prenderemo in esame il “davanti-a-che” della paura, l’“aver-paura” e il “per che” della paura. Queste tre diverse prospettive non sono casuali. In esse viene in luce la struttura della situazione emotiva in generale. L’analisi è completata dall’indicazione delle modificazioni possibili della paura, modificazioni che concernono sempre i suoi diversi momenti strutturali. Il “davanti-a-che” della paura, “ciò che fa paura”, è sempre un ente che si incontra nel mondo, sia esso un utilizzabile, una semplice-presenza o un con-Esserci. La ricerca non può assumere la forma del reperimento ontico dell’ente che può “far paura” più spesso e di più, ma deve tendere alla determinazione fenomenica di ciò che fa paura in quanto tale. Qual è il carattere di ciò che fa paura e come si presenta nella paura? Il “davanti-a-che” della paura ha il carattere della minacciosità. Da ciò derivano diverse conseguenze: 1. L’appagatività propria dell’ente che viene incontro come minaccioso è costituito dalla dannosità. Essa si manifesta in un complesso di appagatività. 2. La dannosità si volge verso un settore determinato della sua zona d’azione possibile e proviene da una determinata prossimità. 3. Questa prossimità e ciò che si muove in essa sono ben noti, ma non per questo “rassicuranti”. 4. L’ente dannoso e minaccioso non è ancora a distanza controllabile ma si avvicina. Man mano che esso di avvicina, la dannosità si intensifica e produce così la minaccia. 5. L’avvicinamento ha luogo nell’ambito della prossimità. Ciò che può risultare dannoso in sommo grado, ma si avvicina alla lontananza, non si rivela ancora nella sua temibilità. (Essere e tempo, op. cit., pp. 231-234).

Ora, tenendo presente il fatto che questo principio viene dalla lunga serie degli apologisti continuamente subordinato alle necessità polemiche, si comprende meglio la straordinarietà di Tertulliano, uno degli autori più vicini ad Agostino, e non solo perché l’origine dei suoi studi e i suoi anni giovanili si collocano in quello stesso ambiente africano che continuamente va a fomentare esaltazioni di fede ed eresie. La riduzione all’assurdo di Tertulliano, cui si attribuisce la famosa frase: “Credo quia absurdum est”, la quale se non venne mai scritta, è però indicativa del suo pensiero, dimostra ora una maggiore coerenza: «Il figlio di Dio – Tertulliano scrive – è stato crocefisso, non ne ho vergogna, perché bisogna averne vergogna? E che il figlio di Dio sia morto, è assolutamente credibile, perché è stupido. E che una volta sepolto, egli sia resuscitato, ciò è certo, perché è impossibile». (De Carne Christi, 5). Su questo punto, di difficile comprensione, su cui sono scivolate via tante superficiali analisi, si è soffermata anche la dolorosa ricerca di Nietzsche: «La sorte del Vangelo fu decisa con la morte – restò sospesa alla “croce”... Soltanto la morte, questa morte inattesa e obbrobriosa, soltanto la croce, che in generale era riserbata esclusivamente alla canaglia – soltanto questo atrocissimo paradosso portò i discepoli di fronte al vero enigma: “chi era costui? che significava tutto questo?”». (L’Anticristo, in Opere complete, tr. it., vol. VI, tomo III, Milano 1976, p. 216). Paradosso che doveva essere risolto, ha intuito finemente Nietzsche, in un modo tutt’altro che evangelico, non cioè come un abbandono mite nelle mani dei propri persecutori, in altri termini la medesima classe dominante dei sacerdoti, ma come una contraddizione senza risposta, proprio perché la risposta la si è andata cercando nel rafforzamento dell’istituzione, cui ha dato la sua mano incerta anche Tertulliano, ponendo ma non risolvendo il paradosso, a cui darà definitivamente completamento Agostino, eliminandolo del tutto.

La sconvolgente modernità, l’estremismo teorico direi, di Agostino, mi ha sempre turbato e fatto pensare alla radicalità di pensatori come Schopenhauer, Nietzsche e perfino a non ben digerito Freud. Il corpo è tenuto come tra parentesi ma la coscienza è là, vigile e pretenziosa, e mi sollecita a un’altro comportamento simile, quello della volontà, che poi si tratta della stessa cosa sotto due nomi differenti. Ha scritto Clément Rosset: «Considerando bene la dottrina [delle idee], la si può quanto meno inquadrare nel comune modo di pensare dell’epoca. L’“idea platonica” schopenhaueriana non è se non la forma che assume in Schopenhauer l’immediatezza romantica, ovvero il rifiuto – che nel romanticismo assume le forme più diverse, ma che è comunque immancabile – dell’intermediario tra finito e infinito. Questo rifiuto spinge a cercare in qualsiasi modo l’inconsistenza del corpo, a fare del corpo una trasparenza assoluta; e poiché, in Schopenhauer, la corporeità dipende dalle forme del principio di ragione, la trasparenza assoluta del corpo (che diviene, così, non più corpo, ma idea platonica) è ottenuta abolendo tali forme. Che tutto ciò avvenga precipuamente nell’arte, è anch’essa opinione comune dei romantici; e, del resto, la diretta esperienza estetica ci permette di constatare che, in un qualche modo di cui non ci rendiamo ben conto, le cose avvengono precisamente così: la particolarità degli impulsi, e la subordinazione pragmatica del conoscere ai bisogni dell’individuo, nella contemplazione estetica vengono meno, si ha quel “piacere senza interesse” che già Kant, tra gli altri, aveva rilevato, e che in Schopenhauer diviene una forma di liberazione dall’individuazione della volontà. La tesi di Schopenhauer secondo cui “l’intelligenza obbedisce alla volontà” rappresenta dunque il punto di partenza di una filosofia genealogica (Marx e Nietzsche), e al tempo stesso di una filosofia dell’inconscio (Freud). L’una e l’altra esistono però in Schopenhauer allo stato di abbozzo in parte dissimulate ma presenti sotto l’apparato concettuale pseudo-classico. La lettura del cap. XIX dei Supplementi al libro II del Mondo intitolata Del primato della volontà nella coscienza di noi stessi basta a dare un’idea precisa di queste intuizioni genealogiche di Schopenhauer». (Schopenhauer philosophe de l’absurde, ns. tr., Paris 1947, pp. 35-36).

E più avanti, lo stesso autore: «[Tuttavia] quel che interessa in primo luogo Schopenhauer non è spiegare i fenomeni mediante l’influenza della volontà, ma descrivere la volontà stessa nella sua assurdità precisamente inesplicabile». (Ib. p. 43).

Concludendo: «Così la demistificazione della coscienza, impresa essenziale della filosofia genealogica, non è raggiunta da Schopenhauer, precisamente perché il ruolo della coscienza non è stato analizzato da Schopenhauer ma abolito, assorbito nell’influenza univoca della volontà. La coscienza perde ogni ruolo nel momento preciso in cui l’intuizione del primato della volontà potrebbe dare a Schopenhauer lo strumento atto a fargli interpretare questo ruolo. Rovesciando i termini del rapporto, Schopenhauer ha messo troppo zelo nel subordinare le funzioni intellettuali: le ha fatte sparire dalla scena, al punto che la potenza nuova delle funzioni volitive, se comanda ad ogni cosa, non spiega più nulla. In una certa misura questo scacco genealogico è tanto più grave in quanto è volontario e coerente. Schopenhauer è privo della minima ambizione esploratrice, malgrado il possesso d’un metodo che potrebbe aprirgli campi molteplici di riflessioni nuove: la sua genealogia si trova senza contenuto. Mentre Nietzsche rivolge il suo sguardo genealogico sulla morale e sulla metafisica, Marx sull’economia e sulle ideologie collettive, Freud sulla psicologia dell’inconscio, lo sguardo di Schopenhauer, per quanto lucido, si rifiuta di guardare qualche cosa in particolare. Così Schopenhauer, se inaugura un metodo filosofico nuovo, non introduce a sua volta, nessun contenuto nuovo nella riflessione filosofica. Donde la sua situazione paradossale: una importanza essenziale se ci si attiene alla intuizione genealogica, ma molto povera se si considera i frutti di questa intuizione, ossia il contenuto proprio della filosofia di Schopenhauer». (Ib., pp. 53-54).

Clemente Alessandrino, invece, ci appare come fermo su posizioni arretrate, almeno nei confronti di Tertulliano. Egli è portato a sminuire l’importanza del fattore intimistico, e ciò in conseguenza, forse, dei suoi debiti filosofici nei confronti degli stoici e di Filone l’Ebreo. Infatti, per lui la saggezza è essenzialmente derivata dal logos, ed il progresso della conoscenza umana è la strada per una sempre più vasta ricezione di questo spirito divino, sola fonte di verità. Egli è però un sostenitore diremmo oggettivo della scienza, che considera la sola via possibile alla fede cristiana. Il sapere è un’acquisizione che costituisce l’uomo, non un possesso dell’uomo. In Origene, invece, l’elemento fondamentale è il libero arbitrio. L’uomo, egli sostiene, è l’unico animale che partendo, come tutti gli altri, dalle sensazioni e dalle immagini, riesca a liberarsene e a dirigere la sua condotta in base a una scelta. Tale libertà costituisce il fondamento della vita associata. Comunque, qui siamo ancora in una fase di separazione tra intellettuale e popolo, su cui lavorerà Agostino. «Quanto è straniera e lontana – ha scritto Eucken – da quella dedizione del sé all’essere eterno, da quella “divinizzazione”, che è l’ideale dei pensatori, la disposizione della turba che è mossa solo dalla paura del giudizio divino, che non agisce senza una speranza di compenso, che ha bisogno di miracoli ed è tutta attaccata al senso». (La visione della vita nei grandi pensatori, op. cit., pp. 265-266).

Anche la dottrina di Agostino parte dall’anima e si dirige, attraverso un processo d’introspezione, alla conoscenza di Dio. Il problema determinante di questo tragitto conoscitivo è quello del peccato originale. Secondo Agostino, il male non può essere in alcun modo attribuito a Dio, come creatore dal nulla di ogni cosa, ma deve derivare dal nostro peccato originale. Da canto suo, abbandonato a se stesso, l’uomo non potrebbe mai sperare di giungere a Dio, se non avesse l’aiuto della grazia. Punto questo che presenta diverse affermazioni pericolose, sulla pochezza della cooperazione umana in questo processo di liberazione, affermazioni dettate dall’ardore polemico della lotta contro Pelagio. Agostino non interpreta il peccato originale nel senso classico di disobbedienza, cioè come desiderio di possesso e di piacere del possesso come fine a se stante, sia delle cose come delle persone. Infatti, non avrebbe avuto senso l’atto del primo uomo, se non visto attraverso la spiegazione del piacere sensuale del possesso del frutto proibito. Da ciò Agostino deduce che la volontà di rettitudine è falsata fin dall’inizio. «Se la volontà fosse nella sua pienezza, essa non comanderebbe a se stessa di essere; ma sarebbe già... C’è qui una malattia dell’anima... sollevata dalla verità ma impacciata dal peso dell’abitudine». (Confessioni, 8, 9). Pertanto, il mondo esterno, la ricchezza, la proprietà, l’attività lavorativa e produttiva, la preoccupazione per l’avvenire, tutto insomma che costituisce l’aspetto terreno degli interessi umani, non è di per se stesso un oggetto di perdizione, in quanto è stato creato da Dio. Infatti, Agostino si attarda a lodare le perfezioni della natura, anche quelle perfezioni così pericolose del corpo umano (De libero arbitrio, 3, 27), sostenendo che non può esserci male nella natura in quanto questa è creata da Dio, affermazione di cui lui stesso si rende conto delle possibilità di una lettura falsata da parte dei pelagiani (Retractationes, 1, 10, 3), precisando che intendeva riferirsi alla natura vera e propria, alla quale solo per analogia può ricondursi la natura che ha l’uomo nascendo. In questo senso, quindi, è sempre il peccato originale, cioè la concupiscenza, a rendere colpevole il mondo esterno, l’universo sociale dell’uomo, facendolo decadere alla sua naturale dignità.

Questa concezione del male è possibile in quanto la natura umana è tutt’altro che libera, secondo Agostino, anzi è contrassegnata in maniera irrevocabile da parte di Dio. La concezione moderna del male si affaccia solo in contemporanea alla concezione della libertà. Così Karl Jaspers: «Quando comunemente si parla di questo voler qualcosa si cade in un’illusione ingannevole dovuta al fatto che, coscientemente o incoscientemente si traduce in oggetto di volontà la stessa volontà originaria. Si confonde ciò che posso volere con la volontà che esiste solo perché vuole se stessa. Questa confusione rappresenta un pericolo per le proposizioni della chiarificazione dell’esistenza. Ciò che chiarisco non posso oggettivarlo, o farne addirittura oggetto della mia ricerca finalistica. L’esistenza non è qualcosa che si possa volere direttamente. Posso senz’altro volere originariamente qualcosa che è chiarito, un processo esplicativo che parte dalle origini, ma non posso volere a tergo l’origine. Ciò che posso volere è la pura e semplice oggettività. Come non posso volere l’esistenza, così non posso volere l’idea, ma la mia volontà può esprimersi solo nell’idea e dall’idea. In ogni comunicazione mi rendo conto di indicare i fini oggettivi della mia volontà, che però posso fondare solo nella misura in cui sono mezzi in vista di altri fini. Solo nella comunicazione indiretta delle idee e dell’esistenza si chiarisce il fondamento in cui e da cui quei fini, che non possono essere fondati, sono voluti e resi validi. Dove si diffonde la volontà che vuole direttamente l’esistenza si sviluppa un atteggiamento inautentico che sfiora il patetico, e che è simile a quei vuoti discorsi sulla vita, sulla personalità e sulla nazione; un fiume di parole che, senza alcun riscontro esistenziale, è fondato su una falsa oggettivazione. Ciò che si può realizzare nell’ambito oggettivo e particolare si nientifica se si presume che sia direttamente colto nel sentimento, nella propria coscienza e nella coscienza del popolo. Nasce così una sorprendente confusione. Si spiega la morte, l’infermità, la guerra, la disgrazia con la loro appropriazione e il loro superamento esistenziale. Falsificando il senso esistenziale di tale chiarimento, si deduce che s’ha da volere cose temibili. Si confonde la possibile pienezza esistenziale che si realizza attraverso l’accettazione degli eventi indipendenti dalla mia volontà, con la presunta conoscenza di una regola che presiede le connessioni desiderate e da cui tali eventi dovrebbero essere voluti. La considerazione oggettiva, al pari della volizione, si inganna quando crede di vedere, a posteriori, come necessaria e universalmente valida, la manifestazione storica di un’esistenza. Ciò che è storicamente vero si falsifica quando diventa oggetto di un volere. Appartiene alla profonda esperienza dell’esistenza l’accorgersi che qualcosa è possibile e solo dopo il suo svolgimento impenetrabile, e perciò incalcolabile. Solo ingannandomi potrei pensare che avrei potuto ottenere qualcosa più facilmente e che, in generale, dovrei stabilire delle regole per altri casi analoghi che si dovessero verificare. Ogni evento storicamente accaduto ha una sua peculiare rilevanza. Avviene attraverso una crisi e diventa esistenzialmente fecondo. Il fatto che ogni volontà possa essere verace solo nel mondo e non in relazione alla totalità, rispetto alla quale sarebbero necessarie capacità comprensive in grado di oltrepassare i limiti dell’esserci particolare, è cosa di cui la coscienza della libertà, storicamente fondata, è certa nel presente esistenziale. Le affermazioni relative alla libertà e alla non-libertà della volontà determinarono una lotta appassionata che contrappone il determinismo all’indeterminismo, come se l’essenza dell’uomo potesse dipendere da una decisione teorica. Quando si parla della libertà della volontà c’è effettivamente tra noi la tendenza di dimostrarne l’esserci oggettivo. Ma siccome la libertà non ha un proprio esserci, e poiché, nonostante ciò, l’affermazione e la negazione della libertà, ricorrendo ad enunciati che si presumono universalmente validi e dimostrabili, oggettivano la libertà come se fosse un essere, è necessario che queste enunciazioni capovolgano il loro senso. Il loro significato oggettivo, infatti, non si identifica con ciò di cui originariamente si tratta quando è in gioco la libertà. Solo se la libertà fosse un esserci oggettivo, allora potrebbero valere queste argomentazioni che ne negano o ne affermano l’esserci. Ma anche in questo pensiero è di nuovo presente una volontà. Affermazione della libertà della volontà. Le affermazioni oggettive che si riferiscono alla libertà hanno un loro senso specifico che non deve esser confuso con la risposta all’autentico problema della libertà. a) Il pensiero oggettivante che pensa la libertà come mancanza di causalità, adotta, rispetto alla libertà della volontà, questa formula: se tra due possibilità che hanno la stessa forza si deve sviluppare un’azione, occorre rafforzare una delle due possibilità mediante una scelta che consenta una realizzazione che non dipende dalla necessità, ma dal cosiddetto liberum arbitrium indifferentiae. Per illustrare questa situazione si ricorre alla storia dell’asino di Buridano che, posto alla stessa distanza da due mucchi di fieno, morirebbe di fame, se non intervenisse il libero volere a farlo decidere per uno dei due. Argomentazioni del genere sono pensieri vuoti che non dimostrano nulla; se anche dimostrassero qualcosa, questo qualcosa non avrebbe nulla a che fare con la libertà della volontà, perché qui non si tratta di dimostrare la libertà come casualità o arbitrio, ma la libertà autentica. L’appello alla libertà della volontà è indipendente dall’affermazione e dalla negazione di questa libertà. b) Se la libertà della volontà non nasce dal nulla, per affermarla, la si definisce psicologicamente come libertà d’azione senza condizionamenti esterni. Come si parla della libera caduta dei gravi, della libera crescita di un albero, così si parla della libertà come di quell’agire che nasce dal proprio essere. Da questo punto di vista ogni esserci è da considerarsi libero e indipendente. Ma questo significa banalizzare la libertà e ridurla a mera libertà psicologica d’azione e di scelta: libertà d’azione in quanto posso realizzare indisturbato le mie intenzioni (i limiti di questa libertà coincidono con i limiti della sfera di potere della mia volontà); libertà di scelta in quanto, con una decisione riflessiva, in tutta tranquillità e senza essere disturbato, posso scegliere ciò che voglio, partendo dalle possibilità di cui sono consapevole (questa libertà è limitata dal timore che nasce dalla minaccia della violenza, dal pensiero per determinate azioni, dalla fatica e dal malumore, dalla mancanza di tempo, ed è richiesta dalla riflessione in vista della realizzazione di tutti i motivi possibili). È indiscutibile che, in questo senso, c’è una libertà di operare e di scegliere più o meno grande. Questi concetti psicologici di libertà, per evidenti che possano apparire nella loro oggettività, ingannano per la loro sostanziale mancanza di contenuto. Non sono una risposta alla questione della libertà della volontà. In nessun caso si tratta del “sono io che lo voglio”. Anche nelle considerazioni psicologiche si tocca il limite della vera libertà quando ci si chiede se, al di là della libertà d’azione e di scelta esteriormente condizionata, la propria volontà possiede una libertà interiore (i concetti di libertà d’azione, di scelta e di volontà sono stati discussi nell’opera di W. Windelband sulla libertà della volontà). Nella scelta e nell’azione sono già operanti motivi e finalità che sono già frutto di una scelta. Sono libero nel genere e nel contenuto delle mie motivazioni ? Sono libero nella scelta dei criteri di cui mi servo per sceglierle? E ancora, posso intervenire sul mio carattere? Posso volere anche diversamente? Dipende, in generale, da una libera volontà quello che voglio? C’è nella scelta un’origine ultima? Con domande di questo genere entro già nella chiarificazione dell’esistenza del mio me stesso; se però pongo queste domande oggettivamente e prospetto la risposta come risposta ad alternative oggettive, allora mi ritrovo immediatamente nell’ambito dell’oggettività dove le possibilità sono due: o riconosco l’insensatezza di queste domande che pretendono che io impersoni una volontà ormai oggettivata mentre, dal punto di vista oggettivo, ogni duplicazione della volontà sul tipo “voglio perché voglio” è una tautologia, per cui non ha senso domandare se sono libero nella volizione della mia volizione, oppure si riconoscono in queste domande delle alternative, e allora si risponde che oggettivamente non c’è questa libertà. Essendoci, possiedo senz’altro una libertà d’azione e di scelta, ma non la libertà del volere in se stesso in conformità al suo contenuto e al suo fondamento. Anche se queste domande non sono del tutto insensate e non conducono necessariamente alla negazione della libertà, nelle considerazioni psicologiche non hanno alcuna rilevanza, perché la considerazione psicologica non è in grado di cogliere l’essenza del problema. Non si può presentare la volontà come qualcosa di scientificamente conosciuto, anche se alcune motivazioni e alcune finalità della volontà possono essere oggettivate. Là dove io sono, in quel senso originario che non si può oggettivare, là è anche il luogo della libertà che la psicologia non riesce mai a raggiungere. Quelle non sono né domande oggettive, né alternative per il sapere, ma, nell’ambito dell’oggettività, sono un’espressione indiretta per designare l’essere di qualcosa che non è oggettivo. In esse, la domanda che indaga oggettivamente capovolge il senso della sua direzione. c) Si parla di una terza libertà oggettiva della volontà in riferimento ai rapporti di forza che esistono tra gli uomini nella società e nello Stato. Dal punto di vista sociologico possiamo distinguere le libertà personali da quelle civili e politiche; la libertà personale nella condizione della vita privata, che, se si presuppone il possesso dei mezzi economici, può sussistere anche quando manca la libertà civile e politica (come, ad esempio, nella Russia zarista); la libertà civile, che, come sicurezza giuridica, può svolgersi anche quando manca la libertà politica (come, ad esempio, nella Germania imperiale); e infine la libertà politica in cui ogni cittadino decide con gli altri da chi deve essere governato (ad esempio negli Stati Uniti). La domanda relativa all’esserci di questa libertà suscita immediatamente, nel caso la si neghi, la volontà di conquistarla. Queste libertà sono situazioni sociologiche; per il singolo sono delle possibilità. Che ci siano non c’è alcun dubbio, ma il loro esserci non rappresenta assolutamente una risposta alla domanda che riguarda la libertà impersonata dall’esistenza stessa. Questa, infatti, continua ad essere un problema indipendentemente da quelle libertà; per cui, capovolgendo i termini, si può dire che il singolo, anche se non possiede uno spazio abbastanza esteso per la propria realizzazione, può essere esistenza, anche se non è libero nelle tre direzioni oggettive sopra indicate. Nelle libertà oggettive c’è dunque ciò di cui si indica la possibilità o l’esserci, non ciò di cui si tratta quando la questione della libertà della volontà è posta con quella passione che si riscontra quando è in gioco l’essere stesso. Se si mette in dubbio la libertà per poi doverla cercare sul sentiero del pensiero oggettivo, è inutile l’esposizione di quelle forme di libertà di cui s’è discusso. Le libertà psicologiche e sociologiche, pur non essendo l’essenza della libertà, non per questo sono ad essa indifferenti. Io le voglio realmente, anzi devo volerle se mi so originariamente libero, perché esse sono le condizioni della manifestazione della libertà dell’esserci, e la cosa mi deve importare se voglio realizzarmi nel mondo e non voglio limitarmi ad essere mera possibilità e interiorità. Le libertà oggettive acquistano il loro senso e il loro contenuto nella libertà originaria, mentre diventano mere illusioni se ad esse si sottrae questa pienezza. Se quando voglio la libertà oggettiva penso, per averla prodotta, d’aver già raggiunto in essa la mia libertà, allora veramente mi sono già smarrito. Tutto ciò si fa evidente nell’equivocità che caratterizza ogni parola che si riferisce alla libertà. L’illusione dell’indipendenza. Un esempio è costituito dall’equivocità dei sensi in cui si parla d’indipendenza. L’indipendenza è lo scopo della mia volontà di libertà nel mondo. Io vorrei un esserci in cui la mia volontà, decidendo, possa produrre i suoi effetti, perciò cerco di assicurarmelo e di estenderlo mediante il calcolo, la previsione e l’intelligenza. Sono indipendente nella misura in cui posso determinarmi prescindendo dalle condizioni del mio esserci. Non posso però scongiurarne i pericoli. Di fronte a questa possibilità, aspiro ad una diversa indipendenza, in cui cerco solo ciò che dipende da me, ossia l’indipendenza dell’attitudine interiore della mia coscienza. La libertà diventa allora ostinazione di quel se-stesso formale proprio della coscienza in generale o la caparbia autosufficienza dell’individuo empirico. Se mi lascio dominare dall’idea della sicurezza, mi aggrappo alla libertà esterna per possedermi nella mia indipendenza. Nell’angustia dell’esserci raggiungo la quiete quando mi rendo conto di poter disporre di me; nell’orgoglio dell’esserci mi soddisfa la consapevolezza della mia capacità di realizzazione. In ogni caso resto comunque alle dipendenze di qualcosa. Se mi ritraggo in me stesso e guardo con indifferenza a quanto, nelle varie circostanze, non dipende da me, allora mi affido a quell’indipendenza che è solo l’orgoglio di quel vuoto se-stesso che se ne sta raccolto nella sua imperturbabilità. Se però, nel mio esserci, dipendo da un minimo di condizioni esterne di vita e di partecipazione, allora l’orgoglio che isola si converte, di fatto, in un bisogno di prestigio, determinato dalla mia presunta indipendenza che in realtà non è altro che la mia assoluta dipendenza dalla considerazione altrui. Queste pseudo-indipendenze, che assumono l’aspetto di un’assoluta sicurezza dell’esserci o di un’imperturbabilità che isola, costituiscono un autentico pericolo e una costante seduzione di cui se ne deve cogliere la relatività per non restarne vittima. Non si può fare dell’indipendenza esistenziale una condizione stabile e fissa. Per il singolo, essere-indipendente non significa raggiungere una sicurezza col calcolo, ma significa dominare, e quindi non esser dominato, dalla fissazione della sicurezza, significa prender coscienza dei limiti e avere il coraggio d’esser fedeli al proprio destino. Vivere con gli altri non significa dominarli tenendosi a distanza, ma entrare in una comunicazione tale che consenta di decidere, sulla base della comunanza delle idee e delle mete da raggiungere, una regolazione dell’esserci mediante istituzioni. L’indipendenza dell’esistenza nell’esserci è limitata dalle condizioni esterne e dalla rigidità del se-stesso, è invece, illimitata nell’autenticità della realizzazione del se-stesso nella sua comunicazione. Nella propria indipendenza, l’esistenza, che può esser sola con la sua trascendenza, pur conoscendo la possibilità di un punto archimedeo fuori dal mondo, ritorna sempre all’esserci e alla comunicazione, in cui solamente può accertare se stessa e verificare ciò che sperimentò nella solitudine. Essa vive nel mondo e fuori del mondo, conosce i limiti e si muove essenzialmente in essi. L’indipendenza autentica avverte che il proprio esserci si trova in una polarità tra la vita, come sostanza comune della specie che si svolge nel corso del mondo secondo una legge, e l’emergere personale dell’esistenza nella sua unicità e singolarità; tra la sicurezza raggiunta in una totalità e l’impulso verso i limiti, tra l’esserci chiuso in se-stesso e l’esserci nel corso del tempo; tra la contemplazione di un mondo ordinato e gerarchizzato e l’avventura che si corre in un esserci problematico. Nell’ambito di questa indipendenza non c’è modo di conoscere un inizio e una fine, e nessuna meta si presenta come ultima e conclusiva. Negazione della libertà della volontà. Se si nega la libertà della volontà, allora si contraddice, con un’oggettivazione, qualcosa che non è ciò che, nella propria certezza della libertà, s’è avvertito come sua essenza. S’è spesso negata la possibilità di una volontà libera in base alla considerazione che tutto ciò che accade ha necessariamente un’origine causale. A titolo d’esempio, si fa notare che la volontà dell’uomo è necessariamente determinata dal motivo che, nella lotta dei motivi, si rivela più forte. Se però, in base al criterio delle forze psichiche, c’erano altri motivi più forti, tra cui si considera più forte quello che è stato scelto, per il solo fatto che è stato scelto, allora si produce una tautologia che rende incomprensibile la scelta; la semplice designazione non coincide necessariamente con l’oggettiva necessità naturale. bene». (K. Jaspers, Filosofia, tr. it., Torino 1978, pp. 636-640).

Ma com’è possibile pervenire a questa conoscenza superando tutte le dicotomie viste benissimo da Jaspers? Agostino afferma che «Dio è la luce della nostra anima nella quale vediamo tutto». (De Trinitate, 10, 13). Cioè, la teoria della conoscenza diventa una forma di appercezione, un sapere di sé attraverso sé, concretato nel giudizio, che può essere, di volta in volta, economico, estetico, morale, ecc. «... non c’è dubbio che, per capire, bisogna vivere; che per vivere, bisogna essere; che di conseguenza, l’essere che capisce è ma che il suo essere non è come quello del cadavere che non vive, né la sua vita come quella dell’anima animale che non capisce; che il suo essere quindi è e vive in una maniera che gli è propria e che è ben superiore. Così pure, ogni anima sa di volere; sa anche che per volere, bisogna essere, bisogna vivere... ». (Ib.). Ma, come sappiamo, per Agostino Dio e anima non sottostanno a due metodi d’indagine diversi. Da qui il suo suggerimento: «Non uscire da te, ritorna in te stesso, nell’interno dell’uomo abita la verità; e se troverai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso». (De vera religione, 39). I due passi vanno strettamente collegati fra loro.

Agostino separa l’attività razionale dell’anima in ragione inferiore, attraverso la quale si giunge alla conoscenza delle cose sensibili, e ragione superiore, che più ancora che con uno sforzo conoscitivo si può identificare con uno sforzo di liberazione del sensibile, per giungere alla contemplazione di Dio. Questa separazione è importante, perché su di essa si fonderà la possibilità di trattare gli argomenti scientifici, e in particolare quelli economici. Ma il lume della mente, cioè la condizione di ogni conoscenza, inferiore o superiore, è dato dalla luce della verità, concetto che Agostino ricava dagli stoici come afferma espressamente (De Civitate Dei, 7, 7). E questo lume viene da Dio, il quale illuminando l’anima la guida. Comunque resta valida l’esigenza della lotta per la conoscenza, esigenza che Agostino afferma con quella stessa larghezza di mezzi e quella stessa efficacia che è possibile vedere in Platone. Però, mentre in Agostino l’accento è posto sull’Io soggettivo e singolo, in Platone è posto sull’Io ideale.

Un altro aspetto della frattura col mondo classico è dato dalla particolare utilizzazione dei filosofi, cui abbiamo di già fatto cenno. Aggiungo qui che la posizione nei riguardi di Platone è sostanzialmente rovesciata. Agostino pone la fede al termine della ricerca, quindi anche la concordanza che è stata vista (cfr. B. Disertori, De anima, Milano 1959, pp. 214-218) col tema della reminiscenza, va rovesciata per ottenere il tema dell’eterno presente agostiniano. Caratteristica l’interpretazione fornita della figura di Socrate come anima naturaliter cristiana, che anticipa in un certo senso la preghiera di Erasmo: “Sancte Socrates, ora pro nobis”, tipica della mentalità umanistica. Il rapporto con Plotino è molto complesso, basta pensare al tema della luce, su questo punto ha scritto Fernand-Lucien Mueller: «Tutta la riflessione di Sant’Agostino, tesa a illuminare il più possibile le verità rilevate, è rivolta verso Dio, o verso l’anima in vista del suo accesso a Dio, e la sua psicologia emerge costantemente sullo sfondo di una metafisica ispirata soprattutto a Plotino, ma un Plotino evidentemente corretto dai dogmi della nuova fede». (Storia della psicologia, tr. it., Milano 1964, p. 179). Per i latini, Agostino ebbe una grande ammirazione in particolare per Varrone (De civitate Dei, 6, 2), la cui opera De rebus divinis, limitatamente ad alcuni libri, è una delle fonti del De civitate Dei. Ammiratore pure del ciceroniano Hortensius, andato poi perduto. Ma questo utilizzo della cultura antica finisce per confinare quest’ultima in una prospettiva secondaria, forse più deleteria ancora delle precedenti condanne. L’ideale di perfezione del mondo pagano viene meno, insieme al canone della felicità ragionata. A parte le iniziative di Teodosio, nella realtà politica, la rovina dell’Impero d’Occidente ormai è concreta, ogni tentativo di riunificazione un’utopia. Lo stesso Teodosio non riuscì a rendersi conto del valore compensativo che poteva venirgli dalla residua cultura pagana. Il colpo definitivo fu la vittoria ottenuta sulle truppe di Eugenio, comandate dal generale Arbogaste e dal console Flaviano: era l’ultimo sussulto della vecchia Roma. Dopo la vittoria dell’esercito orientale fu prescritto in modo rigoroso il culto degli dèi pagani e allo stesso Senato fu ingiunto di abbracciare lestamente la fede nella nuova verità.

Abbiamo quindi, da un lato il venire meno di quei princìpi che avevano portato Roma al dominio del mondo, dall’altro lo stabilirsi sempre più invadente di una religione profondamente intimistica, ma portata, per sue necessità intrinseche, non solo a interessarsi dell’organizzazione sociale, ma a trasformarla secondo le proprie vedute. Da ciò un senso di precarietà e di insicurezza, certamente non alleviato dalle invasioni barbariche. «Miserando – scrive Corrado Barbagallo – era lo spettacolo di Roma pagana solo un decennio più tardi: i templi degli dèi, chiusi, cadenti, coperti di oltraggiosa fuliggine; lo stesso tempio di Giove sul Campidoglio, un dì incrostato d’oro, immerso in profondo squallore; ovunque, gli altari spenti; e la folla, che si affrettava in pio pellegrinaggio verso i sepolcri dei martiri, degnava appena di uno sguardo di commiserazione quelle venerande ruine». (Storia Universale. Roma, vol. II, Torino 1955, pp. 1627-1628). Da canto suo, anche il cristianesimo vincente si trovava di fronte a un possibile impoverimento non solo religioso, come accade in presenza di ogni riforma che razionalizza la struttura, ma anche teorico e culturale. Questo punto, spesso tralasciato, viene posto in rilievo da Eucken: «Nonostante il visibile consolidamento dell’organizzazione e la cresciuta pompa, noi assistiamo a un esteriorizzamento e a un degradamento della vita, a un’invasione tumultuosa di elementi stranieri: tutto ciò minacciava il cristianesimo di una rapida decadenza. Certo non mancava la reazione. La morale cristiana con la sua forza e la sua interiorità non era scomparsa, il pensiero della vicinanza della fine del mondo e del giudizio finale teneva gli uomini vivamente sospesi, la lotta col mondo pagano, che dopo la metà del terzo secolo aveva rivolto contro il cristianesimo tutte le sue forze, lo preservava sicuramente, con le sue amarezze, dall’infiacchimento. Anche la limitazione della libertà individuale non veniva sentita come una oppressione finché si trattava di resistere uniti contro quei potenti avversari e finché soltanto la volontà individuale teneva l’individuo legato alla Chiesa. Ma tutto questo mutò quando il cristianesimo diventò la religione dello Stato: allora tutto ciò che di funesto era implicato nella costituzione di un ordinamento esteriore pieno di elementi magici, portò i suoi più deplorevoli effetti. Con tutto lo svolgimento dell’organizzazione, con tutta la pompa dei riti, con tutta la sua vasta attività, manca al cristianesimo una ricca vita interiore, manca un solido fondamento spirituale. La pietà morale è stata sacrificata alla religione, la religione stessa è stata tratta in basso tra gli interessi e le passioni umane, subordinata alle rappresentazioni sensibili del volgare: essa non ha più quasi nessuna efficacia elevatrice e purificatrice. Il Cristianesimo si trovava nel più stringente pericolo per perire interiormente appunto allora che aveva vinto esteriormente: allora più che mai, nella sua storia, sorse per esso il bisogno di uno spirito creatore possente che vivesse col suo tempo e ne sentisse i bisogni e che nel tempo stesso fosse capace di innalzarlo al di sopra di sé e di recare ad esso quella parte di eterna verità che gli era accessibile. Questo eroe fu Agostino. (La visione della vita nei grandi pensatori, op. cit., pp. 279-280).

L’altro elemento ambientale che dovette influire sulla personalità di Agostino fu il contrarsi di ogni tendenza verso il benessere materiale, per fare posto a una sorta di assenteismo, piuttosto che a una ricerca del benessere dello spirito, come era nelle intenzioni dei Padri che precedettero Agostino. Nulla di più lontano dalla mentalità dell’infaticabile scolaro di retorica, poi retore egli stesso e infine pastore di anime. Eppure si trattava dell’indirizzo generale del momento. La rifiorente schiavitù aveva finito per distruggere sul nascere ogni produzione economica fondata sul libero lavoro. L’economia correva il rischio di ridursi all’estrema essenza del suo significato, cioè all’immeschinirsi della riflessione nel semplice governo dei propri possessi e della propria casa.

E Agostino aveva certamente coscienza del pericolo che correva la Chiesa, pericolo intrinseco all’interno della sua stessa raggiunta potenza temporale. Da qui la sua intenzione di utilizzare questa forza immensa nel migliore dei modi, uscendo da un’ambivalenza che diventava sempre più rischiosa per la stessa sopravvivenza dell’organizzazione. Di fronte agli Unni e ai Vandali egli cerca la possibilità di una ricostruzione dell’Europa su valori cristiani. Alcuni autori, come Augusto Guzzo (Agostino e Tommaso, Torino 1958, p. 208), hanno proposto un’interpretazione ottimistica del pensiero di Agostino; altri, come Giorgio Barbero (Il pensiero politico cristiano, vol. II, op. cit, p. 16), hanno parlato di un grave pessimismo. In fondo, le due tesi, apparentemente opposte, si toccano, in quanto non ha grande importanza il modo con cui Agostino ha guardato la caduta di un mondo ideale, cioè se si è illuso di potere determinare la nascita di un’altra organizzazione politica altrettanto ideale, oppure se amaramente ne ha ammesso l’impossibilità, limitandosi a una ricostruzione che presupponesse la transitorietà, proprio in vista del superamento terreno tipico di ogni costruzione spirituale. Ciò che conta è il metodo del suo pensare, il continuo allontanamento da ogni illusione, la tenace ricerca di un nuovo ordine. Giustamente, in questo caso, Barbero afferma: «Se si cercasse nell’opera di lui la parola tematica, quella su cui cade con maggiore insistenza l’accento del teologo e dell’asceta, del filosofo e del pastore, è proprio la parola “ordine” quella su cui dovremmo fermarci». (Ib. p. 17).

Questo principio filosofico, che potrebbe fare pensare a una precisa elaborazione metafisica adatta a predisporre un ordine assoluto del mondo, non è precisamente l’idea di Agostino. Certo, egli si rende conto dell’importanza politica e sociale di un progetto capace di sottomettere la realtà a un ordine necessitante diretto verso la Grazia, capace di trasformare la religione dei primi Padri, quella iniziale comunione tra uomo e Dio, in una rigorosa gerarchizzazione, un condizionamento sociale. Ma ne vede anche i limiti e i pericoli. Da questa problematica viene fuori il De civitate Dei. Il pensiero politico classico era diretto a una costruzione indefinibile e ideale, comprendente tutto lo Stato nell’insieme degli individui e, in contropartita, tutto l’individuo nello Stato. Il cristiano invece prende posizione nei confronti dello Stato e quindi imposta una sua teoria politica, anche se questa teoria e questa posizione sono poi condizionate dall’atteggiamento dello Stato stesso, in quanto se questo si limita al suo campo, cioè l’attività sociale, e lascia libera azione all’aspetto spirituale, non ci sono motivi di critica. Solo che questa apparente facilità del problema si traduce in considerevole difficoltà, una volta che si ammette l’impossibilità di separare in modo così netto i due campi, quello sociale e quello spirituale, con in più la pregiudiziale di partenza, in base alla quale secondo la dottrina cristiana lo Stato è nella Chiesa e non viceversa. Ecco perché in Agostino non troviamo problemi costituzionali, ma solo indagini sul comportamento etico dello Stato. Questo è infatti considerato istituzione sommamente circoscritta, e non può entrare se non con grosse limitazioni nella sfera privata del cittadino. Non bisogna dimenticare inoltre che la Chiesa aveva, all’epoca in cui Agostino porta a compimento la sua riflessione politica, superato la fase di attacco all’Impero e che le due potenze, la prima per la coscienza della propria forza, la seconda per la crescente paura della propria debolezza, si bilanciavano in un gioco di promesse non mantenute e di ingiunzioni lestamente eseguite. Per questo motivo, Agostino non rimette in discussione la legittimità dello Stato, ma la dà per scontata dentro i limiti suddetti. In definitiva, per lui lo Stato è, nell’ambito delle cose terrene, una salvaguardia dell’ordine. Nell’ineliminabile inferiorità in cui l’uomo è stato posto dal peccato originale, tesi che come abbiamo detto costituisce il punto di partenza di Agostino, lo Stato adempie a un ruolo di catalizzazione. Ecco gli elementi di contatto, e gli spunti di riflessione, di cui parlavamo sopra ponendo il rapporto Hegel-Agostino.

I punti dell’opera di Agostino in cui possiamo notare questa interpretazione dello Stato sono: nel De divinis quaestionibus ad Simplicianum (1, 2, 16), in cui arriva a definire tutti gli uomini “massa peccati”; nel De ordine (2, 54), in cui, appellandosi all’autorità di Varrone, riporta la notizia che Pitagora nell’insegnamento riservava all’ultimo le lezioni sull’arte di governare lo Stato; ma il riconoscimento più esplicto si trova nelle Enarrationes in Psalmos (136, 2): «Anche la città che è chiamata Babilonia ha i suoi autori, i quali provvedono alla pace temporale; oltre di essa non sperano nulla e pongono in essa tutte le loro gioie, e, manifestamente, affrontano per essa molte fatiche. Ma tutti coloro che operano in essa lealmente, se non operano per motivi di gloria destinata a perire e di odiosa iattanza... Dio non li lascia perire in Babilonia: essi sono predestinati cittadini di Gerusalemme. Dio capisce la loro cattività».

Talvolta questa posizione di Agostino appare contraddittoria. I motivi di questa contraddizione sono di due tipi. Quelli derivanti dalla tendenza eccessivamente polemica di parecchi scritti agostiniani e quelli derivanti dall’imprecisione con cui è impiegato il termine civitas. Infatti, gli accade di dire che, mancando nello Stato romano la giustizia, ed essendo implicita l’essenza della giustizia nell’esistenza di uno Stato, diventava legittimo dedurre l’inesistenza assoluta dello Stato romano (De civitate Dei, 2, 21), ma si tratta di una stentata conclusione polemica. Il termine civitas invece causa confusione in quanto viene usato indistintamente sia per indicare una società spirituale, sia per indicare una società concreta dal punto di vista storico. A questo si deve aggiungere che certe volte Agostino, col termine civitas terrena, indica non più la società storicamente riscontrabile, ma l’insieme dei peccatori. Su questi problemi importanti: Pierre Ch. de Labriolle, De la mort de Théodose à l’election de Gregoire le Grand, in Histoire de l’Eglise, vol. VI, Paris 1954, pp. 56-58).

In conclusione, la definizione più chiara risulta quella contenuta nel De civitate Dei (19, 24): «Il popolo è l’associazione di una moltitudine razionale unita nel concorde e comune possesso delle cose che ama... Stando a questa definizione, il popolo romano è un popolo e il suo è senza dubbio uno Stato». Affermazione che come si vede nega quella precedente dettata dalla polemica o dall’impressione del momento. Comunque, a prescindere dal problema di identificare o meno un patto sociale al di sotto dell’idea di Stato e della corrispettiva idea di “popolo” in Agostino, c’è da sottolineare la sua intenzione costante, che è quella dell’ordine. Il problema del patto sociale lo ha sollevato Marcel Prélot (Histoire des ideés politiques, Paris 1961, p. 158) ma non mi sembra né fondato né importante. Viceversa è decisiva l’intenzione di “ordine” che viene continuamente posta avanti da Agostino: «Anche la città della terra, che non vive di fede, aspira alla pace, pace terrena a cui mira l’accordo di autorità e obbedienza che si stabilisce fra cittadini, sì che intorno alle cose della vita mortale si dia una qualche composizione di volontà umana». (De civitate Dei, 19, 17).

È tenendo conto dell’idea fondamentale di ordine che si può esaminare il rapporto tra le due città agostiniane, quella celeste e quella terrena. Innanzi tutto cominciano con l’escludere la proposta avanzata da Paolo Brezzi (“Una ‘civitas terrena spiritualis’ come ideale storico-politico di Sant’Agostino”, in “Augustinus Magister”, Parigi 1954, pp. 915-922) tendente a provare l’esistenza di una terza città, definita civitas terrena spiritualis. La tesi si fonda sul fatto che si deve ammettere l’esistenza di una civitas terrena carnalis, da un canto, e dall’altro l’esistenza di una civitas caelestis spiritualis, le quali potrebbero essere delle tautologie. Come ha notato Barbero (Il pensiero politico cristiano, vol. II, op. cit., p. 28), tra città celeste e città terrena si pone lo Stato “nella sua storica concretezza”. Veniamo quindi alla contrapposizione vera e propria. Agostino ritiene l’insieme del mondo come una massa di peccatori, e qui ritroviamo la sua interpretazione pessimistica della possibile salvezza umana senza l’intervento della Grazia, a causa del peccato originale. Ne deriva che egli separa nettamente la città terrena, con la sua “moltitudine di empi”, dalla città celeste, con il suo piccolo nucleo di uomini che amano Dio (Enarrationes in Psalmos, 89, 10).

C’è qui una traccia più che consistente della dottrina stoica. Non è mai abbastanza sottolinea l’influenza di questa posizione filosofica nel pensiero di Agostino e in quello di tutti i Padri. Ha scritto Max Pohlenz: «In Zenone al vivo impulso verso la conoscenza andava unito un appassionato spirito missionario. Egli sentiva il bisogno che quanto aveva trovato vero per sé, fosse di aiuto anche per gli altri uomini. Per lui la filosofia non era un sistema teoretico, ma una concezione del mondo, anzi, più esattamente, una forza spirituale che penetra tutto l’uomo, un modo di sentire che, attraverso la giusta conoscenza del mondo, dà all’uomo una chiara visione della sua natura, della sua destinazione e del suo rapporto con la divinità, e su tale base plasma tutta la vita di lui. L’atteggiamento di fronte alla vita propugnato da Zenone affondava le sue radici nello spirito ellenico, ma era al tempo stesso un’adeguata espressione dello spirito dei nuovi tempi, e poté così trasmettere agli uomini migliori dell’ellenismo il sentimento comunitario proprio dell’antica polis e fornire loro quella solida base di cui sentivano il bisogno. Va cercata qui l’importanza della dottrina stoica nella storia spirituale dell’umanità. È difficile immaginare quali sviluppi avrebbe preso l’ellenismo se l’individualismo di Epicuro avesse raggiunto una posizione d’incontrastato predominio. Una corretta valutazione della Stoa è stata ostacolata nei tempi nostri da due circostanze. Fu in primo luogo lo stato della tradizione a impedire una conoscenza esauriente della dottrina e a rendere quindi difficile il giudizio. A ciò si aggiunse il preconcetto classicistico che vedeva nell’ellenismo un periodo di decadenza e nella filosofia postaristotelica soltanto l’opera di epigoni che vivevano dell’eredità dei grandi. Ma ormai sappiamo che l’ellenismo fu un’epoca con una impronta sua, un’epoca che ha avuto una importanza enorme nella civiltà dell’occidente, non solo perché ci trasmise il patrimonio dell’antica Grecia, ma anche per quanto esso stesso creò. L’ellenismo ha un proprio sentimento della vita, il quale trova nella filosofia di questa età la sua espressione teoretica. E la Stoa non è un lambiccato sistema partorito da professori di filosofia, per soddisfare, fuori d’ogni delimitazione temporale, un bisogno dell’intelletto: la Stoa vuole comprendere l’uomo intero ed essere la forza dinamica che lo guida nella vita. Lo stoicismo è un movimento spirituale che, continuamente sviluppandosi e adattandosi ai tempi e alle individualità, ebbe un’influenza decisiva su quanto gli uomini pensarono, sentirono ed operarono per un mezzo millennio ed oltre». (La Stoa. Storia di un movimento spirituale, vol. I, tr. it., Firenze 1967, pp. 332-333).

Quello che sarà compito della Scolastica, cioè identificare la Chiesa con la città di Dio, è assolutamente estraneo al pensiero di Agostino, il quale sa benissimo come la Chiesa, insieme allo Stato, possa vivere in un ordine corrotto, e quindi venirsi a trovare ugualmente lontana dalla città di Dio. Pertanto Agostino, pur presentando una teocrazia possibile, non giunge alla divinizzazione della Chiesa e tanto meno dello Stato, ma si limita ad affermarne la necessità, dell’una e dell’altro, come elementi catalizzatori e come soluzioni per il raggiungimento dell’“ordine”. Egli si rende conto della vera funzione del cristianesimo, al di là e direi malgrado il sentimento religioso che lo animava come credente e come persona. Come pensatore e filosofo politico, come uomo di Chiesa e come organizzatore, oltre che come combattente e polemista, di fronte al crollo del mondo esterno, di fronte all’assedio di quello che doveva apparirgli come la fine del mondo dietro l’angolo, non può non avvertire la funzione essenziale della ragione che opera nell’ordine e attraverso l’ordine per mettere fine agli attacchi esterni, specie quelli dei cosiddetti barbari, e a quelli interni, costituiti dalle deviazioni eretiche, ché tali ormai erano definiti i movimenti comunitari rimasti fedeli agli antichi princìpi.

Correttamente Nicola Abbagnano ha distinto tra ordine nelle cose e ordine nelle idee, ordine nella storia dell’uomo e ordine nella sua concezione astratta della realtà. «Questo riconoscimento: che la storia come fedeltà al tempo, è il modo d’essere proprio dell’uomo nella sua struttura temporale, toglie di mezzo l’antinomia altrimenti irresolubile tra la storia come pensiero e la storia come azione. La storia come pensiero è difatti il riconoscimento dell’ordine universale nella necessità delle sue categorie fondamentali e delle sue determinazioni. La storia come azione è invece il riconoscimento di una indeterminazione fondamentale, di una contingenza radicale la quale soltanto rende possibile l’efficacia e il valore dell’azione. Il pensiero storico presuppone la necessità e l’infallibilità dell’ordine storico; l’azione storica presuppone che quest’ordine possa andare diminuito o distrutto. Chi agisce storicamente, agisce soltanto perché sa di dover portare un contributo al mantenimento e alla restaurazione dell’ordine storico; ma chi pensa storicamente sa che l’ordine storico è mantenuto e restaurato in ogni caso dalle categorie fondamentali che gli presiedono. Il conflitto fra pensiero e azione nel dominio della storia è tale che ogni tentativo di conciliazione è illusorio o delusorio. E in realtà questa antinomia si può risolvere soltanto sottraendo la storia alle classificazioni generiche e per essa irrilevanti del pensiero e dell’azione, e riportandola al piano concreto e proprio dell’esistenza come tale. Su questo piano la storia, come decisione impegnativa dell’uomo rispetto al suo modo d’essere fondamentale, è trascendenza verso l’ordine universale solo in quanto è decisione impegnativa e realizzatrice. Disponendosi come fedeltà al tempo, l’uomo si realizza in quella unità che è condizione trascendentale dell’ordine storico. La razionalità di questo ordine viene all’essere in quanto viene all’essere l’unità propria della personalità storica; e l’una e l’altra vengono all’essere con l’atto concreto della ricerca». (Introduzione all’esistenzialismo, op. cit., pp. 145-146).

La sua è una posizione estremamente realista. Egli non si fa illusioni. Sa che le due città non potranno mai essere nettamente separate per il cristiano, il quale deve mantenere una certa sottomissione nei confronti delle autorità, senza per questo impegnare quella sua indipendenza spirituale che lo porrà in grado di ottenere l’ingresso nella città celeste, nettamente definita nei suoi contorni, quando “il ventilabro separerà la pula dal grano”. È proprio all’atto finale della morte che è diretta la grande costruzione filosofica agostiniana, l’atto che chiarisce tutti i contorni confusi del rapporto tra le due città e che fa vedere, senza equivoci e mezzi termini, la pochezza della città terrena. Come poteva un uomo con simili idee piangere la caduta dell’Impero romano? Come poteva ingegnarsi a un rimedio? quando tutto gli sembrava nella logica naturale della storia, poiché nulla può accadere se non rientra nei voleri di Dio che da tempo ha predisposto il mondo in un finalismo evoluzionista procedente dalle forme meno perfette, perché fondate sui princìpi della città terrena, a quelle più perfette, perché più vicine ai princìpi regolatori della città celeste. Ha scritto Heidegger riflettendo sulle possibili distinzioni tra realismo e idealismo: «Realismo e idealismo falliscono, nella medesima misura, il senso del concetto greco di verità, in base al quale soltanto è possibile comprendere la possibilità di qualcosa come una “dottrina delle idee” quale conoscenza filosofica. Proprio perché la funzione del logos sta nel puro lasciar vedere qualcosa, nel lasciar percepire l’ente, il logos può significare ragione. E proprio perché logos viene usato egualmente in quello di il mostrato come tale e poiché questo è null’altro che ciò che in ogni interpellare e discutere è sempre presente nel fondo come fondamento, il logos, in questo caso, significa ragione fondante, ratio. E infine, poiché logos, può anche significare ciò che è chiamato in questione in quanto qualcosa che diviene visibile mediante la sua relazione a qualcosa, mediante la sua “relazionalità”, logos assume il significato di relazione e rapporto. Questa interpretazione del “discorso apofantico” può bastare per il chiarimento della funzione primaria del logos. Se esaminiamo concretamente i risultati dell’interpretazione di “fenomeno” e “logos”, salta subito agli occhi l’intima connessione che li stringe. Fenomenologia in greco significa dunque: lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da se stesso. Questo è il senso formale dell’indagine che si autodefinisce fenomenologia. Ma in tal modo non si fa che esprimere la massima formulata più sopra: “Verso le cose stesse!”. Il termine fenomenologia ha quindi un significato del tutto diverso da quello implicito in espressioni come teologia, ecc. Queste designano gli oggetti della relativa scienza nella loro particolare consistenza reale. Il termine “fenomenologia” non denota l’oggetto delle sue ricerche, né caratterizza il titolo di ciò in cui consiste il suo contenuto reale. La parola si riferisce esclusivamente al come viene mostrato e trattato ciò che costituisce l’oggetto di questa scienza. Scienza dei fenomeni significa: un afferramento dei propri oggetti tale che tutto ciò che intorno ad essi è in discussione sia mostrato e dimostrato direttamente. Il medesimo significato ha in fondo l’espressione, in realtà tautologica, di “fenomenologia descrittiva”. Qui descrizione non ha affatto il significato di un procedimento del genere di quello impiegato, ad esempio, dalla morfologia botanica. L’espressione ha di nuovo un significato proibitivo: divieto di ogni determinazione non dimostrativa. Il carattere della descrizione stessa, il senso specifico del logos, dovrà esser fissato prima di tutto a partire dalla “cosìtà” della cosa che deve essere “descritta”, dovrà cioè esser portato a determinatezza scientifica in base al modo in cui i fenomeni sono incontrati. Il significato del concetto formale e ordinario di fenomeno, considerato formalmente, autorizza a chiamare fenomenologia ogni esibizione dell’ente così com’esso si manifesta in se stesso. In riferimento a che cosa, allora, il concetto formale di fenomeno potrà essere deformalizzato in concetto fenomenologico e in che cosa quest’ultimo differirà dal concetto ordinario? Che cos’è ciò che la fenomenologia deve “lasciar vedere”?». (Essere e tempo, op. cit., pp. 93-95).

Con la sua tesi, Agostino portava l’ultimo colpo alla pericolante impalcatura dell’Impero, sostenendo egli stesso l’accusa che i pagani pronunciavano contro i cristiani, di essere la religione di Cristo la principale artefice del progressivo svuotarsi di valore dei canoni tradizionali della cultura pagana. E questo segna il punto massimo dell’itinerario culturale di Agostino che rifiuta in pieno la cultura che l’aveva allevato. Nato a Tagaste, in Numidia, forse da famiglia di origine berbera, poi naturalizzata romana, inizia gli studi di retorica a Madura e li completa a Cartagine. Decide di recarsi a Roma per trovare alunni più promettenti. Nel frattempo la lettura dell’Hortensius lo spinge verso un’interpretazione della coesistenza del bene e del male, nel senso del manicheismo orientale. Dietro presentazione di Simmaco, il propugnatore del culto della dea Vittoria a Roma, ottiene la cattedra di retorica a Milano, ed è qui che si accosta alla cerchia di Ambrogio e del suo successore Simpliciano. Abbandona i trascorsi manichei e si accosta alla teoria neoplatonica, da cui riceve una terribile impressione: “un incredibile incendio”. Dopo la lettura delle lettere di Paolo e dopo lunghe meditazioni, abbandona la carriera di retore e abbraccia la religione cristiana. Compone diversi testi, fra cui il De ordine e inizia il trattato incompiuto De immortalitate animae. Torna in Africa dopo essere stato battezzato da Ambrogio e vi organizza una comunità monastica con alcuni amici. Scrive il De libero arbitrio.

Nel 395 diventa vescovo di Ippona succedendo a Valerio. Scrive per quasi quarant’anni, tutte le opere polemiche, le Confessioni e inizia nel 413 il De civitate Dei anche quest’opera nell’intento polemico di provare che non è del cristianesimo la colpa delle sventure dell’Impero. Quest’opera, la più importante, lo tiene impegnato per più di quattordici anni, durante i quali, comunque, produce una quantità incredibile di lavori e porta a compimento la dura polemica contro Pelagio. Muore a Ippona, da cui non si era voluto allontanare malgrado la città fosse assediata dai Vandali.

Seguiamo adesso gli elementi fondamentali dell’analisi agostiniana, cominciando dall’idea di giustizia. Questa presenta delle modificazioni rispetto al concetto classico. Anche riguardo alla stessa posizione di Paolo, in quanto con Agostino non si ha soltanto la legge naturale, scolpita nei cuori degli uomini, che Paolo, tanto vicino a Seneca, considerava la chiave dell’ordine del mondo. Non si tratta quindi della designazione razionale e astratta di ordine, o di “legge”, come in Aristotele, ma di una precisazione del volere di Dio. Con la rivelazione, la legge, diventa legge eterna, strumento di differenziazione fra gli uomini. Scrive Agostino: «Agostino: Essendo dunque evidente che vi sono degli uomini che amano le cose eterne ed altri che amano le cose temporali, ed essendosi convenuto fra noi che due sono le leggi, una eterna e l’altra temporale, se usi un po’ di equità, quali di questi uomini tu pensi soggetti alla legge eterna e quali alla temporale? Evodio: Ritengo sia facile rispondere alla tua domanda: gli uomini felici di cui si è detto, per il medesimo amore che essi hanno delle cose eterne, seguono la legge eterna; ai miseri, invece, viene imposta la legge temporale. Agostino: Tu giudichi rettamente, purché tu tenga per certo ciò che la ragione ha già chiaramente dimostrato, che tutti coloro che sono sottomessi alla legge temporale non sono per questo motivo liberi dalla legge eterna, dalla quale, come abbiamo detto, viene espresso tutto ciò che è giusto o che giustamente è soggetto a variazioni. Invece, tutti coloro che con la buona volontà aderiscono alla legge eterna, come puoi facilmente capire, non hanno bisogno della legge temporale... E che cosa pensi che comandi la legge temporale agli uomini, se non che essi usino delle cose temporali, quelle che, limitatamente al tempo possono essere dette nostre e alle quali essi aderiscono col desiderio, confermandosi a quei princìpi di giustizia che garantiscono la pace e la sicurezza della società umana, per quanto è possibile in queste cose?». (De libero arbitrio, 1, 106-108).

Non è quindi, come è stato affermato, che l’avvento della rivelazione, con le sue due leggi, fa parte di un caso particolare della legge generale, ma esattamente al contrario, la legge eterna, con la sua sola presenza, fa diventare particolare quello che prima era generale. Infatti, l’adesione alla legge eterna è considerata un problema marginale per gli eletti, i quali hanno interesse soltanto alla legge eterna, la quale per altro comprende come una sottospecie la legge terrena. Al contrario, i non eletti devono sottostare alla legge terrena in quanto occorre che ci sia pace e ordine nelle cose di questo mondo, nella società umana. La posizione di Aristotele: «Le leggi si pronunciano su ogni cosa mirando o all’utilità comune a tutti o a quella di chi primeggia per virtù o in altro modo: sicché con una sola espressione definiamo giuste le cose che procurano o mantengono la felicità o parte di essa alla comunità politica» (Etica Nicomachea, 5, 1, 1129 b, 4), viene ribaltata, in quanto lo scopo delle leggi resta sempre quello dell’ordine nella comunità politica, ma non con l’obiettivo della felicità, che non può esserci in questa comunità, ma con quello strumentale dell’ordine, proiettato verso un più facile accesso alla felicità futura, quella della città di Dio. La degradazione della giustizia a strumento di ordine e di pace, ottenibile anche con la forza, non sarà senza conseguenze nel pensiero cristiano.

Ma entriamo adesso nel problema del possesso secondo morale, problema che ci viene suggerito dal precedente passo del De libero arbitrio. Il mondo terreno appare come un male necessario, che bisogna cercare di limitare, ma si tratta solo di un’anticamera a quella dottrina della ricchezza che troviamo in uno scritto successivo: «Quanto sia pericoloso il desiderio della ricchezza. “Quelli che vogliono arricchire”, disse [l’apostolo]. Non disse: “Quelli che sono ricchi”, ma: “Quelli che vogliono arricchire”. Incolpò cioè il desiderio di arricchire, non la ricchezza in se stessa. “Quelli che vogliono arricchire” – disse – “cadono nella tentazione e in molti desideri stolti e nocivi, che sommergono gli uomini nella morte e nella perdizione”». (Sermo XXXIX, 2, 3). Questa concezione riguardante l’impiego della ricchezza ci sembra quasi un piccolo passo indietro nei confronti della posizione di Basilio, di Ambrogio, ecc. La possibilità di un impiego produttivo non è accennata. In una lettera diretta a Proba, una ricca vedova rimasta impressionata dalla dottrina di Pelagio, che proponeva una condanna assoluta delle ricchezze scrive: «Fin da quando era sulla terra, fisicamente presente, egli [Cristo] aprì il regno dei cieli a Zaccheo, che era ricco; dopo la gloria della resurrezione e dell’ascensione, con la partecipazione dello Spirito Santo, a molti ricchi egli fece disprezzare le ricchezze del mondo, e li rese più ricchi col porre un limite al desiderio delle ricchezze. E come potresti sperare in lui, se tu ponessi le tue speranze nella precarietà delle ricchezze e disprezzassi il precetto dell’Apostolo... Raccomanda loro di fare del bene, di arricchire in buone opere, di mostrarsi facili a dare, di far parte dei loro beni». (Epistola 130, 2).

Ma il pensiero di Agostino si perfeziona riguardo il problema delle ricchezze e della loro liceità soltanto nella polemica contro Pelagio. Per comprendere meglio questo punto è bene accennare alle teorie di questo monaco irlandese. Ai primi del secolo V, Pelagio insegnò a Roma e a Cartagine, in polemica con Agostino, la tesi che il peccato di Adamo non ha indebolito nell’uomo la capacità del bene, ma si è trattato solo di una difficoltà che rende più gravosa la vita. Nella polemica, Agostino raggiunge l’estremo opposto, affermando che con Adamo, come abbiamo visto per concupiscenza, ha peccato tutta la razza umana, la quale sarebbe per sempre perduta senza la generosità divina. Le motivazioni di Pelagio si riferiscono alla condizione complessiva della Chiesa e del mondo nell’epoca sua. Egli si trova in un momento storico che manifesta tutti i segni delle calamità che continueranno ad abbattersi nei secoli futuri. Alle preoccupazioni per l’Impero in rovina e per le tradizioni di un glorioso passato che scompaiono, si aggiunge il dubbio sulle stesse sorti della Chiesa, che gli appare scompaginata, con un eccessivo fatalismo, attraverso il quale non si pensa più a modificare lo stato presente delle cose, ma si riduce tutto a un fatto di coscienza. Il “Dio del cielo” appare sempre più lontano dall’intimità primitiva con quello del cristianesimo delle origini. Questa lontananza, come ha dimostrato Mircea Eliade, è in armonia con tutta la mitologia del cielo: «Per l’uomo religioso la natura non è mai solamente “naturale”, è sempre pervasa di valore religioso. La cosa si capisce facilmente, dato che il cosmo è creazione divina; essendo opera diretta degli dèi, il mondo è impregnato di sacralità. Non è semplicemente una sacralità “comunicata” dagli dèi, come è il caso, ad esempio, di un luogo o un oggetto consacrato dalla presenza divina. Gli dèi hanno fatto di più: hanno manifestato le diverse modalità del sacro nella struttura stessa del mondo e dei fenomeni cosmici. Tale è l’articolazione del mondo che l’uomo religioso, contemplandolo, scopre le molte modalità del sacro e quindi dell’essere. Anzitutto, il mondo esiste e ha una forma; non è caos ma cosmo. Si presenta quindi come creazione, come opera degli dèi. L’opera divina mantiene sempre la sua qualità di trasparenza, cioè rivela spontaneamente i molti aspetti del sacro. Il cielo rivela direttamente, “naturalmente”, la distanza infinita, la trascendenza della deità. Anche la terra è trasparente: si presenta come madre e nutrice universale. I ritmi cosmici manifestano ordine, armonia, perennità, fecondità. Il cosmo nel suo complesso è un organismo al tempo stesso reale, vivente e sacro; rivela simultaneamente le modalità dell’essere e della sacralità. Ontofania e ierofania coincidono. Per l’uomo religioso il soprannaturale è indissolubilmente connesso con il naturale, la natura esprime sempre qualcosa che la trascende. Una pietra sacra viene venerata in quanto “sacra”, non in quanto pietra; è la sacralità manifestantesi attraverso il modo di essere della pietra che ne rivela la vera essenza. Ecco perché non si può parlare di naturismo o di religione naturale nel senso attribuito a questi termini nell’Ottocento: è infatti la “soprannatura” che l’uomo religioso percepisce attraverso gli aspetti naturali del mondo. Già la mera contemplazione della volta celeste suscita un’esperienza religiosa. Il cielo si mostra infinito, trascendente. È in sommo grado l’“interamente altro” rispetto alla pochezza dell’uomo e del suo ambiente. La trascendenza si rivela attraverso la semplice coscienza di un’altezza infinita. L’“altissimo” diviene spontaneamente un attributo della divinità. Le regioni superiori, inaccessibili all’uomo, gli spazi siderali acquistano il valore del trascendente, della realtà assoluta, dell’eternità. Lassù risiedono gli dèi; lassù pochi mortali privilegiati riescono ad accedere per mezzo dei riti di ascesa celeste; lassù, secondo alcune religioni, salgono le anime dei morti. L’“altissimo” è una dimensione inaccessibile all’uomo come tale; appartiene a forze e a esseri sovrumani. Colui che ascende al cielo salendo i gradini di un santuario o la scala rituale, cessa di essere un uomo; in un modo o nell’altro partecipa della condizione divina. A tutto questo non si arriva attraverso un’operazione logica, razionale. La categoria trascendente dell’alto, dell’ultraterrestre, dell’infinito è rivelata all’uomo intero: alla sua intelligenza e alla sua anima. Per l’uomo, è una presa di coscienza globale; contemplando il cielo, egli scopre simultaneamente l’incommensurabilità divina e la propria situazione nel cosmo. E infatti attraverso il suo specifico “modo di essere” che il cielo rivela trascendenza, forza, eternità: “esiste assolutamente” poiché è alto, infinito, eterno, potente. Questo spiega il vero significato di quanto affermato prima, che cioè gli dèi hanno manifestato le diverse modalità del sacro nella struttura stessa del mondo. In altre parole, il cosmo – opera paradigmatica degli dèi – è strutturato in modo che un senso religioso della trascendenza divina viene suscitato dall’esistenza stessa del cielo. E poiché il cielo “esiste assolutamente”, molti degli dèi supremi dei popoli primitivi vengono chiamati con nomi che designano l’altezza, la volta celeste, i fenomeni meteorologici, o semplicemente con nomi quali Padrone del Cielo o Abitatore del Cielo. La divinità suprema dei Maori si chiama Iho; iho significa “elevato, altissimo”. Uwoluwu, il dio supremo dei negri Akposo, significa “ciò che sta in alto; gli spazi altissimi”. Fra i Selknam (Ona) della Terra del Fuoco, Iddio viene chiamato “colui che dimora in Cielo” o “colui che è in Cielo”. Puluga, l’essere supremo degli Andamanesi, dimora in cielo; il tuono è la sua voce, il vento il suo respiro, la tempesta il segno del suo furore: col fulmine punisce coloro che trasgrediscono i suoi comandamenti. Il Dio Cielo degli Yoruba della Costa degli Schiavi si chiama Olorun, letteralmente “padrone del Cielo”. I Samoiedi venerano Num, un dio che dimora nel cielo più alto e il cui nome significa “cielo”. Fra i Coriachi, la divinità suprema viene chiamata “colui che è in Alto”, il “padrone dell’Alto”, “colui che Esiste”. Gli Ainu lo chiamano “il Capo Divino del Cielo”, “il Dio Cielo”, “il Divino Creatore dei Mondi”, ma anche Kamui, cioè “Cielo”. E l’elenco potrebbe continuare. Si può aggiungere che analoga situazione si riscontra nelle religioni di popoli più civili, di popoli che hanno avuto un importante ruolo nella storia. Il nome mongolo per il dio supremo è Tengri, che significa “cielo”. Il cinese T’ien significa al tempo stesso “cielo” e “dio del cielo”. Il termine sumerico che vuol dire divinità, dingir, originariamente designava un’epifania celeste e significava “chiaro”, “brillante”. Anche l’Anù babilonese esprime l’idea del cielo. Il dio supremo indoeuropeo, Dieus, designa sia l’epifania celeste sia il sacro (cfr. sanscrito div, brillare, giorno; dyaus, cielo, giorno; Dyaus, dio indiano del cielo). Zeus e Juppiter conservano nei loro nomi il ricordo della sacralità del cielo. Il celtico Taranis (da taran, tuonare), il baltico Perkunas (fulmine), e lo slavo Perun (cfr. il polacco pjorun, fulmine) sono particolarmente rivelatori delle successive trasformazioni degli dèi celesti in dèi della tempesta. Qui non si tratta di naturismo. Il dio celeste non viene identificato col cielo: egli è infatti il dio che, creando l’intero cosmo, creò anche il cielo. Ecco perché viene chiamato Creatore, Onnipotente, Signore, Capo, Padre, e con altri nomi analoghi. Il dio celeste è una persona, non una semplice epifania uranica, sebbene dimori nel cielo e si manifesti nei fenomeni meteorologici: tuono, fulmine, tempesta, meteore, ecc. Questo significa che certe strutture privilegiate del cosmo – il cielo, l’atmosfera – costituiscono epifanie preferite dell’Essere Supremo; egli rivela la sua presenza con ciò che è specificamente e peculiarmente suo: la maestà (majestas) dell’immensità celeste, il terrore (tremendum) della tempesta». (voce Religione, Enciclopedia del Novecento, Roma 1975, pp. 123-124).

Quei temi sottolineati da una certa storiografia cattolica, e che si riassumono nel termine di volontarismo economico, sono presenti nel pensiero di Pelagio, che da questo lato riprende Seneca. Anche se la condanna delle ricchezze non costituisce il punto essenziale della sua polemica, ne forma però uno degli aspetti più importanti, tanto che il siracusano Ilario, nello scrivere ad Agostino, ne parla come di un’esperienza sconvolgente, mentre tanti ricchi, come la vedova Proba, restano interdetti. Barbero ha notato su questo punto: «Le posizioni assunte da Pelagio a questo riguardo si rifanno alla legge di progresso e di perfezione che egli applica rigorosamente sia alla vita spirituale dell’individuo, sia della società, ma il radicalismo che lo contraddistingue non è semplicemente ascetico, perché egli non rompe con la società, non ne predica il distacco e la sua parola non è rivolta alla minoranza eroica: nella sua predicazione non si fa distinzione fra consigli e precetti, e i precetti investono il dovere morale di ognuno. Egli ha disdegno anche dell’appellativo di monaco, che gli pare improprio, e vuole che il Cristiano non sia detto altrimenti che Cristiano». (Il pensiero politico cristiano, vol. I, op. cit., p. 555). Così Pelagio comincia l’esposizione della sua tesi: «Che vi siano uomini tanto presi e posseduti dalle cupidigie terrene fino a stimare che le ricchezze del mondo siano affatto innocue, sarebbe motivo di meraviglia per me, se non ricordassi che è il vizio comune del genere umano che ciascuno giudichi vantaggio anche per gli altri ciò che egli personalmente ha caro e, con profonda convinzione, consideri sommo bene ciò che gli reca diletto e a cui non sa rinunciare». (De divitiis, 1,1).

Agostino affronta questo problema nella lettera di risposta a Ilario, che è del 414. Ecco un periodo di rara potenza riassuntiva, come poche volte capita ad Agostino che spesso indulge negli accorgimenti retorici e nelle divagazioni. «Alle dispute di costoro [i pelagiani] hanno risposto in anticipo i nostri padri Abramo, Isacco e Giacobbe, che morirono tanto tempo fa. Poiché, come attesta la Scrittura, essi possedevano tutti non poche ricchezze; tuttavia, colui che si è fatto povero per noi, da ricco quale veramente egli era, con promessa verace disse che molti sarebbero venuti dall’Oriente e dall’Occidente, per sedere, non sopra, nè lontano da essi, ma con essi nel regno dei cieli. Ed anche il ricco superbo, quello che vestiva di porpora e di bisso e banchettava splendidamente ogni giorno, che incorse, dopo la morte, nei tormenti dell’inferno, se avesse avuto misericordia del povero che giaceva disprezzato e coperto di piaghe davanti alla sua porta, avrebbe meritato misericordia. Inoltre, se quel povero avesse meritato unicamente per la sua povertà e non per la sua giustizia, senza dubbio non sarebbe stato sollevato dagli Angeli nel seno di Abramo, il quale, qui sulla terra, era stato ricco». (Epistola 157, 4, 23).

Ecco quindi il riflesso che la fondamentale distinzione agostiniana tra città terrena e città divina produce anche nel problema della liceità della ricchezza. Più avanti, nella stessa lettera, egli precisa: «Fu detto al ricco: “va’ vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri, ed avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi”... egli infatti aveva detto al Signore: “Che cosa debbo fare per conseguire la vita eterna”. Ed il Signore non gli disse: “Se vuoi entrare nella vita, va’ vendi tutto quello che hai”, bensì: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti”. E avendo il giovane risposto di aver sempre osservato i comandamenti contenuti nella Legge e richiamati dal Signore, avendogli chiesto ancora che cosa gli mancasse, ottenne questa risposta: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri”. Quindi affinché non temesse di perdere ciò che molto amava aggiunse: “Ed avrai un tesoro nei cieli”». (Ib., 4, 24-25). Il gruppo della grande “massa peccati” opera sulla terra superando tutti i mali e tutti i pericoli della carne, quindi anche l’ostacolo della ricchezza, con rettitudine e onestà, cioè seguendo tutti i comandamenti prescritti, e pertanto anche impiegando la ricchezza nel modo utile per tutti, specialmente per tutti i poveri, ma non separandosene. Il gruppo invece dei “perfetti”, procede oltre, verso la scalata a una perfezione superiore, per ottenere la quale oltre al comportamento cristiano è richiesto espressamente l’abbandono di tutte le ricchezze ai poveri.

La tesi agostiniana riprende quella di Basilio, Ambrogio e Giovanni Crisostomo, Padri che avevano donato tutto ai poveri, ma che giustificavano l’impiego produttivo della ricchezza, per inserirla all’interno di un progetto cristiano molto più raffinato filosoficamente, ma anche parecchio rischioso. La predestinazione degli eletti, infatti, secondo Agostino è stata fatta da Dio una volta per tutte, prima della creazione del mondo. (De Praedestinatione, 10). Si tratta di un passo che molte posizioni eretiche, e più recentemente riformiste, faranno fino in fondo, accettando la tesi non soltanto della predestinazione alla salvezza, (cioè quella suddetta di Agostino), ma anche alla dannazione. Quest’ultima sarà appunto la posizione calvinista. Comunque, se si tiene conto del punto di partenza della filosofia agostiniana, cioè che ogni realtà si risolve in Dio, l’attiva opera di bene compiuta dal non predestinato può forzare la grazia di Dio, in quanto la volontà non potrebbe indirizzarsi al bene senza un intervento preventivo della grazia. L’uomo non sa in quale città abita, ma può agire come abitasse quella divina. Se non sei predestinato, diceva l’ingegnoso pensatore, agisci come se lo fossi.

La dottrina cristiana impiegherà parecchio tempo per smussare gli spigoli dell’agostinismo, comunque la giustificazione della ricchezza, con cui raggiunge un punto fermo quasi mai rimesso in discussione, se non da posizioni ben presto considerate eretiche.

Qui si misura la distanza che passerà tra Agostino, sistematore del paolismo, e Tommaso, fondatore della Chiesa moderna, lontanissima dalle origini comuniste ma anche lontana dall’ottuso proselitismo. Il tomismo sarà scientificamente aristotelico ma dovrà affrontare una lotta interna alla Chiesa di enorme difficoltà a cominciare dallo scontro con i francescani. Ecco cosa scrive Renato Lazzaroni: «Le fondamentali interpretazioni che furono date dalla speculazione bonaventuriana si possono ridurre a due: quella secondo cui la filosofia rappresenterebbe un termine medio tra la posizione agostiniana e quella aristotelico-tomista, e quella secondo cui Bonaventura è una reincarnazione della corrente speculativa che fa capo ad Agostino, pur nutrendosi delle sorgive che l’hanno rinfrescata e rinnovata lungo tutta la secolare gestazione medievale. La prima interpretazione è quella seguita dai Padri di Quaracchi, editori dell’Opera omnia. Nelle annotazioni negli scolii e dissertazioni intercalati lungo tutta l’edizione critica è evidente la preoccupazione di raggiungere l’accordo col tomismo finché ciò sia possibile. E quando questo sembra impossibile ecco i De Wulf e i Mandonnet a rimproverare a S. Bonaventura una tal quale incoerenza e quanto meno un certo eclettismo che finisce con indebolire la forza e sminuire l’importanza del pensiero bonaventuriano alla luce della critica. Non altrettanto avviene per quanti, come il Gilson, rinunciano a un simile tentativo e ricostruiscono la filosofia di S. Bonaventura per così dire dall’interno, mettendo in evidenza le argomentazioni addotte da Bonaventura nell’adottare le caratteristiche tesi agostiniane circa la gnoseologia, la teodicea, la cosmologia, la psicologia, e i rapporti della filosofia colla teologia. L’opera di Gilson è stata veramente esauriente. Su questa luce si muove anche Leo Veuthey che nella sua opera su S. Bonaventura ribadisce il concetto che quella del Santo di Bagnorea non è una filosofia dell’astratto bensì del concreto. Chi scrive la presente monografia è dello stesso avviso. Egli tuttavia ritiene che le tesi di entrambi trovano una loro intera giustificazione solo a due condizioni: anzitutto che si ammetta che quella di S. Bonaventura è una filosofia che potremmo chiamare “occasionale”, in quanto essa è appunto occasionata dall’interesse teologico che è dominante; poiché l’appello all’agostinismo, rinnovato dalla intuizione francescana, del Gilson, e l’appello al concreto del Veuthey vanno coraggiosamente integrati da una motivazione specifica che favorisca il filo conduttore di tutta l’impresa bonaventuriana. Questa motivazione specifica è il concetto di divenire, precisato tuttavia nella nozione di iter, di itinerarium, di viator, insomma di status viae. Può avere quest’ultima nozione oltre una portata teologica vera e propria, anche una portata filosofica e razionale? A noi sembra di sì e ne abbiamo dato qua e là un accenno giustificativo. Non sembra che altri abbia posto come idea direttiva il concetto di status viae considerato come distinto da quello di natura umana. Distinzione che ci sembra utilissima anche per altri problemi quale quello del rapporto tra natura e sopra natura e quindi del rapporto tra fede e ragione, scienza e Scrittura, conoscenza sperimentale e rivelazione. Infatti traverso la mediazione del concetto di status si vede quanto quel rapporto guadagna in chiarezza; in quanto non si tratta tanto di un rapporto fra natura e sopra natura, quanto di rapporto fra status e status. Nelle innumerevoli peripezie cui tanto gli individui che l’umanità vanno soggetti lungo la loro storia, quello che varia non è la “natura” umana, che anzi è sempre identica a se stessa, bensì lo status umano: status originalis o status deviationis, status reparationis e status perfectionis. Compito della filosofia che si conviene ormai chiamare cristiana è l’approfondimento di questa nozione di status, approfondimento che va fatto in sede filosofica, affinché proprio la filosofia se ne possa giovare nelle sue ricerche circa il senso della vita umana». (S. Bonaventura, in Grande antologia filosofica, vol. IV: Il pensiero cristiano, Milano 1954, pp. 846-847).

Importante poi, sul problema in senso specifico, la distinzione che Agostino fa tra l’“uti” e il “frui”, cioè tra l’usare e il godere, ed è naturale che soltanto nell’usare si identifichi la perfetta condotta del cristiano nei confronti del bene del mondo, in quanto il godere verrebbe a includere un peccato di concupiscenza, che è il più grave peccato della teologia agostiniana. Da ciò una modificazione del concetto di giustizia, di cui abbiamo di già parlato, secondo il quale la legge naturale, e quindi naturalmente giusta, non è una espressione dell’ordine razionale del mondo, ma la concretizzazione del volere di Dio, cioè la riprova pratica dell’incredibile fenomeno della rivelazione. In questa tesi della giustizia qualcuno ha visto un’influenza della filosofia orientale o almeno neoplatonica, per una certa quale tendenza al prevalere dell’assurdo, derivante dalla fusione tra libertà di scelta e predestinazione. In un certo senso, la scelta di qualcosa di cui è vietata proprio la libertà di scelta. Non mi sembra comunque necessario rivolgersi a ricerche troppo lontane, il principio dell’assurdo è latente a tutta la dottrina cristiana, almeno in alcuni suoi rappresentanti, basta ricordare Tertulliano. Con Agostino esso raggiunge comunque elementi filosofici di grande interesse.

Torniamo al concetto di giustizia. Riassumendo, l’uomo giusto è quello che aderisce a Dio, e usa le cose di sua proprietà in armonia con questa perfetta adesione. Infatti, essendo tutte le cose disposte nell’ordine voluto da Dio, affinché si possano utilizzare nel migliore dei modi, si debbono utilizzare nel senso della loro originaria disposizione, cioè nel senso voluto da Dio. «In verità – afferma Agostino – se consideriamo con diligente attenzione ciò che fu scritto, che: “chi ha fede dispone di tutte le ricchezze del mondo, ma chi non ha fede non dispone neppure di un obolo”, non saremo indotti ad affermare che tutti coloro i quali godono apparentemente di ricchezze lecitamente acquisite, ma non ne sanno usare, sono indebitamente in possesso di beni altrui?... Pertanto, tutto ciò che è mal posseduto è da considerare un altrui bene; ed è mal posseduto tutto ciò che è posseduto da chi non usa utilmente di ciò che possiede. Tu vedi bene, dunque, quanto numerosi siano coloro che dovrebbero restituire quelli che, in verità, sono beni altrui, anche se sono ben pochi gli uomini a cui si potrebbero restituire». (Epistola, 153, 26). La conclusione adesso è chiara. Chi impiega utilmente le ricchezze, con quest’azione conferma la validità del suo diritto, pur non appartenendo alla città di Dio, non è detto che non gli riesca di forzare la mano alla predestinazione, agendo giustamente, come se fosse tra i predestinati, egli scamperà dalla dannazione. Non bisogna dimenticare infatti che solo la salvezza è predestinata. Utilizzate bene, socialmente in maniera utile, le ricchezze quindi non devono essere restituite, problema che, sia detto tra parentesi, dice Agostino, non è facile, perché non si vede con certezza a chi si potrebbero restituire. Forse alla Chiesa? Il santo sembra perplesso. Comunque, agendo da gestore di proprietà in fondo non possedute che in gestione, non sorge nemmeno il problema dell’abolizione della ricchezza. Ha notato a questo punto Giorgio Barbero: «In questa visione, può possedere utilmente e, perciò, secondo giustizia, soltanto chi obbedisce a Dio, che nell’obbedienza a Dio scopre la misura delle cose e, di conseguenza, la capacità di usarne utilmente. Non è senza significato che nella filosofia di Agostino amore e conoscenza sostanzialmente si identificano. Come la libertà dell’uomo si realizza fondamentalmente davanti a Dio, così, soltanto la soggezione a Dio permette l’attuazione di ciò che è semplicemente giusto. Al di fuori di questa giustizia, la giustizia può anche essere contraddizione, ciò che si chiama ius può anche essere iniuria». (Il pensiero politico cristiano, vol. II, op. cit., p. 41).

Oggi, dopo quasi duemila anni, la filosofia non ha risolto il problema di come opporsi al filisteismo, cioè al camuffamento della verità. Scrive Georg Simmel: «È un destino tragico nello sviluppo del pensiero filosofico che la più geniale conciliazione del meccanicismo dell’esistenza coi bisogni trascendenti si sia rivelata uno schema, che attende il proprio valore dal suo riempimento ma, proprio con esso, lo perde. Ora, sembra che proprio solo questa singola utilizzazione del concetto di cosa in sé, che ha motivato la presente discussione di esso, vada esente da simili preoccupazioni. Dio e la pretesa “essenza” trascendente delle cose naturali ci stanno di fronte e non c’è quindi alcun bisogno di limitare i nostri rapporti con essi al mero “pensare” o “credere”: si tratta sempre di un “guardare cosa c’è dietro l’angolo”, in cui o non si vede nulla, o si vede proprio ciò che si vuol vedere. Ma noi stiamo di fronte a noi stessi solo in quanto siamo apparizioni, se però c’è in noi qualcosa di non apparente, non si tratta di un fuori-di-noi (come quello delle cose-in-sé), ma siamo noi stessi; non c’è più nulla qui da supporre o da credere, si tratta piuttosto di sentire l’immediatezza dell’essere. E questo essere fondamentale, situato al di là di ogni rappresentazione e di ogni destino fortuito, è perciò sottratto alla causalità, in cui ricade solo quando venga di nuovo assunto all’interno della conoscenza empirica. Tuttavia anche questa libertà non è in grado di fare ciò che Kant pretende da essa. Poiché essa ha, come in generale la cosa in sé, senso puramente negativo, essa significa che, nella inconoscibilità del nostro essere, non sottostiamo alla causalità; la libertà del volere, che è una facoltà di produrre un fare anziché un altro, ha in comune con essa (in quanto è questa realtà positiva) solo il nome. L’intera teoria kantiana della libertà si fonda su questa ambiguità concettuale: la libertà, nel senso reperibile nella teoria della conoscenza, è qualcosa di totalmente indifferente dal punto di vista morale o assiologico. Certamente il dovere appare a Kant come una prova della positività di quel concetto di libertà: il fatto che noi dobbiamo agire moralmente in questo o in quel modo, anche se di fatto ci comportiamo magari del tutto diversamente, non avrebbe alcun senso se noi, indipendentemente da ogni determinatezza causale di questo agire, non avessimo potuto compiere anche quello. Senonché egli ha presupposto senza dimostrazione che questa libertà del volere, l’indeterminazione dei contenuti di una singola energia psichica, coincida con quel mero sottrarsi del nostro essere non fenomenico al mondo delle apparizioni. Si aggiunga che tale presunto fondamento del nostro essere avrebbe dovuto fondare non solo la nostra volontà, ma – proprio allo stesso modo – tutte le altre apparizioni interne: il nostro pensiero e il nostro sentimento, la nostra fantasia e il nostro ritmo psichico complessivo, garantendo a queste ultime una libertà non inferiore a quella del volere. Che Kant viceversa la riservi solo alla volontà, deriva dal suo moralismo, per il quale è del tutto ovvio che ogni acquisizione di libertà del nostro essere-in-sé può essere attribuita a esso solo in quanto portatore di moralità. Il fatto che Kant si serva di questo doppio senso della libertà può essere un indizio che l’alternativa posta alle nostre azioni: libertà o necessità – non ha forse una cogenza incondizionata. Come la vita organica non si esaurisce nella alternativa meccanismo o teleologia, ma si completa sicuramente in un terzo principio proprio, benché non ulteriormente caratterizzabile, così io credo che per la nostra volontà, per il nostro essere globale, non sussista quella scelta obbligata, – ed è questo il motivo per cui il problema, come tutti i problemi mal posti, non può essere risolto da nessuna delle due risposte, anzi ogni partito è in grado di dimostrare l’insufficienza delle posizioni avversarie, ma non la giustezza delle proprie. È un errore che percorre tutta la storia delle idee, attribuire a una opposizione solo contraria la forza necessitante della contraddittorietà, mentre molti dei suoi più significativi progressi consistono proprio nel superare l’apparente inevitabilità logica di un’alternativa, con la scoperta di un terzo. E in maniera del tutto latente la stessa soluzione kantiana del problema vorrebbe alludervi: in quanto essa si limita a distribuire le due risposte, del cui carattere alternativo non dubita, su diversi livelli della nostra esistenza; con ciò essa evita semplicemente il problema, mentre la sua difficoltà decisiva stava nel conciliare, o nel rendere comprensibili libertà e necessità, nelle pretese che avanzano sull’unità ultima, assolutamente non più divisibile, della nostra personalità. Innegabilmente vi è in questa soluzione tutta la profondità e la nobiltà che questo moralismo può dare. La libertà – come abbiamo visto – copre per lui tutta l’estensione della moralità; quest’ultima viene quindi calata nell’imperscrutabile fondo dell’essere; tutto l’enigma del fatto che si dia in generale, qualcosa come la moralità, riceve il suo sigillo e la sua consacrazione mediante la convinzione che la concatenazione delle apparizioni non è in grado di spiegarla. Fino a tal punto egli la separa dall’ambito della conoscibilità, che non solo il significato etico di un’azione non è mai accertabile con sicurezza rispetto a un terzo, ma che l’uomo stesso non perviene mai a conoscersi del tutto inequivocabilmente, giù giù fin nel punto in cui si colloca il suo valore etico; poiché questo si situa al di là del territorio in cui la conoscenza è possibile. In questo punto il sentimento della moralità spezza – come provenendo da una profondità mistica – tutto il razionalismo della sua concezione concettuale; naturalmente al prezzo della insufficienza teoretica che questo concetto di libertà tradisce, e che deriva dalla contraddizione di formulare logicamente quel qualcosa del tutto inesprimibile che appartiene all’esistenza interna, e che non può essere afferrato concettualmente ma soltanto vissuto. È già significativo che Kant, molto coerentemente, caratterizzi la “autentica moralità delle azioni” (delle proprie e delle altrui), come qualcosa di “a noi del tutto nascosto” – e ne concluda immediatamente che non si possa “giudicare nessuno con piena giustizia”. Ma questa è appunto la svolta fatale: si può giudicare, se la morale consiste nella libertà, e la libertà nella cosa in sé. – Che d’altronde sia proprio la moralità positiva a fondarsi soltanto in quella inapparente e inconoscibile profondità d’essere, corrisponde propriamente solo a un sentimento popolare e abbastanza ristretto. Kant riesce bensì a evitare la rappresentazione filistea secondo cui la moralità, per principio, non sarebbe altro che disinteresse; ma nella prassi e nei suoi esempi arriva essenzialmente a concludere che ogni immoralità è egoismo, ogni moralità altruismo». (Kant. Sedici lezioni berlinesi, tr. it., Verona 1986, pp. 223-227).

La povertà non basta, quindi. Non basta né nell’accezione limitativa della miseria, che può essere elemento gravissimo di disperazione, anche nei riguardi della volontà di Dio, e quindi di peccato; ma non basta neanche nell’accezione comunitaria, dell’abbandono dei propri beni alla gestione dei capi della Chiesa. Nel primo senso Agostino scrive:«In qual modo il cristiano oserà menar vanto della propria povertà, che egli ha volontariamente abbracciato, per poter camminare più spedito durante il viaggio di questa vita, che conduce a quella patria, dove Dio stesso è la vera ricchezza; se ha udito parlare o se ha letto che Lucio Valerio, il quale è morto durante il suo consolato, così povero, che i suoi funerali furono fatti coi danari raccolti fra il popolo? se ha udito narrare e se ha letto che Quinzio Cincinnato, il quale non possedeva che quattro iugeri di terreno, che egli stesso coltivava, fu fatto cessare di arare per essere creato dittatore, carica superiore a quella di console, e che, dopo che ebbe vinti i nemici ed aver riportato una grande gloria, rimase nella stessa povertà di prima? O come mai si vanterà d’aver fatto qualche cosa di ragguardevole, uno il quale non si sia lasciato indurre ad allontanarsi dalla compartecipazione di quella patria eterna, per mezzo di alcuno dei falsi beni di questo mondo, se saprà che fu impossibile a Pirro re di Epiro svellere Fabrizio dalla cittadinanza romana, sebbene gli offrisse sì ricchi doni e gli promettesse la quarta parte del suo regno e che Fabrizio preferì rimanere a Roma come privato nelle sua solita povertà». (De civitate Dei, 2, 5, 18).

E, per il problema della destinazione di eventuali ricchezze che si decidesse di utilizzare in senso comunitario, Agostino si chiede come si possano superare, da parte dei destinatari, cioè degli stessi capi della Chiesa, le tendenze alla cupidigia, e non è un’idea del tutto lontana dalla realtà, viste le continue rimostranze che in tal senso si andavano facendo a ogni Concilio e l’inefficienza delle norme in tal senso emanate da questi alti consessi deliberanti della Chiesa. Tutto questo lo rende più realista, specialmente quando si contrappone a Pelagio, continuatore dell’antica virtù comunitaria, ormai dispersa in mille rivoli isolati. «Togli i ricchi e non ci saranno nemmeno i poveri». (De divitiis, 12, 2). Questa la tesi del monaco irlandese, ma Agostino non solo non è sicuro di arrivare a eliminare i ricchi, ma non è neanche sicuro di trovare persone degne e in grado di assolvere il tremendo obbligo della proprietà e dell’amministrazione per conto di Dio.

La posizione di Agostino si può quindi riassumere nella liceità della ricchezza per coloro che non aspirano al raggiungimento di una maggiore perfezione. Il resto, quel piccolo nucleo di anime superiori, i veri appartenenti alla città di Dio, ne devono fare a meno. Per altro, questo farne a meno non è visto neanche come un vero e proprio sacrificio, ma come una cosa normale. Più tardi, il pensiero scolastico dedurrà da questa premessa l’identificazione della città di Dio con la Chiesa, e la gestione di quest’ultima della proprietà terrena, sempre per conto di Dio. Il rifiuto della tesi pelagiana condusse Agostino, come gli era di già accaduto, a eccessi contrari. Forse le sue conclusioni sul problema della ricchezza, senza le estremizzazioni di quella polemica, sarebbero state diverse, ma non possiamo esserne certi, in quanto la tesi giustificativa è in perfetta armonia con l’insieme del pensiero di Agostino.

A ribadire questa tesi, ormai definitiva nelle sue parti essenziali, vediamo le posizioni concernenti la schiavitù. In alcuni scritti della piena maturità la posizione si fa più conservatrice e in contrasto con scritti precedenti dove negava la legittimità per un cristiano di possedere schiavi. Intorno al 394 egli scrive: «Il primo grado di autorità quotidianamente esercitata sull’uomo da parte dell’uomo è quella esercitata dal padre sul proprio schiavo. In quasi tutte le case si dà l’esempio di un’autorità di questo genere. Ci sono padroni e ci sono schiavi; essi hanno nomi diversi, ma in quanto uomini hanno tutti ugual nome. E che cosa dice l’Apostolo, insegnando agli schiavi a star sottomessi ai loro padroni? “Servi, obbedite a quelli che vi sono padroni secondo la carne”; poiché c’è anche un padrone secondo lo spirito. Egli è padrone vero ed eterno; ma questi sono padroni temporali, la cui autorità si esercita solo nel tempo. Tuttavia, finché sei in cammino sopra la terra, finché sei in questa vita, Cristo non vuole fare di te un superbo. A te è toccato di essere fatto cristiano e di avere per padrone un uomo? Non sei stato fatto cristiano perché avessi a sdegno di servire. Quando per comando di Cristo tu servi a un uomo, in verità, tu non servi a un uomo, ma a chi ti ha dato questo comando». (Enarrationes in Psalmos, 124, 7).

Qui, la predestinazione agostiniana si salda, sul piano delle preoccupazioni terrene, con il potente influsso organizzativo e riformista paolino. L’apostolo temeva il disgregamento immediato, di fronte all’impossibilità di controllare un dirompente movimento egualitario e comunista, Agostino teme la stessa cosa, proprio quando la Chiesa è ormai al potere, dato che questo potere di fatto non esiste, smembrato, dilaniato da conflitti interni ed esterni, incapace di ritornare agli antichi splendori, anche a causa dell’effetto disgregante del cristianesimo stesso. Non è un caso che Agostino torni alla formulazione paolina, cioè a quella della carenza, diretta a impedire ogni superbia, cioè ogni intenzione riformatrice troppo violenta, se non proprio rivoluzionaria, cosa che sembra egli temesse di più. La Chiesa ha la forza di imporre la sua volontà, ma su che cosa può imporla?

Ecco cosa si chiede Agostino. Prima di tutto ha bisogno di strumenti efficaci, di ubbidienza, di capacità di costringere all’ubbidienza. Il potere senza questi strumenti non è altro che una vuota parola. Qui il pessimismo si sposta col realismo politico. Gli uomini sono tutti peccatori, se dovessero muoversi per scuotere il giogo sociale, quindi anche quello della schiavitù, finirebbero con l’utilizzare in maniera forse peggiore ai fini della propria salvezza la libertà di quanto oggi non accade con la schiavitù.

Nei lunghi anni trascorsi a lavorare attorno alla Città di Dio, Agostino visse e sofferse tutti i travagli politici più gravi della sua epoca. Attacchi di eretici contro la Chiesa e, estremo controsenso, quest’ultima costretta a difendersi ricorrendo all’aiuto di altri eretici, come i soldati di Bonifacio. Difatti erano proprio questi soldati che difendevano Ippona, negli ultimi giorni della sua vita, dall’attacco dei Vandali di Genserico. Se si pensa che questi ultimi vennero chiamati in Africa proprio dal conte Bonifacio, come ausilio nella lotta che questi conduceva contro le forze imperiali di Valentiniano III, e che poi gli si erano ribellati conquistando tutta la regione e costringendo Bonifacio a fuggire da Cartagine, si capisce in che tempi viveva e elaborava le sue teorie Agostino e come questo dovesse influire sulle sue scelte. In un mondo come quello che stiamo descrivendo, con una considerazione dei valori pratici della vita terrena ridotta a semplice ombra di passati ricordi, con uno sviluppo economico quasi nullo, con l’apparente insostituibilità dell’istituto della schiavitù, il rafforzamento organizzativo della Chiesa, appare ad Agostino, come di già a Paolo, la sola garanzia di una vita terrena governata dalla pace.

Che poi, nel pensiero di Agostino, non sia sempre facile stabilire l’ampiezza del processo di catalizzazione svolto dalla Chiesa, oppure che quest’ultimo risulti per differenza dal processo organizzativo statale, questo è un’altro problema. Come sappiamo, lo Stato nella concezione agostiniana è il mezzo ideale per sostenere l’ordine nella città terrena. Un ordine se si vuole precario, provvisorio, ma pur sempre ordine. Quindi, il primo problema è dato dallo studio dei mezzi di legittimo intervento dello Stato in sostegno delle disposizioni della Chiesa. «Pensate forse che non sia in facoltà delle autorità di istituzione umana il prendersi cura di tali delitti [principalmente l’eresia]. A qual fine, dunque, porta la spada l’autorità che è detta “ministra di Dio, vendicatrice che punisce” coloro che operano il male? A meno che, come molto sprovvedutamente sono soliti interpretare alcuni dei loro, le parole dell’Apostolo non si interpretano riferite alle gerarchie ecclesiastiche, sì che la spada debba intendersi la vendetta spirituale, quale viene ad essere operata per mezzo della scomunica. Ma l’Apostolo molto provvidamente, nel contesto ben coerente della sua lettera ha espresso ben chiaro il suo pensiero. Perciò aggiunse: “per questo motivo voi pagate i tributi”, e subito dopo: “Rendete a ciascuno ciò che a ciascuno è dovuto: a chi l’imposta, l’imposta, a chi il tributo, il tributo, a chi il rispetto, il rispetto, a chi il timore, il timore”. Non rimane dunque altra alternativa che questa, che, conseguentemente alle loro affermazioni costoro proibiscano ai cristiani di pagare i tributi». (Contra epistulam Parmeniani, 1, 10, 16).

Abbiamo di già visto in che modo Agostino perviene alla liceità della costrizione. Dobbiamo adesso precisare meglio i contorni, in quanto si tratta di uno dei cardini del suo pensiero. Il programma assolutista della Chiesa comincia proprio da qui. Non più giustificazione, ma precisazione. Continueranno poi la Scolastica e la pratica giuridica romana per dare fondamento a quella conquista del potere temporale che diventa uno degli obiettivi dichiarati, allo scopo di potere non solo difendere, ma anche imporre la fede nel cristianesimo. La giustificazione all’impiego della forza è trovata nella diffusione dell’eresia e del dubbio o, per usare la stessa frase di Agostino, nel fatto che non si poteva aspettare il tempo del raccolto per eliminare la zizzania dal frumento. Nell’atto stesso della persecuzione, Agostino identifica un avvicinarsi a coloro che sono contro la Chiesa, rendendo loro possibile un rientrare tra le fila della religione. Un totale abbandono, al contrario, corrisponderebbe a un venire meno al compito indicato dalle Scritture, che incitano a seguire il comportamento del pastore che abbandona il gregge per andare in cerca dell’unica pecora smarrita. «Ma la vostra querela circa la persecuzione si placherà quando voi prenderete a considerare che non tutte le persecuzioni sono colpevoli. Altrimenti non sarebbe stato detto lodevolmente: “Perseguitavo colui che in segreto calunnia il suo prossimo”. Non assistiamo forse ogni giorno al caso di figli che si lamentano del proprio padre come di un persecutore, di mogli che si lamentano dei loro mariti, di schiavi che si lamentano dei propri padroni, di coloni che si lamentano del proprietario del fondo, di rei che si lamentano del giudice, di soldati e di provinciali che si lamentano del generale o del governatore? Tuttavia, quasi sempre, essi agiscono ordinatamente, secondo le prerogative del potere che è loro proprio e, incutendo il timore di pene leggere, trattengono utilmente da mali peggiori chi è loro soggetto». (Epistula ad Catholicos, 15, 53).

A questo punto sorge il dubbio di come abbia fatto il santo Padre della Chiesa a intendere per “pene leggere” la confisca dei beni e la condanna a morte. Ma ormai, il suo pensiero era del tutto perduto in direzione della Città di Dio, e molte considerazioni riguardanti la pratica città terrena, appaiono del tutto condizionate da quella prospettiva. Ciò è senz’altro conseguenza di ogni fanatismo. Infatti, come tanti altri esempi di virtuosi che affolleranno la storia, sono proprio questi i casi in cui si mette in moto la peggiore macchina repressiva. In corrispondenza a queste affermazioni di Agostino c’è l’attività legislativa di Teodosio che nel 392 ordina la confisca dei beni per coloro che continuano l’adorazione degli idoli pagani. La pena capitale sembra sia entrata in uso dopo, non essendoci alcun riferimento nel Codex Theodosianus (15, 10, 12), mentre Agostino ne parla apertamente nel Contra epistulam Parmeniani (1, 9, 15), scritto intorno al 400.

C’erano state delle titubanze nel pensiero agostiniano dei primi anni, quando forse l’antica amicizia con i manichei lo sollecitava alla tolleranza, o l’amore per gli studi precedenti lo spingeva a mitigare la pur elogiata attività di Teodosio contro i pagani e i loro riti. Ma poi ci sono i tempi bui, i tempi dell’intolleranza, quegli anni decisivi della città di Dio. In un passo delle Retractationes scrive: «Vi sono due miei libri, dal titolo Contra partem Donati, nel primo dei quali affermai non essere mio gradimento che gli scismatici fossero costretti all’unità con le armi del potere secolare, qualunque esso fosse. E veramente allora ciò non era di mio gradimento, perché non avevo ancora sperimentato tutto il male che l’impunità li portava ad osare, né quanto contribuisse a farli migliori una prudente disciplina». (2, 5). La dottrina di Donato di Case Nere affermava l’intransigenza assoluta della Chiesa come comunità di perfetti nei riguardi di ogni ingerenza nella politica statale. Questa eresia proponeva un soggettivismo molto intenso, quindi una costante critica degli ordini gerarchici della Chiesa che, se riconosciuti indegni, non avrebbero più potuto esercitare i sacramenti. Il rischio del dissolvimento organizzativo era considerevole.

Questi, per grandi linee, i problemi sociali ed economici puntualizzati da Agostino. Il distacco da un mondo terreno che gli risulta estraneo mentre prima lo attirava come meraviglioso. Il tentativo, malinconicamente ripiegato in se stesso, di una costruzione nuova ben più forte, perché fondata sulla verità rivelata. La coscienza della fragilità di quest’ultimo tipo di costruzione terrena, non per colpa del cristianesimo, per una quale sua interna difettosità nell’affrontare e risolvere i problemi sociali, ma per la connaturata precarietà dell’uomo. Lo studio dello Stato per verificarne i limiti in quanto mezzo di mantenimento dell’ordine sociale, quindi interpretazione dello Stato come fondato sul patto sociale. Il problema della ricchezza con tutte le gravi ripercussioni etiche che di regola comporta, in più con le difficoltà derivanti da una particolare visione dell’uomo che tende a un primo grado di perfezione, diversa da un ulteriore grado, possibile a raggiungere solo dopo avere abbandonato completamente ogni velleità terrena. Il problema della proprietà con il suo dualismo irriconciliabile tra principio comunitario e principio produttivistico. La scelta del male minore, cioè del riconoscimento della proprietà, e del rifiuto di ogni sogno comunista. Il problema della giustificazione della coercizione e della violenza. Il problema della libertà, intravisto dietro la lenta deformazione del dirigismo statale.

Così conclude la sua interpretazione del pensiero di Agostino, riguardo i problemi di nostro specifico interesse, Gino Barbieri: «Insufficienti a creare la vera beatitudine, le ricchezze devono osservarsi dal cristiano anche sotto un’altra visuale: e precisamente l’incertezza e l’instabilità, che valgono a dissuadere chi le possiede dall’ansia preoccupata nel conservarle, sull’esempio dell’ape, che sfugge alla massa del miele per non trovarvi la morte. Questi passi sembrano richiamare il sospetto con cui la tradizione moralistica ha sempre riguardato ai beni economici. Ma quandi uno approfondisca il pensiero di Agostino, trova agevolmente che egli ha difeso la funzionale bontà della ricchezza, all’uomo solo spettando i meriti o i demeriti del buono o cattivo uso di essa». (Fonti per la Storia delle Dottrine Economiche, op. cit., pp. 167-168). Questa posizione, senz’altro presente nell’opera di Agostino, deve essere considerata come una fase iniziale, in cui il pensiero del vescovo di Ippona trova appoggio per poi svilupparsi. I Padri precedenti ad Agostino avevano da tempo formulato ciò che Barbieri attribuisce a quest’ultimo. Invece, a partire dalla lettera di risposta a Ilario, opera più matura del Sermo L tenuto presente da Barbieri, si sviluppa la distinzione tra due perfezioni raggiungibili sulla terra, quella che si ottiene con l’osservanza di tutti i comandamenti divini, e quella che si ottiene con in più la cessione di tutti i beni alla Chiesa quale amministratrice per conto dei poveri. Certo, ad Agostino doveva sembrare difficile quest’ultima evenienza, ma ciò collimava con l’interpretazione pessimistica di ogni possibilità umana.

In un mondo che tramonta, mentre le speranze per il futuro si fanno più ridotte, Agostino tratteggia la sua grande opera di razionalizzazione autoritaria della Chiesa, non indietreggiando davanti a nessuno ostacolo. Non per nulla dalle sue tesi, allo stesso modo che da quelle di Tommaso, si sono potuti giustificare i tribunali dell’Inquisizione e i domenicani e francescani dividersi l’onere di tanto compito.

Alla fine del V secolo, la Patristica può dirsi del tutto conclusa, almeno come originalità di pensiero. Rimane l’attività di compilazione, traduzione, rifacimento, raccolta. Si tratta di una rinuncia a priori di ogni originale speculazione. Il discepolo di Agostino, Paolo Orosio, costituisce un considerevole esempio di questa mentalità. Nell’opera Adversus paganos historiarum libri septem, si trova a esporre una vasta messe di conoscenze che non sempre risultano di prima mano. Orosio non sembra preparato sui classici greci, mentre la sua conoscenza dei latini è limitata a Svetonio, Eutropio, Eusebio, Tacito e Livio, ma solo estratti e non sempre fedeli. Tutto il lavoro si limita a ripresentare le tesi agostiniane, senza il minimo lume critico. Egli racconta leggende raccolte dalla Bibbia o dalla mitologia pagana, come pure da altre tradizioni egiziane, collocandole in una precisa cronologia, inventata da lui, di volta in volta dalla fondazione di Roma, o di Troia o dalla data del diluvio. (Adversus paganos, 1, 11).

Un posto a parte, sia pure limitato, occupa Teodareto di Cirro, con una produzione letteraria che si riallaccia all’apologetica greca, di cui costituisce l’ultima espressione degna di nota. Interessante la teoria del commercio internazionale, o meglio d’oltremare, che giunge alla conclusione in base alla quale gli Stati si trovano tutti economicamente differenti uno dall’altro, per potere avere bisogno uno dell’altro, e così fare regnare la pace attraverso laboriose relazioni d’affari. «... il sommo Provveditore dell’universo non ha concesso a ciascun paese tutto ciò che è necessario al vivere umano, salvo che per non impedire con l’abbondanza di tutte le cose la loro amicizia e congiunzione... ». (De providentia orationes decem, tr. it., Milano 1827, p. 214).

Di regola, le considerazioni sul legato che la Patristica consegnò alla Scolastica riguardo ai gravissimi problemi della liceità della ricchezza, della proprietà, del dominio temporale e della costrizione tramite la forza, non vengono svolte adeguatamente dagli studiosi di storia economica e, ancor meno, dagli economisti. Per non tediare, visto che le opinioni sono tutte egualmente superficiali e spesso inconcludenti, citiamo solo quella di Eric Roll: «La preponderante impressione che si riceve dal Vangelo e dai Padri è data dall’avversione ai beni del mondo. Anche se essi non sempre condannano l’intero istituto della proprietà, tuttavia ne criticano tante delle sue manifestazioni che il risultato è lo stesso. Cristo aveva condannato la ricerca della ricchezza e San Gerolamo aveva detto: Dives aut iniquus aut iniqui haeres. L’intera base del commercio era posta in discussione, come ben si accorgeva Tertulliano, quando scriveva che eliminare l’avidità voleva dire eliminare la ragione del guadagno e, quindi, il bisogno del commercio». (Storia del pensiero economico, op. cit., p. 44).

Affermazioni chiaramente suggerite da un mancato approfondimento dei testi. Innanzi tutto, ammettere che in generale i Padri propendano per un’avversione ai beni del mondo, significa vedersi costretti a considerare tra il periodo patristico e la Scolastica una frattura vera e propria e non una progressiva maturazione. Credo di avere invece dimostrato che a una primitiva, generale, avversione per i beni economici, fece seguito, via via che le comunità comuniste si staccavano e andavano verso l’estinzione o l’eresia, una più matura riflessione sulle possibilità dell’impiego di queste ricchezze in senso produttivo. In merito all’istituto della proprietà, la condanna dei Padri si rivolge sempre all’abuso, in quanto viene considerata una sorta di gestione per conto di Dio e questo atteggiamento non può dirsi certo una negazione dell’istituto nel suo valore di fatto.

Dal materiale raccolto si deve concludere per un’opera di razionalizzazione esercitata dalla casta ecclesiastica nel corso dei primi tre secoli, conclusasi con la poderosa e radicale sistemazione agostiniana.

E poi, furono lacrime e sangue.

 
 

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