Titolo: Il ripristino degli dèi
Note: Prima edizione: novembre 2000
Seconda edizione: novembre 2013
Opuscoli provvisori N. 47
SKU: opuscoli-000047
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Nota introduttiva alla seconda edizione

Non so se si sta aprendo una nuova prospettiva nello scontro che ci attende, che ci coinvolge da tanti decenni, sotto cieli sempre differenti ma sostanzialmente tutti incupiti dallo stesso, maleodorante, clima imposto dagli sfruttatori. Quello che so è che non intendo fare un passo indietro. Illudersi riguardo aperture o possibili interstizi dove ficcare il cuneo rivoluzionario definitivo, è pura idiozia, o furbizia travestita, al lettore la valutazione che preferisce.

Continuare la lotta significa agire in due direzioni: la prima richiede un approfondimento teorico del nemico che ci sta di fronte, delle sue strategie e dei suoi mezzi di offesa e di difesa di cui continua a dotarsi, la seconda consiste in una decisione, prima di tutto, di ordine personale, coinvolgersi e non aspettare che ci arrivi da qualche parte un’illuminazione.

Quindi, attaccare, ancora una volta, con i mezzi di sempre o con mezzi nuovi, che ognuno, nel frattempo, si è saputo dare.

Qui si apprestano alcune analisi sulle modificazioni della struttura produttiva. Forse andrebbero aggiornate, come qualcuno mi suggerisce, ma in fondo quello che stiamo vivendo in questo secondo decennio del secolo non è altro che il completamento e l’esacerbazione dei profondi cambiamenti del passaggio dal vecchio al nuovo millennio. Il tessuto difensivo, e offensivo, del capitale è ormai sfilacciato, ciò non significa che altre soluzioni non siano in corso di realizzazione, non bisogna illudersi con la vecchia favola della contraddizione “insuperabile”. Ma, l’inesistenza più o meno accertata di quest’ultima eventualità rivoluzionaria, non può spostare la nostra decisione di un millimetro. L’attacco è sempre la sola strada da perseguire, il nostro unico obiettivo. L’attacco, non una garanzia di vittoria. Non ci sono contratti da firmare ma solo vite da mettere in gioco.

Con buona pace di tutto coloro che pensano a un qualche meccanismo che oggettivamente scava nelle strutture del capitale costruendo in questo modo la rivoluzione del futuro.


Trieste, 1° novembre 2011

Alfredo M. Bonanno

Nota introduttiva alla prima edizione

Nell’andamento delle cose del mondo c’è costante lo splendore del nuovo che continuamente accade e continuamente s’impregna di morte. Per quanto sottile si faccia il diagramma che contrassegna la vita dell’accadimento, questo non è mai del tutto presente, vivo nella pienezza del suo essere svogliatamente se stesso, non è libero di respirare a pieni polmoni, di percorrere l’inizio e la fine di qualcosa. Sempre nella stessa sua splendida incoscienza c’è la cognizione della fine, il presentimento della morte, dell’altro che travalica in questo e del questo che travalica nell’altro, per il momento sconosciuto.

Ciò non accade solo nella puntualità della sensazione, nel sentimento che oscura la ragione e mantiene in vita perdute divinità, accade anche nello sterminato estendersi del fare, nella modificazione produttiva che quotidianamente crea il mondo, esatta e silenziosa, per perderlo ad ogni istante nella sua esattezza e nel suo silenzio. Chi mette mano a riflettere su questo passaggio inesausto impaurisce. Più la sua attenzione si fa penetrante e più rancorosi lamenti gli sembra si sollevino da ogni parte. Non c’è nessuno che sia contento del ritmo che ascolta nell’ambito del proprio cuore, e allo stesso modo nessuno è contento dei ragionamenti che sacrifica ogni momento al desiderio che li rende contraddittori. La condizione dell’esistere appare, di volta in volta, casuale e preordinata, involontaria e voluta, costruita e accidentale, come un acquazzone d’estate.

Rimettiamo di continuo in discussione la comprensione dell’attuale, con tutte le sue apparenti rigidezze, allo scopo di non consacrarci del tutto agli innaturali suggerimenti del futuro. Cominciamo sempre scavi tenebrosi nei riguardi delle proposte progettuali di quest’ultimo, ma non mettiamo mai in chiaro quello che sta accadendoci, quello che l’accadere fa riflettere dentro di noi come unica dimora dell’accaduto. La quotidianità precaria ci è necessaria, insostituibile, in essa accatastiamo propensioni e accumuli, piccoli riferimenti abbacinanti di splendori passati che più non ci appartengono ma che disputiamo al seppellimento, ricavandone come risultato schegge infeconde, singolarmente congeniali alla supervalutazione di quanto è ormai conchiuso, ma che ci rifiutiamo di considerare del tutto giocato fino in fondo.

Ci rifiutiamo e con ragione. Vediamo che tutto un imbroglio è tessuto ai fini di convincerci che da un luogo del passato qualcosa continua a scorrere verso un luogo del futuro. Chi cerca di convincerci, sappiamo per certo, non è convinto lui stesso. Non c’è itinerario, qui, dalle nostre parti, che inizia e finisce in maniera nettamente definitiva, non c’è una parte della morte e una della vita, morendo non moriamo e nascendo non veniamo alla vita, una qualche qualità vitale scorre ininterrottamente lasciando via via segni della morte e della vita visibili dappertutto, strettamente connessi a tutto quello che è vietato e a tutto quello che è permesso. Non ci sono limiti o contrassegni che garantiscano sicurezze.

Possiamo spostarci, questo è vero, dalla persistenza del passato – in tutti i meandri del presente ne troviamo affastellamenti – all’anticipazione del futuro. E abbiamo cerimoniali appositamente adeguati allo scopo. Ricerche storiche dettagliano itinerari precisi, percorsi che non sono ancora morti nella memoria e nella vitalità e, allo stesso modo, intuizioni analitiche anticipano febbrilmente gli ironici simboli del futuro cercando di trarre opportuni significati, connessioni o profanazioni di future agonie o fioriture per il momento immobili e remote.

In effetti, le trame seriali del passato, di quello che pensiamo mortale, conchiuso, perché in questo modo possiamo meglio definirlo nell’angusta dimensione delle nostre capacità, si ripresentano costantemente, sia pure deformate in modo mostruoso, e oscillano incerte sotto i nostri occhi, balenando in mille versioni contemporanee alla poca luce che le illumina. Per capire meglio desidero che questi baluginamenti vengano restaurati nei più intimi dettagli, do il mio contributo a ripristinare le loro paternità, non ritengo mai esaurito il mio compito di scriba di questi movimenti incompleti, notaio delle loro impossibili conclusioni. Poi mi accorgo che le trame seriali continuano a crescere, ostinatamente, presentando sempre nuove condizioni del loro ciclo, tali che queste condizioni finiscono per negare la possibilità stessa di un ciclo e quindi per svuotare di senso il concetto di “serie”.

L’idea della fotografia è un volere fuggire la realtà, incastonarla in un dubbio, in un fantasma che non è mai esistito, di cui si è sempre parlato ma che nessuno ha visto. Si fotografa un lattaio, un fabbro, un borsaiolo, una balia, li si mette in coda nel catalogo delle inesistenze, accanto a panorami, bambini ciechi, pesci sventrati, residui d’antiche battaglie, monumenti ottusi come cocomeri. Poi si pretende che quelle istantanee ci dicano qualcosa, insistiamo ad amarle, a fissare con loro, mummie, una conversazione sommessa. Ma quelle condizioni sono definitivamente imbavagliate, se vogliamo portarle nel presente è al futuro che dobbiamo consegnarle. In caso contrario scappano via, sensazioni difficili da capire e, in fondo, anche da fornire di significato. Il rivoluzionario deve sapere scendere sotto la superficie delle cose, non accettare i suggerimenti torvi che l’accademia elabora e mette in circolazione per sollecitare le passioni che soddisfano e tengono a bada. Ieri e domani, il primo che travalica nel secondo, ecco il suggerimento ovvio e continuo che nella sua sordida evidenza sembra difficilmente non accettabile. L’andamento “normale” delle cose, ecco il vero problema nascosto sotto l’indifferente evidenza.

Mantenere una lucidità senza misericordia significa indagare con occhio attento quanto del passato riverbera ancora nel presente e si appresta a diventare futuro, mettendo in catene la spensierata sinfonia dell’inconoscibile avvenire. La minaccia dell’assolutamente altro, della novità imprevedibile, ci dissolverebbe immediatamente, abbiamo bisogno di questa permanenza, anche se presenta i suoi risvolti drammatici sotto travestimenti intraducibili. La scansione di stabilità che lo scorrere del tempo aveva nel passato è finita del tutto, ma i nuovi ritmi non sono ancora in grado di darci conforto di fronte alla labilità dell’attesa, che è penetrata di fronte a ogni singolo avvenimento, sia pure di trascurabile importanza. Nel metterci allo sbaraglio c’è oggi troppo poco di noi stessi nelle cose che facciamo, anche nelle atrocità che permettiamo, che seguiamo con attenzione scanzonata e distratta, sollevando gli occhi dal piatto all’ora di pranzo. La nostra pochezza non raggiunge mai complicità da brivido nel crimine quotidiano di cui siamo responsabili. Ci chiamiamo fuori nel momento stesso che ce ne informiamo, che riduciamo tutto quanto a modulo conoscitivo virtualizzato. Le carnose passioni di una volta sono diventate immagini fuggitive di bambini sventrati e donne stuprate che scorrono tranquillamente sullo schermo, lontani simboli di crudeltà vecchi quanto il mondo e che ancora si aggirano fra di noi e a cui noi, esattamente noi, non qualcun altro, prestiamo sostegno con la nostra tolleranza ed ambiguità di risposta, con il nostro continuare tranquillamente a masticare il pasto quotidiano, con la tranquillità con cui sfogliamo distratti le pagine del giornale, nostra laica preghiera del mattino, come diceva Hegel.

La realtà, caricandosi di mille volti e mille dettagli, ha assunto la vaga configurazione del lampo che fugge via non appena intravisto, rapida e senza nome la notizia si trasforma in opinione, ci prende d’assalto ma non ci scalfisce nemmeno, solo ci riempie a poco a poco, leggera come un velo la sentiamo tuttavia rubarci l’anima, varcare le soglie della parte incomprensibile di noi stessi, farsi carne della nostra carne, diventare metro di giudizio e capacità di comprensione, insomma prendere dimora, mentire al nostro posto, parlare al nostro posto, vivere al nostro posto. Enigmatica figura, l’opinione, non possiamo interrogarla sul che fare, è essa stessa un che fare, ma secondo ragione dominante, una fuga che rassicura, una fuga continua che colloca troppo lontano il pericolo per farlo sentire realmente a portata di mano. Questa maschera metaforica della realtà suggerisce la vocazione più adatta per la vita nel mondo che ci ospita: una modulazione allegra, velocemente adattabile, flessibile in modo interlocutorio, dileguabile fino alla chiusura, vellutata, carica di ombre, incapace di fare posto a qualcosa di veramente nuovo.

Nulla del curioso strumento che ci viene quotidianamente immesso in corpo è determinato, nei suoi possibili dettagli, da quello che ragionevolmente potrebbe definirsi un “nostro progetto”. La stessa capacità progettuale di cui pensiamo di essere forniti è un aspetto, per altro marginale, dell’opinione che ci costituisce. Non siamo dei perdigiorno, per carità, affrontiamo sofferenze e disagi, perfino visitiamo paesi lontani e corriamo pericoli considerevoli, spesso semplicemente a causa del traffico, siamo esseri che “fanno”, santamente e ininterrottamente, ma questo “fare” è un’allucinazione fuorviante. Il fatto di impuntarsi nel non credere alle chiacchiere dei saltimbanchi che orchestrano la diffusione informativa a tutti i livelli non ci salva dal problema. Anche l’agnosticismo, il rifiuto di dar credito, la stessa critica, sono oggetto di fabbricazione e spaccio di opinioni. I gazzettieri di ogni genere sanno bene (o forse non lo sanno nemmeno loro, ma il meccanismo che li ospita di certo lo sa bene) come determinare la comunanza di sensazioni specifiche, di umori precisi, di chiacchiere adeguate, di felicità di cartapesta, di emozioni virtuali, di paure inesistenti, di struggimenti da bicchiere d’acqua. Sanno cos’è la nostra vita perché lavorano a costruirla senza avvedersene, in quanto il meccanismo che ci costruisce costruisce anche loro stessi.

La ciarla quotidiana dilaziona la possibilità di vederci per quello che siamo, spostando in avanti la delusione che ne ricaveremmo, bruciante oltre ogni dire. Bugie ci vengono ammannite e bugie digeriamo, una digestione aspra e lenta, fastidiosa. Trasportiamo riflessi e impressioni da un punto all’altro della nostra vita, fin quando qualcuno ci batte una mano sulla spalla facendoci cortesemente capire che siamo troppo vecchi, ormai, per uscire dal generale frastuono. Uno sterminato territorio ci attende, il medesimo, punto per punto, territorio che abbiamo di già attraversato. Non abbiamo fatto altro che ripercorrerlo all’infinito, infinite volte, pensando di andare avanti, di costruire qualcosa per l’avvenire, per il nostro avvenire, di dare vita al nostro progetto. Ma per cominciare veramente questa costruzione avevamo bisogno di un punto discriminatorio, un punto di forza da cui partire verso territori meno affollati. L’abbiamo trovato questo punto? Non lo so, visto che ancora odo nelle orecchie, ormai quasi sorde, l’antico ululato delle belve.

Certo, mille documenti sono stati esaminati e studiati, e mille libri e mille carte. Il sistema li ha prodotti con incredibile prodigalità, una grandiosa messa in scena, terribile nella sua apparente libertà di accesso. Potevo entrare da qualsiasi porta, da quella che si apre sulla scalinata principale, riservata agli onori e alle prebende, come da quella di servizio, oscura e coperta di ragnatele. Ho preferito questa porta di servizio, pensando ad una effrazione possibile, un destino solitario e superiore, una mia personale guerra con il nemico schierato contro di me, solo contro di me, alla luce del giorno, con tutte le armi in regola, luccicanti al sole del meriggio. Mi sono ben presto accorto che dentro si chiacchierava molto, e che le sale superiori del palazzo erano le stesse, che l’accesso condizionava, questo è pur vero, ma fino ad un certo punto. Man mano che il palazzo si costruiva (da solo, ma anche col mio modesto contributo), i discorsi finivano per somigliarsi tutti, cari discorsi distruttivi, perfetta corrispondenza con le amene divergenze costruttive che rimbombavano nelle stesse stanze. Il contesto, immutato, eterno, disadorno, consolatorio, tornava a riproporsi sempre di più. Il problema, il vero problema, non era il riconoscimento (la cara illusione hegeliana, quanto mi era costato allontanarmene), ma il processo stesso, l’accadere, il movimento che dal passato va verso il futuro, indistinguibile nei suoi vettori, contro cui nulla valeva ergersi puro nelle proprie scelte.

Mi sono tormentato in fondo per cogliere quello che qualsiasi imbecille sente direttamente, come pelle della propria pelle, quando si ferma davanti ad un negozio e osserva l’ultimo gadget alla moda. Lo sente parte di sé, perché è parte del suo tempo. Resterebbe di stucco, o penserebbe ad un colto artificio, se gli oggetti assumessero, improvvisamente, l’aspetto delle cose degli anni Cinquanta. Il tempo incorporato è quel movimento che trasporta dall’ieri verso il domani qualcosa che non sono riuscito a identificare, che contiene in sé la forza aggressiva della realtà, verso cui non so mai bene se sono inseguito o inseguitore. Se qualcosa di diverso oggi si muove nella dimensione dell’imprecisabile, e se questo qualcosa è lo stesso di una volta pur nelle sue tante modificazioni, non sono problemi che è facile esorcizzare. L’uomo cambia nel cambiare delle cose che lo fanno uomo, circondandolo e producendolo, giorno per giorno, ma questo suo cambiare permane silenziosamente identico al vecchio permanere nel fragore del cambiamento. Ci sono zone dell’uomo, regioni del suo essere uomo, in cui i dèmoni del futuro non riescono ad entrare. E si tratta di zone vastissime, tutt’altro che di agevole accesso, dove la paura si alterna con la morte e niente produce protezione e garanzia.

Nessuno studio del nemico è possibile se non si accompagna ad una accurata valutazione di me stesso, delle conseguenze che la sorveglianza, su di me esercitata dall’intero sistema produttivo delle condizioni di vita, determina nel rendermi quello che sono. La mia esistenza può risultare così qualcosa di indiretto, di raccontato e riportato, non vissuto, e la mia capacità di cogliere il nemico ridursi ad una fola melodrammatica che racconto e canto per atteggiarmi a bravaccio. Può anche darsi che a nessuno la condizione indiretta di esistenza sia congeniale, ma viene di regola accettata, fatta propria, quindi considerata sufficientemente sopportabile anche se imperfetta. Si tratta di un lusso che non posso permettermi. Resterei prigioniero di confini fittizi e proprio per questo invalicabili. Un meccanismo perverso ma efficace mi produce non solo per gli altri ma anche per me stesso. Producendomi non solo mi rende tangibile a me stesso, ma rende tangibile anche il mio nemico, lo porta fuori dalla dimensione del contafavole e me lo serve nella sua comprensibile inconsistenza. Inconsistente la mia vita, inconsistente il mio nemico. Il rapporto si pareggia e ambedue possiamo aspettare il sorgere dell’aurora senza danneggiarci reciprocamente.

Se mi dispongo ad ascoltare quest’ammasso di processi informativi, se motivo a me stesso, giustificandolo, il continuo rinascere delle opinioni che si fanno strada dentro di me, che costruiscono il mondo momento per momento, che mai muoiono e mai vivono fino in fondo, perché hanno consistenza traslucida, calore di vita soltanto recitato, non reale, devo alla fine adagiarmi sfinito sulle condizioni correnti della normalità distratta da mille avvenimenti, affascinata da continue consunzioni e sfinimenti che non sollevano un lamento veramente degno di questo nome. Se questa è la mia condizione di umanità, per capirla fino in fondo, quindi per cogliere il movimento che dal futuro mi conduce al passato, devo rinunciare completamente a essere umano. Non posso permettermi nessuna debolezza, niente che possa concedere al meccanismo che mi occupa, che si è alloggiato dentro di me, di raccontare all’esterno quello che lui (e il mondo in generale) pretende che io sia. La mia leggenda non posso accettarla, quindi nemmeno quello che leggendariamente io stesso mi sono andato convincendo di essere, perfino gli attacchi che vado conducendo da tanti decenni contro il nemico di classe, se questi, per esistere, per venire fuori quindi dalla loro condizione di presupposizione, hanno bisogno di una favola ben costruita nel mondo ovattato delle opinioni. Se è questo il destino del mio “agire”, che tutto vada in malora, rinuncio da questo momento a capire quello che accade nel movimento che mi viene incontro dal futuro, e che di regola mi produce un senso di smarrimento panico più che di benessere come potrebbe essere quello fornito da una protesi più o meno robusta. Per quanto io non voglia recitare una parte, può anche darsi che il processo stesso mi faccia recitare questa parte senza che me ne accorga, quindi in maniera straziante, come di un arto incapace di sentire dolore strappato via a morsi. L’artificiosità prende spesso l’aspetto temerario della vita, l’immagine la sacralità del vero, l’allucinazione il biancore della trasparenza. Non sono certo di riuscire a separare tutto questo da quel piccolo lume che intravedo in lontananza, mentre procedo fra mille incomprensioni, mentre pretendo entrare nel traffico segreto di labirinti sconosciuti.

Per distruggere la mistificazione non devo cadere nell’equivoco di salvare il positivo che la mistificazione stessa mi propone come punto di riferimento, come costruzione voluta e cercata da me. Non posso nemmeno affermare che questa indicazione fuorviante sia voluta dal meccanismo di produzione che mi cattura e mi produce indicando i miei costanti cambiamenti come persistenza, non credo si tratti di un investimento calcolato. Nessuna mostruosità umanamente pensata potrebbe arrivare a tanto, ma non è detto che tutte le mostruosità siano pensate in modo umano, possono venire fuori dall’impensato che si concretizza involontariamente in quell’esistenza artificiosa contrassegnata dall’opinione. Deformarmi è lavoro difficile e corrisponde esattamente al farmi vivere una vita estranea alla mia vera esistenza, come se fossi improvvisamente incorporato nell’immagine baluginante sul pelo dell’acqua. Tutti i miei sdegni sarebbero allora monotonie e balbettamenti, non distruzione vera e propria del nemico, comunque avvicinamento alle sue posizioni salvaguardate e ben difese.

Il fatto è che la medesima astuzia, e la medesima viltà, si annidano fra i merli fortificati del castello teutonico, né l’incluso privilegiato, per come mi sembra stiano le cose in questo momento, se ne rende pienamente conto. Anche per lui il funzionamento del meccanismo produce effetti non desiderati, contrassegni dell’instabilità delle sorti umane. Per il momento io e il mio nemico abbiamo le medesime sembianze. Solo che lui sta lavorando per assumerne altre, e potrà fare questo solo risolvendo due problemi: primo, comprendendo il meccanismo produttivo dell’opinione e sottraendosi ad esso, secondo, allontanandomi dalla comprensione del suo mondo nuovo, quindi tenendomi lontano dal flusso che dal futuro si avvia verso il passato, impadronendosi cioè del segreto del processo storico, della serie, rendendomi animale acquatico, inasprito e inferocito quanto si vuole, ma costretto a respirare con nuove branchie, queste sì differenti dai polmoni del mio avversario. L’origine comune dovrebbe qui separarsi, a meno che non sia io a carpire per primo il segreto del divenire, la condizione che fa del tempo il mio tempo, il miscuglio che mi anima e mi permette di pensare e agire, di amare e odiare, distintamente, distruzione per distruzione, non come una vecchia tragedia fasulla in cui tutti trovano gloriosa morte sul campo di battaglia.

Il fatto che molte frecce sono pronte per l’arco del mio nemico non significa che riesca ad usarle tutte e bene. Nuove armi perfette sono state confezionate nei suoi laboratori, non mi riferisco alle varie atomiche o ai missili intelligenti, a paragone di quello di cui parlo questi oggetti di morte sono trascurabili, dai laboratori del nemico sono uscite soluzioni armate agli antichi problemi di classe. Soluzioni perfette, o quasi. Le vecchie rapportazioni approssimative erano basate sulla violenza, sulla repressione brutale come primo e ultimo elemento del gioco delle parti, le nuove rapportazioni tengono di riserva la violenza e cercano di lavorare in modo più radicale, più penetrante, in profondità. Un disegno del mondo basato sulle trasformazioni recenti del dominio impone una violenza incruenta che è ben più pericolosa e agghiacciante della fastidiosa retorica fascista d’altri tempi. Il nuovo modello di controllo e produzione di pace sociale è un modello progressivo, taciturno, perfino ironico, in ogni caso coinvolgente, quindi lavora a media e lunga scadenza. Forse è la prima volta che il capitale riesce a progettare qualcosa a lunga scadenza, e non si tratta, questa volta, di progetti riguardanti il suo sviluppo produttivo, ma si tratta di un progetto globale, riguardante tutti, un progetto divisorio ma senza la goffaggine del passato, senza il discredito di un risentimento nell’escluso costretto a restare tale. Le nuove modulazioni non prevedono la durezza di una volta, la specializzazione insistente e penosa proprio perché il più delle volte mal riposta, adesso queste modulazioni non hanno più l’antico accanimento, si svolgono secondo momenti distaccati e privi di indugi, provvisti di una logica intrinseca che accetta l’inevitabilità dell’incertezza e del caos. Nuove atrocità si prospettano in avvenire, e vecchie atrocità faranno loro compagnia, nulla al mondo accenna a cambiare ma qualcosa si muove nel midollo stesso del respiro capitalista, qualcosa che potrebbe renderci impotenti e sconfitti per sempre.

Il capitale sta cercando di capire il passaggio dal vecchio al nuovo, cioè sta scoprendo l’incredibile dietro il credibile, accettando l’impossibile e lavorando a realizzarlo proprio mantenendosi nei limiti del possibile e del di già consumato. Questa scoperta della serie non è dovuta a nessuna testa pensante, non a Proudhon e non a Fourier, nessuna utopia sta per essere realizzata, il processo inconfrontabile è del tutto diverso, tragicamente diverso perché insensato. Fastoso e grottesco, l’avvenire che si sta delineando è un miraggio perfettamente a portata di mano, una realtà che senza perdere la sua inconsistenza di immagine effimera è sufficientemente solida per costituire base e sviluppo del passato attraverso il futuro. Quello che una volta era calcolo matematico, equilibrio instabile ma presunto raggiungibile, adesso è presagio sinistro, affastellamento di accadimenti, segno di eventi poco credibili nei dettagli ma sufficientemente prevedibili nell’insieme, materia torbida e vischiosa ma adattabile nell’ambito della generale modificabilità. L’errore di calcolo è diventato modello di comportamento, non potendolo scartare a priori gli si è fatto posto, adesso è diventato il guardiano dei significati, l’interprete di ogni ninnolo che arreda i vari ragionamenti. Basta aspettare, non spaventarsi delle condizioni complessive stravolte, molto più simili ad un incubo che a un progetto economico, aspettare, per capire che fare, e questo, alla fine, il capitale l’ha capito. Non ci stanno programmando una vita da incubo, questo non saprebbero farlo, in ogni caso non saprebbero farlo solo per noi, non stiamo vivendo un incubo, siamo un incubo, tutti, quindi è inutile fare sforzi per svegliarsi.

Svegli potremmo invertire la rotta? Non credo. Non c’è modo di tornare indietro. Non siamo al timone e chi si trova al timone non può nemmeno volendo tornare indietro. I piloti sono ignari della rotta, sono ignari di ogni scienza della navigazione e nemmeno sanno cucinare, quindi non si può parlare neanche dell’equivoco a cui accennava Kierkegaard. Il prezzo che stanno pagando per “capire” la serie del movimento è questa orribile condizione concreta, dove non vale imprecare o pregare. Fra poco ci presenteranno il conto, e pagheremo anche noi, visto che per il momento ci stanno chiedendo solo acconti. E pagheremo senza nemmeno “capire”, pagheremo esclusi dalla comprensione, con qualche straccio per nascondere le nudità.

Fino a quando non ci trasformeremo in un vento freddo.


Trieste, 1° giugno 2000

Alfredo M. Bonanno

Il ripristino degli dèi

Il capitalismo nello scenario attuale

Un solo sistema economico si avvia ormai a incarnare la realtà mondiale, quello che siamo soliti indicare col nome di “capitalismo”.

Che cosa si celi sotto questa etichetta di cui tutti, in un modo o nell’altro, facciamo uso, noi rivoluzionari per esecrarlo (quasi mai per conoscerlo nei suoi reconditi funzionamenti), i suoi sostenitori per osannarlo, non è facile dire.

Alcuni elementi che caratterizzano un sistema economico con queste peculiarità sono: a) La predominanza del sistema giuridico della proprietà privata. b) L’incidenza del ruolo del consumatore nel dirigere in effetti le linee produttive, cioè nell’imporre le sue scelte e quindi nel determinare ciò che va prodotto. c) La presenza di unità di produzione, chiamate imprese, più o meno in competizione in un ambito (chiamato mercato) di dimensioni ridotte o addirittura “globali”, in altre parole in condizioni di scambio generalizzate a livello mondiale o circoscritte a piccole zone geografiche di influenza. d) Il ruolo fondamentale svolto dal lavoro salariato. e) La primaria importanza del settore industriale.

Non appena si osservano meglio questi pochi punti di riflessione ci si accorge che qualcosa non funziona.

Ho parlato prima di “sistema economico”, e questo è discutibile. Non è infatti unanimemente accettato che oggi [2000] esista, a livello mondiale, una struttura correlata avente questo scopo, non esiste nemmeno una rete di strutture a livello nazionale o internazionale avente lo scopo di legare insieme elementi produttivi con idee e obiettivi diversi. Non ci sono istituzioni politiche, sociali ed economiche fornite di una struttura sufficientemente forte per sostenere un ruolo come questo. Quello che manca nell’economia, a livello globale, quindi nelle diverse modulazioni in cui il fenomeno produttivo si presenta, è una costante interazione e interdipendenza. Se si vuole a tutti i costi parlare di “sistema economico”, resta soltanto qualcosa che si fonda sull’eterogeneità e sulla complessità, sul rischio e perfino sul caos.

Riguardo la proprietà privata non esistono sistemi “puri”, né fra i residui di quel socialismo reale che ha ormai svuotato il cassetto delle illusioni della storia, né fra i cosiddetti Stati a capitalismo avanzato. Il capitalismo è stato sempre un sistema misto di proprietà privata e pubblica, con tutto un insieme di altri modelli di possesso che creano diritti diversi e spesso in contrasto col modello classico della proprietà privata. Oggi possiamo dire che la differenza si colloca nel grado di trasferibilità del bene di cui si ha la disponibilità, cosa che nelle condizioni nuove dell’economia tende ad essere sempre più trascurabile.

Il ruolo dominante del consumatore, nei termini in cui il consumo era all’origine della produzione, tende anch’esso ad affievolirsi. Oggi il consumatore è sempre di più entrato nell’area produttiva come elemento di contestualità, non come causa determinante. Il produttore e il consumatore stanno alla pari come “committenti” della produzione ed incidono insieme ad altri committenti sulle decisioni produttive: questi altri committenti, com’è ovvio, sono ancora gli azionisti, ma poi anche i dipendenti, i distributori, i clienti, la società nel suo insieme, le forze politiche e i diversi gruppi di pressione, di opinione, ecc.

L’identità delle singole imprese sta cambiando velocemente. Non si presentano più in modo personalizzato ma si caratterizzano per la propria crescente capacità di dare vita a collaborazioni e conglomerazioni produttive con scelte di mercato sempre diverse, tutte orientate alla massimizzazione dei profitti e alla realizzazione di un modello produttivo sempre più efficace e in grado di utilizzare al massimo i mezzi che la tecnologia mette continuamente a disposizione. Il mercato, come luogo dello scambio, quindi come luogo fisico in cui le imprese produttrici si caratterizzano nella loro capacità di trovare sbocchi al proprio prodotto, tende sempre più a virtualizzarsi. Di per sé, il mercato non è mai stato ben individuabile, anche in epoche ormai archeologiche del capitalismo, ma oggi è del tutto sfumato nelle condizioni di una realtà ipotetica, bene rappresentata dalla virtualità telematica.

Il lavoro salariato ha subìto una delle trasformazioni più radicali, per cui si presenta oggi, in una progressione sempre più intensiva, come uno dei fattori produttivi più flessibili e più adattabili alle mutate condizioni produttive della singola impresa. Scomparsa la statica pregiudiziale della professionalità, si cercano qualità diverse nel lavoratore e, nello stesso tempo, si cerca di sostituire il senso di vuoto che si è così ingenerato con un velleitario, ma ossessivo, richiamo ad una maggiore creatività, ad una sempre maggiore dedizione al proprio compito lavorativo, quale esso sia.

L’ultimo punto è ormai storia vecchia: il settore secondario (quello industriale) è diventato molto meno importante del settore che ormai tutti qualificano come quello telematico o dell’informatica. Questo settore, terziario o quaternario che lo si voglia definire, convoglia la maggior parte delle unità salariali e quindi, tenendo anche conto della frantumazione sempre più incisiva della grande fabbrica del passato e della flessibilità come progetto in atto in tutti i settori produttivi, si ha come risultato che la classe operaia, il cosiddetto nucleo duro della resistenza allo sfruttamento, il sogno e l’ideale di tanti rivoluzionari del passato, non esiste più.

Progresso

Tutto ciò costituisce un progresso?

Non è facile rispondere a questa domanda. Nella logica, e negli interessi, del capitalismo di certo sì. Ciò implica che si tratta di un miglioramento per una ben ristretta cerchia di persone, persone che altrove ho definito “incluse”, cioè inserite in una condizione sociale in cui non solo è in possesso dei singoli componenti la cosiddetta ricchezza, il che sarebbe, alla fin fine, secondario, ma in cui sono a disposizione tutte quelle opportunità di dominio che, queste sì, costituiscono l’elemento contraddistinguente la stessa “inclusione” di cui discuto.

Poiché nell’epoca in cui viviamo le caratteristiche del capitalismo sono diventate globali, cioè diffuse a livello mondiale (con alcune sbavature che qui possiamo trascurare per amore di chiarezza), ne deriva che spesso si confonde il progresso, e i relativi miglioramenti per la classe degli “inclusi”, con qualcosa che “va meglio” per tutti quanti, per l’intera umanità, cioè anche per quell’estesissima classe degli “esclusi”, la quale assume ogni giorno di più le tragiche caratteristiche della marginalizzazione, del genocidio, del massacro, dell’epidemia, della morte.

È facile capire che non c’è progresso nella miseria, anche quando agglomerati vari di strati sociali, qui e là, a macchia di leopardo, sembrano trovarsi in grado, nella loro stessa esclusione, di usufruire di alcuni vantaggi, per altro concessi inevitabilmente dai dominatori allo scopo di continuare il dominio stesso. I soggetti economici, considerati dalle analisi economiche come facenti parte di questa o quella struttura, non sono mai singoli individui, mentre a soffrire e a morire, ad essere massacrati, sono sempre singoli individui, a centinaia, a migliaia, a milioni, e questa realtà esula da ogni considerazione di tipo economico, trovandosi gli economisti ad essere delle brave persone con le mani pulite e i soldi in banca, quindi del tutto non in grado di capire cosa vuol dire soffrire la fame e morire come un insetto schiacciato da un meccanismo anonimo nemmeno comprensibile.

Che il vecchio “conflitto fra le classi” potesse produrre il progresso è stata una illusione, sposata anche da insospettabili vecchie pellacce di rivoluzionari. Oggi è tempo che ciò sparisca per sempre dall’armamentario della cosiddetta guerra di classe non guerreggiata. Non c’è bisogno di vestire meglio la sposa in epoche di magra quando le cose vanno bene per il nemico, ed è in un’epoca di questo genere che stiamo vivendo. Se dobbiamo morire è bene che lo facciamo guardandoci bene attorno ed arrecando il maggior danno possibile a chi ci sta uccidendo.

Non c’è quindi nessuna realtà in marcia verso orizzonti futuri di liberazione e di “anarchia”. Non ci sono meccanismi metafisici nella storia che governano le cose del mondo a nostro vantaggio (a vantaggio degli esclusi), ma c’è solo un cieco dibattersi di forze non controllabili, da cui trae profitto solo chi riesce a gestire meglio le proprie possibilità nella complessità delle condizioni presenti e nel loro caotico e imprevedibile sviluppo. Forse abbiamo perso troppo tempo a baloccarci su inopportune ipotesi di “processi oggettivi”, in grado di sostenere al nostro posto il peso dell’attività rivoluzionaria. È tempo di svegliarsi.

Incertezze e rischi

Una delle caratteristiche della nuova economia è l’incertezza. Non nel senso che il mondo è diventato meno prevedibile (che poi sarebbe un fatto ovvio, considerando la velocità delle innovazioni tecnologiche e quindi la relativa instabilità dei settori produttivi), ma nel senso che l’incertezza è adesso vista come elemento connaturato alla stessa analisi economica. L’economista, restando consigliere del principe, diventa pilota del mare delle nebbie.

Di per sé la scienza economica, da sempre, si era data il compito di indicare soluzioni ai problemi di incertezza e di instabilità. Essa prevedeva quello che sarebbe accaduto: fluttuazioni dei prezzi in primo luogo, e quindi permetteva agli imprenditori di adeguare la produzione, risolvendo nel migliore dei modi l’alchemico problema della commistione ideale dei singoli fattori produttivi. Oggi, lo stesso economista sembra tessere le lodi dell’incertezza. La sua scienza è lontana dalle certezze dell’equilibrio. Rimugina sogni dirigisti ma sotto l’aspetto del rischio inevitabile, del rischio e della complessità crescenti.

Dal canto suo l’imprenditore (e su questo punto la sintonia con l’operaio è quasi perfetta) insiste sulla sicurezza. L’incertezza è quanto di peggio egli possa pensare. La prudenza e la ripetitività sono ideali da cui tarda a staccarsi. E non c’è dubbio che qui siamo di fronte a vischiosità ritardanti il processo di sviluppo capitalista nel suo insieme. Non è quindi un caso che, in un mondo globalmente immerso nel rischio e nell’incertezza, il comando della produzione cerca di passare nelle mani di manager allo scopo preparati nei luoghi predisposti dal capitale stesso. Questi luoghi non sono più le università vere e proprie ma i corsi di specializzazione, i master post-laurea e tutte quelle occasioni di riqualificazione che periodicamente vengono finanziate dal grande capitale.

In effetti, la caratteristica della “nuova economia” è quindi la complessità. Le controparti dell’impresa, generalmente parlando, premono tutte in direzioni fra loro contrastanti. Il futuro vede sempre di più in atto situazioni economiche critiche, confuse, non suscettibili di essere chiarite in termini di “certezze scientifiche”, prive di soluzioni prudenti o comunque in grado di far tacere le paure degli investitori.

Non ci sarebbe nessuna “nuova economia”, ma tutto ruoterebbe più o meno attorno alle condizioni caratteristiche del capitalismo metà anni Ottanta, senza l’esplosione della tecnologia telematica. Il computer, per dirla chiara, ha sconvolto il mondo. Ha messo sottosopra l’ordine delle cose e cambiato la traiettoria di una condizione sociale verso un movimento storico che si presenta come un’onda lunga, un’onda di modificazioni destinata a vivere a lungo.

Se la macchina a vapore del passato, liberando i muscoli, produsse cambiamenti impressionanti (il capitalismo, la classe operaia, il socialismo, il colonialismo, ecc.), il computer, rimpiazzando il cervello, si appresta a provocare trasformazioni molto più radicali e irrecuperabili. Fin da subito i cambiamenti visibili non si limitano al contesto economico ma si allargano a quello politico, alle motivazioni ecologiche, ai valori sociali, alla cultura e alle stesse capacità individuali.

La nuova epoca in cui siamo entrati è caratterizzata dal computer in quanto tecnologia in grado di realizzare il trasporto immediato di dati immateriali. Lo sviluppo, l’interconnessione, la proliferazione di queste reti di legami elettronici, di cui Internet costituisce il nucleo iniziale ma di già significativo, sono gli elementi di una grande modificazione in corso. Tutto ciò, dal punto di vista degli interessi capitalisti che vi sono in gioco (sotto alcuni aspetti non si tratta della totalità degli interessi possibili, restando ancora visibilmente a lato gli interessi del controllo politico e dell’ordine pubblico), costituisce la “nuova economia”.

Sotto, nel livello sotterraneo degli esclusi fra gli esclusi, le ineguaglianze ingigantiscono, creando vuoti pazzeschi, inimmaginabili, tanto da fare pensare a qualcuno che questa apparente prosperità della “nuova economia” sia sostanzialmente fragile e che tutto potrebbe saltare per aria da un momento all’altro.

Microglobalizzazione. La produzione

A livello della produzione, la condizione generalizzante del mercato non genera tutte quelle condizioni favorevoli che sulle prime sembrerebbero a portata di mano. Le stesse innovazioni tecnologiche sono utilizzabili solo attraverso il filtro delle grandi imprese oligopolistiche, e queste ultime solo in teoria sono sempre all’avanguardia nell’impiego dei prodotti tecnologici avanzati.

Ne viene fuori la strana contraddizione che la tecnologia sfonda proprio dove rende di meno, tardando poi ad essere applicata proprio in quelle zone portanti del capitale che sono le grandi imprese multinazionali. Al momento in cui qui viene impiegata a pieno ritmo, di già ci sono nuove innovazioni che premono alle porte.

Il fatto è che non esiste più la prospettiva di una specializzazione nel ciclo produttivo. Ogni impresa è essa stessa diventata flessibile, si adegua, si trasforma. Lo scopo di ottimizzare la produzione non è quindi più interno allo stesso ciclo produttivo, ma è diventato una variabile esterna, dipendente da scelte che sono spesso fuori della logica produttiva stessa e, ancora di più, di una logica della ricerca del prodotto di qualità, diretto a conquistare fasce del mercato sempre più ampie.

L’impresa vive la propria microglobalizzazione ricercando soluzioni di profitto, cioè guadagni multiformi, e realizza questo scopo diversificando la produzione, saltando da un settore all’altro, settori a volte lontanissimi tra loro. Ne deriva che non può sfruttare al massimo le stesse risorse tecnologiche, le quali a volte diventano soltanto un’operazione di cosmesi produttiva.

La qualità produttiva

Al momento della crisi del taylorismo, cioè a metà degli anni Ottanta, la soluzione classica prospettata – divisione rigida tra esecuzione, progettazione e controllo – faceva di già acqua. La produzione, diventando sempre più complessa ed articolata, aveva bisogno di soluzioni differenti. Nasceva così il programma della “qualità totale”. L’industria veniva divisa in settori, ognuno dei quali era considerato “cliente” dell’altro settore, e quindi il settore che riceveva il semilavorato lo sottoponeva a controlli come qualsiasi altro prodotto acquistato da un fornitore esterno. Si spezzava in questo modo la coesione operaia, la solidarietà di classe che spesso nascondeva i difetti produttivi per non danneggiare il compagno di lavoro, e ci si avviava verso quella diversificazione dei settori produttivi che ormai è regola dappertutto.

Oggi questo periodo può dirsi concluso e siamo alle soglie di un nuovo periodo che si affaccia con una grave domanda, piena di implicazioni minacciose per il capitale: ma la qualità è stata ben considerata in tutti i suoi possibili criteri applicativi, nei suoi parametri di giudizio e nel suo stesso concetto basilare?

La risposta è no, e qui si apre un diverso settore in cui la “nuova economia” non è certo avara di suggerimenti.

Ciclo produttivo e consumatore

Collegando direttamente il consumatore alla produzione – cosa ormai resa possibile dalla gestione telematica dell’impresa – fra i tanti aspetti modificativi per il capitale c’è anche quello della qualità. La gestione delle risorse, le compatibilità ambientali, le stesse scelte di investimento vengono sottoposte alle decisioni del consumatore in maniera diretta. Non è quindi più un problema di “buon funzionamento” del prodotto, ma la qualità si è allargata con l’ingresso del consumatore nell’area produttiva.

Se le industrie producono oggetti con nessun difetto di fabbricazione, questi stessi oggetti pur essendo di ottima qualità non verranno accettati dal consumatore, programmatore della produzione con le sue scelte in tempo reale, se nello stesso momento le città saranno intasate dal traffico, la televisione produrrà orrende paccottiglie, l’aria sarà irrespirabile e tutti quanti saranno più o meno sull’orlo di una crisi di nervi.

Non è quindi più possibile parlare di prodotti perfetti dal punto di vista tecnologico se nello stesso tempo non si parlerà degli incidenti sul lavoro, dell’inquinamento, del cattivo funzionamento della democrazia, ecc. Il consumatore non è il produttore classico, non è l’operaio e non è nemmeno l’azionista, propone una istanza diversa e si potrebbe muovere con malagrazia nel palazzo produttivo, potrebbe cioè portarvi istanze che il capitale deve ancora fare proprie fino in fondo. Cosa che, almeno per il momento, non ha fatto.

Costruzione del desiderio

Non è più un problema di pubblicità. Non lo è a tal punto da far pensare ad un tramonto della pubblicità indifferenziata, com’è quella che ci assilla quotidianamente oggi. L’era della pubblicità personalizzata è alle porte, potrebbe arrivare quella della pubblicità individualizzata.

Lo scopo: costruire il desiderio. Ma cos’è il desiderio? Una buona definizione lo chiarisce come un pensiero vago (o una serie di pensieri imprecisati) che è stato vestito da concetti precisi al punto da farlo diventare qualcosa di più dettagliato, cioè un bisogno. Oggi, ad esempio, la pubblicità cerca di ingenerare un bisogno, strategia che potrebbe essere fallimentare per i futuri destini del capitale.

Il suggerimento di un desiderio è invece qualcosa di più complesso, per l’appunto non può limitarsi all’oggetto specifico, e neppure vantare le sue qualità specifiche, le sue perfezioni produttive, tutto ciò potrebbe non essere sufficiente, deve quindi allargare il campo d’intervento, suggerire connessioni, anche vaghe, relazioni con sistemi complessi riguardanti la condizione sociale nel suo insieme. A questo livello ritornano pressanti le antiche perplessità avanzate decenni or sono sulle capacità del capitalismo di recuperare e rendere efficaci nei vari settori produttivi quelle rivendicazioni ambientali che vanno sotto il nome di “ecologia”. Ci stiamo avvicinando.

Macroglobalizzazione. La fabbrica delle opinioni

Per ottenere questi scopi, in particolare l’inserimento del consumatore direttamente nel ciclo produttivo, occorre che egli possieda determinate opinioni e non altre.

La fabbrica delle opinioni è l’industria forse più importante, o che tale si avvia ad essere. Essa produce quella merce che è indispensabile al funzionamento non solo dell’economia, ma anche della politica democratica. Che oggi si possa ancora mantenere questa distinzione è faccenda discutibile, come vedremo più avanti.

Le opinioni sono notizie polverizzate, dissociate fra loro, prive di una connessione di metodo, sfornite di un qualche scopo progettuale di tipo culturale. Le opinioni si ammassano come le patate in un sacco, fanno peso ma non spostano di una virgola le capacità di giudizio di una persona.

Le opinioni sono fornite dai fatti, questi sono considerati “avvenimenti”, cioè non soltanto qualcosa che accade ma che può anche essere fatto accadere. In questo modo si costruiscono le condizioni migliori perché dal fatto, trasformato e presentato come “avvenimento”, si possa trarre l’opinione voluta in anticipo.

È chiaro che gli avvenimenti si costruiscono, diventando tali attraverso un’opportuna elaborazione dei fatti. Il supporto dei vari “avvenimenti” è così il solo approccio al mondo che il cittadino medio possiede, la sola fonte di “cultura”, il cordone ombelicale con l’esterno. L’attesa viene costruita in modo che l’avvenimento possa presentarsi come il soddisfacimento di un bisogno, il bisogno, a sua volta, viene costruito attraverso l’alimentazione del desiderio, il desiderio attraverso l’opinione stessa: il cerchio si chiude.

Di regola, le strutture istituzionali deputate alla produzione delle opinioni sono: il sistema della grande e media informazione, la scuola a tutti i livelli, il sistema del tempo libero e, marginalmente, il sistema culturale vero e proprio. I grandi giornali, le televisioni, i periodici, e una certa produzione libraria assolvono al compito principale di fare piovere sulla testa (non nella testa) degli utenti il maggior numero di notizie. Non occorre che queste siano selezionate con un qualsiasi criterio, né orientate politicamente, né afflitte da tediose pregiudiziali ideologiche. Faccende d’altri tempi. Quello che conta è la loro produzione continua, ininterrotta. La scuola lavora più a fondo. Fornisce livelli culturali bassi, scarsa professionalità, ma considerevoli doti di adattabilità, flessibilità, capacità manuali e visive, tutte conoscenze generiche per lo più scompagnate e superficiali. Crea così un cittadino medio, sufficientemente ignorante per credersi colto, sufficientemente abile per essere impiegato in settori produttivi in cui si richiedono solo alcune specifiche abilità manuali e di attenzione. In grado perfettamente di adempiere ai propri compiti democratici, votando al momento opportuno senza nemmeno il problema di riempirsi la testa con chiacchiere ideologiche ormai fuori del tempo. Il sistema del tempo libero mima un mondo quale dovrebbe essere, un mondo in cui i buoni trionfano sempre e i cattivi vengono puniti, costruendo (o dando il suo contributo alla costruzione) un articolato supporto morale che, in assenza di idee morali, serve come cuscinetto per attutire gli urti della vita. Il sistema culturale vero e proprio, intendendo (non so fino a quale punto e con quale fondatezza) con questo termine la produzione di libri, studi e ricerche anche a livello universitario, serve a chiudere le eventuali falle e a fare apparire il tutto come un qualcosa dotato di omogeneità e significato.

Economia e politica: il cerchio chiuso

Resta da dimostrare che la filosofia liberista, la quale sembra sostenere la “nuova economia”, possa andare d’accordo con la filosofia politica su cui si fonda il criterio democratico di reggimento del potere.

In effetti, l’economia, anche nella fase che stiamo esaminando, non appare una forza in grado di indirizzarsi verso una efficace ridistribuzione di benefici, onde gli esclusi potrebbero emanciparsi “legalmente” dalla loro condizione di servaggio. Al contrario, tutto lascia prevedere che questa condizione di separazione si incrementi e radicalizzi nella costruzione di un “muro” culturale di tale efficacia da rendere incomprensibile il linguaggio degli inclusi e quindi tutti i loro desideri.

Nessuna autoregolamentazione spontanea appare nei meccanismi economici che stanno venendo alla luce, né la traduzione dei princìpi liberali del passato in termini di modernizzazione degli apparati e dei metodi produttivi la lascia intravedere come probabile soluzione futura.

In queste condizioni la democrazia diventa sempre meno uno strumento praticabile. L’angoscia generalizzata degli esclusi non può soddisfarsi in termini di “partecipazione” alle faccende dello Stato, alle possibilità teoriche fatte intravedere, quando queste possibilità sono illusioni inaccessibili come tutti i sogni ad occhi aperti.

Anche mettendo da parte il velo della freddezza analitica, che di solito mi coglie quando parlo di problemi politici, non credo ci sia qualcuno disposto ad ammettere che la democrazia, come la si vede oggi all’opera, sia pure nei suoi processi di modificazione, non racchiuda tanti difetti da destare altissime preoccupazioni. E lo stesso per tutta la teoria politica più recente. Manca in essa, su questo argomento, qualsiasi indicazione operativa. Niente è fatto da parte del potere per combattere seriamente il disincanto e la disaffezione che i cittadini dei paesi più avanzati stanno da decenni coltivando verso le rappresentazioni politiche. E, di certo, le cadute di tensione ideologiche non hanno contribuito ad aumentare la passione per la vita pubblica o per i problemi dell’organizzazione politica degli Stati. Questo per dire le cose come stanno, a prescindere da una qualche posizione di parte.

Non c’è in alcun modo, né mi sembra sia stato da qualcuno suggerito, un nesso indissolubile tra nuova economia, capitalismo avanzato e democrazia. Non si tratta di elementi armonici tra di loro. Forse si potrebbe parlare di vera e propria antitesi, ma non ne sono tanto sicuro.

In effetti, il cerchio sembra si stia chiudendo: la democrazia, incerto e problematico modo di governare, assicura metodi di gestione del potere sufficientemente adeguati alle condizioni di incertezza e problematicità che caratterizzano l’economia. Due condizioni simili si attirano reciprocamente. Ma solo per il fatto che si attirano è forse vero che si integrano perfettamente a vicenda? Questo non è possibile dirlo.

Il ruolo dello Stato nazionale

Ridotto, naturalmente, in ossequio agli interessi economici degli USA che, al momento, rappresentano lo Stato guida e possiedono la moneta guida degli scambi internazionali [2000]. Com’è allora che per più di due secoli il capitalismo è stato il riflesso degli Stati nazionali, e soltanto quando questi ultimi si sono rafforzati e centralizzati si è potuto osservare un suo sviluppo massicciamente efficace?

La risposta sta nei cambiamenti e nelle profonde ristrutturazioni del capitalismo, nelle sue più recenti vicende, nei modi nuovi in cui si propone la produzione oggi, nelle particolari interconnessioni delle strategie produttive, ecc.

Siamo con questo in una situazione postnazionale? Non sembra. Le pretese universalizzanti del capitale sono appunto tali, cioè delle pretese. Va bene che esso penetra negli angoli più reconditi del mondo e quindi fissa le direttrici di un sistema globale, ma ha bisogno del partner statale, sia pure come uno dei suoi interlocutori produttivi.

Per il momento questo partner sta fisso nella dimensione nazionale, per quanto movimenti di superamento, come quelli relativi alla comunità politica europea, non possano essere semplicemente messi da parte. Essi esistono e forse avranno le loro ripercussioni negli scenari politici del futuro, ma oggi lo Stato nazionale continua a svolgere la sua funzione di ritardare gli sviluppi del capitalismo in senso strutturale troppo avveniristici, e facilitare invece i ritardi nelle parti meno adeguate dello stesso sistema capitalista, e ciò allo scopo di evitare contrasti sociali che si potrebbero tradurre in un’accelerazione della resistenza o dell’attacco da parte degli esclusi. Il ruolo dello Stato è, ancora una volta, quello di regolatore della contesa sociale e, per quanto questa possa essersi modificata, non ci sono ancora i termini per potere affermare che possa essere regolata direttamente in base ad accordi estranei ai problemi di ordine pubblico in senso stretto.

Il poliziotto continua ad avere la sua parte nel mondo di oggi.

Appiattimento dei valori: negazione dell’individuo

Viviamo in una condizione sociale che propone la corsa alle possibilità del futuro. Da ogni parte ci sono appelli alla creatività, alla produttività, all’impegno, ma anche alla libertà e alla tolleranza. Le mitologie del passato, spesso basate su stupidaggini belle e buone, sono state lestamente sostituite con le mitologie del presente, basate anch’esse su stupidaggini della medesima portata.

Il fatto è che non possiamo reperire idee forti, giudizi veri e propri, criteri di orientamento reali in una società fondata sull’opinione. L’individuo viene così schiacciato al minimo comune denominatore di una partecipazione appena adeguata, mentre la forza che potrebbe arrivargli da un sistema di idee concretamente diretto a trasformare la realtà in nome della libertà, della giustizia, della verità, è scomparsa del tutto. Non che questa forza sia mai esistita nel pieno delle sue capacità, ma in passato, qualche volta, sia pure nel corso di sommovimenti sociali violentissimi, essa appariva, chiara in pochi, spontanea in molti, ed erano giorni duri per il potere.

Oggi il meccanismo razionalizzante ha messo a tacere le ragioni del cuore, l’irragionevole bisogno di distruggere tutto quello che ci sta davanti e che ci opprime con la sua sola presenza. Siamo diventati troppo armonizzatori, troppo parolai, e, quando non siamo tutto questo, ci accontentiamo di essere terribilisti solo a parole, uno squallido immondezzaio e un deprimente chiacchiericcio da ubriachi.

Chiamato al consumo in quanto produttore e alla produzione in quanto consumatore, il produttore-consumatore si sente possessore di una sorta di neo-cittadinanza. Catturato nel modello telematico, non può uscire dal gioco senza spezzare in modo radicale i vincoli che lo legano al suo stesso essere “escluso”, cioè fatto fuori nel momento che viene integrato in un sistema che lo programma come eterno subalterno consenziente. Alle sue spalle un vero e proprio esercito di altri esclusi, nei riguardi dei quali soltanto la repressione chiara e tonda è modello di riferimento, preme perché l’accettazione sia assistita dai sentimenti di riconoscenza e di soddisfazione. Il neo-cittadino non è più un individuo ma uno stile, un qualcosa di prefabbricato, un condensato di apoliticità vissuta in modo politicamente corretto, uno spettatore vita natural durante.

Ogni significato sta per essere svuotato di ogni contenuto e ogni contenuto si presenta ormai privo di significato.

Il concetto di debolezza

Deboli lo siamo in quanto ci siamo convinti di essere deboli. Hanno fatto di tutto per convincerci di essere deboli e ci sono riusciti. Ci aggiriamo adesso alla ricerca di una giustificazione.

Essere deboli è conveniente alle nuove aspettative del capitale che si basano appunto sull’assorbimento degli urti produttivi determinati dall’incertezza e dalla problematicità sociale, sul variare di produzione, sulla flessibilità, sull’adattabilità. Resistere, nelle condizioni di “concorrenza indiretta” che si stanno costruendo nell’ambito del mercato fantasma della nuova economia, significa farsi rompere in due. La regola essenziale è la sopravvivenza del più adatto, e il più adatto non sempre è il più forte. A volte, come nel caso nostro, è proprio il più debole.

Riflettendosi nella politica, questo portato ideologico dell’economia suona più o meno come un invito alla tolleranza, al rispetto delle minoranze, all’antirazzismo, insomma alla riduzione all’assurdo di ogni vera contrapposizione contro l’oppressione, lo sfruttamento, la ghettizzazione, la schiavitù. La democrazia tinge con i colori del pluralismo una sorta di dittatura indiretta, camuffata sotto l’aspetto dell’appello alle urne, del possibile dissenso, delle varie libertà, del comune vivere civile. Imparare ad essere sottomessi è buona scuola anche per gli inclusi. Questi non possono inalberare l’albagia del ricco proprietario del passato, non possono per due motivi: primo, perché, per il momento, gli esclusi riescono ancora a “capire” quello che loro stanno difendendo, secondo, perché la difesa stessa è necessaria. Per il momento. Quando la separazione sarà definitiva, e i desideri costruiti altrimenti, rendendo incomprensibile il modo di vita degli inclusi, tutto sarà diverso (ahinoi!).

La sollecitudine verso il più debole e l’indifeso prende così le forme del “volontariato”, una delle soluzioni più intelligenti per organizzare in modo indolore, e spesso fondato perfino sulla buona fede, una specie di “milizia” in difesa dei sacri valori della democrazia. Sanfedismo e putridume laico sono insieme installati sotto la medesima insegna. Fare qualcosa per gli altri nasconde il vuoto del non sapere cosa fare della propria vita, dell’accettare quelle piccole concessioni che fanno della vita di ognuno un’anticamera della morte: un buon lavoro, una casa, una famiglia, dei figli, vacanze in luoghi più o meno esotici, una pensione, l’ultimo viaggio al cimitero.

La gestione globale del caos economico

È quello che accade mentre, sponsorizzato alla superficie, viene costruito il progetto di un’autoregolamentazione dell’economia attraverso il mercato.

Non esiste nessun meccanismo metafisico che ci guida, inconsapevoli automi, verso il progresso e, allo stesso modo, non esiste nessun fantasma ideologico che regge le sorti dell’economia. Il mercato stesso è una sorta di fantasma, tanto vecchio da risultare ormai ridicolo. Non c’è una gestione globale dell’economia, almeno non secondo certe regole, non ci sono queste regole, non le si può conoscere, né le si può confutare. Per alcuni sono semplicemente articoli di fede. Ma non basta la fede per reggere l’economia.

Molti affermano che la nuova economia si basa su di una maggiore libertà di scambio, a livello globale. Sotto alcuni aspetti questo è vero, almeno riferendosi agli schemi del capitalismo concorrenziale vecchia maniera. Adesso non ci sono più i meccanismi feroci che espellevano dal mercato in base alla produttività marginale, ma esistono veri e propri cacciatori di teste, e questi si annidano nei meccanismi della borsa, nella gestione dei tassi di sconto, nei fondi monetari internazionali.

Da parte sua il nuovo consumatore-produttore è costretto ad aderire allo schema proposto (ci sono dappertutto imbecilli che cantano le lodi delle nuove tecnologie telematiche che permettono questa situazione), non può farne a meno. Deve cioè acconsentire alle cause che attutiscono i conflitti sociali, permettere che la pace sociale venga filtrata non solo attraverso i meccanismi statali di controllo e di reperimento del consenso, ma anche attraverso i più classici processi produttivi, quello delle merci tradizionali in primo luogo (per quanto quest’ultimo settore sia in netta diminuzione d’importanza).

Ancora una volta l’economia nuova, col suo nuovo “mercato globale”, pur nella sua inesistenza e inconsistenza, produce conseguenze atroci: disoccupazione, povertà, schiavitù, diseguaglianza, ingiustizia, morte. Accorte operazioni di fusione e destrutturazione a livello internazionale, se appena le si scalfisce un poco nella loro vernice informativa in cui sono state avvolte, appaiono per quello che sono: speculazioni ordite da assassini, spaventosi massacri di gente inerme in qualche altra parte del mondo, sofferenze, cinismo di potere, ecc.

Controllo

Le regole del controllo sono anch’esse sottoposte ad una continua modificazione. Dal controllo di un soggetto considerato passivo, il quale può uscire fuori dalle regole fissate preventivamente, si sta passando al controllo di un soggetto attivo che è esso stesso elemento del controllo.

Tutto parte a monte, dalla formazione delle opinioni, e da qui scende via via a valle producendo quella classica “pioggia” delle opinioni che dà vita al comportamento adeguato del cosiddetto “neo-cittadino”. Una volta venuto in essere questo tipo di mentalità democratica, proprio in nome della tolleranza e del pluralismo, fissati i limiti invalicabili della cosiddetta legalità, non resta che raccogliere i frutti. Tutti coloro che condivideranno questi nuovi “valori”, la stragrande maggioranza, considereranno i trasgressori come dannosi alla cosa pubblica (non più definita in termini “forti”, sulle basi etiche con le quali il fascismo si gonfiava il petto), quindi isolabili, possibilmente attraverso l’azione repressiva degli organi di ordine pubblico a ciò destinati.

Il mestiere di spia è abbastanza vicino all’idea di volontariato che molti perbenisti stanno facendo entrare nel proprio cuore.

La scommessa tecnologica e la certezza della fine

In un mondo come quello in cui viviamo, nemmeno gli inclusi sanno darsi pace. C’è in ognuno di noi, di noi esclusi per fondati motivi, visto che non riusciamo a distruggere il nostro nemico, ma anche negli inclusi, un senso di generale inappagamento. Il tramonto di valori portanti, fondati o meno fondati che questi siano stati in passato, rende questa società, considerata nel suo insieme, qualcosa di friabile, di inconsistente.

In ognuno di noi si insinua così una certezza che si sostituisce alla fine delle certezze, cioè la certezza della fine. In un modo o nell’altro, questa società dovrà finire, non essendo pensabile che questo scempio, queste atrocità, questi continui tagli a quello che di umano resta ancora nell’uomo possano continuare all’infinito.

Trascorsi i sussulti millenaristi, doppiato il capo delle tempeste di un illusorio millennio nuovo da aprire diversamente, ci si rende conto che tutto continua come prima e che c’è solo la speranza che tutto possa essere revocato in dubbio da una ventata di aria fresca, una ventata rivoluzionaria.

Ma dove sono quelli che ancora trovano il coraggio di pensare la rivoluzione?

La protesi sostitutiva

Parlare di necessità è sempre più difficile. Non la necessità del meccanismo, che siamo fra i primi a rifiutare, da sempre, quanto la necessità logica degli accadimenti. Nemmeno di questo vogliamo sentire parlare, e quindi ci adeguiamo: quando ne parliamo ci sentiamo quasi imbarazzati. Molti le sparano grosse solo perché non vogliono essere confusi con il belare del gregge, ma avendo la testa d’asino non possono scoprirsi da un giorno all’altro il cuore di leoni.

Il futuro continua a fare paura. Il fatto che la scienza abbia sostituito il concetto deterministico di necessità evolutiva con quello di variabile evolutiva, di possibilità, ecc., non cambia molto questo tipo di paura. Non saranno certo le tesi indeterministiche, che ormai tengono banco in campo scientifico, a rincuorare ognuno di noi. Di fatto non rincuorano nemmeno gli stessi epistemologi che hanno sempre di più bisogno di un supporto esterno, di un “episteme” più solido del vecchio concetto di Dio.

La scienza ci parla di nuove verità, di approssimazioni e di metodi diretti a “falsificare” le teorie per renderle sempre di più adatte a spiegare la realtà. Ma cosa vuol dire spiegare la realtà se non, in altri termini, cercare di prevedere il futuro? Ogni incognita del presente nasconde una variabile futura che sconosciamo e che ci mette paura. Ed è questa che vogliamo conoscere, prevedere per garantirci contro i suoi possibili effetti negativi contro di noi.

Ecco che la verità diventa un’ipotesi per gestire il futuro, per rendere praticabile una strategia che ci consenta di adattare i nostri processi in corso al mutare delle condizioni del contesto sociale in cui ci troviamo inseriti. Non ci sono ipotesi reali che possano reggere alla lontana un compito del genere.

Tutto, prima o poi, si traduce in un doloroso disinganno.

Le trasformazioni irreversibili

Nel 1981, parlando della telematica proponevo l’analisi di tre livelli di coinvolgimento. Il primo, costituito dalla massima concentrazione dei dati in opportuni centri di elaborazione, per cui gli utenti restavano semplici soggetti passivi, il secondo, in grado di fornire all’utente, almeno a livello di linguaggio, una qualche autonomia, il terzo, in grado di fare dell’utente un collaboratore attivo, decentrando l’utilizzo delle memorie e l’impiego dei linguaggi.

Molte cose sono accadute in questi vent’anni e mi rendo conto che questa proposta è ormai superata dagli avvenimenti, però questi tre livelli indicano sempre un processo che è ancora in corso e che non è stato del tutto portato a completamento dal potere. Adesso la telematica permette un dialogo interattivo, ma solo in via di perfezionamento. Si tratterà di una proposta concreta che andrà a riempire l’orizzonte dei prossimi vent’anni, proposta agghiacciante in quanto vede l’impiego coordinato e intersignificante di televisione, telefono e computer, cosa che vent’anni fa nessuno poteva prevedere.

Solo per limitarmi ad un esempio propongo qui una riflessione sul lavoro. Le conseguenze di questo processo, nel suo pieno sviluppo operativo, diciamo tra una decina d’anni, si concretizzeranno in una più radicale esclusione dal lavoro vero e proprio, cioè dall’impiego produttivo. Gli esclusi verranno inseriti a forza in progetti e programmi che saranno soltanto riflessi del tempo libero, immagini virtuali di qualcosa che accade soltanto per loro, nell’ambito delle loro modeste capacità di comprensione, ma che per gli inclusi suonerà soltanto pantomima organizzata per tenere a bada un potenziale pericolo, nulla di più. Il lavoro potrà ridursi a qualcosa simile a un’emozione virtuale provata davanti a un gioco elettronico.

Poiché l’economia non sarà più (se non marginalmente) interessata alla produzione di oggetti veri e propri, il centro effettivo del lavoro sarà la proiezione in chiave produttiva di opinioni, di notizie, di connessioni di opinioni, di “conoscenze” adeguate a produrre altre opinioni e quindi altro lavoro, in un continuo processo interattivo incapace di fermarsi perché incapace di trovare uno scopo a se stesso.

Il produttore-consumatore sarà quindi esso stesso controllore e controllato in ogni aspetto del suo stile di vita: abitudini, desideri, fantasie, paure. Nessuna apertura all’individuo, alle sue personali potenzialità, al suo spazio personale, ma tutto dovrà per forza di cose entrare in una sorta di codice collettivo, di cui le divise degli adolescenti di oggi sono un tragico preannuncio.

Concetto di distruzione

Azzeramento del nemico, di quello che ci opprime, che ci sovrasta, che ci domina, che ci costringe alla sofferenza. Uomo o cosa che sia.

La minaccia deve essere reale, concreta, avvertirsi in modo costante come causa primaria, comunque essenziale, di qualcosa che ci rende insicuri, inquieti, angosciati, qualcosa che minaccia la nostra identità e il nostro modo di essere, comunque qualcosa che rende impossibile il processo di liberazione che si vuole realizzare per sé e per gli altri, un ostacolo fondamentale per quanto non necessariamente centrale o particolarmente significativo nello schieramento nemico.

Le paure che non possiamo eliminare sono quelle riguardanti il futuro, proprio perché nel possibile, di cui la realtà in cui viviamo sottolinea continuamente l’esistenza, tutto è possibile, anche l’evento estremo portatore del massimo danno per noi. L’avere individuato proprio all’interno della protesi più rassicurante, quella scientifica con il suo corollario tecnologico e quindi le sue realizzazioni pratiche, il massimo pericolo possibile, rende il problema della distruzione di grande importanza. Non è possibile non porlo al centro del “che fare?”.

Distruggere quello che ci opprime è quindi un passo fondamentale nella vita di ognuno di noi. Distruggere o sopportare, ma la sopportazione è tutt’altro che una virtù eroica in quanto non ci fa immuni dalle modificazioni che il nemico ci induce con la sua oppressione. Se non attacchiamo veniamo attaccati, se non distruggiamo veniamo codificati, integrati, fatti cosa sua dal nostro nemico, insomma annullati, distrutti. Se vogliamo rispondere adeguatamente alla proposta nullificante che ci viene indirizzata senza mezzi termini, dobbiamo distruggere.

Il radicamento dell’ordine

È possibile solo quando abbiamo rinunciato definitivamente a distruggere il nemico che ci occupa, che ci circonda, che ci illude, che ci razionalizza nell’ordine dominante, cioè quando abbiamo acconsentito.

Ho detto sopra che l’acconsentimento è uno stile di vita e che il produttore-consumatore è obbligato ad accettare, quindi a mettere in pratica. In questo senso il nuovo volto del consenso è meno cosciente, cioè si basa di meno su di una presa di coscienza, sia pure conservatrice, come quella che ideologicamente veniva fondata in passato: valori di patria, di spazio vitale, da un lato, valori di internazionalismo proletario, dall’altro lato. Adesso il consenso è estorto direttamente alla fonte, attraverso il medesimo sistema produttivo. Il “neo-cittadino” è consenziente perché condivide una comune assenza di valori e pretende una comune garanzia con quelle miserie oggettive che gli sono state presentate come ottimi sostituti dei valori del passato, inquinati ideologicamente, quindi da rigettare. Qua non c’è più nessuna ricerca di equilibrio o di corrispondenza, per non dire di armonia, fra le varie parti sociali. C’è soltanto il conglobamento di ogni elemento, singolarmente considerato, all’interno del processo produttivo nel duplice livello di produttore e consumatore.

Le catene che non vediamo si arricchiscono così di più vivaci colori.

La pratica contro

Attaccare per liberarsi. Formula che richiede un chiarimento sul nemico. Attaccare chi? E poi anche sui mezzi: attaccare come?

L’irreversibilità della tecnologia telematica ci mette in una inusitata condizione di chiarezza. Non c’è molto da salvare del mondo in cui viviamo, non ci sono fattori di produzione da espropriare e da consegnare, intatti e funzionanti, alle organizzazioni di lavoratori. Non ci sono nemmeno più lavoratori in senso stretto, almeno nel senso di quella compattezza di classe che una volta li caratterizzava. Tutto è stato sbriciolato e accorpato in qualcosa sempre in corso di cambiamento. Non ci sono nemmeno organizzazioni di lavoratori che abbiano, sia pure come residuo, l’intenzione di utilizzare qualcosa in una ipotetica condizione post-rivoluzionaria. Gli scenari del recente passato sono tutti cambiati. Solo la miseria resta, e questa tende ad aumentare, sempre più nascosta sotto il baluginare intermittente delle nuove regole per diventare ricchi e vivere felici.

Ribellarsi non basta. In fondo molti di noi potrebbero essere sollecitati a questa risposta immediata, come il gesto di fastidio con il quale si caccia via la mosca che ci assilla. Ma il nemico non è una mosca, è qualcosa di più complesso. Propone mille sfaccettature che tendono a stornare l’attenzione su obiettivi possibili, contro cui sfogare le proprie rimostranze di ribelle, la propria carica eversiva. Fare a cazzotti negli stadi non è la sola indicazione in questo senso. Anche una certa musica dà il suo contributo impoverendo sempre di più il gusto e rendendo possibile uno stile di vita standardizzato, stile di vita che è esso stesso un modo di acconsentire e un recupero di ogni ribellione. Forse la ribellione potrebbe ricevere una sorta di riconoscimento istituzionale proprio con l’accettazione di certe regole del gioco: picchiare i poliziotti e farsi picchiare, purché si tratti di scontri di piazza ben regolati da accordi democraticamente stipulati a priori, nessun colpo proibito e violenza a volontà. Più o meno come una partita di rugby, sport molto violento ma correttissimo, proprio perché è facile farsi male e nessuno vuole correre il rischio di contravvenire alle regole. D’altra parte, il ribelle, allo stesso modo del terribilista parolaio privo di idee e di letture, ignorante e proprio per questo presuntuoso, non cerca altro che soddisfare a breve scadenza, in un corpo a corpo o in un breve comunicato capace di tirare giù i santi dal calendario, il suo desiderio di fare a cazzotti col nemico.

La rivoluzione è altra cosa. Bisogna organizzarla per gradi, prevedere, progettare. Bisogna studiare, approfondire i problemi, valutare le parole nel loro significato, perché è con le parole, attraverso di esse, che la gente capisce o non capisce, almeno in prima battuta, perché è con le parole che le azioni diventano significative (non mi riferisco a rivendicazioni o robaccia del genere).

Organizzare e organizzarsi ma non perdere di vista l’obiettivo insurrezionale che resta quello di spingere le masse a ribellarsi, quindi di generalizzare lo scontro di classe, fare in modo che nel maggior numero di situazioni gli esclusi prendano coscienza dei meccanismi della loro esclusione e reagiscano in maniera organizzata.

Tutto ciò oggi è possibile attraverso movimenti insurrezionali localizzati nel tempo e nello spazio, capaci di prendere vita a partire da problemi specifici che la gente soffre sulla propria pelle. Gli anarchici possono partecipare e possono organizzarsi perché questa partecipazione, al momento opportuno, risulti quanto più efficace.

La risposta chiusa, quella di un intervento diretto di compagni anarchici organizzati in modo specifico, anche armato, deve indirizzarsi come strumento di “servizio” verso le varie situazioni insurrezionali, non apparire come “corpo estraneo”, più o meno specializzato, più o meno in grado di portare lo scontro al livello militare, che poi sarebbe ciò che l’organizzazione specifica armata, di per sé, considera come il solo terreno praticabile. Questo strumento, se in certe occasioni ha la sua utilità, non può averla in tutte e, a volte, quando risulta prodotto soltanto dalla fantasia di pochi compagni non in grado di fare altro, per condizioni oggettive o per incapacità propria, diventa semplicemente una chiacchiera come le altre.

La risposta aperta è quella che nel fatto insurrezionale, circoscritto e limitato, quindi nella singola “lotta intermedia”, cerca di spingere la situazione al di là del raggiungimento dell’obiettivo rivendicato, in modo da collegare diverse situazioni per uno sviluppo che dall’insurrezione passi ad una vera e propria situazione pre-rivoluzionaria. Naturalmente qui si sta parlando di movimenti progettuali, non di meccanismi deterministicamente verificabili.

Le trasformazioni del capitalismo rendono sempre più urgente una strategia insurrezionale mettendo a nudo una capacità e una forza organizzativa del capitale che molti di noi non sospettavano nemmeno. Bisogna fare qualcosa subito, attaccare subito, distruggere subito, se non vogliamo restare per sempre rinchiusi nel ghetto dell’esclusione.

Nello stesso tempo, questi stessi meccanismi illustrati prima fanno vedere che il capitale e il dominio politico, che lo assiste e ne corregge le sbavature, prestano il fianco ad una serie di possibili attacchi proprio a causa degli stessi processi di frantumazione e di flessibilità che hanno determinato le nuove condizioni produttive. Forse, in questa direzione, c’è ancora molto da scoprire, forse siamo ancora ai primi passi nei nuovi metodi di sabotaggio.

Infine l’Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista. Io penso che sia uno strumento di raccordo tra le varie situazioni di lotta nei vari paesi, strumento che può essere di grande aiuto per meglio sviluppare il futuro progetto rivoluzionario.


[Relazione di sostegno alla conferenza tenuta in Grecia nella Facoltà di Economia dell’Università del Pireo (Atene) il 5 maggio 2000. Esiste una traduzione in greco ciclostilata]

Nuovi processi di ristrutturazione capitalista

Scusate, ma io non parlo la vostra lingua, quindi c’è un problema di traduzione che rallenterà il discorso. Vorrei portare alla riflessione di questa sera un problema che apparentemente conosciamo tutti quanti, un problema che risponde alle domande: “che cos’è l’economia?”, “che cos’è il capitalismo?”. Ora, come quelle cose che tutti credono di sapere e che si trovano scritte su tutti i giornali, queste domande finiscono per riservare delle sorprese. Noi sappiamo veramente chi è il nostro nemico? Sappiamo cos’è il nostro nemico? Sappiamo dov’è il nostro nemico? Non sono sicuro che lo sappiamo bene, nemmeno io – per carità – qui si tratta soltanto di un contributo che voglio dare.

Molti di noi parlano di “nuovo” capitalismo, di “nuova” società, di società postindustriale, ma quali sono le differenze rispetto al vecchio capitalismo? La fabbrica? La produzione? La classe operaia? Soltanto queste? O c’è qualcosa di molto più sottile? Il sangue, le vene che costituivano il corpo del vecchio capitalismo sono passati nel nuovo capitalismo? Insomma, praticamente, quand’è che una cosa vecchia scompare, muore? Quando è che una cosa nuova viene alla luce? Questo per gli animali e per l’uomo è abbastanza facile dirlo, ma per le formazioni sociali non è così facile. Quindi, cosa succede? Succede che trasformazioni di già in atto non vengono affrontate con i mezzi dovuti, con i mezzi rivoluzionari dovuti. E può essere anche che mezzi rivoluzionari avanzati cercano inutilmente di colpire modelli arretrati del nemico. In fondo, il nemico è legato a certi modelli del passato, modelli mentali. Ha paura di cambiare. Pensate non soltanto alle condizioni produttive di vecchio tipo: la fabbrica, la centralità operaia, la conquista dei mercati, i processi del colonialismo, quelli successivi dell’imperialismo. Non pensate soltanto a tutto questo, ma pensate anche alla mentalità che ci sta dietro.

Il desiderio di stabilità. Questo reggeva il vecchio capitalismo, la garanzia di non perdere vecchi mercati, di conquistarne di nuovi, nel mondo occidentale, nel mondo orientale i programmi, quinquennali o decennali che fossero.

Una società controllata. Questo era un altro degli ideali del passato, una società controllata. La professionalità dei lavoratori. Ideologie forti. La libertà, la concorrenza, l’internazionalismo proletario. Tutto questo non è scomparso del tutto, perché nessuna cosa scompare mai del tutto nella storia. Tutto questo è lentamente filtrato in un nuovo tessuto. Senza che ce ne accorgiamo il mondo cambia. Spesso i cambiamenti sono più veloci della nostra capacità di reazione. I cambiamenti potrebbero quindi non essere più comprensibili se noi restassimo legati a concezioni del passato. In fondo la vecchia concezione resistenzialista, il concetto di difesa, di limitare i danni, di aspettare che il capitale entri in “crisi”, che il nemico entri in “crisi”, ecco questo concetto è sbagliato, è veramente “vecchio”.

Generalmente parlando il nemico, in questo momento, è fatto di incertezza, è costituito di incertezza. Non ha più idee forti. Non ha più ideologie forti. Ha portato l’eccezione dentro la regola. Adesso vive nel caos. Non è che cerca di sostituire la vecchia stabilità con un nuovo concetto di stabilità, più rischiosa. Semplicemente sta costruendo giorno per giorno un mondo instabile, imprevedibile. E lo sta costruendo penetrando nelle nostre teste, non soltanto nelle nostre case. Il progetto capitalista odierno non è di venderci prodotti, ma di darci opinioni. Di costruire un uomo nuovo in formato ridotto, più piccolo, modesto, adeguato perfettamente alla gestione telematica totale della società del futuro. Sentimenti, desideri, sogni, stravaganze: questi sono i prodotti che vengono venduti, costruiti e venduti.

Se noi guardiamo la società nella proiezione di una sua piccola parte non vediamo questo esattamente. Magari possiamo vedere la vecchia fabbrica, con i vecchi operai, pochi, sempre di meno, messi in un angolo del mondo, per cui un eventuale critico, potrebbe dire: “No, la fabbrica c’è sempre, la classe operaia è sempre là”. Non è così. Provate a togliere un poco la vernice che c’è sopra e troverete un uomo diverso, un operaio diverso. Provate a parlargli di resistenza. No, egli non ha nulla da difendere. Stanno costruendo un mondo di disillusi, di perdenti. E lo stanno facendo perché la dimensione separata dell’economia e della società sta scomparendo, sostituita da una sempre più forte compenetrazione. La vecchia concezione dell’economia era per definizione separata dalla società. Ora è compenetrata nella società.


Tutta la struttura della vita sociale è sostanzialmente imbevuta di processi economici, e la cosa non deve meravigliare, perché questi non producono oggetti, producono opinioni, cioè producono informazioni. Quindi la caratteristica che possiamo vedere con certezza, la caratteristica trasformativa che possiamo vedere oggi con certezza, è la produzione di informazioni.

Questa realtà sta sostituendo la concezione classica del capitale. Oggi il capitale non è costituito da flussi finanziari, da soldi, da movimenti di soldi, ma da flussi di informazioni e di gestione di informazioni e questa trasformazione è irreversibile. Io penso che nessuna cosa potrà farci tornare indietro, ecco perché in questo momento occorre non la resistenza ma l’attacco e la distruzione. Cioè, senza volere fare paragoni, la realtà della Prima Internazionale cercava soltanto di dare una coesione al lavoratore, oggi un progetto del genere, di natura resistenziale, sarebbe perdente, ma più che perdente sarebbe incomprensibile.

In qualunque modo si vede la cosa, non c’è possibile recupero rivoluzionario del resistenzialismo, in un mondo come quello in cui viviamo tutti, ormai. L’unica possibilità che ci resta è quella di cominciare ad attaccare subito, e quest’attacco dovrebbe, secondo me, essere in un certo modo organizzato. Dappertutto ci sono ribellioni in corso, c’è un senso di insoddisfazione, di malcontento, e badate che secondo me tutto ciò non è basato soltanto sulle difficoltà della vita, non è soltanto una ribellione della miseria, c’è anche quella ma spesso si tratta di una ribellione contro chi vuole imporci un futuro senza significato.

Specialmente i giovani di tutto il mondo fortemente avvertono questo problema: nessun valore, nessuna prospettiva per cui vale la pena di giocarsi la vita, nessuna idea, soltanto opinioni, fabbricate dall’informazione centralizzata, globalizzata.

Non soltanto la ribellione, che sarà sicuramente sempre più consistente ed estesa, non soltanto la ribellione che sarà sempre più grossa, sempre più ampia, ma anche un avvio verso l’insurrezione generalizzata. Nelle lotte, quindi, dove gli anarchici sono presenti, e insieme agli anarchici tutti coloro che non hanno interessi di potere, si devono poter sviluppare progetti e azioni in questo senso. L’Internazionale antiautoritaria insurrezionalista suggerisce un’organizzazione di questo tipo, cioè un’organizzazione informale, per potere estendere a livello internazionale i vari focolai di lotta, in una prospettiva di generalizzazione di questi focolai, per contribuire, nel proprio piccolo alla trasformazione della ribellione in insurrezione e dell’insurrezione in rivoluzione.

Io penso che lo scopo di un’organizzazione internazionale antiautoritaria insurrezionalista sia quello di creare delle occasioni di generalizzazione delle lotte. Questo è certamente uno scopo, come dire, di massima. Nella pratica, specialmente agli inizi, per come me lo immagino io, perché non ho un modello precostituito in testa, questo scopo potrebbe essere costituito da una serie di incontri internazionali che permetta ai compagni di differenti esperienze e situazioni territoriali, di incontrarsi, conoscersi, scambiarsi esperienze, progettare insieme quello che si può fare in futuro sul piano dell’allargamento delle singole lotte, della conoscenza delle varie situazioni internazionali, della continuazione di eventuali progetti in via di realizzazione.

Io non vedo l’Internazionale antiautoritaria insurrezionalista come un pacchetto di suggerimenti, o peggio ancora un progetto di già completo, ma lo vedo come un’idea-forza che dovrebbe essere, come dire, presente in ognuno di noi, per il semplice fatto che ognuno di noi sente la limitatezza delle cose che può fare, avverte il bisogno di conoscere situazioni che sono lontane da lui, non per la curiosità di mettere insieme conoscenze diverse, non per il piacere di conoscere compagni nuovi, perché poi l’estate successiva si possa andare da quel compagno e lui può venire da noi e scambiarci la visita, ma per discutere insieme, conoscersi e, se possibile, scegliere insieme un nemico su una dimensione più ampia ed attaccarlo.

Più volte è stata affrontata una parte di questa problematica, però si tratta sempre di sfumature che vanno ulteriormente chiarite. Questo non perché io sia in grado di chiarirle, io non possiedo nessuna formula particolare. Diciamo che, insieme a tanti altri compagni, siamo partiti da un’analisi generale della realtà che, dal punto di vista rivoluzionario, sembra renda necessaria una coordinazione internazionale.

Coordinazione internazionale ci è sembrato un termine morbido. Abbiamo quindi scelto la parola “Internazionale”.

Ma perché abbiamo pensato al concetto di Internazionale? Non certamente perché vogliamo fare la copia della Prima Internazionale. Quell’epoca è finita definitivamente perché è finita quella struttura del capitale, che rendeva necessario quel tipo di resistenza. Quindi noi parliamo di Internazionale come serie possibile di accordi tra gruppi, tra compagni che vogliono attaccare oggi il nemico. Solo di questa realtà. Quali possono essere i compagni interessati? Avremmo fatto molto prima parlando di Internazionale anarchica insurrezionalista. Perché abbiamo parlato di Internazionale antiautoritaria insurrezionalista?

Perché secondo noi, tra la parola “antiautoritario” e la parola “anarchico”, c’è una differenza. Ci sono compagni e anche gruppi e anche organizzazioni rivoluzionarie che non sono autoritarie e non sono nemmeno anarchiche.

So benissimo che questo è un terreno difficile, so benissimo che per trent’anni abbiamo cercato di operare questa distinzione, ma so anche che in strutture, in gruppi, o nella mente di singoli individui c’è il rifiuto dell’autorità, per cui ci può essere l’apertura ad un discorso chiarificatorio con gli anarchici, i quali invece sono sostenitori di un rifiuto dell’archè, cioè a dire del principio dell’autorità, sotto qualunque aspetto esso si nasconda.

Argomento, come vedete, non solo difficile, ma anche spinoso. Ad esempio, compagni che sono antiautoritari, ma si rifiutano di definirsi anarchici, che lavorano poniamo nella scuola o in altri settori della società, perché pensano di poterli migliorare, possono aprire un discorso critico nei confronti degli anarchici, i quali ovviamente non pensano di potere migliorare quelle strutture, ma soltanto di distruggerle.

E nell’ambito internazionale, estremamente ampio, estremamente vasto, che quindi copre esperienze assolutamente inimmaginabili in questo momento, all’interno dell’Internazionale, possono contribuire ad un dibattito interessante, portando le loro esperienze, che per gli anarchici sono criticabili, nell’ambito di un’esperienza comune, rendendo possibile così che ogni compagno scelga con chi relazionarsi.

Facciamo un esempio disastroso. E non lo collochiamo nel presente, ma collochiamolo nel passato, per motivi, se non altro, di evitare malcomprensioni ed equivoci. All’interno dell’IRA, quindi di un’organizzazione di natura paramilitare e di carattere autoritario, c’era una parte che si chiamava diversamente (INLA), che criticava certi aspetti dell’autoritarismo. Io ho conosciuto compagni di questa piccola componente, i quali, pur non essendo anarchici, avevano una mentalità aperta e, pur nella loro dimensione, in cui il problema della liberazione nazionale restava centrale, erano disponibili ad una discussione e perfino ad esperienze comuni.

Questa è un’esperienza mia, di natura personale. Però, per esperienze anche con altri compagni, di altre situazioni, è possibile una discussione di certi problemi con compagni che sono antiautoritari, anche se provengono da situazioni lontanissime fra loro, esperienze fatte altrove, in altri paesi, situazioni ed esperienze che da noi anarchici vengono considerate autoritarie.

Questa è un’ipotesi, un’idea, una problematica aperta che l’Internazionale potrebbe farsi carico di sviluppare. Però, nello stesso tempo, l’Internazionale ne ricaverebbe una grande ricchezza di contatti, di conoscenze, di esperienze, su cui il giudizio deve essere lasciato al singolo compagno. Nel momento in cui l’Internazionale vive la sua vita – e la vita dell’Internazionale è nei suoi meeting, nelle sue riunioni, nei suoi convegni – i compagni, incontrandosi e conoscendosi, loro e soltanto loro decideranno che cosa fare, con chi parlare, con chi fare delle cose, con chi progettare.

Per quanto riguarda l’aspetto insurrezionale le parole da spendere sono poche, perché abbiamo pensato di rivolgere questo appello a tutte le realtà mondiali con cui siamo in contatto che intendono attaccare il nemico, quindi partecipare, sollecitare, organizzare situazioni di lotta insurrezionali.

La scelta della specificità mediterranea, fin dal primo momento in cui si cominciò a parlare dell’Internazionale, non è stata accidentale, cioè non è stata dipendente dal fatto o voluta dal fatto che gli iniziatori operavano nel Mediterraneo, ma perché si pensava e continuiamo (almeno io personalmente continuo) a pensare che una enorme capacità conflittuale, un’enorme capacità di lotta, può svilupparsi a partire dalle trasformazioni sociali che si stanno maturando nel Mediterraneo, in particolare nei paesi che si affacciano nell’Est del Mediterraneo.

Personalmente continuo a ipotizzare condizioni insurrezionali generalizzate che potrebbero svilupparsi in maniera accentuata, via via più generalizzata, a seguito dell’esacerbazione, dell’estensione delle contraddizioni dell’ex-impero sovietico e nessuna di queste situazioni potrà, come nei casi dell’Albania o della ex-Jugoslavia, essere considerata come un problema locale.

Quello che può accadere in queste zone, come abbiamo visto negli anni passati e negli anni più recenti, diventa subito un problema internazionale. E noi abbiamo pensato che nelle zone più critiche dell’ex-impero sovietico possa venire alla luce un enorme laboratorio insurrezionale, problema che non interessa soltanto noi che viviamo nel Mediterraneo, ma i compagni di tutte le parti del mondo. Ecco perché pensiamo che non è affatto contraddittoria una Internazionale che si ponga come obiettivo privilegiato di inizio dei suoi interventi una parte del mondo, sempre ovviamente se tutti gli interessati sono d’accordo. E questo proprio perché il modello dell’Internazionale dovrebbe essere di natura informale. Quindi per un’organizzazione internazionale informale non è contraddittorio interessarsi di una parte del mondo da cui partire per estendere la lotta dappertutto. Mentre, al contrario, se pensate, se ci riflettete appena, un’organizzazione formalmente costituita, un’organizzazione classica, come ad esempio la Prima Internazionale, un’organizzazione di resistenza, un partito, un sindacato, nel momento che si definisce “Internazionale” in partenza deve avere sotto di sé tutto il mondo per sintetizzarlo nella singola lotta.

I due procedimenti sono esattamente contrari. Un’organizzazione informale parte dalla singola lotta per poi estenderla a tutto il mondo, mentre un’organizzazione formale deve fare il processo inverso, deve partire da tutto il mondo e sintetizzarlo nella singola lotta.

Ecco, per concludere, perché per noi resta, almeno per me, resta tuttora valida l’ipotesi del Mediterraneo come grande laboratorio insurrezionale di lotta antiautoritaria e anarchica.


[Trascrizione della registrazione su nastro della conferenza tenuta nella Facoltà di Economia dell’Università del Pireo (Atene) il 5 maggio 2000]

Dominio nella società postindustriale
Esclusi e inclusi

L’argomento suggeritomi dai compagni di Bologna per la conferenza di questa sera, dedicato ad approfondire alcuni importanti problemi, grosso modo può essere definito un argomento di natura economica, riguardante cioè problemi di economia politica.

Però io mi sono chiesto, entrando dentro questa sala stasera, se un argomento del genere può interessare tutti quanti, o almeno una parte dei presenti, e quale taglio dare a questo argomento.

L’economia politica è una “scienza” spinosa che costituisce la base, il fondamento, su cui si regge lo sfruttamento e il dominio. Cercare di capire come funziona questa scienza ha lo scopo, ovviamente, non di darci i mezzi per farla funzionare meglio, ma per distruggerla.

Difatti, spesse volte, negli ultimi venticinque anni, che sono poi tanti, e me ne rendo conto, sono tornato a parlare di argomenti di natura economica, a firmare articoli su “Anarchismo” o su altri giornali con la sigla “Collettivo distruggiamo l’economia”, in quanto, se una cosa la si vuole distruggere, bisogna conoscerla, almeno in parte, e conoscere per distruggere è a volte più difficile di conoscere per utilizzare, perché in effetti noi siamo legati a tanti meccanismi conservativi di natura personale, i quali si possono riassumere nel concetto di paura.

Noi abbiamo paura, anche i più coraggiosi di noi, anzi si dice che chi non ha paura non è coraggioso, chi cioè non ha conoscenza delle sue paure è un avventato che può, eventualmente, davanti al pericolo, o alle cose da fare, avere reazioni tutt’altro che positive. Quindi la conoscenza, e le singole scienze, forniscono, almeno ci dicono, strumenti per mettere a tacere una parte di questa paura. In fondo, di che cosa abbiamo paura? Abbiamo paura del futuro.

Guardate che ad avere paura del futuro non è solo il bottegaio, cioè a dire quello che la sera chiude la saracinesca, fa i conti di cassa e teme che il giorno dopo non vengano sufficienti clienti per smaltire la merce che ha in magazzino. Ad aver paura è anche il rivoluzionario il quale nel futuro vuole che si realizzino le sue ideologie, o le sue illusioni, o i suoi sogni, o le sue fantasie, o le sue verità, esattamente come vuole lui, come li considera nelle sue riflessioni personali.

Io sono un rivoluzionario e molti compagni che sono qua lo sono anche loro, quindi parliamo di una cosa che in definitiva tocca tutti quanti, il futuro dei nostri sogni. Spesso il presente è brutto, manda segnali negativi, come in questo momento: compagni in carcere, processi da ogni parte, condanne, ergastoli in prospettiva, ecc. E allora cosa facciamo? Guardiamo verso il futuro e pensiamo che nel futuro le cose possano andare meglio. Ma, in effetti, nel futuro le cose non possono andare meglio se non siamo noi stessi a capire come funzionano certi meccanismi, meccanismi che sono in questo momento davanti ai nostri occhi, che sono la gestazione del futuro. In fondo molti si pongono il problema di quali siano questi meccanismi. Come funziona la realtà?

Molti affermano che la realtà è costituita da distinzioni, da divisioni, ad esempio mi viene in mente la distinzione che si faceva una volta tra borghesia e proletariato. Adesso è assolutamente vietato fare una distinzione del genere. Mi viene in mente la distinzione tra chi ha i soldi e chi non li ha, tra chi è ricco e chi è povero, e mi vengono in mente anche altre distinzioni, ad esempio quella tra chi si trova inserito all’interno di una condizione di sapere, dove può attingere quelle che sono le fonti della conoscenza, e ha quindi la possibilità di utilizzare i sistemi di dominio, e chi da queste fonti, da questa condizione privilegiata, da questa cassaforte, resterà escluso per sempre. Non escluso per sua decisione (a volte non se ne accorge nemmeno), ma escluso perché il processo complessivo della realtà lo ha messo fuori gioco.

Ora, l’economia politica è la scienza che studia alcuni processi di questa esclusione. Noi pensiamo che la realtà sia fatta di sbirri e compagni e poi di una massa amorfa di persone senza testa che ogni mattina prende l’autobus per andarsene a lavorare, uomini, come dicono gli inglesi, dell’autobus di Clapham, cioè a dire i grigi, quelli che non hanno colore, quelli per cui l’arcobaleno sarà sempre in bianco e nero. Queste persone costituiscono la massa. Noi, che siamo i privilegiati che hanno capito tutto, costituiamo una minoranza, e poi ci stanno gli sbirri nelle vesti varie che possono andare dal professore fino al giudice istruttore o al capo carceriere.

Ebbene, la realtà non è fatta così, la realtà è molto più complessa perché non è costituita soltanto da uomini ma anche da movimenti, da strutture. Io vi prego di fare adesso uno sforzo insieme a me, perché questo è uno dei punti più delicati su cui la mente di tutti i compagni rivoluzionari degli ultimi cento anni si è soffermata. Da Marx a Proudhon, molte grandi menti hanno lavorato su questo problema: come funziona la realtà? Come spiegare il processo insito nella realtà?

Molte tesi si sono scontrate proprio su questo punto. Nella realtà non ci sono solo gli uomini, ma c’è anche qualcosa d’altro. Su questo qualcosa d’altro io voglio richiamare la vostra attenzione, questa sera, in particolare su alcune parole di Proudhon, quando diceva che la realtà è stata capita soltanto da Fourier, cioè da un sognatore, da un visionario, da un pazzo che scriveva di balene che dovevano guidare le navi, di capre che si sarebbero munte da sole, e di tante altre cose mai lette in nessun libro. Se leggete i testi di Fourier, insisteva Proudhon, vi troverete il segreto del movimento della realtà. Ma qual è questo segreto secondo Proudhon? Esso consiste nella scoperta che la realtà ha “serie naturali”, cioè processi naturali.

Ma cos’è la serie? Nella realtà si verificano certi fatti, apparentemente caotici e senza relazione fra di loro: un tizio si alza la mattina, prende il caffè, va a lavorare. Il rivoluzionario nella sua mente sogna di distruggere il mondo, però la mattina si alza, mette i piedi a terra, cerca di sbarcare il lunario in attesa che le condizioni di distruggere il mondo si realizzino. Il poliziotto si mette la divisa la mattina, monta la guardia davanti la banca per proteggere il capitale altrui. Tutti questi uomini insieme partecipano di una condizione che non è specifica di nessuno dei tre elementi che stiamo prendendo in considerazione.

È un movimento complessivo la realtà, all’interno del quale movimento non è facile capire cosa succede se non si fanno delle distinzioni. Ecco, la scienza, e quindi anche l’economia, che dentro certi limiti è considerata scienza anch’essa, ci aiuta a sviluppare una serie di approfondimenti. Quali sono questi approfondimenti?

È ovvio che il mio ragionamento non è ortodosso ma eterodosso, non ho alcuna pretesa di fare una lezione di economia, ma di fare delle considerazioni come potrei farle con ognuno di voi singolarmente. Ci incontriamo per strada, facciamo due chiacchiere su come è complicata la vita, su come si stanno modificando le cose che ci circondano. Ecco, ad esempio, perché oggi la produzione economica è diversa da quella di dieci anni fa, cosa è cambiato? Perché oggi la classe operaia in senso stretto, come si considerava dieci, quindici anni fa, non esiste più? Questi sono discorsi che facciamo tutti i giorni, però dare una risposta diciamo plausibile non è facile, ed è proprio quello che cercheremo di fare stasera.

Ad esempio, la struttura produttiva come era nell’Italia degli anni Ottanta, dell’inizio degli anni Ottanta: la fabbrica come luogo fisico preciso, la catena di montaggio, la produzione, avevano delle rigidità che il capitale cercava di superare. Vi ricordate la situazione degli anni Ottanta? Quelle rigidità da cosa erano costituite? Da un costo del lavoro eccessivo ed eccessivamente rigido. Un costo di produzione complessivo particolarmente rigido a causa della rigidità dei salari. Quindi sindacati che imponevano una indicizzazione salariale inaccettabile per i capitalisti, cioè a dire un salario legato all’aumento del costo della vita, non alla produzione. Il capitalista di queste rigidità si adombra moltissimo. Il suo ragionamento, dice la scienza economica, dovrebbe essere basato (teoria che adesso torna di moda) sul libero mercato. Il fatto poi che nessuno abbia visto questo libero mercato, né sappia dove sia, né come funzioni, questo non ha alcuna importanza.

La rigidità di cui sopra aveva messo in serie difficoltà il capitalismo degli anni Ottanta e aveva dato contemporaneamente la possibilità alle lotte di quegli anni, e chi le ha vissute se le ricorda bene, di stringere ancora di più alle corde la controparte con richieste che non erano più solo rivendicazioni salariali, ma si erano evolute verso richieste più razionali, più serie, andavano più a fondo, cercavano cioè di mettere in discussione lo stesso dominio dei padroni nell’ambito produttivo. Come è stato possibile che questa situazione che sembrava a metà degli anni Ottanta dirigersi verso una crisi radicale del capitalismo, come è stato possibile che quest’ultimo si sia ripreso pienamente? Come è possibile cioè che sia riuscito a fronteggiare contemporaneamente una rigidità del costo del lavoro, una difficoltà sul piano delle lotte sindacali, una difficoltà sul piano delle lotte di piazza, una difficoltà a livello di rappresentanza parlamentare e governativa? Tutte queste difficoltà sono state superate con l’ausilio di alcuni accorgimenti forniti dalla scienza economica.

Ma, chi è l’economista? L’economista non è il fisico nucleare che studia le particelle atomiche, non è il filosofo che studia le parole e i concetti, l’economista studia quei processi che nella società determinano la produzione del valore, la distribuzione e la ripartizione del valore. Ebbene, gli economisti cosa avevano detto agli spaventatissimi produttori, capitalisti degli anni Ottanta? Avevano detto: “Potete licenziare la gente, senza correre i rischi di uno scontro sociale sempre più acuto”. Perché gli economisti fornirono questa soluzione? Qui non vorrei addentrarmi in un discorso tecnico, vediamo quindi di limitarci all’essenziale. Sapete cos’è l’inflazione? L’inflazione è data da una diminuzione del potere d’acquisto della moneta, in altre parole da un aumento dei prezzi, da una svalutazione del denaro. L’inflazione è, come hanno notato alcuni economisti, endemica, cioè connaturata al sistema capitalista. Non è vero che l’inflazione può essere curata, non è vero quello che dice Berlusconi, che praticamente può garantire un milione di posti di lavoro e abbattere l’inflazione, sono chiacchiere da cortile politico. Nessun economista fa chiacchiere di questo genere, perché per quanto possano essere figli di puttana sono sempre persone che tengono a che quello che dicono abbia una certa logica.

L’inflazione, da cosa può essere determinata? Può essere determinata da un elevarsi del costo delle merci a disposizione. Perché questo elevarsi? Perché c’è una maggiore domanda, perché la gente riceve un sussidio, e così è stato all’inizio degli anni Ottanta, quando la cosiddetta politica assistenzialista forniva alle persone un sussidio, non soltanto in paesi come l’Italia, ma anche in un paese apparentemente più ricco come la Gran Bretagna. Questa politica forniva alle persone un sussidio per sostenere la domanda, cioè per dare la possibilità alla gente di comprare i beni e quindi all’industria di produrre. E tutto questo contribuiva a causare un aumento dei prezzi. Non è vero, come aveva pensato Keynes davanti alla crisi degli anni Trenta, crisi che aveva spaventato tutti, che bastava fare scavare buchi alla gente e poi farglieli riempire, dando quindi dei salari, per risolvere tutto. Errore. La logica di questa soluzione, che stasera cercheremo di approfondire, la logica della politica economica adottata anche negli anni Ottanta, era profondamente sbagliata. Non basta far fare buche alla gente e fargliele riempire, non basta il salario garantito, come tanti pseudorivoluzionari sostenevano, non basta dare sussidi per finanziare la domanda, per non fare aumentare la disoccupazione. Questa soluzione causava una situazione contraddittoria che il capitale non poteva superare né risolvere. Cioè, da un lato causava un aumento della domanda, quindi un aumento dell’inflazione, mentre dall’altro lato faceva restare costante la disoccupazione, o peggio la faceva aumentare. Come è possibile aumentare la domanda, quindi dare alla gente più soldi, e nello stesso tempo aumentare la disoccupazione? Questo è possibile, ed è il fenomeno che vediamo oggi.

Aumenta la domanda, c’è una inflazione in corso, e ciò anziché fare diminuire la disoccupazione la fa aumentare. Quindi siamo davanti ad un tipo di inflazione diversa che è tipica della nostra situazione, cioè è tipica di una situazione di trasformazione del capitale. Il capitale ha affrontato questo problema coraggiosamente. Da un certo punto di vista, secondo me, i capitalisti sono affascinanti. Non so se qualcuno ha letto le pagine di Marx sui capitalisti. Sono pagine entusiaste perché, in fondo in fondo, la mentalità del capitalista resta la mentalità del pirata, del corsaro. Ad esempio Francis Drake, il quale munito della lettera da corsa firmata dalla regina d’Inghilterra si buttava sull’Atlantico con la sua nave in attesa del primo galeone spagnolo che passava e se ne impadroniva con tanto di autorizzazione della regina.

Anche oggi non c’è una logica capitalista vera e propria, anche oggi una logica economica vera e propria non esiste. Il capitalista ragiona come faceva Francis Drake, va in quella zona, sa che in quella zona c’è la possibilità di ottenere un guadagno e si butta su quel guadagno e lo realizza. Questo certamente causa delle grosse contraddizioni all’interno del processo di sistemazione capitalista, il quale è contraddittorio, i capitalisti si scannano tra loro e tornano sempre a farlo. In questo modo, lo Stato dentro certi limiti diventa, almeno negli anni Ottanta, perché stiamo ancora parlando della situazione degli anni Ottanta, il regolatore di questi conflitti.

Lo Stato negli anni Ottanta era produttore esso stesso, non era soltanto il banchiere della produzione, ma era anche produttore in prima persona. E che cosa produceva lo Stato? Quando noi pensiamo alla produzione dello Stato non dobbiamo avere in mente soltanto qualcosa di simile all’Enel, che era statale ma ora non lo è più. Che cosa produceva lo Stato in quegli anni? Produceva pace sociale, cioè lo Stato come produttore, come azienda, come impresa che rientra nel mercato, produceva convivenza sociale, cioè riduceva o abbassava i livelli del conflitto. Per motivi che voi sapete meglio di me, questa riduzione del conflitto non può arrivare a zero perché la conflittualità persiste sempre in quanto c’è chi ha i soldi e c’è chi non li ha, tale ripartizione non potrà mai essere cancellata per decreto statale.

Quindi lo Stato sosteneva e correggeva le contraddizioni della produzione capitalista, però non poteva obbligare o garantire ai capitalisti la possibilità di modificare la loro pesantissima situazione agli inizi degli anni Ottanta, determinata da un eccessivo costo del lavoro e da una eccessiva rigidità di questo costo, ed anche da una eccessiva rigidità delle infrastrutture e delle strutture produttive vere e proprie. Pensate all’Alfasud che è stata l’ultima avventura capitalista di tipo neofordista. Per fordismo s’intende la metodologia (e anche l’ideologia) inaugurata negli anni Venti in America da Ford, che fu il primo produttore di automobili su larga scala. Il Modello T, con il suo caratteristico telaio, era fatto da una catena di montaggio, la prima automobile che uscì da una catena di montaggio. Vi ricordate il film di Charlot “Tempi moderni” che descrive estremizzandole alcune scene della catena di montaggio Ford? Ora, questa metodologia e questa ideologia, con i relativi perfezionamenti, arrivano al loro apice negli anni Ottanta, e nel momento in cui raggiungono la loro massima possibilità si esauriscono e muoiono.

Il capitale in quel momento cosa cercava? Aveva di fronte a sé la rigidità degli impianti, la rigidità del costo del lavoro, non poteva trovare mercati differenti ai propri prodotti, aveva la lotta sindacale (per quanto modesta) che lo ostacolava, aveva il cosiddetto “terrorismo” che premeva alle porte e che veniva battezzato, con ridicola parola, proprio per fare paura alla gente e quindi sollecitare provvedimenti repressivi anche sgradevoli, aveva tutta la stagione precedente che almeno da dieci anni premeva con i suoi fantasmi, la stagione delle bombe a partire da Piazza Fontana. Questa stagione cosa significava? Non dimentichiamo che il dodici dicembre del sessantanove la bomba fu messa esattamente il giorno precedente a quello in cui i chimici firmarono il contratto che spaccava il fronte del cosiddetto autunno caldo, l’unione fortissima con i metalmeccanici. Il contratto dei chimici fu firmato (allora io lavoravo nel settore chimico) il tredici dicembre del sessantanove. Quindi, mentre il capitale si trovava in una simile situazione precaria e difficile, ecco che due economisti, Modigliani e Tarantelli, il primo premio Nobel, il secondo ucciso dalle Brigate Rosse, svilupparono un teorema in base al quale veniva dimostrato possibile per il capitale ridurre l’eccessiva rigidità del costo del lavoro facendo ricorso ai licenziamenti.

La formula era vecchia e nuova nello stesso tempo: razionalizzare meglio la produzione con le macchine, fare lavorare di più gli operai, contare i tempi meglio, applicare il taylorismo e il fordismo meglio e licenziare i meno produttivi. “Non dovete avere paura a licenziare la gente”, dicono Modigliani e Tarantelli, “perché basta assicurare al paese un governo più stabile, che possa promettere un freno al pericolo inflazionistico, e la gente ha minore paura di un futuro incerto e sente meno il bisogno di un lavoro fisso”.

Questo teorema, come vedete, ha di economico ben poco. In fondo, cosa sono questi teoremi? Anche quando vengono spacciati con tante formule matematiche essi significano ben poco, qualche cosa di più di banali considerazioni psicologiche. Psicologia di massa, con tutte le conseguenze del caso. Tornando al teorema di cui sopra, esso si rivelò fondato. Cominciarono i licenziamenti. Vi ricordate, per chi lo può ricordare, la famosa marcia dei quarantamila della Fiat a Torino? Non una marcia di lavoratori, ma solo di quadri intermedi che rivendicavano la possibilità per la Fiat di operare i cosiddetti prepensionamenti e l’applicazione della flessibilità, della mobilità.

Ancora non si parlava di flessibilità. In quel momento si apriva così la soluzione del problema industriale degli anni Ottanta. L’ultima catena fissa di montaggio in cui venne applicato il neofordismo fu, come abbiamo detto, quella dell’Alfasud e si rivelò una tragica disillusione per il Meridione. Pensate che io nel 1970, trovandomi nell’Irlanda del Nord, a Belfast, mi sono meravigliato vedendo circolare le Seicento nuove di zecca. Siccome si trattava della macchina della mia gioventù la cosa mi fece una certa impressione. Cosa era successo? La catena di montaggio della Seicento evidentemente la Fiat l’aveva venduta trasferendola di sana pianta nell’Irlanda del Nord. Questo vuol dire che all’epoca modificare una catena di montaggio era un procedimento estremamente costoso, tanto è vero che si smontavano e si rivendevano.

Nel frattempo cosa è cambiato? Prima di tutto, grazie all’inserimento della robottistica all’interno della catena di montaggio, si è modificata la possibilità produttiva ed è cresciuta la flessibilità della produzione stessa. Ad esempio, se andate in un qualunque concessionario della Fiat e ordinate un’automobile di un certo valore e con certi gadget precisi, il venditore la programma direttamente. L’automobile non esiste nel deposito, è ancora di là da venire, ancora non esiste, viene programmata direttamente con un contatto diretto, in tempo reale, con la linea di montaggio che la realizzerà. Un altro esempio. L’IBM nel 1982-83 aveva accentrato la produzione e la revisione di tutti i computer (che allora si chiamavano “composer” ed utilizzavano per la stampa delle testine rotanti) a Bordeaux. Si trattava di apparecchi abbastanza consistenti che forse è improprio chiamare computer, macchine rudimentali visti con l’ottica di oggi. Le testine necessarie per l’utilizzo di queste macchine elettroniche erano depositate in Svezia, in una sorta di magazzino centrale da cui venivano distribuite in tutto il mondo. Nel caso in cui ad esempio a Bologna ci fosse stato bisogno di una testina (ne esistevano migliaia, e lo stesso per tutte le migliaia di componenti che costituitano le macchine elettroniche di cui parliamo) ci si doveva rivolgere alla sede della IBM di Bologna, dove c’era un deposito, un magazzino con alcuni computer e le relative testine oltre a diverse centinaia di ricambi. Lo stesso in tutto il mondo in cui venivano impiegate le macchine IBM. Qualche anno dopo questa situazione era radicalmente cambiata. Che cosa era accaduto? Una vera e propria rivoluzione in campo organizzativo. Di fatto vennero aboliti i magazzini e i depositi. Le testine, per restare nell’esempio, vennero diffuse in tutto il mondo, senza alcun criterio preciso, senza tenere conto di indici di consumo o altro. Non aveva più importanza se una certa testina si trovava a Milano o Melbourne. Attraverso il collegamento telematico era possibile, quando si richiedeva una testina precisa, con una data sigla, individuare immediatamente la collocazione, cioè il luogo (uno qualsiasi) dove quella testina si trovava. A quel punto partiva l’ordine e l’indomani l’oggetto, per corriere speciale, arrivava da Melbourne. Un occhio estraneo all’economia potrebbe pensare al costo del trasporto e ad una possibile convenienza della situazione precedente, nella quale la testina si trovava presso il magazzino di Bologna e veniva consegnata subito al cliente. E invece no, questa è stata una grandissima ristrutturazione per il capitale, perché abolire i costi di magazzinaggio, di stoccaggio, di fermo magazzino, di gestione del magazzino ha abbattuto del venti per cento il costo distributivo della produzione.

Questi processi di ristrutturazione, programmazione, abolizione delle infrastrutture rigide, abolizione degli stoccaggi, riduzione delle rigidità del costo del lavoro, hanno chiaramente aperto una nuova strada per il capitale e la chiave di volta di questo nuovo indirizzo è stata la telematica.

Adesso però siamo davanti ad una situazione in cui il capitale ha alleggerito di molto le sue pesantezze, le sue rigidità. Nella nuova situazione si profilano problemi differenti. Non è soltanto che la fabbrica, come era già accaduto nel corso degli anni Ottanta, e forse, per alcuni settori, negli stessi anni Settanta, si è polverizzata nel territorio, creando strutture di assistenza produttiva che si coordinano con la produzione portante o più significativa di un singolo settore, ma adesso la produzione si è polverizzata anche a livello di progettualità, anche a livello di internazionalizzazione della produzione. Ciò significa che siamo davanti ad una nuova fase completamente diversa della ristrutturazione capitalista.

Perfino alcuni aspetti marginali, ma non per questo meno importanti, della produzione capitalista rientrano in questo andamento programmatico. La Mafia, ad esempio, tecnicamente parlando, non è altro che una grande azienda che organizza la produzione della microcriminalità utilizzandola come materia prima e trasformandola in criminalità di livello più elevato. In termini economici, la Mafia utilizza una microcriminalità dispersa, che di per sé sarebbe un prodotto da definire e sempre più con difficoltà di mercato, e la mette in grado di agire ad un livello di attività criminale di tipo diverso. Difatti, i mafiosi sono quelli che organizzano processi criminali di livello molto più elevato, tali che i singoli partecipanti da soli non potrebbero mai fare. L’attività mafiosa equivale a una grande azienda o a più imprese che rientrano nell’ordine delle grandi aziende. Non è per caso, ad esempio, che in Russia una potente ondata di svezzamento, di modificazione delle regole istituzionali, cada su di una mentalità abituata a ragionare diversamente, cioè a sospettare profondamente dello Stato, per cui emergono mafie con grande facilità. Dove c’è una considerevole anomia istituzionale si può facilmente produrre una criminalità di quel tipo, organizzata. Io, ad esempio, in quanto anarchico, non condivido il processo mafioso, né come mentalità, né come fatto reale. Non lo condivido perché è un’azienda che organizza le persone. In quanto anarchico io non accetto che qualcuno organizzi qualcun altro. Ma chi, per sopravvivere o per diventare ricco, non mi interessa, sono faccende solo sue, decide di andare a prendere i soldi dove si trovano, ha tutta la mia solidarietà. L’ho fatto pure io, quindi non vedo perché non debba accettarlo. Ma non intendo accettare qualcuno che organizzi la mia “attività criminale” per arricchirsi anche lui. No, non sono d’accordo. Allora torno a fare l’impiegato di banca.

L’elemento centrale del nuovo progetto economico è qualcosa di più complesso di qualsiasi equazione della produzione, questo elemento centrale è l’uomo. L’attuale formazione economica non sarebbe possibile se noi avessimo ancora una, consentitemi, una classe operaia del genere di quella che si aveva negli anni Cinquanta. Perché questa nuova realtà non sarebbe stata possibile? Non perché quella era meglio della classe operaia o dei lavoratori di oggi, semplicemente perché era più omogenea, possedeva una migliore coscienza della propria situazione di classe e quindi minacciava risposte più combattive. Anche gli economisti e i capitalisti di una volta erano diversi. Parliamo un attimo dell’economista. L’economista è uno scienziato particolare, al limite non è nemmeno uno scienziato, è, come dire, una specie di testimone. Un grande economista tutt’altro che rivoluzionario, Einaudi, economista liberale ma molto intelligente, faceva un esempio che è bello, secondo me, diceva che l’economista è come lo schiavo del console romano che trionfava dopo una vittoria. Infatti, il console che celebrava il trionfo davanti all’imperatore passava in sfilata con un cocchio dove oltre a lui, seduto ai suoi piedi, c’era uno schiavo, e ciò per ricordare al trionfatore che la rupe Tarpea è vicina al Campidoglio, cioè a dire la rupe Tarpea, da dove si buttavano giù i condannati a morte, è a pochi passi dal Campidoglio, sede del massimo potere dello Stato.

L’economista è quindi lo schiavo seduto sul carro del trionfatore che ricorda quanto sia breve il passo tra la vittoria e la sconfitta. Difatti economisti come Modigliani o Tarantelli hanno fatto qualcosa del genere. Essi hanno detto: “Va bene che l’inflazione diventa endemica, cioè essenziale all’economia, che le crisi non sono assolutamente un fatto eccezionale, che lo stesso capitale è sempre in una condizione di crisi, va bene tutto questo, ma si deve lavorare alla trasformazione dell’uomo”.

Ora, è logico che l’uomo non si trasforma nelle fabbriche, non si trasforma per volontà o per decreto, ma si trasforma perché qualcosa cambia in quel processo di cui parlavamo prima, in quelle serie non meglio ancora chiarite di cui parlava Proudhon, in quel movimento di idee. Pensate, ad esempio, all’esplosione di energia intellettuale e vitale che fu il Sessantotto. Qualcosa esplode, avanza, dilaga, trasforma, suggerisce, propone, si chiude, si mangia la coda, si autosantifica, si vomita, diventa digestione putrida, ecco cosa è il movimento. Da una bellezza al cadavere. In fondo la vita è così, com’è bello un bambino, ma quanto è brutto un moribondo, eppure è la stessa vita, la stessa realtà, modificazioni dello stesso tipo di processo vitale. Il movimento nasce, si sviluppa, ci appassiona tutti quanti, ci giochiamo la vita, scendiamo nella piazza, ecc., poi tutto comincia a diventare un mattone, come le mattonate che sto dicendo stasera, e quindi diciamo: “Basta, per carità, finiamola”. A un certo punto tutte queste cose ci annoiano. Però nulla di tutto questo viene perso, neppure il cadavere viene perso, come non viene perso l’inizio della vita, così splendidamente piena di promesse, del bambino: i suoi giorni a venire, le sue avventure, quello che diventerà, quello che realizzerà, nulla di tutto questo viene perduto.

Ed è su questo contesto, su questo elemento vivo della vita che i soloni dell’economia si sono messi a riflettere. Essi si sono detti: “Dobbiamo cambiare l’uomo perché se non è vero che la macchina può sostituire l’uomo, in quanto l’uomo è insostituibile, l’uomo può avvicinarsi di più alla macchina”. Il più grosso computer, ad esempio quello che si realizza con i “sistemi paralleli” (io non sono un tecnico, se sbaglio correggetemi), non è in grado di affrontare frasi semplici, frasi semplici come potrebbe essere: “salsicce fatte con le mie mani di porco”, oppure “sette lancieri a cavallo della regina”, cioè frasi dette in una forma un poco involuta, una forma grammaticale in cui la specificazione è messa fuori posto. Un bambino di sette anni capisce subito che i lancieri non sono a cavallo della regina, il computer non lo capisce. Questa soglia, che normalmente dai tecnici è definita “soglia del senso comune”, è caratteristica dell’uomo. Noi abbiamo una struttura intellettuale capace di produrre processi di ragionamento di questo tipo in quantità enorme, cosa che la macchina non può fare. E siccome per far funzionare il nuovo processo di trasformazione del capitalismo occorre un impiego massiccio della telematica e delle macchine, intendo macchine collegate telematicamente, occorre ridurre la capacità intellettiva dell’uomo al livello della macchina.

Lo smembramento culturale ha determinato la scomparsa della professionalità d’impresa come era una volta, cioè della cultura che il lavoratore acquisiva sul posto di lavoro e che attraverso la sofferenza, attraverso la pena, il dolore produttivo, poteva trasformare in conoscenza di se stesso, cioè in consapevolezza di essere sfruttato e conseguentemente ribellarsi. È qua il punto centrale dove gli economisti sono penetrati, dove hanno cercato di fare breccia. Stanno creando una serie di persone che cerca altrove la propria cultura e che considera il lavoro come un fatto tra parentesi, che considera il lavoro non come luogo di sfruttamento essenziale ma come condizione di coabitazione, di partecipazione, di democratizzazione, di valorizzazione, luogo come fatto flessibile, in cui si può continuamente cambiare, ci si può mettere d’accordo con il datore di lavoro, oggi lavoro io, domani lavora un altro, oggi comincio a lavorare alle otto, domani voglio lavorare a partire dalle nove. Questi fatti che sembrerebbero non ancora all’ordine del giorno costituiscono addirittura il secondo livello del processo di trasformazione capitalista. Nel mondo sono fatti di già vecchi, di già superati da un terzo livello di cui adesso vorrei dire qualcosa, un terzo livello che era talmente rigido da essere paurosamente sul punto di crollare, un più intimo livello di flessibilità.

In effetti, la flessibilità su che cosa si basa? Essa non è soltanto il fatto di poter cambiare lavoro, la perdita per esempio di quello che si chiamava lo spirito corporativo dell’essere ferroviere, dell’essere macchinista o dell’essere impiegato al catasto, ecco, non soltanto la perdita di quell’elemento corporativo che era naturalmente anche un elemento negativo, ma essa significa anche una flessibilità intellettuale, quindi una modificazione radicale a partire dall’interno della scuola. La professionalità cambia. Nell’industria rigida, fino all’inizio del 1983, la richiesta di lavoro era in larga parte costituita da un considerevole quantitativo di persone che avevano una cultura media, la richiesta di persone con bassissima cultura era modesta e, ancora più modesta quella di persone con un’altissima cultura, cioè i dirigenti, ecc. Quindi, poca cultura equivaleva a poca richiesta, a pochi posti di lavoro, media cultura a un’enorme richiesta, altissima cultura a pochissima richiesta. Adesso la situazione è cambiata. La curva relativa si presenta con un andamento a cunetta stradale, una grandissima richiesta di poca cultura, dove per poca cultura si intende non solo il livello scolastico della quinta elementare, ma anche una cultura diciamo “sulla carta” anche superiore ma che ha perso gran parte della qualificazione scolastica tradizionale, mentre risulta costituita da professionalità acquisite, realizzate anche con corsi particolari, acculturazioni veloci, ecc. Questo livello culturale ha un’altissima richiesta, la quale poi si abbassa ulteriormente e profondamente per la richiesta di ordine medio, cioè coloro che non hanno ancora avuto modo di darsi una cultura più consistente, non altissima ma neanche poverissima, per coloro che ancora sanno ragionare, i quali oggi trovano difficoltà a trovare lavoro perché alla realtà produttiva non servono e quindi non vengono richiesti. In linea di massima quello che viene richiesto è il tipo adattabile alle mutate condizioni produttive.

Perché si sono mutate queste condizioni produttive? Perché le attuali condizioni produttive esaltano in modo particolare la capacità decisionale, cioè la capacità di chi sa prendere una decisione fra alternative limitate e prestabilite. Ecco perché in tante occasioni gli esami vengono introdotti dai quiz. I quiz misurano infatti il sapere decidere fra soluzioni precostituite e conosciute, presenti davanti agli occhi, che possono essere due o tre, non di più, misurano il sapere decidere in tempi brevissimi. Non è la creatività o l’inventiva che vengono richieste, perché di fronte alla macchina l’intervento umano è soltanto legato ai movimenti prestabiliti dalla macchina stessa, circoscritti tra tre o quattro soluzioni, mentre l’essenza, la capacità lavorativa stessa, viene ridotta all’osso al semplice saper decidere tra flessioni precostituite. È chiaro che un individuo con una personalità sua, una personalità differente con una cultura più ampia, trova meno spazio. Certo, se questa cultura comincia ad alzarsi e quell’individuo diventa uno specialista di grandissimo livello ritrova un’altra volta la domanda perché diminuisce il numero degli specialisti di questo livello, in altri termini trova un’altra volta la possibilità di trovare un lavoro.

Quindi, se noi osserviamo bene è stato modificato l’uomo. Se prendiamo in considerazione i programmi scolastici o quello che è stato modificato all’interno della scuola (non parliamo di questo argomento in dettaglio perché nella sua estensione complessiva diventerebbe un ragionamento troppo lungo), ci accorgiamo della svalutazione dei contenuti. Lo svuotamento della scuola è un fatto visibile negli ultimi trent’anni. Ma torniamo alla svalutazione della professionalità. Chi non ha più la possibilità di accedere a certe conoscenze, in un mondo in cui il dominio è assegnato alla disponibilità proprio di queste conoscenze, resta escluso, resta messo da parte, questa esclusione diventa triste perché si entra in questo modo a fare parte di quella zona grigia in cui la vita cessa di avere una qualità e diventa un fatto quantitativo, diventa soltanto sopravvivenza. Non è detto che l’escluso sia necessariamente il disoccupato o il precario, o chi non ha lavoro, questi certamente sono esclusi, ma può anche essere considerato escluso, secondo me, e quindi entrare a far parte di quella zona poco chiara e comunque triste della vita, anche chi ha un lavoro, anche chi riesce ad adattarsi a questa precarietà, a questa flessibilità, alla capacità di sostituirsi a se stesso, di crearsi i tempi via via diversi, di non avere quell’amore per le cose che si fanno, per le cose fatte bene.

Ora, l’escluso, mi si potrebbe dire, e io ho riflettuto parecchio su questo problema, è certamente un grosso serbatoio di ribellione, ed è vero. Se uno è escluso da qualche cosa si chiede perché è escluso, perché resta alle porte, perché è tenuto fuori, per cui vuole sapere quello che succede lì dentro. Ora, dal mondo dei ricchi i poveri sono stati sempre esclusi, ed è per questo che la storia, se la si guarda bene, è la storia di queste esclusioni, è la storia delle lotte ferocissime che l’animale uomo ha scatenato contro l’animale uomo, ammazzandosi reciprocamente per giustificare questa divisione, questa esclusione. Però, nell’esclusione del passato c’era una cosa che non poteva essere esclusa, una cultura comune, la capacità di capire in comune. Siccome per desiderare bisogna capire, l’escluso di una volta, sia esso il proletario, il servo della gleba e lo stesso schiavo, entro certi limiti (sulla questione dello schiavo alcuni aspetti andrebbero chiariti), desideravano le stesse cose del padrone, solo che non potevano averle. Il borghese ricchissimo, o anche il più modesto datore di lavoro di una volta, desiderava le medesime cose del proletario, solo che il proletario non aveva l’automobile (fino a quando non arrivò la Cinquecento) e il padrone aveva l’automobile, ma il concetto di automobile rappresentava un oggetto che, soddisfacendo al bisogno di muoversi senza camminare, era comprensibile anche per chi non l’aveva mai posseduto.

Questo importante concetto separa il mondo antico e medievale dal mondo nuovo, dalla storia nuova della trasformazione industriale, cioè dal capitalismo. Ora, al contrario, siamo alle soglie di un fenomeno nuovo, non è mai stato provato prima in passato, ecco perché a volte i paragoni storici sono traditori. Mi spiego meglio. I capitalisti, e con loro gli economisti, negli ultimi venti anni hanno costruito un muro, il quale muro tende a separare gli esclusi dalla dimensione del possesso, di qualcosa che essi non hanno e che invece gli inclusi posseggono, ad esempio la conoscenza o la cultura, le informazioni o la gestione delle informazioni, o meglio ancora gli oggetti di consumo. Ma possedere significa desiderare: non si desidera quello che non si capisce e se non si desidera non si possiede, o se si possiede senza desiderare è come se non si possedesse. Oggi la televisione l’hanno tutti, l’automobile in termini più o meno approssimativi possono averla tutti, quindi non è tanto la disponibilità di oggetti la discriminante, e nemmeno lo status relativo. Badate bene, tra la penna biro e la penna d’oro da due milioni c’è solo una differenza di simbolo. Seriamente parlando, il povero disgraziato escluso non può desiderare lo status della penna da due milioni anche perché quello status a poco a poco si sta allontanando da lui e finirà per allontanarsi tanto da diventare incomprensibile. Cioè, se non si possiede la cultura per capire il gusto, lo stile, il valore, la classe di un oggetto da due milioni, non lo si desidera, basta la penna biro, scrivono ambedue.

Se osserviamo l’attuale processo di svuotamento culturale, vediamo che una parte consistente della popolazione, che io identifico nel concetto di esclusi, viene sottratta sempre più alla capacità di capire, per cui, in questo modo, le si sottrae la capacità di desiderare, e per chi non desidera più non ci sarà più ribellione.

Capite cosa è successo? Prima chi possedeva possedeva oggetti, adesso chi possiede possiede conoscenza. Il capitale finanziario, cioè i soldi intesi come circolazione non solo di banconote ma l’insieme dei mezzi di pagamento, diventa sempre meno importante nel capitalismo nuova maniera, per cui andrà via via a scomparire. Esso sarà sostituito dalla disponibilità di informazioni, dalla disponibilità di conoscenze. Questo concetto è in questo momento per noi poco comprensibile, anche per me è poco comprensibile, c’è una mentalità all’antica, come si suol dire, che è difficile smuovere, però riesco a capire che i soldi saranno sempre dei ricchi, quello che cambierà, e sta cambiando, è il fatto che la differenziazione di classe, con tutte le sue conseguenze, non sarà più soltanto una questione di miliardi, ma una questione di conoscenza.

Ora, se la conoscenza viene racchiusa, selezionata e gestita solo dai dominatori, e se questa conoscenza è essenziale al dominio, finisce per diventare incomprensibile per i dominati. Alla fine questi ultimi non riusciranno a capire, non avranno più i mezzi per capire, quindi non sapranno cosa desiderare, oppure riusciranno a desiderare solo quello che verrà loro suggerito attraverso il meccanismo di formazione delle opinioni, e non desiderando altro da quel suggerimento non si potranno ribellare. Allora, tra i dominati e i dominanti, fra gli esclusi dominati e i dominanti inclusi si sarà alzato un muro costituito dalla conoscenza sottratta, dalla conoscenza resa inaccessibile, un muro invisibile.

Questo muro non sarà come il muro del carcere con la guardia che passeggia nel camminamento, per cui uno la vede e sa dove sta il nemico, dove sta il limite, da un lato c’è la libertà e dall’altro lato c’è il carcere. Certo, anche questa chiarezza è stata da sempre un concetto relativo, l’individuazione del nemico è faccenda molto più complessa e difficile, ma uno che è in galera ci crede, crede che è così, perché è una cosa visibile, mentre il muro di cui stiamo parlando non è visibile. Più si svuota dall’interno il processo di conoscenza, più diventa impossibile per gli esclusi capire che cosa desiderare, e meno si desidera, meno ci si vuole ribellare, meno ci si vuole impadronire delle possibilità di capire la realtà. Ecco perché parlavo della seconda fase di una profonda trasformazione del capitale. Ma c’è anche una terza fase, e così concludo.

La terza fase qual è? L’escluso deve essere cooptato dentro, non dentro il castello dove sono gli inclusi, quello deve restare protetto, ma cooptato all’interno del processo produttivo. Questo processo che prima era rigido si è allargato ed è diventato flessibile, ha incrementato il movimento di esclusione. Ed ecco la figura dell’escluso, del produttore escluso, escluso dal dominio, escluso da ogni tipo di decisione, escluso anche dalla propria decisione operativa sul lavoro, nientificato, ridotto ad una nullità molto vicina alla macchina, immesso massicciamente in quella zona grigia in cui c’è solo una sopravvivenza punteggiata da quelle piccole parentesi che si chiamano vacanze a pagamento, viaggi prepagati per chi se li può permettere, tutta una serie di esclusioni che però non è sufficiente per chiudere la partita. Il capitale adesso la vuole chiudere, la partita.

Le ultime teorie capitaliste si sono accorte che c’era una figura che restava fuori dal processo di esclusione, che svolgeva la sua funzione solo mantenendo una connessione col processo produttivo. Era questa la figura del consumatore. In effetti il consumatore, in quanto elemento propulsivo della domanda, della richiesta di merce, condizionava il processo produttivo. Pensate alla funzione della pubblicità, essa cos’è? Una grande opera di pressione psicologica esercitata sulla domanda per chiedere l’oggetto, per poterlo vendere. In questo modo l’economia capitalista risultava scoperta, affidata alle decisioni di questo personaggio poco conosciuto. Le teorie più moderne si stanno indirizzando verso una cooptazione del consumatore e gli stanno suggerendo: “perché non vieni con noi, perché non ti inserisci nella grande famiglia telematica che chiude il cerchio?”. Ad esempio, tu vai al supermercato, prendi il tuo carrello, fai la spesa, ora non c’è più bisogno di fare ciò perché questo lavoro lo puoi fare da casa tua, perché tramite il computer tu da casa tua puoi prendere il carrello, andare al supermercato, prendere la merce dagli scaffali, metterla nel carrello, andare alla cassa, chiedere lo scontrino fiscale che ti esce con la tua stampante e poi la merce ti viene consegnata a casa. Questo, che sembra una banalità, un gioco da appassionati di computer, invece è il punto verso cui tutte le forze economiche più avanzate (la terza fase del capitale) si stanno indirizzando. In altre parole, il capitale sta cercando di chiudere il processo produttivo facendo in modo che la persona venga privata di ogni possibilità di decisione.

Io voglio scegliere questo prodotto anziché quell’altro, e la pubblicità cerca di condizionarmi. Ma non è di questo che sto parlando. No, non è la stessa cosa dei movimenti visti prima. Nel momento stesso in cui tu operi la scelta direttamente al computer, nel momento in cui tu stacchi virtualmente dallo scaffale il prodotto, si mettono in moto molte connessioni: si scarica il magazzino del supermercato, arriva l’ordine dei nuovi rifornimenti alla casa produttrice, la casa produttrice provvede sempre in tempo reale alla richiesta delle materie prime per realizzare il prodotto finito, a livello internazionale si coordinano gli ordini di produzione delle materie prime che devono essere fatte affluire perché si possa realizzare quel gesto di prendere quella scatola di conserva di pomodoro e metterla nel carrello. Inoltre, partendo dal singolo, sempre in tempo reale, si possono programmare i gusti e gli interessi di scelta del consumatore, facendoli agire come componenti diretti della produzione.

La chiusura di questa connessione significa “progetto capitalista globale” ed è il progetto del futuro. In tempo reale il totale controllo del consumo si lega con la produzione totalmente controllata. Non c’è più separazione tra il momento della produzione e il momento del consumo abbandonato a se stesso e soltanto suggerito, coordinato, educato attraverso la pubblicità. Penso che fra qualche anno la pubblicità come la conosciamo andrà sempre di più diminuendo, fino a scomparire, sostituita da un altro tipo di pubblicità (quasi certamente personalizzata) che tenterà di fare capire l’utilità sociale di questi progetti. Per il capitalista tutto ciò non è un giochino del computer. È essenziale alla vita futura dei suoi progetti avere la contestualizzazione in tempo reale del rapporto produzione-consumo, fino ad arrivare all’unificazione di produzione e consumo. È certo che in questa dimensione sono disposti ad accelerare i processi di trasformazione e le possibilità di resistenza a tale progetto sembrano ridursi, in quanto non dobbiamo dimenticare che sempre più persone possono desiderare solo alcune cose e non altre.

Ecco perché parlavo della necessità di intervenire subito sviluppando il processo d’attacco distruttivo contro questa realtà, perché questa realtà non può essere utilizzata diversamente.

Una delle tristezze della situazione oggi non è soltanto la capacità di ristrutturazione del capitale, perché questa, per quanto non era assolutamente prevedibile in termini simili, non dovrebbe sorprendere nessuno. Il capitale è una bestia che cambia continuamente pelle. Quello che invece sorprende, ed è triste constatarlo, è la povertà umana in cui viviamo. Il processo che ho cercato di descrivere è un movimento di tendenza che appartiene a quel concetto di “serie” scoperto da Fourier di cui parlava Proudhon. In altri termini, qualcosa che, a un certo punto, costruisce quello che i Tedeschi chiamano lo “spirito del tempo”, la situazione, quello che magari né io né tu né lui riusciamo a capire bene però che io, tu e lui, sappiamo bene di cosa si tratta. Oggi viviamo in una situazione che non saprei descrivere nella sua specificazione, in cui c’è una profonda povertà umana e il processo che ho descritto cerca di radicalizzare questa povertà, perché è il processo del capitale, non è il processo nostro.

Quindi i capitalisti cercano di spingerci nel ghetto, di metterci dentro il muro. Certo, nel frattempo, essi si costruiscono una condizione di difesa, quella che ho definito tanto tempo fa il “castello teutonico”, il castello dove i cavalieri teutonici si rinserravano per resistere contro le ondate di invasione. Però questa resistenza non è soltanto puramente passiva, il capitale è una bestia attiva, attacca attivamente. Ci sta trasformando, trasforma l’uomo, non l’uomo capitalista, ma l’uomo che in particolare subisce le conseguenze dirette di questo processo riduttivo.

Giustamente, che cosa si può fare? Alla conclusione di analisi di questo tipo, io stesso mi sento spesso portato a dire “occorre fare presto”, perché qualcosa si può fare, certamente. Nell’arroccamento del loro castello teutonico gli inclusi, per potere realizzare la loro condizione di vita qualitativamente diversa, hanno bisogno della cultura. Teniamo conto che la condizione di abbassamento culturale a cui abbiamo accennato non vale per i capitalisti, perché i capitalisti non frequentano le università che frequentiamo noi, dove non si insegna più quasi nulla, ma frequentano i master specializzati dove ancora le condizioni della scienza del dominio vengono messe a disposizione di una ristretta minoranza a pagamento. Pertanto non è vero che la conoscenza sta scomparendo, anzi al contrario, dobbiamo dare per scontato che i capitalisti la conoscenza ce l’hanno. Diamo per scontato ancora di più, che il processo in corso rende la conoscenza elemento essenziale della produzione, cosa che invece prima accadeva in misura minore. Una volta la conoscenza si comprava, adesso è il capitale stesso che è conoscenza, è il capitale che è informazione. Una volta si assumevano gli specialisti. Adesso è il capitale esso stesso che è informazione. Se noi partiamo da questo concetto, abbiamo che per realizzare il castello teutonico di difesa capitalista, per sentirsi sicuri, per sentirsi tranquilli, loro devono uscire fuori, realizzando il loro progetto capitalista sul territorio. Difatti, dappertutto, in tutte le strade ci sono i cavi ottici, cavi multicolori che spuntano come funghi. In effetti, in questo momento, tutto il pianeta è attraversato da una rete di collegamenti telematici. Questa rete diventa come il sistema venoso che ricopre e costituisce il tessuto sanguigno. In queste vene circola il sangue del capitale. Questa cosa permette al capitale il collegamento in tempo reale per il trasporto di notizie, di informazioni. Essendo che l’informazione è la stessa cosa del potere e del capitale, è il potere stesso che viene trasformato e trasportato in tempo reale. Però, per poterlo realizzare, questo movimento fisico nello spazio deve potersi estendere sul territorio. Quindi deve essere presente nel territorio, nel territorio dove ci sono gli esclusi, non solo nei luoghi custoditi dove ci sono gli inclusi, perché se questi ultimi si costruissero le loro centrali telematiche e i loro cavi di comunicazione soltanto all’interno del castello teutonico, non comunicherebbero per nulla. Per comunicare devono andare fuori. È logico che sotto i nostri passi quotidiani continuamente scorre il capitale. Noi calpestiamo continuamente il capitale. Soltanto che non lo sappiamo, mentre il capitale lo sa che sta facendo passare sotto casa nostra i suoi tesori. Non è affatto vero che i soldi sono il tesoro, il tesoro è l’informazione. Se tu oggi entri in una banca, pistola in mano e prendi venti milioni, perché in una rapina in banca oggi non si piglia più di tanto, hai appena solleticato il sistema economico, la reazione sarà soltanto un gesto repressivo, comprensibile ma vecchio quanto il mondo. Invece, se qualcuno, anche non facendo bene attenzione, spacca un cavo e blocca le comunicazioni per un certo tempo, il danno è molto di più di venti milioni.

Molti compagni dicono, sì, ma almeno i venti milioni ci sono, pochi, maledetti e subito. Considerazione giusta, ma limitata. Essa ci riporta al discorso di prima, che immaginava comune la visione delle cose, fatto che invece non è. Noi immaginiamo che quello che per noi ha valore in questo momento, i soldi perché non li abbiamo, per il capitale abbia il medesimo valore. Non è così. La difesa dei soldi, le guardie con il mitra davanti alle banche, è soltanto un fatto scenico, un simbolo, non ha nessuna consistenza reale. La “difesa della proprietà” è una concessione allo spettacolo. Gli sceriffi potrebbero scomparire man mano che si va avanti con l’“educazione” delle persone ad assumersi in proprio la tutela della convivenza civile. E questo coinvolgimento sarà possibile quando la gente, anche la povera gente, si sentirà fare parte del sistema del capitale nel suo complesso, si sentirà pienamente capitale, se non altro come partecipante al consumo. Allora basterebbe alzare il premio di assicurazione e si potrebbe fare scomparire la guardia che sta davanti alla banca. Per il momento lo spettacolo difensivo deve essere ancora tenuto visibile.

In Italia la gestione del capitale è più o meno uguale a quella internazionale. Anche nei paesi più arretrati la connessione, sia pure più diradata, persiste e tende a svilupparsi nel medesimo modo. Il neocolonialismo comprende una gestione della colonia attraverso i medesimi sistemi informatici e lo stesso flusso di informazioni, e tutto questo può certamente convivere con i genocidi e i massacri tribali. Nella questione del “che fare”, quindi dell’attacco, il problema principale, per me, resta il sabotaggio, in quanto si tratta di una possibilità che non è assolutamente legata allo standard attuale di sviluppo o di arretratezza. La realtà attuale di ristrutturazione capitalista è una realtà che, necessariamente, per come è costruita e pensata, è esposta alla cosiddetta “pubblica fede”, per come si dice in termini giuridici. Ad esempio, il furto, secondo il codice, può essere anche “semplice”, ma sostanzialmente in galera non c’è mai un ladro accusato di furto semplice. Tutti i ladri sono accusati minimo di furto aggravato. Infatti, anche se l’automobile che viene rubata era aperta, c’è lo stesso l’aggravante in quanto viene considerata esposta alla “pubblica fede”. Una finzione giuridica che costituisce un aggravamento. Ora, il capitale non si è distratto esponendosi alla pubblica fede, è stato obbligato a farlo, come chi ha un supermercato è obbligato ad esporre la merce se no il supermercato chiude, non c’è niente da fare. Ecco, in un certo senso si verificano due processi che si incontrano e di cui il capitale è perfettamente cosciente. Da un lato, l’esclusione di una grande parte delle persone, quindi degli esclusi, da un accesso alla conoscenza e, dall’altro, la gestione di questa conoscenza che deve essere fatta attraverso oggetti che si muovono nello spazio, che occupano una certa superficie: cavi, comunicazioni, centri di smistamento, uomini che consentono la realizzazione di certi fatti, che fanno certi ragionamenti, locali in cui certi sviluppi della tecnologia vengono realizzati. Tutto questo è per il capitale assolutamente ineliminabile, né può collocare tutto sotto Fort Knox.

Però, nello stesso tempo, qualcosa può fare per difenderlo, cioè accelerare i processi simbolici di custodia delle cose in modo da poterle lasciare fisicamente non custodite. Ad esempio le banche, le casseforti delle banche, oggi vengono accuratamente custodite perché anche un imbecille qualunque, passando davanti, direbbe “ora ci provo”. Ma non è il mitra a fermare. Teniamo presente che oltre al mitra e al metronotte c’è un altro mitra simbolico, non visibile, che ognuno di noi porta puntato contro se stesso, dentro di sé, costituito dalle regole morali. Ognuno di noi ha regole morali, non le può cancellare con facilità. Per entrare in una banca o in una gioielleria e spianare sotto il naso del gioielliere o del banchiere la pistola, non è solo una questione di coraggio, di disponibilità di mezzi, di fame, di dissennatezza mentale, ma è anche una questione di superamento di quella che io una volta ho chiamato “frattura morale”. Cioè, esiste la regola morale che la proprietà non si tocca, la proprietà è sacra, perché è il dito di Dio che realizza nel mondo i suoi destini, almeno secondo la nostra tradizione. Ora, questa regola, che ci viene inculcata da bambini, che succhiamo con il latte materno, l’avvertiamo in tutte le nostre azioni. Certo, poi, maturando, arrivando ad un certo punto di consapevolezza critica, con la discussione, con le letture, con il confronto con i compagni, alcuni di noi riescono a capire che è una stupidaggine, riescono a capire che è il prodotto di una costruzione utile al capitale. Il capitale sa benissimo tutto ciò. Nel momento che dobbiamo ancora superare questo ostacolo, il mitra che teniamo dentro di noi ci frena. Ora è chiaro che questo è un freno su cui i capitalisti continueranno a lavorare molto in futuro ed è il freno della partecipazione. Molto in questo senso verrà fatto in futuro attraverso il volontariato.

Tornando ai processi tecnici, si può affermare che l’accelerazione tecnologica ha conseguenze non prevedibili da nessuno. Una vecchia tecnologia, poniamo quella del fax, messa a punto mezzo secolo fa e più, adesso ha trovato un’applicazione diversa in diverse condizioni sociali complessive. Cioè la situazione telematica di oggi ha reso possibile che quella vecchia invenzione venisse usata diversamente. Non è quindi possibile per nessuno prevedere lo sviluppo tecnologico come si andrà a realizzare. Le conseguenze di interazione tra le varie tecnologie non consentono di prevedere quello che può succedere con l’inserimento di un ulteriore elemento tecnologico, che anche se di per sé innocuo potrebbe sconvolgere completamente l’assetto tecnologico in un dato momento. Cioè non c’è una progressione geometrica o lineare che sia, un aumento visibile, ma un grosso punto interrogativo. L’umanità potrebbe pure saltare per aria ad un certo punto. Però il progetto capitalista, che è cosa ben diversa da questi processi diciamo globali, viaggia sempre a breve e medio termine. Il capitalista è sempre Sir Francis Drake, quello che salpa con la sua nave, il quale non si interessa dei destini del mondo, si interessa della sua nave, della lettera di corsa, dei galeoni spagnoli che attraversano quel braccio di mare e dei due o tre mesi che può tenere la ciurma a bordo senza tornare a terra. È questo che pensa il capitalista, dopo non pensa niente perché non gli interessa nulla. La forza del capitalista è questa, non gli interessa ragionare per grandi problemi. In ogni contesto gli interessa realizzare il massimo possibile di profitto, il quale profitto oggi non è più traducibile in termini strettamente finanziari, ma è visibile in termini globali di disponibilità di conoscenza, di gestione del potere, di gestione dei rischi.

Riguardo il problema della gestione politica dei rischi sociali entra in ballo il discorso della partecipazione, cioè a dire il concetto di democratizzazione. La gestione del potere in forma democratica, la trasformazione della democrazia, sono tutti problemi che affrontano la trasformazione delle strutture del dominio. Non si tratta di quattro imbecilli che discutono di problemi “politici” in astratto, ma affrontare la democratizzazione della struttura politica di un paese equivale a risolvere e impostare in modo complessivo la produzione di quel paese, cioè stabilire le scelte che renderanno possibili le modificazioni produttive. Quindi non è vero che i capitalisti si interessano di risolvere solo il loro problema, come si diceva una volta a scuola di “risolvere il problema tecnico dell’imprenditore”, cioè ottimizzare la mescolanza dei vari mezzi di produzione. Non è solo questo. Essi realizzano le condizioni che riducono al minimo i rischi che il proprio mestiere comporta. E fra i rischi c’è evidentemente anche quello che, inserendo massicci processi di trasformazione tecnologica, si alzi al di là del limite genericamente consentito il livello di disoccupazione. Il discorso della democratizzazione si lega bene con il discorso della flessibilità. Oggi, su tutti i fronti, siamo pluralisti, siamo tutti disposti ad ascoltare l’altro. Anche voi siete stati così cortesi stasera da ascoltare le cose che ho detto perché siamo tutti pluralisti. Io sono sicuro che se la stessa discussione di stasera, forse in termini un po’ diversi, anziché farla tra compagni, l’avessi fatta, poniamo, al consiglio comunale di Bologna, mi avrebbero lo stesso fatto parlare e alla fine avrebbero detto: “Sì, va bene, poveretto, dirà delle cose fuori del mondo, ma è una persona intelligente, forse un po’ tocco, tutto qui”.

Ecco, viviamo in un’epoca in cui qualunque cosa si dica va bene per chiunque. La tolleranza fa parte del quadro. La tolleranza, la flessibilità, il volontariato, la democratizzazione. Ora, il discorso di ristrutturazione va visto in questo ambito. L’economia non è quindi solo una scienza di aridi numeri, anzi. Pensate alle avventure di alcuni economisti matematici, come Pareto, i quali hanno abbandonato l’economia matematica e si sono interessati di altre cose, perché hanno visto che quei grandi numeri non significavano nulla, perché l’economia non è una scienza esatta, ma soltanto la pretenziosa sorella della politica. Il modo come organizzare la produzione è il modo come organizzare la politica, perché quella separazione che c’era una volta fra un luogo deputato alla produzione e la società si è sempre di più ridotta.

Grazie dell’attenzione.


[Trascrizione della registrazione su nastro della conferenza tenuta a Bologna il 25 febbraio 1998 presso la Libreria Il Ripicchio]

 
 

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